Le toghe bocciano il tirocinio in carcere: “Segno di sfiducia” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 maggio 2024 La maggior parte dei magistrati è contraria alla proposta di legge “Sciascia-Tortora” presentata da +Europa, che prevede una esperienza formativa obbligatoria in cella non inferiore a 15 giorni, con tanto di pernottamento. La proposta di legge Sciascia-Tortora, presentata alla Camera da +Europa e promossa dalle associazioni Amici Sciascia e ItaliaStatodiDiritto, non piace molto ai magistrati. Pomo della discordia la previsione che i tirocinanti effettuino una esperienza formativa obbligatoria in carcere non inferiore a 15 giorni, comprensiva soprattutto del pernottamento nelle case circondariali e di reclusione. Da quanto appreso, al momento la Scuola superiore della magistratura organizza delle visite di un giorno, ma solo nelle case circondariali. Le future toghe incontrano il direttore dell’istituto, gli agenti e visitano i padiglioni. E va bene che la situazione resti così. A sottoscrivere la pdl solo Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze: “L’ho firmata perché ritengo indispensabile che la formazione dei giovani magistrati si arricchisca, anche dall’interno, della conoscenza del diritto penitenziario, calandosi ad esempio nella dura realtà del carcere, avendo ben presente, soprattutto nel momento dell’apprendistato, che la funzione afflittiva della pena ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità, umanità e ragionevolezza. Già lo fanno i francesi e non dimentichiamo che anche la Corte costituzionale, i massimi Giudici dello Stato, hanno fatto il loro viaggio nelle carceri alcuni anni fa, come è noto. Il problema della percezione della realtà carceraria è reale e purtroppo non riguarda solo la generalità dei cittadini, ma anche gli “addetti ai lavori” e dunque pure i giudici. Io credo che il tirocinio in carcere per i giovani magistrati, pur senza giungere all’eccesso di dormirvi di notte, magari in incognito, debba diventare un obbligo”. Semi-favorevole il pm Rocco Maruotti (rappresentante di Area nel Comitato direttivo centrale dell’Anm): “Al netto della previsione bizzarra e offensiva del pernotto in cella, rispetto alla quale non si può che essere contrari, in quanto, oltre a muovere da un intento chiaramente denigratorio, realizzerebbe un mostro giuridico, poiché integrerebbe una sorta di misura cautelare disposta in assenza dei presupposti previsti dal c.p.p., per il resto non si tratta di un’idea originale. Già Valerio Onida, da presidente della Ssm, la propose e, per alcuni anni, i mot hanno trascorso due settimane di tirocinio negli istituti penitenziari. Io sono uno di quelli e di quei 15 giorni a Regina Coeli ricordo ogni istante, perché ho avuto la possibilità di venire in contatto con un’umanità dolente che, invece, nelle aule di Tribunale ci sfila davanti molto velocemente e che, al contrario, durante quella esperienza ho potuto conoscere più a fondo. Ritengo sia un’esperienza utile anche a capire le condizioni in cui lavorano gli agenti di polizia penitenziaria e, in definitiva, a svolgere le funzioni di magistrato in modo più consapevole”. Per il segretario di Area, Ciccio Zaccaro, “il diritto dell’esecuzione penale è purtroppo poco studiato e ben venga che la scuola della magistratura vi dedichi la giusta attenzione. Del resto, tante volte si sono organizzati stage nelle carceri. Sono contrario però a modificare le materie di esame. Il concorso in magistratura è molto impegnativo e selettivo e prevedere anche un esame su “diritto e letteratura” mi sembra troppo”. Contrario, senza se e senza ma, Stefano Musolino, segretario di Md: “È una proposta figlia di questi tempi bui, nutriti di sfiducia istituzionale. La convinzione che solo la sperimentazione viva delle difficoltà insite nella detenzione possa rendere il magistrato più sensibile al tema e consapevole del suo ruolo trascura l’esistenza degli attuali percorsi formativi che già prevedono efficaci modalità di conoscenza dei sistemi penitenziari. Peraltro, sono numerosissime le iniziative associative che ruotano intorno alle visite ai detenuti ed alla raccolta di contributi per consentire loro lo svolgimento di attività interne che si traducano nella creazione di prodotti da vendere all’esterno, in una logica di rottura della marginalità detentiva. Insomma, tra i molti problemi che attanagliano le nostre carceri e le vite dei reclusi, mi pare poco saggio concentrarsi su proposte eccentriche che spostano altrove l’attenzione, lasciando intendere una insensibilità della magistratura smentita dai fatti”. Contraria anche la vice presidente dell’Anm, Alessandra Maddalena (Unicost): “L’attuale situazione carceraria è drammatica e insostenibile e va affrontata seriamente e con urgenza dalla politica. Quello che non viene detto, e che tanti non sanno, è che la formazione accompagna i magistrati durante tutta la loro carriera e si unisce all’esperienza quotidiana nelle aule. La complessità della realtà penitenziaria non si comprende fingendosi carcerati per 15 giorni. L’approccio deve essere di tipo culturale, non esperienziale: non tutti i fenomeni complessi devono essere vissuti per essere compresi”. Abbiamo raccolto il parere anche di Costantino de Robbio, gip al Tribunale di Roma e già membro del direttivo della Ssm: “È una esperienza giusta quella di far vedere ai colleghi in tirocinio la realtà del carcere, così come facciamo vedere altre realtà con cui dovranno confrontarsi durante il loro lavoro: li facciamo partecipare alle indagini scientifiche, alle autopsie, facciamo vedere loro ovviamente le udienze e visitare il Csm. Anche il carcere ricade nell’attività lavorativa e quindi è giusto che sappiano cosa vuol dire irrogare una misura cautelare o emettere una sentenza. La proposta, tuttavia, mi sembra eccessiva in quanto non credo sia necessario dormire in carcere: i magistrati, come gli avvocati e tutti gli operatori del diritto, sono già in grado di rendersi conto dell’afflittività della pena”. “Molti giudici e pm non conoscono il carcere” di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 16 maggio 2024 L’avvocato Michele Passione e i casi di ingiusta detenzione: “A volte non si pensa alle conseguenze. C’è un uso eccessivo della custodia cautelare: i penitenziari sono l’unico posto dove entri sano e ti aprono una cartella clinica”. Avvocato, secondo i dati del Ministero dell’Economia nel 2023 lo Stato ha speso quasi 28 milioni per ingiusta detenzione, una cifra che fa impressione... “Sicuramente nel nostro Paese c’è un uso eccessivo della custodia cautelare. Non voglio dire che si faccia un uso irragionevole o gratuito di questo strumento ma che forse quando si decide una misura così afflittiva non si tenga conto delle conseguenze sulla vita delle persone. Gli effetti della detenzione sono sempre devastanti, perdita dell’onore e della salute in primis. Il carcere è l’unico luogo in cui entri sano e ti aprono una cartella clinica”. Quale può essere il rimedio? “I magistrati devono essere scrupolosi e usare questo strumento con cautela. A differenza dei magistrati di sorveglianza spesso pm e giudici non conoscono i luoghi dove mandano le persone. A tal proposito alcune associazioni tra cui Unione camere penali, Società della Ragione, Amici di Sciascia, Fondazione Enzo Tortora, stanno portando avanti una proposta di legge volta a rafforzare il livello di consapevolezza dei magistrati sul tema della privazione della libertà personale. Si prevede che l’attività formativa del magistrato comprenda anche lo studio del diritto penitenziario e della letteratura dedicata al ruolo della Giustizia, e che i magistrati in tirocinio svolgano un’esperienza formativa in carcere di 15 giorni. Del resto è un’esigenza rimarcata fin dal 1904 da Filippo Turati e ripresa sulla rivista “Il Ponte” nel 1949 da Piero Calamandrei che a proposito dell’esigenza di vedere le cose per poterne parlare si era riferito a un magistrato fiorentino il quale aveva chiesto ai superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un “reclusorio” perché solo così avrebbe capito la condizione materiale e psicologica dei reclusi”. La riforma sulla giustizia prevede che siano tre giudici, e non più uno, a decidere sulla custodia in carcere. È la giusta direzione? “Quel disegno di legge si è perso nella notte dei tempi ma credo che il contraddittorio preventivo con l’indagato prima della misura cautelare sia una garanzia in più: prima di arrestarti voglio interloquire con te, dandoti la possibilità di difenderti subito”. Non c’è il rischio che questo confronto preventivo vanifichi la misura? “Il confronto preventivo è escluso per i reati più gravi il che è irragionevole dato che proprio in questi casi le garanzie dovrebbero accrescersi e non diminuire”. In caso di ingiusta detenzione accertata non c’è conseguenza per i magistrati. C’è qualcosa da correggere? Il nostro ordinamento non prevede la responsabilità diretta del magistrato. Sicuramente non c’è mai stato ostacolo a una progressione in carriera delle toghe che hanno applicato misure poi rivelatesi prive di fondamento. Riforma della giustizia, pronti i decreti. Cosa cambia di Bruno Alberti agi.it, 16 maggio 2024 Quattro provvedimenti del governo attesi in Consiglio dei ministri prevedono misure nuove sulle assunzioni di magistrati, la separazione delle carriere e nuovi criteri anche per la composizione del Csm. Due gli appuntamenti del Consiglio dei ministri prima della data delle Europee: il 20 maggio dovrebbero arrivare quattro decreti, poi nella riunione successiva, convocata per il 29, è atteso, tra i vari provvedimenti, il disegno di legge sulla separazione delle carriere. Ma i fari sono puntati soprattutto sulla riforma della giustizia: “Conterrà anche importanti riforme sulla composizione e sul criterio di elezione del Consiglio superiore della magistratura, oltre ad altri principi che sono consustanziali al giusto processo e al sistema accusatorio”, ha detto oggi il Guardasigilli Carlo Nordio. Oltre alla separazione delle carriere di magistratura requirente e giudicante si va verso un ‘doppio’ Csm e l’istituzione di un’Alta Corte per le valutazioni disciplinari, mentre la Lega chiede di inserire nella riforma anche la responsabilità civile dei magistrati. Non viene toccata l’obbligatorietà dell’azione penale. “Credo che la riforma della giustizia andrà in Cdm prima delle elezioni europee. Ma le riforme non si fanno per le elezioni, le riforme della costituzione sono nel programma elettorale del centrodestra e noi manteniamo fede agli impegni presi con gli elettori”, ha sottolineato il vicepremier Antonio Tajani, “la riforma di Nordio porta anche la firma di Berlusconi. Questa è una vittoria, la dimostrazione che il pensiero di Berlusconi vive”. “La riforma della giustizia è un’urgenza nazionale”, ha detto il leader della Lega Salvini. Ad annunciare l’accelerazione sulla riforma della giustizia è stata la premier Giorgia Meloni. “Leggo o ascolto allarmi sulla tenuta dello stato di diritto in Europa e in particolare in Italia solo perché stiamo promuovendo la separazione delle carriere. Allargo le braccia perché ogni volta che si nomina la separazione delle carriere la ‘slide’ è i ‘Cavalieri dell’Apocalisse’. Succede la fine del mondo”, ha affermato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, “mi chiedo se di fronte al contesto tragico in cui stiamo vivendo - ha proseguito riferendosi alle crisi a livello internazionale come quella in Sudan - la replica a chi lancia questi allarmi non sia l’indicazione di qualche bravo psicologo che sia veramente paziente e ben attrezzato”. In Fratelli d’Italia si ribadisce che si andrà avanti con l’obiettivo di evitare uno scontro con i magistrati. Intanto oggi si sono registrati i primi passi alla Camera sul ddl Nordio: la Commissione Giustizia ha bocciato un emendamento presentato da Valentina D’Orso (M5s) per sopprimere l’articolo 1 del provvedimento che prevede l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. In arrivo la separazione delle carriere: l’annuncio di Nordio alla Camera di Liana Milella La Repubblica, 16 maggio 2024 A cinque giorni dal congresso dell’Anm a Palermo il Guardasigilli Carlo Nordio smentisce se stesso. Davanti alle toghe, in Sicilia, aveva detto che la separazione delle carriere era un cantiere ancora aperto. Oggi, alla Camera, rispondendo al question time di Italia viva, e dopo le parole della premier Meloni davanti alla platea della Verità, ha confermato invece che l’arrivo della riforma costituzionale sulla giustizia è alle viste. “Nei prossimi giorni vedrete la presentazione in consiglio dei ministri della separazione, con riforme importanti sulla composizione e sui tempi di elezione del Csm, nel rispetto dei principi del giusto processo”. Nessun accenno alla discrezionalità dell’azione penale che invece non ci sarà. Quanto all’abuso d’ufficio, su cui lo rimprovera il renziano Davide Faraone per i tempi troppo lunghi, Nordio butta la palla verso il Parlamento. “È la riforma che ho presentato già un anno fa” replica Nordio. Ma, anche in questo caso, dice che il voto finale arriverà “presto”. Dopo il voto europeo. Le manovre pre-elettorali sulla giustizia - Chi lo fa per raccattare magari qualche voto in più alle europee, come la premier Meloni che contraddice il suo Guardasigilli Nordio e piazza la separazione delle carriere prima del voto per un via libera da palazzo Chigi. Soprattutto perché Forza Italia, con Antonio Tajani, non ammette deroghe su questo. E chi brandisce l’ennesimo strumento parlamentare per abbattere un “nemico” da sempre, il Trojan, la dannata microspia guardona “perfino sotto le lenzuola e in bagno”. Parliamo di Enrico Costa di Azione contro il Trojan, la dannata cimice nemica di chi corrompe. Proprio quella che ha contribuito a svelare il malaffare di Genova. Costa la “odia” da sempre, tant’è che già a settembre scorso aveva tentato di affondarla piazzando i suoi emendamenti nel decreto Mantovano sulle intercettazioni. Ovviamente assieme a Forza Italia, stessa richiesta dal vicepresidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis. Ma era andata a buca. Il Trojan “nemico” di tutti - Che i berlusconiani vogliano ridimensionare il Trojan da sempre è provato dal primo disegno di legge depositato al Senato da Pierantonio Zanettin che, con Ivan Scalfarotto di Italia viva, addirittura il 19 dicembre 2022, a legislatura fresca, ha depositario al Senato un disegno di legge per togliere la corruzione tra i reati intercettabili, e poi ha insistito sulla stessa richiesta quando la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno ha lanciato e chiuso l’inchiesta parlamentare sulle intercettazioni. Fi vuole subito la separazione delle carriere - Vecchia storia dunque. Proprio come quella della separazione delle carriere. Due settimane fa, di venerdì, ecco il summit di 40 minuti a palazzo Chigi con Meloni per chiudere proprio sulla riforma che “appartiene” da sempre a Forza Italia, quella che voleva fare, ma non riuscì a fare, Silvio Berlusconi. La riforma costituzionale dell’allora Guardasigilli Angelino Alfano si fermò al palo. Adesso Antonio Tajani non demorde. È la sua riforma e la pretende, come Meloni ha avuto il premierato e Salvini l’Autonomia differenziata. Il summit del 3 maggio si chiude con l’accordo di fare la separazione prima del voto. Poi il “povero” Nordio è costretto ad affrontare a Palermo le toghe dell’Anm. Lui non vuole andare, ma Meloni lo costringe a esserci. E lui, per evitare una salva di fischi, racconta di un cantiere ancora aperto. Tutti leggono le sue parole come un segnale di distensione. Il giorno dopo Tajani torna alla carica, perché “la separazione si deve fare”. Costa, “il Trojan usato per riempire i giornali” - Per non perdere il gusto di attaccare i giudici e togliere loro gli strumenti d’indagine ecco Costa “in azione”. Un ordine del giorno ragionato che chiede di rivedere i “poteri” della microspia. Dice a Repubblica il responsabile Giustizia di Azione: “Questo è un primo passo verso una rivisitazione complessiva della materia. Non è vero che le intercettazioni restano riservate negli atti di un’inchiesta. Vengono catapultate nelle ordinanze e nelle informative. Ovviamente quelle di accusa e quelle colorite di gossip, sui quali i giornali fanno pagine e pagine. L’intercettazione è un mezzo di ricerca della prova finalizzato al processo in tribunale oppure serve per riempire le colonne dei giornali?”. La “vittima” è di nuovo l’odiato Trojan che Costa vuole ridimensionare a semplice microspia. Tutti contro le intercettazioni - Ma la sua richiesta - ovviamente bocciata da Pd, M5S e Avs - va inserita in un attacco molto più ampio contro le intercettazioni, ovviamente strumento fondamentale nelle inchieste. Peraltro gestite dalle forze di polizia guidate da capi scelti dal governo. Al Senato sta per andare in aula la proposta della leghista Erika Stefani per limitarle a 45 giorni. Sempre a palazzo Madama il ddl sugli smartphone impone l’obbligo di via libera al sequestro solo con il parere del gip. E ancora alla Camera, nel ddl Nordio sull’abuso d’ufficio, destinato ormai dopo le Europee all’ok definitivo, ecco il divieto sulla trascrizione delle intercettazioni dei terzi. Nonché il primo bavaglio sulla stampa che non potrà pubblicare nulla degli ascolti se non compaiono negli atti. Insomma, i programmi elettorali del governo Meloni, draconiani sulla giustizia, stanno facendo passi in avanti. Condivisi da Azione e Iv, che anzi li ampliano e li sponsorizzano. Separazione delle carriere, Giorgia fa finta d’accelerare di David Romoli L’Unità, 16 maggio 2024 La premier annuncia che la riforma sarà presentata il 29 maggio, ma sembra un bluff: difficilmente il testo potrà andare in aula se prima non si completa l’iter del premierato. Alla separazione delle carriere non ci credeva nessuno, nemmeno dopo il vertice di due settimane fa nel quale la premier aveva annunciato la decisione di presentare il ddl governativo sulla riforma della giustizia prima delle europee. Di ufficiale non c’era niente: retroscena e indiscrezioni. Donzelli il fedelissimo frenava, Insomma, il solito annuncio rumoroso e vuoto. Ieri Meloni ha specificato la data nella quale dovrebbe essere presentata la riforma: 29 maggio. Nel Palazzo molti non ci credono neppure dopo l’ultimo passaggio e la ragione di tanto scetticismo è evidente: Meloni è già impegnata in uno scontro da guerra santa sul premierato e sta cercando, per il poco che è possibile, di abbassare la tensione nel dibattito al Senato evitando forzature di fronte ai 3mila emendamenti e all’ostruzionismo dell’opposizione. Missione impossibile, del resto: ieri il M5s ha annunciato l’occupazione dell’aula per quando, il 22 maggio, inizieranno a essere votati gli emendamenti. In questa situazione la stessa premier non aveva nascosto nel passato anche recente l’intenzione di passare alla riforma della giustizia solo dopo aver incamerato il premierato. Dunque nell’ultimo scorcio di legislatura. Troppo tardi per portare la riforma a termine. È possibile che gli scettici abbiano ragione e che gli annunci delle ultime settimane siano più scena che altro ma la sensazione che invece qualcosa sia cambiato è indiscutibile, pur senza ancora certezza. Anche se Meloni personalmente non ha mai parlato di giustizia a orologeria per gli arresti in Liguria molti nel suo partito, a partire da ministri di peso come Crosetto e Musumeci lo hanno fatto. La premier non ha intenzione di fare quadrato intorno a Toti ma neppure di ignorare un attacco che, anche se non può ammetterlo pubblicamente, considera nella tempistica dettato dall’ostilità nei confronti del suo governo. Sa che le posizioni della magistratura inquirente, quella più fermamente ostile alla separazione delle carriere non sono mai state così deboli negli ultimi trent’anni. Ieri si è senza dubbio compiaciuta leggendo le dichiarazioni di Antonio Di Pietro, l’ex magistrato già simbolo di Mae ni Pulite, secondo cui la separazione “non lede l’indipendenza della magistratura”. C’è però un elemento in più, probabilmente decisivo: l’offensiva politica a tutto campo di Forza Italia. Il partito dato per morto con il suo fondatore, e che già negli ultimi anni di Berlusconi non se la passava bene, ha dimostrato di poter sopravvivere al sovrano scomparso, sente di avere la corrente a suo favore, e si vedrà solo il 9 giugno se la sensazione sia fondata o meno. Dunque, dopo essersi accontentata a lungo di un ruolo minore, sgomita ora per tornare protagonista. La vicenda del Superbonus è da questo punto di vista eloquente. Ieri Tajani ha assicurato che si è trattato solo di “una questione di principio” che nella maggioranza non ci sono divisioni di sorta. La tesi stavolta è però letteralmente insostenibile. Lo scontro sulla retroattività del decreto è stato invece il più duro all’interno della maggioranza dalla nascita del governo in poi. Il partito azzurro ha scelto di astenersi solo quando, a prezzo di funambolismi d’ogni sorta, il governo era riuscito ad assicurarsi comunque la prevalenza numerica, sia contrattando con il senatore delle autonomie Patton, che non ha ottenuto poco avendo messo le regioni a statuto speciale e le province di Trento e Bolzano parzialmente al riparo dagli effetti del decreto, sia facendo votare il presidente della commissione Garavaglia, scelta molto irrituale, sia infine conquistando l’appoggio prezioso di Iv. Senza quel sofferto ribaltamento di forze Fi avrebbe votato contro l’emendamento, come dichiarato a ripetizione in pubblico e in privato, anche a costo di spaccare la maggioranza su un tema che non era affatto solo “di principio” ma rischiava di costare alle casse già esangui dello Stato una cifra mostruosa, intorno ai 30 miliardi all’anno. La Lega, nonostante le rumorose operazioni di disturbo di Salvini, non si era mai neppure avvicinata a un simile livello di scontro, tanto estremo da aver spinto il ministro Giorgetti a minacciare, peraltro invano, le dimissioni. Nell’alleanza di centrodestra Tajani già era consapevole di occupare una postazione nevralgica e centrale: la rappresentanza di quelle fasce moderate che per questioni politiche e culturali sfuggono alla presa non solo della Lega ma anche di FdI, considerati entrambi troppo radicali, sovranisti e, soprattutto il secondo, inquinato da un background postfascista. Con la battaglia sulla retroattività del dl Bonus, particolarmente contrastata dalle banche, Tajani candida il suo partito a rappresentare anche socialmente le fasce medio-alte e schiettamente alte dell’elettorato di destra. Quante possibilità il nuovo capo azzurro abbia di vincere la sfida lo si capirà solo il 9 giugno e anche la velocità di marcia della separazione delle carriere dipenderà molto da quel risultato. Di certo però, se il vicepremier riuscirà a imporre il protagonismo del suo partito l’intera fisionomia della maggioranza e della destra ne uscirà sensibilmente modificata. Separazione delle carriere. Più che un dibattito, un desolante conflitto corporativo di Ennio Amodio huffingtonpost.it, 16 maggio 2024 Meloni, l’Anm, Schlein, Nordio: ognuno ha sostenuto la sua posizione con slogan a favore di bottega che nulla c’entrano con la realtà. E che impediscono una leale collaborazione fra politica e giustizia. Ma di cosa state parlando? Una persona di buon senso con in mano la nostra Costituzione avrebbe potuto rivolgere un po’ irritata questa domanda a politici, esponenti del governo e magistrati che in questi giorni ci hanno parlato della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Una pluralità di voci in cui è prevalso l’opportunismo delle rispettive botteghe, politiche e corporative. Così da celare i reali propositi degli attori del palcoscenico riformista. Ha cominciato la premier presentando con un rullar di tamburi il progetto di un doppio Consiglio superiore della magistratura inteso a creare una barriera tra le toghe che fanno le sentenze e quelle che indagano ed esercitano l’azione penale. Ma sul punto il centrodestra non ha sfornato nemmeno una riga di testo normativo e si è persino dimenticato di dire che da più di un anno pendono in Parlamento ben quattro disegni di legge proprio sul doppio Csm. È dunque evidente che ciò di cui voleva realmente parlare Giorgia Meloni era di una “nuova” luccicante icona in tema di giustizia da inserire nei manifesti elettorali accanto a sua maestà il premierato. Non meno trasparente il duplice registro dell’intervento svolto dal leader dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, al recente Convegno di Palermo. Il suo no alle carriere separate è stato perentorio. Il suo “non s’ha da fare” poggia sull’assunto che dietro le quinte delle istituzioni ci sarebbe qualcuno pronto a soggiogare le Procure al potere dell’esecutivo. Una tesi priva di fondamento almeno alla luce dei progetti finora messi in cantiere che, al contrario, blindano la magistratura requirente sotto l’ala del “suo” organo di autogoverno. La verità è invece che le toghe non tollerano riforme di alcun tipo in casa propria, perché vogliono essere un potere, a dispetto di quanto prevede in senso contrario la Costituzione. Allo stesso Convegno di Palermo, Elly Schlein ha sottoscritto ad occhi chiusi il no dei magistrati, dimenticando che è stata proprio la cultura garantista della sinistra a reclamare un pubblico ministero collocato su un gradino più basso di quello del giudice, come del resto stabilisce l’art. 107 c. 5 della Costituzione. La separazione delle carriere è sempre stata concepita come una riforma volta a garantire alla difesa la piena parità con la posizione dell’accusatore. È dunque chiaro che la scelta della segretaria del Pd altro non è che la conseguenza della contrapposizione alle istanze del centrodestra. Non va infine dimenticata la posizione del ministro della giustizia Carlo Nordio che a Palermo ha definito un dogma l’indipendenza delle Procure senza dire però in che modo dovrebbe essere realizzata. Tutto questo giocare a nascondino fa capire quanto poco interessa trovare gli appropriati equilibri per la giustizia penale a fronte dei ben più attrattivi appeal politici o corporativi. Quando vedremo finalmente rinascere nella comunità politico-giuridica del sistema penale lo spirito di leale collaborazione che ha consentito del 1988 di varare il codice di procedura penale, il primo ed unico codice dell’Italia repubblicana? Durata dei processi e arretrato: dati positivi sul penale, meno per il civile di Massimiliano Di Pace Il Dubbio, 16 maggio 2024 Il ministero della Giustizia rende noti gli esiti del monitoraggio sugli uffici giudiziari relativo agli obiettivi del Pnrr: “Il trend resta positivo, riforme efficaci”. Con un comunicato del 15 maggio il ministero della Giustizia ha fatto sapere che continua il trend positivo della riduzione della durata dei processi, e dell’arretrato delle cause civili e penali da dirimere, circostanza che costituisce una delle condizioni per il godimento delle risorse europee del Pnrr, delle quali l’Italia ha già ricevuto, dal 2021 ad oggi, 101,9 miliardi di euro di fondi, di cui 24,9 miliardi di pre- finanziamento, e 77 miliardi delle prime quattro rate, come conferma una nota della Camera. Dunque, una macchina della giustizia più efficiente è sicuramente un vantaggio per i cittadini e gli operatori economici, ma anche, di questi tempi, un’opportunità per aumentare i finanziamenti per facilitare l’attuazione delle riforme nel nostro Paese. A supporto della notizia sulla migliore performance dei tribunali italiani intervengono alcuni dati, citati nel comunicato, tra cui quello della durata dei processi (in Inglese “disposition time”), che a fine 2023 evidenziavano una riduzione, rispetto al 2019 (anno base di riferimento per la valutazione dei risultati delle riforme previste dal Pnrr), pari al - 17,4% nella giustizia civile, e al - 25% in quella penale. Se si considerano i dati riferiti al 2022, si può osservare che la diminuzione dei tempi dei processi è stata più consistente nel settore penale (- 16,6%), ma significativa anche in quello civile (- 6,4%). Il dicastero guidato da Carlo Nordio fa poi sapere che nel settore penale il risultato complessivo si conferma in linea con il target previsto dal Pnrr (che è - 25% dei tempi entro giugno 2026), e secondo via Arenula questa ottima performance si spiega anche per l’aumento dei procedimenti definiti, come dimostra un + 3,9% di processi conclusi nel 2023 rispetto a quanto avveniva nel 2019. L’aumento delle chiusure dei processi ha avuto un’accelerazione, secondo quanto riferisce il comunicato del ministero della Giustizia, nell’ultimo anno, ovvero nel 2023 (+ 7,6% rispetto al 2022), grazie anche all’impatto positivo di alcune delle misure introdotte dalla riforma della Giustizia Cartabia. Nel 2023 la durata media dei processi della Corte di Cassazione ha raggiunto i 110 giorni, che costituisce un valore perfino inferiore alla media dei paesi del Consiglio d’Europa. Dunque non mancano i segnali positivi, ma la nota di via Arenula non nasconde che sul fronte dei processi civili le notizie, pur essendo buone, avrebbero potuto essere migliori. In effetti, viene ammesso che è “più contenuto il calo del disposition time in ambito civile, ma si registra il dato positivo del Tribunale che dal 2020 ha aumentato il numero di procedimenti definiti (nell’ultimo anno l’aumento è stato dell’1,6%)”. Il comunicato prosegue segnalando che “nel 2023 le definizioni del settore civile risultavano però ancora al di sotto di quelle del 2019 sia in Tribunale, sia in Corte di Appello: un dato che andrà monitorato nella prospettiva del raggiungimento dell’obiettivo concordato di riduzione del disposition time complessivo del 40% entro giugno 2026”. Per far fronte all’eventuale mancato raggiungimento degli obiettivi del Pnrr sul fronte della giustizia civile, la nota dell’ufficio stampa di Nordio ha ricordato che “lo scorso dicembre la Commissione europea ha accolto la proposta di rimodulazione degli obiettivi di abbattimento dell’arretrato civile avanzata dal Ministero”. Secondo i nuovi accordi con le autorità comunitarie, è stato stabilito un obiettivo intermedio di riduzione del 95% dell’arretrato presente nel 2019, entro il 31 dicembre 2024, e un obiettivo finale di riduzione del 90% dei procedimenti civili pendenti a fine 2022 (ossia quelli iscritti dal 1° gennaio 2017 presso i Tribunali, e dal 1° gennaio 2018 presso le Corti di Appello), entro il 30 giugno 2026. Su questo fronte, a fine 2023 si registravano i seguenti risultati: - Obiettivo intermedio: - 85% in Tribunale e - 97,1% in Corte di Appello; - Obiettivo finale: - 50,1% in Tribunale e - 43,4% in Corte di Appello. La nota del ministero di via Arenula fa presente che lo smaltimento delle pendenze rilevanti ai fini del raggiungimento dell’obiettivo intermedio risulta quindi più che completato per le Corti di Appello, e quasi completato per i Tribunali. Tuttavia, per garantire il raggiungimento degli obiettivi finali, si considera cruciale mantenere anche nei prossimi anni una dinamica robusta di smaltimento degli arretrati. Al riguardo si precisa che la riduzione dell’arretrato “cosiddetto Pinto” (pendenza ultra-triennale nei Tribunali e ultra-biennale nelle Corti d’appello e quindi a rischio risarcimento per eccessiva durata) rispetto al 2019 è pari al 24,7% in Tribunale ed al 37,7% in Corte di Appello. La nota termina rammentando che, complessivamente, i dati confermano lo sforzo importante che gli uffici giudiziari stanno compiendo nell’abbattimento delle pendenze e dell’arretrato, frutto anche dei cambiamenti organizzativi attuati con l’arrivo degli addetti all’Ufficio per il processo. Il prossimo aggiornamento, relativo al I semestre 2024, verrà pubblicato a ottobre. Puglia. Carceri sovraffollate, ma gli ingressi nelle Comunità terapeutiche sono bloccati di Massimiliano Scagliarini Gazzetta del Mezzogiorno, 16 maggio 2024 Misure alternative alla detenzione per i detenuti tossicodipendenti praticamente impossibili. Una storia drammatica e infinita quella del sovraffollamento che ha portato anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ospite del convegno curato da Radio Radicale “Senza dignità”, a formulare l’ipotesi di far scontare in alcune comunità la parte finale dell’esecuzione della pena ai detenuti condannati per reati minori e per i tossicodipendenti. Ecco, partiamo da qui. La norma ha introdotto da tempo la possibilità di misure alternative al carcere, proprio nel disperato tentativo di decongestionare i vetusti e inadeguati istituti penitenziari. Ma in Puglia tutto questo non è possibile dall’entrata in vigore della delibera regionale sui tetti di spesa stabiliti per il 2024. Niente soldi, niente personale, niente ingressi. Ecco perché le Comunità terapeutiche e tutto il mondo del Terzo Settore sono insorti proponendo ricorso al Tar di Bari contro la delibera regionale. L’udienza è fissata per il prossimo 4 giugno. La Regione ha fatto sapere di aver avviato “approfondimenti in relazione al fabbisogno di prestazioni per dipendenze patologiche”. Sarebbe l’analisi di questo fabbisogno, non ancora conclusa, ad aver paralizzato la situazione, tanto che la stessa Regione ha chiesto al Tar un rinvio in attesa della definizione del fabbisogno. In questo esitare, nelle solite pieghe della burocrazia, nella gestione della coperta corta dei finanziamenti destinati alla salute dei pugliesi, si infrangono le speranze di tanti detenuti costretti in cella sebbene potrebbero percorrere una strada alternativa, come grida (nella lettera al direttore che pubblichiamo in questa stessa pagina) un uomo recluso nel carcere di Lecce. “Il blocco pressoché totale degli ingressi degli aventi diritto nelle strutture terapeutiche, oltre a produrre sofferenze inutili a cittadini di per sé già provati dalla patologia e a mettere in ginocchio le strutture (molte delle quali alla soglia del collasso economico), mina alle fondamenta la serenità dei territori e rischia di creare seri problemi di ordine pubblico”, dicono gli operatori pugliesi, un’ampia platea di coop, organizzazioni, federazione delle quali si fa portavoce il Forum Terzo Settore Puglia - Consulta Dipendenze Patologiche. “Senza un intervento in grado di ripristinare in tempi brevi un corretto funzionamento del sistema si rischia di produrre danni irreversibili agli utenti e di mandare in fumo centinaia di posti di lavoro”. Sulle condizioni disperate delle carceri pugliesi è intervenuto di recente anche Donato Capece, segretario generale del SAPPE, secondo il quale “la situazione penitenziaria, pugliese e nazionale, è allarmante”. Nelle scorse settimane altri agenti hanno subito aggressioni da parte della popolazione detenuta. “Il personale è sempre meno - ha aggiunto Capece -. Prevediamo un’estate di fuoco se non si prenderanno immediatamente provvedimenti concreti e risolutivi. Il personale di Polizia penitenziaria è allo stremo”. Castelfranco Emilia (Mo). Carcere, dalla lavanderia al nuovo ristorante di Giorgia De Cupertinis Il Resto del Carlino, 16 maggio 2024 I progetti alla Casa di Reclusione di Castelfranco. “Così i detenuti potranno sviluppare competenze professionali spendibili all’esterno”. Un modello di carcere “diverso”. Un modello che sappia aprire le porte all’esterno, per essere così sempre più integrato con la realtà territoriale, attraverso una forte sinergia. Su questa filosofia la Casa di Reclusione di Castelfranco disegna ora i suoi progetti, illustrando e anticipando le novità in arrivo. A partire dal ritorno della lavanderia industriale, riaperta dopo un periodo di chiusura per importanti lavori di ristrutturazione e di rifacimento degli impianti. “Dopo vari studi di fattibilità siamo giunti alla sua riattivazione - conferma il direttore della Casa di Reclusione, Maria Martone -. È un esempio concreto di come si possa realmente investire, anche da un punto di vista produttivo, all’interno dell’istituto penitenziario e sviluppare così nuove competenze”. Il periodo di inattività è servito anche per riprendere i contatti con le realtà delle cooperative sociali, in particolare con la cooperativa Aliante che sin dai primi incontri ha mostrato interesse a rilevare la gestione del servizio di lavanderia interna al carcere, giungendo oggi alla sottoscrizione di una formale convenzione a cui ha aderito anche la Rsa Delia Repetto per la parte relativa al conferimento dei capi di abbigliamento degli ospiti della struttura socio-sanitaria. La compartecipazione della Rsa consente di valorizzare ulteriormente la valenza trattamentale e sociale del progetto. La convenzione prevede la concessione a titolo gratuito dei locali e delle attrezzature della lavanderia alla Cooperativa sociale Aliante che per la gestione del servizio ha assunto due detenuti. L’elemento di forza del progetto è dato dalla sinergia che si è instaurata tra carcere, il mondo delle cooperative sociali, le istituzioni territoriali e il Comune di Castelfranco Emilia coniugando le esigenze sociali e produttive del territorio con quelle del lavoro e della professionalizzazione dei detenuti. A questo si aggiunge però anche un altro nobile progetto, che porterà all’interno della Casa di Reclusione “un nuovo ristorante”. L’iniziativa - portata avanti con il consorzio Modena a tavola - ha visto infatti diversi chef modenesi dare vita a veri e propri corsi di formazione per insegnare ai detenuti il mestiere, trasmettendo loro know-how utili anche per il loro futuro durante la fase di reinserimento nella società. Competenze, queste, che gli stessi detenuti potranno infatti poi mettere in atto: il ristorante del carcere sarà “inaugurato” il prossimo 29 maggio e le sue porte rimarranno aperte anche durante l’estate in alcune serate prestabilite. “È un gruppo di circa dieci ragazzi, di ogni età - spiega Stefano Corghi, presidente di ‘Modena a tavola’ - sono tutti molto bravi, sanno lavorare in squadra e questo è molto importante quando ci si trova in cucina. Cercheremo di utilizzare per lo più i prodotti a km0, dando maggior risalto alle nostre eccellenze locali: e si potrà così dare una nuova luce a un luogo che ha scorci bellissimi e molto particolari”. Andria (Bat). In masseria per produrre pasta e taralli. E per affrancarsi dal carcere di Nicola Lavacca Avvenire, 16 maggio 2024 Si rinnova il progetto “Senza sbarre” creato nel 2017 dall’associazione “Amici di San Vittore Onlus”. Supportato dalla diocesi locale, ma anche da Cei e Caritas, è rivolto a detenuti ed ex detenuti. Oltre il carcere c’è un cammino solidale per schiudere le porte al riscatto sociale, al reinserimento e alla riconciliazione. Un percorso alternativo per detenuti ed ex detenuti che vogliono mettersi alle spalle gli errori del passato. È nato su queste architravi il progetto “Senza sbarre”, creato ad Andria nel 2017 dall’associazione “Amici di San Vittore onlus”, con l’appoggio del vescovo Luigi Mansi, dopo che inizialmente due parroci di periferia, don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli, avevano cominciato a creare, nelle rispettive parrocchie, delle opportunità per queste persone. Un progetto che ha come fondamento ontologico la creazione di una rete di sostegno, di ascolto e di accoglienza residenziale e semiresidenziale nel territorio di Andria, per cittadini sottoposti a provvedimenti privativi o limitativi della libertà personale. Da allora ne è stata fatta di strada, soprattutto dopo aver riadattato nell’agro di San Vittore, vicino a Castel del Monte, una grande masseria trasformata in centro polifunzionale per supportare il laboratorio tecnico-agricolo che avvicina detenuti ed ex detenuti al mondo del lavoro. “Chi finisce in carcere, oltre a dover gestire la limitazione della libertà, si trova a dover affrontare enormi problematiche sociali, familiari e di sostentamento - dice don Riccardo Agresti, responsabile della struttura -. A questo si aggiungono i costi del funzionamento del sistema, che rende ogni percorso incerto e tortuoso, fino all’annullamento della persona e della sua dignità. La vita comunitaria nella masseria di San Vittore si sviluppa attraverso attività integrate e si svolge secondo una organizzazione capillare, attraverso momenti educativi e formativi”. In questi anni, sono state innumerevoli le richieste di aiuto dei carcerati e delle loro famiglie, per poter svolgere ore di volontariato come misura alternativa al carcere. Sono state accolte circa 100 persone tra affidati, messi alla prova, semiliberi, detenuti domiciliari, affidati per lavori di pubblica utilità. Tutte le risposte ai bisogni degli utenti sono coordinate da una équipe educativa che interagisce con la magistratura di sorveglianza di Bari, con l’Ufficio interdistrettuale Esecuzioni penali e con gli enti locali. Nel 2018 è stata creata anche una cooperativa sociale, “A Mano Libera”, che nel pastificio tarallificio impiega detenuti ed ex detenuti nella produzione di pasta fresca e taralli. “La ricetta del tarallo è un’opera della Provvidenza, sorta nel meridione e unica nel suo genere - sottolinea don Riccardo -. “A Mano Libera” è il prodotto della speranza, del cambiamento, di quella seconda possibilità che diamo a questi fratelli, anche per abbattere le barriere del pregiudizio”. Negli ultimi anni, nonostante la pandemia, lo sviluppo lavorativo e degli ordini è stato notevole. “Questa realtà è stata apprezzata dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana, che ha sostenuto il progetto, cosa che ha fatto anche la Caritas Italiana - conclude don Riccardo. Ispirati dal Vangelo, siamo impegnati a scrivere un futuro diverso per questi ragazzi che hanno voglia di guardare avanti all’insegna della speranza, della riparazione e della legalità”. Genova. “Corretti stili di vita”: Gianni Testino e il suo team incontrano i detenuti di Fabrizio Cerignale La Repubblica, 16 maggio 2024 Secondo l’ultima relazione al Parlamento, del 31 dicembre del 2022, su una popolazione carceraria ligure di 1.347 unità più di uno su tre, il 39,2%, soffre di disturbi da uso di alcol e droghe, una media inferiore alle grandi regioni: Lombardia Lazio e ed Emilia Romagna, ma sopra al dato nazionale che si attesta al 30%. Si deve partire da questi numeri per capire l’urgenza di portare i corretti stili di vita anche nelle carceri allargando un modello educativo partito dagli incontri con gli studenti - negli anni sono stati coinvolti migliaia di giovani tra i 9 e i 17 anni - a tutte le categorie sociali: le persone anziane, i rifugiati, la popolazione carceraria, come nella “mission” del dipartimento Educazione a corretti stili di vita e programmi di comunità di Asl 3. Un’attività iniziata nel carcere genovese di Marassi con un primo appuntamento dedicato ad alcol, alimentazione e fumo, che ha dato risultati incoraggianti con più di una ventina di detenuti coinvolti, che si sono dimostrati educati, attenti e interessati. “Molti detenuti sono in carcere proprio a causa di stili di vita non corretti - spiega il direttore del dipartimento Gianni Testino - alcolisti che hanno avuto problemi con le forze dell’ordine, oppure tossicodipendenti diventati poi spacciatori, persone alle quali gli stili di vita hanno condizionato l’esistenza”. Con queste persone, quindi, si è aperto un dialogo per aiutarli a mettere in pratica comportamenti che possano migliorarne la qualità della vita anche durante la permanenza in carcere. “Ci sono buone pratiche di alimentazione e di movimento che possono essere sviluppate - spiega Testino - perché i detenuti possono scegliere, almeno in parte il cibo e ci sono palestre e spazi per muoversi, e questo può aiutare a mantenere uno stile di vita corretto”. Un incontro che è stato molto partecipato, nel corso del quale sono state diverse anche le testimonianze. “Abbiamo incontrato detenuti di diverse nazionalità - ha spiegato Patrizia Balbinot, referente per le funzionalità del dipartimento - e molti di loro, con grande umanità, ci hanno raccontato le loro storie. C’è stato un detenuto che ha raccontato dei problemi con un padre alcolista che ha ammesso gli errori nei confronti dei figli, e poi un cittadino ecuadoriano che per vergogna non aveva detto di essere alcolista e che ha chiesto consigli su come proseguire il percorso di cura una volta uscito dal carcere”. L’obiettivo, infatti, è anche quello di aiutare le persone ad avere una speranza una volta uscite. “Ci sono persone che lasceranno il carcere tra due o tre anni - aggiunge Testino - e che hanno bisogno di pianificare il futuro, continuando le cure che stanno già facendo nel modo migliore”. Visto il buon esito di questo primo incontro la decisione è stata di proseguire con questa esperienza pianificando una programmazione strutturata con direttore del carcere e garante dei detenuti. Il 29 maggio, quindi, è stato programmato un nuovo appuntamento che sarà dedicato ai detenuti con problemi legati al consumo di sostanze stupefacenti. San Gimignano (Si). Misure alternative alla detenzione, convegno sul recupero dei detenuti di Romano Francardelli La Nazione, 16 maggio 2024 Dai numeri nelle carceri italiane alla situazione nella casa circondariale che offre corsi scolastici e universitari. Le misure alternative della rieducazione e i diritti dei detenuti nelle carceri italiane sono stati l’argomento del convegno con la presentazione nel salone parrocchiale del libro ‘Come è in cielo così sia in terra. Il carcere fra giustizia, perdono e misericordia’ di padre Vittorio Tani, cappellano di Regina Coeli. L’evento è stato organizzato dall’associazione ‘Don Grassini’, legata al nome dell’ex cappellano del carcere di San Gimignano ricordato dal presidente Gabriello Mancini e dal moderatore Fabrizio Chirici. Con padre Vittorio hanno portato le loro testimonianze l’avvocato Giuseppe Fanfani, garante dei detenuti della Toscana, Fabrizio Ciuffini, consulente sindacale Cisl ed ex segretario del sindacato della Polizia Penitenziaria. Padre Vittorio ha sfogliato le pagine “di una vita vissuta per seminare messaggi sulla situazione che vivono le condizioni detentive in Italia”. L’avvocato Fanfani ha evidenziato la carenza di spazi nelle carceri e la presenza di servizi fatiscenti, mentre Ciuffini ha ribadito che in Italia ci sono “undicimila detenuti in più a fronte di presenza massima di 61mila reclusi provenienti da 146 Paesi in carceri che hanno invece una capienza di 50mila unità”. Il dibattito è poi scivolato sulla casa circondariale di Ranza con la riflessione dall’ex sindaco Giacomo Bassi: “Ranza è un servizio dello Stato e tutti i progetti post pena e di semilibertà devono trovare lavoro e accoglienza su tutto il territorio provinciale, non solo su San Gimignano”. Non è mancata la parola della funzionaria giuridica dell’area trattamentale di Ranza, la dottoressa Ivana Bruno, che ha ringraziato la Misericordia per l’accoglienza offerta ai detenuti con il volontariato e progetti di rieducazioni all’intero di Ranza: dai servizi scolastici a quelli universitari e di gastronomia. “Purtroppo - ha precisato - sono assenti i laboratori interni di lavoro che invece avevano spazio nel vecchio carcere di San Domenico con la falegnameria, l’officina e la sartoria”. Il convegno ha visto la partecipazione del sindaco Andrea Marrucci con alcuni assessori, gli ex sindaci Giacomo Bassi e Pier Luigi Marrucci e alcuni volontari della Casa di reclusione di alta sicurezza, dove ogni giorno vivono oltre trecento detenuti di varie nazionalità. Torino. Domani conferenza su “Cultura, studio e formazione professionale in carcere” agensir.it, 16 maggio 2024 Sarà dedicata a “Cultura, studio e formazione professionale in carcere” la conferenza in programma venerdì 17 maggio, a Torino, per iniziativa dell’Opera Barolo in collaborazione con il settimanale diocesano “La Voce e Il Tempo”, nell’ambito degli appuntamenti per il 160° anniversario della morte della venerabile marchesa Giulia Falletti di Barolo. L’incontro, il terzo del ciclo, sarà ospitato dalle 17 presso Palazzo Barolo (via delle Orfane 7a). Dopo l’introduzione di Anna Maria Poggi, docente di Diritto costituzionale all’Università di Torino e consigliera dell’Opera Barolo, interverranno Franco Prina, presidente della Conferenza nazionale universitaria Poli penitenziari, Marzia Sica della Fondazione Compagnia di San Paolo, Paolo Monferino, presidente della Fondazione Arti e Mestieri, Bruno Mellano, garante regionale dei diritti dei detenuti del Piemonte, e Roberto Gramola, ex detenuto laureatosi al Polo universitario per detenuti del Carcere di Torino mente scontava la pena. Modererà Maria Teresa Pichetto, fondatrice del Polo universitario per detenuti del penitenziario di Torino, Durante il periodo di reclusione, viene sottolineato in un comunicato di presentazione dell’iniziativa, poter accedere ad attività di formazione professionale e a percorsi di istruzione scolastica ad ogni livello, dalla primaria a quella universitaria, può offrire la possibilità di riscattare il passato e di pensare a un futuro da vivere pienamente da persone integrate nella società dei “liberi”, rispettate, con un lavoro e senza dover convivere con pregiudizi e lo stigma del carcere. Come evidenzia Gramola, studiare in carcere è importante “non solo per il valore che può avere un titolo di studio e le competenze acquisite, ma perché l’individuo può rappresentare al mondo un’immagine differente da quella che accompagna tutti gli ex detenuti”. Padova. Come Giona nella balena di Lodovica Vendemiati santodeimiracoli.org, 16 maggio 2024 Si dice che la parola dà vita e prende vita: in carcere questo è realtà. Le attività di Teatrocarcere coinvolgono quasi trenta detenuti, puntando al reinserimento. Due sono attualmente i rami di attività di Teatrocarcere, il progetto presente dal 2005 nel Carcere Due Palazzi di Padova e sostenuto anche dall’Associazione Universale di Sant’Antonio. Da un lato c’è il percorso delle persone detenute che hanno dato vita allo spettacolo “Da Babele alla Città Celeste”, portato anche in contesti esterni al carcere, dall’altro c’è un nuovo gruppo interno che sta lavorando al nuovo spettacolo incentrato sulla storia di Giona, che verrà presentato proprio a maggio (8 e 9, tra gli eventi del Festival biblico) nell’Auditorium del carcere di Padova. “Spesso ci si dimentica o non si mette abbastanza in luce un aspetto molto importante - afferma Cinzia Zanellato, regista degli spettacoli e formatrice - cioè: se fai un percorso con le persone detenute, che significa fare scuola, dare un lavoro, fare laboratori come il teatro che è forma di comunicazione e socializzazione e momento formativo e di riflessione sui temi esistenziali, poi queste persone riprendono in mano la loro vita e soprattutto abbattono la recidiva. È un investimento sulle persone che ripaga. Si lavora sul loro recupero. Mai perdere la fiducia e la determinazione nel credere in un carcere riabilitativo e non punitivo”. Occorre passare dalla logica della vendetta che soddisfa immediatamente, ma non produce alcun risultato se non perpetuare la catena del male, a una che dà risposte civili in modo che queste persone possano conoscere anche altri stili di vita, altri modi relazionali. “Molti detenuti - continua Zanellato - arrivano da contesti in cui non hanno avuto possibilità di studiare, ma anche semplicemente di sentire un bene comune, far parte di una comunità. Si dà sempre per scontato che chi va in carcere quando esce sia come prima, invece non si dà importanza ai percorsi che fanno”. Sono una quindicina le persone che stanno lavorando al nuovo spettacolo, mentre il gruppo completo che frequenta il laboratorio di teatro è formato da ben 28 persone, di origine geografica diversa e di fascia d’età dai 25 ai 60 anni. Nel gruppo dello spettacolo su Babele ci sono una decina di persone che godono di misure alternative, “articolo 21” e semilibertà, o che usufruiscono di permessi premio. Insieme a loro molti volontari e cinque formatori in materie teatrali e danza. “Il teatro e i temi biblici - afferma la regista - diventano occasione non solo per fare uno spettacolo, ma per creare delle risonanze fra le esperienze di vita delle persone detenute e i temi esistenziali che vengono proposti nella narrazione biblica. È qualcosa di molto forte perché ci sono risposte davvero autentiche. Si dice che la parola dà vita e prende vita: in carcere questo è realtà. Ad esempio Giona nel ventre della balena per loro è l’esperienza dell’isolamento assoluto, quando devono venire a contatto con le loro interiorità e contraddizioni e rivedere la propria storia di vita. La torre di Babele parla di liberazione dall’omologazione, di ritrovare una propria identità, una lingua per stare nel mondo”. Temi esistenziali, temi che riguardano non solo i detenuti, ma tutti noi. Assistere a uno spettacolo di Teatrocarcere vuol dire entrare in una logica non violenta: ci insegna a metterci non in un piano di scontro, ma di dialogo e comprensione. “Mi pare - conclude Cinzia Zanellato - che le forze giovani recepiscano di più il messaggio di una cultura inclusiva e tollerante che si mette in dialogo. Così si tengono in vita dei semi di cultura che parlano di pace, condivisione, comunità. Il teatro oggi può fare questo: ricreare comunità attorno ad alcuni temi urgenti”. Le storie di Carlo e Mosè Carlo ha 38 anni è entrato nel gruppo teatrale spinto da amici, compagni di carcere, che gli avevano detto che lì si stava bene. “La verità - rivela - è che quando sei in carcere e non hai nulla da fare, qualunque prospettiva ti venga offerta la prendi al volo pur di non stare fermo dentro una stanza. Tante volte si inizia per gioco, per fare qualcosa, per passatempo, e poi te ne innamori e non immagini che può aprirti il cuore a delle emozioni e dei sentimenti così forti. A me ha dato delle sensazioni molto forti. Sono una persona chiusa, il teatro mi ha dato la possibilità di essere libero, libero dentro, interiormente, di relazionarmi con le persone, saper ascoltare, avere la pazienza. Il teatro aiuta anche in questo perché se qualcosa non ti viene subito devi avere la pazienza di aspettare e riprovare. Mi ha fatto maturare anche nella vita normale. Ricordo che la prima volta ho fatto esplodere tutto quello che avevo dentro di me e da lì poi ho trasmesso le mie emozioni anche agli altri attraverso le storie che narriamo”. Carlo recita in “Da Babele alla Città celeste”: uno spettacolo in cui bene e male sono evocati da Babele e dalla Gerusalemme Celeste. Due aspetti che coesistono in ogni essere umano, ancora più in chi vive una situazione di detenzione in carcere. “La torre di Babele - dice infatti Carlo - è come la mia storia: ascoltavo solo una testa, la mia, il mio essere egoista, ma poi stando in quel posto, in carcere, è crollata quella torre che era dentro di me e quindi ho imparato a relazionarmi, a capire, ad affrontare la vita come tutti. Sono piccoli tasselli che aiutano a far crescere questa torre. Lo spettacolo ritrae la mia chiusura e poi l’apertura”. Anche Mosè è fra gli attori dello spettacolo. Lui ha 32 anni e ha scontato tutta la sua pena, ora è fuori dal carcere, ma quel gruppo, quello del teatro, non riesce proprio a lasciarlo e così fa ancora parte della compagnia. “Mi è servito - racconta - perché mi ha aperto moltissimo. In carcere si tende ad essere molto chiusi e il fatto di mettersi in gioco, di portare uno spettacolo al di fuori e presentarlo a persone che non sono detenute, mi ha cambiato parecchio. La punizione porta solo alla vendetta”. Anche per lui la Torre ha un’accezione simbolica molto forte: “Per me ha significato il non riuscire a capirsi più, non capirsi con le persone ma sopratutto non capirsi con se stessi e questo ti porta a chiuderti, a costruire una torre, una sorta di confort zone da cui guardare dall’alto le differenze, chi è diverso da te”. “Alle persone, agli spettatori - aggiunge Carlo - quello che cerco di trasmettere è che ognuno di noi può essere quella torre: con la nostra testa, i pensieri, il cuore, la mente non dobbiamo indurci a chiuderci in noi stessi e ragionare solo con il nostro modo di vedere, ma dobbiamo aprirci ad altri orizzonti. Quindi non bisogna essere una torre di Babele, essere cocciuti, egoisti, non rispettare le persone. Io sono stato tanti anni intrappolato in me stesso, ma il teatro, il lavoro, il catechismo che ho potuto seguire in carcere, mi hanno fatto capire che non dobbiamo essere una torre sola ma dalla torre dobbiamo guardare alle altre, agli altri colori e idee e collaborare”. E poi dice che il cambiamento è possibile se nell’altro trovi accoglienza: “stare in mezzo alla gente porta a indurre un cambiamento. Basta un sorriso, sentir che qualcuno ti vuole bene per quello che sei e non ti giudica, questo può far sì che in chi ha sbagliato in passato si apra una nuova vita. Io ora sto costruendo una nuova torre e voglio dare il meglio di me stesso. La rieducazione, il reinserimento è dare una chance. Tenere chiusi in una stanza non serve, se non dai la possibilità di scoprire la bellezza altrui non ne esci bene, ma più arrabbiato di quando sei entrato. A 37 anni mi sono diplomato: chi lo avrebbe mai detto, la scuola non mi piaceva! Eppure ho capito quanto sia importante! Se tutti ci chiudono le porte...siamo fritti!”. “Il messaggio che arriva - afferma Mosè - è noi siamo voi e voi siete noi, non c’è alcuna differenza. C’è solamente chi ha sbagliato di più e chi ha sbagliato di meno, bisogna capire l’errore per fare poi un cambiamento. All’inizio, alle volte, c’è un po’ di pregiudizio. Per esempio nelle scuole la domanda che arriva sempre è “ma cosa hai fatto?”. Noi diciamo sempre che possiamo raccontare come siamo arrivati davanti a loro e quindi il percorso che abbiamo fatto. Non è giusto puntare sul reato ma piuttosto sul percorso che si fa, tutti possono sbagliare l’importante è poi il cambiamento e puntare non ad una giustizia punitiva che porta alla vendetta. Non dico che l’errore non sia grave, l’importante è rendersi conto del problema e fare un percorso, cercare di capire anche se non è una cosa facile. Adesso mi rendo conto che la persona che è entrata in carcere è completamente diversa da quella che è uscita”. Il percorso però quando si è fuori non è in discesa, anzi. C’è ancora molto da fare. Mosè lo sa bene, anche se ora si è ricostruito una vita, ha una fidanzata e un lavoro. “Bisognerebbe essere molto più seguiti a livello psicologico - afferma - questo è quello che manca. Ci vorrebbe un appoggio più presente e ferreo. Soprattutto quando esci, perché non sai come gestire le emozioni: dentro in carcere è una cosa, sei come in un ambiente protetto, quando esci non sai come affrontare la realtà quotidiana o l’incontro con le altre persone”. Visti i chiari benefici, quali sono le prospettive future per il Progetto Teatrocarcere? “Un aspetto interessante - conclude Cinzia Zanellato, la referente del progetto - sono i contatti con realtà esterne. Siamo stati contattati dal collegio Universitario Gregorianum che ci ha chiesto uno scambio con il loro gruppo di teatro. Collaboriamo con Ottavo giorno, associazione che lavora con la danceability. Fare degli scambi di lavoro e metodologia con altre realtà è fondamentale. Quindi le prospettive vanno in questa direzione: creare condivisione e rete con chi si prende cura dei giovani, delle persone con disabilità, con chi ha cura della persona. Creare più connessioni possibili perché questo diventa arricchimento”. Roma. “Credo ancora nelle favole”, a Rebibbia detenuti e famiglie in un documentario sociale di Giorgio Santelli rainews.it, 16 maggio 2024 Due anni di psicoterapia tra congiunti e carcerati, perché la pena viene scontata anche da chi resta “fuori”. Di qui una sceneggiatura teatrale e un documentario. All’inizio è stato Teatro: la messa in scena del lavoro del laboratorio di teatroterapia che ha coinvolto detenuti comuni della sezione media sicurezza. L’attività è stata condotta dalla Dott.ssa Irene Cantarella, ideatrice del progetto insieme alla Dott.ssa Sandra Vitolo, entrambe psicologhe e psicoterapeute. L’uso del teatro come strumento terapeutico è una pratica sempre più diffusa per esplorare profonde sfere emotive e affrontare tematiche complesse. Poi è diventato un documentario che è stato presentato nella sala consiliare del Campidoglio, col patrocinio morale del Comune di Roma, del Ministero della Giustizia e del Giffoni Festival. Tutto è nato da un percorso terapeutico innovativo che esplora luci e ombre delle dinamiche familiari attraverso la lente della recitazione. Sul palcoscenico gli attori detenuti si sono esibiti con i figli e i familiari per raccontare emozioni realmente vissute e frammenti di vita, cosi come raccontate nel copione interamente autobiografico. In particolare, è stato affrontato il tema della paternità reclusa e delle dinamiche familiari connesse al reato con le sue conseguenze: da qui la scelta significativa di coinvolgere nella rappresentazione teatrale tutti i componenti delle famiglie dei carcerati. C’è una doppia condanna da scontare. Quella di chi vive la dimensione carceraria e quella di chi, all’esterno, sconta un’altra condanna: l’assenza di un padre o di un compagno, con tutte le conseguenze del caso. Le vicende portate in scena narrano storie di fragilità e di solidarietà, storie di ricerca di un’identità diversa oltre l’etichetta di “deviante”; percorsi di affermazione della dignità umana, per mettersi in gioco anche di fronte a un pubblico esterno. Attraverso la recitazione, si apre uno spazio unico per l’esplorazione delle emozioni, la comprensione delle dinamiche familiari e la ricostruzione delle relazioni Quell’evento teatrale, insieme ad attività di backstage, rielaborato in chiave cinematografica ed intervallato dalle interviste ai protagonisti sul valore che l’attività di teatroterapia riveste per ciascuno, è ora un docufilm diretto dal regista Amedeo Staiano. Il documentario si snoda tra la quotidianità dei detenuti e quella delle loro famiglie nella vita esterna all’istituto, e ha come focus principale la sensibilizzazione di un pubblico giovanissimo. Il progetto audiovisivo è esclusivamente a sfondo sociale, autoprodotto e senza scopo di lucro. Tutta la catena produttiva e realizzativa, con le figure professionali interessate, è strutturata su un principio gratuito, volontario e solidale, incluso l’appoggio morale e operativo di diverse aziende del settore. Parteciperà in concorso e fuori concorso a diversi festival nazionali e internazionali, possibili passaggi televisivi e soprattutto ha come obiettivo il coinvolgimento di giovani spettatori: quindi proiezioni in scuole, associazioni, manifestazioni dedicate a tematiche sociali, sul concetto dell’uso gratuito e non della vendita. Treviso. “Il-legal game”: nel carcere minorile nasce un gioco da tavolo per le scuole trevisotoday.it, 16 maggio 2024 Il progetto sociale di Cooperativa Comunica e Associazione Tale dedicato agli adulti del carcere di Treviso nasce da un’idea di Francesca Brotto - autrice e attrice esperta in tecniche autobiografiche - realizzato in collaborazione con Tomaso Nardin - attore e formatore teatrale, e Marco Fintina - artista, educatore ed esperto in giochi da tavolo. Cooperativa Comunica da anni collabora con la casa circondariale minorile, operando nell’ambito delle progettualità volte alla valorizzazione dei detenuti in minore età: il-legal game, proposto dallo staff della cooperativa trevigiana, nasce con l’obiettivo di promuovere il cambio di paradigma coinvolgendo i detenuti nella creazione di un gioco sulla legalità. Gli stessi, dopo aver ripercorso le loro esperienze di vita e preso coscienza del loro agire, hanno contribuito a creare un gioco che in futuro verrà proposto alle scuole trevigiane come attività inserita nelle ore di educazione civica. Con questo progetto il detenuto, da soggetto passivo nel contesto sociale, con un destino segnato dall’esperienza carceraria, diventa soggetto attivo: un testimone diretto che può indicare alle giovani generazioni le conseguenze dell’illegalità. La creazione dell’il-legal game ha anche l’ambizione di far comprendere alla società civile che i detenuti, e le persone che hanno avuto un percorso di vita non aderente alle regole comuni, non possono e non devono essere viste solo come un peso per la società, anzi, possono diventare una risorsa. Nel caso specifico a beneficiare del loro lavoro saranno gli adolescenti in quanto il gioco realizzato sarà proposto a numerose scuole di primo e secondo grado. Il progetto è stato realizzato dalla collaborazione tra Cooperativa Comunica in collaborazione con e l’associazione Tale ed è stato finanziato dalla Regione del Veneto. “La nostra vocazione principale è storicamente rivolta ai bambini, ai giovani e alle scuole” spiega il presidente della Cooperativa Comunica Matteo Marconi “ma siamo sempre stati attenti alle esigenze del territorio e delle fasce deboli e in questo caso, grazie alla collaborazione dei nostri professionisti con la Casa Circondariale di Santa Bona, abbiamo voluto unire le nostre competenze fino all’ideazione di un “ponte” tra le carceri e le scuole trevigiane così da poter gettare un seme di speranza e riscatto”. Napoli. Detenuti-pizzaioli di Poggioreale cucinano per i propri cari Dire, 16 maggio 2024 È tutto napoletano e interno al carcere il progetto di formazione lavoro “Brigata Caterina - Pizzeria e Pizzaioli” che sarà presentato alla stampa oggi dalle 10 alle 13 nella Casa circondariale di Napoli Poggioreale, in occasione della Giornata internazionale delle famiglie. Il progetto è promosso dalla stessa casa circondariale ‘Giuseppe Salvia’ ed è stato avviato con l’Arcidiocesi di Napoli. Oggi è realizzato dal gruppo di imprese sociali Gesco in Ati con Apl lavoro grazie a Fondi regionali Por Campania (Fse 2014-2020). Il progetto ha permesso l’attivazione di un percorso di formazione e accompagnamento all’inserimento lavorativo all’interno del carcere destinato a 20 detenuti per diventare pizzaioli. Allo stesso tempo, ha dato l’opportunità ad alcuni di loro di essere assunti nel laboratorio di pizzeria dell’istituto Salvia. Per la Giornata internazionale delle famiglie, il carcere aprirà le porte ai familiari dei detenuti corsisti del progetto di formazione-lavoro che per l’occasione daranno prova delle loro abilità di pizzaioli, preparando pizze per mogli e figli ospiti. Per i più piccoli sono previste attività di animazione e di lettura, oltre che alcuni doni per celebrare con i propri cari il momento di festa. Per preparare le persone recluse ad affrontare il percorso formativo e nuove opportunità di lavoro, lo staff del progetto le coinvolge in attività parallele a quelle di cuoco specializzato nel settore della pizzeria, offrendo loro occasioni di lettura, momenti di riflessione con conversazioni di letteratura e filosofia, incontri di marketing, comunicazione e lingua inglese. L’obiettivo, condiviso con la direzione della casa circondariale di Poggioreale, è di restituire alle persone recluse coinvolte un senso più ampio di cittadinanza e di inserimento lavorativo. Migranti in Italia: i numeri impietosi del fallimento dell’accoglienza di Damiano Aliprnandi Il Dubbio, 16 maggio 2024 L’Italia continua ad affrontare la sfida dell’accoglienza dei migranti con un approccio emergenziale, che si dimostra inefficace e poco virtuoso. Questo è quanto emerge da un’analisi dettagliata della fondazione OpenPolis, che evidenzia come i numeri non supportino la narrativa di un’invasione. I dati rivelano che nel 2022 solo il 35,7% dei posti disponibili era coperto dal sistema ordinario di accoglienza (Sai), mentre la restante parte era gestita da centri di accoglienza straordinaria (Cas) e strutture di prima accoglienza. Inoltre, l’accoglienza diffusa, ritenuta un modello più positivo, è ancora scarsamente diffusa: solo in 29 province su 107 i centri sono distribuiti in almeno la metà dei comuni. Per comprendere il fallimento gestionale, OpenPolis fa parlare i numeri. Nel 2023 infatti le presenze nel sistema di accoglienza hanno raggiunto un picco di 141 mila persone (erano 121.325 i posti nel sistema di accoglienza a fine 2022). “Rispetto all’anno precedente è stato quindi necessario reperire tra i 20 e i 30 mila posti, così come già avvenuto tra 2021 e 2022 - scrive OpenPolis. - La variazione di posti nel sistema di accoglienza è un tema serio, che tuttavia non costituisce un’eccezione. Ogni anno infatti, a seconda dei flussi, il numero complessivo di persone ospitate varia”. Proprio per questo originariamente la legge aveva previsto di affiancare al sistema ordinario (oggi noto come sistema di accoglienza e integrazione - Sai) i centri di accoglienza straordinaria (Cas) attivabili dalle prefetture, anche con procedure d’urgenza. “La logica - sottolinea la fondazione - vorrebbe quindi che il Sai copra gran parte delle necessità lasciando a un sistema più elastico, quello dei Cas, il compito di gestire le variazioni più repentine”. Il report di OpenPolis, dal titolo “L’accoglienza in Italia in assenza di una prospettiva”, rileva che l’approccio emergenziale presenta diverse criticità. Mancanza di pianificazione: non vi è una strategia a lungo termine per la gestione del fenomeno migratorio, con conseguenti carenze strutturali e difficoltà nell’integrazione degli immigrati. Scarsa trasparenza: i dati relativi al sistema di accoglienza non sono facilmente accessibili, ostacolando la valutazione della sua efficacia e la pianificazione di interventi mirati. Concentrazione in alcune aree: l’accoglienza non è distribuita uniformemente sul territorio, con alcune zone che sopportano un carico maggiore rispetto ad altre. Prevalenza di strutture governative: Iicentri governativi (Cas e prima accoglienza) prevalgono sul sistema ordinario (Sai), che offre un modello di accoglienza più strutturato e orientato all’integrazione. Secondo OpenPolis, per superare le criticità attuali, è necessario abbandonare l’approccio emergenziale e adottare un modello di accoglienza strutturale e virtuoso. Questo dovrebbe basarsi sul potenziamento del sistema ordinario Sai, ovvero incrementare i posti disponibili nel Sai e rafforzarne le capacità per offrire un’accoglienza adeguata e favorire l’integrazione degli immigrati. C’è bisogno di maggior trasparenza, quindi rendere i dati relativi al sistema di accoglienza facilmente accessibili e promuovere una maggiore informazione pubblica. Altro punto fondamentale è la necessità di distribuire i centri di accoglienza in modo più uniforme sul territorio, evitando la concentrazione in alcune aree. Inoltre, punto fondamentale, è quello di favorire l’accoglienza diffusa su piccoli centri, contrastando la creazione di ghetti e promuovendo l’integrazione con le comunità locali. Da qui, emerge l’urgenza di un cambio di rotta. L’adozione di un modello di accoglienza più virtuoso è urgente non solo per garantire il rispetto dei diritti degli immigrati, ma anche per favorire la coesione sociale e lo sviluppo delle comunità locali. L’attuale sistema frammentato e inefficiente rischia di alimentare tensioni e conflitti, mentre un modello strutturato e ben gestito può rappresentare un’opportunità per il Paese. L’Europa e il rumore dell’odio di Paolo Lepri Corriere della Sera, 16 maggio 2024 Dall’Ucraina alla Georgia e alla Slovacchia, con il prolungarsi della guerra si alimentano nuove tensioni, si crea un clima in cui fioriscono gesti efferati, tentativi di destabilizzazione, manovre oscure. È un’Unione europea sofferente, costretta a confrontarsi anche con l’odio, quella che ha sentito ben distintamente ieri, in ogni capitale, il rumore dei colpi di pistola esplosi contro uno dei suoi ventisette capi di governo, il primo ministro slovacco Robert Fico. Questo attentato, che si aggiunge a varie aggressioni avvenute nei giorni scorsi in Germania, è un impressionante segnale di allarme che non deve essere ignorato. Il pericolo della destabilizzazione è reale. La violenza politica esiste, può attraversare i confini e svilupparsi in una comunità di nazioni che pensavamo sicura da minacce interne, costruita nella pace. Si tratta ora di fare in modo che la casa comune rinforzi le sue fondamenta e sconfigga chi la vuole distruggere, da qualsiasi parte provenga. L’eco degli spari slovacchi - diretti a un premier che ha preso posizioni lontane dalla linea dell’Ue sulle armi all’Ucraina e la Russia - si sovrappone alle note dell’inno europeo risuonate durante le manifestazioni in Georgia contro la scandalosa legge varata per mettere il bavaglio alla democrazia con il pretesto delle “influenze straniere”. Non tutti però sono stati attenti. L’Unione sta reagendo con mancanza di incisività a una mossa che mette a rischio il cammino di una nazione candidata. Certo, la lettura ritardata di questa nuova emergenza sui diritti mette ancora una volta in evidenza lo stato di quasi-paralisi in cui versa la politica estera europea, provocato soprattutto (non è però l’unico problema) dal ruolo negativo dell’Ungheria di Viktor Orbán. Ma il suo significato è più ampio, non solo perché le proteste di Tblisi ricordano i giorni emozionanti di Piazza Maidan. Le incertezze europee rappresentano un elemento da considerare con preoccupazione mentre c’è una guerra di aggressione in corso, vicina a noi, che sta vivendo una fase decisiva: una guerra nella quale viene sparso sangue innocente e con cui il leader del Cremlino tenta di distruggere gli stessi valori calpestati in Georgia. I russi avanzano a Kharkiv, ma l’orologio dell’Ue cammina più lentamente. È indispensabile metterne al polso un altro, regolato anche sull’ora di Kiev. Il dissidente georgiano Nika Gvaramia, in un’intervista al Corriere, ha spiegato chiaramente quali siano le decisioni da prendere per difendere la sua gente. “La pressione - ha detto - dovrebbe essere ancora più forte. Non abbiamo un dittatore ma degli oligarchi che si sono impadroniti dello Stato e hanno bisogno della politica per difendere i loro patrimoni. Per questo, con loro, serve un approccio diverso: sanzioni finanziarie, asset congelati divieto di ingresso per Ivanishvili e i suoi parenti all’estero”. Quando avverrà tutto questo, se è vero che a Bruxelles perfino il testo di una dichiarazione è stato bloccato a lungo per la presenza di visioni diverse? Quello che non è stato fatto per la Georgia fa riflettere, guardando agli sviluppi della situazione in Ucraina, nella speranza che non vengano compiuti altri errori. La lentezza è stata sempre una caratteristica dell’Unione europea. Nel passato è stata lo strumento per concretizzare, passo dopo passo, progetti che a prima vista sembravano irrealizzabili. Ora è diverso. Non si può aspettare. L’Ucraina sta combattendo per la libertà di tutti, va sostenuta nella maniera più efficace possibile. Deve arrivare senza ritardi il via libera definitivo all’accordo di principio sui beni russi congelati che potrebbe permettere di destinare al governo di Kiev tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro per finanziare il sostegno militare e la ricostruzione. Quello che sta accadendo sul fronte del conflitto impone poi che i fondi vengano consegnati al più presto. Evitando le solite attese. Come dovrebbe essere affrettata, prima che inizi a luglio la presidenza di turno ungherese, l’approvazione del nuovo pacchetto di sanzioni contro Mosca sul divieto del trasferimento del gas naturale liquido. Questi sono solo alcuni esempi di un appoggio che non può diminuire. Anzi deve compiere un salto di qualità. Il prolungarsi della guerra alimenta le tensioni, crea un clima in cui fioriscono gesti efferati, tentativi di destabilizzazione, manovre oscure. La pace va perseguita con forza. Tanto in Ucraina quanto dentro l’Europa. È in gioco, come dice il presidente francese Emmanuel Macron, la sua stessa esistenza. Ungheria. Ilaria Salis esce dal carcere, ma rimane agli arresti domiciliari di Giulia Merlo Il Domani, 16 maggio 2024 L’italiana, in carcere a Budapest da più di un anno in attesa di processo e candidata alle elezioni europee con Avs, ha ottenuto gli arresti domiciliari a Budapest. Cauzione di 40mila euro e braccialetto elettronico. Potrà votare alle europee. I legali: “La battaglia continua”. Il padre: “Dal ministero degli Esteri e della Giustizia nessun aiuto concreto”. Ilaria Salis uscirà dal carcere. La donna italiana, detenuta in Ungheria da 15 mesi in attesa di processo con l’accusa di aver aggredito alcuni militanti di estrema destra, ha ottenuto gli arresti domiciliari in un alloggio a Budapest. A concederglieli è stato il tribunale del riesame di Budapest, che ha accolto l’istanza dei difensori dopo che, all’udienza del 28 marzo, la richiesta era stata rigettata. Il provvedimento diventerà esecutivo dopo che verrà pagata la cauzione di 16.000.000 fiorini ungheresi, che corrispondono a 41.494 euro. Solo allora Salis potrà essere condotta nella casa di una privata cittadina che le darà ospitalità e dovrà indossare il braccialetto elettronico. “Credo che possa verificarsi in pochi giorni”, ah commentato l’avvocato Eugenio Losco, che sarà a Budapest la prossima settimana per incontrare la sua assistita. La battaglia legale, però, non è finita qui. I domiciliari in Ungheria, infatti, sono solo il primo passo che dovrebbe portare all’ottenimento della misura dei domiciliari da scontare in Italia, nell’attesa che il processo per tentato omicidio prosegua. “Non è ancora fuori dal pozzo, ma sarà sicuramente molto bello poterla riabbracciare dopo 15 mesi, anche se finché è in Ungheria io non mi sento del tutto tranquillo”, ha commentato il padre Roberto. I domiciliari permetteranno a Salis anche di votare per le elezioni europee. La donna è candidata nella lista dell’Alleanza verdi sinistra e, nei giorni scorsi, erano stati avanzati dubbi sulla sua possibilità di esercitare il suo diritto di voto dal carcere. Ai domiciliari, invece, dovrebbe potersi avvalere del cosiddetto “seggio mobile”: un addetto del consolato italiano si recherà nell’abitazione per farla votare. L’ottenimento dei domiciliari è arrivato dopo che il governo italiano aveva escluso la possibilità di detenere Salis in ambasciata o di garantire per lei nella richiesta di misura cautelare in Italia. Anche l’interessamento della premier Giorgia Meloni, che aveva interloquito con l’omologo e amico Victor Orban, non aveva prodotto che generiche rassicurazioni sul fatto che il processo sarebbe stato equo. Tuttavia, mentre il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è limitato a esprimere “soddisfazione”, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha rivendicato che il merito dei domiciliari a Budapest “è merito dell’azione sinergica del governo e della nostra ambasciata, che hanno lavorato intensamente, in silenzio, senza fare propaganda, senza rulli di tamburi”. L’accento polemico del ministro era rivolto sia alle opposizioni che hanno candidato Salis e chiesto alle autorità europee di intervenire che al padre Roberto, il quale aveva alzato l’attenzione mediatica sul caso mostrando le fotografie della donna portata in catene a mani e piedi in aula. Impegno, quello descritto da Tajani, che Roberto Salis ha smentito categoricamente: “Noi non abbiamo visto nessuna attività concreta da parte del ministro degli Esteri o del ministro di Giustizia per Ilaria”, ha detto a Metropolis. Lettura esattamente opposta ha dato anche l’Alleanza Verdi Sinistra che candida Salis, secondo cui la “bella notizia” è frutto della “caparbietà” e “determinazione del papà di Ilaria che ha voluto fortemente denunciare questa situazione. Se non ci fossero state le sue urla tutto questo non sarebbe accaduto”, sono state le parole di Angelo Bonelli. Anche secondo Ilaria Cucchi “il caos mediatico è servito, come sempre”. Nicola Fratoianni ha aggiunto che “ora bisogna portare Ilaria da Budapest a Bruxelles, l’abbiamo candidata per una battaglia per la democrazia e per i diritti”. Anche il Pd, con il candidato alle Europee Matteo Ricci, ha sottolineato che questo è “un primo passo verso la libertà, nonostante il disinteresse del governo”. Il rientro in Italia - L’obiettivo dei legali di Salis è quello però di far rientrare la donna in Italia, dopo più di un anno di arresti in condizioni molto difficili che lei stessa ha raccontato in alcune pagine pubblicate dai giornali italiani. Secondo la legge quadro del Consiglio europeo per il reciproco riconoscimento delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione, infatti, i domiciliari in Ungheria dovrebbero aprire la strada alla possibilità di chiedere il trasferimento nel paese d’origine. Perché ciò avvenga, però, non basta la richiesta dei legali di Salis. Dovranno essere le autorità italiane a chiedere al ministero della Giustizia ungherese la documentazione e poi trasmetterla, per il riconoscimento e l’esecuzione in Italia della misura applicata in Ungheria. Dal punto di vista giuridico, però, la questione è controversa: la legge quadro si applica sicuramente ai casi di condannati con sentenza definitiva, mentre qualche incertezza giurisprudenziale esiste nei casi - come quello di Salis - di misura cautelare che precede la condanna. In ogni caso, anche alla luce delle parole di Tajani, la richiesta dell’opposizione è che il governo metta in campo tutte le iniziative necessarie per l’ottenimento dei domiciliari in Italia. “Ci aspettiamo che il governo si adoperi perchè Ilaria Salis possa presto rientrare in Italia, in sicurezza”, ha scritto in una nota la segretaria del Pd, Elly Schlein. Il percorso, però, sembra ancora lungo e la prossima udienza del processo è fissata per il 24 maggio. Ungheria. Caso Salis, le reazioni a destra e sinistra: tutti contenti ma per ragioni diverse di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 maggio 2024 Da un lato si applaude al governo, dall’altro alla mobilitazione. “Non deve essere un rompete le righe, rischia ancora 20 anni”, dice Zerocalcare. A destra rivendicano il ruolo del governo, a sinistra quello della mobilitazione, il M5S parla addirittura di fine di un incubo. Alla fine la sintesi migliore la fa Zerocalcare: “Sono contento della novità su Ilaria Salis, ma non può essere un “rompete le righe”. I domiciliari arrivano, inaspettatamente, prima delle europee. Rischiano però di far sembrare che la situazione sia risolta. Non è così: il processo finirà e il rischio è sempre quello di 20 anni di carcere in Ungheria”. La notizia esplode nel primo pomeriggio quando durante il question time alla Camera il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani (Forza Italia) comunica la decisione dei giudici di Budapest di concedere gli arresti domiciliari alla detenuta, in cambio di una cauzione di 40mila euro e con l’uso del braccialetto elettronico. “Spero che possa essere assolta e ritornare il prima possibile in Italia”, continua Tajani. Gli fa eco il guardasigilli Carlo Nordio: “Vorrei manifestare la mia soddisfazione per la notizia”. Il governo può sorridere per due ragioni: la speranza che il caso si sgonfi e il risvolto elettorale, che rischia di innescare uno scontro istituzionale nel cuore dell’Unione europea, resti contenuto; la possibilità di rivendicare la strategia giusta, che per l’esecutivo italiano è sempre stata quella di insistere sulla richiesta dei domiciliari nella capitale magiara. La verità, però, è che tra il rigetto nell’udienza di fine marzo e la svolta di ieri è cambiata solo una cosa: la candidatura con Alleanza verdi sinistra. Un elemento di ulteriore politicizzazione in un caso che è stato politico sin dall’inizio. E infatti il primo ad attaccare gli esponenti del governo di destra, in cui pure per molti mesi aveva confidato, è Roberto Salis, padre di Ilaria: “Paghiamo questi due ministri per lavorare per noi ma non abbiamo visto nessuna attività concreta per risolvere il problema di mia figlia da parte loro. Non ho dei sassolini nelle scarpe, ho della ghiaia grossa, ho i piedi insanguinati”. Nel centro-sinistra esulta la segreteria del Pd Elly Schlein: “Un primo passo importante, dopo una lunga detenzione in condizioni lesive della sua dignità. Ora speriamo possa presto rientrare in Italia, in sicurezza. E ci aspettiamo il governo si adoperi”, scrive in una nota. “Adesso il governo si assicuri che la nostra concittadina possa avere un processo giusto e non diventi il capro espiatorio per soddisfare le posizioni di ultra destra dei supporter di Orbán”, dichiara la deputata dem Laura Boldrini. Per Ilaria Cucchi (Avs) “i domiciliari sono una bellissima notizia”. Rilancia il collega di partito Marco Grimaldi: “Non staremo zitti e buoni, torni in Italia”. I segretari di Sinistra italiana e Verdi insistono: “Portiamo Salis da Budapest a Bruxelles”. Tunisia Avvocati, giornalisti, oppositori, migranti: così il governo uccide i diritti di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 16 maggio 2024 Valanghe di arresti e censure: il presidente Saied sta trasformando il Paese maghrebino in un’occhiuta dittatura. C’è una cappa di piombo che aleggia nella Tunisia del presidente Kais Saied che, eletto democraticamente nel 2019, negli anni ha accentrato sempre più potere nelle proprie mani trasformando il Paese maghrebino in un’occhiuta dittatura. Gli arresti, spettacolari e brutalissimi, degli avvocati Sonia Dahmadi e Mahdi Zaghrouba, prelevati di forza dalla polizia che ha fatto irruzione nella Maison de l’avocat della capitale, sono la punta dell’iceberg di un attacco ai diritti sferrato a 360 gradi. Nel mirino del regime qualsiasi voce critica o potenzialmente tale, oppositori politici, associazioni della società civile, ong, giornalisti e media indipendenti, sindacalisti, omosessuali e persone Lgbtq, immigrati provenienti dal Sahel e, naturalmente, gli avvocati che di quei diritti sono i custodi e i difensori. A chiudere il cerchio della repressione un sistema giudiziario che oggi funziona da braccio armato del governo, liquidando chi esercita la propria libertà di espressione, come un agitatore nemico dello Stato o peggio ancora un fiancheggiatore del terrorismo. Nel luglio del 2022 decine di magistrati sgraditi a Saied sono stati fatti fuori tramite decreto presidenziale, sostituiti da toghe fedeli alla linea, ovvero incaricate di fare a pezzi la Costituzione del 2014 che era (la più democratica avanzata dell’intero nord Africa), estendendo i limiti della carcerazione preventiva e calpestando il diritto di difesa. Da inizio aprile la repressione è salita di livello e di intensità con centinaia di arresti in tutte le città e il violento smantellamento dei campi che ospitavano i migranti, cacciati oltre la frontiera della Libia in barba a tutte le convenzioni internazionali. Contestualmente all’operazione diversi esponenti delle ong che si occupano dell’accoglienza sono finiti nel mirino dei giudici con l’accusa di “riciclaggio” o addirittura di “associazione a delinquere”. Per il presidente Saied i volontari che aiutano i migranti non sono nient’altro che “traditori e agenti stranieri finanziati dall’estero”. Come Saadia Mosbah, attivista anti-razzista e presidente dell’associazione Mnemty (“Il mio sogno”), in custodia cautelare dallo scorso 7 maggio anche lei accusata di riciclaggio e di reati legati al terrorismo. Nella migliore tradizione xenofoba, sulla scia del redditizio discorso portato avanti dall’estrema destra europea, Saied ha denunciato l’esistenza un complotto ordito da non si sa quale oscura potenza per “cambiare la composizione etnica della Tunisia”. Una specie di “piano Kalergi” per rimpiazzare gli arabi con gli africani del Sahel. Anche il giornalismo indipendente è nella linea di tiro del governo. Sabato scorso, mentre i corpi speciali arrestavano l’avvocata Dahmadi, sono finiti agli arresti Borhen Bsaies, presentatore della radio privata IFM e Mourad Zeghidi, giornalista e commentatore politico. Entrambi avevano osato criticare l’esecutivo sulle loro pagine social e, come Dahmadi, sono incappati nella tagliola del decreto legge 54 per “attacco alla sicurezza delle istituzioni” e “propagazione di discorsi d’odio”. Ancora più esplicito l’attacco ai partiti di opposizione, in particolare ai membri del partito islamico moderato Ennahda con almeno una ventina di arresti e una dozzina di condanne tra cui l’ex presidente del Parlamento disciolto Rached Ghannouchi e l’ex ministro della giustizia Noureddin Bhiri. Il mese scorso la polizia ha peraltro ha chiuso con i sigilli la sede principale di Ennahda a Tunisi, mettendo di fatto il partito fuorilegge. Giro di vite anche contro il PDL (Parti destourien libre), partito laico di opposizione, in particolare nei confronti della segretaria Abir Moussi, avvocata e parlamentare, arrestata lo scorso ottobre mentre stava presentando un ricorso contro alcuni decreti presidenziali. Kais Saied è stato eletto a furor di popolo nel 2019 con il 72% dei suffragi grazie a un discorso populista e anti-casta, ma nel 2021 sfruttando le norme d’emergenza per contrastare la pandemia di Covid si è attribuito pieni poteri, sospendendo le attività del Parlamento e abrogando la Costituzione del 2014 tramite referendum. L’Iran non spenga la voce di Toomaj Salehi di Luigi Manconi e Kim Valerie Calingasan Vilale La Repubblica, 16 maggio 2024 Palazzi alti e grigi, muri vandalizzati o decorati dai graffiti, sottopassaggi e parcheggi sono spesso lo sfondo urbano dei video di chi fa rap. Sono gli spazi politicizzati che accomunano a livello mondiale gli artisti di questo genere. Tuttavia, è possibile individuare un’importante differenza. Se nei sistemi democratici i rapper vengono ammirati dai giovani e scherniti dai meno giovani, in quelli dispotici essi sono, sì, ammirati dai giovani, ma perseguitati e puniti dai meno giovani: Toomaj Salehi, cantante iraniano, è stato condannato a morte dal tribunale della città di Isfahan. Salehi è stato arrestato per la prima volta nel settembre 2021 per “oltraggio al leader supremo” e per “propaganda contro il regime”, dopo aver pubblicato il brano Soorakh Moosh (Tana del topo). Le parole e il ritmo sincopato di questa canzone hanno accompagnato le proteste organizzate per la morte di Mahsa Amini, avvenuta in carcere dopo essere stata arrestata dalla polizia morale. Divenuto il rapper sostenitore del movimento Donna Vita Libertà, Toomaj Salehi è stato arrestato nuovamente nell’ottobre 2022 per concorso in devastazione e costituzione di un’organizzazione illegale con l’intento di turbare l’ordine e la sicurezza nazionale. Del periodo di detenzione il rapper ha denunciato con un video su YouTube i nove mesi in isolamento, le visite familiari negate, le iniezioni di adrenalina per sopportare il dolore fisico inflitto e le costole, le gambe e le dita fratturate. Questo atto gli costerà il terzo arresto per aver diffuso “menzogne attraverso commenti non documentati online”. Tara Sepehri Far, ricercatrice presso l’Human Rights Watch, ha descritto il sistema giudiziario iraniano come una rappresentazione totalmente distorta della giustizia: i processi iniqui dei tribunali rivoluzionari giudicano gli oppositori della repubblica islamica accusati di guerra contro Dio, ribellione armata e corruzione sulla Terra. Quest’ultimo capo di accusa ha avuto l’effetto di confermare per Toomaj Salehi la pena di morte. In Iran il metodo più comune è l’impiccagione: l’esecuzione avviene poco prima della chiamata alla preghiera canonica del mattino. Ci sono state occasioni in cui il condannato è stato graziato e, quindi, tirato giù dal patibolo dopo essere stato appeso al tanab-e-Dar (cappio), che è anche il titolo di un brano di Toomaj Salehi. Se hai visto il dolore della gente ma hai chiuso gli occhi / se hai visto l’ingiustizia inflitta al debole ma hai girato le spalle / se hai confessato per paura o per tornaconto personale / anche tu sei complice dell’oppressore, dillo: anch’io sono un criminale. / Se ti sei abbandonato al sonno mentre facevano irruzione nelle case / se sei preoccupato per il tuo conto in banca mentre le vite dei giovani sono spazzate via / se sei nel bel mezzo della partita e ti dici indifferente alla politica / sappi solo che non esistono schede bianche, non esiste neutralità in questa guerra. / Se hai coperto le tracce di un omicidio, sei un assassino, / se hai nascosto il crimine sia il tuo un sentiero macchiato di sangue senza questa omertà questo sistema vacillerebbe / L’Iran ha così tante prigioni ma non ci sarebbe posto per tutti / Giornalista venduto o sciacallo, cantante di corte nascondetevi nella tana del topo / Ufficiale al comando, boia nascondetevi nella tana del topo / inutili idioti, infami prendete il vostro denaro e comprateci una tana del topo. Giuro con il sangue, giuro sul latte materno, non rimarrò in silenzio neanche quando salirò sul patibolo / morirò davanti al plotone di esecuzione da fiero leone / percuotimi pure pezzo di merda insignificante / La misericordia nelle mie mani sono la mia roccaforte / c’è del sangue nelle mie lacrime, ma non mi arrenderò / accoglierò la morte / La mia voce appartiene alla strada soffocala pure, non sarà abbastanza / Abbiamo piantato milioni di semi, pronti a lottare, come ombre ci diffonderemo i tuoi spaventapasseri penderanno dalle colonne delle città / Sono apartitico, sono iraniano e immortale / il mio corpo non ti permetterà di manipolare la storia / Anche se ci ammazzi, ci smembri e ci seppellisci rifioriremo in tutta la città / Sono uno di milioni la corda è il mio ultimo messaggio / ti tengo stretta con orgoglio / Versa il tuo sangue per liberare la libertà / ti stringerò forte / la nostra voce abbatterà il muro e ci vedremo dall’altro lato.