Stanza dell’affettività per detenuti e familiari. “Iniziamo da Padova” di Elvira Scigliano Il Mattino di Padova, 19 maggio 2024 Figli traumatizzati, relazioni calpestate, famiglie distrutte, diritti negati. La sentenza della Corte Costituzionale numero 10 dello scorso gennaio si oppone a questa desertificazione affettiva che subiscono i detenuti e le loro famiglie, rendendo possibili i colloqui intimi per i detenuti, senza controllo visivo. La scelta della Corte Costituzionale è destinata a rivoluzionare la vita detentiva e il carcere padovano, il Due Palazzi, si candida a essere un istituto di pena pilota in una eventuale sperimentazione di questa apertura ai sentimenti. Ieri l’argomento è stato affrontato nel convegno “Io non so parlar d’amore” tenutosi in carcere e organizzato da Ristretti Orizzonti. Il direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo, conferma: “Abbiamo gli spazi e molti detenuti che avrebbero diritto alla stanza dell’affettività. La sentenza spiega chiaramente che non è necessario aspettare il legislatore, dunque siamo in attesa delle linee guida che usciranno dal tavolo tecnico aperto dal Governo per poter agire concretamente”. Il grande ostacolo dunque è il “come”. La sentenza riserva il diritto all’affettività a chi ha relazioni stabili e continuative: persone sposate, conviventi, e, naturalmente, i figli. I detenuti non sono molto fiduciosi: non credono si realizzerà mai. Le testimonianze raccontate durante la giornata di studi fanno ancora più male: figli che hanno visto spezzarsi il rapporto con il genitore, partner la cui vita sentimentale è stata congelata a forza. Zaccaria è un giovane adolescente. Ha frequentato il carcere fino ai 7 anni per far visita al padre. Non ha mai parlato di quelle visite. Finché, con la scuola (grazie al progetto Scuole in carcere) è tornato proprio al Due Palazzi. “Ho rivissuto all’improvviso la mia esperienza di bambino” racconta, “ho riconosciuto i luoghi e ricordato come un pugno nello stomaco quella stanzetta blu con i giocattoli che voleva sembrare allegra ed era solo triste, condivisa con altre famiglie, privata di tenerezza o fiducia. Allora alle persone dico: se non volete accettare una vita sessuale per i detenuti, pensate almeno a noi, figli incolpevoli che desiderano solo vivere la propria famiglia”. Così Enrico, 22 anni, di Mortise, oggi detenuto e, prima, figlio di detenuto: “Chissà, magari se mio padre avesse potuto preservare la storia con mia mamma, io oggi non sarei qui”. Sono storie dolorose, scampoli di vita commoventi: “La mia bambina più grande, Carlotta, ha iniziato ad avere crisi epilettiche dopo il mio arresto” racconta Marino, un altro detenuto: “Erano provocate dall’angoscia da separazione perché io non ero più a casa: aveva appena 7 anni. Quando poi ha iniziato a venire a trovarmi, prima di avere una crisi si nascondeva nell’armadio: voleva condividere con me la prigione, a modo suo. L’altra figlia, Laura, che pensavo non avesse subito traumi, alla morte del suo fidanzato paragonò quel lutto al mio arresto: nella sua mente di ragazza la mia detenzione era un lutto. I nostri figli non sono vittime secondarie, come vengono definiti, sono vittime primarie che pagano colpe che non hanno commesso”. A sollevare la questione costituzionale, dalla quale è poi arrivata la sentenza, è stato Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza a Terni: “Ogni carezza scambiata nella stanza degli affetti cancellerebbe i graffi che un detenuto si porta addosso” commenta, “è una legittima aspettativa perché è un diritto della persona, che la sentenza ha messo in evidenza. Sono 31 i Paesi che hanno trovato delle soluzioni, arrivare dopo significa poter prendere esempio, ma non ci sono più scuse per negare questo diritto”. Sisto: “Lavoro in carcere fondamentale contro le recidive” di Davide Varì Il Dubbio, 19 maggio 2024 Il viceministro della Giustizia è intervenuto al Festival Giustizia penale di Modena “La Vita e la Morte nella Giustizia Penale” che si concluderà domani. “Quando si parla di detenzione negli istituti penitenziari, occorre fissare un principio: il carcere non può essere un tempo vuoto. Per attuare il disposto dell’art.27 della Costituzione non c’è un unico antidoto: sono necessarie terapie articolate, avvalendosi di un gioco di squadra”. Sono le parole del vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto intervenendo al Festival Giustizia penale, in svolgimento fino a domani tra Modena, Carpi, Sassuolo, Pavullo, che è intitolato “La Vita e la Morte nella Giustizia Penale”. Il viceministro Sisto ha ricordato come l’inserimento lavorativo dei detenuti sia “un toccasana, statistiche alla mano, su cui noi stiamo investendo tantissimo. Si possono ricordare le tante convenzioni in essere con una serie di stakeholders che mettono a disposizione la propria organizzazione per favorire il lavoro penitenziario. Ad esempio, ho visitato il carcere di Santa Maria Capua Vetere: lì c’è un laboratorio di pasticceria, c’è una sartoria che confeziona camicie per la polizia penitenziaria e c’è una convenzione con una nota marca che confeziona cravatte. Si tratta di percorsi che possono aiutare ad evitare, attraverso il lavoro, il fenomeno drammatico della recidiva”. Francesco Paolo Sisto ha insistito molto proprio sull’importanza del lavoro per il reinserimento: “Soltanto il 2% degli ex detenuti che lavorano rientra in carcere, contro il 68-69% di chi non lavora. La cultura dell’esecuzione penale diversa dal carcere è un altro di quei quadranti che bisogna certamente valorizzare, e anche la magistratura in questo caso deve fare la sua parte favorendo il ricorso alle pene alternative. Spesso vige l’equazione più carcere = più sicurezza. Io sono convinto dell’esatto contrario, ovvero che la maggiore sicurezza sia garantita da una pena dosata sul singolo, che abbia come riferimento, insieme alla componente naturalmente retributiva, la rieducazione per consentire di vedere la luce in fondo al tunnel. L’idea “carcerocentrica” è profondamente sbagliata”. “Con il tema scelto per la quinta edizione del 2024, “La Vita e la Morte nella Giustizia Penale”, - ha spiegato il professor Luca Lupària Donati, Ordinario di Diritto processuale penale e Direttore scientifico Festival Giustizia penale - abbiamo deciso di andare al cuore del paradigma criminale, spaziando dall’inizio al fine vita, dai suicidi nelle carceri al trattamento che il sistema penale riserva ad aspetti centrali delle nostre esistenze; dagli “effetti collaterali” del processo penale sulla vita delle persone alla importanza che il “corpo morto” ricopre nelle attività di indagini; dalle riflessioni criminologiche sull’omicidio alle morti per violenza di genere. La giornata della domenica sarà invece, come sempre, dedicata ad un altro tema, in questo caso ai rapporti tra giustizia penale ed Europa. La nostra mission rimane sempre la stessa: favorire il dialogo tra cittadini e mondo della giustizia, attraverso linguaggi non paludati e l’impiego di forme comunicative che avvicinino a temi di non facile comprensione”. Tra i numerosi ospiti importanti giuristi, anche provenienti dall’estero, esponenti della magistratura e dell’avvocatura, oltre a politici, opinionisti, intellettuali e giornalisti che si rivolgeranno ai non addetti ai lavori. Ecco alcuni nomi: Giuliano Amato, Giulia Bongiorno, Padre Benanti, Vittorio Manes, Giuseppe Santalucia, Francesca Scopelliti, Rita Bernardini, Margherita Cassano, Roberto Formigoni, Enrico Costa, Chiara Lalli, Ricky Jackson (condannato a morte da innocente), Carlo Nordio, Andrea Orlando, Mauro Palma, Giovanni Salvi, Francesco Viganò, i nostri giornalisti Gennaro Grimolizzi e Valentina Stella. La riforma è soft: separazione delle carriere, azione penale obbligatoria e paletti per l’Alta corte di Francesco Bechis Il Messaggero, 19 maggio 2024 Il 29 maggio via libera del Cdm alla separazione delle carriere. Dieci giorni e la riforma della Giustizia avrà il primo via libera in Consiglio dei ministri. Sul tavolo di Palazzo Chigi il 29 maggio atterrerà il Ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, da un lato i pm, dall’altro i giudici. L’ha promesso Giorgia Meloni e così sarà: prima delle Europee la riforma un tempo cara a Silvio Berlusconi otterrà un semaforo verde iniziale. Intanto però si lavora alle limature di un testo che ha già messo sul piede di guerra buona parte della magistratura associata e delle opposizioni ed è seguito con grande attenzione dal Quirinale. Anche per questo, d’intesa con la premier, il Guardasigilli Carlo Nordio ha lavorato per smussare gli angoli più spinosi. Ad esempio l’obbligatorietà dell’azione penale, che non sarà toccata dal testo. Rimarrà obbligatoria per i pm, come prevede oggi l’articolo 112 della Costituzione, e non “discrezionale” come una parte del centrodestra avrebbe voluto. E ancora, l’istituzione di un’Alta corte, il nuovo organo di tutela giurisdizionale contro i provvedimenti assunti dai due Consigli superiori della magistratura che sorgeranno una volta entrata in vigore la riforma, uno per gli inquirenti, l’altro per i magistrati giudicanti. Uscita a sorpresa dal vertice sulla Giustizia di Meloni con Nordio e i responsabili del governo due settimane fa, l’Alta corte è diventata subito oggetto di accesissime polemiche tra i togati, a partire dall’Associazione nazionale magistrati. E chissà che basti a sgonfiarle la strada imboccata dalla maggioranza negli ultimi giorni: il tribunale “terzo” avrà competenza solo sui ricorsi dei provvedimenti disciplinari dei due Csm. Cioè le decisioni che incidono sulla carriera di pm e giudici assunte dall’organo di autogoverno. Mentre non si potranno impugnare tutte le altre delibere. Resteranno fuori, ad esempio, le delibere amministrative del Csm, che invece rientravano nei progetti per un’Alta Corte presentati a più riprese negli ultimi vent’anni da volti noti della politica, da D’Alema a Violante. In altre parole, il nuovo tribunale non si sostituirà alla Cassazione che resta, per queste altre delibere, il giudice adito contro i ricorsi del Csm. Per il resto l’Alta Corte - su cui molto ha insistito Forza Italia - sarà un pilastro della riforma in cantiere. Composta da due sezioni, con la possibilità di impugnare le decisioni della prima di fronte a un plenum. Ma non è questo l’unico capitolo caldo della separazione delle carriere. Occhi puntati sulla selezione dei membri togati del Csm. Come è già trapelato, sarà previsto un sorteggio delle toghe che dovranno sedersi a Palazzo dei Marescialli. L’idea è assestare un colpo duro al correntismo che da sempre scandisce riti e decisioni delle toghe nel Csm. Probabile che si opti, nella prima bozza pronta al via, per un sorteggio secco. Rinviando più in là, durante l’iter in Parlamento, eventuali ritocchi, con la previsione di un sorteggio temperato: una prima selezione di magistrati estratti a sorte tra cui poi saranno scelti i togati del Csm. Nel complesso, a giudicare dalle indiscrezioni che trapelano tra Palazzo Chigi e via Arenula, viene fuori una riforma “soft”. Altro che interventi a gamba tesa: entra in punta di piedi nel terreno dei magistrati. Il diavolo è di nuovo nei dettagli. Ad esempio la decisione di affidare a una legge ordinaria la regolamentazione dell’accesso alla magistratura. È un punto spinosissimo della riforma. Se le carriere di pm e giudici devono essere separate, come si fa a lasciare un concorso unico per entrare in magistratura? L’Anm anche su questo ha montato le barricate: nessuno tocchi il concorso. Sicché alla fine il governo ha optato per un rinvio. Perfino un pilastro della riforma - l’istituzione di due diversi Csm - atterrerà in Cdm scritto a matita. Il Ddl in arrivo a Palazzo Chigi prevederà sì un doppio Consiglio. Ma chi conosce il lavorio tecnico dietro al testo non ci mette la mano sul fuoco e ritiene probabile che in Parlamento si possa arrivare a un altro assetto: un solo Csm, con due sezioni separate al suo interno. Sarebbe una rivoluzione a metà, questo è certo. Un’altra novità di peso nella riforma riguarda i membri laici del Csm. Nei giorni scorsi l’Associazione dei magistrati europei aveva tuonato contro la presunta intenzione del governo Meloni di prevedere un sorteggio anche per i membri laici. Indiscrezione seccamente smentita da Palazzo Chigi anche se, a dire il vero, l’ipotesi era circolata nelle prime riunioni tecniche a Roma. La novità è questa: sarà messo nero su bianco il divieto di nominare fra i laici parlamentari e consiglieri regionali in carica. E non è escluso che questo divieto si estenda agli ex parlamentari, che fino ad oggi hanno spesso preso posto al tavolo di Palazzo dei Marescialli. Una soluzione per restringere il cerchio ad avvocati e professori e scavare un solco tra politica e Csm. Insomma, non sarà una rivoluzione e neanche un pranzo di gala la riforma dei giudici italiani che questa volta davvero è a un passo dal prendere vita. Riforma del Csm, una proposta oltre il sorteggio di Michele Ainis La Repubblica, 19 maggio 2024 Il Consiglio superiore della magistratura è il vero punto di crisi del sistema. Politica e giustizia abitano mondi contrapposti. La prima è sempre parziale, partigiana: ogni partito politico offre, per definizione, una visione di parte dell’interesse generale. La seconda, viceversa, deve essere imparziale, come afferma l’articolo 111 della Costituzione. Dunque la regola che governa il loro difficile rapporto consiste nella separazione, nella reciproca distanza fra questi due universi. Succede tuttavia il contrario, ed è qui la ragione dei conflitti che quotidianamente oppongono politica e giustizia. C’è un modo per disinnescarli? All’imparzialità del giudice l’Associazione nazionale magistrati ha dedicato il suo 36° congresso, che si è chiuso domenica 12 maggio a Palermo. È un concetto diverso dalla neutralità, perché quest’ultima non prende posizione: il neutrale lascia che le cose vadano per il proprio verso, e in genere vanno a vantaggio del più forte. Invece un giudice deve condannare o assolvere, così come un professore deve promuovere o bocciare. E per esercitare al meglio la propria funzione gli servono equilibrio, equidistanza, assenza di pregiudizi. L’imparzialità è “la somma delle virtù”, diceva Norberto Bobbio. Ma per il giudice non è sufficiente essere imparziale: deve anche apparire imparziale. Qui allora si passa dall’aspetto interno - per così dire psicologico - dell’imparzialità, a quello esterno, esteriore. E l’apparenza dell’imparzialità si guadagna attraverso procedure che tengano al riparo i magistrati dalle sirene della politica. Non per nulla la Costituzione (articolo 98) vieta ai giudici d’iscriversi a un partito. Per converso, lo stesso limite dovrebbe però imporsi rispetto a qualsiasi interferenza dei partiti, dei parlamentari, dei ministri, sulla gestione della magistratura. È il contagio, la contaminazione tra funzioni politiche e giurisdizionali, il male da evitare. Questo male s’affaccia viceversa negli incarichi di collaborazione con la politica attraverso ministeri e vari apparati burocratici, da cui consegue il collocamento fuori ruolo del magistrato. Che diventa perciò consigliere del politico, anziché custode, controllore. Sarebbe meglio, molto meglio, vietare tassativamente questi incarichi. O al limite restringerli all’arco di una legislatura, dimezzando il termine di 10 anni dettato da una legge del 2012. Anche per scongiurare “carriere parallele”, che sottraggono risorse alla giurisdizione. Ma è il Csm il vero punto di crisi del sistema. Le regole della sua composizione, il modo distorto con cui vengono applicate. Perché i 10 membri laici - eletti dalle Camere - introducono istanze e interessi della maggioranza parlamentare nell’organo di autogoverno della magistratura. E perché i 20 togati - eletti dagli stessi magistrati - per lo più rispondono alle correnti giudiziarie, in una logica a sua volta partitica, sotto mentite spoglie. Ma adesso sul Csm incombe una riforma. Se quest’ultima puntasse a ridimensionare il peso della componente giudiziaria, dovremmo pronunziare un altolà: è semmai l’opposto che bisogna fare. Quanto all’uso del sorteggio per decidere tutti i membri togati - già annunciato dal governo - sarà bene aggiungere qualche istruzione per l’uso. Non che si tratti d’una procedura antidemocratica. La democrazia nasce col sorteggio, nell’Atene del V secolo a.C. E sono innumerevoli le sue recenti applicazioni. Perfino Macron ne ha fatto uso, istituendo una commissione di 150 cittadini estratti a sorte, con il mandato d’avanzare proposte contro il riscaldamento climatico. Ma rispetto al Csm il dosaggio dev’essere omeopatico. A tre condizioni. Primo: 10 membri su 20, gli altri 10 restano elettivi. Per non espropriare i magistrati del diritto di voto, per tagliare le unghie alle correnti senza infliggere un’umiliazione al potere giudiziario. Secondo: il sorteggio dei migliori. Ossia quanti si distinguano per laboriosità, per correttezza, per l’indice di decisioni confermate in appello. Non si può correre il rischio di sorteggiare un Totò Riina con la toga. Terzo: i membri laici. La maggioranza se ne è accaparrata 7 su 10, e ha fatto anche di peggio scegliendo i componenti dei Consigli di presidenza delle magistrature speciali: 9 su 12, tanto che il Pd non ha partecipato al voto. Per sconfiggere questo malcostume, occorre scolpire una regola di ferro: metà alla maggioranza, metà alle opposizioni. Altrimenti, già che ci siamo, sorteggiamo pure loro, e non se ne parli più. Csm, il monito di Pinelli: “Il magistrato può essere un influencer, faccia attenzione” di Giulia Merlo Il Domani, 19 maggio 2024 Al Consiglio il convegno “Magistratura e social network”, il vicepresidente ha sottolineato le nuove responsabilità delle toghe nel mondo del web. Il togato Marcello Basilico, presidente della commissione che ha organizzato il convegno, “Riflettiamo su come il magistrato si pone sui social”. Davanti al susseguirsi di casi in cui i post dei magistrati sui social network diventano fonte di polemiche o di imbarazzi, il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di intervenire con un convegno per riflettere. L’ultimo caso mediatico in ordine di tempo ha riguardato il cosiddetto caso Apostolico, ovvero il caso della giudice di Catania la cui ordinanza in materia di custodia dei migranti nei cpr ha scatenato lo scontro col governo. Nei giorni seguenti alla decisione, i media hanno pubblicato alcuni suoi post su Facebook in cui esprimeva posizioni critiche nei confronti dell’esecutivo Conte I per la gestione del problema migratorio. Vista la centralità della questione, anche i gruppi associativi nelle scorse settimane si sono interrogati sul tema. Ora, però, il dibattito si è spostato anche nel Consiglio, in una due giorni dal titolo “La magistratura e i social network”, che è una tappa in direzione dell’obiettivo finale di elaborare delle linee guida che prevedano avvertenze sull’uso dei social. L’intervento di Pinelli - Il vicepresidente Fabio Pinelli ha introdotto il convegno, dicendo che di fronte alla comunicazione social la magistratura “non si deve porre solo nell’ottica tradizionale dell’esercizio dei diritti, di quale siano i diritti dei magistrati al riguardo e di quali limiti possano essere configurati”, ma anche e soprattutto “nell’ottica delle crisi reputazionali, soprattutto della reputazione dell’istituzione e della sua legittimazione costituzionale, che tale comunicazione può innescare”. Esistono quindi nuove responsabilità in capo alla magistratura, per “prevenire, gestire e comunicare le crisi reputazionali, nella consapevolezza delle conseguenze che queste possono avere sugli stessi equilibri istituzionali e costituzionali”. Anche perchè, ha spiegato Pinelli, sul web “non vige la regola dell’uno vale uno, al contrario importa chi parla, forse ancor più di cosa dice e di come lo argomenta. In fondo, si potrebbe proporre, a livello di provocazione intellettuale, di pensare al magistrato come a un influencer, con tutto ciò che questo significa e può significare in punto di innesco, gestione e comunicazione delle crisi reputazionali”. Il punto di caduta del discorso riguarda l’apparenza di imparzialità di chi indossa la toga: “Se l’imparzialità assume un ruolo costituzionale decisivo nella magistratura tutta, giudici e pubblici ministeri, sia come garanzia di autonomia e indipendenza, sia come dovere del magistrato, per ottenere quella fiducia e quell’affidamento della collettività che deriva dall’autorevolezza dell’agire, allora la magistratura deve avere consapevolezza che nell’era della comunicazione digitale l’imparzialità è, e sarà sempre più, imparzialità percepita e che ogni crisi nella percezione dell’imparzialità potrà funzionare da innesco di una crisi reputazionale non solo del singolo ma addirittura dell’istituzione”. Le parole di Basilico - Il presidente della sesta commissione, Marcello Basilico, nel suo indirizzo di saluto, ha ripreso il tema dell’imparzialità del magistrato e dell’impatto dell’utilizzo dei social network. “Non è casuale che il dibattito pubblico sull’apparire imparziali dei magistrati sia oggi dilatato a dismisura: esso è il portato non solo delle contingenze politiche, ma anche o soprattutto da una rivoluzione digitale che costringe ad aggiornare lo strumentario del diritto, per primo quello del diritto costituzionale”. Basilico si è soffermato sul rapporto tra imparzialità e diritto alla libera manifestazione del pensiero: “I Costituenti hanno voluto rimarcare che la giurisdizione non si amministra ‘per’ il popolo, non è dunque sensibile al consenso della pubblica opinione. Ma vale la pena interrogarsi su come si ponga il magistrato quando, attraverso blog, post, forum o comuni like, diffonda messaggi che dimostrino la sua aspirazione all’approvazione sociale nel mondo virtuale”. Proprio la questione del valore dei comportamenti online è diventata di cruciale importanza e Basilico ha ricordato un recente intervento del capo dello Stato Sergio Mattarella alla Scuola superiore della magistratura, dove ha invitato “alla maggiore sobrietà nei comportamenti e nelle esternazioni sui social, e dall’altro a dipanare la matassa concettuale dell’apparenza d’imparzialità, sfuggendo al pericolo che questa offuschi il primo e vero pre-requisito del magistrato, che è l’indipendenza, nelle sue componenti di dovere essere e responsabilità”. La tavola rotonda - La seconda giornata ha avuto al centro i limiti alla comunicazione dei magistrati ed è stata presieduta dal Direttore dell’Ufficio Studi e Documentazione e Vicepresidente della Sesta Commissione, Roberto Romboli, che ha posto l’accento sulla legittimazione del magistrato. Nel merito è entrato il costituzionalista Massimo Luciani, secondo cui è vero che “il magistrato è titolare dei medesimi diritti che sono riconosciuti a tutti i cittadini. Tra questi diritti vi è la libertà di manifestazione del pensiero”, ma “la delicatezza della funzione impone al magistrato di esercitare quel diritto di libertà con lo stile, la prudenza e l’intelligenza che devono essere propri di chi è gravato da compiti di grandissima importanza”. Secondo la Prima Presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano, “serve uno sforzo di ciascuno di noi nell’uso di un linguaggio diverso all’interno dei nostri provvedimenti: un linguaggio che rifugga -laddove possibile- da inutili tecnicismi e sfoggi di erudizione, semplificando senza banalizzare. È questa la nuova prospettiva culturale che ci viene richiesta, quella del dovere etico di comunicare nel rispetto delle regole processuali”. Il Procuratore Generale della Cassazione Luigi Salvato si è invece concentrato sui limiti nella comunicazione extra istituzionale stabiliti da norme di diritto positivo e la cui violazione può dare luogo a responsabilità disciplinare e ha sottolineato l’importanza di agire sulla formazione, “abbandonando la tentazione dell’autoreferenzialità, riscoprendo invece il significato della funzione come dovere e rafforzando il sistema deontologico e di valutazione della professionalità”. Per il Presidente del Consiglio di Stato Luigi Maruotti ha portato invece la prospettiva della magistratura amministrativa, dopo l’approvazione nel 2021 della delibera sulla comunicazione e i Social. “I magistrati devono non solo essere, ma anche apparire imparziali e vanno evitati quei comportamenti sui social, che possano far dubitare della loro imparzialità” e “l’obiettivo è quello di prevenire comportamenti inappropriati, attraverso la formazione dei magistrati, al fine di rendere le sentenze immuni da considerazioni concernenti la composizione dei collegi”. La grottesca caricatura del garantismo di Carlo Bonini La Repubblica, 19 maggio 2024 In questi diciotto mesi di governo, abbiamo assistito allo spettacolo di una destra convinta che la definizione della propria legittimità politica alla guida del Paese passi attraverso un regime speciale che la sottragga al controllo di legalità. Incapace di emanciparsi dal rancore politico figlio del ventennio berlusconiano e sprovvista di un orizzonte e di una cultura compiutamente riformatrici, ha aggredito il già fragile e malfermo pilastro della nostra democrazia che chiamiamo giustizia con la sgangherata frenesia e incoerenza di chi si sente investito del compito di saldare i conti con la storia repubblicana recente per definirne un nuovo inizio. Un’avventura annunciata e accompagnata in questo anno e mezzo di governo dall’appropriazione e dall’uso fraudolento ed enfatico di una parola d’ordine che, storicamente, alla destra non appartiene - garantismo - e dalla necessità di dissimulare l’incompatibilità, all’interno della maggioranza, di culture politiche e di un’idea della giustizia molto diverse tra loro. Parliamo del sostanzialismo panpenalistico di FdI (come dimenticare che il primo decreto legge del governo venne speso per introdurre il reato di rave party, o il decreto Caivano), della concezione classista della giustizia di FI, del populismo giudiziario dalle radici giustizialiste della Lega. L’effetto prodotto da questa commistione è stata un’agenda politica incoerente e ideologica di cui il ministro di giustizia, Carlo Nordio, è stato ed è, di fatto, un semplice ventriloquo. È accaduto così che Forza Italia abbia avuto campo libero nel dare corso all’ossessione del suo fondatore: la resa dei conti con le Procure della Repubblica e la definizione di un processo penale implacabile con i deboli e disarmato con i forti. E di cui gli interventi sulle intercettazioni telefoniche, la separazione delle carriere dei magistrati, la prescrizione, la cancellazione dell’abuso di ufficio, i test psicoattitudinali per i magistrati sono altrettanti corollari. Ed è accaduto che mentre si vendeva tutto questo al Paese come la realizzazione di una nuova stagione di riformismo “garantista”, di affrancamento dall’”uso politico della giustizia penale”, FdI e la Lega utilizzassero il terreno della giustizia penale per colpire l’opposizione con un grado di spregiudicatezza che non ha precedenti. Pensiamo al caso degli ascolti in carcere dell’anarchico Cospito utilizzati dal sottosegretario alla Giustizia Delmastro per calunniare parlamentari del Pd. O all’insediamento strumentale della commissione di accesso agli atti del Comune di Bari disposta dal ministro Piantedosi per colpirne il sindaco uscente e candidato alle elezioni europee Decaro e intossicare, facendola deragliare, la campagna elettorale per il suo successore. La verità è che in questi diciotto mesi di governo, abbiamo di fatto assistito a uno svuotamento del principio di uguaglianza di fronte alla legge e allo spettacolo di una destra convinta che la costruzione e consolidamento del consenso, che la definizione della propria legittimità politica alla guida del Paese passino attraverso un regime speciale di garanzie che la sottragga al controllo di legalità o, quantomeno, che renda quel controllo privo di ogni efficacia sostanziale. Che l’uso del Trojan sia dunque legittimo nei confronti del sospettato di mafia, ma non del politico o dell’amministratore corrotto. Alla base di questo convincimento, evidentemente, c’è un’idea peculiare della politica e della democrazia. Quella in cui il voto popolare diventa il lavacro di ogni possibile responsabilità, oltre che il viatico a una condizione di immunità permanente, e il sistema di bilanciamento e controllo dei poteri - di cui la giustizia è uno dei cardini - degrada a semplice corollario del potere esecutivo. Salvo che non si adegui a farsene strumento. Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con il garantismo. O con una concezione liberale della giustizia. Ne è soltanto una grottesca caricatura. Che trova oggi terreno fertile a valle di un trentennio in cui i pochi tentativi di riforma della giustizia o sono stati annichiliti nella culla o sono stati sapientemente smontati e sfigurati da successive controriforme. Nella sua declinazione “giudiziaria”, il populismo della destra capitalizza e trasforma in agenda politica l’umore di quella parte di Paese che nel principio di legalità e uguaglianza di fronte alla legge vede un ostacolo, un’imposizione e non uno strumento di coesione che definisce la qualità di una democrazia. Non è un caso che è nella aggressione e riscrittura degli istituti che definiscono il sistema giudiziario di un Paese e le norme del suo diritto sostanziale (penale, civile e amministrativo), nello svuotamento dei poteri di controllo e bilanciamento del potere esecutivo che affondino le fondamenta di ogni progetto autocratico. Ignorarlo, in questo delicatissimo passaggio della nostra storia repubblicana, equivale a rassegnarsi a un futuro da cittadini meno uguali e meno liberi. Suicidi e sovraffollamento nelle carceri, Campania maglia nera di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 19 maggio 2024 L’allarme dei Garanti: nella nostra regione già 5 i detenuti che si sono tolti la vita. E Poggioreale scoppia. L’ultimo caso risale appena a due giorni fa, quando nella sua cella di Poggioreale è morto - in circostanze che sono in corso di accertamento - un 39enne che aveva alle spalle problemi di tossicodipendenza. In Campania, dal 2024, si sono registrati cinque suicidi e, con l’ultimo caso, altrettante morti per altre cause, alcune da accertare. La nostra regione conta, fino al mese di aprile appena passato, 7573 reclusi sui 5645 posti disponibili nelle varie strutture, raggiungendo così il secondo posto per sovraffollamento in Italia, dopo la Lombardia che con 8944 detenuti su 5827 posti disponibili è maglia nera nazionale. Vengono i brividi a leggere i numeri forniti ieri dal garante campano per i detenuti, Samuele Ciambriello, e dal suo omologo per la città di Napoli, don Tonino Palmese. Sono trascorsi due mesi dall’appello contro i suicidi in carcere - in relazione al quale il Presidente della Repubblica invitava la classe politica del nostro Paese ad adottare urgenti misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiani - ma l’allarme resta. Ciambriello ha evidenziato alcune proposte: l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento, accesso a misure alternative per i detenuti, riordino del circuito della media sicurezza e l’importanza della “affettività” in carcere, aumentando telefonate e videochiamate, con più figure sociali di ascolto. “Voglio ricordare gli 83 morti in Italia - ha detto - di cui 37 per suicidio, e i quattro agenti che si sono suicidati dall’inizio dell’anno”. Don Tonino Palmese, garante comunale di Napoli, ha evidenziato i dati relativi al carcere di Poggioreale: con 2067 detenuti e capienza di 1358 posti disponibili. L’indice di sovraffollamento è di 152,21 per cento. “Troppi i detenuti tossicodipendenti e malati di mente a Poggioreale - ha ricordato - Occorrono progetti di inclusione sociale, occorrono professionisti che curino malattie mentali, occorre un’equipe multidisciplinare”. Toccato anche il tema della pena residua con 2706 detenuti in tale condizione. I reclusi tossicodipendenti, dichiarati dal garante campano Samuele Ciambriello, al 31 dicembre 2023, erano 1024 nella regione. Dati allarmanti anche per i minori detenuti, che sono aumentati in tutta Italia e Campania dopo l’applicazione a novembre del “decreto Caivano”. A Nisida sono presenti 66 giovani ristretti e ad Airola 29. Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale, fino al 15 aprile 2024: Italia 16303 e Napoli 964. Il primo nodo resta, insomma, il sovraffollamento. “Un dramma - continua Ciambriello - che si vince anche e immediatamente con misure alternative al carcere, per coloro che - per esempio - nella nostra regione, devono scontare una pena residua di 2 anni, e che sono ben 2706; e poi facendo uscire subito i 503 detenuti che devono scontare appena otto mesi di carcere. C’è bisogno subito, a Poggioreale, per i malati di mente, che sono più di 200, di un’unità operativa dipartimentale di salute mentale, un’equipe multidisciplinare con psichiatri, psicologi, educatori, infermieri, assistenti sociali. Insomma, come c’è un SERD, area penale per tossicodipendenti, deve esistere anche un’area operativa semplice di dipartimento di salute mentale, cosa tra l’altro prevista da una delibera della Regione Campania”. Brescia. Carcere sovraffollato. La Garante dei detenuti: “Chiaro disinteresse di tutti” di Chiara Pacella Il Giorno, 19 maggio 2024 Luisa Ravagnani solleverà ogni mese il problema dei suicidi vissuto anche a Canton Monbello. Tra le misure per alleviare i disagi: telefonate illimitate alle famiglie, come negli altri Paesi. Il 18 marzo era arrivato l’appello del Presidente della Repubblica a intervenire urgentemente sui suicidi in carcere. Due mesi dopo, nulla è cambiato: lo denuncia con forza, e lo farà ogni 18 del mese, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il comune di Brescia, Luisa Ravagnani, in linea con l’iniziativa della Conferenza nazionale dei Garanti. “I gravi problemi che da tempo sono denunciati da garanti, addetti ai lavori e, non ultimi, dai detenuti stessi - spiega - sono ormai noti e la mancanza di risposte adeguate non può più essere ricondotta a eventuali necessità di approfondimento e analisi. Pare allora non sia più tempo di parlare di emergenza ma, nella migliore delle ipotesi, di disinteresse politico nei confronti di detenuti, agenti di polizia penitenziaria, personale che opera negli istituti e, di conseguenza, della collettività esterna. Il preoccupante numero di suicidi all’interno della popolazione detenuta (già 34 da inizio anno) rappresenta solo la punta di un enorme iceberg”. Le problematiche sono note: sovraffollamento, difficile accesso alle misure alternative, ma anche la necessità di inserire una nuova disciplina relativa alle telefonate che, come nella maggior parte dei Paesi europei, dovrebbero essere illimitate, almeno per i detenuti comuni. “La possibilità di sentire quotidianamente i familiari risulta un forte elemento di riduzione dello stress inframurario e rafforzamento dei legami familiari, necessari per un efficace reinserimento post pena. Vale la pena ricordare - sottolinea Ravagnani - che questa misura è già stata attiva per tutta la durata del periodo di emergenza pandemica e ha ampiamente dimostrato la sua efficacia positiva”. La Garante ricorda che la situazione bresciana è fra le più difficili nel panorama nazionale, in termini di condizioni detentive e, per questo, auspica un intervento immediato ed efficace per la riduzione dei numeri delle presenze negli istituti cittadini. Tra i correttivi applicabili al sovraffollamento che costringe i detenuti a vivere in condizioni non dignitose per nessun essere umano, c’è quello evidenziato dal gruppo Carcere per i Diritti Umani, della casa circondariale Nerio Fischione, sulle modalità di applicazione della liberazione anticipata. “Nel documento - conclude Ravagnani - non c’è alcuna volontà di sottrarsi alle responsabilità derivanti dal reato ma, al contrario, un sincero desiderio di dimostrare a se stessi e alla collettività la capacità di cambiamento in positivo”. Reggio Calabria. “Orientarsi verso un riconoscimento collettivo dei percorsi di risocializzazione” reggiotoday.it, 19 maggio 2024 In occasione della iniziativa “Indignarsi non basta più!”, promossa dalla Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale ed a due mesi esatti dall’appello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella interviene il consigliere comunale Antonino Castorina. “Tutte le istituzioni non possono che aprire una riflessione corale sulle situazioni di emergenza che vivono le carceri in Italia. L’idea di promuovere iniziative tese alla formazione di chi è sottoposto a provvedimento dell’autorità giudiziaria penale e alla creazione di prospettive lavorative consente una concreta applicazione di quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione italiana ed in generale un risparmio ed un investimento per l’azienda o l’impresa che intenda procedere su questa direzione oltre ad offrire e prospettare uno spiraglio di vita nuova per chi ha espiato e sta espiando la propria pena ed è consapevole degli errori commessi”. La necessità su cui si dovrebbe incentivare un impegno istituzionale o comunque un interesse pubblico - prosegue Castorina - è quella di orientarsi verso un riconoscimento “collettivo” dei percorsi di risocializzazione a partire da quelli avviati durante la detenzione fino a quelli attivati attraverso misure penali a carattere non detentivo e verso soluzioni che consentano di rescindere in maniera indissolubile i legami con un passato negativo o comunque grigio e nebuloso rilanciando allo stesso tempo il tema di un reinserimento gradato ma mirato in un contesto sociale che supera l’aspetto problematico che ha causato al singolo individuo la misura coercitiva subita ovviamente con dei bilanciamenti connessi al tipo di reato contestato e per il quale è stata accertata la penale responsabilità. Su questa prospettiva che gode di una tutela costituzionale granitica è interesse degli enti istituzionali e soggetti del territorio promuovere forme di sinergica collaborazione che metta insieme i vari livelli di governance con il mondo delle imprese, con le associazioni di categoria e con gli ordini professionali al fine di rendere concreti ed attuali progettualità ed azioni positive rivolte. alle persone adulte e minori sottoposte a provvedimento dell’autorità giudiziaria. La prospettiva è più ampia di quella che si possa immaginare perché offre una risposta alle zone grigie di marginalità che vivono intere zone e quartieri delle nostre città popolate da potenzialità umane e professionali limitate da un lato dal pregiudizio dall’altro dalla oggettiva difficolta di re-inserimento sociale e lavorativo. Con la realizzazione di una prospettiva - dice ancora il consigliere - che vede coinvolti gli imprenditori del territorio abbiamo da un lato l’avvio di un percorso di riabilitazione del detenuto, utile alla sicurezza e al benessere di tutti dall’altro un’attività svolta a favore dell’impresa con costi ridotti veicolando all’esterno un’immagine fattuale di credibilità di quella che è l’impalcatura Costituzionale ad oggi vigente in Italia. In base all’ultimo aggiornamento disponibile il dato relativo ai detenuti che grazie alla legge 139/2000 lavorano per cooperative sociali e imprese esterne, evidenzia un costante incremento progressivo nel tempo, un dato incoraggiante che può essere ancora potenziato con le giuste sinergie istituzionali e con una campagna di comunicazione mirata e specifica. Il dato che ha evidenziato il garante regionale dei diritti dei detenuti in cui rende noto che a Parma si è consumato il trentaquattresimo suicidio di una persona detenuta dall’inizio del 2024, di un giovane di appena 25 anni al quale si aggiungono i quattro suicidi degli agenti di polizia penitenziaria sono elementi sintomatici di un sistema che merita una rifondazione complessiva ed un approccio diverso. Oggi la prospettiva deve essere di creare lavoro e supportare le imprese in un quadro di armonia e di oggettiva sostenibilità per dare una prospettiva ai detenuti, intervenire in modo netto sul tema del sovraffollamento carcerario, dare piena attuazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati ed attenuare la circolare 2022 sul circuito di media sicurezza rilevato che nelle carceri italiane la maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse con limitatati spazi di aria e libertà e riformare la liberazione anticipata implementando i giorni e rendendo più snella la normativa tramite la corretta valutazione e applicazione che può fare direttamente la direzione del carcere. La società dell’inclusione passa anche da questa scommessa che non è solo umana e sociale ma anche legata all’obiettivo che si vuole dare con la detenzione in carcere. Così facendo - conclude - avremo città più sicure, maggiore lavoro e più incentivi da immettere nel circuito economico e produttivo del nostro territorio ma soprattutto interveniamo su un sistema che fa acqua da tutte le parti e che merita una riforma complessiva e generale. Monza. Detenuti esperti di e-bike con Bosch di Sarah Valtolina Il Cittadino di Monza e Brianza, 19 maggio 2024 Bosch è entrata nella casa circondariale di Monza con il progetto pilota “Ricomincio da me”, il primo intervento della multinazionale dentro un carcere. Lo ha fatto con un corso di formazione di 82 ore che ha preso il via lo scorso 22 aprile e si è concluso ieri. Quindici i detenuti che hanno partecipato al progetto. Un’iniziativa improntata sull’apprendimento di competenze e tecniche per diventare specialista di ebike, ma non solo. Bosch ha voluto dedicare alcune ore del corso anche all’acquisizione di quelle che sono definite le soft skills, quelle competenze che diventano bagaglio fondamentale per chi cerca uno sbocco nel mondo del lavoro: dalle tecniche di vendita alla crescita personale con sessioni appositamente dedicate al cambiamento e al personal branding. Un progetto che ha convinto la dirigenza di Bosch che esporterà l’esperienza anche negli istituti di reclusione di Como, Torino e Ancona. “Ricomincio da me è pensato per dare motivazione a chi è rimasto sospeso in un limbo, fuori dalla società educativa, formativa e produttiva - spiega Antonella Rosa, talent acquisition Bosch -. L’obiettivo è infondere una maggiore consapevolezza e conoscenza di sé stessi e fornire gli strumenti adatti per una futura ricerca del lavoro. Un impegno concreto per generare un volano e trasmettere il messaggio che c’è sempre spazio e tempo per ricominciare”. Un intervento nato dalla competenza della Corporate academy Bosch Tec, la scuola di formazione del gruppo Bosch Italia attiva da ventidue anni e dall’iniziativa dell’associazione Seconda Chance che si occupa a livello nazionale dell’inserimento sociale e lavorativo dei detenuti in supporto al Dipartimento amministrazione penitenziaria. “La nostra associazione è un ponte tra le carceri e le imprese, per coinvolgere i detenuti meritevoli che non riescono a trovare una collocazione lavorativa durante e dopo la pena a causa dei pregiudizi”, spiega Flavia Filippi, fondatrice e presidente di Seconda Chance. Un’associazione nata solo nel 2022 ma che ha già raccolto oltre 280 offerte di lavoro. Le prime di queste proposte lavorative hanno riguardato proprio due detenuti del carcere di Monza, assunti nella boutique Nespresso di via Italia. In poco più di due anni Filippi è riuscita a trovare un impiego ai detenuti ritenuti idonei, in aziende e realtà prestigiose come il Vaticano, Terna, l’Istituto superiore di sanità, Conad nord ovest, acqua San Pellegrino, acqua Vera, McDonald’s. È di questi giorni la sottoscrizione di un accordo anche con Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili. “Ogni lavoro trovato è un’impresa - continua Filippi - devo destreggiarmi tra i tempi dell’amministrazione penitenziaria e quelli della giustizia e i tempi velocissimi dell’impresa. Riceviamo ogni giorno moltissime richieste di impiego da parte degli stessi detenuti ma poche dalle aziende. L’obiettivo ora è creare una squadra di persone che facciano da riferimento dell’associazione in ogni regione. Solo così potremo continuare a fare di più e meglio”. Verona. Papa Francesco ai detenuti. “Mi addolorano i tanti suicidi, non cedete allo sconforto” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 19 maggio 2024 Nel luogo in cui ha trascorso la maggior parte della sua visita a Verona, è arrivato alle 12.05. “Benvenuto Francesco”, recitavano gli striscioni e appesi alle sbarre e dentro la Casa circondariale di Montorio. Quel carcere che mentre accoglieva per la prima volta un pontefice, rimbalzava sulle cronache nazionali per l’arrivo, nei prossimi giorni, di Chico Forti. L’ultimo, in ordine di tempo, tra i “detenuti celebri” di un penitenziario che incuba 592 reclusi. Tre ore, quelle trascorse dal Papa in quel luogo che ha definito “di grande umanità. Di umanità provata, talvolta affaticata da difficoltà, sensi di colpa, giudizi, incomprensioni e sofferenze, ma nello stesso tempo carica di forza, di desiderio di perdono, di voglia di riscatto”. È stato accolto con un applauso, Francesco, dagli oltre duecento detenuti che lo aspettavano nel campo di calcio trasformato in una sorta di sagrato laico, mentre altri hanno preferito restare al chiuso del carcere, per evitare le telecamere. “Spero che le arrivi l’abbraccio di questa comunità, per poter condividere la gioia ma soprattutto testimoniare con lei la vita che scorre anche qui. Perché tra queste mura la vita scorre, non si ferma”, ha detto la direttrice della casa circondariale Francesca Gioieni. “Cerchiamo ogni giorno di non essere un carcere abitato da carcerieri e da carcerati. In questa comunità sono rappresentati 40 Paesi e lavoriamo perché ciascuno possa trovare uno spazio di ascolto, una mano tesa, uno sguardo, che dica “io ti vedo e non mi volto dall’altra parte, so che ci sei e proverò a cercare le risposte per te”. La cosa certa è che il passato di queste persone è già scritto, mentre va costruito il loro futuro”. È stato Edoardo, 22 anni, uno dei detenuti più giovani di Montorio, a rivolgersi a Francesco a nome di chi è recluso. “Nessuno di noi dimenticherà questo giorno speciale. Ci sentiamo spesso giudicati ed esclusi dalla società civile. Speriamo che la sua visita serva ad aprire i cuori e le menti del mondo esterno e che aiuti molti a vederci come persone e non solo come autori di reato”. E la chiusa che ha fatto ridere Francesco. “Santità si ‘nu piezz ‘e core”. Il Papa, quell’affetto, lo ha ricambiato. “Ci tenevo a incontrarvi - le sue parole -. Per me entrare in un carcere è sempre un momento importante. In questa umanità, qui, in tutti voi, in tutti noi, è presente oggi il volto di Cristo, il volto del Dio della misericordia e del perdono. Conosciamo la situazione delle carceri, spesso sovraffollate, con conseguenti tensioni e fatiche. Per questo voglio dirvi che vi sono vicino e rinnovo l’appello affinché si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria”. Poi il riferimento a quei cinque suicidi in poco meno di tre mesi che si sono susseguiti a Montorio tra la fine di novembre e febbraio. “Con dolore ho appreso che purtroppo qui alcune persone, in un gesto estremo, hanno rinunciato a vivere. È un atto terribile, questo, a cui solo una disperazione e un dolore insostenibili possono portare. Perciò, mentre mi unisco nella preghiera alle famiglie e a tutti voi, voglio invitarvi a non cedere allo sconforto. La vita è sempre degna di essere vissuta, e c’è sempre speranza per il futuro, anche quando tutto sembra spegnersi”. Ha riportato un detto alpino piemontese, Francesco. “Nell’arte di ascendere il problema non è cadere, ma rimanere caduto”. Lo hanno applaudito, i detenuti. E gli hanno portato i loro doni. Una formella con la scritta “Io credo in...”, le cui risposte sono state riprodotte in un murales dipinto nell’area passeggio del carcere. E la “scatola dei pensieri”. Dentro dei messaggi, tra cui uno di Monica Busetto - che a Montorio sconta 25 anni per un delitto che non ha commesso -, che ha inserito anche il libro “Lo Stato italiano contro Monica Busetto” scritto da Lorenzo Brusattin e Massimiliano Cortivo, in cui è ripercorsa la sua vicenda. Ai reclusi il Papa ha donato la riproduzione di una Madonna con il Bambino. Poi la benedizione impartita in silenzio. E la condivisione del pranzo. Il Papa a un tavolo con la direttrice di Montorio e 7 detenuti che si alternavano per dare la possibilità agli altri di sedersi vicino a Francesco. Un centinaio, i reclusi, che con il Santo Padre hanno condiviso risotto al tastasale, agli asparagi, lo spezzatino di manzo e la torta con lo stemma papale. Tra i commensali anche Benno Neumair che nel carcere veronese espia con l’ergastolo l’uccisione dei genitori, mentre Filippo Turetta detenuto per l’omicidio di Giulia Cecchettin - non ha partecipato all’incontro. Ha dialogato con tutti, Francesco. E in molti gli hanno chiesto di firmare chi la Bibbia, chi il Vangelo, chi un libro. Fuori, appeso alla grata di due celle, uno striscione sventolava. “Santità ti vogliamo bene. Cammina verso la vita chi accetta la correzione. A chi perdonerete i peccati saranno perdonati”. Verona. "Non cedete allo sconforto: la speranza è un diritto" di Papa Francesco L’Osservatore Romano, 19 maggio 2024 Il testo del discorso pronunciato ieri dal Pontefice nella Casa circondariale di Verona. "Cari sorelle e fratelli, buongiorno! Ringrazio la Direttrice per la sua accoglienza, e il senso dell’umorismo! Il sorriso fa tanto bene. Ringrazio tutti voi, per il calore, la festa e l’affetto che mi mostrate. Un saluto va inoltre a tutti coloro che lavorano in questo istituto: agenti di custodia, educatori, operatori sanitari, personale amministrativo, e volontari. Voglio salutare anche a tutti coloro che stanno guardando dalle finestre: un saluto a tutti voi! Ci tenevo molto a incontrarvi, tutti insieme. Per me entrare in un carcere è sempre un momento importante, perché il carcere è un luogo di grande umanità. Sì, è un luogo di grande umanità. Di umanità provata, talvolta affaticata da difficoltà, sensi di colpa, giudizi, incomprensioni, e sofferenze, ma nello stesso tempo carica di forza, di desiderio di perdono, di voglia di riscatto, come ha detto Duarte nel suo discorso. E in questa umanità, qui, in tutti voi, in tutti noi, è presente oggi il volto di Cristo, il volto del Dio della misericordia e del perdono. Non dimenticate questo: Dio perdona tutto e perdona sempre, in questa umanità, qui, in tutti voi. Questo senso di guardare il Dio della misericordia. Conosciamo la situazione delle carceri, spesso sovraffollate - nella mia terra, pure -, con conseguenti tensioni e fatiche. Per questo voglio dirvi che vi sono vicino, e rinnovo l’appello, specialmente a quanti possono agire in questo ambito, affinché si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria. Una volta, una signora che lavorava nelle carceri e aveva un bel rapporto con le detenute - però era un carcere femminile -, una mamma di famiglia, molto umana la signora, mi ha detto che lei era devota a una santa. “Ma quale santa?” - “Santa Porta” - “Perché?” - “È la porta della speranza”. E tutti voi dovete guardare a questa porta della speranza. Non c’è vita umana senza orizzonti. Per favore, non perdere gli orizzonti, che si vedranno attraverso quella porta della speranza. Seguendo le cronache del vostro istituto, con dolore ho appreso che purtroppo qui, recentemente, alcune persone, in un gesto estremo, hanno rinunciato a vivere. È un atto triste, questo, a cui solo una disperazione e un dolore insostenibili possono portare. Perciò, mentre mi unisco nella preghiera alle famiglie e a tutti voi, voglio invitarvi a non cedere allo sconforto, a guardare la porta come la porta della speranza. La vita è sempre degna di essere vissuta, sempre!, e c’è sempre speranza per il futuro, anche quando tutto sembra spegnersi. La nostra esistenza, quella di ciascuno di noi, è importante - noi non siamo materiale di scarto, l’esistenza è importante -, è un dono unico per noi e per gli altri, per tutti, e soprattutto per Dio, che mai ci abbandona, e che anzi sa ascoltare, gioire e piangere con noi e perdonare sempre. Con Lui al nostro fianco, con il Signore al nostro fianco, possiamo vincere la disperazione. E, come ha detto la direttrice, Dio è uno: le nostre culture ci hanno insegnato a chiamarlo con un nome, con un altro, e a trovarlo in maniere diverse, ma è lo stesso padre di tutti noi. È uno. E tutte le religioni, tutte le culture, guardano all’unico Dio con modalità differenti. Mai ci abbandona. Con Lui al nostro fianco, possiamo vincere la disperazione e vivere ogni istante come il tempo opportuno per ricominciare. Ricominciare. C’è una bella canzone piemontese che cercherò di tradurre in italiano che dice così - la cantano gli alpini -: “Nell’arte di ascendere, quello che importa non è non cadere, ma non rimanere caduto”. E a tutti noi che lavoriamo in questo carcere, anche come volontari, ai famigliari, a tutti noi, dico una cosa: è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto una sola volta: per aiutarlo a sollevarsi. Perciò, nei momenti peggiori, non chiudiamoci in noi stessi: parliamo a Dio del nostro dolore e aiutiamoci a vicenda a portarlo, tra compagni di cammino e con le persone buone che ci troviamo al fianco. Non è debolezza chiedere aiuto, no: facciamolo con umiltà e fiducia e umanità. Tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri, e tutti abbiamo diritto a sperare, al di là di ogni storia e di ogni errore o fallimento. È un diritto la speranza, che mai delude. Mai. Tra pochi mesi inizierà l’Anno Santo: un anno di conversione, di rinnovamento e di liberazione per tutta la Chiesa; un anno di misericordia, in cui deporre la zavorra del passato e rinnovare lo slancio verso il futuro; in cui celebrare la possibilità di un cambiamento, per essere e, dove necessario, tornare ad essere veramente noi stessi, donando il meglio. Sia anche questo un segno che ci aiuti a rialzarci e a riprendere in mano, con fiducia, ogni giorno della nostra vita. Care amiche e cari amici, grazie per questo incontro. Vi dico la verità: mi fa bene. Voi mi state facendo bene, grazie. Continuiamo a camminare insieme, perché l’amore ci unisce al di là di ogni tipo di distanza. Vi ricordo nella preghiera e vi chiedo, per favore, di pregare per me: a favore, non contro! Pregate per me. E non dimenticate: “Nell’arte di salire quello che importa non è non cadere, ma non rimanere caduto”. Grazie. Uno spazio di ascolto La nostra missione è “intercettare e accompagnare percorsi di vita cercando ogni giorno e con ogni sforzo” di non essere “carcere abitato da carcerieri e carcerati”; ma piuttosto un luogo dove, “nel rispetto di quelle regole che consentono la convivenza di una così ampia e multietnica comunità”, ciascuno possa trovare “uno spazio di ascolto, una mano tesa, uno sguardo”. Lo ha detto la direttrice della Casa circondariale di Montorio, Francesca Gioieni, nel saluto a Papa Francesco. Quando - ha aggiunto - “ci domandano del carcere e del nostro lavoro qui, facciamo davvero fatica a rendere credibile il nostro impegno e le nostre capacità”. Nonostante “le difficoltà, i grandi numeri di presenza, le differenti etnie e lingue” - ha assicurato la direttrice - “noi improntiamo ogni singola azione e decisione al rispetto delle dignità di ogni detenuta o detenuto a noi affidato: è un lavoro che scegliamo ogni giorno o che sceglie noi tutte le volte in cui riceviamo in cambio un grazie o un sorriso”, nella consapevolezza che a chi “ha mostrato le sue fragilità ed i suoi limiti umani” violando la legge, non si può “negare umanità e dignità”. La famiglia elemento di speranza Attualmente nel carcere di Montorio ci sono 592 persone detenute provenienti dalle più disparate regioni del mondo: dall’Italia al Marocco, dall’Albania alla Nigeria, dall’India al Pakistan alla Romania, dalla Tunisia alla Polonia, dalla Costa D’Avorio al Guatemala, dalla Moldavia allo Sri Lanka. È uno spaccato del mondo intero quello che Duarte, uno tra i detenuti più giovani, ha presentato a Papa Francesco. Nel suo saluto ha espresso al Pontefice la gioia e la commozione di tutta la comunità carceraria per la visita del Pontefice. Ad oggi, ha fatto notare, “ci sentiamo spesso giudicati ed esclusi dalla società civile”. Da la speranza che la presenza di Francesco “apra i cuori e le menti del mondo esterno per accoglierci come liberi cittadini dopo che avremo riparato agli errori commessi”. La famiglia, ha aggiunto, “per noi è un elemento di speranza e ci aiuta a restare legati al mondo esterno”; anche se, ha aggiunto, alcuni purtroppo “non hanno la fortuna di avere una famiglia di riferimento oppure degli affetti vicini che possano sostenerli”. Otto Marianne per la libertà di Pasquale Vitagliano Il Manifesto, 19 maggio 2024 “Le donne della Dichiarazione universale dei diritti umani”: Enrica Simonetti ripercorre nel suo libro, uscito per Manni editore, le biografie rimaste in ombra e spesso dimenticate di queste combattenti, di diversa estrazione sociale e di differenti culture, per l’uguaglianza giuridica. “Come giudica i progressi femminili del suo secolo?”, chiede una giornalista. “Ci vediamo tra mille anni!”, risponde Bodil Begtrup, chiamata dalla Danimarca tra le otto donne del Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite nella Commissione dei diritti umani. Insieme con altre e altri rappresentanti scriveranno nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani. Sarà che il Novecento è il secolo breve, le conquiste sono state tante e importanti. Eppure, la strada da percorrere è ancora lunga. Enrica Simonetti traccia il profilo di queste Marianne ne Le donne della Dichiarazione universale dei diritti umani (Manni, pp. 104, euro 13) in un agile e godibile saggio che ha il merito di portare alla luce storie dimenticate o sconosciute, matrici della nostra identità democratica. Sono nate in luoghi diversi e lontani. Hanno estrazioni sociali differenti, vivono in contesti umani talvolta incomparabili. Si sono incontrate intorno a un documento che ha cambiato (?) la storia dell’umanità. Trenta articoli che furono studiati con estrema cura, sotto il peso del dolore che l’umanità aveva sofferto negli anni barbari della Seconda guerra mondiale. Non si somigliano tra loro, ma proprio per questo il contributo collettivo è stato fondamentale. A condurre i lavori di quella costituente umanitaria fu Eleanor Roosevelt, da due anni vedova. Una volta nominata presidentessa della Commissione dei diritti umani era diventata davvero la “First Lady of the World”. Indossa il sari, porta il bindi, la goccia sulla fronte, Hansa Mehta, scrittrice e sociologa, già nel 1922, a soli 25 anni, affianca due pilastri del riformismo indiano, Gandhi per l’indipendenza nazionale e la poetessa Sarojini Naidu per l’emancipazione femminile. I vent’anni sono in effetti l’età delle lotte ideali. Minerva Bernardino, diplomatica, partecipa giovanissima all’unione delle donne panamericane a Montevideo. Lottano per il suffragio universale. Ma anche contro le dittature come quella del generalissimo Tujillo a Santo Domingo negli anni ‘30. Begum Shaista Ikramullah fu la prima donna pakistana a rifiutare il velo. Si deve al suo contributo l’art. 16 della Carta, dedicato all’uguaglianza dei diritti nel matrimonio, memore della terribile pratica delle spose-bambine. A Marie Hélène Lefaucheux, invece, va ascritto l’art. 2, incardinato sui diritti e le libertà, senza alcuna discriminazione. Partigiana francese, durante la guerra liberò il marito dalla deportazione, inseguendo un treno in bicicletta. Morì nel 1964 in un incidente aereo Lakshmi Menon, ministra del governo Nehru, docente universitaria, aveva sperimentato, durante le sue lezioni, la pratica di dedicarsi con i suoi studenti alla cucina, fermamente convinta dell’energia maieutica del pasto comunitario. Infine, Evdokia Uralova, bielorussa, storica, attiva esponente della commissione nonostante il proprio paese, insieme all’Unione Sovietica, avesse scelto di astenersi nella votazione. La carta fu votata il 10 dicembre 1948. A quel voto parteciparono i delegati di 58 paesi di tutto il mondo, ad astenersi furono soltanto in 8. Yemen e Honduras non parteciparono. Nessuno stato votò contro. L’Italia, purtroppo, non c’era. Entrò a far parte dell’Assemblea dell’Onu soltanto molti anni dopo, nel 1955. Eravamo agli albori della Guerra fredda e qualcuno sognava che un altro mondo fosse possibile. Quest’aspirazione, come conclude la Simonetti, produsse “i trenta articoli irrinunciabili della Dichiarazione universale dei diritti umani, che non è una legge, non è una Costituzione, ma è l’essenza della dignità umana”. Ciascuna di queste otto donne si fece portatrice di una scelta, di una battaglia, di una parola da aggiungere. Poi, il buio della memoria ha cancellato il loro ricordo, che questo libro tenta di ricostruire. Un recupero collettivo di tutte queste storie potrebbe lasciare meno solitari i diritti sanciti nella Carta che, ancora oggi, facciamo fatica a vedere realizzati e tutelati nella loro interezza. E questo conferma quale antico e stretto legame unisca l’eguaglianza femminile alle sorti delle libertà personali e dei diritti universali. Il Papa incontra i movimenti popolari. Per costruire la pace in un mondo che va verso la guerra di Chiara Sgreccia L’Espresso, 19 maggio 2024 “Per uscire dalla crisi strutturale in cui ci siamo infilati è necessario costruire un nuovo paradigma di civiltà che mette finalmente al centro l’ecologia integrale”, si legge nel documento redatto dai Movimenti popolari italiani in occasione dell’incontro. “Per garantire il nostro diritto alla vita, abbiamo bisogno di cambiare approccio culturale, non solo il modello economico. A partire da una diversa relazione con le altre entità viventi, riconvertendo il modello produttivo, industriale ed energetico sulla base dei limiti del pianeta”. Così si legge nella bozza del documento, a cui L’Espresso ha avuto accesso in anteprima, che i movimenti popolari italiani, insieme, hanno preparato in occasione di “Arena di pace”, l’incontro atteso con Papa Francesco, che li ha invitati al dialogo. Al momento di confronto, che si è tenuto nella mattinata del 18 maggio all’anfiteatro di Verona, hanno partecipato più di 12 mila persone provenienti da tutto il mondo. Come l’afghana Mahbouba Seraj, venuta da Kabul, o il palestinese Aziz Sarah, al quale l’esercito israeliano ha ucciso il fratello o israeliano Maoz Inon, a cui Hamas ha ucciso i genitori. Ma anche l’attivista brasiliano Jao Pedro Stedile, la chirurga veronese Elda Baggio di Medici Senza Frontiere, i Fridays for Future, centinaia di esponenti dei movimenti popolari, che hanno riflettuto su migrazioni, ecologia, lavoro, economia, diritti e disarmo. Con l’obiettivo di contribuire alla costruzione di un futuro di pace in un mondo che, invece, sembra preparasi sempre più alla guerra. “Sono sempre più convinto che il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle elite. È soprattutto nelle mani dei popoli. Nella loro capacità di organizzarsi e anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Voi, però, tessitrici e tessitori di dialogo in Terra Santa, chiedete ai leader mondiali di ascoltare la vostra voce, di coinvolgervi nei processi negoziali, perché gli accordi nascano dalla realtà e non da ideologie: le ideologie non hanno piedi per camminare, non hanno mani per curare le ferite, non hanno occhi per vedere le sofferenze dell’altro. La pace si fa con i piedi, le mani e gli occhi dei popoli coinvolti”, ha detto Papa Francesco. “Viviamo una realtà sempre più diseguale, in cui la povertà e l’esclusione sociale aumentano. In cui la crisi climatica è evidente, il lavoro sempre più precario, la violenza frequente, le comunità sempre più disintegrate”, si legge ancora dal documento preparato dai movimenti popolari, durante mesi di attività, incontri, assemblee, organizzate in vista dell’incontro di Verona, nato da un’ dea del padre missionario Alex Zanotelli, 86enne convinto che il cambiamento possa avvenire soltanto dal basso. “Così per uscire dalla crisi strutturale di sistema in cui ci siamo infilati è necessario dare gambe e direzione ad un nuovo paradigma di civiltà che mette finalmente al centro l’ecologia integrale: senza il riconoscimento dei diritti della natura non potremo garantire i diritti umani”. Come spiega Giuseppe de Marzo, coordinatore nazionale della rete Numeri Pari, opinionista de L’Espresso e scelto come portavoce di tutti i movimenti popolari del Paese per incontrare Papa Francesco, il documento è stato costruito grazie all’intervento di tutti i movimenti popolari presenti a Verona: dai comitati nati per difendere il territorio e i beni comuni, alle reti di quartiere, progetti di mutualismo, cooperative sociali, movimenti per il diritto all’abitare, gruppi impegnati per i diritti umani, centri sociali, antiviolenza, di ricerca, scuole di autoformazione popolare, associazioni che contrastano il welfare mafioso nelle periferie, realtà di base impegnate a difendere i diritti degli animali. “La parte di Paese che si impegna per accrescere la qualità della nostra democrazia. Vorremo chiedere al Papa un incontro il prossimo autunno-inverno, per consegnargli il documento. Che non è soltanto rappresentativo delle vertenze e delle lotte che portiamo avanti sui territori ma offre anche una visione unitaria del mondo elaborata dai movimenti popolari italiani grazie alla collaborazione. Anche per questo siamo stati felici di attraversare Arena di Pace, che ci ha dato l’opportunità di ritrovarci e ci ha permesso di rafforzarci”, spiega De Marzo che riprendendo le parole di Papa Francesco sottolinea come, in epoca nuova della storia, la speranza di non “perdere l’umanità” trae forza soprattutto dall’esistenza dei movimenti popolari: “che sono la risposta ai conflitti ecologico distributivi ovunque in aumento, in Italia come nel resto del mondo. Ma anche al vuoto della politica. Necessari per rigenerare le comunità”. Quanto ci impoverisce la corsa alle armi di Moisés Naím* La Repubblica, 19 maggio 2024 L’anno scorso, la spesa militare mondiale è aumentata di quasi il sette per cento. Secondo i ricercatori dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, si è trattato dell’aumento più consistente dal 2008 in questo settore. Complessivamente, i governi hanno speso nel 2023 più di 2.400 miliardi di dollari in soldati, equipaggiamenti e armi. Con questi soldi sono molte le cose buone che si potrebbero fare. I Paesi del mondo spendono per le spese militari nove volte di più di quanto spendano per sradicare la fame, ad esempio. In effetti, la spesa militare globale si avvicina a quei 2,5-3 mila miliardi di dollari che, secondo le Nazioni Unite, sarebbero necessari per raggiungere tutti gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Tra questi obiettivi ci sono lo sradicamento della fame e il garantire energia pulita e accessibile, acqua pulita e igiene, salute e benessere, nonché istruzione di qualità a tutti i Paesi in via di sviluppo. Tutto questo potrebbe essere raggiunto... ma non ci si riesce perché, invece di essere investite nel benessere umano, queste risorse vengono utilizzate per armarsi fino ai denti. Si è messa da parte la speranza del benessere che avrebbe portato il “dividendo della pace” prodotto dalla fine della Guerra Fredda negli anni Novanta. Con il collasso dell’Unione Sovietica, non sarebbe stato più necessario spendere tanto in armi e quel denaro avrebbe potuto essere reindirizzato al miglioramento delle condizioni di coloro che hanno meno. Purtroppo, questa speranza è durata poco. Dopo la gravissima invasione dell’Ucraina da parte della Russia e di fronte a una Cina recalcitrante e irredentista, i principali governi del mondo stanno prendendo la strada opposta, orientando di nuovo nell’aumento delle spese militari risorse che avrebbero potuto migliorare la vita di centinaia di milioni di persone. È una tendenza globale. Ognuna delle dieci maggiori potenze mondiali ha aumentato in modo significativo le proprie spese militari nel 2023. La Russia ha aumentato la spesa del 24 per cento, raggiungendo un importo pari a 13 volte il bilancio del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, che aiuta le popolazioni sull’orlo della carestia. L’Ucraina, da parte sua, ha aumentato la spesa del 51 per cento, raggiungendo i 65 miliardi di dollari, tre volte di più del budget dell’Unicef per i bambini più poveri del mondo. Il fatto che questi Paesi in guerra stiano aumentando in modo aggressivo le loro spese militari non è una sorpresa. Ciò che sorprende è che il conflitto tra Russia e Ucraina abbia avuto conseguenze globali, spingendo i governi di ogni latitudine ad armarsi a loro volta. Ma anche gli Stati Uniti hanno aumentato la loro spesa fino all’impensabile cifra di 916 miliardi di dollari, il 38% della spesa militare del mondo intero. La spesa militare della Cina è ancora meno di un terzo di quella americana, “solo” 296 miliardi di dollari, ovvero 70 volte la cifra che il mondo spende per combattere la malaria. Ma gli analisti avvertono che i costi in Cina sono molto più bassi che negli Stati Uniti, quindi l’importo è molto più fruttuoso per Pechino di quanto non lo sarebbe negli Stati Uniti. Inoltre, Pechino sta aumentando la propria spesa militare molto più rapidamente del Pentagono: del 6 per cento all’anno rispetto al 2,4 per cento degli Stati Uniti. Il divario militare tra le due grandi potenze si sta riducendo di anno in anno e nessuno sa cosa accadrà il giorno in cui questo divario sarà colmato. Molti sostengono che questa corsa agli armamenti sia diventata inevitabile dal giorno in cui Vladimir Putin decise di destabilizzare l’Europa invadendo l’Ucraina. Il Presidente francese Emmanuel Macron difende strenuamente la sua tesi secondo cui, di fronte alla minaccia russa, l’Europa non può continuare ad affidare la propria sicurezza nelle mani di una Washington sempre più impegnata nel Pacifico per contrastare i forti appetiti geopolitici della Cina. Anche le potenze militari più modeste hanno aumentato le spese militari. La Spagna, ad esempio, ha visto salire la propria spesa militare a 2 miliardi di dollari nell’ultimo anno, una somma simile a quella promessa dal mondo intero per alleviare la crisi umanitaria causata dalla guerra civile in Sudan. Perfino i Paesi costretti al pacifismo per aver perso l’ultima guerra mondiale oggi si preparano attivamente per un possibile conflitto armato. Il Giappone, ad esempio, sta aumentando rapidamente il suo budget militare e si stima che entro il 2027 sarà la terza potenza militare al mondo. La Germania ha fatto un’inversione di rotta nella sua politica militare e sta acquistando una costosa flotta di cacciabombardieri F35 e sofisticati sistemi informatici di comando e controllo. Che in un mondo più pericoloso i governi sentano una forte pressione ad armarsi è naturale, ma è comunque una tragedia. Una delle ragioni degli straordinari risultati economici e sociali di Giappone e Germania dopo il 1945 è che a questi Paesi era stato vietato destinare risorse alle loro forze armate. Questo ha fatto sì che le risorse fossero destinate al rafforzamento dell’economia e della società. Necessaria o meno, questa corsa agli armamenti ci impoverisce tutti. *Traduzione di Barbara Bacci Bavaglio e proiettili contro chi denuncia i guasti ambientali di Giuseppe De Marzo L’Espresso, 19 maggio 2024 L’allarme dell’Onu sui rischi cui sono esposti i giornalisti impegnati a difesa delle risorse del pianeta. L’Unesco denuncia come negli ultimi quindici anni gli attacchi contro i giornalisti siano cresciuti in maniera esponenziale. Sono stati 750 e continuano ad aumentare. Mentre le condanne sono pochissime, lasciando più del 90% delle violenze impunite. È più facile chiudere la bocca di coloro che fanno informazione. In particolar modo dei giornalisti “ambientali”, i più esposti in questa nuova epoca della storia. L’ha denunciato il segretario generale delle Nazioni Unite lo scorso 3 maggio. Negli ultimi anni sono stati uccisi centinaia di giornalisti che si sono occupati delle conseguenze dei conflitti ecologico-distributivi, ovunque in aumento a causa di un capitalismo estrattivo che ha bisogno di prendere dalla Terra molto di più rispetto alle sue capacità di autorigenerazione e autorganizzazione. È questo che genera ovunque impatti catastrofici in termini sociali e ambientali. Rifugiati climatici, maggiori disuguaglianze, distruzione delle economie locali, aumento delle emissioni in atmosfera, perdita di biodiversità, pandemie, guerre: solo per citarne alcuni. Raccontare, dare voce, approfondire le conseguenze sui territori e sulle vite delle persone generate dal modello di sviluppo, denunciare il ricatto economico e il razzismo ambientale a cui intere comunità o popolazioni vengono sottoposte, è sempre più pericoloso per i giornalisti ambientali. Nell’epoca in cui l’umanità vive una crisi senza precedenti la libertà dei media è ancora più importante. I giornalisti ambientali hanno un ruolo determinante per far comprendere ai cittadini la vera posta in gioco. Sui temi legati alla crisi ecologica e alle sue soluzioni, il diritto a una buona informazione di qualità è fondamentale per garantire la democrazia. Le destre al governo, fedeli esecutrici degli interessi delle lobby del fossile e delle armi, lo ritengono evidentemente un privilegio accessorio (più che un diritto). Come vorrebbero anche nel nostro Paese, visti i continui tentativi di bavaglio, censura, intimidazione e utilizzo spropositato del proprio potere istituzionale. Ci preferiscono sudditi, più che cittadini. Altro che Dio, patria e famiglia. Soldi, armi e fossili sono i veri riferimenti delle destre nel mondo. Oggi è sempre più forte e denso il grumo di interessi che mette insieme economia estrattiva, armi, destre, finanza speculativa e criminalità organizzata. Non deve sorprendere che sempre più spesso vengano uccisi o minacciati giornalisti impegnati a raccontare la verità su megaprogetti estrattivi, disboscamenti, desertificazione, innalzamento dei mari, gestione rifiuti, bracconaggio, sversamenti, privatizzazioni dei beni comuni, distruzione di biodiversità e paesaggi. L’obiettivo è rendere invisibili le vite e le voci delle vittime, delle comunità e, soprattutto, delle alternative possibili. Perché, se grazie al lavoro dei giornalisti ambientali venissimo correttamente informati del fallimento di queste politiche e dell’insostenibilità del modello di sviluppo neoliberista, i cittadini e le cittadine si mobiliterebbero e agirebbero per dare voce e gambe alle alternative. Se vogliamo che continui a esistere un’opinione pubblica, oggi è ancora più importante difendere e sostenere la libertà di stampa e dei giornalisti a fare il proprio lavoro. Facciamo Eco! Seif Bensouibat, educatore finito in un Cpr per un post pro Hamas: il caso arriva in Parlamento Luigi Mastrodonato Il Domani, 19 maggio 2024 Un apprezzato educatore dell’istituto Chateaubriand di Roma, rifugiato politico algerino in Italia, è in attesa di espulsione a Ponte Galeria dopo essere stato licenziato e indagato. Il motivo? Alcuni commenti contro Israele - per cui si è scusato - in una chat privata. Sulla vicenda è stata presentata un’interrogazione parlamentare. L’avvocato: “Nel 2013 era ritenuto meritevole di protezione, oggi no. Ma la situazione in Algeria è inalterata”. Fino a gennaio Seif Bensouibat era un apprezzato educatore del prestigioso istituto Chateaubriand di Roma. I rapporti con i colleghi e la dirigenza erano ottimi, facevano viaggi e serate insieme, non c’erano mai stati problemi. Oggi invece Bensouibat si trova in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), quelli che siamo soliti chiamare “lager di Stato” per le condizioni inumane e degradanti in cui versano le persone rinchiuse lì dentro. La vita di Bensouibat è stata stravolta nel giro di poco per colpa di alcuni post con cui contestava Israele e sosteneva la resistenza palestinese, ammiccando ad Hamas. Post pubblicati su una chat privata e per cui si è subito scusato. Ma che gli sono costati, nell’ordine: licenziamento, perquisizioni, indagine penale, perdita dello stato di rifugiato e, ora, l’ingresso nel Cpr per l’espulsione. “Una cosa inaudita”, ha denunciato Luigi Manconi, ex presidente della Commissione parlamentare per la tutela dei diritti umani, mentre la vicenda è finita anche in parlamento, con un’interrogazione parlamentare del senatore Giuseppe De Cristofaro (Alleanza Verdi e Sinistra). Chi è Seif Bensouibat - Seif Bensouibat, 38 anni, è un cittadino algerino e il suo arrivo in Italia è datato 2013. Qui ottiene lo status di rifugiato politico e inizia a lavorare come educatore nel liceo romano Chateaubriand, una prestigiosa istituzione scolastica di lingua francese. Non viene segnalato alcun problema, i rapporti con i colleghi sono ottimi e Bensouibat ottiene un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Contratto che però si interrompe nel febbraio 2024, quando viene licenziato. Il problema sta in alcuni post pubblicati da Bensouibat in una chat privata che condivideva con amici e colleghi. In uno con toni forti accusa Israele e i paesi occidentali per il genocidio in corso, sottolineando che prima o poi l’avrebbero pagata. In un altro è ritratto il portavoce dell’organizzazione radicale palestinese Hamas. In un altro ancora fa un parallelo tra la resistenza palestinese e la liberazione dell’Algeria, il suo paese, scrivendo che quelli che venivano chiamati terroristi sono poi diventati eroi nazionali con l’indipendenza. “Ho caricato le foto sull’onda dell’emozione dopo aver visto delle immagini dei bambini morti nel conflitto a Gaza”, spiega Bensouibat, che subito si scusa per il tenore dei post. Quando li pubblica, Israele ha già ucciso 25mila persone a Gaza, mentre alla Corte internazionale di giustizia è iniziato il dibattimento per stabilire se condannare il paese per genocidio. Qualcuno nella chat segnala i suoi contenuti, la cosa arriva fino alla dirigenza del liceo Chateaubriand. Che lo licenzia. Ma la cosa non finisce lì. Dentro al lager di Stato - La Digos si presenta a casa dell’uomo, che è incensurato, e la perquisisce alla ricerca di armi, esplosivi e altre cose che possano legarlo al terrorismo. Non viene trovato niente. Il 5 febbraio il permesso di soggiorno di Bensouibat come rifugiato politico viene sottoposto a revoca. Su di lui viene aperta un’indagine penale per minaccia aggravata e istigazione e propaganda finalizzata alla discriminazione. “I suoi post vengono associati al fenomeno del terrorismo di matrice religiosa, dei lupi solitari e dell’auto-addestramento attraverso internet”, spiega a Domani Flavio Rossi Albertini, il suo avvocato. Nel frattempo in questi mesi la vita di Bensouibat prosegue normalmente, tranne per il lavoro che non c’è più. Finché il 16 maggio avviene una nuova irruzione in casa sua, questa volta da parte della polizia. All’uomo viene revocato lo status di rifugiato politico: deve essere espulso dall’Italia. Viene portato nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, uno dei più grossi buchi neri della democrazia italiana, quei lager di Stato dove la gente si cuce la bocca e si spezza le gambe pur di uscire, dove l’ultimo suicidio è avvenuto solo due mesi fa, dove vengono negati diritti e libertà di base. Tanto che, dalla società civile alla politica, il coro è quasi unanime (tranne a destra) per la sua chiusura. La vicenda in parlamento - “Anche volendo stigmatizzare, rimproverare, censurare il tenore di quei post, stiamo comunque parlando di post in una chat privata, come ce ne sono a milioni in questo periodo”, sottolinea Rossi Albertini. “Per quei post ha subito licenziamento, perquisizioni, revoca dello status di rifugiato e decreto di espulsione. Stiamo parlando di una follia, è di una tale sproporzione quello che sta subendo che si smarrisce il senso delle cose”. Nei prossimi giorni ci sarà l’udienza di convalida del trattenimento al Cpr, poi i legali avranno trenta giorni per preparare il ricorso contro il provvedimento che ha revocato a Bensouibat lo status di rifugiato. “Tra l’altro è paradossale che nel 2013 lo hanno ritenuto meritevole di protezione perché in Algeria la sua vita era a rischio e ora che la situazione nel suo paese non è cambiata di una virgola vogliono rimandarlo lì, di fatto consegnandolo ai suoi carnefici”, chiosa Rossi Albertini. In giro per l’Italia sta crescendo la mobilitazione contro l’espulsione dell’ex educatore del liceo Chateaubriand. A schierarsi è stato anche Luigi Manconi. “Il decreto di espulsione è una decisione inaudita”, ha sottolineato. In una lettera al Manifesto ha poi aggiunto che “le opinioni, anche le più lontane dalle nostre, quando restano opinioni, tanto più come in questo caso espresse in forma privata, non debbano costituire un fattore di criminalizzazione”. Europa, giustizia sotto attacco di Mariarosaria Guglielmi* La Stampa, 19 maggio 2024 Medel - Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés - riunisce associazioni di giudici e pubblici ministeri di 17 Paesi del Consiglio d’Europa. Guardando alla giurisdizione attraverso la lente più ampia della dimensione sovranazionale, Medel è stata in grado in questi anni di cogliere in anticipo i segnali della contagiosa crisi sistemica dello stato di diritto che ha colpito l’Europa. Raggiunti dai messaggi dei colleghi e dei loro familiari, abbiamo vissuto i giorni del drammatico collasso della democrazia in Turchia: destituzioni, arresti, processi di massa e condanne sommarie di migliaia di magistrati, avvocati, funzionari. Murat Arslan, presidente di Yarsav, la più grande associazione di giudici e pubblici ministeri dissolta dal governo dopo il tentativo di colpo di Stato, è stato condannato a 10 anni di reclusione in violazione delle garanzie minime del giusto processo, ed è detenuto dall’ottobre 2016. Abbiamo osservato gli sviluppi della regressione democratica nei confini dell’Unione Europea. Quel che è apparso chiaro è che l’attacco all’indipendenza della magistratura è sempre parte di un progetto più ampio di alterazione degli equilibri essenziali alla democrazia, e dissenso verso i suoi valori e le sue istituzioni, le sue regole e le sue procedure. È un progetto che vuole passi indietro nelle conquiste per i diritti, l’eguaglianza e le libertà. In Polonia riforme strutturali - in nome della necessità di riportare il sistema giudiziario sotto “il controllo democratico” - hanno prodotto la ferma presa dell’esecutivo sulla magistratura e un nuovo Consiglio di Giustizia che, con i suoi componenti scelti dal Parlamento, da garante dell’indipendenza della magistratura si è trasformato nell’artefice instancabile della sua sistematica demolizione. Abbiamo visto procuratori e giudici colpiti da campagne diffamatorie e puniti per aver preso la parola contro le riforme e per aver agito da giudici europei, facendo valere il primato del diritto dell’Unione, conformandosi alle decisioni della Corte di Giustizia e verificando se i loro stessi tribunali garantivano ai cittadini un giusto processo. Abbiamo visto una Corte costituzionale, catturata dal potere politico, sfidare non solo il primato del diritto dell’Unione ma la stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dichiarando non vincolanti e “incostituzionali” i suoi principi. E una Procura, punto di attacco di queste riforme che hanno riunificato il ruolo del Procuratore generale e del Ministro della giustizia, trasformata in una struttura militare, per punire i procuratori sgraditi e promuovere quelli remissivi, e in un formidabile strumento di pressione sui giudici, per effetto di poteri ampi e incontrollati e l’uso dei procedimenti penali. Tutto questo è accaduto mentre si approvavano leggi regressive per i diritti e le libertà delle persone e delle minoranze. Tutto questo è successo nell’Unione Europea. Prima della Polonia, l’Ungheria. E oggi si moltiplicano i contesti di crisi dello stato di diritto nell’Unione. I sistemi giudiziari sono fra i primi a pagare il prezzo quando una democrazia perde le sue virtù essenziali: quelle del suo linguaggio e quelle che regolano l’esercizio democratico dei suoi poteri. Sono le virtù che Steven Levitsky e Daniel Ziblatt - nel descrivere come oggi muoiono silenziosamente le democrazie - hanno definito come tolleranza reciproca e istituzionale: resistere alla tentazione di prendere il controllo di tutto e su tutto, sugli organi di garanzia, sulla libertà di stampa, sugli spazi aperti della critica e del dissenso. Medel ha osservato le tante forme in cui oggi l’intolleranza si esprime verso il ruolo della giurisdizione. Non solo la presa di controllo dall’esterno e la manomissione dall’interno dei sistemi giudiziari, ma prima ancora la delegittimazione della funzione giurisdizionale e del suo ruolo di garanzia: è l’accusa più insidiosa di parzialità, che deve inoculare in chi entra in un’aula di giustizia la convinzione di avere davanti a sé un giudice che non ascolterà, non cercherà la risposta alla sua domanda di giustizia interpretando le norme e i principi, ma avrà già scritto il suo verdetto e questo verdetto sarà la “rivincita” dei suoi pregiudizi ideologici e politici. È stato il richiamo alla tutela dell’imparzialità e della neutralità politica l’argomento usato dal governo polacco per tentare di difendere davanti alla Corte di Giustizia la cd. Muzzle law: il regime disciplinare utilizzato - come ha detto la Corte - per creare pressione nei confronti dei giudici chiamati ad applicare il diritto dell’Unione, e le norme che obbligavano i giudici a pubblicare le informazioni sull’appartenenza ad associazioni giudiziarie. È stata l’accusa di parzialità dei giudici nelle loro decisioni e delle loro associazioni intervenute nel dibattito pubblico in difesa dei diritti, il leit motiv della campagna che un anno fa in Francia spingeva alcuni senatori a proporre il cd. emendamento bavaglio che voleva limitare, in nome del dovere di imparzialità, la libertà di espressione dei magistrati e della magistratura associata. Come non pensare a tutto questo quando la nostra Anm viene accusata di deragliamento istituzionale per aver preso la parola sulle riforme costituzionali e quando il fronte di attacco dell’accusa di parzialità si sposta pericolosamente verso la giurisdizione, verso i giudici e i pubblici ministeri di questo paese accusati di perseguire, con i processi e le indagini, finalità politiche e un ruolo di opposizione politica. Il valore della imparzialità è il fondamento di legittimazione della nostra funzione. Ciò che rende accettabili le decisioni che incidono sulla vita delle persone. Dietro all’impropria sovrapposizione fra l’imparzialità del giudice e i limiti alla sua libertà di espressione c’è la visione di una magistratura “corpo burocratico”, silente e indifferente, separato dalla società, escluso dal dibattito democratico: magistrati ripiegati su se stessi e sulle loro “carte”, incapaci di elaborare posizioni collettive diverse dalle rivendicazioni salariali e di carriera. L’esperienza di Medel in questi anni ci ha dimostrato che di fronte a scelte dirompenti per lo spazio comune di giustizia, agli attacchi alla giurisdizione, alla delegittimazione che esprime l’insofferenza per il suo ruolo di garanzia, la consapevolezza di essere magistrati “europei” sostiene la resilienza di una Giustizia indipendente. E che non può essere un giudice isolato e solitario ad affrontare le difficili sfide del presente. Medel, nata dalla lungimiranza dei pochi che, in una Europa ancora divisa dal muro di Berlino, avevano intuito l’importanza del nostro impegno collettivo anche oltre i confini nazionali, oggi ci ricorda che preziosa è l’eredità del nostro associazionismo giudiziario, che ha saputo unire la magistratura di questo Paese nella difesa dei valori della Costituzione e della nostra democrazia. *Presidente di Medel, Magistrats européens pour la démocratie et les libertés Stati Uniti. Nelle prigioni il “fine pena mai più” uccide più del boia di Elena Molinari Avvenire, 19 maggio 2024 Cresce il numero dei detenuti anziani che muoiono in cella. “In carcere i 40 anni sono come i 60, oltre i 55 si è geriatrici”. Quando Norma Wailey chiama suo marito in prigione fa del suo meglio per non piangere. Isaiah, al quale è sposata da quasi mezzo secolo, è stato condannato a 40 anni per rapina e tentato omicidio. Ne deve scontare ancora dieci ma, a 69 anni, Norma teme che non uscirà vivo di cella. “Si muove come un 80enne, dimentica le cose, fa fatica a parlare. In carcere è diventato diabetico e non è lontano dall’insufficienza renale - ha raccontato Norma ai ricercatori della Columbia university -. E fatica a ottenere cure mediche”. Isaiah è uno delle centinaia di migliaia di prigionieri che stanno invecchiando nelle carceri statunitensi e che potrebbero morire dietro le sbarre. La popolazione penitenziaria negli Usa ha infatti raggiunto il picco di circa 1,6 milioni di persone nel 2009 e da allora è leggermente diminuita, eppure il numero di anziani che finiscono i loro giorni in carcere continua ad aumentare. Pene detentive più lunghe e il ricorso più frequente all’ergastolo ostativo hanno moltiplicato per cinque (portandoli fino a 280.000) in vent’anni i detenuti con più di 55 anni, che le prigioni classificano come “geriatrici”. Non a torto secondo Dan Pfarr, amministratore delegato di un’organizzazione non profit nel Minnesota, 180 Degrees: “In prigione, 40 anni sono 60, e 60 sono 80”, assicura. Infatti, l’età media di morte delle persone rinchiuse nelle carceri statali Usa è 57 anni, secondo il Behind Bars Data Project della Scuola di Giurisprudenza dell’Ucla. Come fa notare un rapporto della Columbia, fra 2010 e il 2020 nei penitenziari di New York sono morte più persone di quelle uccise in esecuzioni capitali durante i 370 anni in cui la pena di morte è stata legale nello Stato. Il rapporto conclude che l’ergastolo rappresenta “il nuovo boia”, soprattutto negli Stati dove le esecuzioni sono state messe fuori legge. “Se non puoi uccidere qualcuno con l’iniezione letale, puoi farlo rinchiudendolo per decenni - spiega Melissa Tanis, coautrice del rapporto -. È una scappatoia utilizzata per punire le persone in un modo che non riconosce la loro umanità e la loro capacità di cambiare. Quando si è in prigione da decenni, il motivo per cui vi si è arrivati diventa irrilevante”. Tribunali troppo zelanti sembrano infatti aver condannato a finire i loro giorni in una cuccetta d’acciaio persone ormai innocue per la società. Il tasso di recidiva per i condannati tra 50 e 65 anni è circa il 2% ed è vicino allo zero per gli over 65. Ma alla fine degli anni Ottanta la guerra alla droga ha dato il via a una tendenza a condanne più severe. Gli aumenti della criminalità violenta che hanno fatto seguito alla pandemia hanno contribuito a sentenze ancora più punitive, con poche opportunità di riabilitazione disponibili all’interno. La norma è diventata quella di chiudere la porta e buttare via la chiave, abbandonando migliaia di persone in strutture crudeli verso chi si ammala o perde le forze. “Molte malattie croniche sorgono o sono esacerbate in carcere”, dice Stephanie Grace Prost, docente dell’Università di Louisville che fa ricerca su salute e invecchiamento nelle carceri. La fascia di età sopra i 55 anni rappresenta due terzi dei decessi nelle carceri statali. Erano il 34% nel 2001. Le iniziative di riforma per ora languiscono nelle assemblee statali. A New York, ad esempio, una proposta di legge, il Fair and Timely Parole Act, è stata introdotta nel 2017 ma non è mai stata votata. Ordinerebbe alla commissione per la libertà condizionale dello Stato di “concedere il rilascio discrezionale a meno che l’individuo non presenti un rischio che non può essere mitigato con la supervisione”, vi si legge. “La commissione spesso nega la libertà condizionale a causa della natura del reato e dà poca considerazione al tempo trascorso dalla condanna o al rischio di violare ancora la legge”, continua il testo. Un altro atto legislativo introdotto nel 2018, l’Elder Parole Bill, farebbe in modo che i newyorkesi di età superiore a 55 anni che hanno scontato almeno 15 anni ottengano un’udienza per la libertà condizionata indipendentemente dalla loro pena. Anche questa non è ancora stata discussa, togliendo ogni speranza a detenuti come Isaiah, che pure ha completato tutti i programmi carcerari richiesti per la riabilitazione. Intanto, lo staff della prigione ha confessato a Norma di non avere abbastanza personale per trasportare suo marito a fare la dialisi regolarmente in ospedale, quando ne avrà bisogno. “Che cosa dovrebbe fare? - conclude Norma -. Lasciarsi morire?”. Medio Oriente. L’abbraccio del Papa per palestinesi e israeliani di Valerio Gigante Il Manifesto, 19 maggio 2024 Bergoglio sferza i capi di Stato: “La pace si fa con le mani e gli occhi dei popoli coinvolti. Chiedete ai leader di ascoltarvi perché gli accordi nascano dalla realtà”. È stato un bagno di folla e un evento mediatico, ma con forti riflessi politico-ecclesiali, il viaggio del papa a Verona, in occasione dell’Arena di Pace 2024. L’incontro, presentato da Amadeus in un ennesimo corto circuito tra “sacro e profano”, è stato solo il culmine di un processo di approfondimento, dialogo e confronto di numerose realtà ecclesiali su Migrazioni; Ecologia integrale e stili di vita; Lavoro, economia e finanza; Diritti e democrazia; Disarmo. E un modo per misurare la forza e il radicamento che la Chiesa può ancora mostrare su temi che in modo inedito la vedono ormai molto distante sia dai governi che da parte dell’opinione pubblica occidentale. La guerra in Ucraina e a Gaza ne sono stati esempi particolarmente dirompenti, come già in precedenza il tema dei migranti. Sotto Papa Francesco - ma il processo era cominciato già da prima di lui - il rapporto tra il pontificato e l’opinione pubblica laica e cattolica è molto cambiato. Dopo secoli in cui il Papa è stato percepito come una figura ieratica e distante, si è passati in pochi decenni da Pio XII che si faceva riprendere solo dopo aver attentamente studiato ogni gesto o parola, a Francesco, che risponde in diretta a domande di ogni tipo e parla a braccio anche della sua vita privata. Questo processo di “umanizzazione”, già intrapreso Wojtyla, Bergoglio lo ha particolarmente accentuato; e oltre che omologare definitivamente la Chiesa a una dimensione “pop” cui era (forse) ormai impossibile sottrarsi, l’attuale pontefice ha però veicolato anche contenuti sociali e messaggi politici, specie legati al tema della giustizia, della pace e del disarmo. Anche il programma della visita del Papa è stato intensissimo. Decollato dall’eliporto del Vaticano, Bergoglio di buon mattino è atterrato nel piazzale adiacente allo Stadio Bentegodi. Di lì in auto alla Basilica di San Zeno, dove ha incontrato in chiesa preti e consacrati e, in piazza, bambini e ragazzi. Quindi il trasferimento all’Arena per presiedere l’Incontro “Arena di Pace - Giustizia e Pace si baceranno”. Il papa è arrivato mentre don Luigi Ciotti parlava di no alla guerra e alle armi. E sul palco ha ricevuto la bandiera della pace dal missionario comboniano padre Alex Zanotelli, una vita spesa a difesa degli ultimi e tra i massimi riferimenti della Chiesa progressista. Bergoglio ha poi risposto ad alcune domande poste dagli operatori e dai rappresentanti dei movimenti popolari presenti. Il tono è sempre quello che mescola il senso comune a uno sguardo in parte tradizionale e in parte progressista sull’attualità contemporanea, specie su guerre e diritti. Come in questo passaggio: “La cultura fortemente marcata dall’individualismo rischia sempre di far sparire la dimensione della comunità, dei legami vitali che ci sostengono e ci fanno avanzare. E questa in termini politici è la radice delle dittature. E inevitabilmente produce delle conseguenze anche sul modo in cui si intende l’autorità”. Chi ricopre un ruolo di responsabilità rischia così “di sentirsi investito del compito di salvare gli altri come se fosse un eroe. Questo avvelena l’autorità”. L’intervento del papa è stato tutto segnato dal no alla guerra e dal sì alla comunità: “Sono sempre più convinto che il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli. Voi, però, tessitrici e tessitori di dialogo in Terra Santa, chiedete ai leader mondiali di ascoltare la vostra voce, di coinvolgervi nei processi negoziali, perché gli accordi nascano dalla realtà e non da ideologie. La pace si fa con i piedi, le mani e gli occhi dei popoli”. Il papa ha stretto a sé in un abbraccio l’israeliano Maoz Inon, al quale sono stati uccisi i genitori da Hamas il 7 ottobre, e il palestinese Aziz Sairah, al quale l’esercito israeliano ha ucciso il fratello; i due, ora amici e collaboratori, sono stati salutati dall’arena con una standing ovation. Dopo l’Arena, il papa ha raggiunto la Casa Circondariale di Montorio, per un incontro con gli i detenuti, gli agenti di Polizia Penitenziaria, gli operatori e volontari. “Conosciamo la situazione delle carceri, spesso sovraffollate, con conseguenti tensioni e fatiche. Vi sono vicino e rinnovo l’appello affinché si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria”, ha detto il papa, che con i detenuti ha anche pranzato, per poi recarsi in auto allo stadio per la messa di Pentecoste coi giovani. Medio Oriente. “Non possiamo accettare che il disumano diventi normale: anche in guerra non tutto è permesso” di Chiara Sgreccia L’Espresso, 19 maggio 2024 “Il numero delle vittime a Gaza è enorme, il triplo della guerra in Ucraina”. Parla Rosario Valastro, presidente della Croce Rossa italiana. Che spiega perché 160 anni dopo la firma della prima convenzione di Ginevra si dovrebbe ricordare il rispetto il diritto internazionale. “Se Israele sta violando il diritto internazionale sono gli organi competenti a doverlo accertare. Dico, però, che il numero delle vittime a Gaza è enorme: almeno il triplo, ad esempio, rispetto a quello della guerra in Ucraina, che dura da più di due anni e coinvolge più persone, purtroppo. Penso che la sofferenza di chi vive nella Striscia oggi sia sotto gli occhi di tutti”. A parlare è Rosario Valastro, presidente della Croce rossa italiana (Cri), che insieme con le altre 190 società nazionali, il comitato e la federazione fa parte del Movimento internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa. La più grande organizzazione umanitaria al mondo che per statuto non prende posizione durante i conflitti, ma invita al rispetto del diritto internazionale, “raramente attraverso appelli e proclami pubblici, di solito dialogando direttamente con gli attori coinvolti. E soprattutto lavora sul campo, cercando di dare ristoro alle sofferenze”. Come spiega Valastro, a Gaza il movimento internazionale agisce in loco tramite la consorella, la Mezzaluna rossa palestinese: gli aiuti entrano principalmente dal valico di Rafah; quando questo è chiuso, la Striscia resta isolata e comunque i beni non sono sufficienti per la sopravvivenza della popolazione. “A Nord, in alcune zone, l’apporto calorico per individuo è quello di un barattolo di fagioli al giorno. Il cibo che entra soddisfa a stento il 50 per cento della popolazione. Inoltre è vietato l’ingresso di metalli, così mancano sia medici sia, soprattutto, i materiali fondamentali per le cure, come i bisturi, le culle termiche, l’ossigeno. E le tende per ospitare i rifugiati, cioè oltre il 75 per cento di chi è rimasto”. A rendere ancora più complesse le azioni di supporto alla popolazione sono le scarse condizioni di sicurezza garantite agli operatori umanitari. In 196 sono morti nella Striscia dallo scorso 7 ottobre, secondo i dati diffusi dall’Onu ad aprile 2024, tra questi anche 22 membri della Croce rossa. “Uccidere un operatore umanitario comporta una sofferenza al quadrato: non solo la mancanza di rispetto per l’individuo, ma anche per tutti quelli che avrebbe potuto aiutare”. Proprio per evitare che “comportamenti disumani” diventino normalità, secondo il presidente della Cri, è fondamentale tornare a riflettere su un tema cruciale: “In guerra non è tutto concesso. Non lo è da almeno 160 anni, da quando il 22 agosto 1864 è stata firmata la prima Convezione di Ginevra”, spiega Valastro a proposito del documento che - ispirato dalle idee di Henry Dunant, premio Nobel per la Pace nel 1901 e fondatore della Croce rossa - ha gettato le basi del diritto internazionale umanitario contemporaneo. E definito le regole universali per la protezione delle vittime nei conflitti, l’obbligo di estendere senza alcuna discriminazione le cure a tutti i militari feriti e malati, il rispetto del personale medico, del materiale e delle attrezzature sanitarie. Principi che credevamo acquisiti, ma che a guardare i fatti non lo sono: “Da più di dieci anni notiamo una recrudescenza dei conflitti. Il fatto che le norme del diritto internazionale vengano ignorate, ridicolizzate, messe in secondo piano è molto pericoloso. Crea un effetto domino: muoiono più persone, aumentano sofferenza e odio, ci si abitua a crimini terribili e si fa passare il messaggio che a vincere sia la legge del più forte, in guerra come nella quotidianità”.