Telefonate ai figli minori, illegittimo un regime più restrittivo per i detenuti “ostativi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2024 Per la Corte costituzionale è “irragionevole la limitazione per chi ha dimostrato di non avere più collegamenti con la criminalità organizzata e di essere meritevole dei benefici penitenziari”. La Corte costituzionale, con la sentenza numero 85, ha dichiarato illegittima la norma che impone un regime più restrittivo in materia di telefonate con i figli minori per i detenuti ostativi che hanno accesso ai benefici penitenziari. La Consulta ha accolto la questione sollevata da un magistrato di sorveglianza di Padova, ritenendo irragionevole che un detenuto condannato per un reato “ostativo” (tra cui quelli di mafia, terrorismo ed eversione) sia stato sottoposto - durante il periodo pandemico - a limitazioni nelle comunicazioni telefoniche con i figli minori, pur potendo fruire di altri benefici come i permessi premio. La Corte, redattore il giudice Francesco Viganò, ha sottolineato che la presunzione di pericolosità sociale per i detenuti ostativi può essere superata nel caso in cui, come nel caso in questione, il detenuto abbia dimostrato con il suo comportamento di non avere più collegamenti con la criminalità organizzata e di essere quindi meritevole dei benefici penitenziari. In tali situazioni, secondo la Consulta, non vi è alcuna ragione per limitare il diritto del detenuto a mantenere i contatti con i propri figli, un diritto fondamentale che assume particolare importanza proprio nell’ottica del reinserimento sociale. Da precisare che la questione riguarda le disposizioni che si ebbero durante la pandemia. Aumentarono le telefonate per tutti, tranne chi era recluso per reati ostativi. Ricostruiamo l’antefatto. E.C. sta scontando una pena di trent’anni per sei omicidi, associazione mafiosa ed altri reati. Dal 2020 ha ottenuto i permessi premio e ha potuto coltivare il legame con il figlio di 9 anni, nato durante la detenzione. Nonostante i pareri positivi di Uepe, Dda e Questura, e la condotta carceraria esemplare, durante il periodo pandemico ha visto limitate le sue telefonate con il figlio minore a una a settimana, contrariamente a quanto previsto per i detenuti ordinari che potevano usufruire di telefonate quotidiane. Il magistrato di sorveglianza ha sollevato la questione costituzionale per diversi motivi: viola il diritto di famiglia (articolo 3 Cost.) perché il legame tra padre e figlio è un diritto fondamentale che non può essere limitato se non per motivi gravi e proporzionati. Lega la limitazione a reati gravi, non alla pericolosità del detenuto: la norma non tiene conto del fatto che E.C. non è stato coinvolto in altri fatti di criminalità organizzata da 20 anni e ha dimostrato un percorso di riabilitazione. Discrimina i figli dei detenuti per mafia: la norma crea una disparità di trattamento ingiustificata tra i figli di detenuti per mafia e quelli di altri detenuti. Contrasta con le convenzioni internazionali sui diritti umani: la norma viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8) e la Convenzione sui diritti del fanciullo (art. 3). Per questo motivo aveva sospeso il procedimento e rimesso la questione alla Corte Costituzionale per valutare la legittimità della norma. In attesa di una pronuncia definitiva, il figlio di E.C. ha continuano a ricevere una telefonata a settimana dal padre durante il periodo pandemico. La Corte costituzionale ha accolto la questione, ritenendo irragionevole la limitazione delle telefonate per i detenuti ostativi che hanno dimostrato, con il loro comportamento, di non avere più collegamenti con la criminalità organizzata e di essere quindi meritevoli dei benefici penitenziari. In tali situazioni, secondo la Consulta, non vi è alcuna ragione per limitare il diritto del detenuto a mantenere i contatti con i propri figli, un diritto fondamentale che assume particolare importanza proprio nell’ottica del reinserimento sociale. La Corte ha quindi dichiarato illegittima la norma nella parte in cui impediva ai detenuti ostativi che avevano accesso ai benefici penitenziari di fruire delle stesse condizioni di telefonate con i figli minori concesse ai detenuti ordinari durante la pandemia. Tale decisione rappresenta un passo importante verso la direzione di garantire il rispetto dei diritti umani anche per i detenuti ostativi, a patto che dimostrino di aver intrapreso un percorso di riabilitazione. Ciò significa che in futuro, qualsiasi disposizione riguardante il numero delle telefonate per i detenuti, dovrà tenere conto anche della situazione dei detenuti ostativi che hanno avuto accesso ai benefici penitenziari, garantendo loro pari opportunità di contatto con i propri figli. “Quindici giorni di carcere tra i detenuti per i magistrati vincitori del concorso” ansa.it, 14 maggio 2024 Oggi, alle 17.30, alla Sala Stampa della Camera dei Deputati la presentazione della proposta di legge. Trascorrere, per i magistrati di nuova nomina, quindici giorni in carcere da trascorrere obbligatoriamente tra i detenuti. È questa, parte di una proposta ideata dell’Associazione “Amici di Leonardo Sciascia”, presieduta dall’avvocata Simona Viola, da presentare in Parlamento, e che riguarderebbe tutti i futuri magistrati subito dopo avere vinto il concorso. L’iniziativa è co-promossa dall’associazione “Italia Stato di Diritto”, presieduta dall’avvocato Guido Camera, che ha contribuito attivamente a redigere il testo insieme a un gruppo di lavoro di avvocati e docenti universitari. L’idea - e non è un caso il riferimento dell’associazione al suo nome - era già stata partorita da Leonardo Sciascia. Il celebre scrittore siciliano, in un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera il 7 agosto 1983, a proposito delle disfunzioni della giustizia italiana, aveva infatti osservato che “un rimedio paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare a ogni magistrato una volta vinto il concorso almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti. Sarebbe indelebile esperienza - proseguiva Leonardo Sciascia - da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Al momento la sottoscrizione ha visto l’adesione di +Europa, ma le associazioni vogliono aprire al consenso della maggioranza delle forze politiche. E viene posta all’attenzione del ministro Carlo Nordio, impegnato nella riforma della giustizia. La “Proposta di Legge Sciascia-Tortora” è composta da due articoli destinati ai futuri magistrati: un tirocinio di quindici giorni di esperienza carceraria e lo studio della letteratura dedicata al ruolo della giustizia e del diritto penitenziario, in modo da comprendere concretamente come vive chi è privato della libertà. L’appuntamento è fissato alla Sala stampa della Camera dei Deputati, oggi, alle ore 17.30 per la conferenza stampa di presentazione. Carriere separate, riforma sospesa: l’allarme di Forza Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 14 maggio 2024 Gli impegni della campagna elettorale allontanano il sì al ddl. “Gli accordi erano altri”, dicono gli azzurri. Sabato scorso a Palermo, a margine del suo intervento al 36esimo congresso dell’Associazione nazionale magistrati, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha ammesso ai cronisti: “In questo momento si stanno affollando provvedimenti di vari tipi, siamo in campagna elettorale e questo riduce di molto le possibilità di riunione del Parlamento e dello stesso governo. Quindi, per quanto riguarda i tempi per la riforma della separazione delle carriere, non ho una data”. Queste parole - oltre a rafforzare le ipotesi rilanciate dall’onorevole Davide Faraone, per cui “FdI non vuole la separazione delle carriere”, e da Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, secondo il quale “questa norma non vedrà mai la luce perché non ci sono le intenzioni e sicuramente mancano i tempi” - mettono in allarme Forza Italia che della riforma vorrebbe fare un cavallo di battaglia in vista delle elezioni europee di inizio giugno. Come ci spiega il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Fi in commissione Giustizia di Palazzo Madama, “da quanto ne sappiamo a Via Arenula stanno ancora lavorando sul ddl costituzionale”. Qualora la riforma non dovesse approdare in Consiglio dei ministri prima dell’appuntamento elettorale “noi non saremmo certamente contenti. Non erano questi gli accordi. Si tratta di una nostra storica battaglia e il fatto che vi venga posto un freno ci pone dei problemi anche davanti ai nostri elettori”. Il senatore comunque amplia lo sguardo delle riforme: “Abbiamo assistito a un generale rallentamento dell’azione di governo sulla giustizia nelle ultime settimane”. Zanettin ha “trovato sorprendente, per esempio, che non sappiamo ancora quando verrà approvato alla Camera il testo del ddl Nordio (quello che contiene modifiche su abuso d’ufficio, traffico di influenze, intercettazioni a tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento, contraddittorio, collegialità e misure cautelari, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, ndr). Poi c’è tutto il pacchetto sulle intercettazioni e sequestro smartphone, che abbiamo licenziato al Senato, ma ancora non abbiamo visto calendarizzato alla Camera; ora dobbiamo portare in Aula a Palazzo Madama il testo sulle intercettazioni a 45 giorni, ma anche in questo caso non c’è una data. Quindi siamo parecchio meravigliati da questo stallo, che non è nelle nostre corde”. Ovviamente Forza Italia si aspettava che tutte queste riforme prendessero una accelerata prima delle Europee, ma l’evidenza sconfessa i desiderata. Tuttavia gli azzurri non resteranno a guardare, assicura Zanettin: “Sicuramente faremo il massimo di pressione sul governo; però, per quanto riguarda le riforme in Parlamento, non abbiamo oggettivamente molti slot a disposizione, se solo pensiamo che l’ultima settimana prima delle elezioni le Aule tradizionalmente non lavorano”. Per quanto concerne invece la riforma della separazione delle carriere aggiunge Zanettin: “La convocazione di un Cdm è più snella, avendo meno formalità. In teoria il testo potrebbe anche arrivare sul tavolo, anche se la riforma si sta molto arricchendo sul piano dei contenuti”. Zanettin aggiunge: “Noi abbiamo nel governo il vice ministro Sisto, però non dovrebbe escludersi un percorso di consultazione con i gruppi parlamentari. Tuttavia al momento non sono in grado di dire nulla perché è ancora tutto in mano al legislativo di via Arenula”. Effettivamente in commissione Affari costituzionali della Camera giacciono quattro pdl di riforma sul tema, che si basano sulla proposta di iniziativa popolare dell’Unione camere penali, tutte incentrate sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente e sul Csm. Adesso, da quanto appreso, si vorrebbe inserire altro: il sorteggio per i membri del governo autonomo, l’Alta Corte come secondo appello per il disciplinare, l’avvocato in Costituzione. Tutte questioni che necessitano di un maggior approfondimento e di più tempo per l’elaborazione. Come ci dice un altro esponente di Forza Italia, che però vuole rimanere anonimo, “possiamo anche essere d’accordo sull’Alta Corte, ma fino ad oggi non c’è stato alcun dibattito politico. Ad esempio ci chiediamo da chi debba essere composta. Teniamo conto che c’è un progetto della Bartolozzi (ora capo di Gabinetto del Ministro, ndr) presentato la scorsa legislatura, poi c’è quello dell’attuale vice presidente del Senato, la dem Anna Rossomando. E ancora: il sorteggio puro per i membri del Csm sarebbe una forzatura, anche costituzionale, mentre quello temperato potrebbe rappresentare un buon punto di mediazione”. Sulla possibilità che il testo vada in Cdm prima dell’estate la fonte parlamentare ha proseguito: “È possibile ma non è che il governo può fare da solo questa riforma. Sarebbe opportuno sentire i partiti di maggioranza prima di arrivare al Consiglio dei ministri”. Il rischio quindi è che tra le Europee da un lato e la richiesta, soprattutto da parte di Forza Italia, di discutere nel dettaglio ogni singolo punto della riforma che va via via ampliandosi dall’altro lato si possa arrivare a settembre per conoscere finalmente il testo normativo del ddl costituzionale. La riforma frena, ma i magistrati non si fidano di Mario Di Vito Il Manifesto, 14 maggio 2024 Dopo il passo indietro di Nordio sulla separazione delle carriere, tra le toghe non diminuiscono le perplessità. Santalucia (Anm) risponde al complottista Crosetto. L’impressione che lasciato Carlo Nordio alle toghe riunite in congresso a Palermo lo scorso weekend è quella di un ministro dimezzato. Non è sfuggito a nessuno, infatti, che l’attesa riforma della giustizia, data per imminente la settimana scorsa, è destinata a slittare a data da destinarsi. L’ha detto proprio Nordio sabato mattina: la campagna elettorale delle europee non dà modo di lavorare su un dossier tanto delicato. Sullo sfondo, però, si intuiscono altre questioni: il caso Liguria sta dando di che riflettere alle forze di governo, e, nonostante la separazione delle carriere è uno di quegli scalpi che soprattutto Forza Italia vorrebbe poter dire di aver conquistato prima del voto, arrivare a un testo condiviso da far uscire dal consiglio dei ministri non è sembrato fattibile a nessuno. La questione, tuttavia, non è chiusa. E le toghe lo sanno bene. Ragiona il segretario di Area democratica per giustizia Giovanni Zaccaro: “L’ennesimo annuncio della riforma della magistratura serve a nascondere la verità: la giustizia, soprattutto quella penale, tende ad essere forte con i deboli e debole con i forti. Lo dimostra lo scandalo delle carceri italiane. Noi crediamo invece che la giustizia serva a garantire i diritti di tutti, soprattutto di chi non ha nessuna altra tutela e perché sia così non servono polemiche e riforme, servono investimenti soprattutto nel personale amministrativo”. Anche dalle parti dei centristi di Unicost le critiche sono forti e circostanziate. “Noi siamo contrari alla separazione delle carriere perché temiamo fortemente che il pubblico ministero si allontani dalla cultura dei diritti, dalla cultura della giurisdizione. Nel nostro ordinamento il pm è primo presidio di garanzia dei cittadini nella delicata fase delle indagini preliminari ed esercita una funzione giurisdizionale e raccoglie prove anche a favore degli indagati”, spiega il magistato Pierpaolo Filippelli. Da Magistratura democratica, Stefao Celli comunque invita a non fidarsi troppo delle tempistiche apparentemente dilatate della riforma. “Nordio sembra molto convinto di volerla fare - dice Celli - e a ben guardare non è che ci voglia tutto questo tempo per chiudere la partita. Alla fine è come fare due leggi. E questo governo ha una maggioranza molto forte. Quindi direi che bisogna tenere la guardia alta”. Il clima dello scontro tra politica e magistratura, per il resto, è ancora infuocato. Il ministro della Difesa Crosetto, domenica, si è fatto intervistare dalla Stampa per spararne una delle sue: “L’equilibrio non è messo in pericolo dalle correnti della magistratura, ma da un potere che non ha più controlli, in cui anche un singolo pm, se arrabbiato con qualcuno, può distruggerlo. Su questo vorrei delle garanzie per spararne una delle sue”. La replica del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Un ufficio di procura in inchieste come quella di Genova si muove con una collegialità: pensare che non ci sia significa non conoscere assolutamente i meccanismi della giustizia. Di fronte a queste affermazioni, che sono talmente vaghe, faccio fatica a contrastarle sul piano delle argomentazioni serie”. I magistrati: “Non siamo una casta”. L’allarme di Crosetto e Conte evoca la P2 di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 14 maggio 2024 La giustizia è terreno di contro sia tra le forze politiche sia tra toghe e governo. Il ministro della Difesa: “Sono stato invitato alla cautela. Ma se qualcuno inventasse qualcosa per farmi male sarebbe un problema della democrazia”. È ancora la giustizia il terreno di scontro più violento, mentre il voto delle Europee si avvicina. Uno scontro in cui si fronteggiano i partiti tra loro e il governo con i magistrati. Nel giorno in cui si chiude il congresso dell’Anm a Palermo, le toghe confermano il loro no alla separazione delle carriere (“Non si tratta”), respingono l’accusa di corporativismo - “Non siamo una casta” - e rivendicano il diritto di partecipare al dibattito senza subire attacchi. Dopo il sostegno del Pd, incassano quello di M5S e Verdi e sinistra. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, però, nelle stesse ore lancia un nuovo allarme contro i “pm politicizzati” e avverte: “Se ora qualcuno, nella magistratura, per via delle opinioni che ho espresso, inventasse qualcosa per provare a farmi male, sarebbe un problema della democrazia”. Un clima infuocato. Giuseppe Conte, ospite ieri a Palermo, promette il suo sostegno ai magistrati in trincea: “Il modello italiano della separazione delle carriere non va rivisto, sono nettamente contrario”. Poi sposta però l’attenzione dal tema centrale per la platea, e tira fuori due precedenti impegnativi, capaci di maggior presa, forse, sull’elettorato. Nelle recenti inchieste giudiziarie Conte legge “le premesse di una nuova tangentopoli”. Poi riferendosi alle riforme costituzionali, parla di “patto scellerato”, una “svolta autoritaria che presenta assonanze con il progetto di rinascita democratica della P2”. Dichiarazioni che indignano la Lega: “Parole molto gravi. Conte abbia il coraggio di accettare il confronto tv con Salvini”. Eppure i magistrati, nella pur netta mozione approvata per acclamazione, avevano tentato di tenere il focus sull’amministrazione della giustizia e sul suo futuro. “La separazione delle carriere non è affatto funzionale a garantire la terzietà del giudice, ma appare piuttosto uno strumento per indebolire in modo sostanziale il ruolo del pubblico ministero e la funzione di controllo di legalità”. Un ulteriore passaggio, dedicato ai contrasti tra toghe e politici, esplicitando il rischio di attacchi personali ai giudici invece che ai loro provvedimenti, sembrava invitare a un approccio diverso: “La dialettica tra i poteri trae alimento dalla critica anche dei provvedimenti giudiziari. Ma è dannosa una critica fondata sulla ricerca nella vita privata del magistrato di dichiarazioni e comportamenti, talvolta travisati, per dare l’impressione di partigianeria. Così si inquina il dibattito e si genera sfiducia verso la magistratura”. Difficile immaginare che una nuova stagione sia imminente. Crosetto, esponente di peso di FdI, sembra preoccupato esattamente del contrario. Se già a novembre, sul Corriere, il ministro aveva paventato i rischi di “un’opposizione giudiziaria al governo”. Ieri, dopo dichiarazioni dello stesso tenore a La Stampa, ha lanciato l’allarme inquietante di manovre contro di lui: “Molti tra i quali anche un ex magistrato - scrive Crosetto sui social - mi hanno scritto per elogiare il mio coraggio, sostenendo che ora rischio ritorsioni. Mi invitano a pensare a me e ai miei familiari, a fare attenzione. Io ho solo espresso le mie idee e mi rifiuto di crede che i magistrati mi considerino un nemico”. Il vizio populista di etichettare gli avvocati di Francesco Petrelli* La Stampa, 14 maggio 2024 La dottoressa Stasio, nel rispondere alle critiche rivoltele per i contenuti del suo articolo “La separazione delle carriere e la scelta degli avvocati”, parla di “intolleranza” nei confronti di “opinioni dissenzienti” e di “aggressione personale”. Un modo, anche questo, di continuare a ricorrere al vizio populista di dividere il mondo fra chi sta dalla parte del bene e chi dalla parte del male, fra buoni e cattivi e di spostare il discorso dal mondo delle idee e del pensiero a quello degli schieramenti contrapposti. Non ci piace che si dia il patentino di “democratico” solo a chi la pensa come noi. Restiamo dell’idea che l’assunto secondo il quale vi sarebbero “avvocati democratici” che devono necessariamente contrapporsi a chi vuole la separazione delle carriere sia una pessima idea, che non tiene conto della realtà. Dimentica che gli avvocati dell’Ucpi difendono da sempre, e spesso in solitudine, i diritti e le garanzie di tutti i cittadini, anche gli ultimi, i più deboli e i più indifesi, sia dentro che fuori dalle aule di giustizia del nostro Paese. E lo fanno a dispetto di una certa distorta vulgata populista. E dimentica che a quegli stessi avvocati, ora esposti al pubblico ludibrio, come nemici della democrazia e come attentatori dell’ordine costituzionale, capita di difendere spesso anche l’indipendenza della magistratura dagli attacchi, interni ed esterni, magari nel silenzio della magistratura associata. Ma il pensiero unico che vuole da trent’anni la separazione delle carriere come il male assoluto, merita a suo dire una condanna senza appello. Nel mondo malamente diviso fra “avvocati democratici” e “cattivi avvocati” (gli avvocati marcati Ucpi) la dottoressa Stasio invita i colleghi “democratici” a scendere in piazza per manifestare contro chi vuole riformare la costituzione separando le carriere. “Stenta a credere” che i buoni avvocati non isolino quelli cattivi visto lo squilibrio numerico che caratterizza le due “fazioni”. Come se il tema della separazione non avesse un ambito che riguarda tutti i cittadini, che dimostrano di ben comprendere l’importanza della questione quando non sono schiacciati dagli slogan e dalle parole d’ordine di quella parte della magistratura che si oppone ad ogni cambiamento, in difesa dello status quo. Del quale magari ci sarebbe qualcosa da dire. Ad esempio, sul numero delle ingiuste detenzioni che è già costato al Paese circa un miliardo di indennizzi e un’intera città di indebitamente reclusi. Sullo squilibrio fra il ruolo dei giudici e quello dei pubblici ministeri, i quali esercitano in questo Paese il monopolio dell’informazione giudiziaria, ed una vera e propria indiscussa egemonia, quali unici autentici tutori dell’etica pubblica ed esclusivi custodi della verità. Mi è capitato, nella mia risposta, di “entrare nel merito” della questione, proponendo una riflessione circa il fatto che unicità delle carriere e codice inquisitorio, ereditati dallo stato autoritario e da quell’Ordinamento giudiziario di Dino Grandi del 1941, costituiscono un intreccio indissolubile, letale per la realizzazione di un processo moderno e democratico. Realizzare la terzietà del giudice, separando le carriere, non è dunque affatto - come sostiene la dottoressa Stasio - un “totale rovesciamento dell’attuale assetto della magistratura” pensato dai nostri padri costituenti “per impedire un ritorno alla tragica esperienza del ventennio fascista”, ma esattamente il contrario: significa dare attuazione ad un fondamentale principio democratico contenuto nell’art. 111 della nostra Costituzione che vuole che il processo si celebri davanti a un giudice “terzo”. D’altronde gli ordinamenti che conoscono l’unitarietà delle carriere sono tipicamente quelli di stati illiberali come la Turchia, la Bulgaria o la Romania, che non ci paiono esempi di democrazie liberali cui fare riferimento. Tutt’altro che volgere verso un indebolimento della magistratura, la riforma ne rifonderebbe la legittimazione e ne rafforzerebbe l’autonomia e l’indipendenza. La dottoressa Stasio ha citato l’invito formulato da Marcello Gallo, da avvocato e da accademico, a “sporcarsi le mani”, impegnandosi nella difesa dei valori del processo e da “legislazioni ispirate alla logica dell’autoritarismo”. Ma come è possibile, oggi, disgiungere tale invito dall’affermazione formulata da questo illustre Maestro circa la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, criticando il fatto che “nel nostro ordinamento l’organo che sottopone ed organo che decide sono due rami dello stesso tronco” e facendo infine giustizia dell’idea stessa che un pm separato “finirebbe per essere inevitabilmente attratto nella sfera dell’esecutivo”, negando fermamente che tale separazione possa essere “preambolo alla soggezione del pm all’autorità politica” ed affermando di non vedere fra le due cose “assolutamente alcun nesso logico”. Non solo, dunque, non vedeva nulla di autoritario in tale riforma, ma la riteneva funzionale a preservare la nostra democrazia liberale. Il pensiero di un grande giurista quale fu Marcello Gallo, che la dottoressa Stasio ha ritenuto di evocare, non può essere disinvoltamente rinnegato, anche se capisco che si faccia fatica a veder collocato Marcello Gallo nella lista degli avvocati antidemocratici e dei nemici della polis, in compagnia di tanti altri colleghi, iscritti o non iscritti alle Camere Penali, che hanno altrettanto a cuore, ne stia tranquilla l’autrice dell’articolo, i valori della nostra Costituzione per i quali si battono quotidianamente, ma al tempo stesso pensano che sia giunto il momento di attuarla quella sacrosanta riforma per il bene della giustizia di questo Paese. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Tre indizi per capire quando nel processo mediatico scatta l’ora del cialtrone di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 maggio 2024 Arriva sempre un momento, durante un’inchiesta che ha grande rilievo sui media, in cui le accuse non sono più sufficienti a sfamare la pancia dell’opinione pubblica. E’ in quel momento che tra i giornali, i cronisti e le procure scatta come una scintilla magica: noi continuiamo a occuparci volentieri di questa inchiesta, voi però continuate a offrirci bignè per poter saziare l’appetito dei nostri lettori. Così arriva quella fase durante la quale le inchieste giudiziarie vengono affiancate sui giornali da allusioni gratuite, da aggettivi fuori luogo e da una serie di parole ricorrenti - tre in particolare - il cui utilizzo segnala con una certa precisione un passaggio durante la fase di un’inchiesta: “l’ora del cialtrone”. Il primo indizio per capire se la fase appena citata sia presente o no all’interno del dibattito pubblico è quando improvvisamente le pagine delle cronache giudiziarie si riempiono di intercettazioni penalmente irrilevanti. Le intercettazioni penalmente irrilevanti sono fondamentali per un’indagine che vuole vincere la partita del processo mediatico: aiutano a rafforzare un’idea che magari non si riesce a dimostrare con le prove e offrono un contributo strategico al tentativo di descrivere il clima tossico all’interno del quale si muovono i protagonisti di un’inchiesta. Accanto alla diffusione capillare di intercettazioni irrilevanti vi è poi un altro passaggio importante che permette di mettere a fuoco la presenza di una fase pericolosa all’interno di un’inchiesta ed è quella in cui i giornali utilizzano l’espressione “spunta”. Nell’inchiesta “spunta...”. E ciò che spunta, che quasi mai ha a che fare con le indagini, aiuta sempre a portare acqua al mulino della tesi dell’accusa e aiuta sempre a conquistare la fiducia di un organo importante all’interno di un processo mediatico: il tribunale del popolo. C’è qualcosa che non va nello “spunta”. Ma c’è qualcosa che non va anche quando un magistrato sceglie di utilizzare in un’ordinanza espressioni da scrittore (significa che le prove non parlano da sé e che per farle parlare è necessario giocare con le parole). E c’è qualcosa che non va anche quando i giornali utilizzano parole che fingono di essere imparziali ma nascondono un’adesione piena alla tesi dell’accusa (una su tutte: “La cricca”). L’utilizzo di espressioni che esprimono una condanna fino a prova contraria dei protagonisti, miscelate con intercettazioni penalmente irrilevanti, unite a loro volta a demonizzazioni dei contesti descritti attraverso la trasformazione, per esempio, del lusso in veicolo inevitabile di malaffare aiuta a rafforzare un meccanismo cruciale all’interno del processo mediatico: permette all’accusa di poter conquistare un ottimo spazio mediatico, sottrae alla difesa occasioni per mostrare le eventuali debolezze dell’accusa e crea un habitat naturale per far sì che i giudizi etici e morali possano saldarsi con le ipotesi di reato, creando un mondo osceno all’interno del quale chi è accusato deve dimostrare la sua innocenza, non il contrario, e all’interno del quale la dittatura dello “spunta..”, dinanzi al tribunale del popolo, conta più del rispetto dello stato di diritto. Avanti il prossimo. Storie di dieci “scafisti” innocenti di Angela Nocioni L’Unità, 14 maggio 2024 In sala colloqui, a Reggio, origliano l’incontro tra la donna iraniana e il difensore e poi si accaniscono proibendole di tenere in mano l’immagine del bambino. Intanto in appello fioccano le assoluzioni di poveretti condannati in primo grado. Guardate che bell’ambientino il Tribunale di Locri. Che interessanti relazioni tra avvocati e pm, che garanzie per gli imputati poveri cristi. La Camera penale locale ha condannato un pezzo dell’Unità titolato “Pregate Dio di non finire in mano al Tribunale di Locri, la fabbrica degli scafisti” bollandolo in un comunicato mandato ai giornali calabresi come “chiaro ed evidente attacco all’amministrazione della giustizia verso i magistrati del Tribunale di Locri e, quindi, anche dell’avvocatura penale che ne consentirebbe un uso spregiudicato e al di fuori delle regole”. Strani penalisti questi che si scapicollano a difendere i pm. Come non s’è visto fare da avvocati nemmeno nel Venezuela di Nicolas Maduro, chissà in Afghanistan. Strani, ma generosi. Perché mancava un tassello alla descrizione dell’aria che tira in quel tribunale da cui fioccano condanne in primo grado a persone additate come trafficanti d’esseri umani poi puntualmente smontate in appello a Reggio Calabria. Persone assolte con formula piena. Perché il fatto non sussiste. Per non aver commesso il fatto. Tutti giovanissimi, tutti con la vita distrutta, tutti costretti a passare anni in cella perché qualcuno ha fatto le indagini coi piedi o non le ha fatte per niente. Due casi: quello di Shami Mohammad, ragazzino siriano fuggito dalle bombe su Aleppo. Additato come scafista. In primo grado, il 15 giugno del 2023, Giudice Mauro Bottone, condanna a 4 anni e 6 mesi cancellata il 20 febbraio in Appello a Reggio Calabria per assoluzione con formula piena richiesta dal procuratore. Dei cronisti giudiziari quella mattina in Aula nemmeno l’ombra. Sarà per questo che la notizia è sfuggita alla stampa locale? Eppure non succede spesso di ascoltare un procuratore d’appello chiedere l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Bastava fare una telefonata per capire che non c’entrava nulla con quell’accusa il ragazzo, ma quella telefonata gli inquirenti non l’hanno fatta. Shami Mohammad era in carcere ingiustamente dal 16 maggio del 2022. Oppure il caso di Ashoour Mahrous Eldenasaouri condannato in primo grado il 2 marzo del 2023 a 4 anni e 6 mesi (Giudice Mauro Bottone) assolto anche lui per non aver commesso il fatto il 14 marzo del 2024. Era in carcere ingiustamente dal 4 giugno del 2021. Idem per Ramandan Abou Sbeisbaa El Gendy, Ahmed Mohammed Mahmod Ali, Ashour Mahrous Eldenasaouri Tamer, El Said Hassan Imad Ibrahim, Essaid Hassan Ali Essaid, Jabir Ali Salem Mohammed Jaleh Hid, Rait Ibrahim Said Hassil condannati il 2 marzo 2023 a Locri a 4 anni e 6 mesi (Giudice Mauro Bottone) e assolti il 14 marzo di quest’anno dalla seconda sezione penale della Corte d’Appello di Reggio presieduta da Davide Lauro per non aver commesso il fatto. Anche loro, tutti scafisti immaginari. E il caso di Marjan Jamali, una donna di 29 anni, di Teheran, che viaggiava sola con suo figlio di 8 anni, in attesa di giudizio in carcere dalla fine di ottobre, senza mai essere stata interrogata da un magistrato dopo l’interrogatorio di garanzia a ridosso dell’arresto, perché indicata come scafista durante gli interrogatori in banchina, subito dopo lo sbarco, da tre uomini irakeni che durante la traversata avevano tentato di stuprarla. A quel ritratto del Tribunale di Locri pubblicato sull’Unità il 30 aprile e dei suoi clamorosi errori in primo grado mancava la descrizione dell’avvocatura locale. Ha generosamente rimediato la Camera penale sentitasi in dovere di uscire sui giornali in difesa dei giudici, ma non di persone indifese accusate di un reato infame soltanto sulla scorta di accuse non verificate nel contraddittorio delle parti: “Non sappiamo da chi e come l’articolista abbia appreso le notizie, certo è però che il tono diffamatorio usato verso i singoli magistrati appare come un’ingiustificata e deprecabile esposizione al pubblico ludibrio” scrivono. Le notizie, confesso, le ho apprese come qualsiasi cronista che non campa di carte passate dalla Procura. Ho preso un treno e sono venuta a Locri a vedere quel che accade in Tribunale. Ho assistito a un’udienza in Corte d’assise per un processo a presunti scafisti. E ho fatto due chiacchiere con il procuratore capo Giuseppe Casciaro. Ne succedono di cose strane lì dentro. Fuori dalla porta dell’Aula della Corte d’Assise una signora piena di faldoni, dipendente del Tribunale, mi ha fermata: “Lei chi è? Cosa ci fa qui? Una giornalista? Carta stampata? Ma ce l’ha il permesso per assistere all’udienza? Non si può assistere senza permesso”. Come se non fosse pubblica un’udienza di processo in un tribunale italiano. All’uscita dall’Aula un agente della polizia giudiziaria mi ha rincorsa chiedendomi i documenti, ha voluto sapere il nome del giornale perché, diceva, “gli imputati nel box si sono lamentati”. Lamentela che non risulta a nessuno dei difensori, i quali poche ore dopo sono andati a trovare gli imputati tornati in cella. Non sono finite le pene ingiuste di Marjan Jamali, i cui diritti violati agli avvocati della Camera penale di Locri paiono premere molto meno della suscettibilità della procura di cui dovrebbero essere controparte. Non solo la detenuta in attesa di giudizio non è mai stata sentita dalla pm Luisa D’Elia della Procura di Locri (e ne avrebbe di dettagli da riferire, saprebbe indicare i capitani, i testimoni). Non solo i suoi accusatori sono stati presi per oracolo dagli inquirenti nonostante si siano dileguati e resi irreperibili appena firmata la dichiarazione d’accusa. Non solo è stata trasferita di punto in bianco, appena depositata la denuncia per violenza, al reparto psichiatrico dell’ex manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto senza che fosse avvisato il suo difensore, senza che fosse possibile farle incontrare suo figlio. Non solo alla prima udienza del processo, svolto con rito ordinario perché la Pm D’Elia ha richiesto di procedere con giudizio immediato senza accogliere la richiesta di interrogatorio presentata nei termini di legge, quando il difensore ha sollevato la nullità degli atti tutti presentati all’accusata in una lingua che lei non conosce - eppure è abbastanza noto che a Teheran si parla l’iraniano - Marjan è stata sepolta in cella a Reggio Calabria ad attendere la prossima udienza fissata per il 17 giugno ed è stata rigettata con mezza paginetta la richiesta di sostituzione della misura cautelare per farla stare, per esempio, nella stessa comunità dove sta suo figlio. “Non è emerso alcuno novum” ha scritto il collegio del tribunale di Locri composto da Mario Boccuto, Raffaele Lico e presieduto da Rosario Sobbrio. Invece c’è la ricevuta di pagamento all’agenzia di Teheran del biglietto ai trafficanti, pagato dal padre della ragazza. 14mila dollari. Anche in questo caso, bastava fare una telefonata. Ci sono i testimoni, che vanno cercati. Certo, bisogna lavorare. C’è la logica: ma è credibile che sia una ragazza con un bambino iraniana a gestire una barca di maschi iracheni? Non sembra per la verità che nessuno abbia indagato un bel nulla, è stato soltanto preso per buono il verbale con le dichiarazioni dei migranti accusatori lasciati sparire nel nulla senza occuparsi di assicurarseli disponibili per un incidente probatorio come comanda la legge. Non bastasse tutto ciò per capire che c’è qualcosa che non si spiega nell’accanimento mostrato contro questa donna, neanche il sacrosanto diritto alla riservatezza del colloquio tra lei e il suo difensore viene rispettato. L’8 maggio, alle 9,40, una agente della penitenziaria è piombata nella sala in cui Marjan Jamali stava parlando con il suo legale, Giancarlo Liberati, e le ha strappato di mano le foto di suo figlio che l’avvocato le stava mostrando. Arrivata di corsa una superiore ha subito preso le difese della agente. Dell’abuso gravissimo sono stati informati il Garante nazionale dei detenuti e il Garante regionale già allertati delle ripetute illegalità commesse nei confronti di questa donna. Ora, vorremmo sapere quale norma vieta a un difensore di mostrare a una detenuta la foto di suo figlio, peraltro autorizzato a visitarla in carcere e a fare videochiamate con la mamma. Chi ha autorizzato l’agente, che non ha voluto dire il suo nome, a violare il diritto alla segretezza del colloquio tra Marjan e il suo avvocato? Nella sala c’erano solo loro due. Tanto è riservato il colloquio della persona detenuta con il suo difensore che i magistrati possono legalmente registrarlo soltanto se c’è la prova di un reato: come si è accorta la agente che la ragazza stava guardando la foto? Stava forse origliando, li stava spiando? Lo abbiamo chiesto alla direzione della sezione femminile del carcere di Reggio Calabria, di cui è responsabile la dottoressa Velletri. Che non ha risposto. Alessia Pifferi: l’ergastolo, le accuse di avvocata e pm e il circo dentro e fuori dall’aula di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 maggio 2024 L’avvocata Alessia Pontenani ha accusato madre e sorella dell’imputata di “responsabilità morale”. Viviana Pifferi: “Diana sarebbe ancora qui se fosse toccato a noi difenderla”. Di positivo - quando la Corte d’Assise lunedì mattina entra in camera di consiglio per la sentenza su Alessia Pifferi, imputata d’aver lasciato sola a casa a morire di sete e fame la figlia di 18 mesi Diana nei sei giorni di luglio 2022 in cui era in vacanza fuori Milano con un uomo - c’è che mette fine a un match che stava scendendo un po’ troppo sotto la cintura: di qua l’avvocata Alessia Pontenani (indagata dal pm in una controversa inchiesta-parallela su due psicologhe di Pifferi a San Vittore) che accusa madre e sorella dell’imputata di “responsabilità morale, sono stanca di questa famiglia comportatasi malissimo, se si fossero occupati di lei non saremmo qua”; e di là il pm Francesco De Tommasi a replicare chiedendo ai giurati popolari di “non riconoscere alcun beneficio” all’imputata “bugiarda, attrice e due volte traditrice di Diana quando la lasciò sola e quando qui ha mentito”, ma di condannarla all’ergastolo per “offrirle una speranza” (dice così), “la speranza di superare e compensare, attraverso la sofferenza della pena, il dolore che prima o poi le esploderà dentro”. Il circo mediatico - Dentro e fuori l’aula, nell’attesa, il circo allestito da decine di tv, e alimentato sino a poche ore prima dalle presenze fisse della legale nelle più varie trasmissioni, non si placa: e del resto nella penultima udienza non solo l’imputata aveva rivolto le proprie dichiarazioni spontanee alla giuria televisiva prima che alla Corte d’Assise (“Voglio dire a tutta Italia, e a lei signor giudice, che non sono un mostro”), e aveva affermato d’aver preso consapevolezza dei propri disturbi mentali “vedendo la tv”, ma addirittura il perito psichiatrico della Corte aveva messo nero su bianco che la “spettacolarizzazione mediatica subita da questa drammatica vicenda avrebbe potuto costituire un’indiretta pressione psicologica sul perito e sui consulenti di parte”. Il calcolo della pena - Alla fine il pendolo dell’aritmetica giudiziaria si ferma sull’ergastolo: per la Corte presieduta da Ilio Mannucci Pacini la 38enne nel 2022 era “capace di intendere e volere” non un “abbandono di minore” con morte come conseguenza (tesi difensiva da 3 a 8 anni di pena), bensì con “dolo diretto” l’”omicidio volontario” della figlia Diana di 18 mesi, lasciata 6 giorni sola con “due biberon di latte, due bottigliette d’acqua e una di teuccio”. L’omicidio è punito con non meno di 21 anni e non più di 24, ma se è aggravato dal rapporto di filiazione fa scattare (anche senza l’esclusa premeditazione) l’ergastolo: che schiaccia Pifferi perché i 2 giudici togati e i 6 popolari non le concedono alcuna attenuante (nemmeno le generiche) in grado di bilanciare le aggravanti, eliderle e riportare la pena ai 24 anni per omicidio semplice. Il ricorso in Appello - Pontenani ricorrerà in Appello per valorizzare in Pifferi un deficit intellettivo che, oltre a non farle provare empatia (come rilevato pure dal perito d’ufficio), le impedirebbe di accorgersi delle sofferenze altrui, nonché di prevedere e collocare nel tempo le conseguenze delle proprie azioni, risolvendosi in quella incapacità di intendere e volere negata invece dalla perizia della Corte. “Senza l’inchiesta parallela forse la perizia avrebbe dato esito diverso”, insiste Pontenani, evocandone il condizionamento a suo avviso da quando a gennaio emerse che il pm aveva intercettato due psicologhe del carcere, indagandole in concorso proprio con l’avvocato per ipotesi di falso ideologico e favoreggiamento nell’avere (secondo l’accusa) “creato, con false attestazioni sullo stato mentale della detenuta, le condizioni per tentare di giustificare test psicodiagnostici” fuori da “buone prassi”. Indagine che il 4 marzo aveva provocato lo sciopero degli avvocati milanesi per protesta contro una ritenuta “gravissima ingerenza nell’attività difensiva in corso di processo”. La madre e la sorella - “Penso che i giudici abbiano fatto quello che è giusto, perché per me Alessia non ha mai avuto attenuanti, non è mai stata matta o con problemi psicologici”. Viviana Pifferi è sua sorella, e (insieme alla madre Maria Assandri) parte civile contro di lei nel giudizio concluso dall’ergastolo. Un processo nel processo, con furibondi scambi di accuse incrociate su chi negli anni avesse abbandonato chi. Al punto che l’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani, in arringa ha chiamato in causa una loro “responsabilità morale”: “Sembra che la colpa sia nostra, ma non è così. Diana sarebbe stata qua se fosse toccato a noi difenderla”, replica la sorella Viviana, mentre la madre Maria reagisce: “Dicono che Alessia mi telefonava e non andavo, ma se è successo ci sarà stato un motivo, andavo al lavoro. Io ho fatto tutto e di più, ho l’animo in pace anche se è arrabbiato. Non ne posso più di questa storia straziante e umiliante di fronte a tutto il mondo, io non ho fatto niente di male. Alessia non ha mai fatto capire niente: se solo avessi visto o sentito tanto così, quella bambina gliela avrei portata via anche se lei non voleva”. Pontenani lamenta che Pifferi ieri sia rimasta “dispiaciuta” per “il sentire festeggiare dietro di lei alla parola “ergastolo”, ma per la sorella non è così: “In questo momento non so neanche dire cosa provo, è una cosa stranissima. Spero che adesso Diana possa volare via in pace”. E anche la madre afferma che “ora non riuscirei a dirle nulla. È un dolore atroce, si è dimenticata di essere una mamma, deve pagare per quello che ha fatto: se si fosse pentita e mi avesse chiesto scusa… Ma non l’ha fatto”. L’affidamento in prova non può essere negato basandosi sulla gravità del reato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2024 Il giudice deve valutare il comportamento e la situazione del condannato. Per valutare l’idoneità del detenuto all’affidamento in prova al servizio sociale, non basta limitarsi alla natura e alla gravità dei reati commessi. Questi rappresentano il punto di partenza per l’analisi della personalità del condannato, ma non possono essere l’unico elemento determinante. Fondamentale è anche la valutazione della condotta successiva e dei comportamenti attuali del detenuto. Questi ultimi sono essenziali per determinare se il condannato sia in un reale percorso di recupero sociale e se il rischio di recidiva sia minimizzato. Con la sentenza numero 18168, la Cassazione ha annullato l’ordinanza di rigetto impugnata dal detenuto e ha disposto un nuovo giudizio da parte del Tribunale di sorveglianza. Il Tribunale, in piena autonomia decisionale, dovrà tenere conto dei rilievi indicati dalla Cassazione. Il caso in questione riguarda il ricorso presentato da C. D. avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza di Taranto il 9 novembre 2022. Il Tribunale aveva respinto le richieste di affidamento in prova e di semilibertà avanzate da C. D., condannato a quattro anni, un mese e quattordici giorni di reclusione per vari reati. Inoltre, l’ordinanza aveva dichiarato inammissibile la richiesta di detenzione domiciliare per l’entità della pena superiore a due anni. Tramite il suo avvocato Francesco Nevoli, C. D. ha presentato ricorso per Cassazione, sostenendo che la decisione del Tribunale di sorveglianza fosse errata. Il ricorrente ha denunciato l’erronea applicazione di leggi specifiche e la contraddittorietà della motivazione fornita dal Tribunale. La Cassazione ha accolto il ricorso, evidenziando che la valutazione per l’affidamento in prova al servizio sociale non può basarsi esclusivamente sulla gravità del reato commesso. I giudici supremi hanno ribadito i principi consolidati in materia: nell’ambito dell’affidamento in prova al servizio sociale, per formulare una prognosi attendibile riguardo al raggiungimento degli obiettivi dell’istituto, sia per quanto concerne l’accoglimento che il rigetto dell’istanza, non possono assumere un rilievo decisivo, né positivo né negativo, elementi quali la gravità del reato per il quale è stata pronunciata la condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza. Allo stesso modo, non è richiesta la prova che il soggetto abbia completato una revisione critica completa del proprio passato; è sufficiente che, dagli esiti dell’osservazione della personalità, emerga che un processo critico del genere sia stato almeno avviato. La Cassazione ha ritenuto necessario considerare anche altri elementi, come la condotta e la situazione attuali del condannato, oltre alla documentazione fornita dagli organi di polizia e dai servizi sociali. La sentenza ribadisce che, pur tenendo conto della tipologia e gravità dei reati commessi, il giudice deve soprattutto valutare il comportamento e la situazione del condannato successivamente ai fatti per cui è stata inflitta la condanna. Questo approccio è essenziale per determinare se il condannato sia in un reale processo di recupero sociale e per valutare il rischio di recidiva. Va in carcere per il condannato che rifiuta di frequentare i corsi anti-violenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2024 L’uomo di 42 anni era stato condannato a oltre un anno di reclusione per il reato di maltrattamenti in famiglia. Il tribunale, dopo aver appreso dei nuovi episodi contro l’ex moglie, ha revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena. Preferisce il carcere ai corsi anti-violenza. È la storia di un 42enne di Bolzano, condannato in via definitiva a un anno, dieci mesi e due giorni di carcere per il reato (ostativo) di maltrattamenti in famiglia. L’uomo era stato poi denunciato per stalking e allontanato dall’abitazione di famiglia con il braccialetto elettronico. In primo grado infatti l’imputato aveva ottenuto dal giudice la sospensione della pena a patto che avesse fatto di tutto per recuperare la situazione, ovvero frequentare con giudizio i corsi anti-violenza. Ma il 42enne non ha voluto minimamente provare a cambiare “modus operandi” e così, non solo non ha inteso seguire la strada indicata dal giudice, ma ha continuato a molestare la sua ex compagna, in quanto non accettava la fine della relazione. Episodio che ha fatto scattare il divieto di avvicinamento con l’applicazione del braccialetto elettronico. Il tribunale di Bolzano, informato dei comportamenti dell’uomo, ha revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena, e per il 42enne si sono spalancate le porte del carcere. Vasto (Ch). Tentativo di suicidio nel carcere, grave un detenuto abruzzese di Miriam Giangiacomo Il Messaggero, 14 maggio 2024 Viste le gravi condizioni dell’uomo, i sanitari hanno deciso di trasferirlo all’ospedale della città, dove si trova ora ricoverato in rianimazione in prognosi riservata. È stato necessario l’intervento dell’elisoccorso ieri mattina per l’ennesimo probabile tentativo di suicidio di un detenuto nella casa circondariale di contrada Torre Sinello a Vasto, in provincia di Chieti. Erano circa le 8 di mattina quando un agente di servizio nella casa lavoro con annessa sezione circondariale si è accorto che un internato aveva tentato di impiccarsi. Immediatamente è scattato l’allarme e sul posto è giunto il personale sanitario del 118 con un’ambulanza. Viste le gravi condizioni dell’uomo, un detenuto di 40 anni di origini abruzzesi, dopo aver prestato i primi soccorsi, i sanitari hanno deciso di trasferirlo all’ospedale di Vasto dove si trova ora ricoverato in rianimazione in prognosi riservata. I precedenti - La casa circondariale di Torre Sinello non è nuova a episodi simili: il più noto è quello del suicidio di Sabatino Trotta, psichiatra e dirigente Asl di Pescara, avvenuto il 7 aprile 2021, a poche ore dall’arresto del dirigente nell’ambito di un’inchiesta su una gara da più di 11 milioni di euro indetta dalla Asl pescarese per l’affidamento della gestione di residenze psichiatriche extra-ospedaliere. Ma diversi sono stati i tentativi di suicidio nella casa circondariale vastese, così come gli episodi di violenza dovuti alla forte carenza di personale di polizia penitenziaria che ormai attanaglia da anni l’istituto vastese. Nel settembre dello scorso anno c’è stato un sit-in di protesta, da parte del personale di polizia penitenziaria, che lamentava turni di lavoro che arrivano anche a durare 24 o 36 ore consecutive. Dopo un consiglio straordinario per trovare delle soluzioni, il senatore Michele Fina, presente nell’aula consigliare, aveva accolto l’appello, invitando i parlamentari presenti a organizzare un incontro con il ministro Nordio per affrontare il problema con spirito unitario. Ma la preoccupazione dei sindacati è grande: Fabrizio Faraci della Uil non aveva esitato a dichiarare: “Siamo essere umani, non carne da macello”. A lui ha fatto eco Gino Ciampa della Cgil, definendo quelle del carcere circondariale di Vasto “condizioni da terzo mondo”. Reggio Emilia. Torture in carcere, Ministero escluso dal processo come responsabile civile di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 14 maggio 2024 Lo Stato non pagherà i danni per il brutale pestaggio al 44enne detenuto tunisino Intanto i dieci agenti imputati chiedono il rito abbreviato e offrono un risarcimento. Sit-in di Volt davanti al tribunale: “Perché il Comune non è costituito parte lesa?”. Il ministero della Giustizia fuori dal procedimento penale. Polemiche a sfondo politico contro il Governo. E l’offerta di un risarcimento da parte degli agenti penitenziari al detenuto che sono accusati di aver torturato. Sono rilevanti gli sviluppi emersi oggi nell’udienza preliminare sui dieci agenti della polizia penitenziaria accusati di tortura verso un tunisino 44enne che era detenuto nel carcere della Pulce, e anche di lesioni e falso in atto pubblico, per un episodio datato 3 aprile 2023. Il gup Silvia Guareschi ha escluso il ministero della Giustizia come responsabile civile, cioè in qualità di soggetto chiamato a risarcire i danni nel caso in cui i poliziotti venissero condannati. L’avvocato Luca Sebastiani, che tutela il tunisino costituito parte civile, aveva ottenuto la citazione del dicastero di via Arenula, oggi rappresentato dall’avvocato dello Stato. Quest’ultimo ha sostenuto che il Ministero non ha avuto modo di partecipare agli accertamenti tecnici irripetibili promossi sui cellulari degli imputati, circostanza che a suo dire pregiudica la difesa dell’istituzione. Il pm Maria Rita Pantani, i legali degli imputati e delle parti civili (salvo il Garante nazionale del detenuto) si sono opposti, sostenendo che all’epoca di quegli accertamenti il Ministero non figurava neppure come parte e quindi era impossibile coinvolgerlo. Il giudice ha accolto la domanda del Ministero, escludendolo. Davanti ai giornalisti, Sebastiani ha polemizzato: “Avremmo gradito che il Ministero si presentasse in doppia veste, cosa avvenuta nel procedimento per tortura a Santa Maria Capua Vetere, sia come parte civile sia come responsabile civile. Dopo le dichiarazioni del Guardasigilli Carlo Nordio, pensavamo e speravamo che il Ministero figurasse come danneggiato. E invece...”. Il riferimento è al Ministro Nordio che in febbraio, dopo aver premesso che occorreva aspettare il vaglio della magistratura, commentò i video delle telecamere del carcere che riprendevano il tunisino incappucciato con una federa, preso a pugni e poi denudato: “Provo sdegno e dolore, sono immagini indegne per uno Stato democratico”. Sulla scia anche il titolare degli Interni Matteo Piantedosi: “Non sono cose accettabili”. Gli imputati (difesi dagli avvocati Alessandro Conti, Federico De Belvis, Nicola Tria, Luigi Marinelli, Sinuhe Curcuraci, Carlo De Stavola e Pierfrancesco Rossi) hanno domandato il rito abbreviato condizionato ad ascoltare in udienza preliminare il comandante della polizia penitenziaria facente funzioni, che era già stato sentito. Domanda su cui il gup si esprimerà nella prossima udienza in giugno, quando si definirà anche un altro significativo sviluppo emerso ieri: le difese hanno infatti chiesto tempo per fare un’offerta risarcitoria che poi il detenuto valuterà. Le difese hanno anche chiesto di escludere una vicenda-fotocopia avvenuta nella prima metà del 2020, su cui il pm aveva già depositato documentazione: un detenuto nel carcere di Reggio sarebbe stato incappucciato e picchiato, e che avrebbe tenuto, a quanto emergerebbe, una lametta in bocca, poi portato nel carcere di Piacenza dove furono gli agenti penitenziari, vedendolo malmesso, a fotografarlo e a mandarlo all’ospedale. I legali degli imputati si sono opposti perché del fatto non devono rispondere i loro assistiti (in assenza di telecamere, è aperto un fascicolo di indagine contro ignoti), mentre le altre parti hanno invece rilevato l’importanza della vicenda per descrivere un certo tipo di contesto in cui si sarebbero usate anche modalità illegali: il giudice ha deciso di mantenerlo. “Il video agli atti non offre possibilità di lettura alternativa alla tortura. Ho seguito tanti processi per questo reato, ma in questo caso emerge una lesione odiosa della dignità umana”, ha commentato Michele Passione (avvocato di parte civile per il Garante nazionale dei detenuti). Le difese hanno anche depositato una consulenza medica che ravvisa l’assenza di danni psichici per il detenuto. Respinta invece la richiesta di sentire la direttrice del carcere. Un mese fa il giudice aveva tolto la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio e servizio, ma sul rientro al lavoro si aspetta la decisione del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Ieri mattina si è anche tenuto il sit-in davanti al tribunale organizzato da Volt, con Silvia Panini, candidata alle Europee e alle attiviste Alessia Busani e Ilaria Gilioli: “Il Comune non si è nemmeno costituito parte civile, mentre l’assessore Tria figura come difensore di un imputato - attacca Busani. Abbiamo inviato una lettera al sindaco con più di cento firme: attendiamo risposta”. Biella. Detenuti legati con il nastro adesivo, la procura non ha dubbi: “È tortura” di Mauro Zola La Stampa, 14 maggio 2024 Chiuse le indagini: nonostante il parere contrario del Tribunale del riesame resta l’accusa principale. Sono tutti e venticinque accusati anche di tortura gli agenti della polizia penitenziaria di Biella. Lo conferma l’avviso di conclusione delle indagini nei loro confronti, a cui seguirà la richiesta di rinvio a giudizio. Nessun dubbio a riguardo da parte del procuratore capo di Biella Teresa Angela Camelio, neppure dopo che il Tribunale del Riesame di Torino aveva revocato le sospensioni dal servizio firmate dal gip di Biella proprio “escludendo la sussistenza del reato di tortura” e qualificando invece quanto accaduto nei tre episodi contestati come abuso di autorità contro arrestati o detenuti”, reato che non prevede l’applicazione di misure cautelari nei confronti degli indagati, a cui si sarebbero aggiunte percosse e lesioni. Negli atti d’indagine si ripercorre quanto accaduto nei confronti di tre detenuti ed emerge in particolare un nome, quello dell’allora vicecomandante della penitenziaria nell’istituto biellese, Antonio Pisa, che sarebbe stato presente in tutti e tre gli episodi, i quali in parte sarebbero stati ripresi dalle telecamere interne. Il primo risulta essere quello che ha visto coinvolto un detenuto marocchino di 25 anni, H.M. Questo secondo l’accusa sarebbe stato “colpito con schiaffi sul volto e calci nel fianco sinistro”, poi scaraventato per terra. A quel punto un gruppo di agenti comandato da Pisa l’avrebbe accerchiato e poi legato con del nastro adesivo, che gli avrebbe avvolto caviglie, ginocchia e spalle, questo nonostante fosse già ammanettato. Inoltre sempre Pisa gli avrebbe messo un piede sul petto dicendogli: “ti rovino, sei solo un delinquente” Gli agenti lo avrebbero poi spinto nella cella, scaraventandolo sulla panchina. A dimostrazione di quanto subito, una visita avrebbe riscontrato un arrossamento al costato sinistro e graffi nella regione sternale. Il secondo detenuto coinvolto è di nazionalità georgiana, I.K., arrestato a Biella per un tentativo di furto. Dopo essere stato trascinato fuori dalla cella d’isolamento, sarebbe stato umiliato togliendogli i pantaloni. Ancora Pisa gli avrebbe messo un piede sulla testa per tenerlo fermo, apostrofandolo con un “qua noi facciamo così, sono le nostre regole”. Lo avrebbero quindi ammanettato con le braccia dietro la schiena, gli sarebbero state bloccate le caviglie per poi colpirlo su tutto il corpo. Sollevato di peso, come ha dichiarato, veniva portato verso il corridoio, mettendogli un ginocchio sulla schiena, e scaraventandolo in cella, dove diversi agenti si sarebbero alternati a picchiarlo, provocandogli, dice il referto medico un’”Algia (dolore localizzato ndr) emicostale sinistra e un’algia mandibolare oltre a un disturbo post traumatico”. Il terzo soggetto, un trentenne, O.B., avrebbe sempre secondo l’accusa riportato un trauma psichico così grave da sfociare in condotte autolesionistiche. Al suo arrivo a Biella dopo essere stato ammanettato gli agenti lo avrebbero accerchiato, minacciandolo con i manganelli che tenevano in mano. Dopo averlo portato in cella lo avrebbero umiliavano facendogli abbassare i pantaloni e gli slip, appoggiandogli il manganello sotto il mento e sul corpo. “Se reagisci ti lego con il nastro adesivo e ti porto via come un salame” Di seguito dopo averlo messo contro il muro lo colpivano con manganelli, gomitate, calci, schiaffi, tirate di capelli, urlandogli “marocchino di m. tu non comandi qui” anche se il detenuto è nato ad Arona. Padova. “No al limite di chiamate con i figli minorenni del detenuto condannato per mafia” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 14 maggio 2024 Il caso è partito da un magistrato di sorveglianza di Padova che ha presentato la questione alla Corte Costituzionale: “Se un detenuto è stato condannato per un reato compreso nell’elenco dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ma ha in concreto accesso a tutti i benefici penitenziari, è irragionevole sottoporlo a un regime più restrittivo rispetto a quello ordinario solo per quanto riguarda le telefonate con i propri figli minori”. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 85, depositata ieri, con la quale ha ritenuto fondata una questione sottopostale da un magistrato di sorveglianza di Padova. A renderlo noto è un comunicato della Consulta. I reati ostativi - La Corte ha ricordato che chi è condannato per uno dei reati elencati nel primo comma dell’art. 4-bis (i cosiddetti “reati ostativi”) è ordinariamente escluso dai benefici penitenziari, in forza della generale presunzione per cui i collegamenti con l’organizzazione criminale non vengono meno con l’ingresso in carcere del condannato, con conseguente persistere della sua pericolosità sociale. Questi detenuti hanno accesso ai benefici, di regola, soltanto quando collaborino con la giustizia, perché proprio la loro collaborazione costituisce “una sorta di prova legale della rottura del vincolo associativo rispetto al singolo detenuto, che a sua volta segnala l’inizio del suo percorso rieducativo”. Cosa dice la sentenza della Corte Costituzionale - “Tuttavia, come chiarito da sentenze recenti della Corte, la presunzione di persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata deve sempre poter essere vinta da una prova contraria, valutabile caso per caso dal tribunale di sorveglianza. E in effetti - prosegue la nota - la legge prevede oggi varie ipotesi in cui i condannati per reati ‘ostativi’ possono in concreto essere ammessi ai benefici penitenziari, pur in mancanza di una loro collaborazione con la giustizia”. Tra queste ipotesi c’è quella di chi - come il detenuto oggetto del procedimento principale, che sta scontando una condanna a trent’anni di reclusione - abbia accesso ai benefici perché la sua collaborazione è stata ritenuta impossibile, e non risultino elementi che attestino un suo collegamento attuale con la criminalità organizzata. “Nel caso concreto, il detenuto aveva in effetti già goduto di permessi premio, concessi sulla base dei suoi progressi nel trattamento rieducativo attestati dall’amministrazione penitenziaria. Inoltre, in forza della normativa speciale adottata durante il periodo della pandemia, aveva fruito di una telefonata al giorno con i propri familiari, come tutti gli altri detenuti. A questo punto la Corte ha ritenuto irragionevole sottoporre in queste situazioni il condannato - ammesso ai benefici in quanto ritenuto non più socialmente pericoloso - a una disciplina più sfavorevole rispetto a quella applicabile alla generalità dei detenuti”, rileva la nota. In proposito, la Corte ha osservato che ogni disciplina - come l’art. 4-bis - che, a parità di pena inflitta, deroga in senso peggiorativo al regime penitenziario ordinario “può trovare legittimazione sul piano costituzionale - al cospetto della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. - soltanto in quanto sia necessaria e proporzionata rispetto al contenimento di una speciale pericolosità sociale del condannato”; e non invece “in chiave di ulteriore punizione in ragione della speciale gravità del reato commesso. È, infatti, la misura della pena che nel nostro ordinamento deve riflettere la gravità del reato, non già la severità del regime sanzionatorio”. Brescia. Giustizia riparativa, non solamente per i minori che delinquono di Paola Pioppi Il Giorno, 14 maggio 2024 A Brescia, l’ufficio di mediazione penale promuove la giustizia riparativa, con casi di confronto tra vittime e autori di reato. Si propone la riparazione simbolica, come nel caso di un giovane chiesto di prendere la licenza di terza media. La città continua la sua esperienza in questo ambito, coinvolgendo anche minori e adulti in percorsi di giustizia riparativa. A volte bastano delle scuse, a volte si arriva all’accordo di non salutarsi più quando ci si incontra per strada. Poi ci sono i casi più particolari, come quello passato per l’ufficio di mediazione penale che si occupa di giustizia riparativa a Brescia (con capofila il Comune di Brescia, con Provincia di Brescia e Acb) che ha visto la vittima di un furto d’auto (anche percosso da un gruppo di persone) confrontarsi con uno degli autori di reato e che, al termine del confronto, gli ha chiesto di prendere la licenza di terza media, come “riparazione” simbolica del danno da lui subito. In attesa che il Ministero convochi la conferenza locale dove saranno dichiarati i Centri per la giustizia riparativa che potranno essere finanziati dal dicastero, Brescia prosegue la lunga esperienza in questo ambito, iniziata nel 2008 (in questi anni sono arrivati finanziamenti dalla Regione con bandi biennali). Come spiegato da Silvia Bonizzoni (responsabile del Settore programmazione e progettazione sociale del Comune di Brescia), nella commissione consigliare Servizi alla Persona e Sanità in cui è intervenuto anche l’assessore competente Marco Fenaroli, dal 2008 son ostati 1046 i fascicoli di minori che hanno accettato di seguire percorsi di giustizia riparativa (da tutte le provincie dell’area distrettuale della Corte d’Appello); negli ultimi due o tre anni, si è aperta questa strada anche per gli adulti, per un totale di 32 fascicoli, di cui 18 da Brescia. Tra i minori, uno degli ultimi ha visto il confronto tra un minorenne ed una 92enne che aveva subito il tentativo di scippo. La donna era rimasta colpita soprattutto dalla propria incapacità di capire che il giovane aveva cattive intenzioni, ma parlando col ragazzo è emerso che questo era vittima di bullismo e che aveva provato a scipparla per poter essere accettato dal branco, pena subire nuovamente bullismo. Firenze. I detenuti diventano giardinieri: saranno formati e cureranno il verde della città firenzetoday.it, 14 maggio 2024 Firmato oggi il protocollo tra Comune e Dap, l’assessore Giorgio: “Il verde strumento di riscatto verso la società”. Detenuti che provano a tornare a una vita normale imparando a fare i giardinieri e che vengono impiegati per curare il verde di orti urbani e giardini di Firenze. E’ il protocollo sottoscritto ieri a Palazzo Vecchio tra il Comune e il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Alla firma erano presenti l’assessore all’ambiente Andrea Giorgio e il direttore generale dei detenuti e del trattamento Gianfranco de Gesu, con la direttrice dell’istituto penitenziario di Sollicciano Antonella Tuoni e il garante dei detenuti Eros Cruccolini. Il protocollo prevede un percorso di formazione insieme alla Cna per un gruppo di 20 detenuti: una volta imparati i rudimenti del mestiere con un corso formativo qualificato da 24 ore all’interno del percorso per “Manutentore del verde” queste persone verranno impiegate dall’amministrazione in lavori di pubblica utilità per la manutenzione di prati, siepi, orti e alberi della città. Il progetto ha come obiettivi “lo sviluppo di occasioni di reinserimento occupazionale, l’accrescimento del senso di responsabilità e autonomia dei soggetti coinvolti verso la collettività; la motivazione e l’interesse da parte dei detenuti selezionati per le professionalità da acquisire nell’ambito del presente accordo utile a possibili impieghi futuri; lo sviluppo della cultura della restituzione, intesa come riparazione indiretta dei danni provocati dai reati, come possibile strumento per il ripristino del patto sociale; e, non ultimo, la riduzione dei rischi di recidiva”. “Con questo accordo - ha sottolineato de Gesu - saremo impegnati a studiare insieme le attività che possono essere svolte con lo scopo del reinserimento sociale e la possibilità di svolgere mansioni con un senso di riparazione nei confronti della comunità esterna”. “La scorsa estate, appena nominato assessore, ho avuto modo di fare una visita in carcere insieme al sindaco Dario Nardella - spiega l’assessore Giorgio -: in quell’occasione mi colpì molto la richiesta principale che arrivava dalla popolazione carceraria, ovvero quella di essere impiegati in qualche cosa di utile, avere la possibilità di imparare qualcosa per offrire un contributo alla comunità ed essere pronti, una volta scontata la pena, per inserirsi di nuovo anche nel mondo del lavoro. Ho preso lì l’impegno a costruire un progetto che rispondesse a quella richiesta e oggi grazie alla collaborazione con tutti gli attori coinvolti siamo in condizioni di partire”. “Il verde - aggiunge Giorgio - può diventare un luogo di riscatto e l’ambito in cui offrire un contributo alla società. Prendersi cura degli alberi, dei parchi, dei nostri giardini, sarà un’opportunità importante per formarsi e reinserirsi con l’orizzonte di un futuro diverso e migliore per la propria vita”. “Grazie al Dap, alla direttrice di Sollicciano Antonella Tuoni, alla Cna Firenze Metropolitana, al garante dei detenuti Eros Cruccolini e al consigliere speciale del sindaco per le carceri Stefano Di Puccio - conclude Giorgio -. Questa preziosa collaborazione dimostra che per la città il carcere non è un luogo dimenticato e che quelle persone possono e devono avere l’accompagnamento a un riscatto sociale e al reinserimento che sono le vere finalità della detenzione”. Trieste. Rinasce il rione periferico: doposcuola, falegnameria, rigenerazione urbana di Raffaele Nappi Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2024 La storia di Borgo San Sergio, da “Bronx” a isola felice. Progettato negli anni 50 come cellula urbana autosufficiente e popolare, dove lo spazio dell’ex Casa del Popolo è diventato un cantiere progettuale permanente e inclusivo. Tutto grazie a un progetto gestito dalla cooperativa “La Collina” che, a partire dal 2022, ha promosso attività collettive, socializzanti e pre-professionalizzanti per un gruppo di ragazzi e ragazze under 35 in difficoltà. In poco più di un anno sono stati realizzati interventi di manutenzione, sono stati riorganizzati gli spazi interni e promosse le nuove attività, trasformando la Casa del Popolo “Palmiro Togliatti”, centro della comunità operaia nata nel 1972, in un laboratorio a cielo aperto. Fin dagli anni 70, infatti, gli operai delle vecchie fabbriche (San Marco, Arsenale, Porto) vennero ad abitare nel quartiere, aggiungendosi ai lavoratori della zona industriale e a numerose famiglie di esuli istriani. È stato questo il successo della Casa del Popolo: un luogo dove dialogare, discutere e socializzare perché, di fatto, “non esisteva in quel momento un’istituzione popolare che rispondesse al meglio a questa esigenza”, spiega Luca Gabrielli, tra i responsabili dello spazio. Dopo anni di inattività, nel 2020, la struttura oramai abbandonata è stata acquisita dalla cooperativa con un progetto di ristrutturazione e rilancio. Lo spazio situato nella periferia sud-est della città, in un’area disomogenea e ricca di contrasti dal punto di vista urbanistico, è diventato così il luogo per mettere in pratica nuove e specifiche azioni per contrastare la povertà educativa e rafforzare le azioni di accompagnamento al lavoro per adolescenti e giovani adulti. I primi percorsi attivati si sono incentrati su una serie di piccoli interventi di manutenzione degli spazi e sulla ri-progettazione degli arredi interni ed esterni. Il gruppo di lavoro è composto da ragazzi dai 20 ai 30 anni, tutti con un passato difficile alle spalle. C’è chi ha una storia di adozione e problemi di tossicodipendenza, chi con diagnosi psichiatrica, chi è seguito dal centro di salute mentale o dal dipartimento delle dipendenze. Grazie ai lavori sono state effettuate manutenzioni straordinarie, come la tinteggiatura integrale di pareti, soffitti, infissi, il rifacimento di intonaci interni, la verniciatura delle porte e la sostituzione delle serrature. Oggi lo chiamano Strambo, un “cantiere progettuale permanente e inclusivo”, dove è stato curato il verde, sono state costruite aiuole con erbe aromatiche, sono stati ridefiniti gli spazi per il centro estivo e quello per la ristorazione. Il primo lotto di spazi rigenerati ha ospitato infatti il progetto “Che fare a Borgo #minori”: un’iniziativa educativa sperimentale per giovani in situazioni a rischio di marginalità scolastica e sociale dagli 11 ai 14 anni, con una serie di esperienze diffuse e itineranti, tra visite ai musei, gite, laboratori di artigianato 2.0. I ragazzi, scelti con la collaborazione dei servizi sociali del Comune e dell’Istituto Comprensivo Valmaura, sono accomunati da un contesto sociale e familiare altamente svantaggiato, contraddistinto da povertà educativa, scarsità di stimoli, incuria genitoriale e difficoltà economiche. C’è chi ha perso il padre a 6 anni, chi ha genitori con problemi di dipendenza da alcol, chi è figlio di genitori occupati tutto il giorno da una serie di lavori precari, chi è stato sfrattato e ora vive con la nonna. “Il camp ha dato loro un’alternativa fatta di attività, esperienze pratiche, sperimentazione, cura, presenza e ascolto - ricorda Luca -. I ragazzi e le ragazze ospitate hanno fatto gite in posti che non avevano mai visto, conosciuto nuove persone, sperimentato e costruito oggetti, piantato piante, disegnato, personalizzato la struttura e preso parte a un progetto che è nato con loro e che tutt’ora ha bisogno del loro contributo e della loro presenza per continuare”. Tra i servizi più apprezzati in questi mesi c’è il doposcuola gratuito per le famiglie fragili del quartiere. Ma gli obiettivi futuri sono ambiziosi: l’attivazione di un servizio di ristorazione e di ospitalità sociale; l’attivazione di un laboratorio permanente, ibrido e multifunzionale dove svolgere attività educative, culturali, artistiche; lo sviluppo di una falegnameria e di un centro di autoproduzione. Iniziative che fanno dell’ospitalità e della determinazione il motto per rafforzare la proposta culturale del territorio. Perché, come si legge nel murales che campeggia all’ingresso della Casa, dipinto dagli stessi ragazzi, “l’amicizia è un posto sicuro”. Roma. “Reclusi”, film con riflessione sul disagio psichico garantedetenutilazio.it, 14 maggio 2024 Lunedì 13 maggio nella Casa del cinema di Roma, la proiezione del cortometraggio “Reclusi”, di Diletta Di Nicolantonio, ha rappresentato un momento di riflessione sul disagio psichico negli istituti penitenziari con la partecipazione del presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Emanuele Cangemi, e il Garante regionale delle persone detenute, Stefano Anastasìa. “Se il carcere può essere compreso davvero solo da chi ne ha fatto esperienza diretta, ciò non vuol dire che conoscerlo sia impossibile e questo corto ne è la chiara dimostrazione perché da un lato, cala chi lo guarda dentro quelle mura, e dall’altro, suggerisce riflessioni, propone domande in grado di mettere in discussione certezze, comunque opinabili. Insomma, aiuta a porsi domande e incentiva a dare risposte”. Così il vice presidente del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Cangemi, a margine della proiezione del corto ‘Reclusi’ di Diletta Di Nicolantonio, tenutosi questo pomeriggio alla Casa del Cinema di Roma. “Per le carceri del Lazio si può fare molto e iniziative come questa aiutano certamente a creare le giuste basi per un confronto sano e a sostegno degli istituti penitenziari e della popolazione detenuta. La presenza oggi del presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, è altro indice di sensibilità che la nostra istituzione pone nei confronti di questo tema così delicato. Ringrazio tutte le personalità intervenute sul tema, arricchendo di spunti significativi la discussione che ne è seguita. Il mio impegno istituzionale, - ha concluso Cangemi - compatibilmente con le possibilità, andrà sempre nella direzione dell’ascolto e dell’aiuto”. “Il disagio psichico è una delle principali criticità del nostro sistema penitenziario - ha dichiarato per l’occasione Anastasìa -, testimoniata dall’alto numero di suicidi e di atti di autolesionismo. Regione e Amministrazione penitenziaria stanno lavorando al miglior raccordo possibile tra servizi sanitari e penitenziari, ma il sovraffollamento di questi mesi sta mettendo a dura prova tanto i detenuti che gli operatori sanitari e penitenziari. Speriamo dunque che anche su questo arrivino risposte adeguate e tempestive dalle autorità competenti”. Roma. “Le voci di dentro” al Quirinale. I giovani di Nisida ricevuti da Mattarella di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 14 maggio 2024 Una delegazione dell’Istituto penale per i minorenni di Nisida è stata ricevuta oggi, al Quirinale, dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La visita ha avuto lo scopo di presentare il ciclo radiofonico “Le voci di dentro”, sei puntate realizzate grazie alla collaborazione tra la Fondazione De Filippo, Rai Radio3, il Teatro Stabile di Napoli, con l’Associazione Puteca Celidonia. È proprio dall’attività teatrale condotta dall’Associazione con i giovani reclusi che è nata l’idea di realizzare una serie di podcast, scritti e recitati dai ragazzi, per narrare la loro vita prima, durante e dopo la permanenza a Nisida. Ma dal podcast è emerso e anche il difficile lavoro del personale che opera nell’istituto. “Non posso che fare davvero i complimenti per questo lavoro di squadra tra tante realtà, associazioni e istituzioni” così sono stati accolti dal Capo dello Stato, Gianluca Guida, direttore dell’Istituto minorile, Anna Maria Sapienza, della Fondazione De Filippo, i cinque giovani di Nisida, e tutti i rappresentanti degli enti che hanno contribuito alla realizzazione della trasmissione. “Le Voci di dentro”, chiaramente ispirato alla commedia composta nel 1948 dal grande Eduardo De Filippo, fondatore del laboratorio teatrale di Nisida, è un racconto fatto di voci, sono storie senza immagini. La messa in onda è prevista su Rai Radio 3 a partire dal 24 maggio 2024, anniversario della nascita di Eduardo, e andranno avanti fino al 29 maggio, dalle 22.00 alle 22.30. “Grazie per aver introdotto le espressioni dialettali - ha sottolineato Mattarella, commentando i tre testi recitati dai ragazzi - io sono ancora più meridionale di voi”. Per due dei cinque giovani di Nisida presenti all’evento, non si può dire che fosse la loro prima volta al Quirinale. Grazie, infatti, alla formazione nel settore della ristorazione ricevuta in istituto, hanno avuto la possibilità di frequentare uno stage che si è tenuto proprio nelle cucine del Palazzo. Al termine della visita, il Presidente congedandosi ha ‘confessato’: “Non so cosa darei per saper recitare, ma non sono capace. Però so ascoltare e andare a teatro a sentire. Il teatro arricchisce sempre, e anche quello che voi fate, recitando, arricchisce chi vi ascolta”. Il potere della parola e la paura del dissenso di Andrea Malaguti La Stampa, 14 maggio 2024 Tema: libertà di parola. Parto da una studentessa, Francesca, sedici anni. La incontro qui, giovedì mattina, all’apertura del Salone del Libro di Torino, una specie di magia dell’intelligenza, o, comunque, del meglio che ne resta. I libri, certo. Ma soprattutto i dibattiti ininterrotti, le persone, i grandi scrittori di tutto il mondo, l’impareggiabile ginnastica della mente. Il fiume umano che ogni giorno invade gli stand deciso a capire. Per lo meno a chiedere. È una cerimonia maestosa, piuttosto impressionante proprio perché controtendenza. Un inno al bisogno di ritrovare sé stessi. Il senso delle cose. È una parte della nostra società, numerosa e minoritaria, ancora attratta dallo spaventoso potere della parola. È ancora a disposizione di tutti, quel potere? Francesca, dicevo, studentessa al liceo classico e musicale Cavour. Si avvicina con un taccuino, come se fosse il Novecento. Le dico: “Niente smartphone?”. È una provocazione cretina, da boomer. Mi risponde: “Per quattro giorni non lo uso”. È assurdo, ma mi si apre il cuore. Parliamo. Mi dice una cosa che non smette di ronzarmi in testa. E che, da venerdì, dopo l’ennesima carica di manganelli utilizzata per respingere un indisciplinato esercito di minorenni in marcia per raggiungere gli Stati generali della natalità, prende forma con più chiarezza: “A lei non sembra che manchi proporzionalità?”. Cioè? “Noi siamo giovani. Magari sbagliamo delle cose. Ma abbiamo delle belle idee: vogliamo la pace e odiamo la guerra. Chiediamo di non tornare indietro sui diritti. È un male? Ogni volta che proviamo a dirlo, lo Stato ci butta addosso un esercito di uomini armati fino ai denti. I caschi, gli scudi, i giubbotti anti-proiettile, per non parlare dei manganelli. Se anche non ci picchiano, ci fanno sentire sbagliati”. Sottoscrivo ogni parola. Le dico: non conta, hai ragione tu. Non so nemmeno se sia scesa in piazza, né, eventualmente, per che cosa, ma mi è chiarissimo che ha bisogno di non sentirsi sola. E noi, noi genitori, noi adulti, e il Potere, queste nuove generazioni le stiamo lasciando sole. L’errore peggiore che si possa fare. Come se del domani non ci importasse nulla. Botte e rimproveri, vedrai come vengono su bene. Mentre ne scrivo Matteo Lancini, psicologo illuminato, parla allo stand de La Stampa. Dice: “I ragazzi che occupano le scuole dovrebbero essere protetti come panda”. Non è una chiamata alla rivoluzione armata, al contrario (“No alla violenza e sì al rispetto della legge”, l’ovvio ma evidentemente indispensabile corollario dialettico), è un inno alla crescita, alla costruzione del senso critico accompagnato da quello di responsabilità, un modo per diventare adulti consapevoli. C’entra con la libertà di parola? Moltissimo. Non è una questione solo italiana, dove esiste un livello di aggressività governativa superiore alla media, è un problema mondiale. O forse non è un problema. È una risposta. Come quando ci feriamo una mano e le cellule sane cominciano a lavorare per rimarginare la ferita. I cortei di ragazzi sono questo. Cellule sane. Chi li manipola non lo è. Gli anarchici infiltrati nelle proteste filo-palestinesi non lo sono. Chi li aggredisce come se fossero black bloc non lo è. Fatto sta che la ferita sanguina. Da Pisa a Torino, da New York a Los Angeles. Ne abbiamo parlato anche la settimana scorsa. Poi le molto discutibili proteste nei confronti della ministra Roccella (contestazione, non censura), lo straordinario dibattito del Salone, e le cariche di Roma hanno aggiornato il quadro, più o meno nello stesso momento in cui una donna mite e lucida come Elizabeth Strout diceva ad Annalisa Cuzzocrea, nel nostro salottino pubblico, che per la prima volta in vita sua ha “paura di parlare”. Lo riscrivo: paura di parlare. Stiamo toccando il fondo. Un passo oltre si combatte. Un concetto ribadito da Don Winslow (partigiano No-Trump) e rilanciato da Salman Rushdie e Roberto Saviano. Tutti pazzi loro o è arrivato il momento di farsi delle domande collettive? Si stanno spezzando dei fili condivisi. Facciamo i conti con pensieri deboli e irritabili, che, in tempi di estremismi e di radicalizzazioni rischiano di diventare dominanti, mentre noi confondiamo il reale con il virtuale. “Sono cresciuto coltivando la bellezza dei pensieri lunghi, ora siamo in un’era di pensieri brevi, ma talmente brevi, che spesso non sono neppure pensiero”, dice Walter Veltroni intervistato da Marcello Sorgi. Condivido. Governi disorientati, affascinati da scampoli incongrui di ideologie che apparivano sepolte, che sommano le loro nevrosi alla trappola irresistibile e letale dei social. E qui torno a Veltroni e al suo dialogo con Sorgi. “I social sono fatti per farci restare da soli, recidendo tutte le forme di relazione, dai partiti ai giornali. L’importante è stare a casa e lanciare invettive delle quali, ovviamente, il potere se ne frega. Bastano seicento tweet, chissà immaginati da chi, per farci pensare che tutto vada a rotoli. Seicento tweet in un Paese di sessanta milioni di abitanti. Accettando che siano loro a interpretare lo spirito del tempo, accettiamo la dittatura delle minoranze”. Non basta. Prima di andarsene Veltroni dice: “La schiavitù dai social porta alla scomparsa della felicità”. Fa male, ma rimanda a Michel Focault: “La solitudine è la condizione che precede la totale sottomissione”. Mi trastullo in mezzo a questi pensieri depressivi quando Francesca mi viene a trovare nuovamente con i suoi energici sedici anni mostrandomi un articolo del “Guardian”. Carta. Se l’è fatto stampare. Titolo: “Il governo italiano accusato di usare la legge sulla diffamazione per silenziare gli intellettuali”. Fa riferimento al caso di Donatella Di Cesare, che il 15 maggio sarà chiamata a rispondere in tribunale per avere dato al ministro Lollobrigida del “neohitleriano”. Mi ripete la domanda esattamente identica: “A lei non sembra che manchi proporzionalità?”. Il Potere che attacca il singolo. Sì, c’è sproporzione, Francesca, quella sproporzione che ha spinto Rushdie a rivolgersi a Giorgia Meloni gridando: “cresci!”. Una sproporzione ancora più pericolosa in un Paese in cui quello stesso Potere, ogni giorno, attacca la magistratura con toni durissimi. Se i giudici sono quelli descritti da Musumeci e da Salvini, un cittadino qualunque come si può sentire trovandosi invischiato in un processo? Chi lo protegge? E, soprattutto, chi lo sta giudicando? Ci sono cose che sono più difficili da digerire, Francesca. L’arretramento della democrazia è una di queste. Possiamo far finta di rimuoverlo per un po’. Poi arrivano giorni come quelli del Saloni e tutti noi dovremmo avere in tasca un taccuino in cui annotiamo ciò che vorremmo dimenticare. Se le domande diventano moleste di Dacia Maraini Corriere della Sera, 14 maggio 2024 Sento con inquietudine che si sta avvicinando un’epoca in cui le domande sono considerate solo moleste e fuori luogo. Chi ha la verità in tasca alza una bandiera e pretende che tutti seguano. Mi fa pensare alla furia misteriosa dei piromani. Mi sveglio con l’angoscia e solo mettendomi al computer mi distraggo concentrandomi su altri temi. Ma quello che sta succedendo nel mondo mi riempie la testa di domande a cui non so dare risposta. Perché la ragione che ho imparato ad amare leggendo Hume e Voltaire, Croce e Beccaria viene dileggiata come se fosse un attrezzo minore dell’intelligenza umana? Perché la scienza viene disprezzata, e la laicità e la democrazia stanno diventando realtà da modificare e restringere? Perché la riflessione condivisa viene vista come un tradimento e la voglia di conoscenza e di scambio fanno sbuffare? La pace viene invocata da molte parti ma perché chi la invoca lo fa con voce e modi guerreschi, aggredendo chi pone delle domande che superano le certezze? La pace è prioritaria, ma di fronte a un despota che invade paesi sovrani accettiamo il diritto alla difesa? o la pace deve significare per forza la resa alla legge del più forte? Domanda inquietante. Ricordo il terrore delle bombe nel campo di concentramento dove mi trovavo per l’antifascismo dei genitori. Ero bambina ma rammento bene la paura nel correre a ripararsi in una trincea scavata nella terra mentre le schegge schizzavano da ogni parte, il fischio lacerante e poi lo schianto della bomba. Ancora oggi la notte sogno quelle bombe e quella paura. Non era tanto la morte che temevo di più ma le ferite, i pezzi di corpo che se ne vanno e la perdita delle persone amate. La domanda è: Cosa fare per evitare la guerra? Le risposte sono contradittorie. Da una parte si dice: armarsi per resistere, ricordiamo che se non ci fossimo difesi con la guerra contro Hitler saremmo ancora sotto il nazismo. Dall’altra giustamente si invoca la diplomazia. Ma come? Per fare patti bisogna essere in due. E se chi aggredisce non ne vuole sapere? Oppure se mette delle condizioni tali per cui cedendo diventi suo schiavo? Si ha il diritto di reagire con altra guerra e altro sangue? Non ho risposte sicure ma solo domande. Sento con inquietudine che si sta avvicinando un’epoca in cui le domande sono considerate solo moleste e fuori luogo. Chi ha la verità in tasca alza una bandiera e pretende che tutti seguano. Mi fa pensare alla furia misteriosa dei piromani. Cosa spinge un uomo ad appiccare il fuoco a una foresta centenaria sapendo che è un bene che assicura il respiro a lui e la sua gente? Possiamo chiamarla una oscena e perversa volontà di autodistruzione? Stiamo entrando nell’era della piromania mondiale? Elogio della disobbedienza come virtù di Don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 14 maggio 2024 Noi educatori, insegnanti e operatori sociali non possiamo più obbedire ad uno Stato e a un governo che sta riducendo la scuola e le strutture di rieducazione e di recupero a “polveriere” o peggio ancora ad ambienti quasi-psichiatrici. Credo che per noi educatori, insegnanti ed operatori sociali, siano arrivati i tempi della disobbedienza come virtù civile. Non possiamo più obbedire ad uno Stato e ad un Governo che sta riducendo la scuola e le strutture di rieducazione e di recupero a “polveriere” o peggio ancora ad ambienti quasi-psichiatrici. Viene spudoratamente offesa la parte più essenziale e scientifica del “nostro lavoro”. Accettare che ragazzi delle Medie siano già catalogati con doppie diagnosi e che abbiano costante bisogno dello specialista, significa negare tutto quello che abbiamo studiato e i motivi per i quali siamo entrati in un’aula o in una esperienza sociale. Come ai tempi siamo andati in carcere per l’obiezione di coscienza, oggi dovremmo avere il coraggio di andare in carcere per “l’educazione di coscienza”. Non è più sufficiente fare denunce e riempire i giornali di statistiche. La scuola non può ridursi ad una specie di supermercato, nel quale si compra la promozione con i voti, con le più svariate interrogazioni e dove gli insegnanti, come alle casse delle Coop, battono, scrivono, segnano, risegnano, verificano e da qualche tempo, avendo lo Stato riscoperto il voto in condotta, non ti riconoscono più “la spesa”. La scuola non ha bisogno di piccoli ritocchi, ma di una conversione radicale. Io non sono psichiatra eppure il mio telefono è diventato “il tavolo di lavoro” e il primo ostacolo che devo abbattere è la ricerca “del Mazzi” specialista. Faccio proposte oscene, per spiegare cosa intendo per conversione della scuola media. Perché alcune mattinate non le passiamo insieme ai ragazzi con pennarelli e cartoni vari, buttati sul pavimento o nel giardino (?!) della scuola, rileggendo ad esempio un capitolo del “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono e dopo, lasciamo che si scatenino le fantasie? Io ho fatto una decina di incontri, in questo modo, uno più ricco dell’altro. Erano ragazzi che altrove qualcuno avrebbe spedito dallo psicologo perché “distrutto dall’ansia totale con rimbalzi emotivi”. Vi garantisco che i cosiddetti normali non sarebbero arrivati a disegni e a commenti così puntuali. Nei prossimi mesi, come già abbiamo fatto, partiremo con “carovane varie”. Abbiamo una struttura pronta per accogliere minori, sulla Francigena. Prima dell’accoglienza facciamo questa esperienza. Una società ci ha prestato alcuni pulmini. C’è chi parla del Capo Nord! (vedete la fantasia? E forse andremo!). All’Isola d’Elba abbiamo due barche a vela (Baltic). Le abbiamo già usate per alcuni così particolari. Una settimana, notte e giorno in mare, vale trenta sedute con esperti! Da ultimi, ma non come ultimi, restano due grossi problemi. Siamo pronti a ricevere in piccoli numeri, anche subito, i minori, però le regole le dettiamo noi, per evitare che ci ritroviamo con altri Beccaria. Secondo: ci siamo visti la settimana scorsa con alcuni operatori di Ser.co.re. Abbiamo mandato per l’ennesima volta messaggi precisi. Da tempo non siamo più le vecchie strutture finalizzate solo alle tossicodipendenze. I disagi e le fragilità dei nostri adolescenti esigono come ho detto, nuovi approcci, modalità e stipendi meno umilianti. Buona disobbedienza! L’antica lezione. “In ogni caso mai chiamare la polizia” di Giuseppe Allegri Il Manifesto, 14 maggio 2024 È finito evocando la retorica degli infiltrati e della strumentalizzazione del dissenso, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza convocato sulle proteste universitarie contro il massacro a Gaza. Invece di interloquire con studenti e docenti in mobilitazione, sembra voler soffiare sul fuoco della militarizzazione delle università. Convocato dal ministro dell’Interno Piantedosi e dalla ministra dell’università e della ricerca Bernini, il comitato è stato disertato dalla presidente della Conferenza dei rettori Iannantuoni, al suo posto il vice Francesco Bonini, rettore della Libera università Maria Ss. Assunta (Lumsa), con magnifica sede a due passi dal Vaticano. Così quello che avremmo voluto augurare è che, dinanzi ai numerosi, scomposti e ruvidi interventi delle forze dell’ordine, bardati con caschi, scudi e manganelli calati per ferire ragazze e ragazzi a volto scoperto e a mani nudissime (da Pisa a Roma e oltre), Piantedosi fosse stato portato a più miti e saggi consigli, magari approfittando della sapienza dei due rappresentanti della comunità accademica presenti. Sarebbe stato “utile” (hanno detto che lo è stato) ma anche saggio e doveroso. Perché la stessa ministra Bernini è docente di diritto pubblico comparato all’Università di Bologna e avrebbe potuto sicuramente ricordare al ministro, come immagino le sarà capitato nei suoi corsi accademici, “la funzione sovversiva del diritto comparato” (della internazionalista e comparatista Horatia Muir Watt, 2000, tradotto in italiano nel 2006), nel pensare e praticare una conoscenza critica del diritto, che tenda a una “giustizia autosovversiva”, in una società sempre più “senza giustizia”, in cui le domande di libertà, equità e solidarietà provengono dall’attivismo pubblico e dalla mobilitazione sociale di parte della società civile, per utilizzare gli studi di un altro celebre giurista come Gunther Teubner (tradotto in italiano nel 2008), a lungo docente all’Istituto universitario europeo di Fiesole. Così come c’era da sperare che il professore Bonini evocasse, dai suoi preziosi corsi di istituzioni e dottrine politiche, quei passaggi in cui Niccolò Machiavelli, forse il filosofo italiano della modernità più celebre, lodava i tumulti della plebe romana e respingeva la loro repressione, “perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano” (dai Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, con quel formidabile titolo del paragrafo IV: “Che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella repubblica”). Ma ora, semplicemente e più efficacemente possibile, qualcuno dovrebbe suggerire loro quell’aneddoto in cui si racconta che, durante un’occupazione della New School da parte degli studenti negli effervescenti anni Sessanta del Novecento, con il corpo docente indeciso sul da farsi, la professoressa Hannah Arendt, in esilio statunitense dai tempi del nazismo, ammonisse, in tedesco: “In ogni caso, mai chiamare la polizia”. Sembrerebbe un memento per la stessa Conferenza dei rettori e per tutti i rettori e le rettrici chiamati a essere saggi e tutelare la propria collettività di studenti, ricercatori e docenti, anche e soprattutto nelle mobilitazioni che scuotono la società civile. Altri tempi, altre storie e altri docenti e studenti, si dirà. Ma se avessimo solo un briciolo di quella sensibilità, dovremmo dare seguito a quest’ultimo monito - “mai chiamare la polizia” - per evitare che studenti e studiosi in mobilitazione per la giustizia in Palestina, come molti loro colleghi in giro per il mondo, finiscano per rimanere schiacciati tra un’odiosa, violenta e ottusa repressione del dissenso e il connesso aizzare di altrettanto ottusi e odiosi estremismi da parte di chi, nel conflitto mediorientale, vuole l’annichilimento reciproco. L’onda dell’odio antisemita, il Viminale: dopo il 7 ottobre triplicate minacce e insulti online di Luca Monticelli La Stampa, 14 maggio 2024 Nel 2024 già 400 segnalazioni, oltre 90 al mese. Il direttore del Museo della Brigata ebraica: “Dalle università alle tv, è ora di abbassare i toni”. La senatrice Liliana Segre non si aspettava questa “ondata spaventosa di odio”. Dopo il 7 ottobre gli ebrei italiani sono costretti a vivere in un clima ostile, i casi di antisemitismo sono triplicati rispetto al passato. Segre racconta di ricevere “minacce pazzesche”, ma le intimidazioni e gli insulti raggiungono tanti cittadini di religione ebraica che “non c’entrano niente con le decisioni politiche di Israele e magari non le condividono”, sottolinea la senatrice sopravvissuta ad Auschwitz. Le parole di Segre trovano riscontro nei numeri, come quelli dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) diffusi ieri. Stando ai dati elaborati da associazioni e forze dell’ordine, dal 7 ottobre al 1° maggio l’Oscad conta 345 episodi riconducibili all’antisemitismo, tra cui 41 “hate crimes”, ossia crimini d’odio motivati da un pregiudizio, 175 casi di “hate speech” e 112 di incitamento all’odio online. In questo periodo, ricorda il rapporto presentato al memoriale della Shoah a Milano, si sono svolte 1.378 manifestazioni, di cui 1.109 in solidarietà al popolo palestinese e solo 39 a sostegno dello Stato di Israele. Mentre Segre confidava tutta la sua amarezza, arrivava alla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, il Cdec, la segnalazione di una scritta choc contro gli ebrei (poi cancellata) sul muro dell’ex galoppatoio del Lido di Venezia: “Vi cercheremo casa per casa e vi sgozzeremo”. “La spaventosa onda antisemita che sta investendo il nostro Paese non viene dal nulla”, evidenzia Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica di Milano, che aggiunge: “È da ottobre che diciamo di abbassare i toni, ma dal mondo universitario a quello di certi salotti televisivi si continuano a usare parole malate che portano a comportamenti malati. Si susseguono manifestazioni violente dei pro Palestina che dalle università al 25 aprile, passando per le presentazioni di libri, minacciano chi la pensa diversamente”. Il Cdec fa sapere che nel 2024, tra gennaio e aprile, gli episodi di antisemitismo catalogati sono 400, oltre 90 in media al mese. Un numero altissimo, se si considera che in tutto il 2023 erano stati 454, il doppio del 2022. Alla fine del 2024, quindi, gli eventi antisemiti noti potrebbero essere oltre il triplo in confronto agli anni pre 7 ottobre. Dati che collimano con il rapporto sull’antisemitismo nel mondo pubblicato dall’Anti-Defamation League, organizzazione con sede a New York. Secondo il centro studi americano la guerra a Gaza ha scatenato uno tsunami di odio contro le comunità ebraiche in tutto il mondo: “Quello che è avvenuto dopo il 7 ottobre ha moltiplicato attacchi da destra e da sinistra contro gli ebrei”. La tesi del rapporto, uscito la settimana scorsa, è che se continuano le tendenze attuali diventerà impossibile per gli ebrei vivere apertamente in Occidente, indossare la stella di David o frequentare sinagoghe e scuole ebraiche. Anche l’Ugei, l’Unione dei giovani ebrei, dice il vice presidente Ioel Roccas, ha raccolto attraverso una “Hot line” 115 segnalazioni di episodi di antisemitismo tra ottobre e marzo, ben 60 casi solo tra ottobre e novembre, “numeri esorbitanti se confrontati con gli anni precedenti”. Roccas condivide le preoccupazioni degli studenti ebrei e israeliani che dal massacro di Hamas e lo scoppio della guerra a Gaza vanno a lezione con paura. “Abbiamo visto sui banchi delle aule disegni di svastiche intrecciate a stelle di David e adesivi con il volto di Leila Khaled”, esponente storica del Fronte per la liberazione della Palestina che partecipò a due dirottamenti negli Anni 70, e che negli ultimi mesi è stata invitata in diversi atenei italiani. “Ormai slogan come “From the river to the sea” e “Intifada” sono sdoganati. Per noi giovani ebrei è diventato impossibile confrontarci con chi organizza le occupazioni e urla “fuori i sionisti dalle università”. Non c’è dialogo nelle assemblee, c’è una vera e propria censura”, continua Roccas che era in piazza il 25 aprile quando il corteo pro palestinese di Roma spostandosi da Porta San Paolo a Centocelle intonava cori “contro i media “servi del sionismo e del capitalismo ebraico”. Questa è la settimana in cui si temono nuovi scontri nelle università: Torino, Padova, Roma e Napoli le città più calde. Nelle comunità ebraiche c’è grande inquietudine: oggi è Yom HaAtzmaut, l’anniversario della nascita di Israele, domani il mondo arabo ricorda la Nakba, “la memoria della catastrofe”. “Che cosa succederà? Dobbiamo aver paura di uscire di casa e andare all’università?”, si chiede un giovane della comunità romana che preferisce rimanere anonimo. Alla Sapienza, ieri, all’assemblea degli studenti era presente Noura Erakat, docente in studi africani della Rutgers, famosa università del New Jersey. Erakat è intervenuta anche alle proteste della Columbia a New York e secondo alcune ricostruzioni della stampa anglosassone in passato ha partecipato a un workshop online con uno dei leader di Hamas, Gazi Hamad. L’Unione dei giovani ebrei italiani risponde lanciando un appello “a rettori, senati accademici e ministeri affinché gli atenei non diventino luogo di censura e intolleranza”. Medio Oriente. La risoluzione Onu per riconoscere la Palestina è un segnale da non sottovalutare di Davide Grasso* Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2024 Venerdì 10 maggio l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza per il riconoscimento della Palestina come stato membro delle Nazioni Unite. Si tratta di un voto storico, che fotografa una realtà sempre più evidente: gli Stati Uniti sono sempre più isolati nel contesto internazionale, e la loro potenza potrebbe fondarsi su una concezione datata dei rapporti di forza culturali ed economici internazionali. Il voto di venerdì non produrrà effetti concreti, infatti - salvo il riconoscimento di nuovi diritti e privilegi alla Palestina in seno alle Nazioni Unite, sia pur come membro osservatore - a causa del precedente veto statunitense opposto in seno al Consiglio di sicurezza. È interessante notare che nessuno degli altri membri permanenti del Consiglio - Russia e Cina, ma anche alleati indiscussi di Israele come Francia e Regno Unito - avevano votato come Washington in quella sede. La presidenza Biden ha già avuto occasione di macchiarsi di vergogna indelebile attraverso il veto opposto alla risoluzione per un cassate il fuoco il 20 febbraio. La risoluzione per il cessate il fuoco passata il 25 marzo ha visto invece gli Stati Uniti presentarsi come sola nazione astenuta su 15 membri del Consiglio (gli altri 14 hanno naturalmente votato a favore). Il sostegno inflessibile degli Stati Uniti a Israele, per quanto temperato da prese di distanza verbali volutamente prive di conseguenze concrete, si perpetua durante un massacro di dimensioni inimmaginabili, condotto senza rispetto alcuno per il diritto umanitario da uno stato che ignora da decenni numerose risoluzioni dell’Onu e i richiami delle relative istituzioni giudiziarie. Mostra al mondo e alle nuove generazioni l’ipocrisia della maggiore potenza globale: pronta ad appellarsi al diritto internazionale e alla democrazia quando le conviene, ma a calpestarli e a sostenere chi li disprezza quando conviene il contrario. L’alternativa alla fazione democratica di Biden - quella repubblicana di Trump - non è da meno: l’ex presidente è ferocemente avverso alle società a maggioranza musulmana o non bianca, e ha implicitamente riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ancora una volta contro tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite in materia). La più alta istituzione del diritto internazionale ha sede in una nazione che sembra disprezzarla, sebbene si sia candidata unilateralmente a interpretare, in questo secolo, che cosa siano per il mondo democrazia e giustizia, anche a prezzo di guerre dalle conseguenze devastanti come quelle contro l’Iraq e la Palestina. La votazione dell’Assemblea generale si è conclusa con 143 voti a favore, 25 astenuti e 9 contrari. Gli unici paesi di qualche rilievo demografico ad aver assunto la posizione estrema degli Usa sono nazioni governate dall’estrema destra xenofoba, come l’Ungheria e l’Argentina. La presenza dell’Italia tra il piccolo gruppo degli astenuti (in cui figurano quasi soltanto paesi europei, e soltanto una parte di essi) conferma quanto il governo Meloni sia succube di Washington, pienamente in linea con la sudditanza completa in politica estera voluta in questo secolo dall’uomo che ne ha avviato la carriera, Silvio Berlusconi. La fragilità, l’isolamento e l’insostenibilità ideologica di queste posizioni mentre Israele annuncia un’inconcepibile offensiva su Rafah, sono testimoniate dalle reazioni nevrotiche dei governi italiano e statunitense (o francese) di fronte alle manifestazioni pacifiche per Gaza, a partire dai campus universitari. Supportare Israele o gli Usa nell’attuale scenario globale, continuando a ripetere la tiritera dei pilastri della libertà e della democrazia nel mondo, significa rendersi corresponsabili di politiche che porteranno il pianeta alla catastrofe. Più utile sarebbe cercare soluzioni situate in modelli di politica e società differenti da quella attuale, e organizzarsi attorno ad essi. Tali modelli dovrebbero rigettare i suprematismi ed essenzialismi religiosi o nazionali e non intendere i concetti di libertà e democrazia secondo i crismi liberali, denunciandoli anzi come espressione di una civiltà della colonizzazione e dello sfruttamento umano e ambientale che non è sostenibile. Persistere nella giustificazione delle politiche attuali significa rendere le diverse comunità del pianeta massa di manovra per i diversi imperialismi, tradizionali o emergenti - fino alla prospettiva, sempre più concreta, di una catastrofe bellica globale. *Ricercatore e scrittore Medio Oriente. Fuoco sull’Onu a Rafah, inferno a Jabaliya di Michele Giorgio Il Manifesto, 14 maggio 2024 È il primo operatore straniero delle Nazioni unite ucciso dal 7 ottobre. Halevi: siamo come Sisifo, attaccheremo ovunque. Stop agli aiuti, oltre ai camion Israele blocca anche i lanci con i paracadute. È un cittadino straniero l’operatore umanitario delle Nazioni unite ucciso ieri da spari partiti, denunciano con forza i palestinesi, da postazioni israeliane contro un’auto dell’Onu diretta allo European Hospital, tra Khan Yunis e Rafah. Si tratta del primo membro straniero delle Nazioni unite ucciso a Gaza dal 7 ottobre. Nel chiedere con fermezza un’inchiesta immediata sull’accaduto, il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha ricordato che 190 dipendenti delle Nazioni unite sono stati uccisi da bombardamenti israeliani. Un’altra persona, pare una donna, è stata ferita. I due viaggiavano su un veicolo con la bandiera delle Nazioni unite e con i segni identificativi. Hamas parla di due morti. La vittima era un membro dello staff del dipartimento di Sicurezza e Protezione dell’Onu (Dss). Tel Aviv ieri affermava che non è chiaro se a sparare siano stati i soldati israeliani. L’accaduto non potrà non rilanciare le tensioni tra Israele e la comunità internazionale seguite all’uccisione, circa due mesi fa, di membri (6 stranieri e un palestinese) della Ong World Central Kitchen, colpiti da attacchi di droni sulla strada costiera di Gaza. Il ministro della Difesa israeliano Gallant ha ribadito agli Stati uniti che l’offensiva a Gaza andrà avanti come è stato pianificato. E Herzi Halevi, il capo di stato maggiore, ha preso a prestito il mito di Sisifo per annunciare che le truppe ai suoi ordini continueranno ad attaccare ovunque, anche nelle zone di Gaza che Israele aveva “liberato dalla presenza di Hamas”. L’enorme masso di Halevi, Hamas, continua a rotolare giù come quello spinto da Sisifo. “Ora operiamo ancora di nuovo a Jabaliya. Finché non ci sarà un processo diplomatico per sviluppare un governo nella Striscia che non sia Hamas, dovremo lanciare ancora campagne per smantellare le infrastrutture di Hamas. Sarà come il compito di Sisifo”, ha detto il capo di stato maggiore citato dalla tv Canale 13. Perciò, si combatte di nuovo a Jabaliya, nel nord di Gaza, dove gli uomini del movimento islamico e di altre formazioni armate palestinesi non solo hanno recuperato postazioni perdute nei mesi passati, ma stanno opponendo una resistenza alle forze israeliane che Halevi e il gabinetto di guerra di Benyamin Netanyahu non si aspettavano. Nonostante i colpi subiti, dopo oltre sette mesi, le unità di Hamas sono ancora in grado di sparare razzi verso le postazioni dell’esercito a Kerem Shalom e le località israeliane adiacenti alla Striscia. Inseguendo lo slogan della “distruzione totale e rimozione di Hamas da Gaza”, Israele sta affondando nella palude del suo possibile Vietnam. Netanyahu peraltro non trova partner per il suo progetto di sostituire Hamas. Si è tirata indietro anche l’Autorità Nazionale di Abu Mazen. La radio pubblica israeliana ha riferito Israele ha avuto colloqui con il capo dell’intelligence palestinese in Cisgiordania, Majdi Faraj, allo scopo di passare all’Anp la gestione del valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, occupato dai reparti corazzati israeliani la scorsa settimana. Faraj avrebbe seccamente rifiutato. A Jabaliya è tornato l’inferno di fuoco come nei primi tre mesi dell’offensiva israeliana. Tel Aviv sostiene di aver colpito 120 obiettivi in poche ore. I video girati dagli abitanti mostrano adulti e bambini in cerca di salvezza tra esplosioni e boati. Hamas e gli altri gruppi combattenti palestinesi intendono dimostrare che Israele non riuscirà nel suo intento di rioccupare e mantenere il controllo di Gaza. Da parte sua Israele lancia attacchi con mezzi corazzati e con droni e F-16. Gli scambi di raffiche continuano anche a Zeitun e altri sobborghi di Gaza city, come Sabra dove un raid aereo ha ucciso nella sua abitazione Talal Abu Zarifa, il principale dirigente del Fronte Democratico (sinistra) nella Striscia. I palestinesi, civili e combattenti, uccisi tra domenica e ieri mattina sono stati 57. Aumentano anche le perdite israeliane. Da venerdì sono stati uccisi cinque soldati e altri 68 sono stati feriti, alcuni dei quali gravemente. A sud della Striscia, reparti corazzati israeliani procedono verso il centro Rafah. Almeno 360mila civili sono scappati dalla città per sfuggire all’attacco devastante. Lo confermano i boati delle esplosioni, tanto forti da essere uditi a fino a circa 30 chilometri di distanza all’interno del Sinai. “Il suono è stato incessante fino all’alba, si sentiva anche il rumore delle case che crollavano, poi è tornata la clma, mentre i due valichi di Rafah e Kerem Salem restano chiusi al passaggio di aiuti per la popolazione di Gaza e ai feriti in uscita”, hanno riferito giornalisti egiziani e testimoni. Sul lato egiziano di Rafah, numerosi camion di aiuti restano in coda davanti al terminal sperando di passare. L’Egitto che negli ultimi giorni ha espresso in più modi la sua irritazione per la decisione di Netanyahu di attaccare Rafah - il ministro degli Esteri Sameh Shoukry parlando con il segretario di Stato Usa Blinken ha accusato Israele di “minacciare la sicurezza della regione” - aggiungendo che nelle ultime ore diversi aerei hanno chiesto di effettuare lanci di generi di prima necessità su alcune zone di Gaza ma i comandi israeliani hanno rifiutato. L’ultimo lancio di aiuti con i paracadute è avvenuto il 9 maggio. Tunisia. Arresto dell’avvocata Sonia Dahmani, il Cnf: “Metodi brutali, basta repressione” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 maggio 2024 La denuncia del presidente Francesco Greco dopo il violento arresto della legale tunisina. L’arresto dell’avvocata tunisina Sonia Dahmani viene duramente condannato dal Consiglio nazionale forense. Il presidente del Cnf, Francesco Greco esprime “forte preoccupazione” per quanto accaduto sabato scorso negli uffici dell’Ordine nazionale degli avvocati della Tunisia, dove alcune persone incappucciate hanno prelevato Dahmani. L’avvocata si trovava presso l’Ordine forense tunisino, quando le è stata notificata la convocazione a comparire davanti all’autorità giudiziaria. Un provvedimento emesso a seguito della sua partecipazione ad una trasmissione televisiva nella quale si è discusso sulla situazione politica e sociale della Tunisia. In quella occasione l’attivista per i diritti umani ha espresso i propri convincimenti sulla problematica dei migranti provenienti dal Sahel in Tunisia ed è stata accusata per aver diffuso “false informazioni con l’obiettivo di nuocere alla sicurezza pubblica” e di avere tenuto un comportamento di “incitamento all’odio”, violando così la normativa tunisina introdotta nel 2022 a seguito dello scioglimento del Parlamento. “Il Consiglio nazionale forense - dice il presidente Francesco Greco - condanna le modalità con le quali è stato eseguito l’arresto, operato da persone in abiti civili e con il volto coperto da passamontagna, che si sono introdotte con la forza nella sede dell’Ordine ed esprime la propria solidarietà all’Ordine nazionale degli avvocati della Tunisia (Onat), vincitore del premio Nobel per la pace nel 2015, quale componente del “Quartetto per il dialogo nazionale” al quale il Cnf è legato da un accordo di cooperazione sottoscritto il 5 giugno 2015”. L’avvocatura sensibilizzerà l’opinione pubblica e le istituzioni affinché la vicenda di Sonia Dahmani possa risolversi con la sua scarcerazione. “Chiediamo - evidenzia Greco - alle autorità tunisine l’immediato rilascio dell’avvocata Sonia Dahmani e la cessazione degli atti di repressione e intimidazione nei confronti dei colleghi tunisini. Siamo molto preoccupati per le sorti della nostra collega. I segnali di un intento persecutorio nei suoi confronti sono chiari. Un atto di persecuzione che, purtroppo, si ripete. I provvedimenti presi nei confronti della collega tunisina derivano dal suo costante impegno nel difendere i principi di democrazia in un sistema laddove probabilmente oggi la libertà trova un momento di compressione. Ecco perché abbiamo attivato immediatamente l’Osservatorio degli avvocati in pericolo, che il Cnf ha contribuito a fondare. Inoltre, verificheremo la possibilità per intervenire direttamente nei confronti dell’ambasciata tunisina a Roma per chiedere rassicurazioni attraverso i canali diplomatici sulla sorte della nostra collega”. Il presidente del Cnf si sofferma sul contesto in cui è avvenuto l’arresto di Sonia Dahmani. “Non è tollerabile - commenta - che un avvocato, per il solo fatto di esercitare la professione a tutela dei principi di diritto e degli ordinamenti, venga sottoposto a misure repressive e venga addirittura bloccato da persone in borghese, col volto coperto, delle quali non si può conoscere neanche l’appartenenza, se alle forze di polizia o all’esercito. Questa circostanza ci preoccupa molto, così come ci preoccupa il silenzio sulle condizioni di salute della nostra collega”. Sempre dal Consiglio nazionale forense si alza la voce della Commissione diritti umani e protezione internazionale, coordinata da Leonardo Arnau. “Convocata giovedì scorso di fronte al Tribunale di Tunisi - spiega Arnau -, senza che le fosse stato comunicato il motivo, in conseguenza del suo rifiuto a comparire in Tribunale, fintanto che le fossero rese note le ragioni della convocazione, Dahmani è stata sottoposta a provvedimento restrittivo, confermato dal giudice istruttore del Tribunale di Tunisi. L’udienza è stata rinviata a data da destinarsi, su richiesta della sua difesa”. Secondo l’avvocato Nidhal Sakhi, che la assiste, la decisione del giudice è stata presa senza che Dahmani venisse ascoltata. La prima volta nella storia della professione di avvocato in Tunisia. “Il Cnf e la Commissione diritti umani - conclude Arnau - seguono con apprensione questa drammatica vicenda e si stringono attorno all’avvocatura tunisina, vincitrice del premio Nobel per la pace 2015”. L’arresto di Dahmani viene condannato pure dall’Organismo congressuale forense. Il provvedimento restrittivo nei confronti dell’avvocata “è la conseguenza delle sue posizioni fortemente critiche sull’accordo per il trattamento dei rifugiati tra il governo tunisino e l’Unione europea”. “Ocf - si legge in una nota - chiede che il governo italiano si attivi immediatamente per il rilascio di Dahmani e pretenda dai propri partner internazionali garanzie in ordine di rispetto dei diritti fondamentali sanciti nei trattati internazionali, esprimendo fortissima preoccupazione in ordine a tutti gli accordi bilaterali con Paesi i cui governi non rispettino i diritti umani e le fondamenta dello Stato di diritto, quali l’indipendenza dell’avvocatura e la libertà di stampa”. L’Ordine degli avvocati di Milano e la Camera penale “Gian Domenico Pisapia” sottolineano che le “violenze e i soprusi cui è stata arbitrariamente sottoposta Sonia Dahmani rappresentano una ingiustificata repressione dei diritti e delle libertà riconosciuti a tutte le persone dalla comunità e dai trattati internazionali, aggravata dal fatto che sono stati posti in essere, in ragione di legittime espressioni delle proprie opinioni, nei confronti di un avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani e presso gli stessi uffici dell’Ordine degli avvocati, luogo preposto alla difesa dei diritti delle persone”. Dal Coa e dalla Camera penale di Milano la richiesta al Cnf, all’Ocf, alle istituzioni e alle associazioni anche internazionali dell’avvocatura “di adottare ogni iniziativa volta a garantire il pieno e incondizionato esercizio dell’attività difensiva e del diritto di espressione del proprio pensiero, intervenendo altresì per garantire lo svolgimento di un processo giusto ed equo”.