Decreto carcere in arrivo: non c’è lo sconto di pena di Valentina Stella Il Dubbio, 18 maggio 2024 Ora rischia di finire su un binario morto la legge Giachetti-Bernardini, che estendeva i benefici. Il ministro Carlo Nordio lo aveva preannunciato a fine aprile al convegno “Senza dignità” organizzato all’università Roma Tre da Radio Radicale: “Dobbiamo superare il sistema carcerocentrico e il sovraffollamento, che è fonte di suicidi. Non di certo con un’amnistia, che rappresenta un fallimento dello Stato e verrebbe negativamente compresa dai cittadini: quello che occorrerà fare è limitare la carcerazione preventiva e intervenire nei confronti di quelle persone condannate per reati minori e vicine al fine pena, e per i tossicodipendenti”. Come? “Rimodulando e affievolendo la detenzione, facendole ospitare dalle comunità, molte delle quali si sono rese già disponibili”, aveva concluso il titolare di via Arenula. In quei giorni ancora non si sapeva quale strumento normativo l’Esecutivo avesse intenzione di utilizzare, per intervenire sul sovraffollamento. Una delle ipotesi era favorire una rapida approvazione della proposta di legge Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata. Invece, adesso, da quanto appreso da fonti del ministero, la soluzione, già messa nero su bianco, potrebbe essere presentata, sotto forma di decreto legge, durante lo stesso Consiglio dei ministri in cui sarà licenziato anche il ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. E il testo con il “divorzio” tra giudici e pm, ha detto ieri Nordio, dovrebbe essere deliberato a Palazzo Chigi “verosimilmente” il 29 maggio. Che la direzione non fosse quella di un emendamento governativo alla proposta sulla “liberazione anticipata” (tuttora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio), lo si era intuito da un altro passaggio dell’intervento di Nordio al dibattito di Radio Radicale, quando aveva bocciato il provvedimento firmato dal parlamentare di Italia Viva e dalla presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Una liberazione anticipata lineare può sembrare una resa dello Stato: sarebbe meglio se la deflazione, anche per numeri maggiori di detenuti, avvenisse con una detenzione alternativa”. In realtà la proposta Giachetti- Bernardini non prevede un automatismo nella concessione del beneficio, ma la valutazione del magistrato di sorveglianza. Si ipotizza di innalzare da 45 a 60 giorni ogni 6 mesi il “taglio alla pena residua” previsto con la liberazione anticipata ordinaria, tuttora in vigore, sotto forma di semplice estensione dello sconto di pena già usufruito dai condannati che, a decorrere dal 1° gennaio 2016, ne abbiano fatto domanda e l’abbiano ottenuto in virtù della loro buona condotta, proprio grazie alla valutazione del giudice di sorveglianza. Qualche settimana fa il governo aveva fatto trapelare l’intenzione di non ostacolare, quanto meno, questa soluzione, cestinando invece l’altro articolo del progetto normativo del deputato renziano, ossia la liberazione anticipata speciale, concepita per essere applicata, a fronte dell’emergenza sovraffollamento, nei due anni successivi all’entrata in vigore, e che avrebbe comportato un abbuono di 75 giorni ogni 6 mesi. Ma Esecutivo e ministero della Giustizia hanno preferito assumere direttamente l’iniziativa, e sarà difficile, a questo punto, che, nei 60 giorni necessari, la legge di conversione del decreto venga abbinata alla proposta Giachetti, la cui discussione ha visto per ora uno stop, dopo il ciclo di audizioni. Il decreto legge dovrebbe anche prevedere l’aumento delle telefonate per i detenuti e, in teoria, quanto meno un processo di snellimento per la concessione della liberazione anticipata ordinaria già vigente, con un “alleggerimento” del carico per i giudici di sorveglianza, in grave affanno. Come? Affidando la valutazione al pubblico ministero competente per l’esecuzione. Una simile via d’uscita dall’ingolfamento dei Tribunali di sorveglianza era stata ipotizzata proprio sulle pagine del Dubbio da Rita Bernardini: “C’è una soluzione già proposta dalla commissione Ruotolo, istituita da Marta Cartabia, e che è sostenuta anche dalla autorevole presidente di un Tribunale di Sorveglianza, Silvia Dominioni di Bari: affidare al pm titolare dell’esecuzione, anziché ai Tribunali, il calcolo del maggior sconto di pena, i 30 giorni l’anno in più da riconoscere a tutti i detenuti che, dal 2016, hanno già fatto domanda per la riduzione di 45 giorni, e che hanno mantenuto la buona condotta. Si attiverebbe un automatismo in grado di liberare in poco tempo migliaia di detenuti”. Significherebbe che almeno 5000 reclusi potrebbero lasciare la cella. Il problema però è che se il governo non intende appoggiare né l’aumento dello sconto della liberazione anticipata ordinaria, né tantomeno quella speciale, affidare al pm la valutazione delle singole domande equivale a liberare pochissime centinaia di detenuti l’anno, altro che migliaia. Santi Consolo: “Il carcere è fuori legge, Nordio scrive il libro dei sogni” di Angela Stella L’Unità, 18 maggio 2024 Per l’ex capo del Dap, oggi Garante dei detenuti in Sicilia: “Solo la legge Giachetti può garantire una deflazione immediata del sovraffollamento”. Oggi la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha organizzato, in tutta Italia, mobilitazioni per accendere un faro sulle problematiche del carcere. Ne parliamo con l’ex capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, attualmente garante regionale della Sicilia. Tra le proposte lanciate nell’appello della Conferenza quale ritiene sia quelle più importante? La prima, ossia la proposta di legge Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata speciale. Si tratta di una previsione ragionevole per una deflazione immediata del sovraffollamento. Non vi sono alternative ad essa, perché le altre soluzioni messe in campo sono poco praticabili e necessitano di tempi lunghi. Invece il Ministro Nordio sostiene che questa soluzione sia una amnistia mascherata perché ci sarebbe un automatismo nel concedere i giorni di liberazione ai detenuti... Non è così. Ne potranno beneficiare solo coloro che hanno avuto una regolare condotta e che abbiano partecipato all’opera di rieducazione. Bisogna patire una pena detentiva per comprendere quanto sia difficile trascorrere lunghi periodi detentivi senza incorrere in infrazioni e partecipare all’opera di rieducazione. Le offerte trattamentali sono quanto mai povere. Per altro verso non è un beneficio che si regala ma esso ha un effetto compensativo delle pene afflittive aggiuntive che purtroppo si patiscono all’interno delle carceri. Oggi l’esecuzione penale detentiva è incostituzionale perché non invera la finalità dell’articolo 27 della Costituzione. Inoltre è illegale perché viola l’ordinamento penitenziario, in vigore da quasi mezzo secolo. Cito ad esempio l’art. 6: l’ambiente destinato ai detenuti, come pure quelle che vengono chiamate ‘stanze per il pernottamento’, dovrebbe essere riscaldato ma in Sicilia quasi tutti gli istituti penitenziari durante il periodo invernale sono privi di riscaldamento. Proprio qualche giorno fa sono stato in visita al carcere Pagliarelli: un detenuto relativamente giovane mi ha detto che si è prenotato una visita medica perché in carcere ha contratto una forma di artrite reumatoide alle dita della mano. Questa, come altre, credo che siano pene addizionali abbastanza gravi per le quali è giusta una retribuzione quale la riduzione della pena detentiva. Alcuni magistrati e il Fatto Quotidiano invece hanno lanciato un allarme per cui a causa di questa proposta usciranno pericolosi boss. Lei che pensa? Io credo che bisogna fare bene i conti matematici. Intanto non va calcolata la liberazione anticipata che ordinariamente si concede ai detenuti che ne sono meritevoli. Si dovrebbe soltanto calcolare il beneficio aggiuntivo: esso può essere al massimo di due mesi all’anno. Quindi, per uscire anticipatamente un anno prima, il detenuto dovrà avere scontato sei anni di pena effettiva con una regolarità di condotta e con la partecipazione a forme di rieducazione. Se uscire un anno prima, dopo aver espiato sei anni di pena correttamente, dando prova di potersi reinserire nell’ambiente sociale, costituisce un rischio per la collettività ditemi voi! L’appello e l’iniziativa dei Garanti hanno anche lo scopo di non spegnere l’attenzione sui suicidi. L’ultimo due giorni fa nel carcere di Parma. Il Guardasigilli ha parlato di fardello ma come evento inevitabile... In questo ultimo periodo il numero dei suicidi ha raggiunto delle quote di enorme e di terribile allarme. Mi rattrista pure la circostanza che i suicidi siano aumentati nell’ambito del corpo di polizia penitenziaria. Ciò denuncia un disagio anche degli operatori nel lavorare all’interno di strutture che hanno situazioni di crisi abbastanza gravi. Dire che i suicidi siano un fardello inevitabile mi pare eccessivo. Io credo che bisogna assumere dei rimedi immediati. Nordio propone di rimodulare a affievolire la pena per i detenuti condannati per reati minori e per quelli tossicodipendenti, facendoli ospitare dalle comunità... Significa scrivere un libro dei sogni: queste case di accoglienza non esistono e poi bisogna vedere come si gestiscono. Io sono molto preoccupato che le risorse vadano a beneficio di soggetti terzi che farebbero solo finta di prendersi in carico i reclusi. Le risorse devono andare invece a diretto beneficio delle persone che devono essere reinserite. Parliamo piuttosto di corsi di formazione e di lavoro per i detenuti dentro gli istituti di pena. Il carcere “Due Palazzi” di Padova si candida a sperimentare le sale dell’affettività di Sara Busato Corriere del Veneto, 18 maggio 2024 Marino avrebbe voluto abbracciare le sue due bambine. Quando fu arrestato, avevano tre e sei anni, e per giustificare l’improvvisa sparizione del padre, la famiglia scelse la scusa più rassicurante “Papà è via per lavoro, ma tornerà presto”. Un’illusione che ha causato problemi psicologici e di salute alle figlie, oltre a numerosi disagi materiali e morali. L’amore tra padre e figlie è rimasto congelato per anni. Solo nel 2001 gli fu permesso di incontrare moglie e figlie non nell’affollata sala-colloqui, ma nella “area verde”, una fetta di giardino appositamente attrezzata. Marino però non è il solo. C’è Enrico, ventiduenne, cresciuto con un padre in carcere in un contesto sociale difficile. A quindici anni commise il suo primo reato e da allora sta scontando una pena di otto anni per una rapina. Per lui lab difficoltà di cui soffre di più è l’impossibilità di avere momenti intimi con la sua ragazza. Storie legate dal tema degli affetti negati in carcere raccontate ieri nel corso dell’incontro organizzato da Ristretti Orizzonti. Ora, però, a distanza di oltre venticinque anni, per la prima volta le cose potrebbero cambiare davvero. Il carcere Due Palazzi di Padova potrebbe fare da apripista alla sperimentazione delle “stanze dell’affettività”. Un problema incandescente, forse ignorato, nonostante le richieste dei detenuti di poter avere incontri intimi con i propri cari. È stato Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Terni, a sollevare la questione di costituzionalità riguardo l’articolo 18 dell’ordinamento Penitenziario, che impone il controllo visivo durante i colloqui tra detenuti e i loro cari, impedendo l’esercizio del diritto a coltivare un rapporto affettivo con il proprio partner. La svolta che sta per dare il via libera è stata la sentenza 10 del 2024 della Corte costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del divieto di colloqui intimi tra detenuti e familiari. “Un faro che ci guida nel trasformare le carceri in luoghi più umani - commenta Ornella Favero, Ristretti Orizzonti - con spazi per incontrare le persone care senza controlli visivi. La sentenza ha bisogno di direttori che sappiano sfidare la lentezza, che a volte diventa immobilismo, delle Istituzioni”. Manca ancora, va chiarito, l’attivazione del tavolo tecnico nazionale per definire linee guide e modalità di attuazione. “A Padova ci sono gli spazi necessari per attivare la sperimentazione conferma il direttore Due Palazzi, Claudio Mazzeo - Aspettiamo solo il via libera e le tempistiche”. Carcere minorile, “in linea con le aspettative più negative il sovraffollamento arriva qui” La Repubblica, 18 maggio 2024 Il rapporto di Antigone: l’aumento dei giovani in cella sarebbe anche maggiore se molti di loro diventati maggiorenni non fossero stati trasferiti negli istituti di pena per adulti. Dal 1998 ad oggi - informa Antigone - non si erano mai registrati numeri così alti di sovraffollamento nelle case di pena per minori. E sarebbero potuti essere anche più alti se i direttori delle carceri non avessero disposto il trasferimento dei detenuti diventati maggiorenni dietro le sbarre in penitenziari per adulti. Scelta che, fra l’altro, ha drasticamente interrotto un percorso educativo avviato nella casa di reclusione minorile. I provvedimenti - assai dannosi e condannati dai volontari che lavorano in carcere e dalle organizzazioni in difesa dei diritti umani - sono stati possibili grazie all’approvazione del decreto Caivano, caratterizzato da un approccio più punitivo. Sette istituti su 17 sono sovraffollati. Il sovraffollamento nelle celle, dunque, sta interessando anche negli gli istituti di pena per adolescenti. A sottolinearlo è anche una nota di Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’Osservatorio minori di Antigone. Ad oggi sono 7 su 17 gli istituti di pena più affollati: Bologna, Firenze, Milano, Potenza, Pontremoli, Torino, Treviso. In tutti nelle celle vive un numero di giovani superiore ai posti disponibili. Secondo le informazioni diffuse da Antigone, nei primi quattro mesi del 2024 c’è stata una crescita di 76 unità per un tasso di oltre il 15%. Il modello di giustizia minorile italiano. Il procedimento penale per i minorenni è entrato in vigore nel 1988, mettendo in primo piano il problema del recupero dei ragazzi responsabili di reati, tenendo conto dell’età cruciale per la crescita e il futuro dei giovani nella quale il reato era stato commesso. Erano stati previsti bassi tassi di detenzione che oggi invece non vengono più rispettati come conseguenza, appunto, del decreto Caivano. La storia di Baby Gang è il riassunto plastico dell’idiozia del nostro sistema penitenziario di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2024 Zaccaria Mouhib, trapper noto come Baby Gang, ha 22 anni e oltre otto milioni di ascoltatori mensili su Spotify. È uno dei rapper italiani più noti all’estero e il singolo uscito un mese fa come primo estratto dal suo ultimo album ha già quasi tre milioni di visualizzazioni su Youtube. Quando un intervistatore gli domandò se il suo album del maggio 2023 dal titolo “Innocente” fosse stato scritto nel carcere di Monza, lui rispose: “No, lì non facevo niente, era un carcere punitivo, non avevo i beat, era già tanto che avessi la penna. Stavo a guardare il muro e fumavo”. Il carcere ammazza ogni creatività. Alla fine dello scorso aprile Zaccaria è stato riportato in cella. L’avvocata Mariapia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia, collabora con il suo legale per un progetto voluto dallo stesso artista sulle carceri. Sono entrambi increduli per una simile insensata decisione. L’artista avrebbe violato gli arresti domiciliari per aver postato su Instagram alcune foto di lancio per il suo album “L’angelo del male”, che ha subito scalato le classifiche. Nelle foto comparivano oggetti di scena, tutti finti: una pistola, dei pacchi di droga… Un’iconografia trap che conosciamo, che qualcuno può anche legittimamente criticare sul piano culturale, ma che non si capisce cosa c’entri con il piano delle leggi e delle pene. Se ne è accorto il Governatore della California Gavin Newsom, che il 30 settembre 2022 ha firmato pubblicamente la proposta di legge dal titolo ‘Decriminalizing Artistic Expression Act’. Alla cerimonia erano presenti gli artisti hip hop Killer Mike, Meek Mill, Too Short, Ty Dolla Sign, YG, E-40 e Tyga. La legge vuole contrastare quella pratica, abusata nei tribunali statunitensi, di portare in aula i testi delle canzoni rap come fossero una prova dei crimini commessi dai loro autori. Ha fatto scuola al proposito il processo al rapper Young Thug. Secondo l’accusa, quando l’artista nella canzone Anybody canta: “Non ho mai ucciso nessuno, ma ho qualcosa a che fare con quel corpo”, starebbe ammettendo una complicità indiretta nell’omicidio di Donovan Thomas Jr., componente di una gang rivale. Dopo l’arresto di Young Thug, oltre cento tra artisti, leader dell’industria musicale, esperti legali hanno firmato una lettera aperta sul New York Times criticando la pratica di trattare le canzoni come fossero confessioni. “I rapper sono narratori”, si legge, “creano interi mondi popolati da personaggi complessi che possono interpretare sia l’eroe che il cattivo. Ma più di ogni altra forma d’arte, i testi rap vengono essenzialmente usati come confessioni nel tentativo di criminalizzare la creatività e l’arte nera”. Ma torniamo a Baby Gang. La sua storia è una di quelle che ho raccontato nel libro Jailhouse Rap. Storie di barre e sbarre, appena uscito per le edizioni Arcana e scritto insieme a Patrizio Gonnella. Nato a Lecco nel giugno 2001 da genitori marocchini, ha vissuto con la famiglia in condizioni estremamente disagiate fino a quando non ha deciso di essere sufficientemente grande da smettere di pesare sul padre e sulla madre. Aveva solo undici anni. “Sono uscito di sera, avevo preso l’ultimo treno, e da lì mi sono trovato in stazione da solo, senza amici, senza nessuno, ero io, uno zainetto e un paio di merendine”, racconta. Per anni dorme sui treni o sotto i ponti di Lecco. Non è affatto facile in un paese che, con le sue leggi sull’immigrazione, ti sta semplicemente dicendo che non ti vuole, che non fai parte della sua comunità, nonostante tu sia nato in Italia e ti senta del tutto italiano. Zaccaria vive di piccoli furti, ruba cibo e vestiti, dorme nella spazzatura, si arrangia come può, abusa di alcol, cannabis, Rivotril. Questo quando è fuori. Altrettanto spesso è dentro: “ogni estate l’ho passata o in galera o in comunità”, racconta ancora. “Baby Gang teneva molto al progetto nelle carceri che voleva realizzare dopo l’uscita del disco”, mi dice Mariapia Scarciglia. “Ripeteva che il carcere gli ha tolto molto ma non la voglia di fare la sua musica. Era questo che voleva portare nelle carceri: la musica e la scrittura, armi potenti capaci di salvare la vita a tanti ragazzi reclusi”. Il primo singolo lo pubblica nel 2018. Si chiama Street e attira una discreta attenzione. In quel periodo entra nella sua vita Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile milanese Beccaria assurto di recente al triste onore delle cronache per le sistematiche violenze lì dentro subite dai ragazzini. Il carcere è un’istituzione cieca e sciocca. Non valorizza il talento musicale di Baby Gang, ne ostacola i progressi, rende difficile ogni passaggio: ottenere uno strumento, un permesso per andare a registrare, un colloquio con il produttore. Ma Don Burgio crede in lui: “Mi faceva andare in studio anche quando gli assistenti sociali non erano d’accordo, perché lui non guarda i fogli della legge, ma la persona, ed è questo che serve: un ragazzo lo si aiuta a quattr’occhi”. La storia di Baby Gang è il riassunto plastico dell’idiozia cui sa arrivare il nostro sistema penale e penitenziario. La pena deve tendere al reintegro in società, un ragazzo parte dall’esclusione più profonda, riesce con la sua passione ad affermarsi come artista, ma l’istituzione invece di valorizzarlo ne ostacola in tutti i modi i percorsi e continua a inchiodarlo alla sua immagine di delinquente. Avremo così un criminale in più e un musicista in meno. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Nordio tira dritto sulla separazione delle carriere: “Riforma in Cdm? Questione di giorni” di Giuseppe Legato La Stampa, 18 maggio 2024 Il ministro della giustizia al carcere di Biella: “Dalla magistratura mi aspetto una saggia valutazione razionale”. “Andiamo avanti, è questione di giorni”. Così ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a margine della visita al laboratorio Zegna all’interno del carcere di Biella, ai giornalisti che gli domandavano della riforma della giustizia e sulla separazione delle carriere. E alla domanda se il provvedimento sarà portato in Cdm il prossimo 29 maggio il ministro si è limitato a dire “verosimilmente sì”. Che reazione si aspetti poi Nordio a pochi giorni dal congresso dell’Anm che ha ribadito la netta contrarietà delle toghe alla separazione delle carriere tra le polemiche sui test psico attitudinali per i neo magistrati ha replicato: “mi aspetto una saggia valutazione razionale”. Dal congresso di Palermo il ministro sostiene di aver “colto un messaggio di dialogo” da parte delle toghe.In mattinata nel suo video messaggio al Festival della giustizia di Roma inviato dal Piemonte e organizzato dall’associazione italiana giovani avvocati ha detto: “Nella nuova riforma la dignità della figura dell’avvocato entra in Costituzione. La figura dell’avvocato avrà una menzione autonoma come elemento strutturale della giurisdizione e con la stessa dignità. La giurisdizione poggia su un tavolo a tre gambe: accusatore, difesa e giudice, per i quali dev’esserci pari dignità. Senza uno di loro sarebbe una giurisdizione monca”. La separazione delle carriere non è di destra. Tre lezioni da sinistra di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 maggio 2024 La riforma in lavorazione nel governo non è solo una giusta: è anche di sinistra. Tre lezioni da grandi maestri per mostrare l’ipocrisia delle dichiarazioni del campo largo. La lagna è già partita e il capo di imputazione sarà grosso modo questo: la separazione delle carriere è una riforma pericolosa, se non vergognosa, che contribuirà a trasformare il pubblico ministero in un surrogato della polizia giudiziaria, che non avrà alcun effetto sulla terzietà del giudice e che non avrà altro effetto se non quello di gettare sulla magistratura una montagna di letame, di delegittimazione, di sfiducia. La lagna è già partita, il capo di imputazione è già chiaro, l’accusa di fondo è già evidente - volete attaccare la magistratura perché siete fascisti - ma c’è un problema importante nella narrazione che farà della imminente riforma sulla separazione delle carriere il mondo progressista. E il problema è questo: la temutissima riforma delle carriere non è una riforma di destra. Lo si potrebbe affermare ricordando che è il buon senso che suggerisce che separare le carriere sia un tema trasversale, perché solo chi finge di non capire cos’è la giustizia italiana può fingere di non comprendere che il problema non è se il pubblico ministero continua a fare quello che spesso fa oggi, muoversi cioè come un surrogato della polizia giudiziaria, ma è far di tutto affinché vi sia un giudice più indipendente, più imparziale e più terzo rispetto a come lo è oggi. Ma se il buon senso non basta, qualche esperienza del passato può aiutarci a capire perché una sinistra che regala alla destra anche la separazione delle carriere è una sinistra che vuole fare di tutto per andare contro la propria storia. Una prima lettura, sul tema, è quella che riguarda Giovanni Falcone, che nel 1989, su questo argomento, sosteneva quanto segue: “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, abbandonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale, paradossalmente, a garantire meno la stessa magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti”. Basterebbe questa frase definitiva di Falcone per avere contezza della strumentalità di molte tesi del mondo progressista sul tema della separazione delle carriere. Ma non ci accontentiamo e anzi vogliamo infierire. In due modi. Il primo, sofisticato ci rendiamo conto, riguarda un pensiero interessante espresso sul tema della separazione delle carriere da parte di una storica icona della sinistra: Giuliano Pisapia. Prima di diventare sindaco di Milano, nella mitica stagione arcobaleno, Pisapia è stato anche un parlamentare di Rifondazione comunista, non esattamente un partito di estrema destra, e nel 2004 ha presentato una proposta di legge così intitolata: “Modifica dell’articolo 190 dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, in tema di distinzione delle funzioni requirenti e giudicanti e di passaggio da una funzione all’altra”. Sintesi: separazione delle carriere. Dice Pisapia: “Nel nuovo processo penale vi è una netta separazione tra il ruolo del pubblico ministero e quello del giudice. Il giudice - a garanzia di una corretta amministrazione della giustizia e nell’interesse dell’intera collettività - non solo deve essere - come espressamente previsto dall’articolo 111 della Costituzione - terzo e imparziale, ma deve anche apparire il più possibile equidistante da tutte le parti processuali (pubblico ministero, imputato e parte offesa)”. E ancora, tenetevi forte: “Riconoscere la sostanziale differenza tra la funzione requirente e quella giudicante equivale - diversamente da quanto alcuni temono - a garantire meglio la magistratura, la sua indipendenza e a prevenire il pericolo che ne sia inficiata la credibilità”. E infine, non svenite: “Non si può fare a meno di rilevare, peraltro, che la situazione italiana è del tutto anomala rispetto alla situazione della maggior parte degli altri paesi europei, nonché da quella di altri paesi extraeuropei, dove, seppure con forme diverse, è stata già operata, una netta distinzione tra le due funzioni. Il caso più interessante è sicuramente rappresentato dalla Francia dove la differenziazione di ruoli tra organi requirenti e giudicanti è talmente netta che nel 1993, con una legge di revisione costituzionale, è stata creata una sezione del Consiglio superiore della magistratura competente esclusivamente nei riguardi dei magistrati del pubblico ministero. In quasi tutti i paesi europei (per esempio Inghilterra, Galles, Germania, Svezia ed Austria) e in molti paesi extracomunitari la differenziazione delle funzioni o delle carriere è molto forte”. E infine: “Anche in Italia è necessario e indifferibile un intervento legislativo teso a rafforzare la differenza di funzioni tra i magistrati, e non già in una logica di emergenza, ma in ottemperanza al dettato costituzionale. Giova ricordare, per evitare qualsiasi equivoco, che nel nostro ordinamento non vi è alcun rischio che una più netta separazione delle funzioni possa, in qualsiasi modo, determinare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo: lo impediscono (e sono questi argini insuperabili) l’articolo 112 della Costituzione, che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, l’articolo 104, primo comma (‘La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’) e l’articolo 107,terzo comma (‘I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni’)”. Siccome però vogliamo infierire e non ci accontentiamo delle parole di Giovanni Falcone e di Giuliano Pisapia potremmo aggiungere al catalogo un dato ulteriore e non meno clamoroso che riguarda una mozione congressuale presentata nel 2019 dall’ex segretario del Pd Maurizio Martina. Quella mozione venne sostenuta da molti esponenti del Pd che tuttora rivestono un ruolo di primo piano nel partito guidato da Elly Schlein, che se non ricordiamo male si chiama ancora Pd. Tra questi vi era anche, oltre al capo della minoranza del Pd Lorenzo Guerini, anche Debora Serracchiani, attuale, udite udite, responsabile Giustizia del Pd di Schlein. La mozione presentata da Maurizio Martina aveva questo titolo: “Cambiare il Pd per cambiare l’Italia”. E indovinate qual era il punto più importante del suo programma sulla giustizia? Ovvio: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Dal fascismo è tutto, a voi studio. Misure salva-corrotti e attacchi ai giudici, la nuova destra distorce il diritto di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 maggio 2024 “Ordinamento giudiziario. Il Pm è distinto dai giudici”. Sono passati poco meno di 50 anni da quando Licio Gelli scrisse uno dei suoi capisaldi del Piano di rinascita, il manifesto della P2. Ecco, ora ci siamo quasi. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha spiegato che è arrivato il tempo della separazione delle carriere, ultimo passaggio di un proposta confusa (una proposta oggi, una smentita domani) per la realizzazione di un piano preciso di una nuova idea di giustizia. Che, al di là dei proclami (più veloce, più efficiente, intransigente), a detta degli addetti ai lavori si sta dimostrando una giustizia di classe. Debolissima con i forti e forte con i deboli. La separazione delle carriere - Partiamo da quanto sta accadendo in queste settimane. Dall’annuncio, cioè, della premier Giorgia Meloni dell’avvio di una riforma costituzionale che avrà due punti cruciali: la separazione delle carriere, la modifica del funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. E forse, anche, la cancellazione di uno dei capisaldi del nostri sistema: l’obbligatorietà dell’azione penale. La separazione, come detto, è stata una bandiera di Gelli ripresa poi in mano da Silvio Berlusconi e da Forza Italia. Che mai, però, ebbe la forza e il coraggio di metterla in pratica. Il perché è ben spiegato da quanto sta accadendo in queste ore. “Tutta la magistratura associata è contraria alla riforma” ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, raccogliendo l’appoggio e, anzi, l’incoraggiamento ad alzare le barricate da tutti i gruppi. Da Magistratura indipendente - assai dialogante con questo Governo anche grazie alla figura del sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano - ai “duri” di Area, da Unicost agli indipendenti, non si è alzata una parola di consenso a quello che viene considerato “un attacco alla Costituzione”. Ma perché? Quella dei magistrati è soltanto una difesa di classe? O è invece una difesa, nel delicato equilibrio tra i poteri dello stato, dell’indipendenza del potere giudiziario da quello esecutivo? “La separazione delle carriere fra pm e giudici - spiega Ciccio Zaccaro, segretario di Area - nei fatti avrà due effetti: indebolire il ruolo terzo del pubblico ministero e rafforzare invece quello della polizia giudiziaria. Mi chiedo: il cittadino che beneficio ne avrà? Otterrà così una giustizia migliore, più efficiente, veloce, giusta? Assolutamente no. A trarre beneficio sarà soltanto il potere esecutivo che si sottrarrà dal controllo. E al contrario potrà esercitare sulla polizia giudiziaria un potere di controllo e indirizzo che, invece, non hanno e non possono avere sui magistrati. A pagare prezzo, non saremo noi. Ma i cittadini che avranno meno garanzie rispetto a un giusto processo, sin dalla fase delle indagini. E una burocrazia sempre più forte: due Csm, due corpi giudiziari”. Il pugno duro - Eppure, questo è il Governo che si è presentato agli elettori con la promessa di una giustizia efficiente e intransigente. La premier Meloni che gridava al blocco navale. Il vice premier, Matteo Salvini, che citofona a casa di presunti spacciatori di droga. La legge bandiera di questo esecutivo è il “decreto Caivano”, arrivato anche per sanare il pasticcio della norma anti Rave (che rischiava di mettere fuori legge ogni manifestazione di gruppo), che tra le altre cose ha alzato i massimi per le pene dello spaccio di lieve entità. Significa che basta passare uno spinello per trascorrere una notte in carcere. Risultato? Le prigioni scoppiano e sono completamente fuori controllo: i suicidi tra i detenuti crescono e sembrano non interessare a nessuno. “Direttive scritte male, grandissima confusione” denuncia il segretario degli agenti penitenziari della Uil, Gennarino de Fazio, “lo Stato chiede a noi di imporre una legge dello Stato che loro non sono in grado di rispettare. I detenuti sono fuori controllo”. Qualche settimana fa, in una delicatissima indagine per la ricerca di un latitante, polizia e carabinieri si sono resi conto che intercettavano in carcere un mafioso che aveva a disposizione quattro diversi telefoni cellulari, a conferma che ormai la criminalità organizzata è in grado di gestire tutti gli affari dalla galera come se niente fosse. “Eppure” ripete da anni il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, che per primo ha denunciato questa vergogna, “basterebbe schermare le prigioni…”. Il colpo di spugna sulla corruzione - Ma non sono queste le parole che il governo Meloni ascolta, in tema di giustizia. Basta vedere cosa è accaduto dopo l’inchiesta di Genova, con l’arresto del governatore Giovanni Toti. Nel mentre l’Antimafia della presidente Chiara Colosimo processava il sindaco di Bari, Antonio Decaro, mai indagato nell’inchiesta sul voto di scambio nella sua città, il ministro della Giustizia, Nordio puntava il dito contro i magistrati genovesi che avevano arrestato Toti. Per non sbagliare, al ministero nelle stesse ore lavoravano a una riforma che non consentirà più inchieste come quella ligure. Perché il ragazzino che passa lo spinello, deve andare in carcere. Ma corrotti e corruttori non si possono intercettare con i trojan, quei software cioè in grado di trasformare i cellulari in microspie. Sono stati lo strumento cruciale in tutte le ultime indagini sulla corruzione: caso Toti, appunto. Ma anche quella che ha portato agli arresti (ha chiesto di patteggiare) di Tommaso Verdini, figlio di Denis e cognato del ministro Salvini. O l’inchiesta che ha costretto al patteggiamento dell’ex deputato della Lega, Gianluca Pini, condannato per corruzione come l’eurodeputato di Fratelli d’Italia, Carlo Fidanza. Ma vietare il trojan per reati di corruzione sarebbe soltanto l’ultimo passaggio di un piano preciso che vedrà l’abolizione dell’abuso di ufficio e il ridimensionamento del traffico di influenze, due passaggi della riforma della giustizia, che renderebbero impossibile punire i “facilitatori” alla Verdini o quei pubblici amministratori che utilizzano il loro ruolo per ottenere vantaggi privati. Un esempio? I sindaci che annullano cartelle esattoriali prima delle elezioni. “Eliminare i trojan, dopo gli interventi sull’abuso di ufficio e il traffico di influenze, significherebbe rendere impossibili le indagini sulla corruzione” spiega il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, forse il magistrato italiano con più esperienza sul tema, anche grazie alla sua esperienza all’Anac. “Si avvererebbe l’auspicio di chi ritiene che la corruzione vada eliminata dal codice penale”. Gli organici e i flop organizzativi - Ma se l’attacco ai reati per i colletti bianchi, insieme con le scelte sulla separazione delle carriere, sembra appartenere a un preciso (e in un certo senso legittimo) disegno politico, non può essere trascurato un altro aspetto: il caos. Avevano detto: riempiremo i buchi di organico. E invece all’appello mancano 1600 toghe. Avevano promesso: saremo più efficienti. E nella riforma prevedono tre gip per decidere le custodie cautelari. Al di là delle questioni di incompatibilità, per restare a Roma oggi ciascuno dei 40 gip decide su 25 convalide annue. Se la riforma entrasse in vigore, diventerebbero 75. Impossibile. Repubblica, con Liana Milella, aveva raccontato per prima la rivolta di 26 presidenti delle Corti d’Appello di tutta Italia davanti alla riforma sulla prescrizione. Non una motivazione “politica”. Ma tecnica: “Con la norma si rischia la paralisi delle intere attività” avevano scritto. Risultato? Zero. La riforma sta per essere approvata con la benedizione del ministro Nordio e di quella che lui stesso chiama “la ministra”, la sua potentissima capa di gabinetto Giusi Bartolozzi, magistrata fuori ruolo ed ex parlamentare di Forza Italia (con ottime entrature anche in Italia Viva) che gestisce tutti i dossier più delicati. Primo tra tutti l’esercizio delle azioni disciplinari nei confronti dei suoi ex colleghi. A conferma che il vero senso della riforma è una questione di tempi: controllare. E non essere controllati. Libertà sì, ma prima imparzialità. Al Csm il dibattito su social e toghe di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 maggio 2024 Gli esperti: il magistrato è titolare degli stessi diritti degli altri cittadini. Ma un uso attento degli strumenti digitali è fondamentale per salvaguardare l’autorevolezza. L’imparzialità per il magistrato è un “prerequisito” irrinunciabile. E, come sottolineato più volte dal capo dello Stato, oltre ad essere imparziale la toga deve però anche apparire tale. L’imparzialità, infatti, è il valore cardine cui tende anche la garanzia di autonomia e indipendenza che risulta centrale per la legittimazione dell’attività giurisdizionale. Su come conciliare dunque l’imprescindibile imparzialità con l’utilizzo dei social network da parte di pm e giudici, il Consiglio superiore della magistratura ha organizzato questa settimana un seminario a Palazzo Bachelet a cui hanno partecipato magistrati, accademici, giuristi e giornalisti. “Viviamo ormai da tempo nell’era della comunicazione mediata dal computer”, ha affermato il vice presidente Fabio Pinelli, ricordando che “la magistratura deve adeguarsi a questa cultura digitale che si sovrappone e si integra ai linguaggi già esistenti diventando essa stessa un linguaggio”. Per il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, “anche nell’uso dei social l’alternativa è tra la ricerca dell’autorevolezza o la ricerca del consenso: la prima è l’unica che può essere imboccata da un magistrato e un giornalista, in quanto per entrambi non è possibile ammettere una distinzione tra profilo professionale e personale”. “Il magistrato è titolare dei medesimi diritti che sono riconosciuti a tutti i cittadini. Tra questi diritti vi è la libertà di manifestazione del pensiero. Negarla al magistrato sarebbe contrario ai principi dello Stato di diritto”, ha puntualizzato il professore di diritto costituzionale Massimo Luciani. “La delicatezza della funzione - ha aggiunto impone al magistrato di esercitare quel diritto di libertà con lo stile, la prudenza e l’intelligenza che devono essere propri di chi è gravato da compiti di grandissima importanza”. La prima presidente della Cassazione Margherita Cassano da parte sua ha invitato a riflettere sui limiti ma anche sui doveri di comunicare la giustizia per garantire la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria, in linea con una moderna concezione della responsabilità dei magistrati: “Serve uno sforzo di ciascuno di noi nell’uso di un linguaggio diverso all’interno dei nostri provvedimenti: un linguaggio che rifugga, laddove possibile, da inutili tecnicismi e sfoggi di erudizione, semplificando senza banalizzare. È questa la nuova prospettiva culturale che ci viene richiesta, quella del dovere etico di comunicare nel rispetto delle regole processuali”. Il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, titolare dell’azione disciplinare, ha sottolineato i limiti che si impongono ai magistrati nella comunicazione extra istituzionale, evidenziando l’importanza di agire sulla formazione e sull’incremento di una solida cultura della giurisdizione, invitando ad “abbandonare la tentazione dell’autoreferenzialità, riscoprire il significato della funzione come dovere, rafforzare il sistema deontologico e di valutazione della professionalità”. Secondo il presidente del Consiglio di Stato Luigi Maruotti, “i magistrati sono titolari dei diritti fondamentali della libertà d’espressione e della libera manifestazione del pensiero, ma sono titolari anche di doveri fondamentali, connessi alle regole sul giusto processo. Vanno evitati quei comportamenti sui social che possano far dubitare della loro imparzialità”. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, differentemente dal Csm, già dal 2021 ha approvato una delibera sulla “comunicazione e i social” con l’obiettivo di prevenire comportamenti inappropriati, attraverso la formazione dei magistrati. Il consigliere laico Michele Papa si è invece concentrato sull’importanza dei codici etici e le linee guida in questo delicato ambito. Concetti che sono stati ripresi durante la tavola rotonda a cui hanno partecipato il vicedirettore dell’Agenzia per la cybersecurity Nunzia Ciardi, l’ex presidente del Cnf Andrea Mascherin, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e la professoressa di diritto del lavoro dell’Università di Bologna Patrizia Tullini. Il seminario si è concluso con la relazione del presidente emerito della Corte costituzionale e già ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick. Piccola notazione a margine: tutti i relatori hanno dichiarato di non avere un profilo social e, come nel caso di Luciani, di non sentirne affatto la mancanza. E se fosse questa la soluzione? Intercettazioni, un sistema AI per evitare gli scambi di persona di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 maggio 2024 Metti l’Intelligenza Artificiale al servizio dei Tribunali e addestra una rete neurale a riconoscere se la voce dell’indagato è la stessa voce fra quelle intercettate durante le indagini. Poi applica un modello scientifico che compara le caratteristiche delle due voci, lo stesso metodo biometrico utilizzato per comparare le tracce di Dna presenti sulla scena di un crimine: e avrai Intrepido, un sistema di nuova generazione sviluppato presso il Centro di ricerca interdisciplinare sul linguaggio (Cril), dell’Università del Salento (Dipartimento di Studi Umanistici), diretto dal professor Mirko Grimaldi. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista internazionale Speech Communication. Francesco Sigona (ricercatore del Cril) e Mirko Grimaldi, professore di Linguistica generale, hanno lavorato per anni alla elaborazione di un software in grado di offrire uno strumento all’avanguardia nel campo delicato della comparazione forense della voce, dove gli errori giudiziari sono sempre in agguato. “Nel sistema attuale - commenta il professor Grimaldi - la figura del perito fonico non è prevista dal legislatore e la riforma Cartabia non ha colmato la lacuna. L’identificazione del parlante in ambito forense è spesso lasciata al fai da te, assegnata cioè a figure che non hanno nessuna formazione specifica. Per questo, ogni perito si sente libero di usare il metodo che preferisce (raramente basato su presupposti scientifici), e la sorte dell’indagato può finire nelle mani del caso. Ciò non dovrebbe mai avvenire nelle aule dei Tribunali, dove invece sono richieste evidenze oggettive, al di là di ogni ragionevole dubbio. I risultati ottenuti dal sistema che abbiamo sviluppato sono migliori di tutti gli altri attualmente in uso; pertanto, Intrepido si propone come il sistema più affidabile di identificazione del parlante in campo forense e, grazie a questo strumento, magistrati, avvocati e periti hanno ora uno strumento in più per applicare i principi del giusto processo”. Nessuna pietà per Medea di Rosaria Manconi* L’Unione Sarda, 18 maggio 2024 Nella giornata dell’orgoglio femminile da poco celebrata e progetti per abbattere le discriminazioni ancora dure a morire nessuna/o ha rivolto il pensiero a quelle donne che, come novelle Medea, incarnazione di un femminile distruttivo, irriducibile alla cultura del focolare, dell’accudimento e della maternità, hanno tolto la vita ai loro figli. Donne che, sfidando tutti gli stereotipi della maternità gioiosa e appagante, hanno compiuto il gesto più contro natura che possa esistere e per questo respinte dalla comunità e lasciate sole nel buio della loro mente, nell’orrore che si contrappone all’amore materno e si consuma nella contraddizione indecifrabile fra vita e morte. Non c’è analisi psichiatrica o sociologica in grado di decodificare quel loro male profondo, tanto profondo da essere scambiato per il bene dei figli. Né che possa spiegare perché a un certo punto i pensieri, i sentimenti, le emozioni di un essere umano possano virare in senso distruttivo innescando la tragedia. Nella insondabilità del dramma e delle ragioni che sottendono il loro gesto, per queste donne c’è solo la condanna morale della comunità e quella penale dei tribunali, senza possibilità di riabilitazione. Come se la pena inflitta dagli uomini possa esaurire le dinamiche complesse sulla base delle quali si chiede che venga fatta giustizia. Come se la coscienza di un popolo civile possa ridursi all’orrore ed allo sgomento, alla invocazione della punizione e non richieda, invece, una profonda e costante riflessione sulla necessità e sul dovere di cambiare questo mondo che ingabbia il genere femminile in modelli impersonali di maternità e condanna alla disperazione tutte le volte che infrange i divieti sacrali o sfugge alle attitudini ed agli archetipi cui le donne sono relegate. Sono principalmente le donne più fragili, abituate a non contare nulla, sottomesse, parti deboli di un rapporto affettivo e familiare sbilanciato, le protagoniste ed insieme vittime di questi drammi che non hanno nulla di improvviso ed imprevedibile. Donne che soccombono sotto il peso della loro sofferenza e spesso cadono nel disturbo mentale. La conseguenza del loro gesto è spesso l’isolamento psichiatrico o, come la cronaca ci rimanda, la pena perpetua. Una soluzione che non ci sottrae ad alcuni doverosi interrogativi: dove eravamo noi, dove gli amici, le famiglie prima che si compisse la tragedia? Quali i segnali di disagio e le richieste di aiuto che non sono state colte? Dove erano i servizi deputati al monitoraggio delle situazioni di disagio sociale? Dove le istituzioni? Davvero possiamo ritenerci esenti da ogni responsabilità? Ecco perché queste donne-madri dimenticate, fuori da ogni celebrazione, in bilico fra follia e tormento, meriterebbero almeno commiserazione e pietà, al pari di quella per i loro figli. Non fosse altro per la nostra disattenzione e perché nessuno può dirsi al sicuro dalla fragilità della mente, né escludere l’eventualità che un giorno, imprevedibilmente, quella stessa mano che accarezza il figlio possa togliergli la vita. È di pochi giorni fa la notizia dell’ergastolo inflitto ad Alessia Pifferi per la morte della figlia Diana, una condanna sulla quale la nostra coscienza dovrebbe sussultare e riflettere. Non certo sentirsi sollevata. Riflettere sulla evitabilità di queste tragedie, sulla inutilità della pena perpetua- invocata e favorita dal clamore e dallo sdegno mediatico- quale punizione per una morte che non ha una sola colpevole. *Avvocato del Foro di Oristano 18 maggio 1988, muore Enzo Tortora. Ma la sua battaglia è eterna di Francesca Spasiano Il Dubbio, 18 maggio 2024 36 anni fa se ne andava il conduttore di Portobello, vittima di un clamoroso “crimine giudiziario”. La compagna Francesca Scopelliti: “L’ho ricordato insieme ai detenuti di Opera”. Enzo Tortora è tantissime cose. Un simbolo che riassume i mali della nostra giustizia. Una costellazione di date che ne scandisce la storia e che periodicamente ci solleva dall’oblio per guardare negli occhi il “crimine giudiziario” che il conduttore aveva subito. 17 giugno 1983, l’inizio: l’arresto studiato a favore di telecamere all’Hotel Plaza di Roma, la “passerella della vergogna” coi ceppi ai polsi. 18 maggio 1988, la fine: il tumore si porta via Enzo Tortora tra le braccia della sua compagna di vita e di lotta Francesca Scopelliti. Un anno dopo l’assoluzione definitiva che aveva sancito l’innocenza del giornalista, la malattia ha il sopravvento. Esplode: “Era quella bomba al cobalto di cui parlò al momento dell’arresto”, racconta in occasione dell’anniversario Scopelliti, presidente della Fondazione che porta il nome di Tortora per tenerne vivo il ricordo. Ancora oggi le sembra “inaccettabile” morire di malagiustizia. “È il dolore più grande”, ammette. Prima di concederci un’altra immagine dell’ultimo giorno di Tortora: “È come se avesse tirato i remi in barca, dopo aver risolto tutte le questioni che aveva in sospeso: si è ritirato, lasciandosi portare alla deriva”. Scopelliti allude alle grandi battaglie degli anni prima. Quelle nei giorni del carcere, tra i detenuti, quelle con Marco Pannella per i referendum della giustizia. E ancora il celebre “Dunque, dove eravamo rimasti?”, pronunciato in tv dopo l’ingiustizia e la gogna subita. Da allora, dalla sua morte, sono passati 36 anni e ricordarci di Tortora e del suo caso è più importante che mai. “Il primo tentativo è stato di dimenticarlo: non bisognava parlarne perché incideva sulla cattiva coscienza di tanti: magistrati, giornalisti, politici. Cioè tutti coloro che non hanno saputo affrontare ciò che Enzo ha dichiarato essere fin dall’inizio una vergogna giuridica”. Ma la rimozione collettiva, quella no, non è riuscita. Scopelliti lo scopre giorno dopo giorno, nei dibattiti che la vedono impegnata in giro per l’Italia. L’ultimo oggi, nel giorno della “vigilia”, tra i detenuti del carcere di Opera di Milano dove si è tenuto un evento organizzato con Nessuno Tocchi Caino, “Compresenza”, per ricordare Tortora, Pannella e Mariateresa Di Lascia, intellettuale radicale e fondatrice dell’Associazione. “Quando entro in carcere non mi sento mai a disagio: è come se quell’ambiente mi fosse familiare” confessa Scopelliti. Che in prossimità del giorno più doloroso ha scelto proprio i detenuti come pubblico prediletto. Quegli stessi detenuti, compagni di cella, a cui Tortora voleva dare voce, “coloro - diceva - che parlare non possono, che sono tanti e che sono troppi”. Li avevi incontrati prima nel carcere di Roma, a Regina Coeli, nei terribili mesi prima degli arresti domiciliari di cui resta traccia nel libro realizzato con i penalisti, “Lettere a Francesca” (Pacini editore). In quel carteggio Tortora racconta dell’inumanità della pena. Di quel tempo vuoto, straziante, in attesa del processo. Dietro le sbarre da innocente, mentre nel mondo di fuori fabbricavano il suo destino. Per lui i magistrati avevano formulato un’accusa infamante: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il nome lo avevano tirato fuori i pentiti, e per il resto era bastato un pizzico di immaginazione: troppo ghiotta l’occasione di mettere in “copertina” di inchiesta il volto noto del conduttore di Portobello. Da lì, il processo mediatico che anticipò quello vero. Con la condanna a 10 anni in primo grado nel 1985. Quindi il ribaltamento nel 1986, in Corte d’Appello a Napoli. Merito soprattutto del giudice Michele Morello, che spianò la strada per l’assoluzione. Resa definitiva dalla Cassazione un anno dopo, e uno prima della morte. Siamo di nuovo al maggio 1988. Francesca Scopelliti telefona a Marco Pannella e gli dà la notizia peggiore: Enzo Tortora se ne è andato. Il leader radicale prende parola alla Camera dei deputati mezz’ora dopo. Un minuto di silenzio. “Enzo Tortora - scandisce Pannella - non va considerato come una vittima, perché ha saputo non essere consenziente allo strazio di legalità e di diritto, perché non è stato tonto, non ha accettato il ruolo tragico di vittima, non ha consentito che la giustizia fosse vittima. Enzo Tortora ci lascia sperare... Tortora era un uomo di cultura e non di potere, né nelle istituzioni né nella professione... Era un liberale. E accadde anche a lui di esserlo “altrove” per meglio esserlo, fino alla fine. Era un radicale... Era, dicono, “un presentatore”. Ma nessuno come lui ha “rappresentato” e non “presentato” o commentato, la passione per la giustizia, l’amore per coloro che la condividevano o per coloro che ne soffrivano la mancanza o la violenza. Era anche capace di essere spietato: ma la carità è dura, non melassa. Ha conosciuto anche lo strazio dell’aver intelligenza e ragione: perché quel che la ragione e l’intelligenza vedono oggi è e non può essere che dolore, causa di dolore”. Napoli. Doveva scontare 9 anni, detenuto casertano ritrovato morto in cella casertace.net, 18 maggio 2024 La comunità di Alvignano è rimasta scioccata dalla notizia della morte di Teodorico Musco. L’uomo si trovava in carcere a Napoli e doveva scontare una condanna a nove anni di reclusione. Quando i compagni di cella si sono resi conto di quello che era successo, la situazione era oramai irrecuperabile. Negli anni Musco era stato coinvolto in alcune vicende giudiziarie. Un furto nei cassetti dello spogliatoio dei medici dell’ospedale Loreto Mare di Napoli, caso successo nel settembre scorso. Ma anche nel 2009 aveva subito un arresto per una tentata rapina in villa. Musco fu anche accusato di maltrattamenti in famiglia ed estorsione. Genova. Il carcere aperto della direttrice Ardito: “Ogni morte in cella è una sconfitta” di Michele Varì primocanale.it, 18 maggio 2024 La responsabile del penitenziario di Marassi sognava di fare il magistrato, ma ora ama il lavoro con i reclusi: “Vederli uscire e non tornare è la cosa più bella”. Teatro, panetterie, assistenza ai disabili in spiaggia: così i reclusi possono riinserirsi. “Il problema principale è il numero di detenuti particolarmente alto visto che abbiamo più di 700 detenuti, troppi e di tante etnie diverse che devono convivere”, attacca così Tullia Ardito, da due anni direttrice del carcere di Marassi, una donna che sognava di fare il magistrato o l’avvocato e per puro caso, facendo un concorso, si è ritrovata a fare il direttore del penitenziario più importante della Liguria, “un lavoro che svolgo da trent’anni e ora amo”. La dirigente ammette che anche a Marassi ci sono molte aggressioni come in tutte le carceri d’Italia, anche contro i poliziotti penitenziari come denunciano da sempre in sindacati: “Noi ci adoperiamo per prevenirle”. Un sovraffollamento quasi fisiologico in uno delle carceri più grande del nord Italia che si tenta di tenere sotto controllo con trasferimenti periodici coordinati cadenzati ogni 15 giorni con il provveditorato di Piemonte e Liguria, “paghiamo anche il fatto che il carcere di Savona è chiuso e quindi la nostra competenza territoriale si spinge fino a Finale Ligure”. Nella Cajenna di marassi si stringono fino a sei persone nelle celle grandi, e due sole persone in quelle piccole. Un penitenziario che da dieci giorni ospita anche il recluso importante, l’ex presidente dell’autorità portuale Paolo Emilio Signorini, che è una cella della sezione protetta della sesta sezione con Salvatore Cannella, l’uomo condannato all’ergastolo perché che l’anno scorso uccise la moglie a San Biagio, in Valpolcevera. Ma di questi casi Ardito non parla. Ci tiene invece a ribadire che quando muore un detenuto, e a Marassi oltre ai suicidi che avvengono in tutti gli istituti c’è stato persino un omicidio, ci si sente sconfitti, “non è naturale morire in cella” dice. La parte più gratificante di un direttore è invece non rivedere tornare dentro un detenuto scarcerato. Importanti sono le attività di rieducazione che permettono di regalare una speranza che una volta fuori si possa ricominciare con qualche possibilità in più. “Noi facciamo attività teatrali, come i libri viventi in cui i detenuti raccontano le loro storie - spiega Ardito - la panetteria, la riapertura della falegnameria, l’assistenza ai disabili in spiaggia, esperienza iniziata l’anno passato e che sarà ripetuta quest’estate, poi abbiamo tantissime di detenuti che escono per progetti di pubblica utilità con il Comune come ripulire i giardini”. La direttrice parla anche della peculiarità del carcere di Marassi di trovarsi fra le case, “comodo per gli operatori e i familiari dei reclusi per i colloqui, ma più complicato per la sicurezza e la logistica visto che si trova fra un supermercato e lo stadio. Lanci di telefonini e di droga dall’esterno? Sì, ci sono sempre stati, ma noi cerchiamo di contrastarli con più controlli”. Livorno. Un altro carcere è possibile e l’isola di Gorgona lo dimostra di Giulia Merlo Il Domani, 18 maggio 2024 L’isola ospita una casa di detenzione di media sicurezza: tutti lavorano per far funzionare il microcosmo. I detenuti vivono fuori dalle celle: “Preferisco vedere mia madre due volte l’anno, ma qui all’aperto”. La Camera penale di Padova ha organizzato qui il convegno “I luoghi e gli spazi di detenzione”. “Chieda a mia madre se preferisce vedermi qui due volte l’anno, oppure tutte le settimane in un carcere chiuso. Per me era un’angoscia tutte le volte che entrava”. P. è il più loquace tra i detenuti di Gorgona, è stato ribattezzato “il sindacalista” perché è quello che spesso parla a nome di tutti. Ha l’accento piemontese e prima di arrivare qui ha girato molti penitenziari: “Ivrea, Torino, Alessandria, Asti”, li elenca. Ora può incontrare la madre in un prato curato, sotto una pergola, e trascorrere con lei quattro ore di visita. Così, “sono tornato a una quasi normalità. Sono scresciuto in un paese di campagna e qui sento che ho ricominciato a vivere, stando all’aria aperta”. Questa “quasi normalità” - la sua e quella degli altri 82 detenuti di media sicurezza che scontano pene definitive tra i cinque e i quindici anni e anche un ergastolo - è garantita dal fatto che si trovano nell’ultima isola-carcere d’Europa. Gorgona, infatti, è uno scoglio di 2,2 chilometri quadrati, distante 18 miglia marittime dalla costa di Livorno, che diventa irraggiungibile da qualsiasi imbarcazione quando si alza il Libeccio. Almeno un paio di volte l’anno l’isola rimane isolata anche per una decina di giorni e chi vi risiede non può far altro che aspettare che si abbassi il vento e si calmi il mare, per sperare di rivedere la costa. Arrivando a Gorgona a bordo della motonave “Superba”, che parte dal porto di Livorno tutti i giorni alle 8.45 e rientra alle 17, quel che appare è un ridente borgo di pescatori. Casette basse, coloratissime, che si inerpicano dal porticciolo su e su verso una serie di terrazzamenti. A colpire lo sguardo è un muro azzurro, in alto sopra il molo, con una scritta blu che recita l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Prima le casette erano tutte grigie”, racconta un agente della polizia penitenziaria in servizio, “poi il direttore del carcere ha deciso di dipingerle”. A farlo sono stati i detenuti: Gorgona è l’unico carcere in Italia in cui tutti lavorano. Anche per questo la commissione carcere della Camera penale di Padova, con l’avvocata Annamaria Alborghetti, ha organizzato qui il convegno “I luoghi e gli spazi di detenzione”: una due giorni per capire il “modello Gorgona” e chiedersi se sia replicabile. Passeggiando per le viuzze che conducono al cuore del piccolo borgo, dove si trova lo spaccio gestito dalla penitenziaria e da alcuni detenuti, si incrociano operai con in mano badili e picconi. Sono tutti detenuti e stanno rilastricando la salita che conduce alla chiesetta, dove officia messa un giovane prete polacco, anche lui in tenuta da lavoro mentre sistema il praticello accanto all’ingresso. “I detenuti gestiscono la funzionalità dell’isola”, spiega il direttore, Giuseppe Renna, che ha la responsabilità anche delle carceri di Pisa e Livorno di cui Gorgona è sezione distaccata. Lui cerca di trascorrere due giorni a settimana in ognuno: “Quando vengo qui sto in paradiso, a Pisa vado in purgatorio e a Livorno entro all’inferno”. La casa circondariale “Le Sughere” di Livorno, infatti, è considerata una delle più difficili d’Italia, per sovraffollamento e fatiscenza delle strutture. Arrivare a Gorgona non è facile, non solo a causa del braccio di mare che la separa dalla terra ferma rendendola l’isola più distante dell’arcipelago toscano. I detenuti arrivano prevalentemente in un modo: rispondendo a un interpello nazionale, esposto in tutte le carceri, che specifica le capacità professionali richieste. Nel gergo carcerario, è una sorta di un annuncio di lavoro: a Gorgona servono elettricisti per riparare l’unico generatore del carcere, muratori per ristrutturare gli edifici rovinati dall’usura e dalle intemperie, giardinieri per gli spazi verdi e poi fabbri, cuochi, idraulici. Chi arriva sull’isola per scontare la pena diventa un ingranaggio indispensabile nel funzionamento del microcosmo. Il detenuto fa domanda spiegando le ragioni per cui chiede il trasferimento, il lavoro che è in grado di svolgere o che vorrebbe imparare, e il suo fascicolo viene esaminato sia dal punto di vista del comportamento che della pena. In questo modo avviene una scrematura: la maggior parte dei detenuti di Gorgona è stato condannato per reati violenti contro la persona, vengono esclusi invece i sex offender e chi ha problemi di tossicodipendenza. Il sovraffollamento del carcere di Livorno, tuttavia, negli ultimi tempi ha imposto l’arrivo di detenuti comuni, che spesso mal si adattano al regime detentivo tutto particolare dell’isola. “I detenuti che vengono qui trascorrono le giornate all’aperto, lavorano tutte le mattine, guadagnano uno stipendio e tornano in cella solo per dormire”, spiega Marcello Bortolato, presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze. Sulla carta, quasi un paradiso rispetto a chi sconta la pena in celle affollate di tre metri quadrati. Ma “questo è possibile perché vivono nel massimo isolamento e con la minima turbativa dall’esterno”. In altri termini: il detenuto che viene alla Gorgona quasi non si sente ristretto, le regole sono poche anche se ferree e la bellezza dell’isola è ammaliante. Esiste una contropartita, però: essere tagliati fuori dalla società, con poche visite da parte degli affetti per la complessità del viaggio e la difficoltà di fare reinserimento lavorativo in terraferma. A Gorgona, infatti, non ci sono semi liberi, perché sarebbe troppo complicato gestire il rientro per la notte, quindi chi ottiene questo regime viene trasferito in altri carceri. Di conseguenza, la prima ragione di chi chiede di essere trasferito a Gorgona è la possibilità di lavorare direttamente sull’isola e così aiutare la propria famiglia. Il pendio che sovrasta il borgo è coltivato a vite, piantate dall’azienda agricola fiorentina Frescobaldi, che produce vino pregiato e qui coltiva sia bacca bianca che bacca nera. Al momento sono impiegati tre detenuti, due dei quali erano contadini nell’astigiano e conoscono bene il mestiere. Guadagnano mille euro al mese, che spediscono a casa. Altri invece lavorano negli orti, per garantire frutta e verdura fresche a pranzo e a cena, o nel campo di ulivi dove dal prossimo anno si produrrà l’olio. Tutti ricevono un compenso. Si tratta di detenuti “articolo 21” o “articolo 20”, spiega un agente della penitenziaria: significa che sono assegnati al lavoro esterno senza l’obbligo del controllo a vista, secondo due diversi regimi previsti dall’ordinamento penitenziario. “Grazie alla collaborazione di tutti, quest’isola è diventata il luogo in cui si è potuta ridurre la lontananza tra i principi costituzionali e la realtà detentiva”, ha commentato Valeria Marino, che è stata per anni magistrato di sorveglianza a Livorno. Così Gorgona è diventata negli anni una meta privilegiata, di cui si viene a conoscenza “con il passaparola in carcere”, dice G., che prima della condanna lavorava in un maneggio e ama occuparsi del bestiame. Lui è il più amareggiato: fino al 2020 sull’isola si allevavano capre, maiali e mucche, con cui produrre latte e formaggi e destinati anche alla macellazione. Poi la Lav - la rete anti vivisezione - ha chiesto e ottenuto che questo si interrompesse perchè considerato diseducativo per chi si è macchiato di fatti di sangue. Così ora gli animali vivono quasi allo stato brado, in attesa di venire trasferiti sulla terra ferma. La carne, il latte e il formaggio invece devono essere importati via nave. Quando G. se ne lamenta, anche i poliziotti della penitenziaria si guardano e annuiscono. Del resto, quella che si è creata a Gorgona è una comunità a tutti gli effetti, seppur sui generis. Gli agenti vivono nelle casette colorate, i detenuti in celle singole con bagno in due edifici al limitare del borgo, che vengono aperte alle 7 del mattino e chiuse alle 9 di sera. Ma quando salta l’elettricità, l’acqua calda non arriva o la nave non può attraccare per il mare grosso, il disagio colpisce tutti. Un microcosmo - Anche gli agenti scelgono Gorgona per ragioni simili a quelle dei detenuti: un conto è fare guardiania in un carcere sovraffollato e respirare la tensione tra le celle chiuse, un altro è farlo in quello che è a tutti gli effetti un penitenziario senza sbarre. L’isola, poi, è considerata meta disagiata, quindi un paio d’anni qui garantiscono una crescita rapida di anzianità di servizio. Anche qui come nel resto d’Italia, tuttavia, la lamentela è la stessa: la carenza di organico, con 25 unità al posto delle 33 minime previste. Eppure, per la straordinarietà del contesto isolano, “Gorgona è forse l’unico carcere in cui è davvero applicata la riforma del 2018, che prevede che in carcere ci siano spazi comuni per una gestione cooperativa della vita detentiva”, spiega l’ex garante dei detenuti, Mauro Palma. L’isola, tuttavia, non è del tutto inaccessibile ai civili: alcuni gruppi di trekking organizzano uscite in giornata per visitare un luogo rimasto incontaminato grazie alla presenza del carcere. Alcune case, poi, sono ancora di proprietà dei discendenti dei pescatori e alcune famiglie trascorrono le vacanze sull’isola, che conta anche una residente fissa speciale: la signora Luisa, di 96 anni. Vive in una villetta affacciata sul porticciolo e due detenuti si alternano nell’aiutarla con i lavori domestici e le tengono compagnia. Nella mostra fotografica “Ri-scatto” sul lavoro a Gorgona, realizzata al poliziotto penitenziario Pierangelo Campolattano (sono sue le foto di Gorgona di questo articolo), Luisa è ritratta seduta su un muretto, con il bastone in mano e un basco chiaro in testa, mentre conversa con un detenuto, un omone imponente con la pelle abbronzata dal sole. Lasciando l’isola a bordo della “Superba”, si affievolisce la sensazione straniante trasmessa da un luogo la cui bellezza stride con le ragioni che hanno costretto lì i suoi abitanti. Resta invece la certezza che ciò che è possibile a Gorgona è ancora drammaticamente irrealizzabile sulla terraferma, dove il carcere rimane un luogo chiuso e ai margini, in cui la rieducazione è ancora una parola che riguarda troppo pochi. Biella. Nordio: “Con la sartoria, seconda chance di vita per i detenuti” gnewsonline.it, 18 maggio 2024 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio insieme a Gildo Zegna, presidente e amministratore delegato del gruppo Ermenegildo Zegna, hanno visitato il laboratorio di sartoria industriale realizzato all’interno della casa circondariale di Biella grazie al supporto e al know-how della divisione manifatturiera del gruppo. Il laboratorio è nato nel 2016, anno del primo protocollo di intesa, con l’obiettivo di formare i detenuti all’apprendimento delle tecniche di confezione sartoriale di abiti e di fornire una attestazione che certifica il grado di apprendimento raggiunto. Attualmente nelle attività sartoriali del laboratorio sono coinvolte 55 persone che producono annualmente circa 2.500 set - ognuno dei quali composto da una giacca e da due gonne o pantaloni - di divise della Polizia Penitenziaria, numero pari a circa un terzo del fabbisogno annuo a livello nazionale. Dopo il primo periodo di avviamento nel corso del quale si sono raggiunti gli obiettivi prefissati, il progetto, anche alla luce dell’ulteriore ampliamento della sartoria terminato nel corso degli ultimi mesi, è pronto ad entrare ora in una nuova fase di sviluppo che prevede il raddoppio del numero di detenuti coinvolti. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha commentato: “La sartoria, realizzata nella casa circondariale di Biella grazie al supporto del gruppo Ermenegildo Zegna, dimostra che il carcere della Costituzione è possibile: questo progetto dà infatti efficace attuazione al valore di una pena tesa al reinserimento sociale e anche al principio di solidarietà tra pubblico e privato. Il mondo del carcere interroga tutti e solo con la collaborazione di tutti potremo arrivare all’obiettivo della “recidiva zero” che ci siamo prefissati. Ringrazio Gildo Zegna e l’intero gruppo per la disponibilità dimostrata ad offrire ad ancora più persone una formazione professionale e quindi una concreta seconda occasione di vita. Con il lavoro, accompagniamo il detenuto nel suo percorso di reinserimento nella società e allo stesso tempo contribuiamo a rendere più sicura la stessa società”. Gildo Zegna, presidente e amministratore delegato del gruppo Ermenegildo Zegna, ha dichiarato: “Ringrazio il Ministro per la sua presenza e per la grande attenzione che ha manifestato a questo importante progetto di reinserimento sociale. Siamo pronti a riconfermare il nostro appoggio al programma ad ulteriore testimonianza del legame tra industria e territorio, principio che da sempre ci guida e ci ispira seguendo la visione del nostro fondatore. Ci auguriamo che il nostro e il rinnovato impegno dell’Amministrazione penitenziaria possano aiutare ad ampliare ulteriormente il numero di persone coinvolte nella formazione”. Hanno accompagnato il Guardasigilli il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove e la vice capo del Dap Lina Di Domenico. In mattinata, Nordio ha incontrato i vertici della procura e del tribunale di Biella. Verona. Il Papa fa visita ai detenuti-falegnami di Luca Fraioli La Repubblica, 18 maggio 2024 “Impariamo un mestiere per quando usciremo di qui: così ci sentiamo utili”. Nell’istituto veneto di Montorio è attivo un laboratorio artigianale, gestito dall’impresa sociale Reverse, che ha realizzato l’allestimento dell’Arena, tappa del Pontefice. “Lo considero un segnale di speranza, soprattutto per me che sono condannato all’ergastolo: non capita tutti i giorni di collaborare a un progetto per la visita del Papa alla città in cui si è detenuto. Ho provato una grande emozione, onore e un senso di utilità”. Sono le toccanti parole di uno dei detenuti-falegnami di Verona che oggi accolgono Papa Francesco nella sua visita al capoluogo veneto. Incontro che avverrà nei loro laboratori all’interno della Casa circondariale di Montorio, ma soprattutto, alle 10,30, sul palco dell’Arena scaligera, dove le scenografie dell’incontro Arena di Pace 2024, tra il Pontefice e la società civile, sono proprio frutto del lavoro di parte della popolazione carceraria veronese: tre cerchi in legno accolgono gli ospiti sul palco attorno al Santo Padre, e si compenetrano in segno di dialogo e accoglienza, pur mantenendo centri diversi. Sono stati realizzati all’interno del carcere veneto, dove è attiva una falegnameria artigianale, gestita dal 2016 da Reverse, impresa sociale veronese che da 11 anni si occupa di “progettazione e produzione responsabile ed inclusiva di allestimenti e arredi per luoghi di lavoro e di vita”. Il progetto della Casa circondariale di Montorio ha come finalità la formazione e l’inserimento lavorativo di persone attualmente detenute con l’obiettivo di diffondere competenze, dignità del lavoro, fiducia in sé stessi e capacità di lavorare in squadra. “Tutti strumenti decisivi per la costruzione di un futuro di benessere per la nostra società e per abbattere il fenomeno della recidiva”, spiegano da Reverse. Una seconda chance - Se ne trova conferma nelle parole di un altro dei detenuti che hanno lavorato alla scenografia: “Non è tanto l’interessamento del Papa, è il lavoro in sé: ho imparato tante cose che potrebbero servirmi anche quando sarò uscito da qua”. Gli arredi realizzati per l’arrivo del Papa all’Arena sono stati realizzati con materiali naturali, utilizzando legno proveniente da scarti produttivi e da filiera controllata. E sono stati pensati perché possano essere riutilizzati. Le Arene di Pace - In occasione della visita alla città di Verona, il programma di Papa Francesco prevede come terza tappa l’Arena di Pace, luogo di incontro che nasce a Verona nel 1986. Promosse inizialmente dal movimento “Beati i costruttori di pace”, le Arene di Pace hanno coinvolto nel tempo diverse realtà, della società civile e dell’associazionismo, mettendo a fuoco diversi spunti di riflessione sulla non violenza, che quest’anno sono riassunti nel tema della giornata “Giustizia e pace si baceranno”. Qui ad accoglierlo 10mila persone. Torino. Don Burgio al Salone del Libro: “Carcere, occasione di rinascita” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 18 maggio 2024 Don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile di Milano “Cesare Beccaria”, è stato ospite al Salone del Libro con quattro ragazzi della sua comunità “Kayros” in un affollato incontro venerdì 18 maggio. L’occasione, la presentazione del suo ultimo libro “Non vi guardo perché rischio di fidarmi. Storie di cadute e di resurrezione” (ed. San Paolo). “Il carcere rimane l’ultimo dispositivo totale in Italia dopo la chiusura dei manicomi. Gli Istituti penali minorili dovrebbero essere superati, perché abbiamo le prove, anche dagli ultimi fatti accaduti al ‘Beccaria’, che si può scivolare in totalitarismo, in un dispositivo totalitario. Per i giovani che devono scontare una pena il carcere, così com’è strutturato, non permette di assolvere al dettato costituzionale dell’art. 27, che prevede che il tempo della pena deve essere occasione di rieducazione. Principio ancora più urgente per i minori reclusi, persone ancora in formazione che hanno bisogno di recuperare cosa si è interrotto nel loro percorso di crescita: famiglia, scuola, fiducia, sentirsi amati”. Sono parole forti, quelle di don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile di Milano “Cesare Beccaria”, dove le recenti indagini su abusi e maltrattamenti sui ragazzi reclusi hanno portato all’arresto di 13 agenti penitenziari e alla sospensione di altri 8, aprendo uno squarcio drammatico sulla situazione delle patrie galere. Don Burgio è stato ospite al Salone del libro con quattro ragazzi della sua comunità “Kayros” in un affollato incontro venerdì 18 maggio. L’occasione, la presentazione del suo ultimo libro “Non vi guardo perché rischio di fidarmi. Storie di cadute e di resurrezione” (ed. San Paolo, pp.156, 15 euro) il cui titolo è un programma: senza fiducia, ascolto, accompagnamento i nostri giovani rischiano di perdersi: non solo quelli “nati in culle sbagliate” - in un campo rom, in una famiglia di camorristi o in un Paese dove l’unica via d’uscita per fuggire da guerre, fame e povertà sono i barconi, ma anche chi è “normale” in un tempo dove la solitudine è la malattia delle nuove generazioni. Don Claudio, classe 1969, ordinato sacerdote dal card. Carlo Maria Martini, dopo anni di esperienza in parrocchia e nella pastorale giovanile, diventa collaboratore di don Gino Rigoldi, storico cappellano del “Beccaria” e nel 2000 fonda “Kayros”: “Proprio così, con la ‘y’ al posto della ‘i’, che sarebbe la forma corretta, pensando ai ragazzi che avremmo accolto”, scrive don Burgio. “Volevamo mettere al centro della parola proprio quell’errore, segno delle storie sbagliate che avremmo incontrato; ma anche segno dei nostri errori educativi, delle nostre incapacità di stare di fronte al dolore di questi adolescenti. Per loro sognavamo un ‘tempo opportuno’ (il significato della parola greca kairos, ndr), un ‘occasione’ di fiduciosa rinascita interiore per dare una svolta promettente al loro cammino esistenziale”. E testimone d’eccezione che senza fiducia non c’è educazione - come erano convinti don Bosco (“in ogni giovane, anche il più disgraziato, c’è un punto accessibile al bene. Dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto”) o don Milani (“I care” e cioè “mi importi, puoi contare su di me”) - è Marta Cartabia, già presidente della Corte costituzionale e ministro della Giustizia, autrice della prefazione del libro. Dopo una settimana trascorsa nella comunità “Kayros” accanto ai ragazzi (alcuni in affidamento dal carcere Beccaria) Cartabia scrive: “Puntare sulla fiducia e sulla possibilità di cambiamento dei ragazzi difficili non è per sognatori come siamo tentati di pensare. Sono le vite cambiate di questi ragazzi a vincere la nostra incredulità”. Parole che si riflettono negli sguardi dei ragazzi di don Claudio, con alle spalle reati pesanti e adulti che non li hanno accolti né “guardati negli occhi per arrivare a quel punto su cui far leva”. Perché - è convinto don Burgio - non è una legge più dura e severa a fare da deterrente per contrastare la criminalità e il disagio giovanile (chiaro il riferimento al recente “decreto Caivano”, i cui unici esiti sono l’aumento dei minori in cella). Non è la paura dell’arresto a scoraggiare un ragazzo dal commettere reati: “Un adolescente cambia se si sente investito di fiducia, se incontra un adulto affidabile capace di offrire reali opportunità di crescita”. Un libro rivolto a tutti coloro che si occupano di giovani: genitori, educatori, insegnanti, politici. “Sì, chiamateci maranza. Ma in periferia ci sono madri che dormono in cantina con i figli” di Marta Blumi Tripodi Corriere della Sera, 18 maggio 2024 Neima Ezza ha 225 milioni di ascolti su Spotify: nelle canzoni racconta la malinconia di tanti cresciuti nei quartieri che definiamo “difficili”. “Quando ero ai domiciliari ho scritto un EP, è disco di platino”. Idee di un rapper tra i più seguiti della sua generazione. È un venerdì pomeriggio di marzo quando incontro Neima Ezza e nei giardinetti all’ombra dello stadio di San Siro il sole splende. Il Ramadan è ancora in pieno svolgimento e molti abitanti del quartiere - uno dei più multietnici di Milano: secondo il progetto Mapping San Siro del Politecnico il 45% è di origine straniera, con Marocco ed Egitto in testa alla classifica - sono appena usciti dalla moschea dopo la preghiera del venerdì. Tra loro ci sono anche Neima Ezza e i suoi amici, che improvvisano una partitella a calcio in attesa di rompere il digiuno al tramonto. “Per me è un periodo di grande purificazione, metto in pausa tutto: prego, sto con la famiglia e rifletto su come migliorarmi” spiega Neima, vestito con una tunica bianca sopra la tuta da ginnastica di ordinanza, un cappellino Gucci e l’iconico borsello a tracolla. All’anagrafe Amine Ezzaroui, classe 2001, con 225 milioni di ascolti su Spotify è uno dei rapper più famosi della sua generazione. Ma la sua notorietà non è dovuta solo alla musica: per via delle sue radici, nelle news è spesso associato alle baby gang e ai cosiddetti “maranza”, termine dispregiativo che è una crasi tra marocchino e zanza, ladro. Eppure, contrariamente ai pregiudizi, le sue canzoni descrivono un mondo (soprattutto interiore) complesso e sfaccettato: degli espedienti criminali non fa apologia, ma un resoconto impietoso e puntuale perché, come dice con rammarico nel brano Bimbo in quartiere, “Il bimbo in quartiere sai cosa ha capito? / Che forse in ‘sti posti vince il più cattivo”. Arrivato a Milano a quattro anni, dove il padre già lavorava come ambulante, ha due sorelle: la minore, ancora una bambina, è affetta dalla sindrome di Rett, una grave disabilità motoria e cognitiva. Con la famiglia ha vissuto fino a pochi anni fa in un bilocale nelle ormai famigerate case popolari di San Siro. Piccolo Principe, uscito a gennaio 2024, per lui è l’album del riscatto dopo una vita complicatissima e qualche inciampo, anche giudiziario. Il successo non ha reso i suoi testi più solari, però: c’è sempre una grande malinconia di fondo. Da cosa deriva? “Pensavo che il successo mi avrebbe reso felice, ma avrò sempre un vuoto dentro. La mia infanzia è stata molto difficile: mi sono mancate anche le piccole gioie, come allenarmi a calcio o andare in gita scolastica, perché non c’erano le possibilità economiche. Quest’album è una lettera al piccolo Amine: gli racconto che migliaia di persone lo acclameranno ai suoi concerti, ma tutto ciò non basterà. Vorrei che i miei fan capissero che tutti i traguardi del mondo non possono rimpiazzare una vacanza spensierata da bambino con mamma, papà e le mie sorelle. Quelle cose non le riavrò mai. Però la mia vita è cambiata in meglio, e di questo ringrazio Dio ogni giorno. Fino a un paio di anni fa temevo che avrei fatto una bruttissima fine, che sarei finito a spacciare o a rubare. E invece... Il mio unico obbiettivo è fare stare bene la famiglia, permettere ai miei genitori di non sacrificarsi più”. Suo padre lavora ancora al mercato? “Ancora per poco, spero, anche se gli piace. Con lui spesso il rapporto è stato di alti e bassi, ma adesso andiamo finalmente d’accordo. All’inizio non era molto convinto della mia scelta di fare musica: forse voleva proteggermi, non si fidava tanto dell’ambiente dello spettacolo. Quando ha capito che avevo la testa sulle spalle e non mi sarei perso, però, si è tranquillizzato. Ho appena preso casa in un paese fuori Milano dove andavo con lui a fare i mercati da ragazzino: ai tempi mi stupiva la tranquillità della zona, non ci ero abituato. Avrei voluto venissero anche i miei genitori, ma preferiscono restare dove sono per via dei problemi di mia sorella: sono più vicini all’ospedale. Così sono andato via solo io, anche se torno ogni giorno a San Siro. Mi manca troppo”. I giovani del quartiere sono da anni nel mirino dell’opinione pubblica, oggi più che mai, a giudicare dai toni di alcuni talk show. Cosa ne pensa? “Oggi ce l’hanno coi maranza, un tempo coi punkabbestia o con la techno. Non prendo seriamente un certo tipo di tv e non mi riconosco nei personaggi che parlano in quelle trasmissioni: noi di seconda generazione siamo ragazzi normali”. Le dà fastidio il termine “maranza”, non proprio lusinghiero? “È solo una moda, ma sicuramente c’è un fondo di verità. Tanti di questi ragazzi esagerano, si crea un effetto alla “scemo e più scemo”: da una parte loro, dall’altra i moralisti televisivi... (ride) Ci sarebbe parecchio su cui lavorare. Per cominciare, bisognerebbe cercare di evitare che i bambini che stanno crescendo adesso prendano una brutta deriva. Dite che le periferie sono piene di maranza? Create centri educativi, campi da calcio, luoghi di aggregazione. Toglieteli dalla strada. Qui a San Siro ci sono madri, italiane e non, che dormono in cantina con i figli. Fate qualcosa. Oggi delle periferie si parla perché fanno notizia: a molti fa piacere se un ragazzo di seconda generazione viene arrestato”. Neima Ezza: “Sì, chiamateci maranza. Ma in periferia ci sono madri che dormono in cantina con i figli” Lei stesso, qualche anno fa, è stato protagonista di una nota vicenda di cronaca... “I processi sono in corso, ma non ho fatto nulla di ciò di cui mi accusano, lo giuro su mia madre. Sono imputato per alcune rapine - roba di poco valore, tipo un telefono: oltretutto sarebbero avvenute in un periodo in cui avevo già un contratto discografico ed ero in studio a registrare. Avendo la coscienza pulita sono tranquillo, ma non si sa come andrà a finire”. Come la fa sentire questa spada di Damocle giudiziaria? “La affronto. Mi dà fastidio il fatto che chi dovrebbe pagare per quei reati probabilmente in questo momento è a spasso, però. È la prima volta che mi trovo in una situazione così grave, e tutto è cominciato con la storia di piazza Selinunte”. Si riferisce alla sassaiola del 2021 scatenata dai suoi fan contro la polizia: c’era ancora qualche restrizione per il Covid e li aveva invitati via social a raggiungere lei e il rapper Baby Gang sul set di un video. Le forze dell’ordine erano intervenute in tenuta antisommossa per disperdere l’assembramento... “Nella mia testa era solo un invito a incontrarci in piazza: non volevo creare disordini. Qualche mese dopo quella vicenda, sono arrivate le accuse di rapina. Ho passato settimane agli arresti domiciliari, ma anziché infuriarmi o deprimermi, mi sono sfogato registrando un EP in casa. Oggi è disco di platino: da una situazione orrenda è uscito qualcosa di molto bello”. L’album Piccolo Principe, come la sua vita, è fatto di contrasti. Ninna nanna è un brano molto tenero, dedicato a un ipotetico figlio. “Io non sono papà, ma vorrei diventarlo da giovane, per dare a mio figlio (o figlia) tutto ciò che non ho avuto. Ho sempre sognato una vita tranquilla: una casa, una moglie, le vacanze in Marocco, i compleanni festeggiati al ristorante”. Per contro Nati senza, l’ultima traccia, è uno sfogo straziante in cui parla dei suoi momenti più bui, tra cui la malattia di sua sorella. In passato un’altra sua canzone sul tema era stata usata in modo irrispettoso su TikTok. Non ha avuto un po’ paura a rifarlo? “Cerco sempre di tutelare il più possibile la mia vita privata: so benissimo che non sono tutti buoni. Era già capitato che qualcuno aprisse un account fake e mi riempisse di insulti su mia sorella. Ma sentivo il bisogno di spiegare da dove vengo. Per fortuna lei non saprà mai nulla di tutto questo, perché non può capire. Oggi è felice, ma ci sono stati momenti difficili: da piccola urlava tutta la notte e, siccome la casa era minuscola, mio padre si portava le coperte e i cuscini in furgone e dormiva lì. Raccontando episodi così personali, come in passato ha fatto Marracash con la sua musica, spero di trasmettere qualcosa agli altri”. Mentre era ai domiciliari, tra l’altro, Marracash incluse il messaggio “Free Neima” nel suo video ? Love. Cosa ha provato quando l’ha visto? “Un’enorme gratitudine. Non è da tutti esporsi così: poteva andare a perderci, visti i reati di cui mi accusavano. Probabilmente sapeva che, nel bene e nel male, non siamo i mostri che tutti dipingono”. Le drammatiche lettere degli internati nel manicomio di Torino: “Qui ci curano a botte” di Mattia Aimola Corriere della Sera, 18 maggio 2024 Al secondo piano di via Vanchiglia 3 a Torino, nella sede dell’Associazione per la Lotta contro le Malattie Mentali si possono leggere i racconti - fra il 1970 e 1973 - dei pazienti psichiatrici della struttura aperta dal 1853 a fine anni 90. “Non capisco perché lasciano quei criminali a Collegno”, “Gli infermieri la picchiano, pugni e schiaffi sulla testa”. Sono solo alcune delle testimonianze dei pazienti internati nel manicomio di Collegno tra il 1970 e il 1973. Si tratta della Certosa Reale, che ospitò i pazienti psichiatrici dal 1853 e fino alla fine degli anni Novanta quando chiusero dopo l’approvazione della Legge Basaglia. Le lettere degli internati si trovano al secondo piano di via Vanchiglia 3, nella sede dell’Associazione per la Lotta contro le Malattie Mentali (ALMM) che si batte per affermare i diritti dei pazienti psichiatrici dal 1967. L’associazione custodisce un importante centro documentale che raggruppa tutta la corrispondenza con i pazienti. Da una prima lettura pare subito chiaro come i manicomi non puntassero a curare le persone ma a rinchiuderle. Le richieste fatte dagli internati sono pressoché simili a quelle dei carcerati o dei prigionieri di un lager. Il manicomio, infatti, esattamente come i campi di concentramento, funzionava in completa autonomia: gli internati erano anche obbligati a lavorare. “Parliamo di internamento - racconta Barbara Bosi, presidente della Almm e psicologa - e non di cura e il motivo del ricovero era che la persona veniva considerata pericolosa per sé o per gli altri. Lì dentro ci finiva tutto quello che ci dava fastidio, a volte anche i ragazzini considerati troppo vivaci. Ci sono bambini nati e cresciuti dentro i manicomi che poi sono diventati adolescenti e adulti”. Persone inserite all’interno di un grande ingranaggio. “Gli internati - prosegue Bosi - lavoravano all’interno della struttura ma non venivano retribuiti, il manicomio manteneva sé stesso. La chiamavano ergoterapia ma in realtà era sfruttamento di manodopera gratuita”. Nel corso degli anni 70 i degenti prendono carta e penna e scrivono, scrivono all’associazione e raccontano di come il mondo non li voglia più. “La società non fa nulla per recuperare il povero degente. - si legge in una lettera scritta a mano -. Quando il degente viene dimesso la società lo respinge perché è stato ricoverato nel manicomio. Trovandosi in questo stato è costretto a fare una fesseria per tornare in manicomio”. Torino, le drammatiche lettere dai manicomi: “Qui ci curano a botte” E questo era uno dei problemi maggiori: il reinserimento, pressoché impossibile. Per un malato trovare una casa e un lavoro era difficilissimo, così c’era chi chiedeva di restare in manicomio anche dopo la guarigione. “Pur essendo perfettamente guariti - scrivono alcuni pazienti - chiedono quanto segue: vorrebbero poter vivere nell’ospedale psichiatrico dato che sono stati abbandonati dalle famiglie e non hanno mezzi propri di sostentamento”. I parenti vivevano i malati psichiatrici come un peso di cui liberarsi o anche vergognarsi. L’abbandono, naturalmente, era percepito anche dagli internati. “Tanto tempo, troppo - scrive un degente -, non solo dimenticati dai familiari ma anche dalle autorità locali”. E poi ci sono gli innumerevoli casi di violenza che compaiono in tantissime lettere. “Mi hanno fatto legare alla tavola, sono due criminali”, “In parecchi manicomi si curano i degenti a botte”, “Ero fuggita e l’ho fatta franca per una settimana, ma una sera alla stazione di Porta Nuova venni ripigliata e ricondotta da due infermieri di Collegno qui”, “Sono stato derubato dei miei averi e picchiato”. L’associazione, dal canto suo, rispondeva sempre con grande fermezza. “Faremo di tutto - scrivono nel 1971 dall’Almm - affinché i degenti siano considerati esseri umani una volta per tutte e la loro dignità non venga così spesso calpestata. All’interno dell’ospedale si sta conducendo una battaglia molto difficile contro alcune persone che vorrebbero mantenere in vita la situazione vergognosa che prevaleva ed in parte prevale nell’ospedale di Collegno”. Questo enorme patrimonio cartaceo, a partire dal 18 giugno, entrerà a far parte di un importante progetto di digitalizzazione per rendere accessibili queste testimonianze a tutti. Ismu, l’Italia del lavoro non è un Paese per donne: più discriminate le straniere di Chiara Daina Corriere della Sera, 18 maggio 2024 Le lavoratrici provenienti dai Paesi extra Ue sono penalizzate due volte. Il divario con gli uomini supera i 30 punti. Ismu: sottopagate, non siamo attrattivi. Opportunità mancate non solo per loro ma anche per le aziende. L’Italia sul lavoro, come tristemente noto, non è un Paese per donne. Se poi la donna è extraeuropea (e proveniente da un Paese a forte flusso immigratorio), la discriminazione che vive è doppia. Nel 2022, secondo l’ultimo rapporto di Fondazione Ismu (ente scientifico che studia i fenomeni migratori), il tasso di occupazione delle donne straniere non comunitarie è del 43,7%, di 30,5 punti percentuali in meno rispetto a quello degli uomini extra-Ue (74,2%). E in discesa di 3 punti dal 2019. Mentre la percentuale di donne italiane occupate è un po’ più alta, del 51,5%, e il gap con gli uomini (68,6%) più ridotto. Anche i dati sulla disoccupazione sono a sfavore delle donne extraeuropee: risulta disoccupato il 15,6% contro il 10% dei maschi immigrati, con un divario di genere maggiore di quello nella popolazione italiana (8,8% contro 7%). Ma i numeri non parlano da soli. “Ci sono dei pregiudizi inconsci esercitati dai datori di lavoro, spesso rivolti anche alle seconde generazioni nate in Italia, legati al colore della pelle, al cognome straniero o al fatto che la donna indossi il velo. Si dà per scontato - sostiene Emanuela Bonini, ricercatrice per Ismu e docente all’Università Cattolica di Milano - che avendo una di queste caratteristiche la donna non sappia parlare bene l’italiano e abbia un basso livello professionale. Poi c’è lo stereotipo della “badante straniera”, e la convinzione automatica che tutte le donne straniere siano disposte ad accettare lavori domestici, sottopagati, per avere il permesso di soggiorno e mantenere la famiglia. Questa stigmatizzazione è un ostacolo concreto all’inserimento formativo e alla possibilità per le donne extraeuropee di trovare impieghi in altri settori”. Laura Zanfrini, responsabile del settore economia e lavoro di Ismu e docente all’Università Cattolica, osserva: “Un’alta concentrazione nel lavoro domestico e di assistenza domiciliare evoca i tratti di un sistema quasi castale, che impedisce di fare carriera altrove. Non si capisce, tra l’altro, perché nella società odierna così sensibile all’inclusione delle diversità l’esibizione di simboli religiosi per molte aziende sia un problema. Va passato il messaggio che la donna musulmana può conciliare la sua fede religiosa con il lavoro e la partecipazione attiva in tutte le sfere della vita sociale”. Le donne extra-Ue scontano un’ulteriore penalizzazione: quella di non riuscire a far valere le proprie competenze quando presenti. Quelle sovraqualificate, riporta Fondazione Ismu nel suo report, sono ben il 66,5% a fronte del 44,7% delle donne immigrate da un Paese dell’Unione europea e il 22,5% delle italiane. “La difficoltà a candidarsi per posizioni di alto livello - sottolinea Zanfrini - deriva anche dal mancato riconoscimento dei titoli di studio conseguiti nel Paese di origine: procedura lunga, costosa e dall’esito incerto, per cui spesso non si tenta neppure. A questo si aggiunge che le donne laureate, provenienti in particolare da Pakistan e Bangladesh, che arrivano qui per ricongiungersi al marito, sono impreparate: non hanno studiato l’italiano né sanno come inserirsi nel mercato del lavoro. Si potrebbe quindi pensare a iniziative pre-partenza per il rafforzamento delle competenze linguistiche e professionali rivolte a chi entra attraverso il ricongiungimento familiare”, suggerisce l’esperta. Che aggiunge: “Per valorizzare il capitale umano straniero inutilizzato bisognerebbe far funzionare come si deve i centri per l’impiego, che ancora oggi faticano a combinare domanda e offerta e che in altri Paesi giocano un ruolo fondamentale”. Stipendi bassi - In Italia perdurano due criticità. La prima è che il nostro Paese attrae un’immigrazione poco istruita (stima l’Istat che solo il 12,5% degli stranieri occupati possieda una laurea: il 18% delle donne e l’8,8% degli uomini) perché i salari sono tra più bassi in Europa. “Dal 2010 al 2020 mentre nel resto dei Paesi Ocse la quota di stranieri immigrati con elevata istruzione è cresciuta mediamente di 9 punti percentuali - evidenzia Zanfrini - da noi solo di un punto”. Così a molte donne immigrate conviene restare a casa a badare ai figli. “Se lo stipendio è troppo basso e senza il supporto dei nonni rimasti all’estero - continua la professoressa - non possono conciliare il corso di italiano, il lavoro e la famiglia”. Il tasso di inattività più alto è tra le donne provenienti da Pakistan (90%), Bangladesh (87%), Egitto (84%) e India (77%). La seconda criticità, conclude, è che “molte aziende ignorano l’opportunità di ingaggiare i lavoratori altamente qualificati extra-Ue tramite la Carta Blu europea, decisamente sottoutilizzata. È un canale di ingresso che consente l’assunzione da Paesi terzi di persone con titoli di istruzione e qualifiche professionali elevati al di fuori delle quote fissate con il decreto flussi”. Libertà di stampa, il governo non riceve la missione europea di Ilario Lombardo La Stampa, 18 maggio 2024 Porte chiuse agli inviati del Consorzio Media Freedom Rapid Response. Le raccomandazioni su Rai e su Agi: “Non vendete l’agenzia ad Angelucci”. Il governo italiano e la maggioranza di destra che lo sostiene hanno rifiutato di incontrare i rappresentanti del consorzio Media Freedom Rapid Response. “Siamo dispiaciuti” racconta Sielke Kelner “perché avevamo chiesto una serie di appuntamenti, e in alcuni casi non abbiamo neanche ricevuto risposta”. A non riceverli sono stati il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il viceministro Francesco Paolo Sisto, la presidente della Commissione Giustizia Giulia Bongionro e il sottosegretario con delega all’Editoria Alberto Barachini. Tra gli esponenti dell’opposizione che invece non hanno avuto alcun problema a incontrarli c’è stata Barbara Floridia, presidente in quota M5S della commissione di Vigilanza Rai, con l’idea di coinvolgerli negli Stati Generali sulla tv pubblica che ha intenzione di riproporre a breve. Mfrr lavora con finanziamenti della Commissione europea, e i suoi emissari in Italia sono arrivati in anticipo rispetto al viaggio inizialmente previsto per ottobre. È stata la segretaria della Federazione nazionale della Stampa, Alessandra Costante, a chiedere un intervento immediato, alla luce del moltiplicarsi di casi e di manovre da parte della destra e del governo, finiti al centro dell’attenzione internazionale. Il caso Rai, una lottizzazione che si è trasformata in occupazione e limitazione totale di ogni spazio per l’opposizione, e che in meno di due anni alla tv pubblica è valso il soprannome di TeleMeloni. Il caso Agi, un’agenzia di stampa controllata da una partecipata dello Stato che sta per finire in mano di un deputato della maggioranza, Antonio Angelucci, imprenditore della sanità privata e padrone di una concentrazione editoriale di tre quotidiani filomeloniani. Il caso del quotidiano Il Domani, sbeffeggiato da Meloni durante il comizio di Pescara, e dei suoi giornalisti che rischiano il carcere per un’inchiesta nata dopo la denuncia del ministro della Difesa Guido Crosetto. Il caso di Pasquale Napolitano, cronista de Il Giornale, raggiunto da una condanna di otto mesi. E infine, la legge sulla diffamazione, e, nello specifico, la norma che prevedeva le manette per i cronisti. A guardarlo con gli occhi dei rappresentanti di Mfrr, cioè di chi non è così abituato ai conflitti di interessi italiani, alla manipolazione dell’informazione, al controllo asfissiante della tv pubblica, il panorama sulla libertà di stampa sembra inevitabilmente intossicato. Una preoccupazione che ammettono, quando paragonano l’Italia a quelle democrazie giovani che in Europa sono entrate solo successivamente. C’è un timore che sta crescendo anche sulla Francia, ma al momento “l’Italia è il solo tra i Paesi fondatori dell’Ue che si trova in questa situazione” spiega Renate Schroeder, direttrice dell’International Federation of Journalists. Subito sotto c’è l’illiberale Ungheria di Viktor Orban. Schroeder è una delle massime esperte dell’European Media Freedom Act, la nuova regolamentazione sulla libertà di stampa a cui l’Italia è obbligata ad adeguarsi entro l’agosto 2025. Da quel momento in poi, chiunque potrà rivolgersi a un tribunale italiano per violazione di regole europee che prevedono la trasparenza e l’indipendenza della governance, e il divieto di concentrazioni di editori con interessi politici. In questo momento la condanna dell’Italia sarebbe certa. Sia per la Rai, sia per l’Agi. In attesa del rapporto definitivo che arriverà solo a fine estate, la missione di Mfrr si è conclusa ieri con una conferenza stampa nella sede dell’Ordine dei giornalisti, in cui sono state date una serie di raccomandazioni. Una sul servizio pubblico: cambiare la legge, voluta da Matteo Renzi, che pone il board Rai sotto il controllo del governo. L’altra è sull’agenzia di stampa: “Agi non sia venduta ad Angelucci - è l’appello di Beatrice Chioccioli - Il controllo dei media avviene anche con le acquisizioni di privati che hanno chiari interessi politici”. Come l’Ungheria insegna. L’Italia non firma la dichiarazione Ue per i diritti Lgbtq+ di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2024 No alla dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore delle comunità Lgbtq+. L’Italia è l’unico grande paese Ue a non aver voluto firmare la dichiarazione Ue. Preparata in occasione della Giornata Mondiale contro l’Omofobia, la Transfobia e la Bifobia, la dichiarazione è stata sottoscritta da Belgio, Francia, Germania, Spagna, Polonia, Danimarca, Cipro, Irlanda, Grecia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Malta, Estonia, Austria, Finlandia, Portogallo, Slovenia e Svezia. L’Italia invece - insieme a Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia - prende la scelta di non sottoscriverla. Il motivo? Fonti del ministero della Famiglia hanno spiegato all’Ansa è stato deciso di non aderire la dichiarazione “era in realtà sbilanciata sull’identità di genere, quindi fondamentalmente il contenuto della legge Zan”. La ministra per la famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella, rivendica la scelta: “Non abbiamo firmato e non firmeremo nulla che riguardi la negazione dell’identità maschile e femminile, che tante ingiustizie ha già prodotto nel mondo in particolare ai danni delle donne”. Tutto questo mentre dalle opposizioni si alza un coro di pesanti critiche al governo Meloni. L’Italia, lo scorso 7 maggio, aveva aderito alla dichiarazione contro l’Omofobia, Transfobia, Bifobia del Servizio di Azione Esterna Ue e dei 27. Cosa prevede la dichiarazione - La firma della dichiarazione è avvenuta oggi nel contesto della conferenza ad alto livello organizzata a Bruxelles dalla presidenza di turno belga. L’evento ha riunito la commissaria europea per l’uguaglianza, i ministri e i segretari di Stato competenti di diversi Stati membri dell’Ue, membri del Parlamento europeo, altri esperti e organizzazioni della società civile. Gli Stati firmatari si impegnano in particolare ad attuare le strategie nazionali Lgbtq+ e a sostenere la nomina di un nuovo Commissario per l’Uguaglianza quando sarà formata la prossima Commissione. Invitano inoltre la Commissione a perseguire e attuare una nuova strategia per migliorare i diritti delle persone Lgbtq+ durante la prossima legislatura, stanziando risorse sufficienti e collaborando con la società civile. Schlein: “Che rabbia e che vergogna” - “Che rabbia e che vergogna questo governo che nella giornata internazionale contro l’omobilesbotransfobia decide di non firmare la dichiarazione per le politiche europee a favore delle persone Lgbtqia+. Non è accettabile”, commenta la segretaria del Pd Elly Schlein. “L’Italia è scivolata di una posizione indietro nella classifica annuale di Ilga-Europe, è trentaseiesima su quarantotto paesi - aggiunge - Non è accettabile. Il Partito Democratico continuerà a battersi per una legge contro l’omobilesbotransfobia come il ddl Zan che questa destra che oggi governa aveva vergognosamente affossato con un applauso e con delle risate sguaiate sulla pelle delle persone lgbt, e dall’altra parte continueremo a batterci per assumere i pieni diritti e il pieno riconoscimento dei diritti della comunità lgbtqia+ a partire dai figli e dalle figlie delle coppie omogenitoriali, a partire dalla rafforzamento delle adozioni e dal contrasto alle teorie riparative, così come per un matrimonio egualitario perché l’amore non si può discriminare”. Conte: “Modello orbaniano” - Sulla stessa linea il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte: “L’Italia non firmando la dichiarazione Ue che mira a promuovere le politiche europee che combattono le discriminazioni legate all’orientamento sessuale, ha deciso di inseguire il modello culturale orbaniano. Questa è la posizione di chi ci governa. Ma il Paese, ne sono convinto, è più avanti di questa politica reazionaria”, ha scritto Conte sui social sottolineando che il M5s vuole “realizzare concretamente una società radicata nella tolleranza, nella libertà e nell’uguaglianza, in cui tutti siano davvero liberi di vivere la propria vita senza dover rendere conto a nessuno delle proprie scelte”. Roccella: “Sinistra vuole in gender” - A rispondere alle critiche ci pensa la ministra Roccella: “Ancora una volta la sinistra non ha il coraggio delle proprie posizioni e preferisce nascondersi dietro le solite bugie. Il governo italiano è in prima linea contro ogni discriminazione mentre la sinistra usa la lotta contro le discriminazioni legate all’orientamento sessuale per nascondere il suo vero obiettivo, il gender”, afferma, in una nota, la ministra per la Famiglia. “Il nostro governo - aggiunge - ha firmato la dichiarazione europea contro omofobia, bifobia e transfobia. Non abbiamo invece firmato e non firmeremo nulla che riguardi la negazione dell’identità maschile e femminile, che tante ingiustizie ha già prodotto nel mondo in particolare ai danni delle donne”. “Se la sinistra ed Elly Schlein - aggiunge Roccella - vogliono riproporre la legge Zan, il gender e la possibilità di dichiararsi maschio o femmina al di là della realtà biologica, abbiano il coraggio di dirlo con chiarezza. Se è il gender che vogliono, lo propongano apertamente e lo facciano in campagna elettorale, così da consentire agli elettori - conclude - di esprimersi anche su questo”. Stati Uniti. Chico Forti oggi rientra in Italia: andrà nel carcere di Verona Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2024 È il giorno del rientro in Italia di Chico Forti. Il 65enne trentino, rilasciato nei giorni scorsi dal carcere della Florida dopo una lunga detenzione, è partito da Miami a bordo di un Falcon 2000 dell’Aeronautica italiana che atterrerà in tarda mattinata nell’aeroporto militare di Pratica di Mare. Secondo quanto riferisce l’Ansa, Forti sarà poi portato nel carcere di Verona, in attesa di espletare le successive procedure. Forti, imprenditore ed ex campione di windsurf, è stato condannato all’ergastolo in Florida per l’omicidio di Dale Pike, avvenuto il 15 febbraio del 1998. Il primo marzo scorso da Washington la premier Giorgia Meloni aveva annunciato la firma dell’autorizzazione al trasferimento in Italia. Il suo rilascio è arrivato però dopo l’udienza in cui Forti ha siglato l’accordo con il giudice federale statunitense per scontare il resto della pena in Italia, dove la corte d’Appello di Trento ha già convertito nelle scorse settimane la sentenza statunitense. “Apprendiamo con soddisfazione del rientro in Italia di Chico Forti, è una buona notizia”, sottolinea l’avvocato Carlo Delle Vedove, uno dei legali che ha seguito l’iter per il ritorno dagli Usa del 65enne trentino, parlando con l’Ansa. “Il trasferimento in Italia di Forti è il completamento di tutte le procedure giudiziarie, intraprese davanti alle autorità degli Usa”, ha aggiunto il legale. “Con Forti ci siamo sentiti l’ultima volta lunedì, era un po’ ansioso, ci sentivamo tutti i lunedì. Ringraziamo tutte le autorità italiane e americane che hanno seguito il suo caso”, ha concluso Delle Vedove. Il trasferimento negli Usa e la condanna - Enrico Forti, detto Chico, oggi ha 65 anni. È stato un campione di windsurf, produttore tv, uomo d’affari e organizzatore di eventi. Si trasferisce all’inizio degli anni ‘90 negli Stati Uniti, dove conosce la moglie Heather Crane, madre dei suoi tre figli. Nel 2000 però viene condannato all’ergastolo dal tribunale della Florida per l’omicidio dell’australiano Dale Pike, il cui cadavere viene ritrovato il 15 febbraio del 1998 su una spiaggia in Miami. La vittima è figlio di Anthony Pike, dal quale Forti sta acquistando il Pikes Hotel, a Ibiza. Forti viene accusato di essere parte di un felony murder, un omicidio commesso durante l’esecuzione di altro crimine: il movente secondo l’accusa, sarebbe da ricondursi a una truffa di Forti ai danni di Anthony Pike. L’omicidio - Anthony “Dale” Pike è stato ucciso con un colpo d’arma da fuoco alla testa. Pike era volato nella città della Florida per discutere una proposta di accordo tra Forti e suo padre che aveva accettato di vendergli un resort a Ibiza, diventato famoso durante gli anni ‘80, quando il cantante dei Queen Freddie Mercury festeggiò lì il suo quarantunesimo compleanno. Secondo l’accusa Tony Pike soffriva di demenza e Forti avrebbe tentato di raggirarlo. Messo alle strette, Forti ammise di aver prelevato Pike all’aeroporto ma ha sempre negato di avergli sparato, affermando di averlo lasciato in un ristorante. Una prova chiave utilizzata per collegare Forti all’omicidio è stata la sabbia trovata nella sua macchina, una sabbia tipica della spiaggia dove è stato trovato il corpo. La battaglia per il rientro in Italia - Chico Forti da sempre dichiara di essere vittima di un errore giudiziario. Era da molti anni che vari governi si prodigavano per far tornare Forti in Italia a scontare l’ergastolo. Sul suo caso hanno acceso i riflettori diverse trasmissioni televisive, tra cui Le Iene. E la sua battaglia per tornare in Italia diventa insieme mediatica, politica e diplomatica. I principali sponsor politici diventano Luigi Di Maio, Matteo Salvini e la stessa Meloni. Alla fine del 2020 l’allora ministro degli Esteri Di Maio annuncia che il governatore della Florida Ron DeSantis ha accolto con riserva l’istanza di Chico Forti di avvalersi dei benefici previsti dalla Cedu. Ma lo stesso governatore poi interrompe la procedura per il trasferimento e l’uomo rimane in carcere in Florida. I pubblici ministeri di Miami-Dade si erano opposti al trasferimento chiedendo garanzie che il detenuto scontasse davvero la sua condanna, senza riduzioni. Stati Uniti. “Il processo? Chi se ne frega, li teniamo a Guantánamo a vita” di Valerio Fioravanti L’Unità, 18 maggio 2024 “Indipendentemente dall’esito del loro processo, possiamo tenere questi uomini in carcere per sempre, in una forma di detenzione preventiva”. Tenere persone in carcere “per sempre, indipendentemente dal processo” è il desiderio di miriadi di “giustizialisti”, ma di solito cose del genere si pensano, e non si dicono apertamente, o comunque lo si fa attraverso giri di parole. Invece qualcuno lo dice esplicitamente, in forma breve, e ci viene il dubbio se sia una cosa positiva oppure negativa. Se proprio dev’essere, almeno sia detto chiaramente. La frase apodittica di cui sopra è stata pronunciata il 22 aprile da uno statunitense, il colonnello Joshua Bearden che rappresenta la pubblica accusa in quello che vorrebbe essere il processo contro gli organizzatori degli attentati dell’11 settembre 2001, processo che si tiene nella base cubana di Guantanamo. La frase esatta è: “Indipendentemente dall’esito del loro processo, gli uomini accusati di aver organizzato gli attentati dell’11 settembre 2001 possono essere tenuti per sempre come prigionieri nella guerra contro il terrorismo, in una forma di detenzione preventiva”. Come è noto, i processi di Guantanamo contro alcuni veri e molti presunti membri di Al Qaida sono fermi da più di 20 anni alle fasi preliminari. Chi segue gli aggiornamenti che periodicamente pubblica Nessuno tocchi Caino, sa che ci sono alcuni problemi praticamente insormontabili: tutti gli imputati, anzi, spesso neanche imputati, perché non si è potuti arrivare nemmeno a un formale rinvio a giudizio, tutti i sospettati allora, sono stati individuati in varie parti del mondo dai servizi segreti, che hanno agito sulla base di informazioni “riservate”, delazioni, e informazioni estorte sotto tortura. Tutte fonti di prova che sono difficili se non impossibili da traghettare all’interno di un processo che voglia rispettare anche solo sommariamente le norme dello stato di diritto. Questo è il motivo per cui, da venti anni appunto, degli agguerritissimi avvocati d’ufficio stanno contestando ogni singolo passaggio all’interno delle corti marziali (non sono vere e proprie corti marziali, ma si entrerebbe troppo nel tecnico). Al punto che quasi una decina di giudici e pubblici ministeri militari hanno dato le dimissioni, lasciando che a sbrogliare il bandolo della matassa ci provasse qualcun altro, e al punto che, sembra ormai evidente, il governo degli Stati Uniti sta per proporre ai sospettati un accordo: confessione (senza torture) in cambio della non-condanna a morte. Sembra un regalo, ma non lo è, perché contro i sospettati non ci sono prove “vere”, ma solo le confessioni estorte dalla Cia, e siccome quelle in un processo (grazie ai difensori d’ufficio) proprio non si riesce a farle entrare, se si vuole arrivare a un qualsiasi tipo di condanna c’è bisogno che gli imputati rilascino delle confessioni “normali”. Senza di quelle i processi rimarrebbero fermi praticamente all’infinito. È in questo contesto, e con queste premesse, che la pubblica accusa in uno dei vari “quasi-processi”, ha ricordato di avere il coltello dalla parte del manico: grazie al Patriot Act possiamo tenere questi uomini a Guantanamo per sempre. Invece i difensori, che da fonti ben informate e non smentite dall’Amministrazione Biden stanno partecipando alla “trattativa”, si stanno portando avanti con il lavoro: se non saranno condannati a morte, vogliono che la Corte dichiari sin da ora che i 20 e passa anni di “carcerazione preventiva” siano scalabili dal computo della condanna futura. Qua si torna nell’ambito dei “tecnicismi”, con la pubblica accusa che sostiene che non si tratti affatto di carcerazione preventiva, in quanto gli uomini sono stati ristretti “ma non come punizione o esclusivamente per il processo, ma semplicemente per tenerli fuori dal campo di battaglia nella guerra degli Stati Uniti contro Al Qaeda”. Il giudice di questo “quasi processo”, il colonnello Matthew McCall, si è domandato ad alta voce “perché mai un processo penale non dovrebbe essere gestito come qualsiasi altro processo penale”. “Sono detenuti per legge di guerra per sempre, fino alla cessazione delle ostilità”, ha risposto il colonnello Bearden. Guantanamo è lontana, o almeno dovrebbe. Anche in Italia si finisce al 41 bis con un atto amministrativo, e non con una sentenza. E ci si rimane a vita. Anche in Italia se un imprenditore è sospettato di “collusione con la malavita organizzata”, e i magistrati non trovano prove sufficienti per un processo vero e proprio, si passa l’incartamento a un giudice che, con un “quasi processo”, dispone il sequestro dei beni di famiglia. Come avrebbe detto il colonnello Bearden: “un sequestro indipendentemente dall’esito del loro processo penale”. Guantanamo è lontana, ma solo sul mappamondo. Medio Oriente. Rimpatri “volontari” dei rifugiati siriani: torturati e obbligati a lasciare il Libano di Pasquale Porciello Il Manifesto, 18 maggio 2024 Human Rights Watch denuncia che “le autorità libanesi hanno arbitrariamente detenuto, torturato e forzato al ritorno in Siria centinaia di siriani negli ultimi mesi, inclusi oppositori, attivisti e disertori”. Oltre trecento i siriani che lo scorso martedì hanno lasciato “volontariamente” il Libano per far ritorno in Siria. Il rientro è avvenuto da Arsal e da cittadine limitrofe, organizzato da un coordinamento di autorità siriane e libanesi. Pare stiano aumentando i rientri “volontari” in Siria, ma c’è da chiedersi quanto intenzionali siano data l’aria che si respira in Libano negli ultimi tempi. Human Rights Watch denuncia che “le autorità libanesi hanno arbitrariamente detenuto, torturato e forzato al ritorno in Siria centinaia di siriani negli ultimi mesi, inclusi oppositori, attivisti e disertori”. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli attacchi e le vessazioni nei confronti dei siriani in Libano. La fortissima pressione sociale e economica che subisce il popolo libanese, data la crisi che incombe sul paese dal 2019, si converte in atti ingiustificati di violenza, frustrazione e puro razzismo nei confronti dei rifugiati provenienti dalla Siria, ultimo anello della catena sociale in questo momento. A ciò si aggiunge una viscerale antipatia della maggior parte dei libanesi nei confronti di questi ultimi: l’esercito siriano infatti ha occupato il Libano fino alla primavera del 2005. Dall’inizio della guerra civile in Siria si sono riversati in Libano, secondo i dati ufficiali delle Nazioni unite, circa un milione 500mila siriani; stime approssimative risalenti al 2017, quando l’Onu ha smesso di rilasciare lo status di rifugiati ai siriani, perdendo in pratica ogni sorta di controllo del fenomeno. Le stime attuali parlano di almeno due milioni di rifugiati nel paese: un problema reale quindi in un Libano, che ha una popolazione di circa 4 milioni di abitanti e una superficie di 10mila chilometri quadrati (come l’Abruzzo). I siriani vengono però sfruttati in Libano per i lavori nei campi e in quelli edili: manodopera a buon prezzo, sottopagata. In questi mesi il premier (ad interim) libanese Najib Miqati ha affermato che “la maggior parte dei siriani devono essere rimpatriati nelle zone sicure della Siria”. Quello che però nessuno dice è che non esiste alcuna garanzia per i siriani che rientrano nel loro Paese. Nessuna garanzia politica, nessun organo internazionale ammesso fino a questo momentoda Damasco per supervisionare il rientro e il successivo il rispetto dei diritti civili e umani. Intanto in Libano cresce la pressione interna. Il leader delle Forze Libanesi (partito di estrema destra cattolica conservatrice) Samir Geagea ha dichiarato che il suo partito “continuerà a esercitare ogni pressione possibile affinché ogni immigrato (siriano) illegale lasci il Libano”, giocando una partita interna contro Hezbollah, milizia/partito storicamente filo siriano. La soluzione alla crisi siriana, al problema dei rifugiati in Libano dovrebbe passare per una ben più complessa operazione diplomatica internazionale, ma la sempre più netta polarizzazione mondiale acuita dal conflitto russo-ucraino - la Russia è uno storico e solido alleato del regime di Bashar al-Assad - e dalla guerra a Gaza (la Siria fa parte dell’asse anti-israeliano Iran-Siria-Hezbollah) rende difficile in questo momento ogni sorta di mediazione e compromesso.