Proposta di legge Sciascia-Tortora. “I giudici provino l’esperienza della cella” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 maggio 2024 Il testo punta a far trascorrere 15 giorni in carcere ai futuri magistrati. Promotori la Fondazione Tortora, gli “Amici di Sciascia” e Italiastatodidiritto. “Affinità elettiva”. Ha usato queste parole Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, per descrivere il sodalizio intellettuale tra il conduttore e Leonardo Sciascia, sodalizio che ha dato il nome alla proposta di legge presentata ieri alla Camera con il sottotitolo “per una giustizia giusta”. Il testo, fatto proprio politicamente da Più Europa, prevede, dopo aver vinto il concorso, l’obbligo formativo per i futuri magistrati di passare 15 giorni tra i detenuti comuni, oltre allo studio della letteratura dedicata al ruolo della giustizia e del diritto penitenziario. La proposta arriva da un’idea della stessa Scopelliti di comune accordo con Simona Viola, presidente dell’associazione Amici di Sciascia, che qualche mese fa si sono ritrovate per le celebrazioni del centenario dalla nascita e del trentennale dalla morte del grande scrittore. “In Francia è una disciplina in vigore da decine di anni e non c’è stato bisogno di una legge, visto che è stato deciso dalla Scuola superiore della magistratura”, ha spiegato l’avvocata Viola. Copromossa da Italiastatodidiritto, è stato lo stesso presidente dell’associazione, Guido Camera, a spiegare i termini tecnici del testo. “Siamo i primi a essere consapevoli della difficoltà di permanenza dei magistrati nelle carceri - ha sottolineato Camera - ma occorre restituire prestigio alla garanzia dei diritti nell’ordinamento”. L’idea, in realtà, Un’idea, in realtà, era già stata anticipata dallo stesso Sciascia, che sul “Corriere della Sera” del 7 agosto 1983 lanciò la proposta che i magistrati trascorressero almeno tre giorni con i detenuti. A proposito delle carenze e delle disfunzioni della giustizia, osservò che “un rimedio paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare a ogni magistrato una volta vinto il concorso almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Nemmeno due mesi prima era stato arrestato Enzo Tortora, inizio di un doloroso percorso fino alla piena assoluzione del 15 settembre 1986 in Corte d’Appello, poi confermata nel 1987 in Cassazione. “Sciascia e Tortora avevano tante cose in comune: parlavano a bassa voce, non rinunciavano mai a dire quello che pensavano e avevano una visione della giustizia comune nonostante provenissero da due orientamenti politici differenti - ha detto Scopelliti - Il primo era uno scrittore fine e accorto, il secondo era un lettore fine e accorto”. E non è mancato un attacco ai magistrati, visto che, ha ricordato Scopelliti, “abbiamo mille errori giudiziari all’anno ma oltre il 98% di giudizi eccellenti sui magistrati” e per questo “uno dei due dati è fallace e noi sappiamo qual è”. A presentare la proposta anche Franco Corleone, ex parlamentare e guida della Società della ragione, che ha invitato tutti i magistrati a leggere le fondamenta del nostro stato di diritto, da Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri a Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. I deputati di + Europa Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova, presenti all’incontro, si sono impegnati a presentare il progetto alla Camera e a promuovere un intergruppo parlamentare per raccogliere intorno alla proposta di legge “il più ampio e trasversale consenso” che induca i Presidenti dei due rami del Parlamento a calendarizzarne al più presto la discussione. “La distanza tra la realtà penitenziaria del nostro Paese e la Costituzione appare incolmabile”, ha ricordato Magi, “per questo da noi sono arrivate tre proposte sul carcere, a cui si aggiunge il nostro convinto sostegno a questa proposta di legge”. Tra le battaglie di Più Europa quella sull’introduzione delle case di reintroduzione sociale per i detenuti con meno di un anno di reclusione e quella sull’affettività in carcere, fino a quella per la riforma dell’articolo 79 della Costituzione su amnistia e indulto. “Ci daremo immediatamente da fare per convincere più colleghi possibili sulla bontà della proposta di legge Sciascia- Tortora - ha concluso il segretario di Più Europa - e magari tra qualche mese ci ritroveremo qui con notizie positive”. Pene sproporzionate per i reati minori. Si mobilitano le Ong di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2024 Persone che commettono piccoli reati, come furti, possesso di droga o vendita di prodotti falsi, vengono punite troppo severamente. Le pene non solo comportano multe o brevi periodi in carcere, ma anche conseguenze negative a lungo termine che possono rovinare la loro vita. Per questo motivo, diverse organizzazioni provenienti da Francia, Germania, Ungheria, Italia e Spagna (tra cui CILD e Progetto Diritti in Italia) si sono unite per lanciare la campagna “Reati minori, Pene maggiori”. Il loro obiettivo è quello di fermare le condanne ingiuste e sproporzionate per reati di lieve entità. Cosa chiedono? Che i diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea, come il diritto al silenzio, ad un avvocato e ad un interprete, vengano applicati anche a chi commette piccoli reati. In tutta Europa, sempre più persone sono soggette a una crescente criminalizzazione e punizione per presunti reati minori, spesso senza alcuna garanzia dei diritti procedurali fondamentali. L’applicazione dei reati minori sembra concentrarsi in particolare su individui provenienti da comunità svantaggiate, persone in condizioni di povertà e altri gruppi emarginati. Queste pratiche non solo sono diffuse, ma le conseguenze previste sono spesso sproporzionate, con impatti significativi sulla vita degli individui, che vanno dalle multe insormontabili alla detenzione, fino a conseguenze negative sull’immigrazione. In Italia, come altrove, la criminalizzazione dei reati minori colpisce in modo discriminatorio i gruppi emarginati, specialmente i migranti. Molti casi partono da reati come piccoli furti, possesso di quantità minime di droga o vendita di prodotti contraffatti, che iniziano con sanzioni apparentemente leggere ma che poi si trasformano in pesanti penalità e possibili conseguenze amministrative, tra cui il divieto di rinnovo del permesso di soggiorno, l’espulsione e altre questioni burocratiche. Una volta espulsa dal paese, una persona può trovarsi di fronte a multe aggiuntive che oscillano tra i 10.000 e i 20.000 euro per il semplice fatto di non rispettare un ordine di lasciare il territorio dopo l’espulsione. Così, un reato minore può innescare una catena di eventi che cambia drasticamente la vita di queste persone in Italia. La tendenza a livello europeo verso procedure legali sempre più rapide e semplificate, in nome dell’efficienza, ha contribuito a facilitare la criminalizzazione su vasta scala, spesso senza una valutazione adeguata dei fatti o delle ingiustizie sottostanti. Questo ha aperto la porta a un’applicazione arbitraria, abusiva e discriminatoria della legge. In alcuni casi, le forze dell’ordine hanno esteso i loro poteri in modo che siano relativamente libere dal rispetto dello stato di diritto. La profilazione da parte della polizia ha portato al controllo sproporzionato delle persone in base alla loro condizione economica, al loro status migratorio, alla loro origine etnica, alla loro identità razziale, al genere o all’orientamento sessuale, alla loro situazione abitativa e ad altri fattori. Le misure di contrasto spesso mirano a allontanare le persone considerate “indesiderabili” dai luoghi pubblici, con multe per reati contro l’ordine pubblico. Altre volte, le persone sono punite per reati legati alla povertà, come viaggiare senza biglietto su mezzi pubblici o piccoli furti. Anche i reati legati alla droga sono soggetti a una applicazione rigorosa della legge, nonostante l’efficacia dimostrata di approcci basati sull’evidenza come la regolamentazione delle sostanze e la riduzione del danno. Tutto ciò viola sistematicamente i diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, tra cui il diritto a un ricorso effettivo e a un processo equo, la presunzione di innocenza, il diritto di difesa, i principi di legalità e proporzionalità, il diritto all’uguaglianza davanti alla legge, il divieto di discriminazione e le libertà di circolazione e di residenza. In risposta a queste problematiche, la campagna “Reati minori, Pene maggiori” invita l’Ue ad ampliare le direttive sui diritti procedurali per includere i casi di lieve entità tra quelli che rientrano tra le tutele garantite dalla Carta dei diritti fondamentali. È fondamentale che tutti i candidati alle elezioni del Parlamento europeo prendano posizione su questo tema cruciale per assicurare un sistema giudiziario equo e rispettoso dei diritti di tutti i cittadini europei. “Ora si dia seguito alla sentenza della Corte sull’affettività in cella” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2024 Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, hanno inviato una lettera alle direzioni degli istituti penitenziari del Lazio per sollecitare l’attuazione della sentenza n. 10/ 2024 della Corte costituzionale che ha sancito il diritto dei detenuti ad avere colloqui intimi con i propri partner. La sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di polizia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. I Garanti sottolineano che la Corte ha indicato una serie di criteri per l’organizzazione di questi colloqui, tra cui la durata adeguata, la possibilità di consumare pasti e la riservatezza del luogo. Hanno sottolineato che la Corte, in questa pronuncia, ha scelto di emettere una sentenza additiva con efficacia “erga omnes”, ovvero che tutti i soggetti sono tenuti a rispettare questa tipologia di sentenze. “Pertanto”, continuano i Garanti, “la Corte enuncia una serie di regole e criteri che possono essere utilizzati, almeno in una fase iniziale, dall’amministrazione penitenziaria per orientarsi nella concreta attuazione del contenuto della sentenza, che è già operante dal momento della sua pubblicazione”. Ad esempio, la Consulta specifica che la durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di permettere al detenuto e al suo partner di esprimere pienamente la loro affettività. Di conseguenza, queste visite devono poter avvenire con una frequenza tale da non ostacolare il raggiungimento dello scopo principale: preservare la stabilità della relazione affettiva. Inoltre, la Consulta ha ipotizzato la creazione di unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti. I Garanti evidenziano che, in attesa di un intervento normativo organico, è già possibile dedicare spazi ai colloqui intimi all’Interno delle carceri, “laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano”. Nella missiva si chiede alle direzioni delle carceri di comunicare quali iniziative siano state intraprese per dare attuazione alla sentenza e se siano stati individuati degli spazi idonei. I Garanti sottolineano l’importanza dei colloqui intimi per il mantenimento dei legami affettivi dei detenuti e per il loro reinserimento sociale. “Questi colloqui, - spiegano Anastasìa e Calderone nella missiva - rappresentano uno strumento fondamentale per il trattamento e la rieducazione dei detenuti, contribuendo a mantenere i legami familiari e a contrastare l’isolamento sociale”. Per questo motivo invitano le direzioni delle carceri ad attivarsi per dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale e a garantire il diritto dei detenuti ad avere colloqui intimi con i propri partner. Ergastolo per Alessia Pifferi: giustizia è fatta? di Barbara Rosina huffingtonpost.it, 15 maggio 2024 È colpevole, dice la sentenza di primo grado, che non commento. Ma nessuno, dico nessuno, in questa vicenda, può dirsi assolto per la morte della piccola Diana. Ora che la sentenza di primo grado è pronunciata, ora che i titoli raccontano dell’indifferenza della madre, del pianto della zia, della soddisfazione della nonna perché sua figlia, non avendo chiesto scusa, ha avuto quello che meritava, l’ergastolo, giustizia è fatta? Diana è morta a 18 mesi di stenti, dopo più di 500 giorni da non augurare a nessun bambino venuto al mondo. Alessia, la donna che l’ha partorita nel bagno di casa, è dietro le sbarre consapevole o no di quello che ha fatto dal momento stesso in cui è rimasta incinta, dice, senza saperlo, a quando ha deciso di tenere per sé quella figlia. Lei, Alessia Pifferi, è colpevole, così dice la sentenza che non commentiamo. Ma nessuno, dico nessuno, è assolto. In quanti non hanno visto o hanno finto di non vedere che la situazione poteva essere preoccupante e che Alessia poteva avere bisogno di aiuto? Chi le stava più vicino, chi si è fatto i fatti suoi, chi l’ha incontrata, chi le ha regalato un peluche per Diana, chi festeggia per l’ergastolo. Le cronache mediatiche ripercorrono la storia della colpevole attraverso le parole del suo avvocato difensore che la voleva assolta o al massimo condannata per “abbandono di minore”: “una ragazza che è cresciuta in assoluto isolamento morale e culturale che da piccola ha subito abusi, è stata vittima di violenza assistita, non è andata a scuola, ha un deficit cognitivo, è vissuta senza avere un lavoro, era in condizioni di estrema indigenza”. Nessuno se n’è accorto? Nessuno ha pensato fosse il caso di insistere perché, chi? Servizi sociali, forze dell’ordine, strutture di sostegno alle donne, istituti religiosi, strutture sanitarie… Chiunque potesse puntare lo sguardo e intervenire su una situazione di degrado e solitudine che ha avuto la sua fine soltanto quando Diana, il 20 luglio del 2022 fu trovata morta nella casa dove era stata lasciata sei giorni prima, sola, con un biberon di latte. Di Diana e Alessia abbiamo parlato qualche giorno dopo il ritrovamento della bambina, mentre i media, i social, si scatenavano nel mostrare quella donna in abito rosso e sorridente, quella donna che aveva lasciato morire la figlia. Allora, come oggi, penso che siamo tutti responsabili di quella morte. Chi indica il capro espiatorio, cercando di allontanare da sé ogni responsabilità, se la prenderà con noi assistenti sociali, con gli psicologi, con l’insegnante di sostegno, con i medici, con il Comune. Noi non lo facciamo. Entriamo nelle vite degli altri o su richiesta diretta di chi ritiene di avere una difficoltà o un problema, o su segnalazione delle tante “sentinelle” che sono sul territorio: la scuola, il pediatra di libera scelta, i consultori, il personale dei centri vaccinali, le forze dell’ordine, la famiglia, gli amici, i vicini di casa. Per quanto ne sappiamo, noi la soglia di quella casa non l’abbiamo varcata. Non abbiamo sentito? Abbiamo sottovalutato? Non ci hanno mandati? Non difendo la categoria a prescindere e non lo faccio neanche stavolta. Ma a chi può permettersi di accusare davanti alle telecamere o nei talk show - noi non possiamo farlo, noi non possiamo parlare delle singole vicende, ce lo impedisce il nostro codice deontologico, ce lo impedisce il rispetto della privacy - sono io a fare la domanda: e lei dov’era? Dal sorriso smagliante, dall’abito rosso alle immagini di ieri. Mentre arriva la sentenza di ergastolo, le riprese si fermano sul volto privo di espressione, inebetito di Alessia che va a San Vittore mentre il suo avvocato annuncia ricorso. C’è una colpevole, ma “per quanto voi vi crediate assolti”, siamo lo stesso coinvolti! Luana, Rosa, Nadia: chi sono le 38 donne all’ergastolo in Italia di Fulvio Fulvi Avvenire, 15 maggio 2024 In attesa dei giudizi di appello, Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo dai giudici di Milano per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana di diciotto mesi, sarà presto trasferita nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La struttura carceraria, senza sbarre nè celle, dispone di un reparto femminile chiamato “Arcobaleno” dove sono ospitate altre donne che hanno ucciso i propri figli e affrontano un percorso di recupero e cura. Alla data del 30 aprile, secondo i dati del ministero della Giustizia, erano 2.649 le donne presenti nelle carceri italiane, sul totale di 61.297 persone recluse. Di queste, 20 hanno almeno un figlio di meno dodici mesi al seguito (in tutto 23), gran parte dei quali ospitati negli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca”, Cagliari e Lauro in Campania. E sono 38, con la Pifferi, le ergastolane mentre 72 devono scontare una condanna oltre i 20 anni. Si tratta, perlopiù, di terroriste o affiliate a organizzazioni criminali di tipo mafioso. Dodici le carcerate sottoposte al 41bis, tutte ristrette nell’istituto penale dell’Aquila “Le Costarelle”: vivono in uno stato di isolamento assoluto. Una donna su dieci è in regime di alta sicurezza. Ogni reclusa condannata al “fine pena mai” porta sempre con sé una storia di violenze e dolore. La 36enne Luana Cammalleri è finita dentro per aver ucciso il marito, in complicità con l’amante. Il cadavere dell’uomo, un imprenditore agricolo del Palermitano, non è stato ancora rinvenuto. La sentenza della Corte d’Assise del capoluogo siciliano è stata pronunciata il 19 aprile scorso. Condannata in via definitiva all’ergastolo, invece, è la 74enne di Fagnano Olona, Melita Aina, anch’essa accusata di aver ucciso il consorte in concorso con altre due persone, il 12 aprile del 2014 a Somma Lombardo, in provincia di Varese. La donna è rinchiusa nella Casa circondariale di Como, accusata di essere la mandante dell’omicidio, si è sempre proclama innocente mentre i due esecutori, di origini tunisine, sono fuggiti all’estero. Rosa Bazzi, oggi 60 anni, condannata con il marito Olindo Romano per la strage di Erba (avvenuta l’11 dicembre del 2006), dove morirono quattro persone, sconta il suo ergastolo (confermato anche in Cassazione) nel carcere di Milano Bollate. È al centro di una vicenda giudiziaria che ha fatto molto discutere dividendo gli italiani in “innocentisti” e “colpevolisti”. Dopo un ricorso alla Corte europea di Giustizia, 17 anni dopo i fatti, si discute la legittimità dell’istanza di revisione del processo: sono attualmente al vaglio dei giudici della corte d’Appello di Brescia presunte nuove prove che scagionerebbero i coniugi. Tra le madri finite dietro le sbarre per aver ucciso figli c’è anche Veronica Panarello che nel 2014 a Santa Croce Camerina, nel Ragusano, strangolò il figlio Loris Stival di 8 anni con delle fascette di plastica lasciandone il cadavere in un canalone, a 4 chilometri dalla scuola che frequentava: disse di meritare l’ergastolo, ma alla fine fu condannata a 30 anni. Ma in carcere a scontare il “fine pena mai” si trovano anche le sorelle Silvia e Paola Zani, di 30 e 22 anni, condannate (con Mirto Milani, compagno di Silvia) per l’omicidio della madre Laura Ziliani, ex vigilessa di Temù, in provincia di Brescia, strangolata nella notte del 7 maggio 2021 e poi gettata in un fiume. Ma non ci sono solo le “madri assassine”. Al 41bis, ristrette in una cella singola con una branda, un tavolo e una sedia incollata al pavimento, sorvegliate a vista dagli agenti di polizia penitenziaria perché ritenute pericolosissime, sono in dodici. Tra loro Teresa De Luca Bossa, la prima “Lady camorra” della storia criminale italiana (ha ispirato il personaggio di Scianel in Gomorra), finita dentro nel giugno del 2000 con altri 79 camorristi accusati di aver partecipato all’uccisione, con un’autobomba, del pregiudicato Luigi Amitrano. Nella lista “nera” delle recluse troviamo anche Nella Serpa, detta “la bionda”, arrestata nel marzo del 2012, una vera e propria boss della ‘ndrangheta di Paola, nel Cosentino, sorella di Pietro, ucciso da una cosca avversaria nel 2003, dal quale ha “ereditato” gli affari della ‘ndrina, tra cui un fiorente traffico di droga. Maria Licciardi, 73 anni, è conosciuta anche ‘a Piccerella (la piccolina, in napoletano), membro dell’associazione criminale “Alleanza di Secondigliano” arrestata dai carabinieri all’aeroporto di Ciampino mentre cercava di scappare, il 7 agosto 2021, dopo due anni di latitanza: detenuta anch’essa nella Casa circondariale dell’Aquila (dove è stato rinchiuso anche Messina Denaro), dopo essere stata per anni a Rebibbia, è ritenuta responsabile di aver organizzato traffico di droga e racket delle estorsioni in quartieri di Napoli e di aver ordinato la morte di esponenti di cosche nemiche. Carcere duro anche per l’anarchica Nadia Desdemona Lioce è stata un’esponente di spicco delle Nuove Brigate Rosse, condannata tra l’altro per aver fatto parte del commando che uccise i giuristi Massimo D’Antona nel 1999 e Marco Biagi nel 2002. Con lei, in altre celle, anche le brigatiste Laura Proietti e Diana Blefari, condannate per gli stessi delitti Giustizia: nessuna riforma, molta repressione. È questa la ricetta del governo manettaro di Paolo Comi L’Unità, 15 maggio 2024 Nessun ddl pensato a via Arenula è stato approvato. La “riformina” Nordio è al palo in commissione, come quella sulle intercettazioni. Della separazione delle carriere, dopo tanti annunci, neppure l’ombra. Il governo Meloni ha giurato al Quirinale il 22 ottobre del 2022 ed il bilancio in materia di giustizia, a distanza di circa un anno e mezzo dal suo insediamento, è sostanzialmente fallimentare. È inutile girarci tanto intorno. Ad oggi, infatti, non risulta essere stato approvato alcun disegno di legge pensato dagli uffici di via Arenula, un record negativo che non ha molti precedenti nella storia repubblicana. Il ddl 808, intitolato pomposamente “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare”, meglio noto come “riforma Nordio”, è incagliato da mesi in Commissione giustizia a Montecitorio e, difficilmente, vedrà la luce prima delle prossime elezioni europee. Anzi, visto il clima all’interno della maggioranza, c’è il concreto rischio che venga tutto rimandato a dopo l’estate. La norma prevede piccole riforme, come l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio, la riscrittura di quello di traffico d’influenze, la modifica dei provvedimenti cautelari e dell’avviso di garanzia, la non appellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm in alcuni limitati casi. Nulla di particolarmente significativo e che apporti modifiche di sistema all’ordinamento giudiziario, come la separazione delle carriere fra pm e giudici, la riforma del Consiglio superiore della magistratura, l’istituzione di una Alta corte disciplinare per evitare che i magistrati si giudichino fra loro, o al codice di rito per garantire l’effettiva parità fra accusa e difesa. Si tratta di riforme, va detto, più volte annunciate dallo stesso Nordio in questi mesi come fondamentali ma di cui nessuno ha però ancora letto una riga. Un’altra riforma di civiltà e quanto mai necessaria in questi giorni è quella delle intercettazioni, anch’essa incagliata nei meandri del Parlamento. La riforma, definita “bavaglio” dai pm e dai loro giornali di riferimento, prevede il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare e delle telefonate penalmente irrilevanti. Quindi la quasi totalità di ciò che si legge sui giornali a proposito del caso Toti. In questo scenario da disfatta, in materia di giustizia sono stati comunque approvati tantissimi provvedimenti. Il problema, purtroppo, è che sono provvedimenti “pensati” al Viminale, e quindi in ottica puramente repressiva e finalizzata al controllo di polizia, che hanno prodotto una girandola di nuovi reati, tutti con pene altissime. Il primo di questi provvedimenti è il decreto “Rave” del 31 ottobre 2022 che prevede la reclusione da 3 a 6 anni di prigione e la multa da 1000 a 10mila euro per chi “organizza o promuove l’invasione di edifici o terreni al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento”. A seguire, il 10 marzo 2023, il decreto “Cutro” che ha modificato il testo unico dell’immigrazione, il dlgs Turco-Napolitano, inserendo l’articolo 12bis: “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da 15 a 24 anni. La pena arriva 30 anni in caso di morte di più persone. Poi c’è il decreto “Giustizia”, il 105 del 2023, con il reato di “abbandono di rifiuti”, punito con l’ammenda fino a 10mila euro, raddoppiata in caso di rifiuti pericolosi. Una attenzione particolare è rivolta all’orso marsicano. Il testo prevede infatti il carcere fino a 2 anni per chi lo “abbatte, cattura o detiene”. Merita di essere ricordata la legge 138, sempre del 2023, che ha introdotto nell’ordinamento, dopo l’omicidio stradale, il delitto di “omicidio nautico e lesioni personali nautiche gravi o gravissime”, con pene da 2 a 7 anni che arrivano fino a 12 se ci si trova in stato di ebbrezza o dopo aver assunto degli stupefacenti. Fra i decreti ‘ispirati’ da Matteo Piantedosi c’è anche il “Caivano” che ha modificato il codice penale prevedendo un nuovo reato, il 421-bis, “Pubblica intimidazione con uso di armi”, e la legge sulle armi del 1975, con l’introduzione del divieto di “porto di armi per cui non è ammessa licenza”. Le pene, anche in questo caso, sono altissime e vanno dai 3 agli 8 anni di prigione. Poi ci sono aggravanti se il porto illegale avviene vicino a scuole, banche, parchi e stazioni. Il decreto Caivano ha previsto anche il 570-ter codice penale, “Inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori”, con pene fino a 2 anni. La pena è di un solo anno se il minore, pur andando a scuola, fa delle assenze che non sono giustificate dai genitori. Lo scorso novembre, all’indomani del conflitto in Palestina, è la volta del dl “Sicurezza”. Altro reato: “Detenzione di materiale con finalità di terrorismo”, con la reclusione da 2 a 6 anni per chiunque si procura o detiene materiale finalizzato a preparare atti di terrorismo. La reclusione è da 6 mesi a 4 anni per chi distribuisce, diffonde o pubblicizza materiale contente istruzioni per la preparazione e l’utilizzo di materie esplodenti, al fine di attentare all’incolumità pubblica. Il dl modifica per l’ennesima volta in un anno il codice penale. Fra i nuovi reati, il 634bis: “Occupazione arbitrarie di immobile destinato a domicilio altrui”. Pene, tanto per cambiare, altissime: da 2 a 7 anni di prigione. Quindi, il 600-octies: “Induzione e costrizione all’accattonaggio”, con la reclusione da 2 a 6 anni, aumentata se il fatto è commesso con violenza o minaccia o nei confronti di minori di anni 16. Segue il 583 quater: “Lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni, nonché a personale esercenti una professione sanitaria o socio sanitaria”, punito con la reclusione da 2 a 5 anni. Che passano da 8 a 16 in caso di lesioni gravissime. Fra i nuovi reati, come non segnalare infine quello di “Rivolta in istituto penitenziario”, con pene da 2 ad 8 anni per chi la organizza, e da uno a 5 per chi vi partecipa. La pena arriva fino a 10 anni se viene fatto uso di armi. In caso qualcuno resti ferito durante la rivolta, la pena arriva addirittura a 20 anni. Stesse pene se le rivolte vengono organizzate all’interno dei centri di permanenza o accoglienza dei migranti. E per fortuna che Carlo Nordio aveva la fama di essere un liberale e garantista. “Sì alla separazione delle carriere”. Parla Esposito, ex procuratore generale della Cassazione di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 maggio 2024 “La separazione delle carriere fra pm e giudici è la conseguenza logica e razionale della riforma del processo penale in senso accusatorio del 1989”, dice Vitalino Esposito. “Per l’Anm il pm finirà sotto l’esecutivo? Una bestialità”. “La separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici è la conseguenza logica e razionale della riforma del processo penale in senso accusatorio avvenuta nel 1989”. Ad affermarlo, intervistato dal Foglio, è Vitaliano Esposito, ex magistrato con una carriera alle spalle lunga quasi cinquant’anni (dal 1963 al 2012), e conclusasi con l’incarico prestigioso di procuratore generale della Cassazione, una delle figure di vertice dell’intera magistratura. Esposito parla ovviamente senza riferirsi nello specifico alla riforma Nordio, di cui ancora non sono noti i contenuti. L’ex pg della Cassazione, però, respinge l’idea di un attacco all’indipendenza dei magistrati, così come la profezia avanzata dall’Anm secondo cui la separazione porterebbe alla sottoposizione del pm all’esecutivo: “È una bestialità”. “Negli anni Ottanta feci parte della commissione della riforma del codice di procedura penale, ero in ottimi rapporti con Vassalli, che era stato mio professore di Diritto penale all’Università di Napoli”, racconta Esposito. “Vassalli - aggiunge - non voleva che il nuovo codice accusatorio fosse approvato perché riteneva che fosse necessario prima effettuare la separazione delle carriere. Insomma, non si poteva fare il nuovo codice senza le riforme ordinamentali. La stragrande maggioranza dei magistrati presenti nella commissione, tuttavia, spinse perché il nuovo codice venisse approvato, come poi è avvenuto”. Le cose sono andate invece diversamente in Portogallo, che “nel 1988 si è munito di un codice che è la traduzione pedissequa del nostro codice, ma soltanto dopo aver effettuato le riforme ordinamentali, con la creazione di due Consigli superiori della magistratura, uno per i giudici, l’altro per i procuratori”, sottolinea Esposito. “Alla stessa conclusione è arrivata anche la Francia che, pur mantenendo un sistema inquisitorio, si è dotato di due sezioni separate nell’ambito di un unico Consiglio superiore della magistratura. Noi invece abbiamo voluto introdurre un processo all’americana, mantenendo però un ordinamento da processo inquisitorio”, dice l’ex pg della Cassazione. Eppure, prosegue Esposito, “la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici è la conseguenza logica e razionale della riforma del processo penale in senso accusatorio avvenuta con l’approvazione del codice Vassalli”. “Il fatto che il pm assuma la funzione di inquirente nella fase inquisitoria del procedimento e di parte nella fase accusatoria porta a escludere che lo stesso possa far parte di un unico corpo con il giudice. La funzione e il ruolo di giudice e pubblico ministero appaiono ontologicamente diverse”, spiega Esposito. “La separazione delle funzioni è connaturata con quella organica - aggiunge -. Nella fase accusatoria, infatti, il pubblico ministero fa valere dinanzi al giudice e nei confronti dell’imputato elementi di prova, raccolti nell’ambito di una fase inquisitoria, di concerto e con l’ausilio delle forze di polizia”. Se si afferma la necessità di separare le carriere, per Esposito “si deve derivarne come naturale conseguenza l’istituzione di un separato organo di autogoverno per i pubblici ministeri: solo in questo modo si può garantire anche al pm l’indipendenza rispetto all’esecutivo e a ogni altro potere dello stato”. Dunque non condivide l’idea di chi, come l’Associazione nazionale magistrati, sostiene che la separazione delle carriere porterà inevitabilmente alla sottoposizione del pubblico ministero al potere politico? “Questa, a mio avviso, è una bestialità - replica Esposito -. Per quale motivo oggi noi affermiamo che la magistratura è autonoma e indipendente? Perché esiste un Consiglio superiore della magistratura che è autonomo e indipendente rispetto a tutti gli altri poteri dello stato. Se vengono istituiti due Consigli superiori, ciascuno dei quali è autonomo e indipendente, non c’è nessuna ragione per parlare di pm sottomesso al potere esecutivo”. L’ex pg della Cassazione, però, ci tiene ad aggiungere che, nel caso si procedesse alla separazione delle carriere, “ci sarebbe la necessità di regolamentare con chiarezza i compiti di indagine del pubblico ministero e i suoi rapporti con la polizia giudiziaria, questo per evitare che venga a crearsi un corpo separato dello stato in grado di incidere sugli equilibri democratici”. “Per poter esprimere un parere motivato è comunque necessario leggere il testo della proposta Nordio, con particolare attenzione al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che costituisce uno dei cardini dell’attuale ordinamento”, conclude Esposito. Giustizia, la separazione delle carriere non serve di Massimo Solari Italia Oggi, 15 maggio 2024 Se ne parla dai tempi di Berlusconi, ma non accorcerebbe la durata dei processi. La riforma può passare solo con delle modifiche alla Costituzione. “Serve a qualcosa la separazione delle carriere?” Quasi tutti i magistrati da me interpellati hanno risposto di no, e lo stesso ha fatto il congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, riunito a Palermo nei giorni scorsi. Molti magistrati hanno il timore che la separazione preluda ad un controllo dell’Esecutivo sulle Procure e che la divisione delle carriere renda i Pm meno indipendenti e imparziali. La riforma costringerà anche alla modifica di diversi articoli della Costituzione, che - fino ad oggi - prevede che i magistrati facciano parte di un unico ordine e siano soggetti solo alla legge e al Csm. Fortemente voluta da Berlusconi che la brandiva come un’ascia verso la procura di Milano, oggi la questione ci sembra più un culto della memoria che un’esigenza attuale. I processi non durerebbero nemmeno un giorno in meno - Facciamo la tara alle dichiarazioni dei magistrati. Se Meloni o Nordio promuovessero una legge che raddoppia gli stipendi dei giudici loro risponderebbero che questa misura “è diretta a minare la nostra indipendenza” e, alla fine, a violare lo spirito della Costituzione. Ma hanno ragione quando dicono che la riforma non accorcerebbe di un giorno la durata dei processi e, alla fine, sembra solo punitiva senza spiegare quali vantaggi deriverebbero dalla sua introduzione. Ci sono procuratori politicizzati e con l’animo della rockstar, ma sono una infima minoranza. Non solo: il Pm che passa al ruolo del giudicante porta con sé tutta l’esperienza maturata nel condurre le indagini e il giudice che va in Procura ha il vantaggio dell’aver esercitato la giurisdizione e così una maggiore equanimità. Vedendo i numeri, lo scambio è oggi molto limitato e non presenta criticità. Non solo, una recente modifica legislativa ha limitato il numero totale degli scambi di ruolo: in base alle norme attuali, stabilite nel 2006, un magistrato nel nostro Paese può al massimo cambiare quattro volte la propria funzione nel corso della carriera. Fino al 2018 hanno cambiato funzione quattro volte o più 72 magistrati, un numero pari allo 0,6 per cento del campione e solo in 13 hanno cambiato funzione più di quattro volte. Riforma di scarsissimo interesse per la collettività - Si preannuncia una riforma fortemente avversata dai suoi utilizzatori finali ma di scarsissimo interesse per la collettività. L’unica spiegazione di Nordio è che oggi c’è troppa contiguità tra giudice e Pm, che provengono dallo stesso bacino e ciò penalizza l’avvocato che difende l’imputato. Se la disparità tra accusa e difesa è palpabile, ciò non diminuirebbe nel caso della separazione delle carriere: il pubblico ministero tutela l’interesse collettivo mentre l’avvocato difensore rappresenta solo il singolo imputato; libero il Pm da interessi personali, portatore l’avvocato di interessi cogenti (evitare per quanto è possibile la condanna alla galera). Pochi ricordano che nel 2022 e cioè meno di due anni fa il referendum sulla separazione delle carriere ha raccolto solo il 20,9% dei voti (anche se i sì avevano raccolto il 74% dei suffragi). Identico disinteresse avevano mostrato gli elettori agli altri quattro quesiti referendari (incandidabilità dopo una condanna, limitazione delle misure cautelari, membri laici nei consigli giudiziari e sull’elezione dei componenti togati del Csm). I referendum, promossi da Salvini sull’onda della vicenda Palamara, non sono passati per il non raggiungimento del 50% più uno degli aventi diritto al voto. Dal governo finora nessun atto concreto - Resta il fatto che ad oggi, oltre alle dichiarazioni del Guardasigilli Nordio non c’è nessun documento scritto proveniente dal Governo per poter giudicare la possibile riforma. Stanno litigando sul nulla, dunque? Resta, sullo sfondo, la misteriosa polemica del ministro della difesa, Guido Crosetto, contro l’intera magistratura che definisce: “Un potere che non ha più controlli, politicizzato e da cui bisogna difendersi”. Sempre Crosetto, nello scorso dicembre, in Parlamento, aveva dichiarato: “Non ho attaccato e non attaccherò mai le toghe, ho totale fiducia nei magistrati”. Il costo della corruzione, l’allarme dell’Anac: “Danni inestimabili” di Paolo Baroni La Stampa, 15 maggio 2024 Dati poco incoraggianti su subappalti, affidamenti diretti e controlli. Il presidente Busia: “Tra le vittime ci sono anche i morti sul lavoro”. “Nonostante gli sforzi compiuti, l’Italia registra ancora dati poco incoraggianti sul fronte della lotta alla corruzione”, avverte il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia nella sua relazione annuale, in cui lamenta i troppi affidamenti diretti nel campo degli appalti, i continui tentativi di scardinare le regole e limitare i controlli (come nel caso della diga di Genova e del ponte sullo Stretto), i limiti del nuovo Codice degli appalti, l’assenza di una legge per regolamentare le lobby e i rischi connessi all’introduzione dell’intelligenza artificiale nel campo degli appalti e della Pa. “La classifica degli Stati membri sullo stato di diritto, contenuta nell’ultimo rapporto dell’European Court of Auditors, la Corte dei conti europea, vede il nostro Paese in una posizione ancora troppo arretrata” ha spiegato ieri Busia nel suo intervento alla Camera, ricordando che dal rapporto 2023 sulle attività della Procura europea (Eppo), “l’Italia risulta il Paese con il valore più alto in termini di danni finanziari al bilancio dell’Ue stimati a seguito di frodi e malversazioni, anche riconducibili alla criminalità organizzata”. Quanto all’Anac nel 2023, nell’ambito della vigilanza in materia di anticorruzione e trasparenza, l’Autorità ha gestito 1.294 istruttorie, oltre ad aver avviato 395 procedimenti e gestito 441 istanze di precontenzioso. Per Busia “è essenziale” prevenire la corruzione “ancor prima che reprimerla”, “per evitare che la sua ombra si distenda sulla società, sull’apparato pubblico e sul tessuto produttivo, pregiudicando prospettive di lavoro e di vita”. A suo parere, infatti, la corruzione “mortifica legittime aspettative, deteriora la qualità dei servizi pubblici, rafforza le mafie, inquina la democrazia. Ha un costo, quindi, sociale, civile e umano, oltre che economico”. E sono vittime della corruzione anche i morti sul lavoro. “Anche quando non uccide - ha poi aggiunto il presidente dell’Anac - la corruzione arreca danni inestimabili, affinando le sue armi con mezzi sempre più subdoli. Opere non ultimate, o completate con smodati ritardi e sperpero di risorse pubbliche. Imprese sane che falliscono a causa di un mercato poco aperto e trasparente. Giovani eccellenze costrette a cercare all’estero chance di realizzazione professionale, sottratte in patria da concorsi poco trasparenti”. Sono molte le criticità segnalate da Busia a partire dai troppi affidamenti diretti che hanno raggiunto oltre il 90% del totale (78% se si escludono dall’insieme i contratti sotto i 40.000 euro), percentuale sale oltre il 95% se si considerano anche le procedure negoziate. E Busia, in particolare, ha ricordato che il nuovo Codice degli appalti, oltre a non prevedere l’obbligo di avvisi o bandi per i lavori fino a 5 milioni di euro, consente di acquistare beni o affidare servizi fino a 140.000 euro senza neanche il vincolo di richiedere più preventivi. Una scelta questa già criticata a suo tempo e su cui l’Anac ora sollecita un ripensamento. Nel complesso parliamo di una torta che nel 2023, anche per effetto del Pnrr, ha toccato quota 283,4 miliardi, il 36,4% in più rispetto al 2021 e addirittura un +65,9% sul 2019. Il presidente dell’Anticorruzione segnala poi la poca attenzione all’occupazione femminile e giovanile nel Pnrr (nessun aumento rispetto al 2022), i rischi della crescita smisurata dei “medici a gettone”, l’ingiustificato ricorso ai subappalti anche quando non servono lavorazioni particolari. E per questo Busia definisce “cruciale una vigilanza rigorosa, posto che i rischi appaiono crescenti man mano che si scende lungo la catena degli affidamenti e dei sub-affidamenti. Quando non vi è una giustificazione legata a lavorazioni o funzioni particolari, nei subappalti a cascata a perdere qualcosa sono spesso i lavoratori, le imprese subappaltatrici e la stessa stazione appaltante”. Il presidente dell’Anac ha poi richiamato la necessità di una legge di regolamentazione delle lobby e l’esigenza di recepire la direttiva europea Anticorruzione, stoppata in Italia in commissione parlamentare e poi ha messo in guardia sull’introduzione dell’intelligenza artificiale negli appalti pubblici e nella Pa. “Sarà fondamentale che le decisioni assunte con tali sistemi siano ispirate a rigorosi criteri di non discriminazione algoritmica - ha sostenuto Busia - e che la decisione ultima sia comunque riservata alla persona”. Unici dati positivi la digitalizzazione degli appalti, entrata a pieno regime, e la qualificazione delle stazioni appaltanti scese dalle precedenti 26.500 unità a 4.353 soggetti qualificati. Ma anche in questo caso bisognerebbe però rivedere le deroghe: troppe quelle previste dalla legge. Milano. Psicofarmaci all’Ipm “Beccaria”: l’altra faccia di abusi e torture di Luca Rondi altreconomia.it, 15 maggio 2024 Tra il 2020 e il 2022 l’acquisto di benzodiazepine, sedativi e antipsicotici è cresciuto del 291%. Una contenzione farmacologica di fatto che si accompagna alla violenza sistematica sui giovani reclusi e sulla quale indaga la Procura anche dopo gli arresti di metà aprile. “Quella struttura va chiusa e ripensata dalle fondamenta”, osserva Michele Miravalle di Antigone. “I ragazzi distesi a letto alle 11 di mattina in un giorno infrasettimanale: stanchi, secondo il personale, a causa di poche ore di scuola. Alcune situazioni le abbiamo osservate solamente al ‘Beccaria’”. Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che monitora le condizioni dei reclusi nelle carceri italiane, ricorda bene le “sezioni sedate” dell’Istituto penale per minorenni milanese. Lo stesso in cui l’acquisto di psicofarmaci, secondo i dati ottenuti da Altreconomia, è aumentato del 219% tra il 2020 e il 2022. I farmaci sono l’altra faccia degli abusi e delle torture per cui sono indagati 21 agenti della polizia penitenziaria, poco meno della metà di quelli in servizio (50). “Oggi sappiamo -riprende Miravalle- che la vitalità che caratterizza tutti gli Ipm veniva narcotizzata con due strategie: la violenza e la contenzione farmacologica”. E lo raccontano le spese effettuate dal presidio medico interno all’Ipm. Come detto, dal 2020 al 2022 la crescita della spesa totale in psicofarmaci è del 219%, passando da 715 euro a 2.173. Un dato al ribasso perché l’Agenzia di tutela della salute (Ats) milanese non ha comunicato il codice Atc, cioè l’etichetta che contraddistingue ogni scatola di farmaco, per il 18% degli acquisti. Nel 2022 sono state comprate soprattutto benzodiazepine, farmaci con un forte effetto sedativo e antipsicotici, prescrivibili per gravi patologie psichiatriche come il disturbo bipolare e la schizofrenia. Come riporta Antigone nel rapporto “Prospettive minori” pubblicato a inizio 2024, però, sugli oltre 70 reclusi presenti “quasi tutti presentavano una forma disagio psichico” ma solamente “cinque o sei avevano una diagnosi psichiatrica certificata”: l’aumento della complessità dei casi di chi fa ingresso negli Ipm non sembra però “giustificare” la relativa crescita nell’uso di psicofarmaci (registrata, anche se con dati minori, in diversi Ipm italiani). Soprattutto considerando il “contesto” del Beccaria. Calcolando la spesa a persona per antipsicotici, si passa da 12 euro nel 2021 a 27 nel 2022: un aumento del 122%. Per la categoria ansiolitici, nello stesso periodo di tempo la crescita è del 176% mentre per gli ipnotici, addirittura, gli acquisti crescono del 2.200% arrivando a una spesa di 1,38 euro a detenuto nel 2022. Sembrano importi “bassi” ma la lettura è più complessa: non è possibile infatti conoscere il numero di scatole ma alcuni ordini sono inferiori, in termini di costo, ai dieci centesimi. “Dati che segnalano quanto quel luogo fosse fuori da ogni parametro di normalità -riprende Miravalle-. A essere normalizzata, scopriamo dalle indagini, era invece la violenza: capita quando per tutti gli operativi non la vedevano più e ne sono assuefatti”. Nella struttura vigeva “un sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazione e pestaggi di gruppo realizzati dagli agenti ai detenuti minorenni”, ha scritto a metà aprile la Giudice per le indagini preliminari Stefania Donadeo nell’ordinanza che ha portato all’arresto di 13 agenti (oggi in carcere ne rimangono dieci, a tre sono stati concessi i domiciliari a seguito dell’interrogatorio di garanzia) e alla sospensione di altri otto. “Le violenze perpetrate corrispondono esattamente a una pratica reiterata e sistematica -scrive ancora la giudice- su cui si fonda la convivenza dei detenuti degli agenti che vogliono stabilire le regole di civile convivenza nel carcere ed imporre picchiando, aggredendo offendendo i minori detenuti” costretti non solo a subire i pestaggi ma anche ad “assistere a quelli dei compagni di cella e a volte ad udire urla di dolore”. “Fa impressione sapere che nello scalone, percorso tante volte, che porta all’infermeria avvenivano le violenze -racconta un medico che ha lavorato al ‘Beccaria’ e preferisce mantenere l’anonimato-. Così come il fatto che la cella usata per l’isolamento sanitario era la stessa in cui venivano reclusi i ragazzi una volta picchiati”. Come nel caso di T., che “dopo essere stato ammanettato con le mani dietro la schiena è stato pestato con calci, pugni, anche nelle parti intime e poi chiuso per dieci giorni in cella di isolamento senza gli effetti personali e senza materasso e cuscino”. Una delle tante scene di abusi e tortura ricostruito durante più di un anno di indagini nate a seguito della segnalazione del Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, che ha raccolto a sua volta la denuncia dell’ex consigliere comunale David Gentili. “M. veniva condotto in infermeria al piano inferiore dove nel corridoio lo aspettavano circa dieci agenti, uno di questi apriva la cella di isolamento e diceva a S. di entrare; F. lo spogliava lasciandolo completamente nudo e ammanettato; a questo punto M. toglieva la cintura e G. lo colpiva con più cinghiate anche sulle parti genitali fino a provocarne il sanguinamento mentre F. continuava a coprirlo con numerosi calci; lo lasciavano completamente nudo dentro la stanza per un’ora senza nessun indumento o coperta; il mattino successivo lo sceglievano per spostarlo dalla sua cella e lo colpivano nuovamente in faccia con schiaffi e pugni, insultandolo con termini quali ‘sei un bastardo, sei un arabo zingaro, noi siamo napoletani, voi siete arabi di merda, sei venuto ieri…’; lo trasportavano in una cella singola dove lo colpivano nuovamente in faccia e sul naso”. A inizio maggio la Procura ha acquisito anche le cartelle sanitarie dei reclusi a partire dalla fine del 2021 per vagliare l’esistenza di referti con prognosi ammorbidite o inesistenti dopo i pestaggi ripresi dalle telecamere. Sono per adesso 12 le vittime che hanno denunciato gli abusi e 21 gli agenti indagati, compreso il comandante a cui sono stati concessi gli arresti domiciliari il 22 aprile. L’età media degli agenti è di 31 anni e, come detto, sono coinvolti quasi la metà di quelli in servizio. Una violenza, ordinanza di custodia cautelare alla mano, che era “gratuita e generalizzata da parte di alcuni, molti, agenti penitenziari ed era da tutti i minorenni conosciuta, vissuta, patita, udita”. Tanto che in diversi casi descritti i ragazzi prevenivano, come potevano, gli abusi. “D. avvisava il compagno: mi stanno picchiando, stai attento che vogliono picchiare pure te -si legge-. Un detenuto della cella di fronte nel frattempo lo avvisava che un gruppo di agenti stava salendo di corsa dalle scale; percepito il pericolo di un’imminente pestaggio l’altro compagno di cella bagnava il pavimento della cella per renderlo scivoloso ed entrambi si cospargevano il corpo con acqua e sapone per rendersi sfuggenti alla presa degli agenti”. Un aspetto inquietante secondo Miravalle. “Alcuni dormivano con la doppia felpa. Significa che sai che subirai un abuso e ti prepari: questo fotografa il fallimento del sistema”. Il “Beccaria” nel giro di qualche anno si è trasformato da “modello da seguire” a potenziale teatro del primo caso di torture in un Ipm italiano. A fine 2023 la capienza è aumentata da 30 a 70 posti grazie alla riapertura dell’ex padiglione femminile: secondo i dati di Antigone al 20 gennaio 2024 i reclusi erano 72 di cui 20 maggiorenni e 52 minorenni (26 italiani e 46 stranieri, di cui 32 non accompagnati). Un aumento delle presenze a cui non è corrisposto un’adeguata riorganizzazione del personale: se gli agenti in servizio erano 71 (sempre a gennaio 2024, poi scesi a 50 a metà aprile) i funzionari giuridico pedagogici appena sei a fronte dei 18 previsti. E tutto questo in assenza di un direttore fisso e non a scavalco su più istituti durato quasi vent’anni (due direttrici sono indagate). Solo dal primo dicembre 2023 si è insediato un direttore ad hoc. “La violenza non nasce dal nulla -riprende il medico che ha lavorato al ‘Beccaria’ citato prima e che ha parlato con Altreconomia- ma da un luogo che permette a questi comportamenti di attecchire. Fatico a capire come il personale sanitario e quello trattamentale non si siano mai accorti di nulla”. Sei giorni fa in piena notte è scoppiato un incendio in due celle al secondo piano della struttura. Sembra che 67 detenuti sugli 82 totali siano stati accompagnati in aree comuni dove alcuni di loro hanno cominciato a danneggiare gli arredi. Per il Beccaria non c’è pace. “A mio avviso ogni cesello è inutile -conclude Miravalle-, servono scelte radicali: la struttura va chiusa e ripensata dalle fondamenta, a cominciare dagli spazi”. Milano. Caso Beccaria, gli agenti arrestati scrivono chiedendo scusa ai giovani detenuti picchiati di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 15 maggio 2024 In due hanno inviato la lettera ad alcuni dei ragazzi vittime dei pestaggi: “Le condizioni erano estreme, l’intervento era necessario ma non vi dovevamo offendere”. Proposto anche un risarcimento simbolico. “Vi voglio chiedere scusa”, scrive un poliziotto. Parole simili a quelle usate da un suo collega. Due agenti della polizia penitenziaria, in carcere per l’inchiesta sulle torture al Beccaria, hanno inviato una lettera a tre giovani detenuti vittime dei pestaggi all’interno dell’istituto minorile. Hanno inoltre offerto a ognuna delle parti offese un “risarcimento simbolico” fra i 500 e i 700 euro. Non un tesoro, ma bisogna considerare “le loro condizioni economiche”, si legge nelle missive. Un agente che firma la lettera di scuse compare nelle carte dell’inchiesta come uno degli aggressori del minorenne D.M., vittima di un pestaggio in carcere nel dicembre del 2022: il poliziotto lo colpì con un pugno in faccia. È lo stesso poliziotto che si scagliò contro A.H. a suon di schiaffi e insulti razzisti. È, ancora, la stessa divisa che al telefono si stupiva di come il clima dentro il carcere stesse cambiando, di come un “sistema” di violenze non fosse più tollerato. Chissà, forse un po’ è cambiato anche lui. Dal carcere di Bollate, dov’è detenuto da quando è stata eseguita l’ordinanza (inizialmente 13 agenti sono finiti in cella, 8 sospesi dal servizio), ha scritto una lettera di suo pugno. L’hanno ricevuta due detenuti. Le parole dell’agente somigliano da un lato a quelle usate dai suoi colleghi che hanno già parlato durante gli interrogatori di garanzia. Molti di loro hanno attribuito, quasi giustificato, i comportamenti violenti alle difficoltà lavorative dentro il carcere. In questo caso, sembra almeno esserci qualche passo in avanti. “Purtroppo il mio nome è legato a due tristi eventi - si legge nella lettera dell’agente -. Oggi, avendo tempo di ripensare, voglio dire che le condizioni nelle quali si sono verificati erano estreme, e anche se l’intervento era necessario non dovevo assolutamente offendere la vostra persona. Certamente le continue sollecitazioni e difficoltà nel farvi capire le cose mi aveva portato in generale a un grandissimo livello di stress. Ma oggi posso dire che stress, stanchezza, condizioni estreme non giustificano l’uso di sistemi eccessivi. Vi voglio quindi chiedere scusa perché ritengo di essere sempre stato un poliziotto disponibile e amante del proprio lavoro. Ma proprio per questo avrei dovuto pensare attentamente all’intervento che mi ha visto partecipe. Per il tramite del mio difensore vi offro un simbolico risarcimento del danno. Sperando che le vostre vite da qui in poi possano trascorrere tranquillamente, vi offro un saluto cordiale e spero di pacificazione”. Gli avvocati dei ragazzi decideranno se accettare o meno il risarcimento simbolico (nelle lettere si chiede pure l’Iban). Potrebbero dire di sì, magari mettendo nero su bianco che quelle cifre rappresentano una sorta di “acconto” per un danno maggiore che andrà accertato nel corso del procedimento penale. La mossa dei poliziotti potrebbe comunque essere valutata positivamente anche dai giudici che si troveranno a decidere sulle istanze per ottenere i domiciliari invece del carcere. Otto le giovani vittime del “sistema Beccaria” accertate finora dalle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena. Ma altri detenuti vengono sentiti in questi giorni. Palermo. Il carcere è un pezzo di città, ma i diritti dei detenuti non sono garantiti di Pino Apprendi* La Repubblica, 15 maggio 2024 Il carcere è un pezzo di città. L’ho sempre pensato e me ne sono convinto ancora di più dopo questo primo anno di attività nel ruolo di Garante delle persone private della libertà di Palermo. Una figura di garanzia istituita dalla passata consiliatura unitamente al relativo regolamento. Un percorso che ha preso le mosse dall’iniziativa del Comitato Esistono i Diritti, comitato politico trasversale presieduto da Gaetano D’Amico, impegnato sui temi dei diritti umani, a partire dalla presentazione all’Ars del Disegno di legge sulle unioni civili, con il sottoscritto primo firmatario. La situazione nazionale degli istituti di detenzione è drammatica, soprattutto dal punto di vista del sovraffollamento. A fronte di una capienza complessiva di circa 50.000 unità, in Italia sono rinchiuse nelle carceri oltre 60.000 persone. Per quanto riguarda Palermo, la situazione più grave si registra nella casa circondariale Pagliarelli, dove dovrebbero esserci un massimo di 1.180 persone, mentre i detenuti sono oltre 1.400. Allarmante, in particolare, la situazione sanitaria che coinvolge, oltre allo stesso Pagliarelli, anche l’altra struttura palermitana, il Lucciardone. La salute del detenuto evidentemente non rappresenta una priorità né per lo Stato né per la Regione Siciliana alla quale fanno riferimento i due istituti penitenziari. I lunghi tempi di attesa negli ospedali per un esame diagnostico o per un intervento chirurgico, anche per gravi patologie, che un cittadino libero riesce a superare rivolgendosi a strutture convenzionate, invece per il detenuto sono fonte di sofferenza che in alcuni casi hanno portato fino alla morte. Le patologie psichiche e psichiatriche, in carcere, non hanno possibilità di cure adeguate malgrado l’impegno dell’esiguo numero di medici impegnati. Molto è stato detto sui problemi legati al reinserimento nella società di coloro che hanno espiato la pena: in molteplici casi, uscendo dal carcere, l’ex detenuto non è nelle condizioni di avere un domicilio; nessuno affitta un alloggio a chi è reduce dalla detenzione e analoga resistenza si registra nei confronti di chi può usufruire di una pena alternativa al carcere, come ad esempio gli arresti domiciliari. Altrettanto complicato il percorso di chi, dopo l’esperienza carceraria, è in cerca di un’attività lavorativa per la sopravvivenza. Uno degli obiettivi delle istituzioni dovrebbe essere quello di fare calare l’incidenza delle recidive, vale a dire ridimensionare il numero dei detenuti che, espiata la pena, tornano a delinquere. Un discorso a parte meritano, poi, gli istituti per minori che, si può dire senza tema di smentita, hanno fallito l’obiettivo della rieducazione. Il “Decreto Caivano” del governo Meloni, ha di fatto peggiorato le condizioni degli Istituti penali minorili, dal momento che prevede il carcere anche per reati di debole entità. Altro capitolo dolente, i suicidi in carcere: nel 2022 si sono registrati 84 casi, 69 nel 2023 e, ad oggi, ben 35 nel 2024, ovvero il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il carcere rimane un luogo per giovani e per poveri, dunque chiedo al Consiglio comunale un impegno per istituire lo sportello anagrafe che consenta mensilmente il rilascio dei documenti per i detenuti. Auspicabile anche la creazione di spazi coperti e arredati per i parenti in attesa dei colloqui con i detenuti, sia davanti all’Ucciardone che all’ingresso del Pagliarelli. Perché, ripeto, il carcere è un pezzo di città. *Garante dei detenuti della Sicilia Torino. Suicidio al Cpr, citati ministero dell’Interno e società servizi di Massimiliano Nerozzi Corriere Torino, 15 maggio 2024 Chiamati in causa dalle parti civili - dieci quelle ammesse ieri dal gup Gloria Biale - ci saranno anche il ministero dell’interno e la società francese Gepsa nell’udienza preliminare per il caso di Moussa Balde, il giovane della Guinea che nel giugno del 2021 si tolse la vita nel Cpr (centro di permanenza per il rimpatrio) di Torino. L’esecutivo (la prefettura) e la società che aveva l’appalto per i servizi all’interno del Cpr dovranno (eventualmente) rispondere in qualità di datori di lavoro dei tre imputati, difesi tra gli altri dall’avvocato Luca Dalla Torre e Giovanni Lageard: un poliziotto, accusato di falso e favoreggiamento; il dirigente locale della società e del medico in servizio, accusati di omicidio colposo in concorso, come ipotizzato dall’aggiunto Vincenzo Pacileo e dal pm Rossella Salvati. Tra le parti civili - tutelata tra gli altri dall’avvocato Gianluca Vitale - ci sono sette familiari di Moussa, il garante comunale dei diritti dei detenuti, le associazioni Asgi e Franz Fanon. Roma. Una detenuta denuncia: “Viviamo in celle fatiscenti con i sanitari a pezzi” di Lucia D’Andrea* Il Manifesto, 15 maggio 2024 Caro Manifesto, vorrei far conoscere quello che succede nel carcere femminile di Rebibbia. Ieri pomeriggio, dopo la visita della Garante comunale dei detenuti, la direttrice, per tramite degli agenti della polizia penitenziaria, ci ha fatto recapitare uno dei suoi soliti diktat. Ve ne allego uno scritto a mano ricopiato dall’originale dato che non è possibile per noi farne una fotocopia. (Si tratta di un elenco di cosa è consentito tenere nelle celle, vestiario, oggetti e libri - non più di quattro, ndr). L’aspetto peculiare di questa vicenda è che quando io, reclusa qui da 19 mesi, ho chiesto di poter parlare con la direttrice, mi è stato risposto con un secco: “Non c’è!”. La cosa è strana perché i direttori delle carceri dovrebbero essere reperibili h 24 o comunque delegare un altro funzionario. Per queste ragioni ho informato anche tutti i Garanti. Noi detenute siamo senz’acqua calda, praticamente senza telefoni; c’è infatti una sola postazione telefonica che funziona al primo piano, che possiamo utilizzare solo se autorizzate, ed è possibile chiamare soltanto una volta alla settimana i familiari e l’avvocato. Il costo della chiamata è di 1 euro, la durata dieci minuti. Viviamo in celle fatiscenti con sanitari a pezzi, la muffa sulle pareti, le porte del bagno mancanti in alcune celle, il cibo scadente e insufficiente, l’assistenza medica quasi del tutto inesistente. E la direzione del carcere cosa fa? Ci impone regole assurde dopo aver fatto firmare un “patto di responsabilità” con una serie di aut aut del tipo “chi non studia o non lavora viene trasferito, le celle devono essere pulite”. Tutto questo senza dire ovviamente che i detersivi li compriamo da sole e non ci vengono neanche più fornite carta igienica, assorbenti e una, dico una, saponetta! C’è poi l’obbligo della pulizia personale: giusto! Siamo senz’acqua calda, con quattro docce esterne al primo piano di cui soltanto due funzionanti, poste oltretutto in un ambiente pieno di muffa e umidità. La direttrice, Nadia Fontana, non vuole incontrare nessuna di noi, respinge qualsiasi richiesta da parte nostra, impone regole punitive e non rieducative con sprezzo dell’articolo 27 della Costituzione. Infine, ciliegina sulla torta, ha fatto cancellare un murales fatto dalle detenute con il disegno di una farfalla con le ali spiegate. Io non ho paura di dire tutto ciò, vorrei solo che pubblicaste questa mia e faceste da megafono alle nostre voci di donne detenute. *Rebibbia (Reparto Femminile) *** Abbiamo girato la lettera al Garante per i detenuti del Lazio Stefano Anastasia e alla garante per la città di Roma Valentina Calderone, che così rispondono: “Mercoledì prossimo saremo nella Casa circondariale di Rebibbia femminile per incontrare la direttrice dell’Istituto e rappresentarle queste e altre doglianze ricevute in questi mesi dalle donne detenute a Rebibbia. Certo, in quel carcere ci sono problemi strutturali la cui risoluzione non dipende dalla direzione e che risalgono a prima dell’ultimo avvicendamento, ma altri sono maturati in questi mesi e sembrano rendere sempre più faticosa la condizione detentiva in quell’istituto, afflitto come tutti da un sovraffollamento ormai ingestibile. Certo registriamo un appesantimento burocratico e una centralizzazione gerarchica sempre più forte nell’Amministrazione penitenziaria, che ha riflessi anche nella vita quotidiana dei detenuti e nelle detenute nelle carceri, ma la responsabilità di quell’amministrazione e del suo personale, a partire dai suoi dirigenti, resta sempre quella fissata dalla Costituzione: lavorare per il miglior reinserimento sociale possibile dei condannati, garantendo trattamenti rispettosi della dignità dei detenuti e delle detenute. Di questo parleremo mercoledì prossimo con la dottoressa Fontana, per chiarire tutto quel che c’è da chiarire, sperando che si possa cambiare tutto quel che c’è da cambiare. il Manifesto Milano. Una eBike per cambiare strada: la seconda occasione dei detenuti di Marco Galvani Il Giorno, 15 maggio 2024 Il progetto di Bosch Italia “Ricomincio da me”: formazione specialistica in meccanica e tecniche di vendita. Diventare specialista di eBike per rimettersi in carreggiata. Dopo il carcere. Punto e a capo. La vita oltre le sbarre del carcere di Monza grazie a un progetto della Corporate Academy Bosch TEC, la scuola di formazione del gruppo Bosch in Italia nata nel 2002. “Ricomincio da me” è un percorso di responsabilità sociale che porta la formazione all’interno delle carceri italiane, in collaborazione con Seconda Chance, associazione del terzo settore impegnata - con il supporto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - nel reinserimento dei detenuti. L’obiettivo è di formare i reclusi su competenze tecniche e trasversali che ne facilitino l’inserimento lavorativo. Il progetto pilota, avviato con l’aiuto di Gi Group, Homo Faber e LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners, e partito dalla casa circondariale di via Sanquirico, si concluderà oggi. Quindici detenuti hanno seguito 82 ore di corso dedicate da un lato all’apprendimento di competenze tecniche per diventare specialista eBike, dall’altro all’acquisizione delle soft skill, come le tecniche di vendita, la crescita personale con sessioni sul cambiamento e il personal branding. L’iniziativa proseguirà nei prossimi mesi nei penitenziari di Como, Torino e Ancona. Perché, come ha sottolineato più volte la direttrice del carcere di Monza, Cosima Buccoliero, “un’occupazione fa bene a tutti”. E nell’istituto di Monza agenti e volontari fanno in modo di offrire opportunità di riscatto ai detenuti. In via Sanquirico ci sono un orto, una serra, un laboratorio di falegnameria e di assemblaggio per aziende esterne. Il carcere di Monza è una piccola “fabbrica” che, però, avrebbe bisogno di aprirsi maggiormente al territorio. I prodotti dell’orto, ad esempio, non possono essere utilizzati soltanto per il consumo interno all’istituto, ma andrebbero create le condizioni per venderli anche all’esterno. Essere autosufficienti e al tempo stesso stare sul mercato. Approfittando anche delle commesse che arrivano dagli enti pubblici, come per le fioriere commissionate recentemente dal Comune di Villasanta. Perugia. 15 detenuti a “scuola” per imparare a lavorare nell’edilizia umbria24.it, 15 maggio 2024 Firmato protocollo tra Cesf e carcere di Capanne: laboratorio e primo cantiere all’interno, poi si cercherà di farli assumere dalle imprese. Percorsi formativi per reinserire i detenuti nel mondo del lavoro, precisamente in quello del settore edile. Questa la finalità del protocollo firmato martedì mattina nella sede Centro edile per la sicurezza e la formazione di Perugia (Cesf, ex scuola edile) dalla direttrice del carcere di Perugia Antonella Grella e dal presidente del Cesf, Agostino Giovannini, oltreché da una pluralità di soggetti coinvolti in rappresentanza delle associazioni datoriali e delle organizzazioni sindacali. Subito al via il primo percorso formativo, che coinvolge 15 detenuti. Per loro è prevista una formazione nel laboratorio interno all’istituto di pena che si svolgerà con la formula del “cantiere scuola”, coi detenuti che lavoreranno su un immobile presente all’interno del complesso penitenziario. Successivamente si porrà il tema dell’inserimento lavorativo verrà realizzato, di cui dovranno occuparsi le associazioni datoriali, da Confindustria-Ance a Cna, passando per Confartigianato e Legacoop, raccogliendo le disponibilità da parte delle imprese che intenderanno offrire un’opportunità di lavoro ai detenuti che hanno partecipato al corso. In questo senso sono previsti incontri per favorire il contatto tra i detenuti formati e i potenziali datori di lavoro, sia eventi pubblici rivolti alla comunità locale, con l’obiettivo di creare consapevolezza sui benefici del reinserimento lavorativo e ridurre eventuali pregiudizi. In questa fase i detenuti coinvolti sono quelli in possesso dei requisiti per accedere ai benefici dell’articolo 21, ovvero coloro i quali possono essere autorizzati a uscire dal carcere durante il giorno per recarsi al lavoro. A sostenere il progetto è stata la Fondazione Perugia, ma anche una serie di privati che hanno contributo a fornire i materiali o a venderli con sconti rilevanti per dare avvio al primo percorso di formazione. “La collaborazione avviata offre una straordinaria opportunità sia ai detenuti, che potranno acquisire quelle competenze che consentiranno loro di entrare nel mondo del lavoro, sia alle imprese che potranno trovare collaboratori qualificati e certificati grazie al supporto formativo del Cesf”, ha detto Grella. Al Cesf, infatti, il Protocollo affida il compito di individuare, progettare e realizzare i percorsi formativi che meglio rispondono ai fabbisogni delle imprese e alla domanda del mercato del lavoro di settore. I percorsi formativi, oltre alla formazione di primo ingresso in cantiere, saranno rivolti in via prioritaria, ai profili di addetto alle opere murarie, addetto alla decorazione e pittura, nonché alla formazione per la manutenzione ordinaria. “Il Cesf metterà a disposizione risorse per garantire le competenze di base, affinché i soggetti coinvolti possano accedere in cantiere operando in piena sicurezza e tale formazione sarà svolta all’interno dell’Istituto penitenziario in uno spazio appositamente attrezzato anche grazie al contributo concesso dalla Fondazione Perugia”, ha invece detto Giovannini. Napoli. “Le voci di dentro”: la serie eduardiana dei ragazzi di Nisida di Giulio Baffi La Repubblica, 15 maggio 2024 “Le voci di dentro”, prima serie radiofonica registrata nel carcere di Nisida, curata da Putéca Celidònia e dedicata alle tante “lezioni di vita” di Eduardo De Filippo. Sei puntate, ognuna dura circa 20 minuti, una piccola serie preziosa per verità ed emozione che sarà mandata in onda da Rai 3 alle 22 del 24 maggio, omaggio di compleanno per il grande padre del teatro italiano che ai giovani a rischio della sua città dedicò il suo primo discorso di senatore a vita. Presentato al presidente Sergio Mattarella riaffermando così il valore sociale e culturale del teatro e di questo progetto in linea con l’art. 27 della Costituzione sul principio di rieducazione della pena, l’intero ciclo e sarà poi riascoltabile e scaricabile in podcast sulla piattaforma RaiPlay Sound. Queste voci “di dentro” emozionano, affascinano, incuriosiscono, recitano verità e le fanno misteriosa dichiarazione da cui filtra il disagio di chi deve scoprirsi attraverso il teatro che non gli appartiene, ed è una conquista nuova. Sono quelle dei giovani che hanno partecipato al progetto in inverno, quelle di un “dentro” fisico e di un “dentro” metafisico, mentale, teatrale, nel cuore, nella mente. È il dentro dei giovani che vivono nel carcere minorile di Nisida. E il dentro del teatro che si prova a tirare fuori quel che forse fa bene se lo si vive insieme, il dentro del teatro di Puteca Celidonia, realtà artistica giovane e già ben forte, a fare progetti a a proporli, realizzandoli poi con passione e fatica. E c’è l’insieme che vince, scommessa impossibile, sfida di lavoro che vede in collaborazione virtuosa la compagnia e la Fondazione De Filippo, il Teatro Nazionale, il Ministero della Cultura, la Regione e il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università di Salerno, Rai Radio3, a costruire la trasmissione, il podcast che risentiremmo mille volte tanto è ben fatto, e ricco di emozione e verità che può essere recita o confessione, forza o pudica debolezza, racconto di una sconfitta diventata vittoria collettiva nel nome di Eduardo, ombra lunga e nume tutelare del teatro. “Il lavoro ha cercato di inquadrare la figura di Eduardo lontano da ogni oleografia, luoghi comuni e giudizi superficiali” sottolinea presentandolo Annamaria Sapienza, docente dell’Università di Salerno e referente scientifico del progetto: la serie prende linfa dalle opere e dal pensiero di Eduardo, continuamente evocati come punto di riferimento artistico e umano tra i ragazzi, gli educatori, le guardie carcerarie dell’istituto, insieme agli esperti scientifici del progetto e agli operatori artistici del laboratorio. Frutto di un lavoro di indagine sul campo e di una successiva riscrittura di situazioni e momenti particolari, il laboratorio prima, e quindi ora il podcast, riscrive i temi della famiglia, dell’amicizia, della società, del gruppo, del lavoro, della devianza e della necessità di studiare, insiti nella drammaturgia eduardiana, “laboratorio di costruzione e di investimento umano, esperienza sperimentale che riqualifica il luogo carcere che accoglie il teatro e lo trasforma costruendone un flusso di coscienza, un archivio disordinato di emozioni affidato alle voci di chi vi ha preso parte”, lo definisce Emanuele D’Errico, attore, regista e drammaturgo della Celidonia, che lo firma insieme a tutti quelli che hanno creduto a questa esemplare fatica collettiva: Fabrizio, Manuele, Mattia, Maurizio, Obed, e con loro Marialuisa Diletta Bosso, Dario Rea, Teresa Raiano, Clara Bocchino, Claudio Di Palma e Giuseppe Lavalle, e Tommy Grieco che ne ha curato il montaggio lavorando mirabilmente alle musiche e all’intenso colore del saund design. E a tutti, dal direttore dell’Ipm Gianluca Guida, agli educatori capitanati da Paolo Spada, ai giovani che vi hanno partecipato, al corpo di Polizia Penitenziaria, a Roberto Andò direttore del Teatro Nazionale, a Tommaso De Filippo presidente della fondazione De Filippo, a Antonio Audino di Rai3, il merito di essere ancora una volta gruppo per un incontro d’eccezione che potrà dare nuovi spunti e invenzioni nel nome di Eduardo De Filippo. Milano. Lazza a Bollate per ascoltare gli inediti dei detenuti di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 15 maggio 2024 Con lui altri rapper a “caccia” di talenti nel carcere milanese. Un concerto speciale per i giovani detenuti-rapper. Con Lazza c’erano Nitro e Jack The Smoker e il dj e producer Damiano. I detenuti hanno cantato i loro inediti di fronte agli ospiti che poi si sono esibiti nei loro successi più celebri. Un concerto dal sapore speciale per i giovani detenuti-rapper del carcere di Bollate. In platea, ad ascoltare le loro barre, nate dall’esperienza in penitenziario, c’erano Lazza e poi altri esponenti della scena rap italiana: i rapper Nitro e Jack The Smoker e il dj e producer Damiano. “È stato incredibile esibirsi senza neanche un telefono che filmava. Grazie a chi ha reso possibile tutto questo”, ha scritto Lazza in una storia su Instagram. L’incontro è avvenuto nei giorni scorsi, a conclusione di un lavoro portato avanti nello studio di registrazione della casa di reclusione. I detenuti hanno potuto cantare i loro inediti di fronte agli ospiti che poi, a loro volta, si sono esibiti nei loro successi più celebri. L’iniziativa, in collaborazione con il carcere di Bollate, è stata organizzata e finanziata da E Ventures, Me Next, insieme a Next Show, Neverest, e alla Cooperativa Articolo 3, che promuove il genere rap come forma creativa di espressione di sé e di riscatto sociale. Articolo 3, in collaborazione con Rude Records, ha infatti allestito uno studio di registrazione all’interno del carcere. Per un anno, durante incontri settimanali, il team dell’etichetta discografica ha portato i detenuti ad approfondire il mondo dell’industria musicale e di tutte le figure che ci lavorano. Non solo, quindi, gli artisti, ma anche gli agenti, i tour manager, i tecnici, le persone che si occupano di marketing e promozione. Un dietro le quinte dove qualcuno di loro, in futuro, potrebbe trovare lavoro. Il progetto continuerà nei prossimi mesi. Da anni il carcere di Bollate promuove numerose attività culturali per perseguire l’integrazione con il territorio. Fondamentali le partnership con realtà all’esterno dell’istituto, che si impegnano per supportare percorsi virtuosi professionali e personali. “Ringrazio gli artisti e tutti i partner per la splendida iniziativa che hanno organizzato - sottolinea Giorgio Leggieri, direttore del Carcere di Bollate - Si è trattato di un importante momento di condivisione che ha permesso ai detenuti di vivere due ore di musica con spensieratezza ed entusiasmo. Questo evento, inoltre, è stato un momento simbolico fortemente evocativo del modello detentivo di integrazione con il territorio e con i suoi protagonisti che l’istituto di Bollate persegue da sempre”. Campobasso. Scrittura in carcere: al via il laboratorio per i detenuti primonumero.it, 15 maggio 2024 La scrittrice Anna Giurickovic Dato alla guida del workshop di due giorni sulla narrativa. L’iniziativa rientra nella programmazione di Ti racconto un libro a firma dell’Unione Lettori Italiani e del Comune di Campobasso. Un workshop di due giorni per una full immersion nella narrativa, per comprendere i meccanismi e il fascino delle opere classiche e contemporanee a cominciare dalla creazione dei personaggi per poi cimentarsi nella scrittura di un proprio elaborato. È questa la finalità del Laboratorio di scrittura destinato ai detenuti della Casa Circondariale di Campobasso e intitolato Il principio della narrazione: voce, personaggio e incipit, che rientra nella programmazione di Ti racconto un libro 2024, il laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione promosso e realizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani, con la direzione artistica e organizzativa di Brunella Santoli e il patrocinio della Provincia di Campobasso e della Camera di Commercio del Molise. Alla guida del Laboratorio, ci sarà la scrittrice Anna Giurickovic Dato, che aiuterà i partecipanti a sviluppare la voce e il personaggio, attraverso la lettura di alcuni incipit di opere di narrativa, classiche e contemporanee. I partecipanti saranno poi invitati a commentare le letture e a scegliere il personaggio e la voce più affine alla loro voce interiore. Quindi, ciascuno, entro la conclusione della prima giornata, dovrà individuare e presentare il proprio personaggio e la voce narrante scelta. Il secondo giorno, i partecipanti al workshop saranno invitati a scrivere il proprio incipit, che leggeranno entro la fine dei lavori. L’individuazione del personaggio e della voce è l’inizio di ogni narrazione e l’incipit è l’invito più forte alla lettura. Con il proprio personaggio, la propria voce e il proprio incipit, chi vorrà potrà scegliere di continuare a scrivere la storia che ha cominciato. Al workshop, che si svolgerà mercoledì 15 e giovedì 16 maggio nella sala teatro della Casa Circondariale di Campobasso, parteciperà il Gruppo di lettura dell’istituto, unitamente a coloro che ne hanno fatto richiesta, per un massimo di 15 partecipanti. Anna Giurickovic Dato è una scrittrice italiana. È nata a Catania nel 1989, ha origini serbe, è cresciuta a Milano e vive tra Roma e Parigi. Ha un dottorato in diritto pubblico, è avvocato, sceneggiatrice e autrice per il cinema e per la tv. Ha scritto due romanzi, La figlia femmina (Fazi 2017), tradotto all’estero in cinque paesi, e Il grande me (Fazi 2020). Nel 2023 per Quanti Einaudi ha pubblicato il racconto “La divoratrice”. Ha collaborato e collabora con vari giornali e riviste, tra cui “Domani”, “Treccani”, “F”, “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica”. Il prossimo appuntamento con Ti racconto un libro è in programma giovedì 23 maggio, alle ore 18.30 nel Convitto Nazionale “Mario Pagano” di Campobasso, con Giampaolo Simi per la presentazione de Il cliente di riguardo, l’ultimo romanzo della serie che ha come protagonista l’ex giornalista Dario Corbo. Come in una spy story, l’ex cronista di nera gioca ora su più tavoli, indaga e acquisisce informazioni, disinnesca pericoli, manipola amici e nemici, tutto pur di proteggerei suoi affetti. L’autore dialogherà con lo scrittore Pier Paolo Giannubilo. Civil Week e cittadinanza attiva, un bilancio di impegno nel segno del “noi” di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 15 maggio 2024 Dal Presidente Mattarella che invita non solo a conoscere la Costituzione ma a “difenderla e amarla”, fino al giovanissimo Diego che dice di studiare per “diventare una brava persona”: Milano Civil Week e il ritratto di una “cittadinanza attiva” che spinge all’ottimismo. Nella Milano che non si ferma, tra i turisti che affollano piazza Duomo con il cellulare in una mano e il naso all’insù a cercare la Madonnina, tra chi corre ad un appuntamento di lavoro e chi si dedica allo shopping, c’è una fila ordinata che attende di entrare in palazzo Giureconsulti. Uomini, donne, ragazzi, sono venuti per l’inaugurazione di Milano Civil Week. Via dei Mercanti è punteggiata dai cartelloni colorati che riportano il testo di alcuni degli articoli della Costituzione. Invitano a rallentare il passo, fermarsi, leggere, riflettere. Si entra e l’attesa è tutta per il Presidente Sergio Mattarella che si collega dal palazzo del Quirinale. Silenzio. Si ascoltano le parole del Presidente che mai come ora è persona capace di unire un Paese troppo diviso. Si rivolge ai giovani, a Beatrice, albina e autistica che lavora da PizzAut , a Diego che studia al liceo per “diventare una brava persona”, a Mery che vuole dare più voce ai ragazzi. Mattarella li invita non solo a conoscere la Costituzione, ma ad “amarla e difenderla”. Nelle sue parole riecheggiano quelle che Piero Calamandrei, padre costituente, rivolse ai giovani milanesi nel 1955. Sembrano scritte oggi. “La Costituzione siamo noi”, è stato il tema della Civil Week di quest’anno. Riguarda tutti perché la Costituzione parla a ognuno di noi. Lo studio, la cultura, l’uguaglianza, il diritto alla salute, alla giustizia, la libertà di stampa, il lavoro, la parità di genere, l’istruzione sono i mattoni per costruire una società che vorrei meno social, ma più sociale. Giornalisti, fotografi, tecnici, seguono l’evento passando da una sala all’altra. Per raggiungere la sala stampa al primo piano si incrociano i ritratti che raccontano la forza delle donne che hanno superato una malattia oncologia. Anche qui si respira un clima di sorellanza e non è retorica. All’ultimo evento a sorpresa c’è Fiorello che racconta come onore e dignità siano valori che lui ha imparato in famiglia. Da suo padre. Ci viene da pensare quanto può fare la famiglia, primo nucleo della società, per crescere brave persone. Ultimo articolo. Si chiude il pc, ci si immerge nella folla. Ancora di corsa, verso la metropolitana. Ma la bellezza del Duomo di Milano illuminato dalla luce della sera è ancora capace di emozionare. Possiamo rimanere ottimisti. Terzo settore, è l’ora di un protagonismo inedito di Agnese Zappalà Il Riformista, 15 maggio 2024 Un contenitore che tiene insieme cultura, sport, housing, disabilità e tanto altro, che oggi è chiamato a fare la sua parte per disegnare l’Europa. Alla richiesta di un’Europa più vicina ai cittadini una risposta tra le più incisive viene dal terzo settore. Il grande e ormai indispensabile contenitore che tiene insieme sociale, cultura, formazione, sport, housing, disabilità e tanto altro ancora, è oggi chiamato a fare la sua parte per disegnare l’Europa dell’adesso e, soprattutto, del domani. “Tanto di ciò che è innovativo e centrale, oggi passa dal terzo settore - afferma Carlo Borghetti, Segretario generale Lombardia di Aiccre, Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa, che di recente ha organizzato un convegno dal titolo “Quale Europa per il terzo settore?” - anche il sistema sociosanitario. Io penso che il prossimo quinquennio dovrà costruire tra l’altro un’Europa della salute, comprendendo tutti le componenti di intervento sociale”. La prospettiva deve essere di un sistema organizzato che si affianca alle istituzioni e al privato, anche pure quanto riguarda l’intervento economico: in questo senso il mondo del terzo settore milanese e lombardo ha l’occasione di vivere un protagonismo nuovo, in parte inedito inserendosi nella partita PNRR. Qui il riferimento è alla Missione 5 Componente 2, che “valorizza la dimensione sociale delle politiche sanitarie, urbanistiche, abitative, dei servizi per l’infanzia, per gli anziani, per i soggetti più vulnerabili, così come quelle della formazione, del lavoro, del sostegno alle famiglie, della sicurezza, della multiculturalità, dell’equità tra i generi”. In poche righe c’è tanto, tantissimo, da fare spesso in sinergia con comuni e pubblica amministrazione. Di questo tantissimo ne sa qualcosa Luciano Gualzetti, Direttore Caritas Ambrosiana, struttura che vanta 400 centri d’ascolto nell’area della Diocesi di Milano: “Milano è approdo internazionale - racconta - serve guardare anche gli invisibili e mettere le persone in condizione di farcela: qualcuno ci ha detto per anni prima gli italiani, io dico prima gli ultimi, bisogna partire da quelli che i diritti non ce li hanno”. Luca Degani, membro del Consiglio Nazionale del Terzo Settore, non nasconde, però, le questioni più spinose che rendono difficile uniformare il mondo del terzo settore UE: “La differenza tra modelli sociali diversi anche solo tra nord e sud Europa, e la necessità, anche in ambito terzo settore, di trovare una strategia comune a 27, solo per citare le questioni più emblematiche”. C’è poi a rendere tutto più urgente la questione demografica, anche per Milano. Già oggi gli over 65 sono il 24,4% dei residenti, che ne fanno la più vecchia tra le grandi città europee. Sussidiarietà, Vittadini: “Più società fa bene allo Stato, così si aiutano i cittadini” di Massimo Ferini Il Riformista, 15 maggio 2024 Giorgio Vittadini è professore di statistica all’Università Statale Bicocca di Milano, e fondatore e ispiratore della Fondazione per la sussidiarietà. Soprattutto attraverso il rapporto di ricerca annuale della Fondazione si occupa di mostrare come la sussidiarietà sia un metodo efficace con cui affrontare molti dei problemi che interessano la nostra società. Negli anni il Rapporto sulla sussidiarietà ha toccato temi molto diversi, dal welfare al lavoro, dalle infrastrutture alla finanza... “Più che teorizzare cerchiamo di osservare la realtà per vedere in azione la sussidiarietà. La cultura sussidiaria sta indubbiamente mostrando le migliori possibilità per affrontare i grandi problemi della contemporaneità: la crisi della democrazia e del modello neo-liberista. Individuare cosa spinge le persone a dare il meglio di sé nell’attività quotidiana, a superare l’individualismo per riscoprire l’importanza della comunità, a ricostruire luoghi di aggregazioni come forme di auto organizzazione per produrre servizi; individuare come lo Stato possa sostenere questi sforzi e investire sulle persone, e come possa intervenire al meglio dove non vi siano risposte adeguate per i cittadini. Tutto ciò significa scoprire la sussidiarietà in atto. È l’aver visto in moto azioni “verticali” (tra istituzioni di diverso livello) e “orizzontali” (tra istituzione e società) che ci fa dire che più società fa bene allo Stato e uno Stato che funziona meglio fa bene ai cittadini”. C’è quindi una mentalità di fondo da recuperare ed è questa che crea quelle iniziative positive alle quali tu fai riferimento? “Sicuramente abbiamo tradizioni culturali che hanno sostenuto il diffondersi di corpi intermedi in molti settori. Se prendiamo la ricchezza di aggregazioni politiche, culturali, caritatevoli e assistenziali della Lombardia non possiamo non pensare alle caratteristiche dell’illuminismo lombardo. Questo, espressione di nuovo umanesimo e di federalismo, ha dato vita a una miriade di iniziative sociali ed economiche nel mondo cattolico, laico e del riformismo socialista. Abbiamo ancora banche, ospedali e istituzioni assistenziali che vengono da quella tradizione. Una politica regionale che ha scommesso sulla capacità della società civile di essere attiva ha permesso la nascita di una rete di servizi al lavoro, di centri di formazione professionale e di centri di assistenza che è certamente un esempio per altre realtà territoriali”. Come dice, è una cultura in controtendenza con quanto sembra prevalere. Nei paesi europei, non solo da noi, si diffondono egoismi, nazionalismi, chiusure verso l’altro e il diverso che arrivano a mettere in discussione le istituzioni di garanzia... “Il dramma principale sono i rischi per la pace che il mondo sta correndo. A questo si aggiunge la debolezza della partecipazione politica e una diminuzione del peso dei corpi intermedi che hanno formato le nostre società europee. Per ridare alla politica il ruolo che le compete, c’è bisogno di comunità pensanti. È essenziale perché si torni ad avere canali di diplomazia funzionanti e si metta da parte l’uso della violenza. Le elezioni europee hanno una grande valenza per indicare una via diversa alla crisi della globalizzazione dovuta alle esagerazioni neoliberiste e indicare una via che, basandosi sulla sussidiarietà, aiuti tutto un popolo a sentirsi europeo”. Che cosa ha fatto per noi l’Europa: la gestione dei migranti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 maggio 2024 Il nuovo Patto, approvato a Strasburgo il 10 aprile, è stato definito una svolta storica. Si puniscono i Paesi non solidali che non accettano la redistribuzione, che però continuerà a non essere obbligatoria. Per la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola e per la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen quella portata a casa dopo dieci anni è finalmente una “svolta storica”. Di storico nel nuovo patto asilo e immigrazione, passato a larga maggioranza il 10 aprile, c’è solo l’accettazione da parte di tutti (o quasi) che il fenomeno migratorio non può più essere considerato un affare che riguarda solo i Paesi costieri. Ma la battaglia della reale obbligatorietà del principio di solidarietà nei confronti degli Stati membri impegnati nella prima accoglienza, con la redistribuzione effettiva dei migranti è stata definitivamente persa. Nell’Europa che da una parte invoca la necessità di manodopera straniera per rispondere alle esigenze del mondo del lavoro e dall’altra mostra sempre più insofferenza nei confronti degli immigrati, gli Stati che alla fine accetteranno di aprire le porte alle persone che sbarcheranno in Italia, in Spagna, in Grecia, si conteranno sulle dita di due mani. Il nuovo Patto asilo e immigrazione - Di fatto, con il nuovo Patto asilo e immigrazione (che non è riuscito a superare quel trattato di Dublino che da anni dimostra ormai tutta la sua inadeguatezza davanti all’esplosione dei flussi migratori), l’Europa ha deciso di blindare i suoi confini. Con una serie di norme che passeranno alla storia, queste sì, come quelle che, per la prima volta, imporranno l’identificazione completa di impronte e rilievi biometrici persino ai bimbi dai sei anni in su, aggrediranno il diritto d’asilo prevedendo procedure accelerate di frontiera per chi arriva dai cosiddetti Paesi sicuri e che rischiano dunque ora di trovarsi detenuti in centri simil modello Albania che sorgeranno alle frontiere. Che cosa cambia per l’Italia - Un bollino, quello di Paese sicuro, lasciato alla libera valutazione di ogni Stato. E l’Italia è il primo a chiudere un occhio sul rispetto dei diritti umani visto che ritiene sicura la Tunisia dove le cronache riferiscono ogni giorno di una evidente restrizione delle libertà, e persino l’Egitto contro cui si è costituita parte civile nel processo per l’omicidio di Giulio Regeni. Ci sono voluti dieci anni per l’approvazione del Patto e il Parlamento europeo c’è arrivato comunque dilaniato. Un sì arrivato a maggioranza con il Pd e il M5S che hanno votato contro e persino il centrodestra italiano diviso: Fratelli d’Italia e Forza Italia a favore, la Lega contro un pacchetto di misure di cui il suo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si considera uno degli artefici principali. Un voto che è riuscito anche a spaccare vecchie alleanze, a cominciare da quella tra Giorgia Meloni e il fronte di Visegrad. Il premier ungherese Viktor Orbán furioso non si rassegna: “Il Migration pact è un altro chiodo sulla bara dell’Unione Europea. L’unità è morta, i confini sicuri non esistono più. L’Ungheria non cederà mai alla frenesia migratoria di massa”. Per l’Italia cambia poco, e se possibile in peggio. L’onere dell’accoglienza e della gestione delle richieste d’asilo dei migranti resta infatti al Paese di primo approdo, che anzi vede allungarsi il tempo della sua responsabilità a venti mesi e che dovrà garantire la registrazione nel sistema Eurodac con identificazione, impronte e rilevazioni biometriche di tutte le persone che arrivano, bimbi compresi, e la sorveglianza sui cosiddetti movimenti secondari. Poche speranze di poter contare su significativi ricollocamenti altrove di chi sbarca e di un aiuto concreto sui rimpatri. Che, in teoria, dovrebbero essere facilitati dalle cosiddette procedure accelerate di frontiera, di fatto un esame sommario delle richieste di asilo di chi proviene da Paesi sicuri. Procedure finora applicate in casi molto limitati ma che il nuovo Patto intende estendere facendo saltare tutta una serie di garanzie. La “multa” per i Paesi non solidali - L’unico provvedimento che avrebbe alleggerito il sistema di accoglienza italiano sarebbe stata la redistribuzione obbligatoria, ma su questo non è stato possibile trovare alcun accordo. Una sorta di pool di solidarietà ogni anno deciderà quali sono i Paesi sotto pressione migratoria (nel 2024 ad esempio la Spagna ha quasi il 50% di arrivi in più rispetto all’Italia) e dovrà provvedere ad una soglia minima di 30mila ricollocamenti. Chi non è disponibile ad accogliere dovrà versare 20mila euro per ogni mancato ricollocamento. Ogni Paese che riterrà di essere in sofferenza nella gestione dei flussi potrà dichiararsi in stato di crisi migratoria e chiedere l’avvio del meccanismo di solidarietà. Il Patto non stabilisce criteri rigidi e univoci per valutare la “crisi”, verrà tenuta in conto anche la possibile strumentalizzazione da parte di Paesi terzi che dovessero utilizzare i flussi a scopo offensivo (una ipotesi questa da cui dopo tanto discutere sono stati esclusi i soccorsi delle Ong). Il Paese che si vedrà riconosciuto lo stato di crisi potrà applicare le procedure accelerate di frontiera a chi arriva da Paesi sicuri e analizzare con meno garanzie le richieste di asilo. Non solo, per effettuare queste procedure le autorità potranno anche detenere i richiedenti asilo in attesa di screening. Procedure che, secondo il network European digital rights, porterà ad “un aumento potenziale degli abusi: i dati raccolti saranno utilizzati per controllare i movimenti e giustificare espulsioni rapide e ciò solleva preoccupazioni per l’aumento dei periodi di detenzione dei migranti e delle violenze di cui potrebbero diventare vittime”. “Così l’Unione europea ha trasformato le frontiere in prigioni” di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 15 maggio 2024 Il Patto su immigrazione e asilo diventa legge europea. Anche i minori potranno essere trattenuti nei centri. Le denuncia delle ong. Il contestatissimo “Patto asilo e migrazione” è legge europea. Ieri è arrivato il via libera finale da parte del Consiglio Ue in formato Ecofin ai diversi file - 9 regolamenti e 1 direttiva - che compongono uno dei pacchetti legislativi più corposi di questi cinque anni. Un ok formale e ampiamente scontato, dopo che il Parlamento europeo aveva approvato la riforma un mese fa, ma comunque un passaggio necessario alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale europea. Voto favorevole dell’Italia, contrario su diversi dossier il voto dell’Ungheria, della Slovacchia ma anche della Polonia. “Non accoglieremo nessun migrante in base al Patto”, ha spiegato il premier polacco Donald Tusk. “Abbiamo già accettato centinaia di migliaia di persone dall’Ucraina come anche dalla Bielorussia”. Non una sorpresa, in realtà: nel 2017, nella sua funzione di presidente del Consiglio europeo, Tusk si era detto contrario al sistema di quote obbligatorie di ripartizione dei migranti fra i paesi Ue. Per il Patto, il passaggio più delicato inizia ora, con l’applicazione nei singoli stati Ue, che dovranno presentare i piani d’attuazione entro gennaio 2025. Ne parliamo con Marta Gionco, portavoce di Picum con sede a Bruxelles, rete che riunisce 158 organizzazioni di tutta Europa. Il lavoro delle ong rappresentate da Picum è quello di assicurare dignità ai migranti che si trovano senza documenti, ad esempio in seguito a un diniego dell’asilo, o al mancato rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Scattano i ventiquattro mesi per mettere a terra la riforma. Cosa si prevede per questa fase di transizione? Affinché il Patto diventi operativo, c’è una quantità enorme di regole da interpretare, applicare e questioni legali da chiarire. Teniamo sempre presente che il testo è stato adottato con processo legislativo opaco, lunghe negoziazioni e regole approvate in alcuni casi anche all’ultimo minuto. C’è ancora molto da capire e i prossimi due anni saranno fondamentali. La vostra rete denuncia uno scenario di detenzione indiscriminata. Ci spiega meglio? Per noi la detenzione dei migranti è uno degli effetti più problematici di questa riforma. Ci potrebbero essere casi diversi nell’applicazione di restrizioni alla libertà personali, comunque con poche o nessuna garanzia legale a tutela del migrante. La situazione sarà come quella vista negli hotspot, in cui famiglie intere non avranno possibilità di lasciare il luogo dove sono. Restando alla detenzione indiscriminata, molti critici del Patto hanno puntato il dito contro le nuove regole sui minori... Nel corso delle procedure di frontiera la detenzione iniziale, che dura fino a dodici settimane (più altre dodici per l’eventuale procedura di rimpatrio), si applica a tutti, compresi i minori con famiglia. I minori non accompagnati sono esclusi, ma possono non esserlo se considerati un pericolo per l’ordine pubblico o per la sicurezza nazionale. Il problema è che, come succede già ora, è molto facile per uno Stato definire qualcuno un rischio per la sicurezza senza fornire le motivazioni della decisione, il che impedisce ai legali di fare appello. Quindi è facile che molti migranti saranno detenuti sulla base di questa clausola. Un tema molto discusso è stato quello della “strumentalizzazione della migrazione”. Ci può spiegare cosa è e perché è pericoloso? Perché diventa facilmente un modo ulteriore per ridurre le garanzie per i migranti. Il termine è presente nel “regolamento crisi”, che definisce “strumentalizzazione” quando un paese non Ue o un attore non statale incoraggia il movimento di persone con l’idea di destabilizzare un paese. Così gli Stati possono chiedere alle istituzioni Ue (prima Commissione, poi Consiglio) una serie di deroghe alle già limitate garanzie. Di conseguenza, le procedure di frontiera possono allungarsi e gli Stati hanno fino a quattro settimane per registrare le domande d’asilo. Ancora una volta si rischiano forme di detenzione estesa. Quali azioni le ong possono avviare per contrastare gli effetti più negativi di questa riforma? Monitorare quello che capiterà e denunciare in caso. Il ruolo delle ong è essenziale ed è importante che abbiano accesso ai luoghi di detenzione, cosa che nella pratica è spesso ostacolata dai governi. Inoltre, molte organizzazioni stanno già esplorando potenziali vie per il ricorso legale, perché molti aspetti del Patto violano la Carta Ue dei diritti fondamentali, così come la Convenzione Europea dei diritti umani. Lotta alla droga, il fronte dei porti di Marco Perduca Il Manifesto, 15 maggio 2024 La Commissione UE, su stimolo della presidenza belga del Consiglio europeo, ha lanciato l’Alleanza europea dei porti e un partenariato pubblico-privato per “intensificare la lotta al traffico di droga e alla criminalità organizzata”. Il Belgio è particolarmente preoccupato del ruolo che il porto di Anversa svolge nell’importazione di cocaina dall’America latina e per il significativo aumento non solo della presenza di reti criminali ma di violenza che hanno interessato la città. Non è una novità che organizzazioni criminali si infiltrino nei porti per consentire il passaggio di merci illegali né che tra queste vi siano anche sostanze stupefacenti; è, forse, una novità, che i porti vengono ritenuti luoghi su cui rafforzare le operazioni di controllo anche grazie a ingenti investimenti tecnologici. Perché? Perché una parte crescente dei porti europei non sono gestiti da compagnie europee, a partire dal Pireo di proprietà cinese - e anche per questo escluso dall’alleanza. Secondo le istituzioni europee le reti criminali ricorrono alla violenza in modo estremo e sistematico, alla corruzione e all’intimidazione, solo nel 2022 sono state intercettate oltre 500 tonnellate di droghe, la metà della quali era cocaina. L’alleanza mira a rafforzare la sicurezza in tutti i porti dell’UE investendo 200 milioni di euro per attrezzature che aiuteranno a scansionare i container e a controllare le importazioni in modo più efficiente; con operazioni di contrasto nei porti tramite una maggiore cooperazione tra gli Stati membri, la Commissione, Europol, Eurojust, la Procura europea (EPPO) e la Piattaforma multidisciplinare europea contro le minacce penali (EMPACT); e attraverso il partenariato pubblico-privato che coadiuverà le autorità portuali e le compagnie di navigazione nel proteggere la logistica, le informazioni, il personale e i processi di sdoganamento nei porti. L’iniziativa fa parte della “tabella di marcia dell’Ue per combattere il traffico di droga e la criminalità organizzata” adottato dalla Commissione il 18 ottobre 2023 che, tra le altre cose, prevede incontri annuali a livello ministeriale per identificare le “sfide rimanenti, stabilire le priorità strategiche e scambiare informazioni sui progressi compiuti”. L’ultimo rapporto del Centro per il monitoraggio delle droghe in Europa segnala che nel 2021 gli Stati membri hanno sequestrato 303 tonnellate di cocaina (record di confische) e che Belgio, Paesi Bassi e Spagna continuano a essere i paesi dove hanno luogo i maggiori sequestri, riflettendo l’importanza di questi paesi come punti di ingresso del traffico di cocaina verso l’Europa. Nel 2022 la quantità di cocaina sequestrata ad Anversa, il secondo porto marittimo più grande d’Europa, è salita a 110 tonnellate dalle 91 tonnellate del 2021, con volumi sequestrati in aumento ogni anno dal 2016. Dopo la cannabis, la cocaina è la seconda sostanza illecita più utilizzata in Europa anche se i livelli e modelli di consumo differiscono notevolmente da paese a paese. La cocaina è solitamente disponibile in polvere mentre meno comune è il crack; entra in Europa attraverso vari canali ma il traffico di grandi volumi avviene attraverso i porti in container commerciali. Le proposte dell’Alleanza dei porti, oltre a non tenere in considerazione, come al solito, il fatto che inasprire i controlli in una zona farà spostare il traffico attraverso altri luoghi, omette di ricordare che Belgio e Paesi Bassi sono due Stati membri che negli ultimi anni hanno avuto lunghi periodi, in cui a seguito di elezioni non si erano trovate coalizioni capaci di esprimere un governo. Un elemento che, quando si parla di decisioni sul “controllo delle droghe”, non dovrebbe esser trascurato vista le possibilità di risposte efficaci e “innovative” che la politica potrebbe offrire a certi fenomeni. Stati Uniti. “Sono stato torturato in cella, quella notte si è spento qualcosa in me” di Filippo Fiorini La Stampa, 15 maggio 2024 Lo studente italiano Matteo Falcinelli, fermato a Miami: “Sono passati tre mesi, ma è come se fosse successo ieri. Giusto denunciare la brutalità della polizia americana, ma ora ho paura”. “Quella notte si è spento qualcosa in me”. Lo ha detto Matteo Falcinelli, durante un’intervista nel programma televisivo “Cinque Minuti” condotto da Bruno Vespa. Lo studente di 25 anni iscritto alla Florida International University che è stato arrestato a Miami nella notte tra il 24 e il 25 febbraio all’uscita di un locale notturno, ripercorre vicino a sua madre l’incubo dell’arresto. Matteo Falcinelli, ha detto che la sua vicenda la segnerà a vita. Come si sente adesso, a distanza di quasi tre mesi da quanto le è accaduto? “Purtroppo è stata un’esperienza terribile ed estremamente drammatica. In quella notte si è spento qualcosa in me. L’insopportabile sofferenza non l’ho vissuta soltanto durante l’atroce tortura dell’incaprettamento, che tutti voi avete visto, ma è continuata anche nei giorni successivi, in prigione e nei diversi ospedali dove poi sono stato ricoverato. Anche se sono passati quasi tre mesi, ogni mattina che mi sveglio per me è come se fosse successo ieri”. Sul suo caso si sono attivate le istituzioni italiane, la diplomazia, ma anche la politica. In un videomessaggio lei ha detto di avere ricevuto molti messaggi di solidarietà dall’Italia e dall’estero. È stupito che la sua vicenda abbia suscitato tanto interesse? “Sì, sono rimasto molto colpito. Ho sempre detto alla mia mamma che avrei voluto raccontare la mia storia non solo per ottenere giustizia, ma anche per evitare che queste cose possano accadere in futuro ad altre persone. Colgo l’occasione per ringraziare nuovamente tutte le persone che mi stanno vicine e tutte le istituzioni, soprattutto il Governo ed il Consolato Italiano di Miami, che mi danno sostegno e mi stanno aiutando ad ottenere la giustizia”. Sua madre e suo fratello le sono molto vicini, nel supportarla e nel darle coraggio nella battaglia legale che state intraprendendo... “Quando sono stato rilasciato, la prima cosa di cui avevo bisogno è stato un abbraccio di mia madre. Forse per la prima volta nella mia vita ho avuto una grandissima paura, al di là dell’immaginabile, ed avevo bisogno di sentirmi al sicuro. Anche mio fratello Marco mi sta supportando moltissimo, con tanto tanto affetto, ed è anche venuto a Miami per poter starmi vicino personalmente. Sono rimasto invece sorpreso, anzi letteralmente scioccato, che mio padre Fulvio Falcinelli, nonostante sia stato avvisato da mio fratello Marco il 6 marzo 2024 dell’estrema serietà della mia situazione, si è totalmente disinteressato ed all’invito di Marco di contattare urgentemente la mamma, vista anche la gravità delle mie condizioni psicofisiche, ha risposto che non ci pensava minimamente. Non so che dire”. Lei e la sua famiglia avete detto di volere ottenere verità e giustizia. Quando vi sentirete soddisfatti? “Al momento mi commuove l’attenzione mediatica e tutti i messaggi di supporto che ricevo e che non mi aspettavo. Sono molto felice e colpito positivamente dall’interessamento del Governo e del Consolato di Miami, e dell’apertura del fascicolo della Procura di Roma, con la quale è in contatto l’avvocato Francesco Maresca, il quale ha dimostrato non solo una straordinaria professionalità, ma anche un impagabile ed umano sostegno a me ed alla mamma. Per noi questo è già un grande passo avanti. Per quanto riguarda la giustizia, sono sicuro che i miei legali gestiranno la situazione nel modo giusto ed a livello altamente professionale e da parte mia spero, che la mia vicenda possa dare coraggio anche a quelle persone, che magari hanno subito brutalità simili, ma non hanno avuto forza oppure hanno avuto paura di denunciarle”. Sua madre ha detto che la vostra è una battaglia per i diritti umani. Il significato dell’azione legale che state preparando va oltre il suo caso? “Chiaramente la mia azione legale è indirettamente mirata anche a combattere la brutalità e l’uso eccessivo della forza da parte della polizia americana, per il rispetto delle persone e dei diritti umani. Studiando negli Stati Uniti da 6 anni, ormai sono consapevole che queste ingiustizie capitano molto spesso e credo che le vittime debbano farsi avanti e non avere paura di denunciare i fatti. Ci deve essere un cambiamento perché non è giusto trattare le persone come animali”. Lei ora si trova a Miami, nel campus dell’Università che frequenta. Ha detto anche di avere paura di restare negli Stati Uniti. È così? “Ho molta paura…. Perché quando una persona subisce i maltrattamenti e le torture come quelle, che ho subito io, penso che sia naturale aver paura di tutto e di tutti… Ovunque”. Lei ha conseguito la prima laurea negli Usa. Pensa di proseguire i suoi studi negli Stati Uniti e continuare a vivere in Florida? “Il mio obiettivo è di provare a terminare questo percorso di studi per non rendere vani i sacrifici ed enorme sforzo, sia economico che personale, che ha fatto la mia mamma, insieme a mio fratello Marco. Loro hanno sempre creduto in me e mi hanno sempre sostenuto, anche con grandissimi sacrifici, visto che mio padre si sta sottraendo alle proprie responsabilità da anni e non mi ha dato mai neanche un euro per mantenermi durante i miei studi. Inoltre si tratta anche di una mia sfida personale per cercare di non permettere alle persone, che mi hanno distrutto ed umiliato come essere umano, di rovinarmi anche il futuro. Non so, però, se ci riuscirò …. Sicuramente sarà molto dura”. Quando tornerà in Italia? Qual è la prima cosa che farà? “Dovrei tornare verso la fine della settimana. Dobbiamo, però, ancora prenotare i voli i quali, essendo a ridosso della partenza, sono molto costosi per noi. Stiamo quindi cercando la soluzione più economica possibile. La prima cosa che vorrei fare, appena sarò in Italia, è salutare personalmente i miei amici e tutti quelli che mi sono stati vicini. Ovviamente, dovrò prima fare tutti gli accertamenti medici ed incontrarmi con l’avvocato Francesco Maresca per intraprendere le dovute azioni”. Cosa vede nel suo futuro? “Al momento mi sento completamente perso. Ho passato dei giorni in prigione, totalmente abbandonato a me stesso e senza la possibilità di comunicare con l’esterno, non sapendo cosa ne sarebbe stato di me. Proprio in quei giorni avevo perso la speranza cosa che tutt’ora ancora non ho ritrovato. Devo affrontare questo percorso a piccoli passi ed il primo obbiettivo è di terminare gli studi, se le mie condizioni psicofisiche me lo permetteranno. Non so se rimarrò in Florida, questo episodio ha sicuramente cambiato la mia prospettiva”. Ungheria. Termini di detenzione scaduti, ma Ilaria Salis resta un carcere di Frank Cimini L’Unità, 15 maggio 2024 La denuncia del padre: “Non c’è la proroga del giudice perché si attende la decisione sul ricorso contro la negazione dei domiciliari a Budapest. Quindi Ilaria è rinchiusa senza che l’abbia disposto un magistrato. E l’Italia non fa nulla”. Ilaria Salis continua a stare in carcere a Budapest nonostante i termini di detenzione siano scaduti lo scorso 8 maggio senza che sia intervenuta una proroga da parte del giudice. Lo denuncia il padre dell’insegnante di Monza Roberto Salis aggiungendo che alla figlia viene negato il diritto di votare alle elezioni europee perché detenuta all’estero. Stando a quanto denuncia Roberto Salis il giudice non decide sulla proroga della detenzione finché non arriva la decisione del tribunale rispetto al ricorso presentato contro la negazione degli arresti domiciliari del 28 marzo scorso. “La sostanza è che Ilaria è in carcere senza che ci sia una disposizione della magistratura - dice l’ingegner Salis - questo avviene senza che il governo e la diplomazia faccia nulla”. La decisione dell’appello sui domiciliari dovrebbe arrivare tra oggi e i prossimi giorni secondo il legale ungherese che ha presentato l’istanza. È una questione è difficile da capire perché i domiciliari sono comunque una firma di detenzione che deve essere autorizzata da un giudice. Sulla questione del diritto di voto alle elezioni l’ambasciatore italiano a Budapest Manuel Jacoangeli ha contattato il ministero dell’Interno considerando che si tratta di un loro problema. Per ora hanno detto a Ilaria Salis che essendo lei straniera non sanno come farla votare. L’europarlamentare di Verdi e Sinistra Massimiliano Smeriglio chiede al governo italiano, alle istituzioni e al ministero degli Esteri di intervenire con la massima fermezza sia sul prolungamento della detenzione sia sul diritto di voto negato. Roberto Salis in merito alle polemiche sulla sua presenza al salone del libro di Torino fa presente che in quella sede c’era il ministro Salvini. “E io sto facendo esattamente le stesse cose di Salvini. Sono un libero cittadino che in campagna elettorale può dire quello che gli pare a meno che non vogliamo limitare i diritti dei liberi cittadini” ha aggiunto il papà di Ilaria Salis che tornerà in udienza il prossimo 24 maggio. Tailandia. Morta in carcere attivista dei diritti umani, dopo uno sciopero della fame di 65 giorni ilpost.it, 15 maggio 2024 Martedì a Bangkok, in Tailandia, è morta in carcere l’attivista per la democrazia Netiporn Sanae-Sangkhom, che stava conducendo da oltre due mesi uno sciopero della fame per protestare contro l’incarcerazione dei dissidenti politici all’interno del paese. Netiporn Sanae-Sangkhom, che aveva 28 anni, era stata arrestata lo scorso gennaio perché accusata del reato di lesa maestà, che prevede fino a 15 anni di reclusione, per aver partecipato nel 2020 a un corteo che aveva ostacolato il percorso di un convoglio della famiglia reale. Aveva iniziato lo sciopero della fame dopo il suo arresto: il personale penitenziario ha detto che è morta martedì mattina. Il corteo a cui aveva partecipato era stato organizzato nell’ambito di una serie di proteste per la democrazia organizzate nel 2020, in cui soprattutto i più giovani del paese avevano chiesto l’introduzione di una serie di riforme che limitassero il potere e la ricchezza della monarchia. Durante le proteste era stata chiesta anche l’abolizione del reato di cui era stata accusata Netiporn Sanae-Sangkhom. Per ricordarla sono state organizzate veglie sia a Bangkok che in altre città della Tailandia.