Suicidi in carcere, indignarsi non basta più! I Garanti domani “in piazza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 maggio 2024 Sono trascorsi due mesi da quando il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha lanciato un accorato appello per interventi urgenti contro le condizioni drammatiche delle carceri italiane. Un appello rimasto, purtroppo, inascoltato dalla politica. Di fronte a questa indifferenza, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale alza nuovamente la voce e annuncia una nuova mobilitazione per domani, sabato 18 maggio. “Indignarsi non basta più!” è lo slogan che riassume la rabbia e la frustrazione dei Garanti di fronte al peggioramento delle condizioni di vita nelle carceri italiane. “Lungi dall’essere luoghi di rieducazione e reinserimento sociale”, denunciano, “le nostre carceri continuano a tradire i principi basilari della Costituzione e a umiliare la dignità umana dei detenuti”. Le cause principali di questo clima sono il sovraffollamento, la carenza di personale e l’inefficienza dell’assistenza sanitaria intramuraria. Tuttavia, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali constata con amarezza e preoccupazione l’indifferenza della politica rispetto al crescente stato di sofferenza dei detenuti e al peggioramento delle condizioni di vivibilità nelle carceri italiane. Queste condizioni tradiscono i principi costituzionali, europei e internazionali su cui si fonda lo Stato di diritto e umiliano quotidianamente la dignità umana delle persone ristrette. Il 18 aprile 2024 si è tenuta una prima mobilitazione nazionale su questo tema, e ora, sabato, la mobilitazione verrà ripetuta. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali chiede soluzioni giuridiche immediate: provvedimenti politici per ridurre il sovraffollamento e azioni dell’Amministrazione Penitenziaria per migliorare le condizioni di vita nelle carceri. Alla società civile viene richiesta una sensibilità che superi la visione carcero-centrica. Le criticità emerse hanno portato alla formulazione di precise proposte. Misure deflattive del sovraffollamento: si richiede una rapida discussione parlamentare e l’approvazione di provvedimenti facilmente applicabili. Tra questi, la proposta di modifica dell’istituto della liberazione anticipata speciale presentata da Roberto Giacchetti di Italia Viva, che prevede uno sconto aggiuntivo di 30 giorni a semestre per i prossimi due anni. Accesso alle misure alternative: è fondamentale garantire che i detenuti con pene o residui di pena inferiori ai tre anni possano accedere a misure alternative. Attualmente, 5.080 detenuti devono scontare meno di 8 mesi di carcere. Attenuazione della circolare sul riordino del circuito della media sicurezza: dato che la maggior parte dei detenuti trascorre circa 20 ore in celle chiuse, è necessario assicurare diverse attività trattamentali, compresi progetti di inclusione socio- lavorativa, attività culturali, ricreative e relazionali. Tutela dell’affettività in carcere: nonostante la sentenza auto- applicativa della Corte costituzionale n. 10 del 2024, non sono state prese posizioni amministrative o legislative per tutelare il diritto all’affettività dei detenuti e ai colloqui riservati e intimi. Si richiede un immediato aumento delle telefonate e delle videochiamate, soprattutto in casi specifici, e un impegno della magistratura di Sorveglianza per incrementare i giorni di permesso premio per i detenuti. Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti e Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, ha sottolineato l’urgenza di approvare misure deflattive del sovraffollamento, garantire l’accesso alle misure alternative, sviluppare progetti di inclusione socio- lavorativa, attività culturali, ricreative e relazionali. Ha inoltre richiesto un aumento delle telefonate e delle videochiamate e l’introduzione di misure alternative per i detenuti tossicodipendenti e malati di mente. Ha denunciato le pene sproporzionate per i reati minori e ha sottolineato la necessità di figure di sostegno psicologico e psichiatrico, assistenti sociali come ponte tra l’interno e l’esterno delle carceri, e mediatori linguistici per gli immigrati. Nel frattempo, sono alle porte le elezioni europee. Per ora l’unica battaglia su questo tema viene portata avanti da Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, candidata nella lista Stati Uniti d’Europa come capolista nella circoscrizione Isole. Da qualche giorno ha ripreso lo sciopero della fame che durerà per tutta la campagna elettorale. Ha deciso di sfruttare questa “tribuna” che dà le elezioni europee per richiamare tutte le istituzioni, attraverso lo sciopero della fame (quindi con un’iniziativa non violenta), all’obbligo di intervenire. Oggi Bernardini sarà nel carcere di Milano Opera all’evento “Compresenza”, dedicato ai diritti dei carcerati e al ricordo delle testimonianze di vita di Mariateresa Di Lascia, Marco Pannella ed Enzo Tortora, organizzato dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino”. All’incontro parteciperanno, tra gli altri, Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, la giornalista Francesca Scopelliti ed Elisabetta Zamparutti, Tesoriera di Radicali Italiani e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Nordio smemorato dimentica cosa disse sulle carceri di Franco Corleone L’Espresso, 17 maggio 2024 Denunciò che in prigione ci stava chi non avrebbe dovuto entrarci. Ma l’amnistia resta un miraggio. Mala tempora currunt: il carcere è malato in maniera irreversibile e la filosofia del governo è legata a una concezione della pena vendicativa contro la risocializzazione prevista dall’art. 27 della Costituzione, tanto è vero che Fratelli d’Italia ha presentato proposte di legge per lo stravolgimento di quel principio con le firme di Meloni, Delmastro Delle Vedove e Cirielli. Per questo il sovraffollamento e i suicidi non turbano e sono considerati effetti collaterali inevitabili. Carlo Nordio, ministro della Giustizia, non ha rappresentato una felice contraddizione per una concezione liberale del diritto e ha dimenticato di avere presieduto una commissione per superare il Codice penale fascista Rocco. La delusione è stata forte. Diceva Nordio nel 2010 - in un dialogo con Giuliano Pisapia affermando l’ipocrisia di un provvedimento di indulto, senza amnistia - che “la mancata riforma del Codice penale, il continuo sovrapporsi di norme contraddittorie, oscure e complicate, l’illusione demagogica che ogni infrazione debba essere punita dai tribunali hanno riproposto subito gli stessi problemi: processi eterni, pene incerte, carceri sovraffollate”. Addirittura, per condannare l’impotenza della politica attraverso una “resa” denunciava il fatto che si aprivano le porte delle prigioni “senza domandarsi perché esse si siano chiuse, a suo tempo, alle spalle di persone che non ci sarebbero mai dovute entrare”. La vera resa dello Stato si realizza nella violazione dei principi costituzionali del reinserimento sociale dei condannati; perciò, in una situazione di emergenza, si può immaginare una misura di clemenza per rendere umano il sistema. Oggi questa scelta è però impraticabile, dopo la modifica avvenuta nel 1992 dell’articolo 79 della Costituzione, che prevede una maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera per varare una amnistia. Dal rischio di uso distorto di uno strumento di politica criminale e immaginato per bilanciare eccessi possibili del principio di legalità penale si è passati alla impossibilità assoluta. Dalla bulimia alla anoressia, un vero paradosso. L’eliminazione della scelta utilizzata per quarant’anni (21 provvedimenti di amnistia e indulto) che teneva in equilibrio il sistema della giustizia ha comportato l’intasamento dei tribunali e l’affollamento carcerario. Restituire la possibilità di scelta al Parlamento è indispensabile e una proposta al riguardo, frutto di un seminario della Società della Ragione, è depositata alla Camera dei deputati a firma Magi. Di fronte alla proposta dell’onorevole Giachetti per l’aumento dei giorni di liberazione anticipata, il neo-garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà è volato in soccorso non dei reclusi ma del governo, sostenendo che occorrono misure sistemiche. Gli hanno replicato con decisione i garanti regionali e comunali e Magistratura democratica. Proporre una grande riforma in questi tempi bui sarebbe un segno di infantilismo politico. Invece si può e si deve pretendere il rispetto delle norme esistenti, a cominciare dalla applicazione del Regolamento del 2000, e soprattutto di rendere effettivo il diritto alla affettività e a colloqui senza controllo visivo, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza rivoluzionaria 10/2024. Pronti a denunciare l’omissione di atti d’ufficio. Il progetto “Sciascia-Tortora”, per una amministrazione della giustizia (più) umana e consapevole Il Foglio, 17 maggio 2024 Il nodo della giustizia è sempre più aggrovigliato e la conseguenza è che il confronto tra politica e magistratura e tra giudici e avvocati si svolge all’insegna della polemica e della incomprensione. Una vera maledizione. La proposta per una amministrazione della giustizia (più) umana e consapevole - formulata dalle nostre quattro associazioni e per ora raccolta dai deputati di +Europa - si muove su un terreno che dovrebbe trovare un consenso di tutti i soggetti interessati e coinvolti. Il progetto “Sciascia-Tortora” non intende penalizzare nessuno e abbiamo ragione di ritenere che sarà accolto nello spirito che lo anima. Il potere di incarcerare le persone, di privarle della libertà, è davvero il più terribile e richiede responsabilità, consapevolezza e delicatezza. Il senso della proposta è limpido. Si chiede che la formazione dei futuri magistrati sia arricchita dalla lettura e dallo studio dei testi classici di Beccaria, Manzoni e Verri ma anche dei testi sciasciani e delle lettere di Tortora e si suggerisce di fare una esperienza di conoscenza del carcere, un deposito di corpi reso terribile dalle condizioni di vita quotidiana indegne a causa anche del sovraffollamento. Un bagno di cultura e di realtà che può aiutare a decidere - con giusto tremore e con la sofferenza che dovrebbe accompagnare l’esercizio della giurisdizione - della vita di uomini e donne. Ci auguriamo che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ricordi e mantenga l’impegno assunto nel 2011 a Palermo in un colloquium organizzato dalla Associazione amici di Leonardo Sciascia di presentare al Parlamento proprio questa proposta se mai fosse divenuto ministro della giustizia. La proposta ora è depositata e siamo certi che raccoglierà tante adesioni e aspettiamo il parere favorevole del governo. Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, come presidente della Scuola superiore della magistratura indicò l’utilità di stage dei magistrati negli istituti di pena e dette un esempio di civiltà e di umiltà entrando nel carcere di San Vittore come volontario per aiutare i detenuti a chiedere il rispetto dei diritti previsti dall’ordinamento penitenziario. Così la Costituzione sarà viva e rispettata e la battaglia di Enzo Tortora per una giustizia giusta così come i visionari e saggi paradossi di Leonardo Sciascia lasceranno un segno di buon senso nel mondo della giustizia. Simona Viola (Amici di Leonardo Sciascia) Guido Camera (Italiastatodidiritto) Francesca Scopelliti (Fondazione Internazionale per la giustizia Enzo Tortora) Franco Corleone (Società della ragione) Scuole in carcere: l’istruzione come chiave per il riscatto sociale tecnicadellascuola.it, 17 maggio 2024 “Se non si riuscirà a fare in modo che chi esce dal carcere sia migliore di quando vi è entrato, sarà un fallimento per tutti”, spiega Anna Grazia Stammati, Presidente del CESP-Rete delle scuole ristrette. Dal 2012, questa Rete si impegna attivamente nella promozione dell’istruzione e della cultura all’interno delle carceri italiane, con l’obiettivo di creare un ambiente che rispetti pienamente i diritti delle persone private della libertà. L’istruzione riveste un ruolo cruciale nel rafforzare la dignità individuale, anche all’interno del carcere che non dovrebbe essere solo luogo di espiazione della pena, ma anche sede di “risocializzazione”. Questo principio è sancito dalla Costituzione, per la quale le pene devono “rieducare” il condannato. Può parlarci del lavoro svolto dal CESP - Rete delle scuole ristrette - nel contesto penitenziario italiano negli ultimi anni? Il CESP (Centro Studi Scuola Pubblica) è un’associazione culturale nata nel 1999. Nel 2012, ho fondato la Rete delle scuole ristrette, che riunisce i docenti delle scuole in carcere, con l’obiettivo di fare dell’istruzione e della cultura gli elementi centrali dell’esecuzione penale, in rapporto con i Ministeri dell’Istruzione, della Giustizia e della Cultura. Quanto sono importanti i percorsi di istruzione per il reinserimento sociale dei detenuti? I percorsi d’istruzione instaurano una relazione quotidiana con gli studenti detenuti. La scuola insegna che solo attraverso uno studio e un impegno costanti si ottengono risultati significativi. I dati lo dimostrano: il 70% dei detenuti che non ha frequentato un percorso di istruzione torna a commettere reati, la percentuale scende al 30% per chi ha seguito un percorso educativo o lavorativo. Quali sono i principali benefici che l’istruzione in carcere porta ai detenuti e alla società nel suo complesso? Secondo il Ministero della Giustizia il 21% dei detenuti è analfabeta o possiede solo la licenza elementare, mentre il 58% ha completato solo la scuola media. Quindi, quasi l’80% presenta un livello di istruzione limitato. Solo il 16% possiede un diploma di scuola superiore e il 2% una laurea. D’altra parte, la partecipazione ai corsi scolastici dovrebbe essere riconosciuta come un fattore determinante per ottenere benefici. Gli educatori inviano le sintesi dei detenuti alla magistratura di sorveglianza, che può concedere misure alternative o benefici. Tuttavia, questa pratica non viene sempre attuata, creando disincentivi. Quali sono i livelli di istruzione che offrite ai detenuti? La Rete delle scuole ristrette comprende i docenti di due livelli di istruzione. Il primo livello include i CPIA (Centri Provinciali Istruzione Adulti), che offrono percorsi di alfabetizzazione e un primo ciclo didattico che culmina con il conseguimento della licenza media. Il secondo livello corrisponde alla scuola secondaria di secondo grado, ed è articolato, in genere, in un ciclo di tre anni. Quali sono i tassi di iscrizione e in quanti concludono il percorso di studi? Secondo il Ministero della Giustizia, il primo livello conta circa 11.000 iscritti, il secondo circa 8.300. Il 37,6% degli studenti del primo livello ha superato con successo l’anno, mentre al secondo livello la percentuale sale al 61%: il tasso di promozione si attesta intorno al 47%, tenendo conto degli abbandoni, spesso causati da crisi personali o trasferimenti improvvisi. Come affrontate la sfida del sovraffollamento carcerario e come influisce sulle attività educative? Come CESP chiediamo che si facciano uscire i detenuti idonei alle misure alternative, cioè detenzione domiciliare e affidamento in prova ai servizi sociali: circa 9.000 detenuti potrebbero beneficiarne, avendo pene inferiori ai tre anni. Tuttavia, molti restano in carcere per mancanza di famiglie o centri disponibili per accoglierli. Stiamo lavorando per garantire percorsi adeguati e opportunità di lavoro a chi è vicino al fine pena. Potresti condividere una tua esperienza personale o una testimonianza che mostri l’impatto trasformativo dell’istruzione e del lavoro del CESP? Nel nostro docufilm “Lo Cunto dei Ristretti”, abbiamo presentato testimonianze significative di detenuti ed ex detenuti sulle loro esperienze di trasformazione. Mattia, ora membro attivo dei nostri progetti, in quel film ha espresso questo illuminante pensiero: “Se avessi avuto l’opportunità di accedere alla cultura e all’istruzione prima di entrare in carcere a 25 anni, la mia vita avrebbe preso una direzione completamente diversa”. Quali sono stati i maggiori ostacoli nella diffusione dei percorsi scolastici in carcere? La diffidenza dell’amministrazione penitenziaria e una mentalità per cui la detenzione è strumento di controllo, invece che opportunità per il recupero del detenuto. Persiste l’errata convinzione che chi ha commesso un reato debba essere confinato in una cella, impedendo una rieducazione efficace. È fondamentale una formazione adeguata a tutti coloro che operano in carcere, oltre a serie modifiche del sistema penitenziario. Quali sono i prossimi passi e gli obiettivi futuri del CESP-Rete delle scuole ristrette? Proseguiamo nella formazione degli insegnanti. Dopo il seminario di aggiornamento svolto a dicembre presso la Casa di reclusione di Alessandria, il 31 maggio saremo alla Casa di reclusione di Aversa e faremo un altro seminario a luglio al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Portiamo avanti il progetto “Biblioteche innovative in carcere”, avviato a Rebibbia e ora esteso a Grosseto e Saluzzo. Abbiamo l’approvazione anche per il carcere di Livorno e Gorgona mentre il 31 maggio presenteremo il progetto ad Aversa, coinvolgendo i quattro istituti penitenziari della zona. Le biblioteche facilitano la riconnessione con la cultura e offrono opportunità di lavoro sia all’interno che all’esterno del carcere. Processo penale, garantismo e securitarismo di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 17 maggio 2024 C’è il rischio che si perda della centralità del processo a fronte di un sempre maggiore interesse per gli aspetti e gli effetti di contorno, in primo luogo quelli politici, a loro volta condizionati dal sentimento collettivo del momento. Il dibattito scaturito dalla inchiesta ligure che tra gli altri ha coinvolto il presidente della Regione, conferma la perdita della centralità del processo a fronte di un sempre maggiore interesse per gli aspetti e gli effetti di contorno, in primo luogo quelli politici, a loro volta condizionati dal sentimento collettivo del momento. Per altri versi va detto che nonostante l’affermazione della inviolabilità della persona, un principio che anche grazie agli ideali illuministi è divenuto cardine della nostra Costituzione attraverso l’enunciazione dell’art. 27, ormai da troppo tempo il sistema processuale penalistico oscilla tra garantismo e securitarismo. È in questo contesto che deve essere analizzata l’inchiesta della Procura della Repubblica di Genova partendo dal presupposto che la stessa, al pari di altre di analogo tenore, ha un rilevante impatto sociale. Una questione tutt’altro che secondaria se si considera che nel nostro Paese a fronte di una maggiore concentrazione dell’opinione pubblica nella fase cautelare, non vengono adeguatamente preservati i diritti di coloro che, semmai dopo essere stati arrestati, vengono assolti restando comunque segnati dal disonore della colpevolezza. Una problematica che si aggiunge alla mai risolta piaga degli errori giudiziari tra i quali possiamo annoverare, anche se a stretto rigore non sarebbe possibile quando non vi è stata una sentenza, anche i casi di ingiusta detenzione le cui vittime accertare negli ultimi trent’anni sono più di 30 mila e lo Stato ha speso quasi un miliardo di euro tra indennizzi e risarcimenti. Le inchieste penali sono un valore che non può essere messo in discussione. Non di meno, in linea con le indicazioni della Consulta, espresse a partire da una sentenza emblematica di oltre dieci anni fa (265/2010), le stesse devono sempre coniugare la inviolabilità della libertà della persona (art.13) con la difesa degli interessi collettivi facendo sempre prevalere la prima quando ciò non è possibile. Stop ai trojan selvaggi. Il governo ora ci prova di Errico Novi Il Dubbio, 17 maggio 2024 Poteva arrivare subito, la stretta sui trojan. E avrebbe avuto un senso in ogni caso diverso dall’interpretazione polemica che i 5 Stelle prima e il leader verde Angelo Bonelli poi hanno dato dell’analogo ordine del giorno di Enrico Costa. Il quale aveva pronto un vero e proprio emendamento al ddl Cybersicurezza. Il governo, nel caso specifico il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, ha chiesto al deputato e responsabile Giustizia di Azione di soprassedere, e di tramutare appunto in ordine del giorno la proposta di modifica relativa ai virus spia. Costa e il suo partito hanno ottenuto così, martedì alla Camera, la convergenza dell’intera maggioranza di centrodestra, oltre che di Italia viva, sull’impegno, formalmente accolto dal governo, a “prevedere l’introduzione, nel primo provvedimento utile, di una disciplina organica del captatore informatico che rifletta il miglior bilanciamento tra le esigenze investigative e i principi di cui agli articoli 14 e 15 della Costituzione”. La formulazione è “alta”. Ma stavolta non c’è alcuna impigrita volontà di rimozione, dietro la richiesta dell’Esecutivo, recepita da Costa, di rinunciare a un’immediata modifica normativa. Mantovano ha spiegato a Costa di tenere a che la cybersicurezza non diventasse materia divisiva: e in effetti mercoledì il ddl è stato approvato in prima lettura a Montecitorio col solo voto contrario di Avs: Azione, Italia viva, Pd e M5S si sono astenuti. Ma nello stesso tempo, al ministero della Giustizia l’ufficio legislativo è davvero all’opera, e già da un po’, su una proposta di modifica delle norme in materia di intercettazioni: l’obiettivo è appunto limitare il ricorso ai potentissimi virus-spia, utilizzati anche in indagini per reati di corruzione a bassissimo tasso di offensività. “Credo che l’Esecutivo abbia le idee chiare, siamo d’accordo sull’obiettivo”, spiega Costa, ancora una volta promotore di una svolta garantista, come già avvenuto, con successo, in materia di presunzione d’innocenza (nella scorsa legislatura) e divieto di pubblicazione letterale delle ordinanze cautelari (poche settimane fa). “Il punto è che l’uso investigativo dei trojan è stato troppo semplicisticamente assimilato alle intercettazioni ambientali”, fa notare il parlamentare di Azione. “L’unico limite è il divieto di attivare il virus-spia in luogo di privata dimora qualora non vi sia il “fondato motivo che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”. Ma mentre le microspie ambientali sono posizionate in luoghi ben noti all’investigatore, il trojan, che si attiva segretamente da remoto sul cellulare, segue in tutti i suoi possibili movimenti l’indagato, ed è irragionevole pensare che gli agenti di polizia giudiziaria possano comprendere quando la persona accusata si trova effettivamente nel luogo di privata dimora in modo da spegnere, a quel punto, il virus spia. Ecco perché, al di fuori dei reati di mafia e terrorismo, lo strumento va sottoposto a limiti operativi più stringenti, in sintonia con la sentenza “Scurato” emessa dalla Cassazione a sezioni unite nel 2016”. Sarà assai simile la logica a cui Nordio si ispirerà nel proporre la modifica sui trojan. Che potrebbe consistere non in un ddl ma in un emendamento da inserire in un testo affine per materia, come la legge sul sequestro dei cellulari, già approvata in Senato. L’Esecutivo sembra voler fermare insomma lo scempio a cui da anni le norme sulle intercettazioni sottopongono gli articoli 14 e 15 della Costituzione, cioè l’inviolabilità del domicilio e il diritto alla segretezza delle comunicazioni. Il sindacato dei magistrati ora sfiducia il suo presidente per far dispetto a Nordio di Filippo Facci Il Giornale, 17 maggio 2024 Spunta un significativo retroscena a margine dell’ostilità della magistratura contro il Governo e contro le Camere penali (gli avvocati) e persino contro l’urgenza di intervenire nelle carceri, gravate da 33 suicidi più altri 4 di agenti penitenziari. Il presidente dell’Associazione magistrati Giuseppe Santalucia, infatti, è stato sfiduciato dalla sua stessa giunta ma non solo non si è dimesso dalla carica, ma nelle ultime settimane, è parso rimanere ostaggio delle correnti togate dell’Associazione e delle posizioni di intransigente chiusura al dialogo col Governo. Ma la vicenda va un minimo spiegata. Lo scorso 23 aprile c’è stato un incontro straordinario all’università di “Roma 3” organizzato da Riccardo Arena (Radio Carcere) e che, per la prima volta da quanto ne abbiamo memoria, ha riunito l’Associazione magistrati di Santalucia, le Camere penali di Francesco Petrelli e il Ministero della Giustizia di Carlo Nordio: il tema erano appunto le nostre galere. Il ministro, opponendosi a una cosiddetta “svuota carceri”, ha proposto una detenzione affievolita per i tossicodipendenti e per chi è a fine pena (in comunità, imparando un lavoro) ma ha incontrato la contrarietà di Anm e Camere Penali; per non perdere l’opportunità di quella apparente comunità d’intenti, nei giorni successivi, le Camere penali hanno proposto alla Anm di scrivere una lettera sulle carceri a Carlo Nordio. Un gesto che avrebbe avuto un indubbio significato politico e che incontrava il favore del presidente dell’Anm; nella missiva, letta dal Giornale, si lamentava che i piani del Ministro avrebbero avuto dei tempi troppo lunghi rispetto a una situazione drammatica che in passato costò all’Italia anche una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. E si giunge al 30 aprile scorso, giorno in cui la giunta dell’Anm si è riunita per discutere della lettera a Nordio e dunque per dare un benestare alla lettera condivisa da Santalucia. Nel verbale, anch’esso letto dal Giornale, un buon numero di togati subito “ritiene di non aderire al documento proposto sotto forma di lettera al Ministro della Giustizia, in quanto le posizioni dell’Anm sono state già compiutamente espresse nel documento approvato dal Comitato direttivo centrale, ponendo l’accento su diversi e più ampi profili”. Postura un po’ superba, dunque Santalucia ha proposto la scrittura di un testo diverso della lettera (anche privo delle posizioni già espresse) e a lui si sono associati Alessandra Maddalena (corrente Unicost) ed Elisabetta Canevini (Area) e Italo Federici (Unicost) e Angela Arbore (Area). Ma ecco gli esiti della votazione: “La proposta di modifica del documento inviato dalle Camere penali non raggiunge la maggioranza dei consensi e, dunque, non viene approvata”. Traduzione: l’Associazione non si abbassa a sottoscrivere una lettera a Nordio. Santalucia è stato sfiduciato, ma non ha fatto un plissé. Ad affossarlo, per farla breve, sono stati i quattro consiglieri di Magistratura indipendente e i due di Autonomia e indipendenza: sarebbero le correnti moderate. Di lì in poi, la linea è stata inequivocabile: con Nordio non si parla, la chiusura è totale, non si dialoga, figurarsi scrivere lettere, ma soprattutto: neppure la carne umana delle carceri fa eccezione. Nei giorni successivi, capìta l’antifona, il presidente Santalucia ha indossato l’uniforme e non l’ha tolta più. Il 5 maggio le correnti di Magistratura indipendente e di Unicost hanno parlato delle riforme di Nordio e paventato uno “scivolare verso regimi non democratici”. Il 6 maggio il Ministro e alcuni sottosegretari hanno incontrato Santalucia senza esiti apprezzabili. Poi, l’11 maggio, presente anche il capo dello Stato, il Guardasigilli si è presentato al Congresso nazionale dell’Anm a Palermo (fatto per niente scontato) e ha detto, tra l’altro: “Incontriamoci sulle cose su cui potremmo e dovremmo essere d’accordo”. Non si sono incontrati. Santalucia, nella mozione finale, circa le riforme ha parlato di “intransigente contrarietà” e ha detto che “l’interpretazione della legge non può arretrare, e i magistrati, avendo come interpreti della legge un margine di discrezionalità, devono farsene carico”. “Le carriere separate non sono la priorità: ai pm troppo potere” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 maggio 2024 Parla Loredana Micciché, presidente di Magistratura indipendente: “Per conoscere la realtà delle carceri non occorre certo dormirci”. Riforme della giustizia tra ddl costituzionale e carcere: intervista a Loredana Miccichè, presidente di Magistratura indipendente. Lei ritiene, come altri suoi colleghi, che con le riforme approvate e messe in cantiere da governo e maggioranza, la politica voglia riaprire una guerra con la magistratura? Non è mio compito capire e valutare cosa pensa e vuole la politica. Da magistrato posso solo analizzare dal punto di vista tecnico una riforma. Ma la riforma costituzionale che approderà a breve in Cdm è una priorità per la giustizia oppure no? Separazione delle carriere, sorteggio dei membri del Csm, ma anche reclutamento straordinario di magistrati onorari e i test psicoattitudinali non rappresentano certamente una priorità e non velocizzano la giustizia. Davvero con la separazione c’è il pericolo di creare un pubblico ministero con troppo potere? Certo. Oggi la formazione culturale di pm e giudici è comune, hanno la medesima cultura della giurisdizione, per cui si può chiedere e infliggere una pena solo se ci sono delle prove che giustificano una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. Senza questa comune cultura della giurisdizione avremo un pm che va in aula per vincere a tutti i costi. Nella riforma è prevista anche un’alta Corte, come appello per i ricorsi disciplinari. Non è ricevibile come proposta? Bisogna guardare al disegno complessivo di questa riforma. Se mettiamo insieme la scelta dei togati del Csm con il sorteggio e l’Alta Corte disciplinare ci accorgiamo che l’obiettivo è quello di svuotare di prerogative il governo autonomo della magistratura e svilire le funzioni dell’organo costituzionale. Nel ddl in via di rifinitura a via Arenula, salvo sorprese dell’ultima ora, ci sarà anche l’inserimento dell’avvocato in Costituzione. Lei sarebbe d’accordo? È un argomento di cui non abbiamo ancora discusso internamente all’associazione ma personalmente non ho preclusioni. Due giorni fa il sottosegretario Mantovano ha detto che chi lancia allarmi sullo Stato di diritto a causa della separazione delle carriere avrebbe bisogno di uno psicologo. La ritiene una dichiarazione eccessiva? Non commento le espressioni altrui. Posso però rilevare che al congresso dell’Anm a Palermo il vice ministro Sisto si è dichiarato disponibile ad un dialogo, così come il ministro Nordio. Io raccolgo queste disponibilità e spero si possa arrivare ad un confronto costruttivo. Come Magistratura indipendente siamo certamente pronti a dialogare. Abbiamo rilevato che Mi diverse volte durante il “parlamentino” dell’Anm non ha votato i documenti insieme agli altri gruppi. Ad esempio nel Comitato direttivo centrale di gennaio il suo collega Infante di Mi ha detto che certe posizioni dell’Anm rischiavano di trasformarla in un “partito politico di opposizione” e perciò non avete firmato il documento unitario contro la relazione del ministro Nordio. Adesso invece appoggiate la mozione unitaria del Congresso. Un ritorno a casa? Un conto sono le singole questioni discusse in Cdc, altro sono le posizioni su queste riforme contro le quali è giusto che tutta la magistratura si opponga e sulle quali Mi aveva già espresso forte contrarietà in comunicati precedenti al Congresso, diretti a tutti i magistrati e ripresi da agenzie di stampa. Però il caso Apostolico, insieme a quello Artem Uss, ha fatto da sfondo al Congresso, come annunciato sin dalla conferenza stampa di presentazione dell’evento. E su questo Mi non firmò il documento del Cdc che portò alla convocazione dell’assemblea straordinaria del 26 novembre... Ci siamo opposti al linciaggio e al dossieraggio, rivendicando la libera manifestazione del pensiero. Però abbiamo detto no a delle esposizioni pubbliche che possano mettere anche in dubbio l’apparenza di imparzialità. Si tratta di un punto importante sul modo di intendere la propria funzione. Per chiarire con un esempio: ho fatto per tanti anni il giudice del lavoro e sono intervenuta durante convegni tecnici ma mai andata a manifestazioni organizzate dai sindacati o politicamente esposte. Tornando all’attualità: cosa pensa della proposta di una esperienza formativa obbligatoria in carcere per i tirocinanti non inferiore a 15 giorni, comprensiva del pernottamento? Credo sia una proposta stravagante. Per conoscere la realtà delle carceri non occorre certo dormirci. C’è un’emergenza sovraffollamento e suicidi negli istituti di pena. Come fronteggiare il problema? Vanno costruite in fretta nuove carceri e reperiti locali utili da riconvertire. Riteniamo inoltre che vada valorizzata la rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro, coinvolgendo al massimo le associazioni del terzo settore. Le carceri devono fare giustizia e non vendetta. Infine abbiamo proposto un potenziamento dell’assistenza medica, anche sul versante psicologico e psichiatrico. Però persino il ministro Nordio, in un recente convegno a Roma Tre, ha detto che la costruzione di nuove carceri non è fattibile e occorre “intervenire nei confronti di quelle persone condannate per reati minori e vicine al fine pena e per i tossicodipendenti, rimodulando e affievolendo la detenzione, facendole ospitare dalle comunità, molte delle quali si sono rese già disponibili”. Sarebbe d’accordo? Dove il carcere può essere evitato lo si faccia. Ma in primis bisogna che il detenuto durante il giorno svolga attività lavorative utili e abbia delle alternative per costruirsi un futuro per quando uscirà. Non posso esprimermi al momento sulla proposta del ministro perché ancora abbiamo a disposizione un testo definitivo. Lei in una intervista alla Stampa ha detto che ci sono troppi ricorsi in Cassazione. Ma non sarebbe una lesione del diritto di difesa limitare l’accesso al terzo grado, visto già i limiti posti all’appello? Non ci sono stati limiti all’appello... Le Camere penali da tempo denunciano la mancata riforma dell’articolo 581 cpp, minacciando astensioni e ipotizzando di richiedere di sollevare questione di legittimità costituzionale proprio perché viene limitata la difesa. Si è semplicemente richiesto che vi sia il rilascio di una procura per rendere più agevole lo svolgimento del processo, essendo previsto il termine di improcedibilità. Per quanto concerne la Cassazione, io mi metto sempre nell’ottica delle garanzie del cittadino, che inevitabilmente diminuiscono se un ricorso deve essere trattato insieme ad altri 50.000. Quali filtri vorrete mettere? C’è una commissione ministeriale, di cui faccio parte, che sta affrontando la questione. Il Giornale in più articoli ha parlato di inciucio di Mi e Area al Csm. Come replica? Io sono presidente di Mi, non mi occupo di nomine e non siedo al Csm. Posso certamente escludere inciuci, assicurando che le nomine vengono fatte leggendo i curriculum. Marco Boato: “Giustizia, errore cambiare la Carta senza l’opposizione” di Daniele Cassaghi Corriere del Trentino, 17 maggio 2024 Il leader dei Verdi scrisse il testo che ispirò Nordio. “Separazione carriere? Anch’io fui attaccato dall’Anm”. Guai a chiamarla “Bozza Boato”. Perché - come spiega lo stesso Marco Boato - l’ultimo testo che scrisse nel 1998 sulla giustizia è diventato quello definitivo, approvato con una maggioranza “trasversale” nella “Bicamerale dalemiana”. Già allora arrivarono gli attacchi dell’Anm: “Siamo ancora a quest’impasse”, dice il leader di Europa Verde. L’idea allora era quella di trovare il più ampio consenso possibile per modificare la Costituzione. A Boato toccò di dover redigere un testo per ridisegnare, tra le altre cose, il sistema giudiziario. Lo stesso testo a cui fautori della riforma della giustizia dicono di prendere ispirazione. Vi trovavano posto una “Corte di giustizia della magistratura”, per giudicare i magistrati in modo indipendente dal Csm. La Bicamerale - è storia - fallì dopo il ritiro dell’appoggio da parte di Silvio Berlusconi. E per quanto riguarda la riforma della giustizia, “c’era inizialmente un ampio consenso, ma poi questo venne meno, anche per pesanti interferenze esterne da parte della Anm”, spiega il leader dei Verdi: “Dopo quasi trent’anni, siamo ancora a questa impasse”. Perché dividere i Csm? “La mia proposta non prevedeva due Csm per giudici e pubblici ministeri, ma due distinte sezioni all’interno di un unico Csm della magistratura ordinaria. Una proposta che condivido tutt’ora, anche se ora si prospettano legittimamente due distinti Csm. Il problema è che mentre nella Bicamerale si cercava il confronto e l’incontro tra maggioranza e opposizione, sul piano parlamentare, ora l’iniziativa è solo del governo di centrodestra, e non del Parlamento. Non mi scandalizzano i Csm separati, ma l’assenza di confronto parlamentare”. C’è davvero uno scontro tra magistratura politicizzata e centrodestra? “Non tanto la magistratura in generale, ma la sua associazione “sindacale” si scontra quasi sempre con ogni governo e rivendica di dettare le norme al posto del Parlamento. Lo hanno fatto con il centrosinistra in passato e ora anche col centrodestra. Anche nei confronti della Bicamerale D’Alema e delle mie proposte lo scontro da parte della Anm fu durissimo. Ma fare le riforme compete al Parlamento, non al sindacato dei magistrati”. La separazione delle carriere mina l’indipendenza dei Pm? “Finita la Bicamerale, abbiamo approvato a larghissima maggioranza la costituzionalizzazione dell’articolo 111, dei “principi del giusto processo”. In quell’articolo si parla di “giudice terzo e imparziale” e di “contradditorio tra le parti in condizione di parità”. Questo è il fondamento costituzionale della separazione delle carriere. Né nelle mie originarie proposte in Bicamerale, né ora nell’ipotesi del ministro Nordio c’è alcuna possibilità di sottoposizione dei Pm all’Esecutivo. La polemica della Anm, sia ora che allora, è del tutto pretestuosa e strumentale. Anch’io a suo tempo ho dovuto subire questo ti podi accuse. La garanzia dell’indipendenza deiPmè stata sempre confermata”. Premierato, autonomia differenziata, giustizia. È pericoloso modificare così tanto la Carta costituzionale? “Le riforme costituzionali dovrebbero essere promosse con le convergenze più ampie e “trasversali”. Questo ora non sta succedendo, ed è un errore molto grave”. Gherardo Colombo: “Oggi come nel 1992, il potere è insofferente alle iniziative dei pm” di Giulia Merlo Il Domani, 17 maggio 2024 Per l’ex toga, un parallelo giudiziario tra Toti e Mani pulite è fuorviante: “All’epoca il finanziamento illecito, connesso alla corruzione, era un sistema. Per ora non mi sembra che dalle carte della Liguria emerga questo”. Invece la riforma di Nordio “mette a rischio la coerenza del sistema”. Gherardo Colombo, il paragone tra l’inchiesta in Liguria e Tangentopoli è subito arrivato, anche il suo collega Antonio Di Pietro lo ha parzialmente condiviso. Lei cosa ne pensa? Premetto che conosco il caso ligure superficialmente, e che vale comunque la presunzione d’innocenza. Ciò detto, mi sembra di vedere una differenza marcata: all’epoca di Mani pulite il finanziamento illecito, connesso alla corruzione, era un sistema, ed era davvero raro che un appalto venisse aggiudicato a chi non avesse pagato per vederselo assegnare. I soldi andavano, occultamente, soprattutto ai partiti, ma anche a esponenti politici che li usavano per fini propri. Da quello che si legge, sembra che invece nelle ultime vicende il finanziamento venisse dichiarato, fosse cioè palese, mentre nascosto sarebbe stato solo il rapporto tra il finanziamento e la contropartita, il vantaggio per chi pagava. Questo facilita o rende più opaco il reato? Per certi versi facilita l’attività degli inquirenti, che possono verificare se, per i tempi e per altri elementi, i finanziamenti palesi al partito abbiano la loro causa nel connesso provvedimento della pubblica amministrazione che, pur se non contrario ai doveri d’ufficio, è punito pesantemente (massimo della pena 8 anni), dall’articolo 318 del codice penale. Per altro verso rende il lavoro più complesso, nella misura in cui è ovviamente necessario dimostrare che tra il pagamento e l’atto d’ufficio esista per davvero un rapporto di causa ed effetto concordato tra le parti. Ormai il riferimento a Tangentopoli è diventato un luogo comune? Diciamo che se ne fa un uso generalizzato nei casi in cui la corruzione sia legata alla politica. Per quel che si può capire allo stato non mi sembra però che dalle ultime inchieste emerga comunque l’esistenza di un sistema che connetteva così rigorosamente il finanziamento ai partiti e la corruzione, quale quello scoperto nelle indagini iniziate nel 1992. Le faccio un esempio dell’esistenza delle regole precise che disciplinavano il sistema. Per la costruzione della metropolitana, a Milano, tutte le imprese coinvolte nei lavori dovevano pagare, secondo tariffe prefissate, di importo diverso a seconda della complessità dei lavori. Raccolto il denaro, questo veniva distribuito tra i partiti che contavano in base, anche qui, a percentuali prestabilite così precise da comprendere anche numeri decimali. Non mi pare che l’accusa si riferisca a una sistematicità diffusa e organizzata di rapporti illeciti tra imprenditoria e politica, ma che invece - almeno al momento - riguardi comportamenti di singole persone. Come valuta invece le reazioni della politica? Non è che veda una grande differenza, se non - magari - per le forme. Si è allora cercato in tempi brevi di depenalizzare il reato di finanziamento illecito, per esempio. E ancora una volta vedo che la politica continua a riversare sulla responsabilità penale quel che dovrebbe essere affrontato appunto a livello di responsabilità politica. Piuttosto la vera differenza è data dalle reazioni dei cittadini. Durante Tangentopoli le reazioni della cittadinanza erano state molto forti, a volte anche eccessive, mentre ora pare che venga considerato normale che i rapporti tra politica e imprenditoria funzionino come starebbe emergendo all’indagine. Come se ci fossimo arresi a una constatazione di fatto, che le cose non possano andare in modo diverso. Il guardasigilli Carlo Nordio ha commentato le misure cautelari. Anche che un ministro intervenga su un’inchiesta in corso è una novità... Il ministro ha espresso un’opinione. Ai tempi di Mani pulite succedeva che i ministri intervenissero inviando ispezioni e promuovendo procedimenti disciplinari, e i governi modificassero le leggi che prevedevano i reati per i quali procedevamo. Per quel che riguarda l’osservazione relativa ai tempi della custodia cautelare, potrebbe darsi che i motivi che la giustificano permangano, o addirittura sorgano, anche dopo tempi consistenti dall’emergere di elementi di responsabilità. Il pericolo di inquinamento della prova può accompagnare non soltanto tutte le indagini, ma anche il dibattimento. Il ragionamento è analogo per il rischio di commissione di nuovi reati. Occorrerebbe verificare cosa ha scritto il giudice nel suo provvedimento per rispondere. Ritiene però che il livello di insofferenza della politica nei confronti dell’azione della magistratura stia superando la soglia di guardia? Guardi, già da quando abbiamo scoperto la P2 ho assistito a una certa resistenza da parte della politica nei confronti dei provvedimenti della magistratura. Io credo che l’insofferenza in particolare dell’esecutivo nei confronti del controllo giurisdizionale sia abbastanza costante e che abbia le sue ragioni storiche. La magistratura ha iniziato a occuparsi dei reati che riguardano il potere abbastanza tardi, perché fino agli anni Settanta ciò non avveniva, e infatti il rapporto era idilliaco. Poi, però, quando le toghe hanno iniziato ad applicare il principio costituzionale secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, le insofferenze sono diventate costanti. È stata questa insofferenza a guidare l’esecutivo a procedere con la separazione delle carriere? Mi sembra che le modifiche costituzionali ipotizzate dal governo mostrino una insofferenza molto spiccata dei poteri legislativo ed esecutivo nei confronti della magistratura. Le modifiche, infatti, da una parte hanno conseguenze negative sulla indipendenza complessiva della magistratura, dall’altra eliminano quel poco che resta della cultura del giudice in capo al pubblico ministero, che diventando del tutto parte avrebbe l’unico interesse di vincere la causa, piuttosto che svolgere la funzione di pre giudice. L’opinione pubblica non si accorge che le riforme diminuirebbero le garanzie del cittadino, che si troverebbero davanti a un pubblico ministero per il quale non avrebbe più senso cercare anche le prove a favore dell’indagato, come invece capita ora. Teme gli effetti di una riforma come quella ipotizzata da Nordio? La completa separazione delle carriere, l’istituzione di due Csm separati, la sottrazione del potere disciplinare all’organo di autogoverno a mio parere mettono a rischio la coerenza dell’intero sistema costituzionale, basato sul riconoscimento della dignità di ogni persona e sulla conseguente uguaglianza di tutti davanti alla legge, preservata dall’indipendenza della giurisdizione. Io credo che sarebbe necessario, invece che procedere per separazione delle carriere, quindi delle culture, pensare a percorsi formativi comuni che coinvolgano anche l’avvocatura, e che diffondano tra tutti coloro che partecipano all’amministrazione della giustizia i dettati costituzionali riguardanti l’applicazione del principio di pari dignità, sia quanto a disposizioni che quanto a prassi. Le riforme prospettate non risolvono le disparità di opportunità tra imputato e imputato, la tendenza alla trasformazione sempre più marcata del carcere in discarica sociale, la marginalità della vittima nel sistema processuale, la visione della giustizia come luogo di perpetuazione, piuttosto che di soluzione del conflitto. In questo dibattito mi parrebbe singolare che non entrasse nella discussione la parola - sia come singoli che nelle loro aggregazioni - proprio di coloro cui è affidata dalla Costituzione la funzione, così delicata, sulla quale si intende incidere. Maysoon e Marjan, le Salis iraniane detenute in Italia: i giudici di Orban migliori dei nostri? di Piero Sansonetti L’Unità, 17 maggio 2024 Persino la Camera penale di Locri si è schierata con i Pm, contro gli imputati e l’avvocato che li difende. Dobbiamo saperlo: in questa battaglia per la difesa del diritto a favore dei migranti siamo solissimi: una minuscola pattuglia di pazzi. Però non ci fermiamo. Ilaria Salis è stata liberata dalla prigione per decisione della magistratura ungherese. Non sappiamo se ci siano state pressioni del governo di Ungheria, o di Orban, per ottenere questa saggia decisione dei giudici. Né se ci siano state pressioni del governo italiano su Orban. In teoria la magistratura ungherese è indipendente dal potere esecutivo e il potere esecutivo non ha competenze sul tema della carcerazione. Comunque la decisione dei giudici di Budapest è stata una decisione ottima e di rispetto del diritto. Ilaria Salis è una cittadina straniera imprigionata da uno Stato straniero e la sua colpevolezza è molto dubbia. Anche Maysoon Majidi, 28 anni, è una cittadina straniera imprigionata in uno Stato straniero. E la sua colpevolezza non è dubbia: è certo che è innocente. Ci sono le prove. Lo stato nel quale è imprigionata è l’Italia. Maysoon era una intellettuale giovane, regista, attivista dei movimenti a favore delle donne in Iran. Era nel mirino degli Ayatollah. Come tante altre donne delle quali spesso scriviamo in Italia: “mobilitiamoci, difendiamole!”. Lei ha creduto alle nostre grida e ha pensato di fuggire dall’Iran. È riuscita a raggiungere il Kurdistan iracheno, poi la Turchia. Suo padre ha venduto quasi tutto quel che possedeva per trovare i soldi da mandarle in modo che potesse pagare il viaggio clandestino in Italia. L’idea di Maysoon era quella di passare dall’Italia e poi andare in Germania a farsi una vita nuova. È arrivata in Calabria il 31 dicembre scorso. La mattina dopo l’hanno arrestata accusandola di essere scafista. Contro di lei c’è solo una dichiarazione di un suo compagno di viaggio. Rilasciata alla polizia appena sbarcato. E sulla base della quale il suo compagno di viaggio fu lasciato libero. Ora è in Germania. L’avvocato di Maysoon ha chiesto che fosse interrogato in un incidente probatorio. La Procura ha detto che era irreperibile. L’avvocato ha detto che non era irreperibile e ha fornito il suo numero di telefono. Ha chiesto: interroghiamolo ora in videoconferenza. La Procura si è opposta. L’avvocato gli ha telefonato davanti ai giornalisti, l’inviata dell’Unità lo ha intervistato. Lui ha giurato che Maysoon non era scafista. Ha detto di essere stato interrogato in arabo e di non sapere l’arabo. E di avere firmato un verbale sempre in arabo, senza sapere cosa ci fosse scritto. Potete dargli torto? Se non firmava avrebbero probabilmente arrestato lui come scafista… I giudici ungheresi hanno liberato Ilaria. I giudici italiani mercoledì hanno ricevuto una nuova richiesta di liberazione per Maysoon. Scritta dal suo avvocato, Giancarlo Liberati. Molto circostanziata. Ci hanno messo quattro ore per respingerla. Quattro ore dal momento nel quale l’hanno ricevuta. È chiaro che in Italia esiste una magistratura molto più autoritaria, arrogante e arretrata rispetto a quella ungherese. Marjan Jamali invece ha 29 anni. Iraniana. È arrivata in Italia col figlioletto di otto anni. È da escludere che fosse una scafista. L’hanno interrogata anche lei in arabo, e neanche lei parla arabo. L’accusano di essere scafista. Le hanno portato via il bambino. L’altro giorno le hanno strappato di mano anche la foto del bambino. Un deputato italiano, Marco Grimaldi, della sinistra, ha presentato una interrogazione a Nordio per chiedere al governo di intervenire, controllare, ispezionare. La risposta è disarmante. Ha detto Nordio, candidamente: ho chiesto ai magistrati di Locri e Crotone mi hanno garantito che è tutto a posto. Beh, Orban una risposta così inauditamente arrogante non l’avrebbe mai data. Brindiamo per Ilaria che non è più in cella e pensiamo che mai e poi mai sarebbe stata liberata se fosse stata una cittadina straniera in Italia. E brindiamo anche ai giornali italiani, che quando ci sono di mezzo i diritti di un cittadino o di una cittadina extracomunitaria si mobilitano sempre compatti a difesa dello Stato di diritto. A parte i giornali calabresi nessuno ha scritto una riga su questa ignominia. (Persino la Camera penale di Locri si è schierata con i Pm, contro gli imputati e l’avvocato che li difende. Dobbiamo saperlo: in questa battaglia per la difesa del diritto a favore dei migranti siamo solissimi: una minuscola pattuglia di pazzi. Però, giuro, non ci fermiamo). Emilia Romagna. Carceri, problemi senza fine: 450 appelli al Garante regionale di Martina Alfieri La Repubblica, 17 maggio 2024 Casi di suicido, di autolesionismo, danneggiamenti alle strutture, abuso di farmaci, mancato o ritardato rientro da un beneficio, manifestazioni di protesta, un tentativo di evasione, ritrovamento di oggetti non consentiti, radicalizzazioni e violazione delle norme penali. Il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, ha illustrato in commissione per la Parità e per i diritti delle persone le criticità riscontrate nelle carceri della nostra regione. Le richieste di intervento rivolte al garante, come indicato nella relazione presentata in commissione sull’attività dell’ufficio nel corso del 2023, arrivano a 450: segnalazioni che riguardano, per fare solo alcuni esempi, i “servizi sanitari in carcere, la condizione detentiva, l’accesso alle misure alternative, i trasferimenti, i servizi sociali, il lavoro e il rapporto con la magistratura di sorveglianza”. Cavalieri è tornato sull’annoso tema del sovraffollamento. A fronte di una capienza regolamentare di 2.981 posti, i detenuti arrivano in media a 3.466, di cui 158 donne (il 4,55% della popolazione detenuta). Gli stranieri presenti sono in media 1.672 (48,2% sul totale); i semiliberi sono in media 68 (di cui 21 stranieri), solo l’1,9% del totale. Sempre relativamente all’anno 2023, le carceri emiliano-romagnole sono popolate per lo più da detenuti con condanna in via definitiva (77,6% sul totale), di cui il 73,5% stranieri. I condannati con condanna non definitiva (appellanti, ricorrenti e con posizione mista) arrivano al 9,2%, mentre quelli in attesa di primo giudizio, sempre in base ai dati forniti dal garante, sono l’11,8%. Fra questi in molti hanno un residuo pena ridotto, “che consentirebbe l’accesso ai benefici, che in molti casi non viene attivato”. Da rilevare, poi, che i detenuti che usufruiscono delle attività formative “rappresentano una decisa minoranza”. Gli ergastolani, invece, arrivano in media a 173, il 66% a Parma, istituto con presenza di circuiti di alta sicurezza (a partire dai casi di 41bis). Il garante rileva anche l’aumento di casi di violenza in carcere, con protagonisti i detenuti. Inoltre, segnala “eccessi, in casi seppur isolati, da parte della polizia penitenziaria”, ricordando il caso di un detenuto di Reggio Emilia “aggredito da personale della polizia penitenziaria”. Riguardo al problema dei detenuti con disabilità, rimarca come in diversi istituti di pena a questi detenuti non venga garantita sufficiente attenzione. In commissione è intervenuta anche Mariachiara Gentile di Antigone, associazione che opera a tutela dei detenuti. Anche per Antigone uno degli aspetti centrali del trattamento rieducativo del detenuto è rappresentato dal lavoro. “I numeri in Emilia-Romagna sul lavoro in carcere - sottolinea Antigone - non sono buoni, dato che i detenuti attivi arrivano a circa il 30%, di cui circa il 6% alle dipendenze di datori esterni. Il dato è basso anche sulla formazione, tanto che coinvolge solo il 9% circa dei detenuti”. Parma. Detenuto di 25 anni suicida nel carcere. Il Garante: “Una drammatica sequenza di casi” di Martina Alfieri La Repubblica, 17 maggio 2024 Un giovane di 25 anni si è tolto la vita giovedì sera nel carcere di Parma. Originario di Palermo il detenuto ha dato fine alla sua vita tramite impiccagione nel padiglione di media sicurezza nel carcere di Parma. È quanto riferisce il Garante regionale Roberto Cavalieri: “Alcuni giorni fa l’uomo si era reso responsabile di un’aggressione a un agente della polizia penitenziaria ed era stato collocato in una sezione per detenuti con problematiche di sicurezza”. Quello avvenuto giovedì è il secondo suicidio di detenuti nella Regione, entrambi verificatisi a Parma e il quarto nell’arco dei 12 mesi nell’Emilia Romagna. “Il drammatico evento si aggiunge alla lunga lista dei suicidi in carcere che sono così arrivati a essere 34”. Proprio ieri lo stesso Garante aveva illustrato in Regione, nella commissione per la Parità e per i diritti delle persone, le criticità riscontrate nelle carceri dell’Emilia Romagna fra suicidi, atti di autolesionismo, danneggiamenti alle strutture, abuso di farmaci, mancato o ritardato rientro da un beneficio, manifestazioni di protesta, un tentativo di evasione, ritrovamento di oggetti non consentiti, radicalizzazioni e violazione delle norme penali. Torino. Udienza preliminare per la morte di Moussa Balde nel Cpr di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 maggio 2024 Si avvicina l’udienza preliminare per il caso di Moussa Balde, il giovane guineano morto nel Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Torino nel giugno del 2021. Il 23 maggio 2024, il gup Gloria Biale dovrà decidere se rinviare a giudizio i tre imputati: un poliziotto accusato di falso e favoreggiamento, il dirigente locale della società francese Gespa che gestiva il Cpr, e il medico in servizio, entrambi accusati di omicidio colposo in concorso. Chiamato in causa dalle parti civili ci sarà anche il ministero dell’Interno. L’inchiesta che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio si è concentrata sulle lacune nella sorveglianza sanitaria e sull’uso improprio di un locale, chiamato “ospedaletto”, dove venivano rinchiusi i migranti con problemi psicologici e di comportamento. Nell’udienza preliminare sono stati ammessi come parti civili le associazioni Asgi e Frantz Fanon, oltre a sette familiari del giovane, finito in isolamento per 10 giorni al Cpr dopo essere stato vittima di una violenta aggressione da parte di un gruppo di italiani per le strade di Ventimiglia. Un pestaggio che lo aveva profondamente segnato nel fisico e nella mente. Il 9 maggio 2021, Balde fu aggredito da tre uomini a Ventimiglia mentre chiedeva l’elemosina davanti a un supermercato. Già provato da anni di respingimenti e dalla delusione per il fallimento del suo progetto migratorio, si trovava a vivere per strada senza dimora e privo di documenti regolari. A seguito del pestaggio, con una prognosi di 10 giorni, fu raggiunto da un decreto di espulsione e accompagnato dalla polizia al Cpr di Torino. Lì, secondo i legali della famiglia, Balde non ebbe la possibilità di raccontare il pestaggio subito e fu rinchiuso nell’ “ospedaletto”, una sezione di isolamento del Cpr che non sarebbe regolamentata da nessun criterio giuridico. In questo luogo di isolamento, nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021, fu trovato morto. Nel gennaio 2023, i tre aggressori di Balde sono stati condannati in primo grado a 2 anni di reclusione con sospensione condizionale della pena per lesioni aggravate dall’uso di corpi contundenti. “La notte della sua morte l’abbiamo sentito urlare a lungo e chiedere l’intervento di un dottore”, raccontarono i testimoni presenti in quelle ore, “senza ricevere nessuna risposta”. “Non credo che questo si possa definire un suicidio” ha denunciato suo fratello Amadou Thierno Moussa, che chiede solidarietà nella ricerca di giustizia allo Stato italiano. “Piuttosto, ci sembra l’inevitabile conseguenza di un’aggressione razzista e di una detenzione illegale”. E il tempo gli ha dato ragione. Dopo una complessa indagine, la procura ha chiesto il rinvio a giudizio. Ora al gip la decisione. Biella. “Il carcere più sedato d’Italia”: otto detenuti su dieci assumono psicofarmaci di Luca Rondi altreconomia.it, 17 maggio 2024 Nella casa circondariale piemontese gli antipsicotici vengono utilizzati venti volte di più rispetto all’esterno. Tra spaccio, pressioni degli agenti di polizia penitenziaria e malessere diffuso. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, intanto, fa visita al laboratorio di sartoria. Ma le risposte del governo sulla somministrazione dei farmaci negli istituti di pena non sono ancora arrivate. L’80% dei detenuti del carcere di Biella assume psicofarmaci. Un dato impressionante, rilevato da Antigone, associazione che monitora le condizioni dei reclusi, che rende la Casa circondariale biellese la struttura più “sedata” d’Italia. Lo dimostrano anche i dati ottenuti da Altreconomia: l’utilizzo di antipsicotici, farmaci prescrivibili per gravi patologie come la schizofrenia e il disturbo bipolare, risulta superiore di venti volte rispetto all’esterno. “Una situazione completamente fuori controllo”, racconta Marco, nome di fantasia, medico che ha lavorato per anni nel carcere piemontese e preferisce restare anonimo. Il 17 maggio è prevista a Biella la visita del ministro della Giustizia Carlo Nordio accompagnato dal sottosegretario Andrea Delmastro, originario proprio del distretto laniero. L’istituto biellese, da 395 posti secondo la capienza regolamentare, è un buon angolo prospettico per guardare allo stato di malessere delle carceri italiane. Secondo i dati forniti ad Altreconomia dall’Azienda sanitaria locale (Asl) in tre anni, 2020-2022, un farmaco su tre acquistato era uno psicofarmaco. In termini assoluti i dati sono elevatissimi: nel 2021 la spesa totale sfiora i 30mila euro, una cifra due o tre volte superiore a istituti con capienza simile (come la casa circondariale di Spoleto e il San Michele di Alessandria) analizzati nella nostra inchiesta “Fine pillola mai”. E infatti guardando alla spesa pro-capite a detenuto, il risultato è allarmante: prendendo in esame gli antipsicotici, utilizzabili sulla carta in presenza di gravi patologie, nel 2021 la spesa è pari a quasi 74 euro a persona. Tra i 15 istituti analizzati da Altreconomia, Biella è seconda solamente a San Vittore a Milano. “Non mi stupisce -spiega il dottore-. E non è vero che l’uso di psicofarmaci sia correlato alla crescita di persone con patologie”. Marco racconta che al suo arrivo il presidio sanitario ha tentato in tutti i modi di limitare l’uso di psicofarmaci. I dati sembrano confermarlo perché tra il 2021 e il 2022 la spesa a persona sempre in antipsicotici scende passando da 74 a 37 euro a persona. Segno, evidentemente, di come sia possibile trovare soluzione alternative. “Poi purtroppo questo processo è stato arrestato -riprende il medico-. Sembrava di lottare contro i mulini a vento: la polizia penitenziaria insisteva all’inverosimile per somministrare farmaci, l’Azienda sanitaria tentennava nel prendere posizione e poi, soprattutto, lo spaccio interno di pastiglie era diffusissimo. Oggi la situazione è ancora peggio di prima”. Uno smercio interno messo a nudo dalla Procura di Biella che, dopo tre anni di indagine ha eseguito 56 misure cautelari a inizio settembre 2023. Soprattutto detenuti ed ex detenuti ma anche sei agenti della polizia penitenziaria accusati di corruzione, ricettazione e falso in atto pubblico. Non è l’unico procedimento penale in corso. Il 14 maggio è arrivata la notizia della chiusura delle indagini per venticinque agenti accusati anche di tortura. Come riporta La Stampa, uno dei casi di violenza riguarda H.M., detenuto di origine marocchina che secondo l’accusa sarebbe stato colpito con schiaffi sul volto e calci nel fianco sinistro e poi scaraventato a terra. “A quel punto un gruppo di agenti alla presenza del comandante -ricostruisce sempre il quotidiano- l’avrebbe accerchiato e poi legato con del nastro adesivo, che gli avrebbe avvolto caviglie, ginocchia e spalle, questo nonostante fosse già ammanettato”. In questo cupo quadro a Biella, per più di due anni, è mancato un direttore ad hoc. “Il malessere che si vive nell’istituto è palpabile -spiega Sonia Caronni, la Garante dei diritti dei detenuti del Comune-. Il farmaco diventa la via per resistere a una quotidianità difficile da sopportare”. Soprattutto nel “vecchio padiglione” -che ospita anche i detenuti “protetti”- che presenta anche “carenze strutturali evidenti e di difficile risoluzione”, come scrive Antigone. “Le celle sono piccole e nei bagni non vi è spazio per muoversi. Le docce sono al piano e i sanitari presentano infiltrazioni e muffe alle pareti. Non è presente l’acqua calda e la luce non è attivabile autonomamente”. Questa è la cruda realtà del carcere di Biella. Un’immagine distante da quella presentata a inizio agosto 2019 quando venne annunciata l’apertura di una sartoria interna alla struttura per produrre settemila divise della penitenziaria. Nordio arriva a Biella proprio per visitare il laboratorio sartoriale, esperienza unica in Italia. La sartoria, promossa grazie al gruppo Ermenegildo Zegna, non è mai entrata a pieno regime: sono 50 i detenuti coinvolti in attività lavorativa, contro i 140 previsti dal progetto. Tra i diversi problemi di attivazione c’è anche la carenza di organico: fino al primo marzo due funzionari giuridico-pedagogici sui quattro previsti (oggi sono otto quelli presenti) e 48 agenti in meno della pianta organica sulla carta (con gli agenti indagati tutt’ora in servizio). Un tema molto caldo anche a livello politico. Il sottosegretario Andrea Delmastro è più volte finito sotto i riflettori: prima per il presunto festino, proprio in carcere, alla presenza di alcuni agenti sotto indagine, poi per lo “sparo” di Capodanno avvenuto a Rosazza, a pochi chilometri di Biella. Il parlamentare Emanuele Pozzolo, indagato per i fatti di quella notte, nei giorni scorsi ha accusato Pablito Morello, capo della scorta di Delmastro ed ex ispettore proprio del carcere di Biella. Dove entro il 2027, secondo i piani del sottosegretario, dovrebbe aprire una scuola per agenti nell’ex ospedale. Un costo complessivo di 77,1 milioni euro, di cui 56,5 milioni per i lavori, mentre le spese tecniche relative alla progettazione e alla direzione lavori dovrebbero richiederne circa sei milioni. “Biella non è il feudo di Delmastro come di nessun altro politico -ha commentato il deputato Marco Grimaldi di Alleanza sinistra verdi-. Il biellese è di tutte e tutti i cittadini che lo abitano, ci vivono, ci lavorano e lo amano”. Tra polemiche politiche e promesse vuote restano invisibili le persone che quotidianamente vivono nel carcere più sedato d’Italia. Dall’inizio del 2024 si sono suicidate nelle carceri italiane già 33 persone, oltre a cinque agenti di polizia penitenziaria. I detenuti totali, intanto, superano quota 60mila. E l’abuso di psicofarmaci è il sintomo “silenzioso” di un sistema al collasso rispetto al quale il ministro Carlo Nordio non ha ancora fornito spiegazioni. “Spero che anche gli operatori sanitari comincino a opporsi -riprende Marco, il medico che ha lavorato nel carcere di Biella-. Certe prescrizioni e somministrazioni vanno fatte solo per il bene del paziente e non per altri scopi”. Napoli. A Poggioreale apre la pizzeria dei detenuti di Claudio Mazzone Corriere del Mezzogiorno, 17 maggio 2024 Quattro reclusi già assunti all’esterno. Altri 20 seguiranno un corso, poi il titolo professionale. Venti detenuti che provano così a ricostruire la propria umanità partendo dal lavoro. Quattro sono già stati assunti da Gesco, due rider che consegnano le pizze nelle celle e due pizzaioli che si misurano quotidianamente con l’antica arte partenopea. Ieri i pizzaioli “diversamente liberi”, hanno avuto l’occasione di far assaggiare le loro pizze ai familiari, trascorrendo una mattinata insieme e festeggiando così la giornata mondiale della famiglia. Il cambiamento - “Questi progetti - dice il direttore di Poggioreale Carlo Berdini - sono fondamentali perché danno ai detenuti competenze spendibili nel mondo del lavoro e sono parte di un percorso più ampio di cambiamento”. Un cambiamento che a Poggioreale è necessario visti i numeri del sovraffollamento e le criticità strutturali. “Quella di oggi - precisa Berdini - non è una manifestazione che nasconde i problemi di Poggioreale e del sistema penitenziario in generale. Su questo stiamo lavorando quotidianamente con progetti concreti a partire dalla ristrutturazione dei padiglioni. È partito - aggiunge - un appalto di 20 milioni per l’adeguamento dei padiglioni, inizieremo con il “reparto Napoli” e poi seguiranno gli altri. Il cambiamento è in campo ed è sotto gli occhi di tutti a partire dal fatto che stiamo per riaprire la sala ludica per i bambini che vengono a trovare il padre detenuto”. Il lavoro diventa il fondamento di una pena che deve riscoprire il valore rieducativo. “Il carcere - dice Sergio D’Angelo, presidente di Gesco - non può essere considerato un mondo a parte ma è parte del mondo. Qui dentro occorre riprodurre la vita sociale e offrire opportunità in modo che, coerentemente con la Costituzione, la pena assolva soprattutto alla funzione rieducativa. Esperienze come questa - sottolinea - dovrebbero essere la normalità e non l’eccezione. Se si abbatte la recidiva e si assicura un futuro vero ai detenuti, il carcere diventa un luogo di riscatto per l’intero territorio e non un problema per la comunità”. Strumento sociale - La pizza a Poggioreale è uno strumento concreto di riscatto sociale per i detenuti. “Ho 31 anni - racconta Giovanni, uno dei pizzaioli della brigata Caterina -. Sono in carcere da un anno e mezzo e questo corso mi ha insegnato a fare la pizza e mi ha ridato la fiducia nel prossimo perché ho scoperto che fuori c’è ancora qualcuno che crede in me, che mi vede come un essere umano che ha sbagliato e non come un mostro. Oggi c’è qui mio figlio e ho l’occasione con questa pizza - mostra fiero una Margherita - di fargli assaggiare il sapore del mio riscatto”. Un riscatto che diventa reale quando Giovanni entra nel piazzale Salvia sfilando con i suoi compagni e il figlio dice: “Mamma, come è bello papà con la divisa da pizzaiolo, sembra nuovo”. Verona. Il cappellano del carcere: “Il Papa viene a restituire la dignità perduta” di Elisabetta Gramolini agensir.it, 17 maggio 2024 Domani, 18 maggio, Papa Francesco sarà nella Casa circondariale di Montorio, accolto dalla direttrice Francesca Gioieni e dal direttore della Polizia penitenziaria, Mario Piramide. Previsto l’incontro con i detenuti con i quali trascorrerà anche il pranzo. Fra Crivelli: “Sono sicuro che il Papa si prenderà tutto il tempo per parlare con loro e che l’incontro lascerà segni emotivi importanti in tutti gli ospiti”. Padre, è pronto per accogliere il Papa? Siamo emozionati ma il lavoro ci permette di non pensarci e andare avanti. È un evento epocale. Visitare le carceri è una qualità di Papa Francesco che dona speranza ai detenuti. Anche loro hanno una dignità, sebbene il mondo civile non la riconosca oppure venga loro negata. Chi incontrerà il Papa? Francesco non ha chiesto di incontrare gruppi in particolare, ma solo il maggior numero possibile di persone. I detenuti come si stanno preparando? Solo una piccola parte non è interessata. La maggior parte chiede continuamente della visita. La casa circondariale conta oggi 580 detenuti. Con buona parte di loro ci sarà un incontro con il Papa nel campo da calcio e poi a pranzo, preparato in parte all’interno dove abbiamo un forno e in parte con la collaborazione di associazioni e cooperative della zona. I risottari dell’Isola della Scala verranno per esempio a cucinare il risotto, gli chef che hanno già fatto dei corsi con i detenuti saranno qui per il secondo, mentre un’associazione di pasticceri farà la torta e gli allievi della scuola alberghiera si occuperanno del servizio. I detenuti che conosce di cosa hanno bisogno? Di dignità. Hanno bisogno di aver riconosciuta la dignità e di imparare a riconoscerla loro stessi, per sentirsi nuovamente persone umane dal valore infinito come tutte le vita umane. Come descrive questo carcere? Sono cappellano qui da settembre. Nonostante sia una casa circondariale, dedicata alle pene brevi, di fatto, abbiamo anche gli ergastolani, perciò copriamo un range d’età che va dai 19 anni agli 80. Questo rende complicata la gestione perché i bisogni sono diversi. Una problematica comune è vivere con grande fatica la detenzione e la quantità enorme di detenuti che hanno problemi psichiatrici. La detenzione acuisce la situazione che genera problemi anche a chi psichiatrico non è. La sofferenza da questo punto di vista è tanta; le prospettive all’uscita sono poche e per molti permane la mancanza di speranza. Qual è l’aspetto più doloroso che nota nella popolazione che è dentro? Mi rendo conto che ci siano persone per le quali è necessaria la detenzione, perché c’è la pericolosità, ma c’è poca attenzione a fare in modo che il periodo sia di trasformazione. Senza questa fase, il problema sociale si ripropone. È importante conoscere le persone e i percorsi che fanno. Le decisioni possono essere prese sulla carta, ma se non si conoscono le persone e ciò che stanno facendo, le decisioni rischiano di non capire e di essere errate. La detenzione non ha un valore riabilitativo al momento. Oggi è più l’aspetto punitivo a predominare perché si investe poco: il personale e le risorse sono scarse (anche se la polizia penitenziaria fa un ottimo lavoro, spesso di sacrificio) e la costruzione stessa delle carceri è fatta per contenere. Come cappellano, riesce ad ascoltare tutti? Coloro che vogliono condividere sì. Hanno molta sete di relazioni e se sentono che c’è la possibilità di confrontarsi, lo fanno. Rammenta un esempio di successo? Sono tanti. Ci sono persone che hanno fatto un percorso straordinario prima di entrare e che hanno continuato compiendo una revisione critica, che vivono il dolore del proprio errore. Sono persone straordinarie, di una bellezza unica. Questa è la grande speranza che ci fa dire che il percorso libera. Dipende molto da loro. Sono persone e attraverso la detenzione hanno capito. E chi non riesce a riconciliarsi con la vita? Il 75% delle persone detenute ha problemi di dipendenza da droga, alcol e gioco che li porta a commettere reati. La dipendenza trasforma la persona che vede solo l’oggetto della dipendenza. Abbiamo moltissimi stranieri che non hanno o non avranno più, anche usciti di qui, un permesso di soggiorno che rimarranno nel territorio. Questo genera insicurezza, perché come clandestino la persona lavorerà o vivrà in una casa fuori dalla legge. E mi chiedo quale sia il vantaggio per la persona e lo Stato. Palermo. Il corso di “Filosofia-in-pratica” al carcere Pagliarelli con 12 detenuti siciliaogginotizie.it, 17 maggio 2024 Si è concluso presso la Casa Circondariale “Pagliarelli” di Palermo, il corso di “Filosofia-in-pratica” a cura dell’Asvope (Associazione di volontariato penitenziario). I 12 detenuti che vi hanno preso parte hanno esposto la sintesi dell’esperienza evocando alcuni temi affrontati in circolo con i filosofi presenti (Augusto Cavadi, Francesco Chinnici, Maria Antonietta Spinosa). Come l’importanza della riflessione personale per conquistare la libertà delle proprie scelte di vita; la ricchezza del confronto dialogico con chi la pensa differentemente da noi; la differenza fra “ben-essere” e “ben-avere”; l’insufficienza del PIL di una nazione per misurare la qualità della vita dei cittadini; la tavola dei “valori” che danno sapore e senso all’esistenza umana. Gli interventi hanno inoltre evidenziato la soddisfazione per il clima paritetico di ogni sessione: ognuno aveva diritto di parola esattamente come ogni altro, indipendentemente dai ruoli istituzionali (detenuto, docente volontario, educatore carcerario etc.) senza che qualcuno si arrogasse compiti pedagogici o terapeutici o catechetici. L’incontro è stato arricchito dalla presenza di Santi Consolo, attuale Garante dei detenuti per la Sicilia, al quale i presenti hanno consegnato una lettera-promemoria con l’elenco di alcune criticità sofferte per ragioni strutturali (nonostante l’impegno soggettivo di tutto il personale preposto all’amministrazione e alla gestione della Casa). Come la difficoltà a sottoporsi a visite mediche e ancor più ad accertamenti specialistici in strutture ospedaliere; il sovraffollamento nelle celle prive di riscaldamento; la frequente mancanza di acqua calda nelle docce; l’impossibilità di privacy nelle videochiamate con i familiari; l’assenza di collegamenti telematici per chi segue corsi universitari. A sua volta Santi Consolo (accompagnato nella biblioteca, sede delle sessioni di “pratica filosofica”, dalla direttrice Maria Luisa Malato e dalle dottoresse Marisa Di Pasquali e Donatella Farruggia, senza accenti retorici ma con palpabile empatia umana, ha esposto le difficoltà oggettive sistemiche (di natura sia normativa che burocratico-amministrativa) con cui si devono fare i conti e ha ribadito la sua volontà di affrontarle (pur nei limiti ben circoscritti della sua attuale funzione di stimolo e di moral suasion). L’incontro si è concluso con la consegna degli attestati di partecipazione, di alcuni libri e segnalibri-ricordo (nei quali veniva riportata la poesia di Erri De Luca “Valore”) nonché con un momento conviviale che - secondo l’espressione di un detenuto presente - ha regalato “un momento di vita normale” rompendo la monotonia della condizione carceraria. Milano. Studenti e detenuti del Beccaria insieme per mettere in scena “Romeo e Giulietta” di Cristina Lacava iodonna.it, 17 maggio 2024 Dalle 10 di venerdì 17 alle 10 di sabato 18 il teatro Puntozero del carcere minorile Beccaria di Milano sarà aperto a tutti i cittadini per ricordare i cinque giovani che muoiono nel corso del Romeo e Giulietta di Shakespeare. È l’ultimo appuntamento del progetto Typus, che ha visto lavorare insieme giovani detenuti e studenti della Statale di Milano. Ed è un’occasione per riflettere insieme su giovinezza, giustizia, fragilità. Per 24 ore, dalle 10 di venerdì 17 alle 10 di sabato 18 maggio, al teatro Puntozero Beccaria, l’unico teatro in carcere in Europa con un ingresso indipendente, si terrà una veglia funebre dedicata alle cinque giovani vittime di Romeo e Giulietta di Shakespeare: oltre ai due innamorati, Mercuzio, Tebaldo e Paride. Al termine, si farà un corteo con animazioni teatrali per le strade della città e si tornerà infine al Beccaria, dove si farà una piantumazione per creare un giardino pensile sul muro esterno del teatro. L’evento è aperto a tutti, chiunque può dare il suo contributo o semplicemente assistere allo spettacolo. Si tratta dell’ultimo evento del progetto europeo TYPUS- Transforming Young People Using Shakespeare, coordinato dall’università Statale di Milano con partner anche in Grecia e Norvegia, che sta andando avanti da due anni, e che coinvolge decine di ragazzi. A Milano, il progetto si declina in “La Statale al Bekka”. “Shakespeare è il canovaccio per scrivere qualcos’altro: nel caso di Romeo e Giulietta per capire di chi è la responsabilità di quelle morti, e il ruolo degli adulti”, dice Mariacristina Cavecchi, docente di teatro inglese alla Statale di Milano e anima del progetto insieme alla collega Margaret Rose. Aggiunge Giusepep Scutellà, regista e coordinatore artistico del teatro Puntozero Beccaria: “Sul palco ci saranno cinque manichini per le cinque vittime. I ragazzi, che hanno montato le scene e ideato i costumi, porteranno in scena dei frammenti teatrali, e altri verranno messi in scena dagli ospiti. Ma chiunque può portare il suo contributo e le sue riflessioni,leggere una poesia, portare una canzone o un testo. Basta iscriversi sul sito. L’idea è partire da che cos’è la giovinezza, quale carico di sofferenza si porta dietro. in un contesto come il carcere minorile, in particolare il Beccaria in questo periodo al centro della cronaca, queste riflessioni assumono un connotato particolare”. L’evento si aprirà con i saluti istituzionali, poi il via alla performance. Per 24 ore i ragazzi saliranno e scenderanno dal palco, secondo un palinsesto ricchissimo ideato da Scutellà. Già previsti gli interventi dei giovani “colleghi” norvegesi, un monologo degli studenti dell’università Roma Tre nel pomeriggio, “mentre gli studenti della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi arriveranno all’una con una coregrafia, Effimeri, ispirata ad Amore e Morte”, dice la professoressa Cavecchi. “Ci saranno anche Armando Punzo, fondatore della Compagnia della Fortezza e tutti gli studenti dei corsi di Storia del teatro della Statale e quelli di Lingue e Legge che hanno lavorato con i ragazzi ristretti. Alla sfilata di sabato parteciperanno anche gli alunni di alcune scuole superiori coinvolte nel progetto. Ma siamo aperti a tutta la cittadinanza. Intervenite!”. Ferrara. Vivicittà in carcere tra i detenuti. In gara con l’organizzazione Uisp Il Resto del Carlino, 17 maggio 2024 Nella casa circondariale di Ferrara si è svolto l’evento sportivo e di integrazione “Vivicittà in carcere”, promosso da Uisp Ferrara e patrocinato da Comune e Regione. Detenuti e operatori hanno partecipato a una mattinata di attività sportiva, promuovendo l’inclusione sociale attraverso lo sport. La corsa come momento d’inclusione sociale. All’interno delle mura della casa circondariale di Ferrara, si è tenuta ieri mattina l’appuntamento sportivo e d’integrazione del ‘Vivicittà in carcere’ nell’ambito del progetto, promosso da Uisp Ferrara e patrocinato da Comune e Regione. Presenti il personale della casa circondariale di Ferrara, Cristina Coletti, assessore ai servizi sociali del Comune di Ferrara, Eleonora Banzi e Andrea De Vivo, presidente e vicepresidente Uisp Ferrara. La manifestazione, nata nei primi anni novanta, organizzata da Uisp Ferrara collegata a Vivicittà, svoltasi il 14 aprile scorso a Ferrara. “Non possiamo che essere soddisfatti di quest’appuntamento - ha sottolineato l’assessore Cristina Coletti - in quanto come amministrazione comunale abbiamo intrapreso da tempo con la struttura circondariale diversi progetti sociali e ludici atti al percorso riabilitativo del detenuto”. Gli oltre trenta detenuti del penitenziario sono stati impegnati in una mattinata di attività sportiva. Alla giornata hanno partecipato, oltre ai detenuti, anche i tecnici educatori di Uisp Ferrara, alcuni tesserati del podismo ferrarese. Tra questi anche Caterina Mangolini, vincitrice del Vivicittà 2024 e quarta a livello nazionale di Vivicittà. Il vincitore di questa edizione è stato Ammar Anouar, secondo Jarmouni Ayoub e terzo posto per Ladimri Mohamed. Politica e violenza, il senso della misura di Antonio Polito Corriere della Sera, 17 maggio 2024 Un tempo il bipolarismo spingeva i leader a cercare consensi al centro dell’elettorato, lì dove funziona un discorso moderato. Oggi invece le elezioni si vincono mobilitando i settori più estremi della società, incitandoli all’odio per l’avversario, scimmiottando una guerra civile permanente. La politica nei futuri Stati Uniti d’Europa sarà percorsa dallo stesso rivolo di violenza che ha insanguinato quella degli Stati Uniti d’America? L’attentato a Robert Fico fa vivere a noi europei sentimenti di sconcerto e di paura che l’opinione pubblica americana ben conosce. Quattro presidenti assassinati, e tra di loro due miti fondativi come Abramo Lincoln e John Kennedy. Uno dei più grandi leader del Novecento, Ronald Reagan, seriamente ferito in un attentato. Altri quattro capi di Stato sfuggiti per un soffio a un tentativo di ucciderli. Ci stiamo avviando su quella strada? La violenza politica in America ha infatti un tratto che la distingue. Anche noi abbiamo conosciuto gli attentati terroristici. Aldo Moro ha pagato con la vita, così Olof Palme, o Pim Fortuyn. In Israele l’uccisione di Yitzhak Rabin ha cambiato il corso della storia di quel Paese, portandolo dalla pace possibile alla guerra permanente. Ma in America l’uomo qualunque con la pistola, l’insospettabile che si vendica dei torti subiti dalla società, il taxi driver disadattato del film di Scorsese che compra un’arma per far fuori un senatore al comizio, rappresentano un filone particolare della violenza, più esistenziale e individualistica che organizzata e terroristica. Di sicuro la radicalizzazione della lotta politica, l’estrema polarizzazione che soprattutto negli ultimi decenni ha segnato la vicenda americana, ha svolto un ruolo decisivo nell’eccitare i più facinorosi tra gli spettatori del grande show. L’assalto al Congresso del 2021 ne resterà per sempre un’inconfutabile e storica testimonianza. Il contagio in Europa è evidente. Un tempo il bipolarismo spingeva i leader a cercare consensi al centro dell’elettorato, lì dove funziona un discorso moderato. Era così che si vincevano le elezioni. Oggi invece le elezioni si vincono mobilitando i settori più estremi della società, incitandoli all’odio per l’avversario, scimmiottando una guerra civile permanente, demonizzando il nemico, che non basta più battere nelle urne ma va eliminato, annichilito, asfaltato, rottamato, perché è il vero cancro della società ed eliminato lui o lei tutto tornerà a funzionare in giustizia e armonia, come al bel tempo che fu. È singolare che le cronache dalla Slovacchia, nel tentativo di dare un’etichetta politica a entrambi, descrivano sia la vittima, Robert Fico, sia l’attentatore, Jurai Cintula, come “populisti”. Forse lo sparatore era un populista di sinistra, e considerava Fico un dittatore di destra da eliminare. Ma Fico è anche stato di sinistra, comunista e poi socialista; è Cintula è stato anche di destra, militante di una formazione paramilitare che si batteva in uniforme contro un’Europa troppo “invasiva”. Si dirà: gli estremi spesso si toccano. Del resto Fico è alla guida di una coalizione composta da estrema sinistra e ultra nazionalisti. Ma il punto non sono le idee dei politici, tutte legittime se sostenute dal consenso popolare in regolari competizioni democratiche e ovviamente nessuna contestabile con la violenza. Il punto è come vengono descritte dai loro avversari e dai media. E Fico, per i suoi nemici, era il demonio. Anche un’altra invenzione americana, quello “stile paranoide nella politica” che diede il titolo a un celebre saggio del secolo scorso, sta facendo scuola nella nostra vecchia Europa, e a casa nostra. Teorie cospirative, complottismi, campagne di fake news, tifo scatenato per questo o quel combattente delle guerre altrui, creano, cementano e agguerriscono fazioni di fanatici. Riforniscono il vasto serbatoio di rabbia che giace al fondo della nostra società, laddove la politica democratica non arriva e si afferma la sub-cultura dell’odio. La razionalità è bandita dal dibattito pubblico, schernita come “cerchiobottismo”, segno di pusillanimità; a differenza del settarismo, che impone di prender partito sempre e comunque, per alimentare un complesso politico-mediatico che vive di risse tra fazioni, faide e congiure, come avveniva nei Comuni medievali. Forse sarà il caso di darci una calmata. A partire dai media. Lettera alla Commissione Ue: “Trasferire i migranti in Paesi terzi” di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 17 maggio 2024 Quindici Stati membri dell’Unione chiedono misure più severe: “Occorre facilitare i rimpatri”. L’accordo Italia-Albania (ma anche il modello Ruanda), ovvero l’idea dell’esternalizzazione delle frontiere, fa proseliti tra i paesi Ue. Una parte di loro chiede il rafforzamento dei rimpatri dei migranti irregolari anche attraverso la cooperazione con i cosiddetti paesi terzi per creare hub “dove rimpatriati potrebbero essere trasferiti in attesa di un loro allontanamento definitivo”. È quanto si legge nella lettera firmata dai ministri degli Interni che quindici governi Ue a partire dall’Italia hanno inviato alla Commissione europea attraverso la responsabile agli Affari interni, Ylva Johansson. Tra questi ci sono diversi paesi dell’est (Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania), i baltici (Estonia, Lituania e Lettonia), alcuni nordici o scandinavi (Austria, Paesi Bassi, Danimarca, Finlandia) e mediterranei (Grecia, Malta e Cipro). Assenti dall’iniziativa, sono i big (in termini di popolazione, peso economico e politico) Spagna, Francia e Germania, oltre che alcuni stati da sempre molto duri nei confronti dei migranti, primo fra tutti l’Ungheria. “Incoraggiamo la creazione di accordi globali, reciprocamente vantaggiosi e partenariati duraturi con i principali paesi partner lungo le rotte migratorie”, si legge nella lettera, che chiede poi alla Commissione Ue di considerare “la possibilità di trasferire i richiedenti asilo per i quali è disponibile un’alternativa sicura in un paese terzo verso tali paesi”. Questo implica una nuova definizione del “concetto di Paesi terzi sicuri nel diritto Ue in materia di asilo”. Non tarda la risposta di Palazzo Berlaymont, che con il capo portavoce Eric Mamer prende tempo: “Lettera ricevuta. È un testo complesso e dobbiamo studiarlo”, precisando comunque che gli sforzi di Bruxelles sono concentrati sull’attuazione del Patto migrazione e asilo, che solo martedì ha ricevuto la bollinatura finale dal Consiglio Ue. Esulta Palazzo Chigi, per il quale l’iniziativa “si inserisce nel cambio di passo impresso dal governo italiano al dibattito migratorio a livello Ue”. Un altro aspetto su cui intervenire, sottolineato nella missiva dei quindici, riguarda la cosiddetta “strumentalizzazione dell’immigrazione”, inclusa la revisione della politica dei visti, dato che “molte domande di asilo nell’Ue sono presentate da persone provenienti da Paesi esenti da visto o da persone con un visto Schengen”. Caso che sta particolarmente a cuore a paesi posizionati lungo il confine con la Bielorussia e con la Russia, come Polonia e Finlandia. Solo pochi giorni fa, il premier polacco Donald Tusk ha annunciato piani per potenziare le difese alla frontiera con la Bielorussia, estesa per più di 400 chilometri, al fine di contrastare la pressione migratoria proveniente da Minsk. Il governo precedente, di segno politico opposto a quello del liberale Tusk, aveva già costruito una recinzione alta oltre 5 metri per quasi la metà del confine orientale. Da diversi mesi la Finlandia denuncia come la Russia stia “ammassando” migranti alla frontiera, lunga in questo caso quasi 1500 chilometri, con lo scopo di “dividere l’Europa”. Da quasi un anno, a Helsinki il premier liberal-conservatore Petteri Orpo governa in alleanza con l’estrema destra dei Veri finlandesi. Un’affinità elettiva con Roma, con la quale ha firmato un mese fa un documento programmatico sull’esternalizzazione per il controllo dell’immigrazione che sembra tanto l’anticipazione della lettera dei quindici. E a proposito di destra modello Italia, dall’Aja i partiti della coalizione di governo appena formata con l’ingresso del sovranista islamofobo Geert Wilders, promettono di deportare, anche con la forza, i migranti senza un permesso di soggiorno valido. E chiedono deroghe a quel Patto Ue su migrazione e asilo, troppo poco duro dal loro punto di vista, che le ong giudicano disastroso per i diritti dei migranti. Tunisia. In centinaia protestano davanti al palazzo di giustizia di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 17 maggio 2024 Accuse al regime dopo l’arresto dell’avvocato Zagrouba: “È stato torturato”. Saied punta il dito contro le “ingerenze straniere”. Da inizio maggio la società civile colpita con carcere e operazioni securitarie. Ieri Tunisi si è svegliata come non succedeva da un po’ di tempo. Centinaia di persone si sono radunate di fronte al palazzo di giustizia della capitale per protestare contro la recente ondata di arresti che ha coinvolto il paese. Da inizio maggio le custodie cautelari hanno riguardato volti noti della società civile come Saadia Mosbah, presidente dell’associazione Mnemty, giornalisti e avvocati, in particolare Sonia Dahmani e Mahdi Zagrouba. Era da tanto che non si vedeva una partecipazione di questo tipo. Nonostante i numeri non siano giganteschi, la decisione di accogliere la proposta lanciata dall’Ordine degli avvocati, la cui sede nei giorni scorsi è stata teatro di violente operazioni securitarie da parte della polizia, dimostra che la volontà di opporsi alla stretta repressiva in corso c’è e riguarda ancora una buona fetta della società civile e non solo. Uno degli slogan più pronunciati è stato: “Libertà! Libertà! Fine allo stato di polizia”. Un segnale evidente di come sia vissuta la sfera politica in Tunisia. Fin dall’epoca del despota Zine El Abidine Ben Ali, passando attraverso la fase di transizione democratica poi sospesa dal colpo di forza del presidente della Repubblica Kais Saied del 25 luglio 2021, il ministero degli Interni ha sempre giocato un ruolo di primo piano. Un ruolo che oggi sta diventando sempre più opprimente. Un episodio lampante riguarda l’avvocato Mahdi Zagrouba: chiamato a comparire di fronte al giudice d’istruzione dopo l’arresto avvenuto lunedì scorso, l’uomo è stato trasportato d’urgenza in ospedale perché il suo stato di salute non gli consentiva più di esprimersi. Da lì a poco gli avvocati di Zagrouba hanno chiesto che venissero fatti degli esami per constatare possibili tracce di violenza a seguito di pratiche di tortura da parte della polizia durante l’arresto e la custodia cautelare. Una versione che ha trovato riscontro da più parti e che ha portato la sezione Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty International a chiedere che “le autorità della Tunisia nominino un’indagine indipendente e imparziale sulle accuse per consegnare i responsabili alla giustizia”. Ancora oggi nel Paese sono centinaia i casi di abusi e torture registrati all’interno degli istituti penali. Successivamente al ricovero in ospedale, i legali di Zagrouba hanno chiarito i capi di accusa nei confronti dell’uomo: oltraggio a un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni e violenza fisica contro due agenti delle forze di sicurezza che sarebbe avvenuta durante l’udienza di convalida d’arresto nei confronti di Sonia Dahmani. Se da un lato la sensazione che emerge è un lento ma inesorabile aumento della repressione in Tunisia e la progressiva autocensura mediatica della società civile, anche alla luce della dubbia applicazione dell’articolo 54 del Codice penale promulgato nel settembre del 2022 per criminalizzare la diffusione di false informazioni, dall’altro il presidente Saied ha voluto chiarire alcuni punti. Il 15 maggio al palazzo presidenziale di Cartagine ha convocato diversi ministri per diffondere la sua versione dei fatti: “Chiunque disprezzi la sua patria o commetta il crimine di aggressione nei confronti di un rappresentante dello Stato non può restare al di fuori della resa dei conti e della sanzione. La professione di avvocato è più onorevole rispetto a quella di denigrare il proprio paese o aggredire un agente di sicurezza. Quello che è successo si è svolto nel pieno rispetto della legge che garantisce il diritto a un processo giusto”. Kais Saied è noto per i suoi discorsi nazionalisti a difesa della popolazione, soprattutto nei confronti degli interessi stranieri. Un concetto che è stato manifestato con gli arresti di diversi esponenti di associazioni tunisine per riciclaggio di denaro e appropriazione indebita e ribadito a parole alla ministra dell’Economia Sihem Boughdiri Nemsia: “Noi vogliamo bene alla società civile ma non quando rappresenta un prolungamento delle potenze e dei paesi esteri. Il popolo deve conoscere l’ampiezza dell’ingerenza nei nostri affari a nome di questa cosiddetta società civile”. Medio Oriente. A Jabaliya è l’inferno, Gaza è diventata il Vietnam di Netanyahu di Michele Giorgio Il Manifesto, 17 maggio 2024 La superiorità di forze non basta a Israele per avere ragione delle fazioni combattenti. Nel governo la frattura è completa. Rafah resta nel mirino dell’esercito israeliano, con i suoi abitanti e sfollati che scappano sotto il fuoco dei mezzi corazzati. In queste ore però è nel nord di Gaza, a Jabaliya, che si concentrano i bombardamenti più pesanti e i combattimenti più aspri. I mezzi corazzati israeliani sono entrati ieri nel cuore del campo profughi dove i combattenti palestinesi di Hamas, Jihad, Fronte popolare, Comitati di Resistenza Popolare e altre formazioni, nonostante la disparità di forze, resistono oltre ogni aspettativa con agguati improvvisi, sparando razzi anticarro e colpi di mortaio. Un inferno di esplosioni che fa strage di palestinesi, a cominciare dai civili, ma che non risparmia i soldati israeliani che, dopo sette mesi in cui hanno distrutto Gaza, sono stati costretti a tornare nel nord della Striscia che a inizio anno avevano dichiarato “libero” della resistenza palestinese. Una battaglia diversa è in corso all’Aia. L’attacco dell’esercito israeliano a Rafah è “l’ultima tappa della distruzione di Gaza e del suo popolo palestinese”, ha denunciato ieri l’avvocato del Sudafrica, Vaughan Lowe, davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja che si è riunita su richiesta di Pretoria nell’ambito della sua istanza contro Israele per “genocidio”. Il Sudafrica ha chiesto alla Corte di ordinare a Israele di ritirarsi da Rafah, di adottare misure per garantire l’accesso senza ostacoli alla Striscia di Gaza per le Nazioni unite, le organizzazioni umanitarie e i giornalisti, e di riferire entro una settimana su come sta rispondendo a queste richieste. Oggi è attesa la replica dell’avvocato di Tel Aviv. Il Vietnam di Israele è alle porte. Il ministro della Difesa Yoav Gallant l’ha capito e per questo ha preso le distanze due giorni fa dal premier Netanyahu che, per appagare i suoi sogni e quelli della destra religiosa, dietro le quinte non esclude un governo militare israeliano per Gaza e persino la ricostruzione delle colonie ebraiche che furono smantellate nel 2005. Anche Gallant però è fuori strada se pensa che Gaza accetterà qualsiasi governo civile palestinese, o arabo o internazionale, costituito a tavolino all’unico scopo di tenere gli islamisti lontano dalla stanza dei bottoni. Obiettivo impossibile, lo dicono gli analisti locali e internazionali mentre la popolazione israeliana ha ormai compreso che senza un accordo con Hamas al tavolo delle trattative e uno scambio di prigionieri, gli ostaggi ancora in vita a Gaza difficilmente torneranno casa. Netanyahu parla di “vittoria totale” su Hamas, ma, nonostante i colpi subiti, il movimento islamico conserva la capacità di riorganizzarsi militarmente e di affermare il controllo politico, almeno parziale, della Striscia. I carri armati ieri hanno bombardato pesantemente il mercato principale di Jabaliya e diversi negozi hanno preso fuoco. Protezione civile e Mezzaluna rossa hanno riferito l’uccisione e il ferimento di numerose persone, tra cui civili, ma di non essere state in grado di raggiungerle a causa dell’intensità dell’incursione israeliana. Tra i morti c’è anche un giornalista palestinese, Mahmoud Jahjouh, sterminata anche la sua famiglia. Qualche chilometro più a sud, a Gaza city, squadre di soccorritori hanno continuato le ricerche di dispersi nei sobborghi di Zeitoun e Sabra dove sono stati recuperati i corpi di decine di combattenti e civili al termine di un raid militare israeliano durato sei giorni. A Gaza city ieri è giunto a sorpresa anche il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, che assieme ai massimi rappresentanti dell’Ordine di Malta, ha distribuito aiuti umanitari alla popolazione che resta nel capoluogo della Striscia. I cingolati israeliani si sono spinti fino all’ingresso della vicina città di Beit Hanoun dove hanno demolito case e fabbriche. Israele afferma di aver “eliminato” 150 uomini armati durante gli ultimi attacchi. Il braccio armato di Hamas da parte sua dice di aver distrutto un mezzo corazzato di trasporto delle truppe con un razzo anticarro Al Yassin 105, provocando vittime. Ma il colpo più duro contro le truppe israeliane l’hanno sparato mercoledì per errore due carri armati uccidendo cinque soldati. A Rafah, la punta più meridionale di Gaza, gli israeliani hanno mantenuto le loro posizioni nei quartieri orientali mentre F-16 e droni bombardavano la città accelerando la fuga dei civili: negli ultimi giorni almeno 600mila. Un proiettile di un carro armato israeliano ha colpito una zona centrale di Rafah uccidendo un uomo e ferendone molti altri. Gruppi di case ai margini della città sono stati fatti saltare in aria dall’esercito. Benyamin Netanyahu intanto non ha ripensamenti, nonostante la frattura nell’esecutivo causata dalle parole di Gallant, appoggiate dai centristi Benny Gantz e Gadi Eisenkot ma condannate dai ministri di estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir. Laconico il titolo del tabloid di destra Israel HaYom sopra una foto di Netanyahu e Gallant rivolti in direzioni opposte: “Non è questo il modo di condurre una guerra”. In uno dei momenti più critici degli ultimi sette mesi, Netanyahu ha scelto i toni da comandante militare: “La battaglia a Rafah è cruciale - ha detto ieri sorvolando il sud di Gaza - deciderà molte cose in questa guerra”. Il bilancio delle vittime di Gaza è salito a 35.272. La fame torna a diffondersi ovunque poiché gli aiuti internazionali sono bloccati dalla chiusura da parte di Israele dei valichi di Kerem Shalom e Rafah. E non è servito sino a oggi per la distribuzione di generi di prima necessità, il porto galleggiante - da 320 milioni di dollari - che i soldati statunitensi hanno ancorato a una spiaggia di Gaza. Non si ferma neanche il “secondo fronte” tra Israele e Libano. I combattenti di Hezbollah hanno lanciato 60 razzi e un soldato è rimasto ferito. Israele ha continuato a bombardare il sud del paese dei cedri.