Stretta sulle misure alternative e più ore in cella, così nelle carceri dilaga la violenza di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 1 maggio 2024 Misure alternative non concesse, cinquemila uscite in meno in un anno e una circolare applicata al contrario. Con i detenuti costretti a rimanere 20 ore su 24 dietro le sbarre. Gli agenti: “Qui ogni giorno è una polveriera”. In carcere niente accade per caso. Le botte al Beccaria, la precedente vergogna di Santa Maria Capua Vetere, le sommosse, i suicidi tra i detenuti e le guardie penitenziarie sono sintomo e conseguenza di errori, sottovalutazioni e, talvolta, di precise scelte politiche. Repubblica ricostruisce quali circolari interne, coperture e promesse non mantenute abbiano contribuito a rendere le prigioni italiane delle “polveriere senza più controllo”, per usare una definizione in voga tra gli stessi poliziotti della Penitenziaria. Sovraffollamento e suicidi - Il sovraffollamento è sotto gli occhi di tutti. La popolazione carceraria sfiora le 61 mila unità quando il sistema a malapena ha spazio per 47 mila. Nel 2024 il tasso di suicidi è il più alto di sempre: 33 detenuti si sono tolti la vita nei primi quattro mesi dell’anno, mai così tanti. Otto sono i casi di violenza accertati nel minorile Beccaria di Milano, che hanno portato di recente all’arresto di 13 agenti, ma si indaga su altri otto episodi e su una possibile connivenza dei medici. Tutto è sintomo, tutto è conseguenza. Di cosa? Ad esempio, di una circolare sul riordino del circuito della media sicurezza (il più consistente, oltre il 70% dei reclusi) applicata in modo miope dall’attuale amministrazione penitenziaria, col risultato che ora si sta chiusi in cella più di prima. O, altro esempio, delle dichiarazioni a senso unico di certi politici dall’approccio punitivo, come il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che non perde occasione per difendere e giustificare, sempre e comunque, l’operato degli agenti. E il cui rapporto con i sindacati è ormai organico. La circolare al contrario - Per allentare la tensione negli istituti detentivi, l’ex capo dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Carlo Renoldi pensò di riorganizzare i circuiti (41 bis, alta e media sicurezza) con una serie di circolari. Quella che ha a oggetto la media sicurezza è del luglio 2022: doveva aumentare le ore di permanenza fuori dalla stanza di pernottamento (devono essere almeno otto, secondo il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa) tramite progetti di studio, lavoro, sport, tutto ciò che consente di stare nei corridoi, nei cortili, negli spazi di socialità. Pur imperfetta e con diverse criticità segnalate dall’ex Garante dei detenuti Mauro Palma, la circolare avrebbe potuto sortire degli effetti positivi, purché inserita in un quadro di riorganizzazione generale. Il governo Meloni, però, ha tolto Renoldi e ha messo Giovanni Russo (ex pm antimafia alla Dna). Il nuovo capo ha dato ordine di attuare a livello nazionale la circolare, nonostante la riorganizzazione fosse rimasta a metà: non essendoci i progetti pronti, il nuovo regolamento si è concretizzato in una sorta di punizione per i detenuti, come dimostra lo studio commissionato dall’ex garante Palma su quattro provveditorati (Campania, Lombardia, Triveneto e Sicilia) dove la circolare è stata sperimentata. “La maggioranza ora vive, per oltre 20 ore al giorno, in celle sovraffollate, dalle quali esce solo nelle cosiddette ore d’aria”, scrive in un appello pubblico Francesco Maisto, garante dei detenuti di Milano. “È una violazione dei principi e delle garanzie riconosciute dalla nostra Costituzione e dall’ordinamento penitenziario”. A inasprire il clima, un’altra circolare, questa a firma Russo, che impone il trasferimento immediato fuori regione di chiunque sia coinvolto in eventi violenti. Il minor numero di uscite - Eppure, il tema del sovraffollamento è in cima, almeno a parole, alle agende del governo. E del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma poi ci sono i numeri. Che smentiscono, in toto, proclami e annunci. Al 30 marzo di quest’anno la popolazione carceraria era composta da 60.924 detenuti, 4.319 in più rispetto alla stessa data del 2023 quando i reclusi erano 56.605. Non è che si delinque di più, è che si esce di meno dalle carceri: 5mila circa negli ultimi 12 mesi sono le minori uscite, dovute al non ricorso alle misure alternative. Gennarino De Fazio è un sindacalista della Penitenziaria. Guida la Uil. La sua carta di identità non è di uno ostile al governo. Eppure usa parole chiarissime. “Non ci sono strutture per ospitare tossicodipendenti e pazienti psichiatrici che sono in cella quando invece dovrebbero essere in centri di cura specialistici”. I giudici di sorveglianza, che decidono delle misure alternative come l’affidamento ai servizi sociali, sono in costante carenza di organico e mancano pure i braccialetti elettronici. “Direttive scritte male e promesse di assunzioni non mantenute causano violenza - ragiona il sindacalista - A noi viene chiesto di imporre una legge dello Stato che lo Stato stesso non tutela, perché calpesta l’ordinamento penitenziario. I detenuti sono fuori controllo. E lo siamo anche noi agenti, sotto organico, impotenti e frustrati”. La promessa di Delmastro - Troppa gente dietro le sbarre, quando a migliaia potrebbero usufruire di misure alternative. D’altronde per Delmastro “l’affidamento in prova è il nulla, fa acqua da tutte le parti”. Per lui, meglio tenere tutti dentro. Delmastro a settembre scorso, in una trionfale conferenza stampa a Palazzo Chigi alla vigilia del suo rinvio a giudizio per aver usato a fini politici notizie riservate del Dap nella vicenda Cospito, annunciava: “Abbiamo finalmente i nuovi protocolli operativi della penitenziaria: un risultato storico, erano anni che gli agenti ci chiedevano fin dove fosse possibile spingersi per garantire l’ordine, la sicurezza e la legalità nella gestione delle criticità che quotidianamente affliggono i carceri”. A oggi, però, dei protocolli non c’è traccia. “Noi poliziotti di quei regolamenti non sappiamo nulla”, denuncia De Fazio. “Dovevano essere caricati su un portale, nessuno ne sa niente”. Non solo Beccaria. La violenza è dentro tutte le carceri di Girolamo Monaco* huffingtonpost.it, 1 maggio 2024 Spett.le HuffPost, mi chiamo Girolamo Monaco e sono il direttore dell’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso. Ho letto i Vostri articoli a seguito delle violenze commesse dentro l’IPM di Milano. Come persona e operatore sociale, dopo alcuni giorni di riflessione, come direttore di un Istituto Penale per Minorenni, sento il dovere etico di partecipare e (nel mio piccolo) contribuire al dibattito che quei tristi fatti impongono a tutto il sistema della Giustizia, soprattutto quella che è istituita in favore dei minorenni. Di fronte alle violenze del “Beccaria” io non ho parole. Non ho parole, ma non posso neppure restare in silenzio. Sono coinvolto e responsabile: non posso far finta che la struttura milanese sia assolutamente diversa da quella nella quale io lavoro. Davvero poco importa se i fatti sono accaduti a Milano, piuttosto che a Palermo, o Roma, o Treviso. Le violenze sono dentro le strutture. Tutte le strutture. Questa verità è da considerare. Sempre. La violenza accade. E non posso non dire che la violenza accade sempre (ripeto: sempre) quando le persone non vengono guardate. “Guardare”: parola ricchissima, che significa osservare, conoscere e proteggere; significa: vedere, valutare e conservare (conservare, non distruggere); guardare significa vigilare, stare attenti, vegliare; guardare significa aver cura. Quando non si guardano i soldati, gli eserciti commettono i più grandi soprusi. Quando non si guardano gli individui nella loro umanità, si lascia spazio alle azioni più bestiali. Quando gli utenti non sono guardati come destinatari di un servizio, l’unico bisogno che resta è quello di ridurli al silenzio. Io non posso restare in silenzio, e devo guardare e vegliare sulle persone che mi vengono affidate: gli operatori di polizia penitenziaria e del trattamento, che vanno riconosciuti come persone e chiedono indicazioni chiare e sicure; e gli utenti-detenuti di un carcere minorile, che chiedono anch’essi di essere riconosciuti come persone, e necessitano, allo stesso modo, di indicazioni chiare e sicure. Il mio impegno dentro il carcere minorile è guardare (con tutti quei significati che ho capito) gli adulti che sono latori di professionalità, culture e fatiche; e guardare i minori che portano storie devastate, e parlano i linguaggi delle parole, dei corpi e dei segni. Le responsabilità non sono soltanto individuali. Per questo io, operatore dentro una struttura detentiva, sento il bisogno morale di dare la mia risposta. I colpevoli delle violenze verranno individuati e le responsabilità, dirette e indirette, verranno chiarite; ma la Giustizia farà un passo avanti se sapremo tutti rispondere ai perché certi fatti diventano possibili. Io non posso nascondere che la violenza fisica, psicologica, relazionale e gestionale degli individui dentro le strutture (la violenza di chi sta dalla parte del giusto e la violenza di chi sta dalla parte del torto) è normalizzata dai vuoti di presenza, di compagnia, sostegno, indirizzo, supporto e guida (tutto quello che è il vero senso del potere: la violenza è quindi, secondo la mia trentennale esperienza dentro le carceri minorili, un “vuoto del potere” quando “non guarda” i suoi uomini, quando “non guarda” i suoi utenti). Conosco bene la natura perversa della violenza delle strutture per restare io in silenzio. Conosco il valore e il travaglio di tutti i colleghi che, come me, di fronte alle quotidiane difficoltà, emergenze e contraddizioni, si impegnano per umanizzare i luoghi della detenzione, che sono specchio della nostra epoca, dell’attuale società, delle nostre paure e debolezze. Io avanzo quindi per me stesso, per i miei collaboratori, per i miei colleghi, ed anche ai miei superiori, la coraggiosa ed umile riflessione che pone l’atto del “guardare” come fondamento di ogni responsabilità relativa alla sicurezza sociale, al controllo comportamentale, alla rieducazione e reinserimento dei condannati. *Direttore dell’Istituto Penale per Minorenni di Treviso “Formare educatori e agenti”. Carcere, l’alleanza necessaria di Fulvio Fulvi Avvenire, 1 maggio 2024 Formare attraverso progetti comuni le figure che hanno il compito di custodire e rieducare le persone ristrette in carcere. Di fronte a quanto accaduto all’Istituto per minori “Beccaria” di Milano, dove 13 giovani agenti (quasi tutti di prima nomina) sono stati arrestati con l’accusa di aver maltrattato, abusato e persino torturato, una dozzina di reclusi tra i 16 e i 17 anni, l’unica soluzione possibile per evitare altri simili orrori, è riformare l’intero sistema dell’esecuzione penale minorile, puntando sulla preparazione coordinata del personale. Un’alleanza tra poliziotti penitenziari, educatori, operatori sociali. “È necessario un piano di formazione straordinaria in grado di alzare il pessimo livello di qualità della vita all’interno delle carceri, e non solo quelle minorili, luoghi dove tutti stanno male, sia chi sconta una pena sia chi ci lavora” sostiene la pedagogista Maria Luisa Iavarone, presidente del corso di laurea in Coordinamento dei servizi educativi e Prevenzione del rischio dell’università di Napoli Parthenope. “Rivedere i profili professionali e le competenze degli operatori, degli educatori e degli addetti alla sicurezza deve diventare una priorità della politica - aggiunge - anche perché attualmente la loro formazione non è sempre adeguata: basti pensare, per esempio, che centinaia di agenti vincitori di concorso hanno partecipato soltanto a corsi online di tre mesi prima di entrare in servizio e gran parte delle guardie assunte non ha mai fatto affiancamennè avuto una preparazione psicologica e umana utile ad affrontare rischi ed emergenze nuove, con ragazzi perlopiù immigrati, che non parlano italiano, sono isolati, hanno le famiglie lontane e il cervello devastato dai cocktail di droghe e quindi si incattiviscono, impazziscono e, una volta fuori, tornano a delinquere”. Non è sufficiente aprire all’interno degli istituti laboratori di falegnameria, pizzerie o pasticcerie, iniziative alle quali non tutti possono partecipare (e dove spesso mancano): è necessario lavorare sull’educazione alla ragione, alla libertà e all’affettività. Una sfida. Un processo lungo, impegnativo e costoso. “Non dobbiamo dimenticare però - obietta lavarone - che attualmente si spendono per i 17 Ipm presenti sul territorio nazionale, 40 milioni l’anno, risorse che potrebbero essere utilizzate in modo da garantire anche una più efficace formazione del personale”. Sulla necessità di investire per mettere al centro l’educazione negli istituti di pena, insiste anche il Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza): “Una situazione come quella che emerge dall’inchiesta sul Beccaria conferma che, quando il carcere si limita al puro contenimento, la violenza prende il posto dell’educazione - afferma Liviana Marelli, referente minori e famiglie della federazione che riunisce associazioni del Terzo Settore - e si crea un contesto tossico, per tutti i soggetti coinvolti. Ma se vogliamo che i ragazzi rielaborino ciò che hanno fatto, si assumano la responsabilità delle azioni che hanno commesso, riducendo la possibilità di compiere reati in futuro, dobbiamo creare un ambiente che si prenda cura di loro in modo adeguato. Per questo - conclude la rappresentante di Cnca - è essenziale che educatori e agenti operino nella stessa direzione, facciano formazione insieme e insieme possano usufruire di una supervisione sui diversi casi che trattano. Avendo sempre presente il fine ultimo: la rieducazione del reo”. Il segretario generale della Fns Cisl, Massimo Vespia, mette l’accento invece sul sovraccarico del lavoro degli agenti di fronte all’emergenza sovraffollamento: “Si tratta di uomini e donne stremati da ritmi di lavoro durissimi, ai quali vengono talvolta negate le ferie e i riposi settimanali, obbligati al lavoro straordinario che ammonta ormai a circa 5 milioni di ore l’anno. Serve un piano di assunzioni straordinarie, mancano 7mila baschi azzurri”. Carceri sovraffollate, l’appello dell’Ucpi: “Servono interventi urgenti subito” di Davide Varì Il Dubbio, 1 maggio 2024 “L’intero sistema delle pene e della loro esecuzione dovrà essere oggetto di una profonda riforma, che finalmente porti il carcere alla sua vocazione costituzionale ripartendo dai lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, colpevolmente abbandonati al dimenticatoio delle battaglie politiche impopolari, ma prima di ogni altra cosa, qui e ora, è necessario un intervento che diminuisca con effetto immediato il numero della popolazione carceraria, lo impone ogni principio anche sovranazionale di tutela dei diritti umani, lo chiedono le nostre coscienze. Il tempo dell’agire è davvero scaduto”. A scriverlo è la Giunta dell’Unione delle Camere penali e l’Osservatorio carceri, che partendo dalle notizie di cronache sulle violenze nel carcere minorile “Beccaria” di Milano lanciano un appello alla politica, anche alla luce dello sciopero nazionale ad oltranza avviato il 27 aprile scorso nelle carceri italiane. I detenuti, infatti, non acquisteranno più la spesa fino a data da destinarsi. “In un contesto di generale sofferenza - continua la nota della Giunta -, si infliggeranno questa ulteriore privazione perché, scrivono: “Non possiamo più accettare di vivere in condizioni che violano nostri diritti umani fondamentali”. Da tempo denunciamo la condizione di illegalità in cui versa il sistema carcerario nazionale. Il costante aumento della popolazione carceraria, determinato anche dalla continua introduzione di nuove fattispecie di reato, e dalla rincorsa all’innalzamento delle pene, presto porterà l’intero sistema a superare i livelli di sovraffollamento che nel 2013 condussero all’umiliante condanna dell’Italia da parte della Corte Edu con la nota sentenza Torreggiani. Nel frattempo assistiamo inermi al più alto numero di suicidi mai raggiunto nel nostro paese, cui si sommano le migliaia di atti di autolesionismo enumerati dall’Autorità Garante dei diritti delle persone detenute”. Da qui la necessità di soluzioni “che riportino il numero dei detenuti entro livelli accettabili”, al fine di “concedere un minimo di sollievo ai detenuti e a tutti gli operatori quotidianamente impegnati a prestare la propria opera all’interno delle strutture carcerarie”. Nulla sembra però smuovere la politica, nemmeno le notizie giunte da Milano. “Le violenze diffuse, in questo caso, sono ancor più inaccettabili e disgustose, perché calpestano e offendono la dignità di minori detenuti, ragazzi che il nostro sistema dovrebbe maggiormente tutelare in ragione della loro fragilità emotiva, caratteriale e umana - continua la nota -. È amaro constatare che quanto reso noto in occasione di una iniziativa giudiziaria sulle violenze registratesi al “Beccaria” di Milano, ferma restando la presunzione di non colpevolezza degli indagati, dimostri, ancora una volta e forse ancor di più, che le condizioni di abbandono, di disinteresse, di degrado in cui versano le nostre carceri, il sovraffollamento, le carenti risorse, umane e finanziarie, stanno trasformando, sempre più, quei luoghi di dolore e sofferenza in veri e propri buchi neri della legalità. Luoghi in cui lentamente muore la nostra democrazia assieme alla nostra umanità”. Carcere: se in nome di Pannella il Papa facesse 2 telefonate... di Valter Vecellio* Il Dubbio, 1 maggio 2024 Dieci anni fa papa Jorge Bergoglio, quell’uomo “venuto da quasi la fine del mondo”, telefona a Marco Pannella. Si informa delle sue condizioni di salute, dopo l’intervento d’urgenza all’aorta addominale. Un colloquio che dura una ventina di minuti. Dopo quella telefonata, è il caso di dire, ristoratrice, Marco interrompe lo sciopero della sete intrapreso per chiedere, pensate, il miglioramento delle condizioni dei detenuti nelle carceri. Uno sciopero iniziato nonostante l’intervento all’aorta. Papa Francesco chiede se corrisponde al vero quanto ha letto sui giornali circa l’intenzione di riprendere subito lo sciopero della fame e della sete. “È così”, conferma Marco. Spiega che solo in questo modo può forse tenere alta l’attenzione dei mezzi di comunicazione sulle condizioni disumane dei detenuti. Anche a costo di mettere a repentaglio la sua salute, già debilitata a causa dell’intervento. I due si parlano ancora, infine Marco decide di ascoltare, almeno in parte, il Papa; interrompe lo sciopero della sete, beve un caffè, accetta di sottoporsi a due trasfusioni di sangue; poi annuncia che l’iniziativa dello sciopero riprende. Il Papa, rivolgendosi a Pannella gli raccomanda di essere coraggioso: “Anche io l’aiuterò contro questa ingiustizia”. E Marco: “A favore della giustizia, Santità”. E il Papa: “Io ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati…”. Quella telefonata è la conferma che il Papa seguiva con molta attenzione quanto Marco cercava di fare, e apprezzava la sua battaglia in favore dei diritti dei detenuti; del resto, in qualche modo lo aveva dimostrato visitando, subito dopo la sua elezione al pontificato, il carcere minorile di Casal del Marmo e lavando i piedi a dodici ragazzi detenuti. Dieci anni fa, ma in realtà da sempre, Marco e il Partito Radicale lottavano per una giustizia più giusta e per l’amnistia, che alleggerirebbe la disumana situazione carceraria che è sotto gli occhi di tutti: questo il suo e nostro 25 aprile. Dieci anni fa Marco ci ricordava che l’Unione Europea aveva condannato lo Stato italiano innumerevoli volte, imponendo anche risarcimenti ai detenuti vittime. “Una situazione inaccettabile”, diceva, “che dovrebbe essere giudicata da un tribunale internazionale”. Marco ci ha lasciato ormai sette anni fa. Il Papa venuto da quasi la fine del mondo c’è ancora. Potrebbe, sarebbe auspicabile, utile, necessario, telefonasse ora ai due inquilini del Quirinale e di Palazzo Chigi: per dire loro che la vera sconfitta dello Stato italiano non sono amnistia o indulto come dice il ministro Carlo Nordio, ma questa situazione che dura da sempre nelle carceri. Forse sarebbe un’interferenza. Una benedetta interferenza. *Direttore di “Proposta Radicale” Il nuovo Garante difenda i diritti dei detenuti, non il Governo fpcgil.it, 1 maggio 2024 “A 18 mesi dall’insediamento del Governo Meloni le prospettive di vedere modificate le condizioni detentive di chi si trova in privazione della libertà e del personale che è incaricato di curare l’esecuzione di detti provvedimenti non pare migliorare, anzi è decisamente peggiorata. A sostegno delle posizioni rigide del Governo giunge anche il Garante Nazionale delle persone private della libertà: il nuovo Ufficio, insediatosi da due mesi, non appare allarmato da questa situazione di grave disagio, anzi sostiene le posizioni del Governo senza tuttavia suggerire soluzioni che possano nel breve e medio termine arrecare sollievo alle persone detenute e quindi anche al personale penitenziario”. Lo scrivono in una nota Carla Ciavarella (Coordinatrice nazionale FP CGIL Dirigenza Penitenziaria), Paola Fuselli (Coordinatrice nazionale FP CGIL Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità) e Roberto Mascagni (Coordinatore nazionale FP CGIL Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). “L’introduzione di nuove fattispecie criminose nel codice penale, l’innalzamento della durata delle pene detentive, l’inasprimento dell’applicazione delle misure cautelari (anche per i reati di lieve entità) hanno come conseguenza inevitabile l’aumento delle presenze in carcere. La situazione del nostro sistema penitenziario per adulti e minori - spiegano - non solo viola la dignità e i diritti umani dei detenuti, ma rappresenta anche un serio ostacolo al loro reinserimento sociale. Gli sconti di pena, le misure deflattive, l’incremento della concessione di misure alternative rappresentano strumenti essenziali che riducono concretamente le presenze in carcere e che sono un valido incentivo per i detenuti a percorrere vie di riabilitazione”. “Gli investimenti devono essere focalizzati sulle risorse umane: nuove assunzioni e aggiornamento professionale del personale in servizio. Non solo polizia penitenziaria, ma assistenti sociali, funzionari giuridico pedagogici, funzionari pedagogici, mediatori culturali, educatori, funzionari contabili ed assistenti amministrativi. Sollecitiamo dunque il Garante nazionale e tutte le istituzioni competenti - concludono Ciavarella, Fuselli e Mascagni - a promuovere attivamente politiche che garantiscano non solo l’ordine e la sicurezza, ma anche la dignità e il rispetto dei diritti umani di tutte le persone coinvolte dentro e fuori dal carcere, e siamo pronti a partecipare ad un dialogo costruttivo su questi temi”, concludono. Carriere separate e sorteggio al Csm: uno due di Nordio di Errico Novi e Valentina Stella Il Dubbio Non solo il divorzio giudici-pm: nel ddl del ministro anche la selezione casuale degli eleggibili al plenum. È circolata per qualche ora, ieri mattina, l’ipotesi che la riforma della separazione delle carriere e del Csm finisse immediatamente sul tavolo del Consiglio dei ministri. Previsione poi smentita: il ddl del guardasigilli Carlo Nordio sarà discusso a Palazzo Chigi attorno a metà maggio. Ma l’attenzione sul tema è già alta. E sembra mettere in allarme l’Anm, che ieri ha diffuso una risoluzione dell’Associazione europea dei giudici relativa alla doppia riforma: “Tali iniziative costituiscano un grave attacco all’indipendenza della magistratura”, recita il documento, in cui si paventa addirittura un pericolo per “l’attuale equilibrio di poteri”. Di certo, il testo di modifica costituzionale in arrivo da via Arenula non si limiterà a proporre il “divorzio” tra giudici e pm, ma conterrà anche l’introduzione del “sorteggio temperato” per l’elezione dei togati al Consiglio superiore. Su quest’ultima riforma, si erano registrati dei tentativi già nella precedente legislatura. Nell’attuale, se n’è occupato il capogruppo dei FI in commissione Giustizia al Senato Pierantonio Zanettin, con una proposta di legge ordinaria. Adesso è pronto a intervenire il guardasigilli. Che preferirebbe riformulare l’articolo 104 della Costituzione. Ma sulla natura della riforma elettorale per Palazzo dei Marescialli, non si può escludere che alla fine il governo opti per una strada più calibrata, una legge ordinaria appunto. Bisognerà attendere un paio di settimane, per la versione definitiva del ddl costituzionale. Nel frattempo, si celebrerà il congresso dell’Anm, in programma a Palermo dal 10 al 12 maggio. L’intenzione di Nordio è di non fornire alle toghe un ulteriore argomento di critica nei confronti del governo, considerato che nell’assise in Sicilia terrà banco già il caso Iolanda Apostolico, la giudice di Catania destinataria di pesanti critiche da parte dell’intera maggioranza. Il congresso dei magistrati non dovrebbe vedere la presenza del guardasigilli, impegnato con il G7 della Giustizia a Venezia. Ma l’idea di non ravvivare la polemica tra Esecutivo e toghe rischia di scontrarsi con l’atteggiamento già ostile alla riforma manifestato dal “sindacato” dei giudici, anche attraverso la citata sponda dell’Associazione europea di categoria (composta dalle delegazioni di tutte le associazioni nazionali di magistrati del Vecchio Continente e di Israele): l’Eaj, nel sollevare l’allarme per la “doppia riforma” in arrivo, sollecita le Autorità italiane a “riconsiderare le proposte”. Difficile che questo possa avvenire: si tratta di interventi su cui punta molto Forza Italia in vista delle Europee di giugno, come ribadito dal segretario azzurro e vicepremier Antonio Tajani ieri in un’intervista al Corriere della Sera: “La riforma della giustizia è una priorità, presto approveremo la separazione delle carriere”. Sul ddl è critico il deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa: “Da oltre un anno e mezzo c’è alla Camera la mia proposta di legge sulla separazione delle carriere. Abbiamo svolto decine di audizioni e ora che siamo pronti per andare avanti il governo decide di presentare una sua proposta simile alla mia. Solo per ostacolarla”. In realtà in commissione Affari costituzionali giacciono quattro testi - oltre che di Azione, anche di Iv, FI e Lega - tutti molto simili. Tuttavia l’Esecutivo vuol mettere il proprio sigillo sulla riforma e governarne i tempi in modo da non sovrapporla al premierato. La proposta di Nordio prevedrebbe due Csm, uno per la magistratura requirente e uno per quella giudicante. E come detto, il ministero è intenzionato a intervenire con una modifica della Carta anche per il sorteggio temperato dei togati Csm, e mettersi così al riparo da contestazioni di legittimità: nel rispetto del dettato costituzionale che vuole i togati “eletti” da tutti i magistrati (articolo 104), si inciderebbe sulla fase iniziale del procedimento, prevedendo che i candidati al Consiglio superiore siano individuati, appunto, per sorteggio, per poi essere effettivamente eletti da tutti i magistrati. Fonti di via Arenula ricordano come il guardasigilli abbia più volte parlato in pubblico della sua preferenza per il sorteggio, puro o più probabilmente temperato. “Il Csm - disse nel 2021 - si salva dalle correnti solo col sorteggio dei suoi componenti, così avremo reciso il legame che vincola elettori ed eletti, e avremo affidato il controllo della magistratura non alla politica, ma un organismo realmente indipendente”. Non basta cambiare sistema elettorale: le correnti, aggiunse, “si dividerebbero i seggi in anticipo, e magari faranno accordi di desistenza, come i partiti nel ‘ 94, con l’introduzione dell’uninominale”. Lo schema è assai gradito a Forza Italia. In commissione Giustizia al Senato è, come detto, già a un buon punto di avanzamento l’esame della proposta Zanettin su “Modificazioni alla legge 24 marzo 1958”, che va nella stessa direzione del governo. Ma anche sul sorteggio si è espressa criticamente l’Eaj, secondo cui la proposta “non è coerente con l’esigenza di una scelta democratica nell’ambito della magistratura. Non solo si deve garantire l’indipendenza esterna dei giudici, ma anche l’indipendenza in seno alla stessa magistratura”. Ordine d’indagine, utilizzo dei trojan senza scorciatoie di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore 1 maggio 2024 Impiego legittimo se possibile nello Stato del cittadino intercettato. Arrivano le indicazioni della Corte Ue sul percorso di acquisizione di comunicazioni criptate nelle indagini contro la criminalità internazionale. Tema sul quale, solo poche settimane fa, sono intervenute in Italia le Sezioni unite penali. Ora i giudici europei, nella sentenza nella causa C-670/22, precisano le condizioni di compatibilità con la direttiva sull’ordine europeo di indagine per quanto riguarda la trasmissione e l’utilizzo delle prove. In particolare, un ordine europeo di indagine indirizzato a ottenere la trasmissione di prove già raccolte da un altro Stato membro può essere adottato anche da un pubblico ministero. La sua emissione non richiede che siano rispettate le condizioni applicabili alla raccolta di prove nello Stato di emissione. Tuttavia, deve esistere la possibilità di un controllo giurisdizionale successivo sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone interessate. Inoltre, una misura di intercettazione eseguita da uno Stato membro sul territorio di un altro Stato membro deve essergli tempestivamente notificata. Il giudice penale deve, a determinate condizioni, escludere gli elementi di prova raccolti se la persona interessata non è stata messa in condizione di svolgere le proprie osservazioni. Esemplare il caso approdato all’esame della Corte. La polizia francese è riuscita, con autorizzazione di un tribunale francese, a infiltrarsi nel servizio di telecomunicazioni cifrate EncroChat. Servizio utilizzato su scala mondiale, attraverso telefoni cellulari criptati, per il traffico di stupefacenti. Attraverso un server di Europol, l’ufficio federale di polizia criminale tedesco poteva consultare i dati intercettati, che riguardavano gli utenti di EncroChat in Germania. Dando seguito ad ordini europei di indagine emessi da una procura tedesca, un tribunale francese ha autorizzato la trasmissione dei dati e il loro utilizzo nell’ambito di procedimenti penali in Germania. La Corte precisa, tra l’altro, che l’infiltrazione di trojan con l’obiettivo di estrarre dati su traffico, collocazione e e contenuti di un servizio di comunicazione basato su Internet, deve essere notificata allo Stato Ue nel quale si trova la persona intercettata (nella fattispecie, la Germania). L’autorità competente di questo Stato ha facoltà di segnalare che questa intercettazione di telecomunicazioni non può essere effettuata o che vi si deve porre fine se non può essere autorizzata in un caso interno analogo. No alla revoca della condizionale se manca il termine per adempiere al risarcimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore 1 maggio 2024 La fissazione della scadenza è a carico dei giudici di merito o di quello dell’esecuzione e in caso manchi è lo stesso Pm che chiede la revoca che deve domandare di stabilire quale sia il termine finale. Non è legittima la revoca della sospensione condizionale della pena per il mancato adempimento dell’obbligo risarcitorio imposto come condizione per godere del beneficio se né il giudice della condanna, né quello dell’impugnazione o quello dell’esecuzione hanno fissato il termine per adempiere. Quindi il pubblico ministero che chieda la revoca del beneficio subordinato all’adempimento deve preventivamente domandare al giudice dell’esecuzione di stabilire quale sia il termine finale che rileva ai fini della perdita della sospensione condizionale della pena riconosciuta al condannato. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 17493/2024 - ha precisato l’importanza della fissazione del termine ai fini della legittimità dell’ordinanza che revoca il beneficio e ordina di dare esecuzione alla pena inizialmente sospesa. Nel caso concreto all’autore del reato di truffa in sede di condanna era stata concessa la sospensione condizionale della pena subordinata al versamento di una provvisionale mai eseguita. Il ricorrente faceva rilevare nel ricorso per cassazione contro l’ordinanza di revoca del beneficio che il giudice aveva apposto la condizione dell’obbligo risarcitorio senza valutare la propria incapienza per adempiervi. Ma il rilievo dei giudici di legittimità sull’assenza di un termine fissato per l’adempimento ha comunque superato la questione sottoposta dal ricorrente. Afferma, in conclusione, la Cassazione che lo stesso Pm avrebbe dovuto chiedere al giudice dell’esecuzione di precisare il termine o quest’ultimo avvedendosi della sua mancanza avrebbe dovuto prevederlo o verificare se fossero trascorsi i cinque anni entro cui il pagamento della provvisionale sarebbe dovuto comunque essere effettuato. Milano. “Sistema Beccaria” e accuse di violenze, nel mirino altri otto episodi di Sandro De Riccardis e Rosario Di Raimondo La Repubblica 1 maggio 2024 La procura acquisisce tutte le cartelle cliniche degli ultimi due anni. Analisi per capire se i referti dei detenuti siano stati modificati per mascherare le violenze. A partire dalla prossima settimana le pm titolari dell’inchiesta sulle violenze al Beccaria sentiranno otto giovani detenuti del carcere minorile. S’indaga infatti su ulteriori episodi di maltrattamenti, oltre a quelli già ricostruiti dalla procura che la settimana scorsa hanno portato all’arresto di tredici agenti di polizia penitenziaria e alla sospensione di otto loro colleghi, in un’indagine che conta più di 25 indagati. Si cerca di capire, insomma, se ci sono ulteriori vittime di umiliazioni e pestaggi. Nel frattempo i magistrati hanno disposto l’acquisizione di tutta la documentazione medica degli ultimi due anni del Beccaria: una montagna di cartelle cliniche, a partire dalla fin del 2021, da analizzare per capire se i referti dei detenuti, specialmente quelli con una prognosi di zero giorni, siano stati “ammorbiditi” per mascherare episodi violenti. Sistema Beccaria, nuovi interrogatori agli agenti arrestati - Per quanto riguarda le divise già in carcere o sospese, la palla ora passa di nuovo alla gip Stefania Donadeo, la stessa giudice che ha firmato l’ordinanza cautelare. Dopo gli interrogatori, infatti, nei prossimi giorni la giudice dovrà decidere sulle istanze presentate da diversi avvocati per chiedere la scarcerazione dei propri assistiti o la revoca dei provvedimenti di sospensione. Almeno due legali si sono già rivolti al tribunale del Riesame. Ieri, in particolare, hanno parlato quattro degli agenti che sono stati allontanati dal lavoro. A parte uno, che si è avvalso della facoltà di non rispondere, gli altri hanno parlato a lungo per cercare di chiarire le proprie posizioni e rispondere a contestazioni di tipo omissivo: hanno visto ma hanno taciuto sulle violenze nei confronti dei detenuti, l’ipotesi dei pm. Secondo l’impianto accusatorio, alcuni detenuti sono stati picchiati anche in manette, lasciati nudi per ore, chiusi in celle d’isolamento senza vestiti. In alcuni casi, come emerso in queste ore, anche sotto gli occhi delle telecamere. Molte delle difese, in questi giorni, hanno puntato su un concetto: abbiamo agito per “difenderci”, quindi come “reazione”. Le divise hanno cercato di far leva anche sull’organico carente, lo stress lavorativo, la mancanza di formazione. Violenza sessuale su un detenuto del Beccaria: l’agente respinge le accuse - Uno dei poliziotti indagati ha respinto l’accusa di violenza sessuale: per la procura si è avvicinato a un detenuto, molestandolo, e alla reazione violenta del giovane sarebbe in seguito scattata una spedizione punitiva. “Il detenuto dice che il fatto è successo una notte in cui il mio assistito non era neppure in servizio in quella sezione; il compagno di cella parla invece del giorno successivo. Una baraonda di elementi che non possono considerarsi indizi univoci”, dice l’avvocato Vittorio Luigi Fucci, aggiungendo che la “colluttazione” con i due ragazzi è avvenuta perché non volevano andare in infermeria e la denuncia di molestie sarebbe partita come “ritorsione” nei confronti dell’agente che aveva fatto rapporto sui loro comportamenti. L’indagine della procuratrice Letizia Mannella e delle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena presenta diverse analogie con quella sui pestaggi al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fatti, quelli consumati nel 2020 nel penitenziario in provincia di Caserta, che appaiono più gravi per numero di imputati (oltre cento tra agenti della Penitenziaria e personale sanitario del carcere), vittime (quasi duecento le parti offese) e reati (si contesta anche un caso di omicidio colposo come causa di altro reato). Ma comportamenti, dinamiche interne al carcere e accuse simili nei due casi hanno portato diversi indagati in servizio al Beccaria, molti di origine campana, a scegliere avvocati che tuttora difendono i loro colleghi nel maxiprocesso in Campania. Milano. Violenze al Beccaria, pietà l’è morta di Fabrizia Giuliani La Stampa 1 maggio 2024 Pietà l’è morta. Ho pensato questo quando ho letto, la prima volta, degli abusi avvenuti all’Istituto Penale per minori intitolato a Cesare Beccaria - la sua memoria ci perdoni -. L’ho pensato perché erano i giorni intorno al 25 aprile, discutevamo della Liberazione, della memoria condivisa, della storia. Non pensavo al passato, vorrei chiarire subito l’equivoco: pensavo al futuro che immaginavano i giovani in montagna, consapevoli che non tutti avrebbero avuto il privilegio di restare vivi e condividerlo. Il futuro si costruisce se si è abbastanza liberi, se si è abbastanza forti da immaginarlo: i ragazzi della Resistenza lottavano per gettarsi dietro le spalle un ordine fondato sulla violenza cieca, il razzismo, la sopraffazione; volevano archiviare una volta per tutte il culto del più forte, l’omertà, la delazione. Questi erano i nemici da sconfiggere: la Costituzione aveva il compito di tradurre in regole i nuovi valori condivisi e impedire che la storia, in qualunque forma, potesse ripetersi. Forse per questo mi è venuta in mente la canzone di Nuto Revelli, leggendo le cronache del Beccaria e non se n’è più andata. Ieri, vedendo le immagini che documentavano le testimonianze, ho provato vergogna. Le parole vanno misurate, certe parole particolarmente, ma non saprei trovarne una più precisa; non è questione di sdegno ma di sconfitta: è sconfitto lo Stato, siamo sconfitti noi. Intendiamoci, la pietà muore spesso: è accaduto nella piazza di Colleferro, quando Willy Montero era a terra, nel sacco gettato nel lago con il corpo di Giulia Cecchettin. La pietà muore anche in carcere, il nome di Cucchi per tutti gli altri. Ma c’è una soglia che separa la civiltà dalla terra di nessuno: il rispetto per i minori, tutti. Se questo viene meno, se lo stato di diritto è sospeso e gli agenti chiamati a garantire l’ordine si accaniscono - leggiamo di torture - sui ragazzi più vulnerabili, quella soglia è superata. Si fatica a immaginare un destino più difficile di quello dei “minori stranieri non accompagnati”, l’80% dei reclusi, ragazzi senza protezione, esposti a ogni sopruso. La differenza tra noi - Europa - e molti dei paesi da cui i minori provengono, è umiliante doverlo ricordare, non si misura in termini economici, ma nella democrazia, nella civiltà, nel rispetto di diritti umani. Questa differenza, nella cella cieca dove tutto è permesso, si è azzerata; nella catena di comando che avalla pratiche “umilianti e degradanti”, incluse violenze sessuali, regredisce. E regrediamo tutti, perché la responsabilità di spiegare che ai comportamenti dei ragazzi difficili non si risponde con le cinghie o i manganelli, ma con regole, fermezza e umanità è anche nostra. Non sappiamo quale sia l’italiano dell’agente che dice: non voglio pagare per “un marocchino di merda che nemmeno parla la nostra lingua”, ma sappiamo che spetta a noi, oggi, pretendere che quel ragazzo possa impararla al sicuro da ogni sopruso e impedire che la pietà non soccomba un’altra volta. Milano. Violenze al Beccaria: pretendiamo la verità di Daria Bignardi Vanity Fair 1 maggio 2024 Che in carcere si picchi è risaputo. Gli stessi detenuti ne parlano con impotenza e disillusione come di un fatto endemico, che non è neanche colpa degli agenti, ma del sistema. Come se, in un posto così pieno di dolore, malattia, povertà, ingiustizie, tensioni, antichi problemi irrisolti che si aggiungono a problemi sempre nuovi, la violenza fosse inevitabile. Nessuno capisce e difende gli agenti meglio dei detenuti: in fondo vivono insieme, condividono la stessa realtà. Il sovraffollamento, la mancanza di cura, la mancanza di senso quando la reclusione ? capita nella maggioranza dei casi ? non rispetta la Costituzione, che direbbe (articolo 27) che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma quel che è successo all’istituto Penale per i Minorenni Cesare Beccaria di Milano ha raggelato anche chi sa bene quanto il carcere sia violento e insensato. I fatti dei quali sono accusati i tredici agenti della polizia penitenziaria arrestati sono di quelli impossibili da comprendere anche per chi sa quanto i problemi rendano il carcere una pentola a pressione pronta a esplodere. Ma i ragazzi no però! Certo che nessuno si può pestare, torturare, vessare, opprimere, neanche gli adulti, eppure succede continuamente perché è il sistema a essere malato. Ma nemmeno chi ha questa consapevolezza può sostenere il pensiero di ragazzini vittime di torture e pestaggi. Che si sia permesso che accadesse rende indifendibili anche tutti quelli che hanno coperto e omesso, oltre che i diretti responsabili. Tredici arrestati, tredici come i tredici detenuti morti nelle rivolte di marzo 2020, quelle tredici vite che erano state affidate allo Stato e non interessano a nessuno perché erano stranieri, erano malati, erano poveri, perché c’era il covid e chi lo sa per cos’altro. La società civile dovrebbe invocare e pretendere la verità. Invece il carcere - passata l’indignazione del momento - non interessa a nessuno. Peggio: lo odiano tutti. Qualcuno ama il carcere degli altri. Udine. Andrea Sandra è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti di Lillo Montalto Monella rainews.it 1 maggio 2024 Il sovraffollamento in carcere resta il problema principale insieme al lavoro e alla salute. Seduti l’uno accanto all’altro, due Garanti dei detenuti di Udine. Ultimo giorno dopo il triennio di attività in carcere, in questo ruolo, per Franco Corleone che passa il testimone all’avvocato penalista, ex consigliere comunale, Andrea Sandra, nominato all’unanimità dal Consiglio Comunale di Udine. Andrea Sandra: “ci sono problemi legati al sovraffollamento, la cosa principale, ma ci sono anche e soprattutto problemi legati alla salute dei reclusi, ma anche di coloro che in carcere ci lavorano, e sarà uno dei temi di massima attenzione”. Diverse le questioni irrisolte, a livello regionale e cittadino. Il finanziamento da parte della regione di nuove strutture per l’housing sociale; il no ad un grande carcere da 300 posti a San Vito al Tagliamento, per evitare che diventi come Tolmezzo ed accolga detenuti da ogni parte d’Italia. Quanto alla città di Udine, rimangono ancora da firmare la convenzione per i lavori di pubblica utilità, e attivare lo sportello “anagrafe” in carcere; ma anche riqualificare una palazzina abbandonata nelle vicinanze da dedicare ai detenuti in semilibertà o a progetti lavorativi. Si è parlato anche della sentenza di gennaio della corte costituzionale sul diritto esigibile immediatamente all’affettività. La possibilità di colloqui intimi, senza il controllo visivo di un agente. I moduli ci sono già, gli avvocati possono farne richiesta, i direttori devono rispondere. Gli spazi si troveranno, pure quelli, nell’ambito della ristrutturazione che fornirà il carcere di un polo culturale, educativo e nuovi spazi di lavoro. Franco Corleone: “c’è una possibilità di amore, di rapporto bello, nella ristrutturazione questo spazio a Udine ci sarà, quindi il miracolo di Udine potrà essere anche la realizzazione di una sentenza rivoluzionaria della corte costituzionale”. Grosseto. Corsi di formazione: dopo il carcere, il futuro di Maria Vittoria Gaviano La Nazione 1 maggio 2024 Cna porta la formazione all’interno della Casa circondariale di Grosseto con due percorsi di qualifica per diventare curatore di interventi ortoflorovivaistici e operatore di lavorazione di prodotti panari, dolciari e da forno. Il progetto “Com.pa.i.o” finanziato dalla Regione Toscana, sostenuto dal Comune di Grosseto, promosso da Cna Servizi con Heimat, Cpia, il “Melograno” in collaborazione con l’azienda Favilli. Le figure che verranno formate dal progetto rispondono ad una richiesta importante nel mercato. Saranno otto i detenuti che parteciperanno al corso di specializzazione e dopo sosteranno un esame per ottenere la certificazione delle competenze acquisite. “Vogliamo creare opportunità anche per chi temporaneamente l’ha persa - dice Anna Rita Bramerini direttrice di Cna -, interfacciandoci con il reinserimento dei detenuti del carcere”. “Il percorso di manutenzione del verde - dice Elena Dolci ideatrice iniziativa del responsabile Cna Servizi - partirà già il prossimo mese e finirà ad ottobre. Quello della panificazione partirà a giugno. Ci saranno anche delle prove in carcere, faremo un orto e venderemo i prodotti ottenuti”. “Sono progetti che aiutano a integrarsi dopo un percorso in carcere - afferma l’assessore Sarà Minozzi -. Un valido aiuto per ottimizzare il tempo in carcere e per costruire un futuro lavorativo”. “Durante l’esecuzione di condanna - dice Eleonora D’Amico, responsabile Area trattamentale Casa circondariale - i detenuti potranno così concludere in maniera positiva il percorso. In carcere sono circa trenta detenuti, molti sono stranieri”. “L’inserimento è la nostra missione - dice Silvia Giannella coop Melograno -. C’è ancora remore nell’accogliente o detenuti”. “L’esperienza più bella è di due anni fa con dieci ragazzi carcerati - dice Luigi Favilli, titolare dell’azienda -. Abbiamo lavorato otto mesi accanto a loro”. Roma. Elettriciste o sarte, le detenute di Rebibbia in cerca di una seconda chance di Viola Giannoli La Repubblica 1 maggio 2024 Il progetto di formazione e reinserimento al lavoro per le recluse coinvolte in laboratori di edilizia, idraulica, artigianato d’alta moda. “Qui c’è la centralina, qua il campanello, l’interruttore l’ho collegato alla lampadina… funziona!”. Non è semplice montare un generale su una barra Din, installare i differenziali magnetotermici con differenti amperaggi, mettere i salvavita, un ponte, scegliere i cavi, del colore giusto, da inserire nei morsetti, le entrate, le uscite. E non è facile nemmeno confezionare una rosa di petali di raso bianco da cucire su un abito da sposa per un atelier d’alta moda. Se dalla finestra, prima del verde fuori, si vedono le sbarre, forse è ancora più difficile. “Ma dicono che pagano bene, allora è il lavoro mio!”. Fabiola, felpa grigia, mani grandi, il codino sopra la rasatura, ride mentre riavvita i componenti del quadro elettrico che ha tirato su da zero. “L’hai mai vista una donna elettricista? - irrompe - Ecco io voglio essere la prima che viene a casa tua”. Davanti a sé, oltre ai comandi, ha due anni ancora da scontare nel carcere di Rebibbia femminile. “Però così mi sembra finalmente di fare qualcosa di utile”, dice mentre preme l’interruttore. Con altre 13 detenute è all’ultima lezione di un corso organizzato dall’Ance Roma - Acer con CefmeCtp che alle recluse ha insegnato i fondamentali dell’elettricità e ora sta formando anche idrauliche e operatrici edili. Dentro al carcere il laboratorio è entrato grazie a “Seconda chance”, l’associazione fondata dalla giornalista Flavia Filippi per dare un’occasione di futuro a chi sta in cella e, dall’altro lato, per far conoscere alle imprese la legge Smuraglia che offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti in articolo 21, ammessi cioè al lavoro esterno. Glory ha lunghe treccine fucsia, fuori faceva la parrucchiera e la fa ancora qui, nel carcere. Mentre taglia, lava, colora le compagne, ha imparato a collegare i cavi senza mandare l’impianto in corto. Linda faceva la carrozziera, ma qui ha trovato “qualcosa da fare che può sempre servire e ora voglio continuare il corso, imparare di più, magari farne pure un lavoro”. Loredana fa la spesina, un’altra è la cuoca, un’altra ancora era barista, aspirante fotomodella. “È un lavoro da maschi sì, ma noi lo facciamo meglio, più pulito, più ordinato, guarda qua”, dice Marta, mentre mostra la scatola dei cavi. Quando spiega Mariano, il maestro elettricista, su tre quarti dell’aula cala il silenzio. “Scusa, mi rispieghi che quelle due parlavano?”. “Prenditela con loro che non stavano attente”. “Seee, qua già stiamo inguaiate per conto nostro”. Non è la scuola, alla fine non c’è nessuna campanella, non si torna a casa. Dopo 48 ore di lezione in poche settimane però non sono sazie. Chiedono ancora perché quando arriverà il fuori-da-qui per le 370 detenute di Rebibbia femminile, bisognerà rifarsi una vita. “Il lavoro nell’edilizia è fatto di manualità, costa fatica, ma la soddisfazione che se ne ricava è grande e ha a che fare, secondo me, con la costruzione della propria identità - spiega il presidente di Ance Roma-Acer, Antonio Ciucci - Ci auguriamo che questo progetto possa dare nuovi stimoli alle detenute e costituire un tassello importante nel loro percorso di vita”. “Seconda chance” ha già aiutato Betty, Susan, Lidia, Patrizia detta Zuccherina. “Ci hanno messo grande professionalità, sempre coinvolte, sempre a fare domande”, racconta Mariano. “È il modo con cui la casa circondariale e l’associazione provano a insegnare un mestiere, a creare soft skill - dice la direttrice Nadia Fontana - A trovare uno stimolo per capovolgere la loro vita, qualcosa che scateni in loro un moto di riscatto”. Un filo di speranza - Quattro porte più in là c’è la sartoria. Una stanzona attrezzata con 12 donne, vengono qui da Natale, finiranno a giugno. Cuciono borsette, tolfe, abiti, fiori da imbastire sui vestiti. “Mi rilassa stare qui e mi rende orgogliosa vedere il risultato di quel che faccio, toccarlo con le mani, da due anni lavoro nella sartoria del carcere, facciamo i pantaloni per le lavoranti”, racconta Marianeve, napoletana, con i suoi lunghi capelli ricci. “Proviamo a operare lavorando come una goccia cinese sulla cultura in forme diverse da quelle canoniche visto che la maggior parte delle detenute a scuola non c’è mai andata - spiega ancora la direttrice - E allora uniamo la lettura, la scrittura, il teatro, lo yoga ad attività molto pratiche, proviamo a rilanciare una crescita culturale attraverso l’attività manuale”. Non sempre riesce. Ci sono le recidive, gli ostacoli dei documenti, le molte imprese che non si fidano di ex detenute, il disagio sociale, l’assenza di una qualsiasi rete oltre le sbarre, i limiti alla funzione riabilitativa della detenzione. “Però passare il tempo così, facendo, è terapeutico. Il sogno è realizzare un abito per ciascuna di loro e farle sfilare, vediamo se ci saranno il permesso...”, racconta Chiara Valentini, stilista di abiti da sposa con un atelier nel quartiere Prati che insegna all’Accademia di moda e costume e a Rebibbia viene da volontaria a disegnare bozzetti e guidare la mano di chi prende ago e filo per la prima volta. Come Anna: “Mi sono fatta una gonna marrone, volevo metterla al colloquio con mio marito, alla fine non l’ho più indossata, non era venuta tanto bene, era un po’ storta, me la metto in reparto. Ma ora che vado a casa e che ho imparato voglio cucire fiori per ogni tenda. Ne ho fatta una di raso rosa per i 14 anni di mia figlia, che emozione”. Lucia fa questo lavoro già da 8 anni, è sicura che la porterà via da qui, lontana da Rebibbia, ora sogna davanti a un abito da sposa: “Ma non è per me, sio sono troppo vecchia, è per lei”. Giorgia è una ragazza rumena con gli occhi azzurri, cuce da quando era piccola, per passione, “mi facevo i vestiti da sola. Qui però lavoriamo insieme, facciamo amicizia, ci facciamo compagnia. E magari sì, quando esco il vestito me lo metto io, è bellissimo”. In fondo alla stanza, seduta alla macchina da cucire, c’è Giana, rom bosniaca. Le mancano 8 anni per uscire, una somma di reati, ha 14 figli, solo tre sono ancora minorenni, non li vede da due anni. Ha imparato a fare la sarta all’Icam di Milano quando ha partorito l’ultimogenito che ha tenuto con sé per 5 anni e mezzo. “Ho fatto tre borsette per mettere dentro le mie cose. Ho capito tante cose qua dentro. Voglio continuare a fare questo, zainetti, borse, per i miei bambini, per i nipoti, magari li vendo pure. Speriamo...”. Pianosa (Li). L’ex supercarcere restaurato apre alle visite: le celle dei terroristi e dei mafiosi al 41bis di Elisa Messina Corriere della Sera 1 maggio 2024 Visitabile dai primi di maggio la parte del carcere dove sono stati reclusi i terroristi negli anni 70 e poi i mafiosi dopo le stragi di Falcone Borsellino. Un recupero realizzato dal Parco Arcipelago Toscano. Ma il resto dell’isola è in rovina. Le sbarre e le porte blindate sono azzurre come il mare che è lì fuori a pochi metri. Ma è un mare inaccessibile a chi finiva in queste celle minuscole. Siamo sull’isola di Pianosa, dentro un corridoio della “diramazione Agrippa”, che, dal 1977 per volontà del generale Dalla Chiesa, divenne carcere di massima sicurezza per i terroristi e, poi, per i mafiosi condannati al 41Bis, dopo le stragi Falcone e Borsellino. A partire dai primi giorni di maggio questi ambienti saranno visitabili dai turisti che arrivano sull’isola accompagnati dalle guide del parco dell’Arcipelago Toscano. “Abbiamo ristrutturato solo una piccola porzione di questa grande e storica diramazione” spiega Gianmarco Sammuri, presidente del Parco. Arrivare in pulmino fino all’Agrippa attraversando un varco nel lungo muro di cemento armato con le torrette, il muro Dalla Chiesa, camminare in questi corridoi, sfiorando muri ora tornati bianchi è un altro modo per conoscere quest’isola, le sue tante storie e le sue ferite. Perché è vero che i visitatori sono attratti soprattutto dal mare cristallino di questa piccolo paradiso naturale, raggiungibile ogni mattina con una motonave dall’Isola d’Elba. Ma Pianosa è anche molto di più. La famosa diramazione Agrippa, per dire, si chiama così perché prende il nome del nobile romano Agrippa Postumo che è stato, probabilmente, il primo “detenuto” noto di Pianosa: nipote adottivo dell’imperatore Augusto e in rivalità con Tiberio, fu qui esiliato e poi ucciso da un sicario. E prima di diventare carcere di massima sicurezza, qui sorgeva uno dei poderi della grande colonia penale agricola voluta dal Granducato di Toscana - un’esperienza di detenzione e lavoro all’avanguardia - e poi, dal 1884 al 1965, un sanatorio dove venivano inviati i detenuti ammalati di tubercolosi un po’ da tutta Italia, nella convinzione, errata, che l’aria di mare facesse bene ai tisici. Tanti quelli che morivano, pochi quelli che guarivano. Insomma, erano celle già cariche di sofferenza queste che videro arrivare negli anni 70 i capi delle Brigate Rosse come Alberto Franceschini a Roberto Ognibene. Il generale Dalla Chiesa, dopo anni di lotta al terrorismo, era diventato responsabile della protezione esterna delle prigioni italiane e individuò proprio in Pianosa il luogo inviolabile ideale dove rinchiudere i capi dell’eversione. Erano anni in cui si sparava per le strade, le rivolte nelle carceri erano frequenti e così assalti e tentativi di evasione. Ma non bastava l’isolamento naturale di Pianosa: il generale trasformò l’ex sanatorio in supercarcere e fece costruire un muro di cemento armato di un chilometro e mezzo lungo tutto il versante dell’isola rivolto all’Elba. Della vecchia colonia penale restavano solo campi abbandonati e costruzioni destinate alla rovina. Pianosa diventò sinonimo di carcere duro per i nemici dello Stato. “Dove le celle erano di cinque metri per quattro con tre brande fissate al pavimento, una panca e uno stipetto murato, uno sgabuzzino con il water” ricorda Giovanni Bianconi sul “Corriere”. L’ora d’aria? In un cortile del passeggio di 15 passi per 10. E non era ancora il regime del 41bis. Con la fine degli Anni di Piombo, nella seconda metà degli anni 80, furono spediti qui i camorristi più pericolosi. Col passare del tempo però la necessità di questo supercarcere sembrò venir meno ed era effettivamente sul punto di essere smantellato quando le stragi di mafia del 1992 cambiarono tutto. Gli agenti della Polizia Penitenziaria che lavoravano qui se lo ricordano bene: da un giorno all’altro a Roma si decise che le “comodità” del carcere dell’Ucciardone dovevano finire per i boss che erano lì detenuti e per isolarli davvero impedendogli ogni comunicazione con l’esterno, si ricorse di nuovo all’Agrippa e al sistema ideato per i terroristi da Dalla Chiesa, che, nel frattempo, era stato ammazzato dalla mafia. Nel giro di 10 giorni, padiglioni chiusi da anni furono ripristinati per un regime di detenzione ancora più duro, quello previsto dal nuovo decreto 41bis. “Capimafia del calibro di Michele Greco, Pippo Calò, Giuseppe Madonia si ritrovarono dal cosiddetto “grand hotel Ucciardone” ai patimenti di Pianosa” ricorda ancora Bianconi. Poi arrivarono qui, dopo la cattura, i super latitanti Leoluca Bagarella, uno dei killer di Capaci e sequestratore e uccisore del piccolo Giuseppe Di Matteo, e Nitto Santapaola. Il regime duro innescò qualche pentimento ma suscitò anche le denunce di Amnesty International e le minacce dei mafiosi. Nel 1997 l’ultimo detenuto lasciò l’Agrippa e un anno dopo il supercarcere fu smantellato davvero. Le motivazioni erano soprattutto economiche ma la chiusura di Pianosa è finita anche al centro dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. L’Agrippa tornò a essere uno degli edifici carcerari di Pianosa in abbandono. A partire dal muro Dalla Chiesa che è ancora qui e visibile da lontano quando si arriva via mare. Oggi lo si può definire un ecomostro: cade a pezzi, ma abbatterlo è costoso. Purtroppo sono tanti gli edifici in rovina presenti sull’Isola (come mostriamo in questo reportage). A partire dal paese ottocentesco affacciato sul mare dove praticamente ogni casa ha il tetto sfondato e dal suo porticciolo storico, un vero gioiello ora chiuso da transenne. Proprietà e responsabilità di questo borgo sono del Demanio: Pianosa è sempre stata “un’isola di Stato” senza proprietà privata. E se è vero che la chiusura del supercarcere ha restituito “l’isola proibita” a tutti gli italiani che ora possono visitarla, è vero anche che decenni di isolamento e di gestione carceraria hanno lasciato rovine. E per ora, nonostante promesse, idee e progetti, niente è stato fatto per salvare gli edifici storici che meritano di essere salvati e i tanti muri a secco presenti sull’isola. Per iniziativa del Parco dell’Arcipelago toscano, che gestisce gli accessi e e le visite sull’isola, è stato ristruttrata e aperta al pubblico la storica Casa dell’Agronomo. Talmente bella che stride con il degrado delle costruzioni che la circondano. Oggi ospita un museo multimediale su Pianosa, la sua natura e la sua storia. Ed qui anche l’altra novità della primavera-estate 2024: l’orto botanico proprio di fronte alla Casa dell’Agronomo. Il turismo, perlopiù giornaliero e a ingressi contingentati, è una certezza che garantisce risorse al Parco. Risorse che poi vengono investite nell’organizzazione delle visite, nei miglioramenti e nei recuperi degli spazi che il Demanio ha affidato al Parco. Ma sono gocce nel mare. Anche il Comune di Campo nell’Elba, di cui fa parte il territorio di Pianosa, procede via via a sistemare aree e servizi che gli competono (ha dato in gestione il piccolo hotel e il ristorante, per esempio) ma niente può fare su tutte le costruzioni di proprietà demaniale come il vecchio paese. Di cui ogni giorno crolla un pezzetto in più. La “condanna” del lavoro povero: più a rischio le donne e le regioni del Sud di Luca Mazza Avvenire 1 maggio 2024 Indagine delle Acli: il 20,9% delle occupate stabili ha un reddito sotto i 15mila euro annui (il 6% per gli uomini). Chi vive nelle aree interne in media guadagna oltre 3mila euro in meno. Il lavoro povero in Italia tende a essere una condizione “persistente”. Un tunnel in cui, una volta che ci si è scivolati dentro, diventa un’impresa ardua uscirne fuori e tornare a rivedere la luce. Un’emergenza che colpisce in particolare le donne e, a livello geografico, alcune aree del Centro e, soprattutto, le Regioni del Mezzogiorno. A scattare una fotografia nitida su quanto siano diffusi i cosiddetti working poor, i lavoratori poveri appunto, è una ricerca a cura dell’Iref (Istituto di ricerche educative e formative), grazie ai dati forniti dai Caf Acli. L’indagine è stata presentata in vista della festa del 1° maggio in un webinar organizzato da Avvenire e dalle Associazioni cristiane lavoratori italiani: “Povero lavoro, povero Paese: invertire la rotta è possibile”. Proprio per il fatto che i dati emergono dalle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti che si sono rivolti ai Caf delle Acli (una mole di oltre 294mila dichiaranti occupati analizzati che hanno presentato i 730 continuativamente dal 2019), si tratta di statistiche molto attendibili. In generale, i lavoratori “continui” (attivi almeno 7 mesi su 12) che si trovano sotto la soglia di povertà relativa sono passati dal 9,6% del 2020 all’8,8% del 2023, facendo segnare appena un -0,8%. Nell’Italia che ha visto un progressivo aumento dei posti di lavoro dal post Covid (+700mila dal 2019), insomma, l’impoverimento del lavoro è una criticità ancora lontana dall’essere superata. Lavorare, a volte, non dà abbastanza per garantirsi una vita dignitosa. Ovviamente chi non ha continuità lavorativa ha molte più possibilità di vivere in povertà: il 69% dei lavoratori con un numero di giornate lavorative inferiori ai 210 giorni ha un alto livello di vulnerabilità economica. Per contro, l’88% di chi lavora per più di sette mesi in un anno dichiara un reddito complessivo superiore ai 15mila euro annui, mostrando quindi un basso livello di vulnerabilità economica. Non è detto, tuttavia, che la stabilità occupazionale renda immuni dalla condizione diworking poor. Tra i lavoratori “continui” il 6% degli uomini ha un reddito al di sotto dei 15mila euro annui. E la percentuale sale al 20,9% per le donne. Eccola, dunque, la disparità di genere. Le differenze sono evidenti anche sul piano territoriale. I lavoratori continui sopra i 15mila euro di reddito variano dal 78,6% della Sicilia al 90% della Lombardia, per esempio. Non solo: sempre tra i lavoratori “continui” vivere nelle zone urbane o nelle aree interne comporta una differenza di reddito media di oltre 3mila euro annui (31.648 euro per i primi contro 28.548). In pratica, abitare lontano - e probabilmente lavorare distanti - da poli di attrazione economica accresce la possibilità di avere retribuzioni inferiori. Nel complesso, i dati della ricerca Iref-Caf confermano quanto l’Ocse ha segnalato più volte nei suoi report recenti: l’Italia è uno dei Paesi sviluppati dove i salari reali sono diminuiti di più negli ultimi anni. L’impennata dell’inflazione ha portato a un’erosione consistente del potere d’acquisto. Guardando solo al periodo 2019-2022, nell’insieme delle fasce di reddito dei lavoratori continui si calcola una perdita di 1.857 euro (4.853 euro d’inflazione contro 2.996 di aumento delle retribuzioni). Per contrastare la diffusione del lavoro povero le Acli hanno presentato una serie di proposte in vari ambiti: dal fisco all’istruzione. Per Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli, questa ricerca dimostra che c’è ancora “tanta occupazione con bassi salari o poche ore lavorate, soprattutto per quanto riguarda le donne”. Secondo Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli con delega al Lavoro e al Terzo settore, sono necessarie, per esempio, politiche inclusive: “Si torni a un reddito minimo per tutte le famiglie in povertà assoluta e, insieme, si creino delle “Case del lavoro” nelle e delle comunità con una co-programmazione tra Comuni, centri per l’impiego e Terzo settore, per favorire una reale crescita delle politiche attive nel territorio e l’inserimento delle persone più vulnerabili o con disabilità”. Sull’immigrazione, inoltre, “serve una politica regolare, non sporadica ed emergenziale, di accoglienza e integrazione”. Sulle imposte, infine, oltre a un vero contrasto al sommerso, prevedendo una maggiore tracciabilità del denaro, “si bocci la deriva politica che premia la rendita e la speculazione e carica tutto su lavoro e pensioni”. Perché la lotta al lavoro povero passa inevitabilmente anche da un cambio di rotta sul fisco. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia di Carlo Rovelli Corriere della Sera 1 maggio 2024 Greenpeace, la rete internazionale con tre milioni di sostenitori e uffici in 55 paesi, e Sbilanciamoci!, campagna che raccoglie 50 associazioni, entrambe impegnate su ambiente, solidarietà e pace, hanno realizzato un volume dedicato all’economia delle armi, che raccoglie la traduzione italiana del rapporto di Greenpeace “Arming Europe” sugli effetti della spesa militare in Italia e in Europa, e contributi di numerosi esperti sull’argomento. L’ebook è scaricabile gratuitamente dal 2 maggio 2024 sul sito Sbilanciamoci.info. Questa è la prefazione di Carlo Rovelli al libro. Penso che ci troviamo su una china molto pericolosa. L’”Orologio dell’Apocalisse”, la valutazione periodica del rischio di catastrofe planetaria iniziata nel 1947 dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists, non ha mai indicato un livello di rischio alto come ora. Le tensioni internazionali sono cresciute bruscamente. Tanti governi moltiplicano forsennatamente le spese militari. Si parla apertamente di possibile guerra atomica. Si parla apertamente di possibile guerra fra NATO e Russia in Europa. C’era un tempo in cui i leader mondiali, da Clinton a Gorbachev, da Mandela ai politici che hanno fermato la guerra civile in Irlanda, pensavano in termini di “risolvere i problemi senza spargere sangue”. Oggi i politici parlano in termini di “vincere e abbattere il nemico, non importa se costa spargere sangue”. Queste sono le parole che vengono pronunciate sempre più spesso a Washington come a Tel Aviv, a Mosca come a Berlino. Un esasperato nazionalismo si diffonde in vari paesi del mondo, dall’India agli Stati Uniti, e cresce un po’ ovunque. La demonizzazione reciproca si è impennata: nelle narrazioni di molti paesi, “gli altri leader” vengono dipinti come criminali pazzi e pericolosi, in perfetta simmetria. La catastrofe climatica è già in corso, le contromisure che stavamo iniziando a prendere sono già state accantonate, messe in secondo piano dall’urgenza di litigare. Il mondo scivola inesorabilmente verso un’altra delle sue periodiche catastrofi: quando gli esseri umani si massacrano l’un l’altro, pieni di ardore, convinti da ogni parte di essere nel giusto, dalla parte del vero Dio, della Santa Patria, della Democrazia, tutti convinti che gli aggressori, i cattivi, siano gli altri. La fonte dell’instabilità recente è chiara. Il piccolo gruppo di nazioni composto da America, Canada, Europa, Australia e Giappone, piccola minoranza dell’umanità, disponeva fino a ieri di una gigantesca supremazia economica ereditata dal colonialismo, che dalla fine della guerra fredda ha permesso il controllo politico del pianeta. Il diffondersi nel mondo della prosperità sta modificando radicalmente questo disequilibrio, lasciando a questo piccolo gruppo ormai praticamente la sola supremazia militare. Il mondo sta cercando di adattarsi alla nuova geografia economica. La questione che deciderà la storia di questo secolo è se sarà in grado di farlo in maniera pacifica o violenta. Su questo scenario da brivido si sovrappone l’immensa scellerata pressione esercitata dai fabbricanti di armi di tutto il mondo. Gli smisurati proventi dell’industria militare generano un potere che spinge all’incremento degli armamenti e al loro uso, per il solo motivo che qualcuno ci guadagna. È celebre la denuncia di questo stato di cose dello stesso presidente americano Eisenhower, che ben conosceva il sistema dall’interno. In Italia, un personaggio che ha giocato un ruolo centrale per la potente industria militare italiana è ora ministro della difesa. Il sito web del ministero della Difesa ha menzionato fra le sue priorità l’aumentare, per lucro, la vendita di armi italiane. Le decisioni strategiche del nostro paese possono essere influenzate dai fabbricanti di armi. La vita e la morte delle persone, la guerra e la pace, dipendono dagli interessi economici di questo o di quello. Quello di cui il pianeta ha bisogno oggi sono teste fredde, capaci di pensare globalmente, di pensare all’interesse comune, ai pericoli comuni, di calmare il gioco che si sta facendo sempre più pericoloso per tutti. Servono leaders ragionevoli capaci di cercare soluzioni pacifiche agli inevitabili conflitti. La maggior responsabilità è sulle spalle dell’Occidente, perché è l’Occidente che detiene ancora, per ora, il potere dominante, e perché è l’Occidente che deve decidere se accettare serenamente la rinegoziazione dell’equilibrio del potere globale resa inevitabile dalla diffusione della prosperità nel mondo, o rimanere arroccato a qualunque costo alla sua attuale posizione di dominio. Deve decidere se accettare un pianeta più democratico a livello globale, oppure continuare a sentirsi in diritto di arrogarsi una leadership mondiale che trova sempre meno consenso. L’Europa, al momento spersa, potrebbe giocare un ruolo nel calmare le acque. L’Italia è in prima linea. Mentre altri paesi europei come Austria, Irlanda, Spagna, cercano posizioni di neutralità o equilibrio, invocano la calma, l’Italia è totalmente allineata ai più bellicosi. Non usa il suo peso, più considerevole di quanto spesso assumiamo, per sostenere chi chiede calma. Invece, soffia sul fuoco. È uno dei primi esportatori di armi del mondo. Ha preso il comando di operazioni militari contro lo Yemen non autorizzate dalle Nazioni Unite, in violazione del diritto internazionale. È complice di violazioni della legalità internazionale in molte guerre recenti, non autorizzate dalle Nazioni Unite, a cui ha partecipato. Ma soprattutto, è in prima linea nella forsennata corsa agli armamenti che ci sta tirando verso l’abisso. L’Italia ha nel suo DNA culturale e politico una profonda avversione alla guerra, rinforzata nel secolo scorso dalla chiara consapevolezza del disastro generato dall’esaltazione della guerra e dalla glorificazione delle armi che hanno caratterizzato il ventennio di Mussolini. Esiste un’Italia vasta, che attraversa tutti gli schieramenti politici, che desidera un mondo più pacifico, ma che al momento non trova riferimenti politici, se non nelle parole del Papa, che oggi gridano nel deserto come una saggia Cassandra inascoltata. Esiste un’Italia consapevole che non vuole questa corsa agli armamenti che ci sta portando alla catastrofe. Questo libro è uno strumento per questa Italia. Dati, riflessioni, idee, per cercare di fermare la corsa in atto verso l’ennesima follia dell’umanità. Stati Uniti. Melissa Lucio condannata a morte, poi il giudice si pente: “Annullate quel verdetto” di Francesca Mambro L’Unità 1 maggio 2024 Una svolta frutto di un’ampia mobilitazione e, fatto raro, di un accordo tra accusa e difesa. Melissa Lucio era stata accusata di aver causato nel 2007 la morte della figlioletta di due anni. Nel 2008 la condanna. Ma per i legali la bimba sarebbe morta a seguito di una caduta dalle scale. Il 12 aprile il giudice che in primo grado aveva condannato a morte Melissa Lucio, ha chiesto alla Corte d’Appello di annullare il verdetto di colpevolezza. L’atto formale del giudice Arturo Cisneros Nelson è considerato “un evento molto raro” nella prassi giudiziaria del Texas, ma non è una iniziativa spontanea del giudice. Melissa Lucio, oggi 55 anni, nata in Texas da genitori messicani, è stata condannata a morte nel 2008 con l’accusa di aver maltrattato la più piccola delle sue figlie, Mariah Alvarez, di due anni, causandone la morte, avvenuta il 17 febbraio 2007. In sede di autopsia sul corpo della bambina furono trovati diversi lividi, e i segni di una precedente frattura ad un braccio. La Lucio ha una storia “dura” alle spalle. Abusata sessualmente all’età di 7 anni dal fidanzato della madre, andata in sposa una prima volta a 16 anni con un giovane con problemi di alcool e droga, ha avuto 5 figli. Ha poi avuto altri 7 figli, fra cui Mariah da un secondo marito, più gli ultimi due figli, di cui era incinta quando è stata arrestata. Le sono state diagnosticate, in varie fasi della sua vita, PTSD (Disordine da Stress Post Traumatico), “sindrome della donna maltrattata” e depressione. Ha anche problemi intellettivi, tutti fattori che, secondo gli esperti di medicina legale, l’hanno resa più vulnerabile alle tecniche di interrogatorio coercitivo. La Lucio, che al momento del fatto era incinta di due gemelli, venne sottoposta a 5 ore di interrogatorio, nel corso del quale per circa 100 volte ripeté di non aver mai maltrattato nessuno dei suoi figli, e nemmeno Mariah. L’interrogatorio, videoregistrato, si concluse quando la donna, chiaramente esausta, riferendosi alla contestazione che qualcuno doveva pur essere responsabile dei vari lividi della bambina, pronunciò una frase ambigua “I guess I did it”, ossia “immagino che sia colpa mia”. Al processo questa dichiarazione venne “abbinata” alla testimonianza di un perito che si disse certo che quello fosse un caso di abuso. La Lucio, i membri della sua famiglia e il suo team di legali hanno invece sempre sostenuto che la morte di Mariah fosse stata la conseguenza di una caduta dalle scale avvenuta due giorni prima, e che la famiglia, per mancanza di assicurazione medica e poveri, aveva deciso di non portarla in ospedale per un controllo, confidando che dormendoci sopra sarebbe passato tutto. Due giorni dopo la caduta, la bambina venne trovata immobile nel suo letto, e solo a quel punto sarebbe stata chiamata un’ambulanza. Negli anni successivi i suoi avvocati, coordinati dalla importante associazione “The Innocence Project”, hanno prodotto nuove testimonianze di esperti che dichiarano che la morte è stata “molto più probabilmente accidentale che volontaria”. Gli esperti hanno riesaminato i dati dell’autopsia alla luce dei progressi fatti nel frattempo dalla scienza e individuato nel corpo della bambina una malattia genetica di coagulazione quale causa dei lividi pregressi e dell’andatura incerta che potrebbe averne causato la caduta dalle scale. Il caso di Melissa Lucio ha raccolto un ampio sostegno negli ultimi anni. La sua esecuzione era stata programmata per il 27 aprile 2022. Prima a sollevare il caso, fu la nota influencer Kim Kardashian. Dopo di lei, nel febbraio 2022, la Corte interamericana per i diritti umani (CIDH) aveva emesso “misure a salvaguardia” chiedendo allo Stato del Texas di astenersi dall’esecuzione in attesa che il caso venisse riesaminato. Nel marzo 2022 a favore della Lucio si erano schierati un gruppo bipartisan di 106 parlamentari (su 181) guidati dal repubblicano Jeff Leach, e 5 membri della giuria popolare. All’epoca, anche Nessuno tocchi Caino si unì agli appelli, in cui si chiedeva al governatore Greg Abbott e alla commissione per la grazia di concederle clemenza che, in caso di condanna a morte, significa la commutazione in ergastolo senza condizionale. Questo perché un governatore ha il potere esecutivo di emanare provvedimenti di clemenza, non quelli di annullare dei processi. Prima che il Texas Board of Pardons and Parole potesse votare sulla questione della clemenza, la Corte d’Appello del Texas ha concesso alla signora Lucio una sospensione dell’esecuzione pochi giorni prima della data di esecuzione che era fissata per il 27 aprile 2022. Come richiesto dalla procedura, la Corte d’Appello non intervenne direttamente sul processo, ma segnalò il caso alla corte di primo grado, indicando 4 punti che necessitavano di un approfondimento: se i pubblici ministeri avevano ottenuto la condanna utilizzando false testimonianze, se l’esposizione alla giuria di prove scientifiche ottenute con tecnologie non disponibili allora ma oggi sì, porterebbe verosimilmente ad una assoluzione, se la signora è effettivamente innocente e se i pubblici ministeri hanno commesso una “violazione Brady”, termine che indica l’aver occultato prove favorevoli all’imputata verosimilmente rilevanti per l’esito del processo. La quarta domanda, con risposta affermativa, è stata oggetto, l’11 gennaio 2023, di una prima dichiarazione concordata, importante, ma in un certo senso “neutra”, in cui si affermava che la difesa, durante il processo, non aveva avuto accesso a informazioni in possesso dell’accusa potenzialmente favorevoli all’imputata. “Non aver avuto accesso” è un giro di parole per dire che, poiché queste informazioni (un rapporto dei servizi sociali che seguivano la famiglia Lucio e non avevano mai riportato maltrattamenti, ed altre testimonianze nello stesso senso) erano in possesso della pubblica accusa, ma la difesa (d’ufficio) non ne aveva avuto notizia, la colpa era in parte della pubblica accusa che per legge avrebbe dovuto condividerle con la difesa, ma anche della difesa, che evidentemente non aveva indagato a sufficienza. Un passo ulteriore è stato fatto il 5 aprile, quando il procuratore distrettuale della contea di Cameron, Luis Saenz, e l’avvocatessa Vanessa Potkin, che negli ultimi anni ha preso in carico il caso della Lucio per conto dell’Innocence Project (associazione, composta in gran parte da avvocati e professori universitari) hanno presentato una seconda dichiarazione congiunta, questa volta più stringente, in cui la pubblica accusa, ossia lo Stato, si assume una maggior quota di responsabilità nella gestione “inadeguata” del processo, e sollecitano la corte di primo grado a “raccomandare” l’annullamento della condanna. Jordan Steiker, direttore del Capital Punishment Center della University of Texas Law School, ha definito questo accordo tra accusa e difesa “eccezionalmente raro”. Se, come abbiamo visto all’inizio, il parere positivo del giudice Nelson, che aveva presieduto il processo di primo grado, verrà accolto dalla corte d’appello, difficilmente si arriverebbe ad una scarcerazione automatica della Lucio. Nel 99% dei casi le corti d’appello non emettono assoluzioni, ma ordinano la ripetizione del processo. E qui le lungaggini procedurali hanno un loro enorme rilievo. Il potere torna al procuratore, che in qualità di rappresentante della pubblica accusa può decidere se tornare in aula, o ritirare le accuse. Se l’imputato non accetta una imputazione minore (che nel caso della Lucio potrebbe essere una qualche forma di incuria) la pubblica accusa è in grado di ritardare notevolmente l’inizio del nuovo processo, e questo fa sì che di solito, pur di essere scarcerati rapidamente, gli imputati non perseguono una dichiarazione di totale innocenza, ma accettano l’imputazione minore, e la relativa condanna (così recita la formula) “a quanto già scontato”. Se accettano l’imputazione minore escono subito, se perseguono davvero la ripetizione del processo possono passare altri anni. Questa pratica “ricattatoria” però sta riscontrando alcune eccezioni, grazie alla elezione di pubblici ministeri più giovani e politicamente motivati. Di solito in questi casi la pubblica accusa “tratta” con la difesa una condanna per un reato minore, in modo che non scattino risarcimenti per ingiusta detenzione, e non si “rovini” il palmares dei procuratori che, dovendo andare periodicamente in campagna elettorale, vogliono segnalare i casi vinti, non quelli persi. Difficile prevedere cosa potrebbe fare il procuratore Luis Saenz nel caso (a questo punto probabile) che la corte d’appello gli restituisca il caso. Sappiamo che è un esponente del Partito Democratico, che ha 73 anni, e che nelle sue note biografiche dice di aver conosciuto le difficoltà di essere stato cresciuto assieme a 5 fratelli da una madre single, e dice anche di amare molto quella che era una sua compagna di liceo, Delia Gonzalez, che da 37 anni è sua moglie e gli ha dato due figli. Quello che leggiamo dalle sue note biografiche sarà sufficiente a far ammettere “rapidamente” (se così si può dire, visto che sono già passati 17 anni) allo stato del Texas che contro Melissa Lucio non esistevano prove concrete di colpevolezza? Nel corso degli anni anche NtC ha seguito con attenzione il caso, ritenendolo emblematico di molti dei difetti irreparabili del sistema capitale statunitense. Medio Oriente. Lo scandalo della convivenza possibile di Massimo De Carolis Il Manifesto 1 maggio 2024 Oggi che la democrazia israeliana è in agonia sotto i colpi del governo più autoritario e illiberale della sua storia, è diventato un comodo luogo comune ricordare che le istituzioni democratiche in Israele hanno convissuto per decenni con una politica di discriminazione feroce e di apartheid. Raramente ci si chiede invece per quale ragione non solo i coloni o i fanatici nazionalisti, ma anche una quantità di cittadini ragionevoli e sinceramente liberali si siano adattati, un passo alla volta, a tollerare ingiustizie clamorose, rimuovendole dalla conversazione pubblica come un tema scomodo e imbarazzante. La risposta in realtà la conosciamo tutti e pochi hanno davvero voglia di ascoltarla. Il punto è che una parte consistente della popolazione israeliana si è convinta che un compromesso con gli “arabi” sia semplicemente impossibile perché, al di là delle dichiarazioni ufficiali, il loro vero obiettivo resta e resterà sempre quello di spazzare via “l’entità sionista”, ove occorra anche sgozzando uno a uno tutti gli ebrei di Israele. Oggi il maggior successo di Netanyahu è che una simile convinzione sia diventata un sottofondo tanto radicato nella società civile, che nessuna forza politica può sfidarlo senza perdere immediatamente consenso e credibilità. Per ottenere un tale risultato è stata necessaria un’opera certosina e ventennale di provocazioni e di avvelenamento dei pozzi, che ha reso i margini di dialogo praticamente inesistenti. Del piano fanno parte ovviamente gli insediamenti illegali, le forzature giuridiche e, soprattutto, un genere di repressione mirata, che ha sepolto sotto valanghe di ergastoli (e a volte di proiettili) i leader palestinesi che avrebbero potuto candidarsi al ruolo di interlocutori credibili, lasciando spazio solo ai più intransigenti o ai più corrotti. L’essenziale era cancellare dall’immaginario qualunque spazio di mediazione: o vinciamo noi o vincono loro. E stiamo vincendo noi. Per la verità, i miliziani palestinesi non hanno fatto molto per smentire una simile visione delle cose. Ed è forse un esercizio futile chiedersi se abbiano mai davvero avuto la possibilità di fare qualcosa di più. Quello che è certo è che il raid del 7 ottobre è stato una manna dal cielo per una politica di questo stampo. Chi può mai credere sul serio alla possibilità di un compromesso dopo le efferatezze di Hamas? Non è un caso del resto che la propaganda di regime le abbia subito pubblicizzate, anche a costo di ingigantirne la mostruosità. Con i mostri non si discute, si combatte. E l’ipotetica soluzione dei due Stati non cambia le cose. I confini fra Stati, lo sappiamo, sono quanto di più poroso esista e, al di là della trita retorica sulla sovranità, due Stati confinanti possono convivere solo se sussiste per entrambi una ragionevole certezza che l’altro non coltivi fantasie genocidarie. Col che si torna al punto di partenza. Se lo schieramento pacifista intende uscire dallo stallo, è il caso forse di formulare a chiare lettere una verità tanto evidente quanto scomoda: che la sopravvivenza dei palestinesi come soggetto politico dipende oggi dalla loro capacità di convincere sé stessi e gli altri che la convivenza con gli ebrei israeliani non solo è possibile ma deve per di più costituire il loro primo obiettivo politico. Che una tale convivenza si realizzi in due entità pseudo-sovrane, in due regioni federate o in un unico Stato, è un dettaglio tecnico del tutto secondario. L’essenziale è che gli uni e gli altri possano abitare con pieno diritto un fazzoletto di terra che, per quanto sia da millenni qualificato come “terra santa”, non è in grado comunque di moltiplicare miracolosamente la propria estensione. Non si tratterebbe certo di una passeggiata. L’alternativa però è un conflitto a oltranza, assurdamente distruttivo, da cui i palestinesi non hanno realisticamente alcuna possibilità di uscire vincitori. È difficile, d’altra parte, parlare di convivenza mentre fioccano le bombe. Perciò, al momento, il terreno politicamente decisivo non è in fondo né a Gaza né in Cisgiordania. È nelle piazze, nei campus e negli spazi di confronto democratico in tutto il mondo, ovunque sia difficile impedire militarmente un dialogo costruttivo tra le due parti. Gli apparati di potere israeliani e occidentali lo sanno bene e per questo stanno esasperando censura e propaganda in modo così plateale. La loro scure non è rivolta affatto contro i supporter del terrorismo (che, se non ci fossero, bisognerebbe inventarli) ma contro chiunque faccia balenare l’eventualità che una convivenza pacifica si possa veramente costruire. Incluso il Papa o il segretario generale dell’Onu. Se ne è avuta una prova a Roma il 25 aprile. Il vero bersaglio dello spezzone di corteo sponsorizzato da Israele non erano gli studenti con la kefiah, ma lo sparuto gruppetto di giovani ebrei che avevano il coraggio di chiedere apertamente il cessate il fuoco. Erano loro la spina nel fianco ed è per loro che si è allestito lo spettacolo penoso delle provocazioni, il lancio di piselli e altre prodezze. I manifestanti più ingenui e più focosi non sembrano essersene accorti. Se ne erano accorte invece le femministe di Non Una di Meno, che a suo tempo hanno avuto l’intelligenza di aprire il loro corteo alle donne israeliane come a quelle palestinesi. Esattamente come i cortei di Black Lives Matter, tanto più insopportabili per Trump perché vi sfilavano assieme bianchi e neri. Perché c’è un solo modo per rendere l’idea di convivenza qualcosa di realistico e politicamente efficace: chiederla insieme. Medio Oriente. “Ho visto i miei concittadini festeggiare per dei bambini morti: siamo al disumano” di Paola Caridi L’Espresso 1 maggio 2024 Ebreo statunitense, Nathan Thrall vive a Gerusalemme. Dove la strage su uno scuolabus pieno di bimbi palestinesi è stata accolta con un’esultanza da giovani israeliani di destra. Lo ha raccontato in un libro. Perché anche se non vede futuro, è convinto che raccontare le storie? delle persone scuota le coscienze dalla crudeltà. Il livello è stato superato. “Stiamo assistendo a una deumanizzazione di una scala e di una profondità mai viste prima, ed è questo che mi fa disperare per il futuro di Israele e Palestina. E il peggio deve ancora venire”. Nathan Thrall non mostra alcuna speranza, mentre la guerra su Gaza supera i sei mesi e i 34 mila palestinesi uccisi, dopo che il 7 ottobre 2023 quasi 1.200 israeliani sono stati vittime dell’attacco terroristico di Hamas e del jihad islamico. Thrall parla da Gerusalemme, dove ha scelto di vivere da molti anni, lui statunitense, ebreo, tra i pochi a conoscere palmo a palmo la terra, sino al Sud di Gaza. “Era come entrare in un altro mondo”. Parla da una città che definisce il “cuore pulsante della questione israelo-palestinese”. Per la precisione, dal quartiere di Musrara, a ridosso delle antiche mura di Solimano che ancora circondano la Città vecchia, e poggiato sulla Linea Verde. Il suo è un nome che a lungo è stato conosciuto solo da chi studia la questione israelo-palestinese. Direttore per dieci anni della sezione dell’International Crisis Group che si è occupata di Israele e Palestina, Thrall ha firmato i rapporti più importanti e acuti del think tank. Le sue analisi sono state usate nelle stanze in cui si decidono le sorti del mondo, dalle cancellerie europee e Usa sino all’Onu. Eppure, il suo nome è assurto a una notorietà più diffusa quando ha dato alle stampe un libro sulla storia di un uomo, Abed Salama, palestinese, e della sua vita fatta di soprusi, umiliazioni, tentativi di barcamenarsi nelle maglie dell’occupazione israeliana. Una vita in cui la morte del piccolo figlio, Milad, arriva come l’ultimo, insopportabile schiaffo. Tutto vero ciò che Thrall descrive nel suo “Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme”, pubblicato ora per Neri Pozza, ma, nell’edizione americana, uscito il 3 ottobre, proprio alla vigilia degli attentati. Sono bastati tre mesi perché il libro conquistasse la palma del libro dell’anno decretata dalle più importanti testate statunitensi. Le ragioni del successo stanno proprio nella storia - ordinaria e straordinaria allo stesso tempo - di Abed Salama, uomo e padre, e di un bambino che voleva andare alla gita ed è morto nell’autobus che ha preso fuoco dopo essere andato fuori strada. Nessun attacco, nessuna violenza da parte di israeliani e palestinesi. Ma la violenza che si esercita su un pezzo di terra - il Territorio palestinese occupato, in questo caso la Cisgiordania e Gerusalemme est - quella sì che è all’origine di tutto. “Se dico che hanno ucciso un bambino, per me, è ancora più crudele di quanto sia crudele parlare di genocidio”, sostiene Thrall. Salama attende di capire dov’è stato portato suo figlio, in quale ospedale a cui non è possibile arrivare perché, appunto, nella terra attorno al suo paese di residenza, Anata, alcuni luoghi sono inaccessibili a seconda del documento d’identità. Anata, appena fuori da Gerusalemme e strappato alla città dal muro di separazione costruito dagli israeliani, è un luogo sconosciuto ai più. Non lo è, invece, alle cronache quotidiane e nascoste degli ultimi anni. Cronache di sangue tracimate nella letteratura e nella non-fiction narrata. Prima del testo di Thrall, Colum McCann aveva fatto di Anata uno dei centri del suo monumentale “Apeirogon”: lì era stata uccisa la figlia di uno dei protagonisti, il palestinese Bassam Aramin, che con l’israeliano Rami Elhanan è il costruttore di una fratellanza nata e maturata sul lutto, sulla perdita delle rispettive figlie per mano del nemico. Una biografia, una saggistica narrata come un romanzo è nella migliore tradizione dello storytelling palestinese personificato nell’antico mestiere dello “hakawati”. È, forse, lo strumento necessario per rendere di nuovo umano ciò che non lo è più. “Era una perdita di tempo cercare di influenzare i responsabili politici e diplomatici che ho incontrato per anni”, dice Thrall, “perché anche quando si convincevano che occorresse fare qualcosa non cambiava nulla. Ho cercato, allora, di raggiungere un pubblico molto più ampio. Il conflitto non è destinato a finire presto e, perché ci sia un vero cambiamento, è necessario un cambiamento massiccio nell’opinione pubblica che consenta ai diplomatici e ai responsabili politici di comportarsi in modo diverso”. L’obiettivo: “Raggiungere persone a cui non importa nulla di Israele e Palestina, persone che in America o in Europa non saprebbero nemmeno indicare Gaza su una mappa, ma che sentono che c’è un padre che cerca suo figlio, c’è una tragedia che li trascina in una storia umana e attraversandola imparano a conoscere Israele e Palestina”. Thrall, che ha spesso sottolineato la solitudine di un ebreo profondamente critico verso Israele, descrive la situazione come “un sistema di sottomissione etnica, puro e semplice, di cui siamo complici”. Un’autentica “catastrofe morale”. La deumanizzazione, comunque, è fatta di diversi stadi. “E la forma più comune è quella di ignorare, ricevere le informazioni e cancellarle. Sorseggiare un espresso in un caffè di Tel Aviv, mentre a trenta minuti di distanza i tuoi parenti fanno irruzione nelle case in Cisgiordania, portando via i bambini ai loro genitori, trattenendo le persone in detenzione amministrativa senza accuse né processo”, spiega Thrall: “Questo è il livello base in cui molti milioni di israeliani possono vivere la loro vita senza pensare all’occupazione ed è la chiave della sua longevità. Il 7 ottobre è stato così scioccante per gli israeliani perché ha invaso le loro vite nel modo più brutale, più inaspettato, e in luoghi inattesi. Un attacco ai coloni poteva essere messo in conto, ma vederlo accadere così, su questa scala, nei kibbutzim è stato scioccante”. E poi il secondo livello, “la deumanizzazione che si verifica in modo più brutale, quella che è parte dell’epilogo del mio libro. Mostro come ci siano stati giovani israeliani che quella mattina esultavano per la morte dei bambini dell’asilo. Avevano ricevuto la notizia che bambini innocenti, palestinesi, erano bruciati su uno scuolabus. E lo festeggiavano senza pseudonimi, con i loro nomi. Con orgoglio, senza paura delle conseguenze. Questo livello di deumanizzazione non è rappresentativo della maggior parte degli israeliani, ma esiste, è una forza in crescita, molto di più oggi che prima del 7 ottobre”. E sottolinea Thrall: “Gli israeliani che celebrano la morte di bambini palestinesi alla fine del mio libro appartengono alla destra politica. Ma la deumanizzazione non è questione di sinistra contro destra. Il politico più popolare in Israele in questo momento, il centrista ex capo di stato maggiore delle forze armate, Benny Gantz, in campagna elettorale nel 2019 si vantava di quante persone l’esercito aveva ucciso sotto la sua supervisione nella guerra di Gaza del 2014. Quando Israele ha iniziato a punire collettivamente la popolazione di Gaza, privandola di cibo, acqua, carburante ed elettricità, il presidente di centrosinistra di Israele, ex capo del partito laburista, Isaac Herzog, ha dichiarato che “un’intera nazione” è responsabile del 7 ottobre”. Che cos’è, dunque, annullare il senso dell’umano oggi? “La deumanizzazione è il modo in cui Israele, nei primi mesi della sua rappresaglia, ha ucciso decine di migliaia di persone a fronte delle sue circa 1.200 vittime. La deumanizzazione è il modo in cui Israele ha autorizzato attacchi aerei che prevedevano l’uccisione di 300 passanti innocenti per eliminare un solo militante. È così che Israele si è affidato all’Ia per generare liste per i suoi assassinii mirati a Gaza. E la deumanizzazione è il modo in cui il governo ha attuato la politica dell’affamare più di due milioni di civili”. Medio Oriente. L’inchiesta degli Usa: forze israeliane colpevoli di violazioni dei diritti umani di Sara Volandri Il Dubbio 1 maggio 2024 I fatti avvenuti prima del 7 ottobre. Un’inchiesta che senz’altro raffredderà ancora di più i rapporti tra Washington e Tel Aviv, anche se per il momento il governo Netnyahu non ha commentato. Gli Stati Uniti hanno infatti giudicato colpevoli di “palesi violazioni di diritti umani” cinque battaglioni delle forze armate israeliane (Idf). A renderlo noto il Dipartimento di Stato americano, il quale ha specificato che i fatti sono avvenuti prima 7 ottobre, data dell’attacco terrorista da parte di Hamas contro Israele, in Cisgiordania e non nella Striscia di Gaza. In base a quanto riporta il quotidiano britannico The Guardian, si tratterebbe di quattro unità dell’esercito e una della polizia militare. “Al termine di un’indagine accurata siamo giunti alla conclusione che cinque unità delle forze di sicurezza israeliane debbano essere ritenute responsabili di tali violazioni. Quattro hanno posto rimedio ai danni causati, come da noi richiesto. Per quanto riguarda la quinta unità continuiamo a parlare e consultarci con il governo israeliano”, ha detto il portavoce del dipartimento di Stato, Vedant Patel, specificando che hanno ancora diritto a ricevere armi statunitensi. Resta aperto il caso della brigata ultraortodossa Netzah Yehuda, solitamente dispiegata in Cisgiordania e ora impegnata sul fronte di Gaza. Nota per episodi di violenza e brutalità nei confronti dei palestinesi dei Territori occupati, è finita alla ribalta delle cronache internazionali negli anni passati per il caso di Omar Abdalmajeed As’ad, 78enne palestinese- americano morto per infarto nel gennaio 2022 dopo essere stato fermato a un check- point a nord di Ramallah: venne ammanettato, imbavagliato e costretto a giacere per terra al freddo per oltre un’ora, nonostante l’età e le precarie condizioni di salute. “Avremo presto i risultati delle indagini, saranno comunicati nei prossimi giorni”, ha garantito nei giorni scorsi il segretario di Stato americano Antony Blinken. Il governo israeliano ha, per ora, evitato l’applicazione della legge Leahy - che impedisce agli Stati Uniti di inviare aiuti militari a eserciti e forze di sicurezza che violano diritti umani - facendo valere il memorandum d’intesa firmato nel 2018 e valido 10 anni, che stabilisce che allo Stato ebraico deve essere dato più tempo per rispondere alle richieste di Washington. In base a quanto riferisce l’agenzia di stampa Reuters, all’interno del dipartimento di Stato negli ultimi giorni è cresciuto lo scetticismo e sono in molti a ritenere ‘ poco credibili e inaffidabili’ le rassicurazioni israeliane relative all’utilizzo delle armi americane in linea con il diritto internazionale. Decisiva sarà probabilmente la data del prossimo 8 maggio, quando Blinken sarà chiamato a riferire al Congresso sulle risposte ottenute dallo Stato ebraico sulle violazioni riscontrate dall’inchiesta del Dipartimento di Stato. Iran. Il regime è all’angolo. Ed è per questo che attacca le donne di Chiara Sgreccia L’Espresso 1 maggio 2024 La Repubblica islamica ha ridato impulso alla repressione proprio nel giorno in cui ha risposto all’offensiva di Israele sul consolato di Damasco. Uno scontro che rivela la debolezza di entrambi i governi. Una donna cade a terra, in preda alle convulsioni, dopo essere stata fermata dalla polizia morale. Ai passanti che cercano di calmarla dice che le hanno confiscato il cellulare, vicino alla fermata della metro Tajrish, nel Nord di Teheran, come riporta l’agenzia di stampa Afp. In un altro video si sentono le urla strazianti della folla che circonda un furgoncino bianco, mentre gli agenti trascinano qualcuno dentro. In alcuni momenti sembra di distinguere il rumore dell’elettricità che passa attraverso i corpi per immobilizzarli. E poi ancora grida, abusi. Ma non c’è silenzio: è diventato ormai impossibile fermare la rivoluzione culturale che il movimento “Donna, Vita, Libertà” ha innescato in Iran dal settembre del 2022. Quando Mahsa Amini, una ragazza poco più che ventenne, è morta, dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per aver indossato l’hijab in modo inappropriato, probabilmente a causa delle violenze subite. “Le strade della Repubblica islamica sono diventate un campo di battaglia contro le donne e i giovani”, scrive su Instagram Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace 2023, dal carcere di Evin in cui è detenuta, nel giorno del suo compleanno, il 21 aprile. “Un’ora fa, un’altra ragazza iraniana, Dina Ghalibaf, è arrivata in cella con lividi e segni di molestie sessuali. Il governo religioso autoritario sta conducendo una guerra totale contro tutte le donne. In tutte le strade del Paese. Chiedo al mondo intero di fermare questa barbarie che è l’espressione vergognosa e abominevole dell’apartheid di genere”, aggiunge la difensora dei diritti umani a commento del video in cui ricostruisce i soprusi delle forze dell’ordine, tornati a moltiplicarsi per le strade della Repubblica Islamica, per invitare tutte a rendere pubbliche, condividere, inviare le testimonianze di violenza: “Lunga vita alla resistenza. Viva la libertà. Lunga vita alle invincibili donne dell’Iran”. “Gli attacchi diretti che Iran e Israele hanno portato avanti, dopo anni di guerra per procura, sono la dimostrazione della debolezza dei loro governi”, commenta il professore di Relazioni internazionali del Medio Oriente all’Università di Trento, analista associato dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, Pejman Abdolmohammadi. A proposito della rappresaglia che il Paese del primo ministro Benjamin Netanyahu ha condotto contro quello del presidente Ebrahim Raisi, il 19 aprile, quando la popolazione della città di Isfahan, nel centro dell’Iran, ha sentito le forti esplosioni causate dai missili israeliani che avrebbero danneggiato il sistema di difesa antiaereo S-300 acquistato dalla Russia e posto a protezione del sito nucleare di Natanz, rimasto, però, intatto anche secondo l’Agenzia internazionale dell’energia atomica. “Entrambi i sistemi politici sono arrivati a un punto in cui non possono più tirarsi indietro. Anche se l’interesse dei singoli governi non sarebbe quello di accrescere la tensione, ormai le condizioni contestuali in cui si trovano, complice la debolezza del presidente statunitense Joe Biden, impediscono la de-escalation”, aggiunge il professore, secondo cui, per un breve periodo, la guerra tra i due competitor del Medio Oriente tornerà a essere di proxy, cioè per procura, come dimostrano i raid degli ultimi giorni di Israele nel Sud del Libano o delle milizie sciite alle basi americane in Iraq. Ma in poco tempo gli attacchi saranno di nuovo diretti, anche a causa della preoccupazione per l’arma nucleare. “Che Israele ha, anche se dichiara il contrario. Paura che cresce visto che a Oriente si sta creando una coalizione pericolosa di regimi totalitari: Cina, Russia e Repubblica islamica. Ma il mondo liberal-democratico doveva pensarci prima, quando durante la “dottrina Obama” (periodo precedente all’accordo sul nucleare iraniano del 2015, ndr) sorrideva a quelli che venivano considerati riformisti, passando sopra alla repressione del governo iraniano nei confronti del suo popolo. È ora di chiudere con il doppio standard: come si può pretendere che l’Iran non punti alla bomba atomica quando il Pakistan, Stato confinante, ce l’ha? E perché i leader del G7 hanno condannato l’attacco di Teheran a Israele, ma non quelli di Netanyahu? Non esistono più i buoni e i cattivi in assoluto, dobbiamo tentare di ripristinare un ordine giusto delle cose”. Per Abdolmohammadi c’è una distinzione fondamentale da tenere a mente tra la Repubblica islamica, cioè il governo religioso che guida il Paese, e l’Iran, quindi la sua popolazione. Si è vista chiaramente anche durante le ultime elezioni, quelle del primo marzo, quando gli iraniani sono stati chiamati a votare per i due organi rappresentativi del Paese: l’Assemblea consultiva islamica, cioè il Parlamento, e l’Assemblea degli esperti dell’orientamento, autorizzata a interpretare le leggi islamiche. Hanno vinto i conservatori, ma l’affluenza è stata del 41 per cento: “Più dell’80 per cento delle persone di un Paese di oltre 85 milioni di abitanti non condivide le politiche della Repubblica islamica. L’Iran, infatti, combatte questa guerra non grazie a energie e soldati interni, ma attraverso quelli dell’Islam politico globale: Hezbollah, Hamas, jihadisti islamici, Houthi in Yemen. Questo fenomeno è indice della debolezza strutturale del regime, costretto quindi, contemporaneamente, a reprimere anche il dissenso interno. Sono due facce della stessa medaglia, ecco perché procedono di pari passo”, spiega ancora il professore: “Per chi crede alla propaganda del governo, l’attacco del 13 aprile a Israele è stato un’espressione di forza, ma per tutti gli altri è stato una testimonianza di fragilità”. Anche perché a festeggiare nelle piazze erano gli stessi che reprimono la popolazione. “Se l’Iran dovesse entrare formalmente in guerra le persone non supporterebbero il governo. Perché le persone sono in guerra contro il governo”, aggiunge lapidaria Ayda, una giovane iraniana che chiede di restare non identificabile per la sua sicurezza. È in visita in Italia per qualche giorno, ma spera di poter tornare senza intoppi a Teheran: “Il regime utilizza il fatto che l’attenzione internazionale sia rivolta alle tensioni con Israele per accrescere la repressione interna. La guerra serve ai dittatori per legittimare il consenso, è un disastro per i popoli. Noi, come abbiamo già dimostrato, non abbiamo intenzione di arrenderci”, conclude. Un pensiero che assume ancora più importanza nel momento in cui la Repubblica islamica è costretta a guardare al futuro, a calibrare le sue mosse nello scacchiere mediorientale, a riflettere su chi sarà il successore dell’attuale Guida suprema, l’ottantacinquenne Ali Khamenei.