Dal Beccaria al Dl Caivano, così fallisce una giustizia minorile che era un modello di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2024 Il numero di reclusi negli “Ipm”, gli “Istituti penali per i minorenni”, è passato dai 835 del 2021 ai 1.143 del 2023. Alle politiche punitive inadeguate si sommano negligenza e disinteresse per le condizioni di vita dei giovani detenuti e per il loro recupero. Nel complesso quadro del sistema penitenziario italiano, le carceri minorili erano un tempo considerate un faro di speranza, rappresentando un modello educativo e socializzante volto al recupero dei giovani nel tessuto della società. Tuttavia, gli ultimi anni hanno gettato un’ombra cupa su questo scenario, evidenziando un declino allarmante che ha portato al caos istituzioni, un tempo di prestigio, come il celebre Beccaria di Milano. Situato nella periferia milanese, nelle vicinanze della fermata della metropolitana di Bisceglie, il Beccaria ha una storia di rilevanza nazionale come uno degli Istituti Penali Minorili (Ipm) più importanti d’Italia. Grazie all’impegno delle istituzioni pubbliche e private milanesi, l’Istituto divenne presto un punto di riferimento nel panorama della giustizia minorile italiana. Tuttavia, la situazione attuale dista notevolmente dai fasti del passato, trasformandosi da fiore all’occhiello a simbolo di degrado e disfunzione. Da oltre 16 anni, i lavori di ristrutturazione in corso hanno precarizzato le condizioni sia dei ragazzi detenuti che del personale, contribuendo a creare un ambiente instabile e insicuro. Episodi come la fuga dei sette ragazzi nel giorno di Natale del 2022 e l’incendio doloso nel reparto infermeria l’anno successivo sono solo la punta dell’iceberg di una crisi più ampia che affligge le carceri minorili. Il sovraffollamento, le carenze strutturali e la mancanza di una direzione stabile hanno contribuito a creare un ambiente volatile, dove il disagio e la disperazione trovano terreno fertile. E così siamo arrivati al caso di abusi e torture che, secondo l’accusa (ma documentata anche dalle riprese della videosorveglianza), coinvolge diversi agenti della polizia penitenziaria. Ma il problema non è limitato al Beccaria. L’aumento esponenziale del numero di detenuti negli Istituti Penali Minorili, passato da 835 nel 2021 a 1143 nel 2023, è sintomatico di una crisi sistemica che va oltre le singole istituzioni. Il quadro che emerge è ancor più allarmante se consideriamo che il numero di reati è rimasto sostanzialmente stabile, in linea con quello registrato una decade fa. Secondo quanto afferma Antigone, il merito di questo aumento drammatico del numero di detenuti negli Ipm è da attribuire interamente al decreto legge Caivano. Questa legislazione, oltre a una serie di altre disposizioni, ha provocato un incremento del 37,4% degli ingressi per reati legati alle droghe in un solo anno, senza però essere accompagnata da investimenti adeguati nei servizi per la tossicodipendenza o nell’educazione nelle scuole. L’aumento degli ingressi negli Istituti Penali Minorili nell’ultimo anno è stato principalmente causato dall’impennata di misure cautelari, evidenziando un’inequivocabile “involuzione normativa” favorita dal decreto Caivano. Questo approccio, improntato alla repressione piuttosto che alla rieducazione, ha messo completamente in secondo piano l’interesse superiore del minore. In aggiunta, va sottolineato come il tasso di recidive sia direttamente proporzionale all’ingresso dei giovani negli istituti penali, specialmente quando, raggiunta la maggiore età, vengono trasferiti negli istituti per adulti. Questo interrompe di fatto ogni percorso rieducativo precedentemente intrapreso. Prima dell’entrata in vigore del decreto Caivano, i minori che commettevano un reato potevano rimanere negli Ipm fino ai 25 anni, consentendo un percorso di reinserimento più lungo e mirato. Tra le principali novità introdotte dal decreto legge, vi sono l’estensione del daspo urbano ai giovani sopra i 14 anni, l’allungamento della durata del foglio di via di un anno, il potenziamento delle facoltà di arresto in flagranza e l’inasprimento delle pene per reati legati allo spaccio di droga anche di lieve entità. A ciò si aggiunge la possibilità per il questore di vietare l’uso del cellulare ai soggetti sopra i 14 anni, la reintroduzione della custodia cautelare per i minorenni imputati che tentano la fuga, e l’introduzione di un nuovo reato che prevede il carcere fino a due anni per i genitori che non assicurano l’istruzione obbligatoria ai propri figli. Quest’ultima misura, purtroppo, rischia di privare il minore della figura di riferimento, risultando in effetti controproducenti sul lungo termine. Non finisce qui. ll decreto Caivano solleva anche significativi dubbi di incostituzionalità, come emerge dall’ordinanza del Gip di Trento che ha sottoposto la questione alla Consulta. Il giudice, infatti, chiede di valutare la costituzionalità dell’articolo 27 bis - disposizioni sul percorso di rieducazione del minore - nella misura in cui prevede, per il minore sottoposto a procedimento penale, “una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che educativo, in contrasto con quanto richiesto dall’articolo 31, comma II della Costituzione, così come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui qualsiasi trattamento punitivo nei confronti di un minore è ammesso solo se sorretto, animato e orientato da fini educativi”. Nel caso specifico, la difesa del minore aveva chiesto al pm la proroga del termine per il deposito del programma rieducativo al fine di ottenere maggiori informazioni sulla sua situazione e creare un percorso adatto. In concreto, voleva comprendere il motivo che aveva spinto il ragazzo a minacciare il papà, ma il pm aveva respinto l’istanza poiché non prevista dalla norma. Una situazione che solleva seri dubbi di costituzionalità. Il gip definisce la norma “irragionevole” perché “di fronte a un reato non occasionale prevede una procedura che non permette un adeguato approfondimento informativo e un’effettiva presa in carico del minore e dei suoi bisogni educativi”. Le politiche emergenziali del governo, incentrate sulla criminalizzazione e la repressione, hanno completamente trascurato l’interesse superiore del minore, mettendo a rischio decenni di lavoro nel campo della giustizia minorile. Le nuove norme hanno compromesso il delicato equilibrio tra recupero e punizione, minacciando di cancellare un modello italiano di successo nel trattamento dei giovani che delinquono. Il risultato è un aumento delle tensioni all’interno degli istituti minorili e una maggiore propensione alla recidiva una volta che i giovani raggiungono la maggiore età e vengono trasferiti negli istituti per adulti. Tuttavia, il fallimento del sistema carcerario minorile non è solo il risultato di politiche punitive inadeguate. È anche il frutto di anni di negligenza e disinteresse nei confronti delle condizioni di vita dei detenuti e delle risorse necessarie per il loro recupero. La mancanza di investimenti nei servizi per la tossicodipendenza, l’educazione nelle scuole e le misure alternative alla detenzione ha contribuito ad alimentare il circolo vizioso della criminalità e della marginalizzazione. L’associazione Antigone denuncia da tempo le tensioni e i malfunzionamenti all’interno degli istituti minorili, come evidenziato nel recente rapporto “Prospettive minori”, presentato lo scorso febbraio. La presa in carico dei ragazzi è sempre più disciplinare e farmacologizzata, con un utilizzo smodato di psicofarmaci, soprattutto per i minori stranieri non accompagnati. Questi ragazzi vengono spostati come pacchi da un istituto all’altro a seconda delle esigenze, alimentando ulteriormente le tensioni e la marginalizzazione. “Punire senza educare: le politiche autoritarie del governo sui giovani si sono dimostrate un totale fallimento” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 maggio 2024 Parla la deputata dem Michela Di Biase: “Il decreto Caivano porterà in carcere molti più minori rispetto agli anni precedenti: nessuno pensa al loro recupero”. Aumento delle pene detentive e delle sanzioni disciplinari per ristabilire l’autorità, nelle scuole, nelle piazze, persino nei party danzanti: le politiche del governo per i giovani hanno un sapore chiaramente proibizionista come mostra la pioggia di decreti ad hoc degli ultimi mesi. Una linea che la deputata del Partito democratico Michela Di Biase contesta alla radice, sia dal punto di vista morale che, cifre alla mano, da quello pratico. Il primo atto del governo Meloni appena insediato è stato il “decreto rave”, si trattava di una necessità per l’Italia? Su questa vicenda vorrei partire dalla coda, dalle risultanze. Quella che è stata descritta come un’emergenza nazionale, portata in Aula con tanta foga per intervenire contro questi famigerati rave party, si è scontrata con i dati, che invece parlano chiaro: ci sono state appena cinquanta inchieste, otto processi e zero condanne. Queste cifre le ha fornite lo stesso ministro Nordio durante un’interrogazione presentata alla Camera. Per stessa ammissione del governo dobbiamo dedurre che non si trattava affatto di un’emergenza nazionale. Sulla stessa falsariga è poi arrivato il “decreto Caivano” con conseguenze decisamente più pesanti... Uno degli aspetti più negativi del decreto Caivano è l’aver in parte minato il nostro sistema penale minorile, che è considerato un’eccellenza nel panorama europeo. Penso in particolare alla possibilità di ridurre l’istituto della messa alla prova, che è una misura fondamentale per il reinserimento dei ragazzi. Un decreto che nasce sull’onda dell’emozione per un fatto di cronaca gravissimo che ha scosso l’opinione pubblica. Anche in questo caso le soluzioni del governo sono state di stampo securitario, con sostanziali aumenti delle pene per i minori. Misure che però non affrontano il problema centrale, occorre al contrario lavorare sul contesto sociale e culturale in cui questi fatti avvengono. Come ha segnalato l’associazione Antigone in un rapporto che è arrivato in Commissione giustizia, il provvedimento Caivano sta portando e porterà in carcere molti più minori rispetto agli anni precedenti causando un sovraffollamento negli istituti di pena minorili come già accade nelle prigioni per gli adulti. Le violenze e le atrocità subite dai minori nell’istituto Beccaria di Milano, picchiati e insultati dalle guardie carcerarie, sono il sintomo di un problema strutturale nel nostro sistema di detenzione? Per quei fatti terribili ci sono stati tredici arresti tra gli agenti di polizia penitenziaria più un’altra decina di avvisi di garanzia. Spesso si dimentica che parliamo di minorenni in custodia dello Stato, pensare che dei ragazzini di 15 anni abbiano subito quel tipo di violenze è intollerabile, mi auguro che si faccia luce al più presto su quanto accaduto. Gli istituti di pena minorile devono essere dei luoghi dove i detenuti sono riabilitati alla vita civile, non è possibile considerarli dei ragazzi perduti. La funzione costituzionale del carcere e a maggior ragione quella di un Ipm è il reinserimento sociale. C’è un problema culturale nella formazione degli agenti di custodia o si tratta di un caso estremo? No, non credo si possa generalizzare, ho preso l’impegno personale di visitare costantemente le nostre carceri, la polizia penitenziaria che ho incontrato vive ogni giorno delle grandissime difficoltà in un clima complicatissimo a causa di una mancanza di organico drammatica, mai sarò nelle fila di coloro che demonizzano un’intera categoria. Sono sicura che la stragrande maggioranza degli agenti di custodia fa bene il proprio mestiere. Quando però qualcuno commette degli abusi il Governo deve intervenire e risponderne al Parlamento. Per questo motivo abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro Nordio, mi auguro che venga in Aula al più presto a riferire. Parallelamente abbiamo chiesto in Commissione bicamerale Infanzia e Adolescenza un’indagine conoscitiva per fare luce sulla condizione dei minori in custodia all’interno degli Istituti penali minorili. Lo Stato non può permettersi di abbassare il livello di attenzione sulle condizioni dei minori, specie su coloro che sono reclusi. Quest’anno le occupazioni dei licei scuole hanno ricevuto una risposta molto dura dal ministero e dai dirigenti scolastici con una valanga di sospensioni e cinque in condotta. È un modo di ristabilire l’autorità come sostengono la premier e il ministro Valditara? La scuola è il luogo del dialogo e del confronto. Ritengo spropositate le sanzioni contro i ragazzi che hanno occupato. Non voglio demonizzare le presidi e i presidi, però registro che questo governo ha un problema serio con il dissenso, con chi la pensa in modo diverso. Come i giovani che manifestano, che non sono dei pericolosi criminali. Nel rispetto delle regole tutti hanno il diritto di esprimere la propria opinione. Ma soprattutto la “pena”, se così si può dire visto che non parliamo di reati, deve essere commisurata ai fatti. Il ministro Valditara è arrivatoaddirittura ad affermare di voler invertire l’onere della prova per i presunti danni causati dalle occupazioni, ribaltando i principi del diritto. Si sta creando, anche stavolta, un’emergenza che non c’è. Le risorse del ministro siano piuttosto dirottate per contrastare il problema della povertà educativa e della dispersione scolastica, un fenomeno in drammatico aumento soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno. “Il trattamento penitenziario non è una vacanza, ma un diritto che comporta sacrifici” di Simona Musco Il Dubbio, 13 maggio 2024 “I minori potrebbero essere quasi tutti recuperati se solo lo stato riuscisse ad arrivare in tempo, prima che la scelta di delinquere si trasformi in una via senza ritorno”. La repressione da sola non basta, ciò che conta, con i minori, è prevenire. A dirlo è Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania, secondo cui “occorre far comprendere a tutti che il trattamento penitenziario non è una vacanza, ma un diritto che comporta sacrifici per coloro i quali vi partecipano”. E su quanto accaduto all’istituto per minori “Beccaria”, il magistrato ha le idee chiare: degenerazioni come quella, spiega, “non sono frutto del caso, ma conseguenze prodotte da un insieme di scelte sbagliate che stanno piuttosto a monte”. Le recenti scelte del governo in merito alla giustizia minorile sono orientate verso una logica punitiva: il dl Caivano ne è una prova, ma anche il dl Rave va a colpire una fascia sociale composta prevalentemente da giovani. La risposta repressiva secondo lei funziona con i minori? La repressione è soltanto un aspetto del problema e serve a contrastare i comportamenti devianti in atto. È chiaro che lo Stato deve operare in primo luogo con la prevenzione, che consiste anche nel creare le condizioni per superare il disagio da cui prendono forma i reati che si vogliono evitare. Con i ragazzi, specie quelli che hanno delle personalità in via di formazione, questo percorso può dare dei risultati. Quali sono le strategie da adottare nel contesto della giustizia minorile? Che fine fa il fine rieducativo della pena? Nel trattamento dei minori spesso si tratta di porre le basi di una giusta educazione, prima ancora che operare una vera e propria rieducazione. E per questa ragione l’ordinamento da tempo consente delle forme di messa alla prova e di perdono giudiziale. In questo modo si può rimettere sulla strada giusta chi ha sbagliato, evitando il percorso della “punizione” con il suo carico di conseguenze anche psicologiche. Come si risolve la piaga dei giovanissimi che commettono reati? Come in tutte le cose occorre distinguere. A differenza degli adulti per i quali il percorso reinserimento è a volte più difficile, i minori potrebbero essere quasi tutti recuperati se lo Stato riuscisse ad arrivare in tempo, ossia prima che la scelta di delinquere si trasformi in una via senza ritorno, prima che nella dimensione del delitto si formi l’idea di potere raggiungere il successo e di avviare una carriera criminale. C’è chi ha proposto di abbassare l’età imputabile. Cosa ne pensa? La questione si è posta a proposito dei giovanissimi appartenenti alle associazioni di tipo mafioso. Vi fu un caso anni fa di un infraquattordicenne armato dal padre per commettere un omicidio prima nel raggiungimento dell’età imputabile. È una questione di punti di vista: abbassare l’età imputabile potrebbe significare ricercare un deterrente a tutela della società, ma dal punto di vista della esperienza di vita un 14enne rimane un bambino. Le vicende del Beccaria rappresentano l’esempio massimo delle storture del sistema. Come si spiega fenomeni del genere? Sono fatti inqualificabili e meritevoli di una adeguata ed esemplare punizione. Tuttavia non sono frutto del caso, ma conseguenze prodotte da un insieme di scelte sbagliate che stanno piuttosto a monte. Il Dipartimento giustizia minorile non è evidentemente in grado di disporre di una quantità di personale che consenta un adeguato ricambio del personale più esperto che va in pensione; né è in grado di assicurare periodi adeguati di affiancamento e di formazione ai nuovi assunti. Peraltro l’approccio di trattamento penitenziario con i ragazzi presuppone un surplus di pazienza e di dedizione. Se da un lato si tratta pur sempre di giovani, e dunque di personalità non strutturate su cui è possibile incidere con maggiori possibilità di successo, dall’altro le intemperanze tipiche dell’età immatura e lo spirito di contestazione che ne consegue meritano un approccio di esperienza. È adeguata la formazione di chi lavora in posti così duri? Nel caso concreto non la è stata affatto, sono stati mandati degli agenti ragazzini senza formazione ad affrontare le difficoltà e le intemperanze di detenuti di poco più giovani di loro. Non c’è bisogno neanche di spiegare cosa possa essere successo. Come prevenire deviazioni come questa? C’è una intera legge di 90 articoli, l’ordinamento penitenziario, che se applicata correttamente serve a trovare un punto di equilibrio tra sicurezza, rieducazione e rispetto delle persone. Per fare si che la legge non rimanga una regola vuota come le grida manzoniane, occorre che lo Stato prenda in mano la situazione; che con autorevolezza e con competenza sia in grado di garantire condizioni civili di detenzione, ma al tempo stesso di pretendere il rispetto delle regole. Occorre far comprendere a tutti che il trattamento penitenziario non è una vacanza, ma un diritto che comporta sacrifici per coloro i quali vi partecipano. Sacrifici dai quali dipende il cambiamento di un’esistenza e la possibilità di ottenere meritatamente l’uscita anticipata dal carcere. La repressione cieca e la sindacalizzazione dei benefici - ossia la pretesa di assicurare sconti di pena anche a chi rifiuta le regole dello Stato - sono atteggiamenti opposti e sbagliati che convivono nella dimensione di un carcere incivile e fuori controllo. Quando Eduardo quarant’anni fa invitava ad avere fiducia in questi ragazzi di Franco Insardà Il Dubbio, 13 maggio 2024 “Onorevole Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi… con tutto il da fare che ho avuto non ho trascurato di occuparmi dell’istituto Gaetano Filangieri di Napoli e dei ragazzi che spesso, a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via; e nei prossimi mesi intendo dedicare a loro più tempo di prima. E su questo vorrei soffermarmi. Si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro, ed è essenziale che un’Assemblea come il Senato prenda a cuore la riparazione delle carenze dannose, posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l’intero territorio dal Sud al Nord dell’Italia… Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi, molto si può ottenere da loro. Ne ho pensate, di cose, nei mesi scorsi, e c’è da fare, si può fare, ne sono certo…”. Sono le parole di Eduardo De Filippo, nominato senatore a vita da Sandro Pertini, pronunciate a Palazzo Madama il 23 marzo 1982, che stridono con l’attuale ondata securitaria. Quei ragazzi ristretti nei 17 “Ipm” italiani avrebbero bisogno di sentire voci come quelle di Eduardo, piuttosto che subire violenze. Di Istituti penali per i minorenni, come di carcere, si parla solo quando “fanno notizia” con torture, pestaggi, suicidi. I reclusi, però, vivono quotidianamente una vita fatta di soprusi, celle sovraffollate ed emarginazione. Dietro ogni ragazzino che finisce in un Istituto c’è un disagio derivante da un vuoto culturale, da un sottosviluppo economico, da diritti negati e da politiche sociali inesistenti. “Chi è disposto a dare fiducia e lavoro ad un avanzo di galera?”, si chiedeva ancora Eduardo nel suo discorso in Senato. “Questa non è una domanda che mi sono posto io, che non conoscevo il Filangieri. È una domanda angosciosa che si pongono gli stessi ragazzi dell’istituto, che mi dissero: ‘Non usciamo da qui con il cuore sereno, in pace e pieno di gioia, perché se quando siamo fuori non troviamo lavoro né un minimo di fiducia, per forza dobbiamo finire di nuovo in mezzo alla strada! La solita vita sbandata, gli stessi mezzi illeciti, illegali per mantenere la famiglia: scippi, furti, la rivoltella, la ribellione alla forza pubblica. Insomma siamo sempre punto e daccapo’”. L’impegno di Eduardo per i minori a rischio continuò: venne promulgata una legge regionale, la “Legge Eduardo”, utilizzata per pochissimi progetti tra Nisida e Benevento. Garantì fondi al Filangieri, e nella Napoli di Maurizio Valenzi l’istituto divenne un esempio di socializzazione, nel quale i ragazzi potevano andare a scuola e frequentare laboratori, sperimentando un vero modello di rieducazione. Un’idea a cui ha lavorato da sempre don Gino Rigoldi, storico cappellano del “Beccaria”, fondatore della Comunità Nuova e della Fondazione, che porta il suo nome, con la quale aiuta i giovani in difficoltà a trovare lavoro, e che ospita donne sole con figli. Per don Gino, è “illusorio pensare di risolvere tutto aumentando le pene per i ragazzi difficili”. Parliamo di giovani detenuti negli “Ipm”, gli Istituti penali per i minorenni, nei quali la popolazione straniera ormai è in maggioranza, con molti minori stranieri non accompagnati. Al punto che lo stesso don Gino Rigoldi ci confidò come sia lui che don Claudio Burgio, il sacerdote che lo ha sostituito, da un mese, al Beccaria, sono quasi ‘disoccupati’, mentre ci sarebbe bisogno di un imam. Situazione simile al “Ferrante Aporti” di Torino, raccontata con il documentario “I Cinque Punti”. Il viaggio di una madre verso il primo colloquio con il figlio detenuto all’interno di un Ipm, con il commento in lingua araba. Al Sud, invece, come ha più volte spiegato il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, la popolazione minorile detenuta è formata da chi evade l’obbligo scolastico, da altri che vivono un disagio, poi ci sono i bulli e infine quelli che appartengono in qualche modo alla criminalità organizzata e mitizzano i boss. Per tutti il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio e non la prima misura da adottare. Sono ragazzi ai quali bisognerebbe “dare la speranza e la fiducia di una vita nuova che restituisca loro quella dignità a cui hanno diritto, e che giustamente reclamano”. Parole di Eduardo, morto quarant’anni fa, che conservano una incredibile attualità. Anm, la resistenza sulla riforma e la cautela dei magistrati in tv: parlare è giusto ma solo quando serve di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 maggio 2024 L’avvertimento del congresso ai magistrati in tv: l’associazione chiede di regolarsi su stile e contenuti per evitare strumentalizzazioni. La salvaguardia di autonomia e indipendenza messe in pericolo dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri promessa dal governo, resta un fronte sul quale la magistratura intende resistere con tutte le armi a disposizione. Ma nel frattempo, nella “cittadella assediata” che per tre giorni s’è trasferita nella città-simbolo di Palermo, fra il teatro Massimo e il nuovo porto, ci si interroga su come rendersi più credibili per far valere le proprie ragioni nel confronto con la politica che ha in mano le leve delle riforme. Oltre che davanti all’opinione pubblica. Fermo restando che “poi alla fine il Parlamento farà quello che vuole e noi ci adegueremo alle sue scelte” ribadisce il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Ma prima che vengano prese, le toghe intendono giocare ogni possibile carta; per cercare di orientarle nell’interesse collettivo, non della categoria: “Non c’è nessuna chiusura corporativa, né alcun atteggiamento da casta - spiega Santalucia -, vogliamo solo farci capire meglio”. È l’altra faccia della resistenza dei magistrati, che rivendicano il diritto di parola, soprattutto quando si discute di giustizia e di giurisdizione, poiché “la partecipazione al discorso pubblico, pur con la cautela imposta dal ruolo, può contribuire a una più consapevole considerazione delle implicazioni delle scelte che il decisore politico intende assumere”. Così hanno scritto nella lunga e articolata mozione approvata per acclamazione dal 36° congresso dell’Associazione nazionale magistrati, un documento unitario che ha compattato tutte le correnti dell’Anm; anche quella collocata più di destra, Magistratura indipendente, e persino il piccolo gruppo che sponsorizza l’estrazione a sorte dei consiglieri del Csm. Una frase dove la parola più importante è “cautela”; seguita da un’altra, altrettanto significativa: occorre “prevenire strumentalizzazioni e evitare che le nostre voci si confondano con il rumore di fondo di un dibattito spesso confuso e sgrammaticato, e finiscano per ingenerare ancora più confusione e disorientamento nei cittadini”. Sono avvertimenti rivolti soprattutto alle toghe mediaticamente più esposte, “i colleghi che vanno più spesso in televisione” sottolinea Santalucia. Per i quali è stata inserita la raccomandazione a “interrogarsi se vi sia un interesse a ricevere le sue opinioni e valutazioni e se la sua cultura e la sua esperienza possano arricchire in modo qualificante il dibattito pubblico sul tema specifico”. Come dire: parlate solo se e quando è necessario. Anche perché “le dichiarazioni rese dal magistrato vengono percepite quali espressioni di pensieri e valori riferibili all’intera magistratura, e la comunicazione deve quindi adeguarsi quanto a scelta dei temi, stile e contenuti”. Pure quando prende posizione a titolo personale, insomma, ogni singola toga dev’essere consapevole che le sue frasi possono essere attribuite all’intera categoria, e di questa responsabilità deve farsi carico. Altrimenti meglio tacere. Il tema dell’imparzialità, anche sul piano dell’apparenza, e dell’interpretazione della legge da esercitare senza offrire il fianco a sospetti di faziosità, doveva essere al centro del dibattito congressuale, che però è stato in gran parte fagocitato dalle polemiche sulle riforme annunciate e dagli attacchi per le ultime inchieste che hanno coinvolto la politica. Tuttavia il documento finale è tornato a fissare dei paletti “attraverso un lavoro corale e con il contributo di tutti, senza mediazioni né trattative per arrivare all’unanimità”, chiarisce Santalucia, orgoglioso di questo “segnale di maturità, sollecitato pure dai tanti giovani colleghi che hanno voluto partecipare al congresso”. Dell’interpretazione della legge, spesso criticata dai politici, l’Anm reclama la piena legittimità, soprattutto in un “quadro normativo confuso e disorganico”. Anche in presenza di leggi fatte male, pm e giudici devono continuare a fornire le risposte più adeguate e coerenti con i principi costituzionali alle domande di giustizia dei cittadini. Ma è un compito da svolgere “con la dovuta ponderazione e prudenza”. Importante tanto quanto la difesa della “unicità della magistratura”, e dunque dell’appartenenza di giudici e pm allo stesso ordine giudiziario. È la linea del fronte “incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme”, sulla quale si fonda la ritrovata unità delle toghe italiane. L’Anm approva la mozione unitaria, Santalucia: “I magistrati non staranno in un silenzio coatto” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 maggio 2024 Per il presidente dell’Associazione nazionale magistrati “questa Costituzione ha ancora molto da dire, non va toccata almeno per quanto riguarda la giurisdizione”. Si è conclusa nella tarda mattinata di ieri il 36esimo Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati con una mozione unitaria che ricompatta le toghe, dopo qualche mese di frizioni. Non era contemplata una ipotesi diversa perché in questo momento che il governo sta mettendo in cantiere la riforma costituzionale - benché Nordio abbia fatto capire che i tempi si allungano - la magistratura deve apparire ed essere un corpo unico per fronteggiare i desiderata di Via Arenula. “Non si tratta di discutere di diritti dell’impiegato magistrato, è un problema di cultura istituzionale e costituzionale. Non abbiamo da trattare, ma da parlare alla politica e alla società intera per dire che questa Costituzione ha ancora molto da dire, non va toccata almeno per quanto riguarda la giurisdizione”: ha detto il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, al termine. Ha poi aggiunto: “Questo congresso lo abbiamo voluto per fare una riflessione seria sulle critiche che abbiamo ricevuto nei mesi scorsi. Anche affidate a messaggi mediatici con toni offensivi nei confronti di singoli magistrati coinvolti. Abbiamo voluto analizzare qual è il contesto in cui opera la giurisdizione. L’interpretazione della legge non può arretrare e i magistrati, avendo come interpreti della legge un margine di discrezionalità, devono farsene carico per tutelare anche l’immagine di imparzialità nel momento in cui intervengono anche nella vita sociale e nella vita di relazione”. Santalucia ha concluso: “Il congresso porrà anche ai magistrati l’attenzione su alcune regole di comportamento da osservare in modo che i cittadini non abbiano mai a dubitare dell’imparzialità dei magistrati, ma non facendo dei magistrati dei soggetti che devono restare in una zona d’ombra e in un silenzio coatto. I magistrati possono partecipare e devono partecipare alla discussione pubblica e lo devono fare con lo stile e il profilo di un magistrato”. La mozione approvata Proponiamo alcuni stralci del documento approvato all’unanimità che si sviluppa su quattro linee principali: ampliamento dello spazio interpretativo della norma, diritto del magistrato ad intervenire nel dibattito pubblico, comunicazione adeguata sia sui media che sui social, contrasto alla riforma costituzionale. 1. Dal caso Apostolico… “La legge alla quale diamo osservanza quotidiana non si limita al singolo precetto normativo, perché questo è inserito in un sistema giuridico, che si compone delle altre norme e dei sovraordinati principi costituzionali e sovranazionali. Se le disposizioni di rango primario si pongono in frizione con i diritti e le libertà fondamentali garantiti dalla Costituzione, e dalle fonti del diritto dell’Unione, quindi, è dovere di ogni magistrato ricorrere, con la dovuta ponderazione e prudenza, agli strumenti che l’ordinamento pone a tutela dei diritti che devono essere assicurati ad ogni persona. Ma più il dettato normativo è confuso e carente di tassatività, più esso è disorganico rispetto al corpo complessivo delle norme nelle quali viene incluso, più si pone in contrasto con i principi della legislazione internazionale e della Costituzione e più si amplia lo spazio concesso all’interpretazione giudiziaria. La magistratura italiana conferma anche il suo impegno volto ad assicurare che la risposta alla domanda di giustizia sia sempre più tempestiva, ma va mantenuto fermo il principio che l’attività del giudicare non può mai essere demandate all’intelligenza artificiale, che può e deve servire per assicurare più efficaci strumenti di organizzazione, non per supplire all’attività del giudicare, che è e deve restare prerogativa esclusivamente umana. Dell’ampia discrezionalità immanente all’attività interpretativa i magistrati italiani danno quotidianamente conto al popolo, nel cui nome amministrano la giustizia, con le motivazioni dei loro provvedimenti, che costituiscono il cuore pulsante dell’attività giurisdizionale. È dannosa per le istituzioni una critica che non parta dalle motivazioni del provvedimento giudiziario, e che sia fondata sulla ricerca nella vita privata del magistrato, di dichiarazioni o meri comportamenti che, talvolta travisati e comunicati ad arte, possano dare, all’opinione pubblica, l’impressione di un pregiudizio, di una partigianeria che ne ha guidato la penna. Questo modo di muovere critiche alle decisioni dei giudici va contrastato con grande fermezza, perché inquina il dibattito pubblico intorno alla giustizia e genera sfiducia verso la magistratura. 2. Diritto di parola Dobbiamo interrogarci sul fondamento e i limiti della libertà di manifestazione del pensiero del magistrato, che è un cittadino e deve poter dare il suo apporto alla discussione pubblica, offrendo un punto di vista che è anche il portato della sua qualificazione tecnica. La partecipazione al discorso pubblico, pur con la cautela imposta dal ruolo, può contribuire a una più consapevole considerazione delle implicazioni delle scelte che il decisore politico intende assumere, soprattutto quando vengono in rilievo possibili compressioni dei diritti fondamentali, nell’ottica del perseguimento delle finalità previste dalla Costituzione. Proprio per questo dobbiamo interrogarci su quali siano i temi, le modalità e i contenuti più idonei a prevenire strumentalizzazioni e a evitare che le nostre voci si confondano con il rumore di fondo di un dibattito, spesso confuso e sgrammaticato, e finiscano per ingenerare ancora più confusione e disorientamento nei cittadini. Rivendichiamo l’importanza della partecipazione di tutti i magistrati al dibattito pubblico, non solo in quanto cittadini dotati di pari diritti rispetto agli altri, ma anche come portatori di esperienza, cultura, principi, ispirati ai valori costituzionali ed alla legalità. 3. Come comunicare all’opinione pubblica In primo luogo, è necessario comprendere che tutto ciò che viene affidato alla rete internet, mediante qualsiasi media e social network, è destinato ad essere sempre nel tempo reperibile ed è suscettibile di essere portato a conoscenza del pubblico nonostante l’apparente riservatezza o l’iniziale selezione dei destinatari. Più in generale è necessario prendere atto che, per una parte dell’uditorio, le dichiarazioni rese dal magistrato vengono percepite quali espressioni di pensieri e valori riferibili all’intera magistratura e la comunicazione deve quindi adeguarsi a questo dato quanto a scelta dei temi, stile e contenuti. Non vi è dubbio che, in ogni caso, il magistrato debba sempre interrogarsi se vi sia un interesse a ricevere le sue opinioni e valutazioni e se la sua cultura e la sua esperienza possano arricchire in modo qualificante il dibattito pubblico sul tema specifico, ovvero essere di pari valore rispetto a quelle espresse da ogni altro cittadino. 4. Contro la separazione delle carriere e i due Csm Quanto alle riforme costituzionali l’Anm ribadisce la propria intransigente contrarietà alla separazione delle carriere e al complessivo indebolimento del CSM che ne costituiscono il contenuto principale. L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme. La separazione delle carriere non è affatto funzionale a garantire la terzietà del giudice, ma appare piuttosto uno strumento per indebolire in modo sostanziale il ruolo del pubblico ministero e, conseguentemente, la funzione di controllo di legalità rimessa al giudice e lascia presagire che venga agitata come strumento di ritorsione e minaccia nei confronti della magistratura tutta. Separare il pubblico ministero dal giudice, quali che siano le modalità di tale separazione, distinguere le carriere all’accesso e dal punto di vista ordinamentale, separare gli organi di autogoverno, porterebbe alla istituzione di una figura professionale di “pubblico persecutore”, molto lontana dall’attuale organo dell’accusa, che, lo ricordiamo, oggi è preposto alla ricerca della verità ed è garante del rispetto delle prerogative dell’indagato, anche nella fase della raccolta delle prove da parte della polizia giudiziaria. Separare il pubblico ministero dal giudice avrebbe gravissime ripercussioni sull’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale indispensabile per l’attuazione del principio di eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge. L’Anm ribadisce, inoltre, che il Csm è l’unico presidio posto dalla Costituzione a tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, che è indispensabile per realizzare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Le riforme prospettate indebolirebbero fatalmente l’organo di autogoverno dei magistrati, riducendone le competenze, eliminando quelle di maggior rilievo, compromettendone l’autorevolezza e alterando la proporzione tra componenti laici e togati. Tale indebolimento pregiudica la realizzazione dell’uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini. 5. Conclusioni L’Anm è determinata ad assumere ogni utile iniziativa per informare l’opinione pubblica in ordine alla propria argomentata opposizione a tale riforma, ed invita da subito tutti gli iscritti ad una mobilitazione culturale e comunicativa che faccia comprendere i rischi che questa comporta per l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e per la scrupolosa osservanza delle loro garanzie costituzionali. I magistrati: “Non siamo una casta”. L’allarme di Crosetto e Conte evoca la P2 di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 13 maggio 2024 La giustizia è terreno di contro sia tra le forze politiche sia tra toghe e governo. Il ministro della Difesa: “Sono stato invitato alla cautela. Ma se qualcuno inventasse qualcosa per farmi male sarebbe un problema della democrazia”. È ancora la giustizia il terreno di scontro più violento, mentre il voto delle Europee si avvicina. Uno scontro in cui si fronteggiano i partiti tra loro e il governo con i magistrati. Nel giorno in cui si chiude il congresso dell’Anm a Palermo, le toghe confermano il loro no alla separazione delle carriere (“Non si tratta”), respingono l’accusa di corporativismo - “Non siamo una casta” - e rivendicano il diritto di partecipare al dibattito senza subire attacchi. Dopo il sostegno del Pd, incassano quello di M5S e Verdi e sinistra. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, però, nelle stesse ore lancia un nuovo allarme contro i “pm politicizzati” e avverte: “Se ora qualcuno, nella magistratura, per via delle opinioni che ho espresso, inventasse qualcosa per provare a farmi male, sarebbe un problema della democrazia”. Un clima infuocato. Giuseppe Conte, ospite ieri a Palermo, promette il suo sostegno ai magistrati in trincea: “Il modello italiano della separazione delle carriere non va rivisto, sono nettamente contrario”. Poi sposta però l’attenzione dal tema centrale per la platea, e tira fuori due precedenti impegnativi, capaci di maggior presa, forse, sull’elettorato. Nelle recenti inchieste giudiziarie Conte legge “le premesse di una nuova tangentopoli”. Poi riferendosi alle riforme costituzionali, parla di “patto scellerato”, una “svolta autoritaria che presenta assonanze con il progetto di rinascita democratica della P2”. Dichiarazioni che indignano la Lega: “Parole molto gravi. Conte abbia il coraggio di accettare il confronto tv con Salvini”. Eppure i magistrati, nella pur netta mozione approvata per acclamazione, avevano tentato di tenere il focus sull’amministrazione della giustizia e sul suo futuro. “La separazione delle carriere non è affatto funzionale a garantire la terzietà del giudice, ma appare piuttosto uno strumento per indebolire in modo sostanziale il ruolo del pubblico ministero e la funzione di controllo di legalità”. Un ulteriore passaggio, dedicato ai contrasti tra toghe e politici, esplicitando il rischio di attacchi personali ai giudici invece che ai loro provvedimenti, sembrava invitare a un approccio diverso: “La dialettica tra i poteri trae alimento dalla critica anche dei provvedimenti giudiziari. Ma è dannosa una critica fondata sulla ricerca nella vita privata del magistrato di dichiarazioni e comportamenti, talvolta travisati, per dare l’impressione di partigianeria. Così si inquina il dibattito e si genera sfiducia verso la magistratura”. Difficile immaginare che una nuova stagione sia imminente. Crosetto, esponente di peso di FdI, sembra preoccupato esattamente del contrario. Se già a novembre, sul Corriere, il ministro aveva paventato i rischi di “un’opposizione giudiziaria al governo”. Ieri, dopo dichiarazioni dello stesso tenore a La Stampa, ha lanciato l’allarme inquietante di manovre contro di lui: “Molti tra i quali anche un ex magistrato - scrive Crosetto sui social - mi hanno scritto per elogiare il mio coraggio, sostenendo che ora rischio ritorsioni. Mi invitano a pensare a me e ai miei familiari, a fare attenzione. Io ho solo espresso le mie idee e mi rifiuto di crede che i magistrati mi considerino un nemico”. Operazione verità di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 13 maggio 2024 Per ben due numeri consecutivi di PQM - questo è il primo - vi parleremo dei più clamorosi flop nella storia delle indagini giudiziarie calabresi di questi ultimi 25 anni. Un rutilante e francamente impressionante succedersi di immaginifiche indagini, connotate da denominazioni buone per le serie televisive, per media e social assetati di eroiche imprese antimafia da celebrare con esaltato entusiasmo, e per gli allocchi. “Decollo Ter Money”, “Eiphemos”, “Sud Ribelle”, “Insula”, “Marine”, e così via titolando inchieste giudiziarie costellate di arresti a go-go, lunghe detenzioni, anni di processi, tonnellate di titoli ed articoli che urlano la colpevolezza degli indagati e la mummificano vita natural durante, concluse immancabilmente con esiti perfino catastrofici per l’Accusa. Mettiamo in fila i numeri, niente di più e niente di meno. E dato che i numeri, è vero, vanno anche letti ed interpretati, leggerete anche di indagini mutilate dalle assoluzioni proprio nella parte che, negli intenti dell’Accusa, doveva qualificarle, quella tanto ambita, quella che ormai non può e non deve mancare in ogni indagine che si rispetti: la commistione tra mafia e politica. Ora, già questo dovrebbe bastare ed avanzare, nel quotidiano dibattito sulla giustizia nel nostro Paese, ed in quello più spinoso e delicato della pervasiva diffusione delle organizzazioni criminali nel tessuto istituzionale oltre che economico, per aprire una riflessione seria ed onesta, innanzitutto nel mondo della informazione. O si contestano questi numeri - e vi invitiamo ad attendere anche il secondo numero - o forse è venuto il momento di aprire gli occhi sulla realtà. Una realtà tremenda, fatta di vite e reputazioni di persone infine riconosciute come innocenti, ma irrimediabilmente maciullate da un sistema malato. Un sistema mediatico-giudiziario che, per un riflesso ormai divenuto immodificabile, identifica la verità dei fatti con la originaria ipotesi accusatoria. Quella Procura della Repubblica ha operato duecento arresti di mafiosi, imprenditori collusi e politici asserviti, e questo basta per magnificare la natura certamente virtuosa di quella operazione e per certificare come assodato e non controvertibile il quadro criminale che essa avrebbe disvelato. Poi nessuno segue più lo sviluppo (certo, esasperatamente lento) delle indagini ma soprattutto del processo, mentre da subito i primi scricchiolii, le prime ordinanze e sentenze demolitorie vengono puntualmente silenziate, perché guai a dubitare, delegittimandolo, di chi “combatte la mafia”. Ma quelle che raccontiamo sono storie non solo di naufragi processuali che, in questo mondo al contrario, magicamente edificano carriere giudiziarie leggendarie, invece di demolirle come avverrebbe in qualunque altra professione. Queste sono anche e soprattutto storie di vite, famiglie, attività imprenditoriali e professionali mandate in discarica con un tratto di penna, rifiuti sociali, disperazione seminata con tracotante ed impunita baldanza. Ecco perché abbiamo voluto impegnarci in questo alla fin fine semplice racconto che nessuno però osa fare, scritto non da noi ma dai giudici che hanno infine pronunciato le sentenze in nome del popolo italiano. Un racconto che allora, tra tanti titoli inutilmente minacciosi e tronfi di quelle epiche indagini, merita - esso sì - un nome che difficilmente potrà essere contestato: “Operazione Verità”. Di storie e fantasie di Pasquale Motta* Il Riformista, 13 maggio 2024 Il caso Tortora non ha insegnato nulla. Anzi, dopo 41 anni la situazione è peggiorata. Populismo politico e giudiziario ci hanno portato sull’orlo dell’abisso. Allo scoppio del caso Tortora pochi giornalisti si domandarono “e se Tortora fosse innocente?”, dubbio inderogabile per il vero giornalismo. Dopo 41 anni, possiamo affermare che la situazione è sensibilmente (e irrimediabilmente?) peggiorata. Populismo politico e giudiziario ci hanno portato sull’orlo dell’abisso, a rischio del collasso della democrazia e dello Stato di Diritto. Il mondo del giornalismo, se siamo a questo punto, ha indubbiamente pesanti responsabilità. La pericolosa sudditanza dei cronisti giudiziari contemporanei ai pubblici ministeri sta diventando un serio problema, non solo per la qualità del giornalismo in sé, ma per la tenuta stessa della democrazia. La Calabria è il miglior contesto per la rappresentazione di questa degenerazione. Allo scattare di blitz, arresti e grandi operazioni di Polizia, decine di cronisti graditi alla Procura riversano nella rete, sulle pagine dei giornali e nei circuiti televisivi, suggestive intercettazioni audio e trascrizioni, spesso decontestualizzate, utili a costruire il thriller giudiziario: un poderoso network a sostegno dei teoremi dell’accusa, arricchito da Podcast e addirittura format che prendono il nome delle operazioni più note, come nel caso di “Rinascita Scott”. Il beneficio del dubbio, faro del giornalismo di qualità, scompare a favore delle teorie e delle carriere dei PM titolari delle inchieste. I “cronisti del sistema”, dunque, anche di fronte al 50% di proscioglimenti degli imputati coinvolti, intervengono per salvare la faccia alla Magistratura, piuttosto che richiamarla alle proprie responsabilità. Il 3 dicembre 2013 la DDA di Catanzaro avvia l’operazione “Insula” e arresta l’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, un’icona Antimafia. La stampa, che fi no a qualche giorno prima la incensava, diventa tiepida. Contro di lei si scatena, invece, con un certo accanimento, l’editoria vicina al centrodestra, con metodi, però, uguali alla stampa giustizialista contigua al centrosinistra. “Non è possibile … mi hanno condannato e distrutto a mezzo stampa …” dichiara la Girasole con amarezza. L’inchiesta naufraga in primo grado: quasi tutti assolti. Ma, tra ricorsi e controricorsi in appello e cassazione, ci sono voluti sette lunghi anni per assaporare il riscatto dell’assoluzione piena nel silenzio di quei cronisti che le avevano conficcato nelle carni i chiodi del Golgota dell’antimafia editoriale di convenienza. All’alba del 26 luglio 2013, questa volta a Lamezia Terme, scatta l’operazione Perseo: 65 arresti di nomi eclatanti: avvocati, politici, imprenditori. Coinvolti anche il vicepresidente della Provincia ed un senatore, per il quale era stato chiesto l’arresto. Le dichiarazioni si accavallavano, quelle degli inquirenti con quelle della stampa dedita alla letteratura antimafia. Il processo si compone e si scompone in più tronconi, con assoluzioni e condanne e, tra rinvii e ri-celebrazioni, il risultato è sconvolgente: più del 50% degli indagati assolti, sebbene le notizie di stampa anestetizzino il dato. Rinascita Scott è la maxi-operazione condotta dalla DDA di Catanzaro targata Nicola Gratteri, svoltasi all’ Alba del 19 dicembre del 2019, con oltre 300 arresti tra nomi eccellenti della politica e del professionismo calabrese. La sua narrazione è stata una imponente operazione di marketing editoriale. I cronisti, in particolare i cosiddetti Gratteriboys, si sono scatenati per mesi, facendo a gara nel pubblicare intercettazioni, indiscrezioni e retroscena degni delle più quotate fi ction. Eppure, quello che l’ex procuratore di Catanzaro ha cercato di spacciare per il “processo del secolo alla ‘ndrangheta”, si è ridimensionato clamorosamente nella sentenza di primo grado. Qualche testata si è spinta fino a provare a nascondere i numeri, nel maldestro tentativo di spacciare quella sentenza per un successo. La procura aveva chiesto 4350 anni e ne sono stati comminati meno della metà. Molte richieste sono passate da circa 20 anni a meno di due anni. Il 40% degli imputati è stato assolto. Per i fantasiosi narratori della Calabria giudiziaria: “regge il quadro accusatorio”. *Giornalista Cautele e conseguenze, se il filtro Gip non funziona di Giuseppe Bruno* Il Riformista, 13 maggio 2024 Il rischio di errore per il giudice della cautela può dipendere dalla massa di atti di indagine portati alla sua attenzione senza concedergli tranquillità di giudizio. È il settembre del 2004 quando la Procura della Repubblica di Catanzaro, ricevuta l’informativa di reato, avanza richiesta di misura carceraria per 70 indagati e di sequestro per innumerevoli beni; i delitti sono i soliti: associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio, traffico di sostanze stupefacenti, svariate ipotesi di usura, riciclaggio ed estorsione. L’operazione è convenzionalmente denominata Azimuth, dal nome di una barca appartenuta ad un soggetto vittima di usura. Il Gip accoglie integralmente le richieste, disponendo la custodia cautelare in carcere per tutti i 70 indagati e per tutte le ipotesi di reato e il sequestro tutti i beni come richiesto dall’Ufficio inquirente. Conferenza stampa e articoli di stampa per omaggiare ed esaltare tutta l’operazione. Il processo, poi, ha avuto però alterne vicende. Già in sede di udienza preliminare per diversi imputati e per diversi capi di incolpazione il Gup ha emesso sentenze di proscioglimento. Il resto del processo ha preso tre strade: il rito abbreviato, giudizio ordinario davanti alla Corte di Assise di Cosenza e giudizio ordinario avanti il Tribunale di Paola. Il primo, disposto nei confronti di 16 persone, si è concluso con condanna per solo 5 imputati. Il secondo, quello davanti alla Corte di Assise di Cosenza, ha riguardato 2 soli soggetti, che, condannati in primo grado, sono stati poi assolti dalla Corte di Assise d’Appello di Catanzaro. Il giudizio di fronte al Tribunale, invece, riunito ad altro troncone denominato Goodfather, ha visto la condanna di 18 imputati, per 11 dei quali la Corte d’Appello di Catanzaro, in fase di appello, ha confermato la sentenza, peraltro rideterminando in senso favorevole anche l’entità della pena. Naturalmente, la custodia cautelare ha prodotto poi i procedimenti dinanzi alla competente Corte d’Appello per l’azione risarcitoria per ingiusta detenzione in esito ai quali numerosi imputati poi assolti sono stati risarciti con somme imponenti a carico dell’Erario. Non si può non riflettere sul dato definitivo secondo cui su 70 arresti iniziali, solo 16 sono state le condanne. Non si può non riflettere sul fatto che tra i numerosi beni sequestrati in origine vi fossero aziende poi restituite ai legittimi proprietari in condizioni di dissesto. Non si può non riflettere sul fatto che, nella piena autonomia decisionale, il Giudice, a fronte di 70 richieste di applicazione della custodia cautelare in carcere - nonostante il dettato costituzionale, che impone di applicare la custodia cautelare in carcere quando la stessa appare la sola idonea e la possibilità di gradazione con altre misure coercitive che di sacrificare in maniera più contenuta la libertà personale - abbia invece deciso di accogliere in toto una richiesta rivelatasi, infine, non del tutto adeguata. Resta però anche da domandarsi se il ruolo assunto dalle informative di reato, di cui in sostanza si costituiscono le richieste cautelari, non abbia assunto nel nostro sistema un ruolo debordante, diventando per il Pubblico Ministero che richiede e per il Gip che l’accoglie “prova manifesta” di colpevolezza. Cosa suggerisce l’epilogo di una vicenda così triste e dolorosa che, purtroppo, si ripete da più di vent’anni? Che il rischio di errore per il giudice della cautela può dipendere dalla massa di atti di indagine portati alla sua attenzione senza che gli si conceda quella tranquillità di giudizio necessaria per assumere una valutazione pienamente indipendente rispetto alla domanda avanzata dal Pm. E peraltro, nel caso qui segnalato, emerse anche un problema in ordine alla selezione degli atti da parte dell’Ufficio di Procura, che individuò solo quegli atti che potevano essere utili alla sua tesi e non quelli che invece avrebbero dovuto riguardare la contestazione del fatto-reato ai singoli indagati. Il Gip non ha acceduto direttamente alla verifica degli atti presenti nel fascicolo della Pubblica Accusa tant’è che nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere ha allegato l’intera richiesta avanzata dal Pm. Sintomo emblematico della perdita della sua indipendenza ed autonomia. Eppure, nella relazione preliminare all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale si afferma che il vincolo del giudice alle richieste formulate dal pubblico ministero tiene conto “della filosofia ispiratrice del nuovo codice e della conseguente necessità di preservare la terzietà del giudice”. Il dubbio rimane: come si garantisce la terzietà del giudice dinanzi a degli atti confezionati dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, in un sistema che pone entrambe le Toghe all’interno dello stesso ordine? E non si vede con chiarezza se e quando esso potrà essere dipanato. *Avvocato penalista Operazione Marine. La “città sotterranea dei latitanti” di Ilario Ammendolia* Il Riformista, 13 maggio 2024 Era l’alba del 12 novembre del 2003, quando scatta l’operazione “Marine” e le truppe circondano un piccolo paese della Calabria: Platì. Sono un vero esercito. Si parla di mille uomini che protetti dalle tenebre si sono posizionati alle falde dell’Aspromonte. All’alba, l’assalto. Abitazioni forzate, pianto di bimbi, urla di donne. Sembra di essere in Palestina o nell’Afghanistan controllato dai talebani, ma l’operazione si svolge in Calabria, nel cuore della notte. Quando il sole sorge, i notiziari nazionali riportano come prima notizia i risultati della operazione di polizia: circa 130 gli arrestati. Più di duecento le persone denunciate. Un numero enorme per un paese così piccolo, come se a Roma, in una sola notte, ci fossero centomila arresti! Si sarebbe gridato al colpo di Stato, ma qui siamo in Calabria ed è tutta un’altra storia. Poi i mezzi militari carichi di prigionieri scendono verso valle e man mano che si allontanano da paese, il cuore della gente di Piatì diventa sempre più piccolo. L’accusa: associazione mafiosa, favoreggiamento, voto di scambio, abuso d’ufficio, falso, estorsione, traffico di stupefacenti, corruzione, turbativa d’asta Gli imputati: oltre 200 persone tra presunti membri di una cosca ‘ndranghetista di Platì, sindaci ed ex sindaci locali, segretari e funzionari comunali, forze dell’ordine e imprenditori Le date: 2003 - inizio delle indagini della Procura di Reggio Calabria; 150 persone vengono arrestate nella notte del 14 novembre 2003. In sede di convalida, il Tribunale del Riesame rimetterà in libertà la maggior parte degli indagati Com’è finita: In sede di rito abbreviato, il Giudice per l’Udienza Preliminare condanna 8 persone su 44 imputati. Nel 2012 il Tribunale di Reggio Calabria, chiamato a pronunciarsi in rito ordinario per i residui imputati, condanna 10 persone e assolve gli altri soggetti coinvolti; viene proposto appello e nel 2015 la Corte di Appello di Reggio Calabria derubrica l’associazione mafiosa in associazione semplice ed assolve gli imputati La storia del processo I fatti: [...] Su quei camion v’è il sindaco del Paese che è anche l’unico medico, gli assessori e tanti cittadini comuni che con la ndrangheta non hanno mai avuto rapporti di complicità. Presumibilmente vi saranno stati anche uomini della ndrangheta ma non ci sono le prove, visto che il momento scenico ha avuto la meglio sulle indagini serie, che non ci sono mai state. E quando spunta il nuovo giorno, i cittadini di Platì non possono far altro che suonare le campane e rifugiarsi in Chiesa. Si rivolgono alla Giustizia di Dio, avendo constatato la fallacia di quella umana. Quei corpi in catene che si avviano verso il carcere rappresentano la mortificazione estrema della persona umana. Sono l’altra faccia dei morti ammazzati sulle nostre strade per mano mafiosa. Quanti sono gli innocenti? Secondo i giudici quasi tutti. Infatti le persone che usciranno dal processo senza alcuna condanna corrispondono a circa il 97% degli inquisiti. Ma per giorni, l’operazione Marine tiene le prime pagine dei giornali, ne parlano perfino il NY Times e la Bbc. Nel frattempo, l’operazione fornirà altri mattoni per costruire l’immagine della “Calabria criminale” su cui scrivere libri seriali, produrre fiction e film che rasentano il razzismo e la diffamazione sistematica verso i calabresi. Già nelle prime ore dell’operazione, l’opinione pubblica verrà messa a conoscenza della protervia dei pubblici amministratori di Platì, così spavaldi da realizzare una città sotterranea chiamandola “zona latitanti”. Una colossale e cinica bugia. Infatti, una correzione automatica del computer trasforma la parola “latistanti” (distanza da due lati del torrente) in latitanti. Però la “città sotterranea” entra nella leggenda. Per anni all’opinione pubblica viene raccontata un’altra storia. Si continuerà’ a parlare di una “brillante operazione” e nessun rappresentante delle istituzioni troverà il coraggio di dire che s’è scritta una pessima pagina di ingiustizia sommaria che dissanguerà le casse dello Stato e rafforzerà enormemente la ndrangheta, saldando in un fronte unico ‘ndranghetisti e cittadini perbene. Si eviterà di dire che in quella operazione è stata arrestata anche una persona talmente “ingenua” che, per farla salire sul furgone dei carabinieri, i suoi compaesani gli hanno raccontato la pietosa bugia che lo avrebbero portato in gita da Padre Pio. Ho riproposto questa storia solo perché alle varie operazioni “Marine” abbiamo il dovere di contrapporre “l’operazione verità”. Verità sulla Calabria! Dobbiamo raccontare a noi stessi e all’Italia una verità cinicamente oscurata, ferita, stravolta dall’informazione di regime e dal potere debordante di alcuni procuratori! Lo dobbiamo innanzitutto a noi stessi e ai tanti innocenti che hanno avuto la vita stritolata nella morsa della falsa antimafia. *Giornalista e scrittore Operazione Eyphemos. I costruttori di verità e gli sfregi permanenti di Giuseppe Milicia* Il Riformista, 13 maggio 2024 Qualcuno obietta che i numeri della giustizia in Calabria - i molti innocenti incarcerati che finiscono poi assolti nel processo - in fondo significano che almeno mezza giustizia funziona. Vorremmo sfatarla questa idea. L’uomo che l’indagine segreta aveva trasformato in bersaglio, il giorno in cui il sistema riconosce l’errore commesso, non ha niente da festeggiare. Anche leggendo la sentenza che lo scagiona, non lo abbandona il pensiero che l’indagine condotta sulla sua vita con il microscopio del trojan, ha pur sempre restituito una qualche deformità etica, sintomo di propensione antropologica verso il male. Che non sapeva di avere, ma che non è sfuggita all’occhio indagatore dell’Autorità. In fondo è solo un problema di prospettiva e messa a fuoco. Il prodotto dell’intercettazione, sezionato col bisturi e ricomposto con filo di sutura che non lascia tracce, sembra vero, inattaccabile. Scheda del Processo L’accusa: associazione mafiosa, diversi reati in materia di armi e di sostanze stupefacenti, estorsioni, favoreggiamento reale, violenza privata, violazioni in materia elettorale, aggravati dal ricorso al metodo mafioso, nonché scambio elettorale politico mafioso Gli imputati: presunti capi storici, elementi di vertice e affiliati di una cosca ‘ndranghetista operante a Sant’Eufemia d’Aspromonte; imprenditori ed esponenti politici locali Le date: 2020 - inizio delle indagini della Procura di Reggio Calabria Febbraio 2020 - vengono emesse ordinanze di custodia cautelare per 65 indagati Com’è finita: 2021 - il Giudice per l’Udienza Preliminare di Reggio Calabria, chiamato a decidere nell’ambito di un giudizio abbreviato sulla posizione di 24 imputati ne assolve 3 e condanna gli altri che hanno scelto il rito alternativo con pene severe 2023 - il Tribunale di Reggio Calabria assolve 30 dei 51 imputati che hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario; pende il giudizio di appello 2024 - la Corte di Appello di Reggio Calabria riforma parzialmente la sentenza del GUP del 2021 in abbreviato assolvendo con formula piena altri cinque imputati Di prove nascoste e altri grimaldelli. [...] All’inizio della storia, anche di questa storia, c’era stata la presentazione di quel prodotto con tanto di conferenza stampa. Nel mondo capovolto dei rituali del processo penale della contemporaneità, più che l’avvio essa è il culmine. Perché attraverso la potenza della comunicazione si realizzano con la massima efficacia gli scopi preventivi che il sistema persegue, la neutralizzazione dell’incolpato, l’ammonimento, la rassicurazione della comunità. Sembrava tutto vero, definitivo, ineluttabile quel 25 febbraio 2020, quando il Procuratore della Repubblica raccontava che l’indagine aveva colto ogni dettaglio di una serie di patti politico elettorali stipulati da qualificati attori della politica con i rappresentanti di potenti clan della ndrangheta: da Marco Siclari di Forza Italia per essere eletto al Senato alle politiche del 2018 e da Domenico Creazzo, per il tramite di suo fratello Antonino, per vincere le elezioni regionali del 2020. Materia scottante che assicurava massima risonanza mediatica all’inchiesta. In 65 quel giorno erano finiti in carcere. All’esito della fase d’appello del giudizio abbreviato e del primo grado del processo ordinario, la metà è stata assolta. Tra essi, la totalità di quelli inquisiti per gli sbandierati accordi tra ‘ndrangheta e politica che si erano meritati la prima pagina sui quotidiani nazionali. Non si è trattato di un epilogo scontato: i ricorsi degli imputati più esposti, le vedette, erano stati respinti dal tribunale del riesame e dalla Cassazione. Le tesi della conferenza stampa ne uscivano rafforzate e continuavano ad alimentare la gogna mediatica. Difendersi in tali condizioni è come scalare una parete verticale. Non deve sorprendere che i difensori siano stati trattati come adepti di una qualche setta di eretici (adoratori del Dubbio), quando, ad indagini concluse, contestavano di non essere nelle condizioni di verificare il fondamento dell’accusa. Denunciavano l’inedito escamotage dell’ufficio del PM, che aveva interamente secretato l’enorme quantità di materiale estratto per anni mediante il trojan dalle vite degli indagati. Gli ostinati avvocati faticavano ad accettare la realtà: il pm, da tempo, è diventato padrone del processo e il credito di cui gode la sua lettura dei fatti, prescinde dal confronto leale e dipende dalla forza dell’Autorità che rappresenta e che rende insindacabili le sue prerogative. Compresa quella di scegliere dal mazzo le carte da servire. Nell’inchiesta Eyphemos non è accaduto che il giudice abbia infine deciso di riconoscere il diritto della difesa ad avere accesso al materiale arbitrariamente secretato o che abbia rivendicato a sé il diritto di vederci chiaro nell’operazione di occultamento di ciò che il pubblico ministero certificava essere irrilevante. Il sistema lo ha scardinato l’ansia di ricerca dell’eretico, che mentre frugava tra le registrazioni depositate (solo una infima percentuale di quanto era stata acquisito durante l’indagine: 268 su 20.333 progressivi, ossia l’1,32% per quanto riguarda il principale bersaglio dell’inchiesta), attraverso i terminali della saletta intercettazioni della Procura della Repubblica, ha scoperto un bug del sistema informatico di protezione dei dati secretati; che gli ha consentito prima di leggere e poi -sfruttando uno svarione della segreteria - anche di ottenere le copie dei brogliacci delle intercettazioni nascoste. Da quel momento sono molti i capitoli dell’inchiesta che hanno cambiato volto. In primo luogo, quello dedicato alle pratiche illecite che i politici impegnati nella campagna elettorale avrebbero condotto per conto della ‘ndrangheta per ottenerne l’appoggio elettorale. La più scabrosa quella della corruzione dei giudici di un processo in corso presso la Corte d’appello di Reggio Calabria. L’effetto di far apparire coinvolto il fratello sostenitore del politico regionale eletto era stato ottenuto oscurando ciò che dimostrava che l’opera illecita era in realtà stata svolta da altri (nemmeno inquisiti). Il processo non è ancora concluso. Il parlamentare Siclari, che si era fatto giudicare con rito abbreviato, è stato assolto in appello perché nel giudizio ordinario, per il suo concorrente necessario, il reato è stato ritenuto insussistente. Domenico e Nino Creazzo sono stati assolti dall’accusa di aver stipulato plurimi patti elettorali mafiosi con tre diversi rappresentanti della ‘ndrangheta. Sono stati assolti anche il presidente del Consiglio comunale e Cosimo Idà, vicesindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte. A tutti costoro era stata dedicata la conferenza stampa iniziale, verso di loro era stata sollecitata la collettiva esecrazione. Forse sarebbe il caso di ripeterle le conferenze stampa a fine processo, mettendo a confronto i costruttori di verità con gli sfregi permanenti degli scampati, che non potranno mai recuperare quanto l’accusa ingiusta ha loro sottratto. *Avvocato penalista Operazione “Sud ribelle”. Il prequel show della Calabria giudiziaria di Domenico Bilotti* Il Riformista, 13 maggio 2024 Il codice penale Zanardelli fu approvato unanimemente alle Camere il 30 giugno del 1889. Anche deputati della destra storica convennero, come ormai irrinunciabili, su una serie di principi: divieto d’estradizione per reati politici, abolizione dei lavori forzati, diminuzione delle pene per reati d’opinione e di parola - persino nei confronti del re e della religione del regno. Il vigente codice Rocco differiva marcatamente dal regio decreto 6133. Una differenza qualitativa (prospettica) e non solo quantitativa (pene più lunghe, più reati, più poteri di polizia): tra i delitti contro la personalità dello Stato, si affacciava la forte repressione nei confronti delle associazioni sovversive. L’articolo 270, tuttavia, non definendo la sovversione violenta, si prestò durante il fascismo a essere interpretato in modo estensivo, a scopi di prevenzione politica e di contrasto alle opposizioni clandestine. Nel regime repubblicano, dalla fi ne degli anni di piombo in poi, la giurisprudenza andò nel senso di verificare nel concreto quegli atti di rovesciamento degli ordinamenti economici e sociali. cospirazione politica, devastazione, associazione a delinquere, attentato agli organi costituzionali dello stato e all’ordine economico. Le parti: 13 militanti, accusati d’aver fatto parte di un’associazione sovversiva denominata “rete meridionale del sud ribelle”; lo Stato si costituisce parte civile per i presunti danni all’immagine cagionati durante il forum di Napoli e il G8 di Genova per 5.000.000 di euro. Le date: 2000 - inizio delle indagini 2002 - ordinanze di custodia cautelare nei confronti di 23 indagati (18 in carcere, 5 ai domiciliari) 2004 - richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di 13 Com’è finita: 2008 - la Corte di Assise di Catanzaro pronuncia sentenza di assoluzione per tutti gli imputati 2010 - la Corte d’Assise d’Appello conferma 2012 - su ricorso della Procura Generale di Catanzaro, la Cassazione assolve definitivamente tutti gli imputati La storia del processo Il rischio sarebbe altrimenti stato quello di tornare alla mentalità fascista della punibilità del senso critico, in quanto quest’ultimo idoneo a “deprimere lo spirito pubblico” e a fiaccare la “resistenza della nazione”. Nulla di tutto questo fu considerato nella notte tra il 15 e il 16 novembre del 2002 quando ventitré ordinanze di custodia cautelare, per presunti sovversivi degli anni Zero, furono notificate ad attiviste e attivisti di un’associazione politica - invero, nei fatti un comitato d’opinione - detta “rete meridionale del Sud ribelle”. I numeri ricordano i faldoni dei super-maxiprocessi. L’ingordigia bulimica del megablitz ha vari limiti tecnico-processuali e di sicurezza sostanziale per le persone: i processi durano molto più a lungo, le posizioni processuali sono molto meno chiare, la macchina giudiziaria ingolfa votandosi anima e corpo a una e una sola ipotesi accusatoria, a detrimento del contrasto agli altri, più circoscritti ma impattanti, fenomeni illeciti. Oltre cinquantamila pagine di traslitterazione cartacea del materiale d’indagine. Due anni di inchiesta (2000-2002) e due vertici internazionali del 2001 sotto la lente: il Global Forum di Napoli e il G8 di Genova. Si introducono le modalità mediatico-giudiziarie oggi così consolidatamente alla ribalta. C’è una ipotesi forte di reato associativo per cui procedere, pur così difficile da ricondurre alla configurazione delle norme incriminatrici: ieri un indistinto sovversivismo disordinato e violento; oggi la contaminazione urlata e sparata nel mucchio, mescolando delitti, appartenenze, ricostruzioni. C’è una dubbia competenza territoriale (must della Calabria giudiziaria negli ultimi due decenni). La ricerca del criterio attributivo dell’ufficio come dogma per provare a governare il recepimento pubblico. E c’è la sfinge del “caso”, il dichiarare che un contesto ambientale purchessia è ora e per sempre laboratorio di un qualcosa che ancora non esiste: ieri il “modello Cosenza” centrale operativa del disagio sociale; oggi il “modello Calabria”, incubatrice della dismissione dei diritti. Una e una sola lettura: quella giusta. Populismo giudiziario, però, se caratteristica del populismo apparentemente popolare, come ci ricorda Massimo La Torre nel recente “Il grande smottamento” (2023), è in realtà quella di escludere chiunque ad esso non soggiaccia. Il marchese del Grillo elevato a Panottico. Solo chi spia può spiare; solo chi punisce può punire. Un così massivo impegno giudiziario contro cittadini innocenti spediti nelle carceri speciali (il regime penitenziario relativo al terrorismo è lo stesso di quello mafioso) distolse dall’opportunità di comprendere e meglio contrastare la riorganizzazione in atto nel crimine organizzato. Meno estorsione diretta e più riciclaggio. Più approvvigionamento di stupefacenti che smercio diretto. Più influenza sul capitale legale che monopolio su quello illegale. Si preferì creare la chimera dell’eversione. Le imputate e gli imputati furono assolti in ogni grado di giudizio. *Docente università Magna Grecia Quando il teorema “acchiappaclick” cade nel vuoto di Edoardo Corasaniti* Il Riformista, 13 maggio 2024 Dieci anni per scrivere la parola fine all’operazione “Decollo Ter-Money”. Scheda del Processo L’accusa: traffico internazionale di droga, riciclaggio, criminalità organizzata, con l’obiettivo della scalata al Credito Sammarinese Gli imputati: 27 imputati, tra cui i vertici del Credito Sammarinese Le date: 2011 - inizio delle indagini su impulso della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro 2011 - pochi mesi dopo l’avvio delle indagini, partono le prime ordinanze di custodia cautelare 2014 - inizio del processo Com’è finita: 2021 - a fronte della richiesta della Procura di un totale di 209 anni di reclusione, il Tribunale di Vibo Valentia pronuncia sentenza di assoluzione per 25 imputati e condanna nei confronti di soli 2. Decaduta l’aggravante mafiosa. Pende appello della Procura per 13 imputati “Decollo” non decolla Traffico internazionale di droga, riciclaggio, criminalità organizzata, tentativi di acquisto di quote di banche: il castello accusatorio sembrava solido e inattaccabile. Eppure, per l’ennesima volta, le accuse e gli arresti iniziali si sono rivelati tutta un’altra storia rispetto alla sentenza finale. Ci sono voluti dieci anni dall’inizio dell’indagine e sette di processo per scrivere la parola fine all’operazione “Decollo Ter - Money”, uno dei tanti procedimenti a cui è stato assegnato un nome acchiappaclick per suggestionare l’opinione pubblica. A decretare il flop dell’operazione della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro è il Tribunale di Vibo Valentia che ad aprile 2021 segna un confine preciso in termini numerici: 25 assolti e 2 soli condannati. Venticinque vite di persone che si sono trovate nel calderone mediatico e giudiziario per mesi e anni senza che poi ci fosse qualcosa di fondato. Anche le condanne, poi, sono state decisamente più contenute rispetto alle ipotesi accusatorie iniziali: caduta l’aggravante mafiosa, per i due condannati sono rimaste briciole. Il fascicolo è nato dall’unione di due inchieste, “Decollo Ter” e “Decollo Money”. A gennaio 2011, con l’operazione denominata “Decollo ter”, gli inquirenti hanno messo sul tavolo l’esistenza di un traffico internazionale di cocaina tra Venezuela, Spagna e Colombia. La merce doveva arrivare in Calabria, terra sempre nel mirino degli inquirenti. Passano pochi mesi - il calendario segna luglio - e scoccano gli arresti ad opera dei carabinieri del Ros coordinati dalla Procura antimafia di Catanzaro. L’ipotesi è chiara: alcuni presunti esponenti ritenuti vicini al clan Mancuso di Limbadi (uno dei più pericolosi e temuti in Calabria e all’estero) avrebbero tentato di acquistare il Credito sammarinese con una serie di versamenti di denaro provenienti dal narcotraffico. Lo scopo finale, secondo la prospettazione accusatoria, era quindi quello di acquisire le quote dell’istituto di credito con il riciclaggio dei proventi del narcotraffico con la conseguenza diretta che, con il passare degli anni, la banca sarebbe finita praticamente nelle mani della criminalità organizzata della provincia vibonese. Di tutto questo però, nella sentenza di primo grado ora appellata dalla Procura per 13 imputati, non c’è traccia: assoluzioni su assoluzioni. Per comprendere bene ogni storia c’è sempre bisogno del confronto con chi quella storia ha vissuto, soffrendone e pagandone le conseguenze. Uno dei principali protagonisti di questa vicenda deflagrata di fronte alla impossibilità di trovare le prove è Lucio Amati, ex patron del Credito Sammarinese, arrestato nel 2011 e rinchiuso nel carcere di Rimini. Il pubblico ministero in aula chiede 6 anni. Il finale? Assolto, come tanti altri di questa triste storia. “Dieci anni. Questo il tempo necessario per la conclusione del processo in primo grado che vedeva imputato, tra gli altri il dott. Lucio Amati, arrestato nel luglio del 2011 e rinchiuso nel carcere di Rimini per un delitto aggravato dall’art. 7 (agevolazione mafiosa, n.d.r.) e sottoposto a custodia cautelare per quasi un anno perché accusato di aver concorso, insieme a tutto il Consiglio di amministrazione e il Comitato esecutivo della banca, nel ‘riciclare’ i soldi di Vincenzo Barbieri. Le conseguenze sono state una chiusura immediata della Banca Credito San Marinese, Csm, e dieci anni di processo”, ha commentato il suo avvocato, Sergio Rotundo, dopo la sentenza. *Giornalista Brescia. Nell’inferno delle celle di Canton Mombello di Donatella Stasio La Stampa, 13 maggio 2024 L’istituto bresciano ha il record nazionale di detenuti in eccesso, tocca il 200%: 391 reclusi anziché 185. Nelle celle i letti arrivano fino al soffitto, per il pranzo servono i turni. E in tanti invocano l’indulto. “In-dul-to! In-dul-to! In-dul-to!”. Lo ripetono in coro, ottanta, forse cento voci, un coro quasi gioioso, sicuramente improvvisato sotto il rettangolo di cielo blu che illumina la vasca di cemento dove si va a respirare l’ora d’aria, a correre dietro a un pallone, a sgranchirsi le gambe e a passeggiare, visto che siamo in un “cortile passeggio”, costruito più di un secolo fa per contenere al massimo una quarantina di detenuti mentre ormai ce ne finiscono centocinquanta, perché questo, signori, è il carcere più sovraffollato d’Italia, con una densità del 200%, ed oggi, 10 maggio 2024, ci sono 391 persone, chiuse dentro celle che non ne dovrebbero contenere più di 185. Benvenuti a Canton Mombello, carcere di Brescia intitolato a Nerio Fischione, appuntato della polizia penitenziaria morto nel 1974 per impedire l’evasione di tre detenuti. Prigione ottocentesca, aperta nel 1910 per ospitare solo detenuti comuni in attesa di giudizio, mentre oggi almeno due terzi sono definitivi. Carcere cittadino con il 55% di stranieri, per lo più area Maghreb, e con più di 50 giovani adulti, raddoppiati negli ultimi due anni, anche “grazie” alle recenti leggi che hanno facilitato l’ingresso nelle patrie galere di giovani che adulti non sono ancora (e perciò dovrebbero stare negli Ipm, gli Istituti per i minorenni) ma finiscono per diventarlo, e a caro prezzo, non appena mettono piede nelle galere per adulti. Nel “peggior carcere d’Italia”, infine, gli psicologi sono dimezzati e su 230 poliziotti ne mancano 40, soprattutto nella catena di comando. Qui come nelle altre 189 prigioni italiane tutte sovraffollate, l’indulto è parola magica, speranza, ritornello, illusione, talvolta è un urlo disperato, perché un conto è pagare con la perdita della libertà le proprie colpe ma in un luogo e in un tempo sensato, operoso, proiettato al reinserimento sociale, ben altra cosa è vivere un tempo insensato perdendo ogni giorno anche ulteriori pezzi di sé: l’intimità, la salute, la privacy, gli affetti, e soprattutto la dignità. La dignità no, in uno stato di diritto non è consentito, e la nostra Costituzione lo proibisce. Eppure, oggi il carcere è questo: perdita della dignità. E allora ascoltateci, ascoltate le nostre voci, ci dicono quasi in coro, affinché il carcere non si trasformi in una vendetta dello Stato. Lo sanno: di questi tempi l’indulto è un’utopia. Sono i tempi del populismo, della tolleranza zero con i fragili, del marcire in galera. Ma l’immobilismo del legislatore sarebbe un delitto. In attesa di una soluzione strutturale, c’è una strada: la liberazione anticipata speciale, con la riduzione di 75 giorni per due anni (e poi di 60), invece dei 45 oggi previsti, per ogni semestre di pena scontata in modo proficuo. È la proposta di legge Giachetti. Il Parlamento ne sta discutendo, non senza resistenze politiche della maggioranza e allarmismi ingiustificati. Quello “sconto” consentirebbe ai detenuti comuni che hanno dimostrato di aver fatto un percorso positivo di recuperare la dignità, prima ancora della libertà. “Perché mai - si chiedono a Canton Mombello - la concessione dei 75 giorni dovrebbe essere vista come un fallimento del governo invece che come la volontà di fare un primo passo verso un cambiamento migliorativo anche del carcere?”. Guardiamo e ascoltiamo, accompagnati dalla direttrice Francesca Paola Lucrezi, che si divide tra Canton Mombello e Verziano, l’altro carcere di Brescia anch’esso sovraffollato (130 detenuti su 70 posti). Il che genera, tra l’altro, un paradosso: “A Brescia, la carenza di manodopera ha abbattuto il pregiudizio degli imprenditori verso i detenuti, per cui la domanda di lavoro è alta e lo sarebbe anche l’offerta se le sezioni di Verziano che ospitano gli articoli 21 (lavoratori all’esterno) e i semiliberi non fossero sature, per cui non vi posso trasferire i detenuti che invece avrebbero diritto all’uno e all’altro regime”. Dalla piccola rotonda di Canton Mombello partono i raggi Sud e Nord. Ci incamminiamo verso il secondo e saliamo al primo piano. Ci sono detenuti comuni, di media sicurezza. Entriamo in una sezione. Le celle sono rigorosamente chiuse e vengono aperte solo per l’ora d’aria o per le attività dei pochissimi che ne usufruiscono. I letti si arrampicano fino a soffitto, in alcuni casi se ne contano 15, come nella n. 19 di fronte alla quale sostiamo. Gli ospiti sono di etnia, religione, lingua diverse, giovani e vecchi, chi fuma e chi il fumo non lo sopporta, chi ha dipendenze da farmaci e chi disturbi psichiatrici. L’acqua calda scorre solo dalla doccia, un tubo che scarica in una vecchia turca fatiscente, condivisa da tutti gli inquilini del cellone; il bagno funge anche da cucina, sempre che non debba essere utilizzato per i bisogni di qualcuno e, se si è in 15, capita spesso; si mangia a turni, perché non c’è posto per tutti, così come non si riesce a stare tutti in piedi nello stesso momento né a dormire se gli altri parlano. Il malessere cresce, l’aggressività pure. L’inverno è troppo freddo, l’estate troppo calda. Stress e salute sono sempre a rischio. Il sovraffollamento, con le celle chiuse, veicola più facilmente le malattie infettive, perché si moltiplicano blatte, pidocchi, pulci, acari, topi. L’uso di psicofarmaci è altissimo. “Su 391 reclusi, 220 hanno problemi psichiatrici e 150 hanno dipendenze da farmaci. Di sani ne restano pochi - dice un detenuto - e quando una visita medica è urgente non si riesce ad avere subito un dottore né uno psicologo. Non parliamo del lavoro” (solo 14 i detenuti che lavorano per due cooperative esterne e 60 quelli dipendenti dall’Amministrazione). “Siamo troppi - spiega un altro -. È come rimanere in tanti chiusi dentro un ascensore. Nella vita reale, a un certo punto la porta si apre, in carcere invece mai, e quest’anno già 35 persone hanno scelto di scendere dall’ascensore suicidandosi”. Ed eccoci ai cortili passeggio. È lì che, dopo qualche momento di indecisione, si alza il coro ritmato sull’indulto e la richiesta di ascolto. “I prossimi che entrano finiranno sui tetti” scherza un detenuto per spiegare il livello di saturazione di quest’antica prigione. L’unica speranza è la liberazione anticipata a 75 giorni, che diminuirebbe del 25% la popolazione carceraria: un “equo compromesso”, sostengono saggiamente, per evitare che a perdere la dignità sia anche la giustizia del nostro paese. Antonio Scurati: Italia, deriva illiberale di Caterina Soffici La Stampa, 13 maggio 2024 Lo scrittore: “Questo governo indica gli intellettuali non allineati come nemici. La storia della democrazia è sempre una lotta, la parola antifascismo va custodita”. Antonio Scurati dice che non va messa sul personale. Certo, la censura in Rai al suo monologo sul 25 Aprile è stato oggettivamente un caso. Ma il problema non è Antonio Scurati in sé. È piuttosto il clima che si respira. Il problema è la deriva che lo scrittore non ha paura a definire “svolta illiberale”. “È un dato di fatto che gli intellettuali liberi, scrittori, artisti e studiosi, vengano indicati dall’attuale governo come nemici. A prescindere dal mio caso personale, un monologo che celebrava la resistenza antifascista è stato cancellato”. Questo è un metodo antidemocratico e Scurati cita la memorabile lezione dell’ex presidente Sandro Pertini, il più amato di sempre: “Si dibatte qualsiasi idea, ci si batte su qualsiasi idea, non si attaccano mai le persone perché questo lo facevano i fascisti”. Intervenendo al Salone del Libro per presentare il suo ultimo pamphlet Fascismo e Populismo (Bompiani), stimolato dalle domande di della vice direttrice de La Stampa Annalisa Cuzzocrea, Scurati non si tira indietro. Dice che nonostante si sia trovato nella posizione di simbolo non ha mai fatto politica attiva, né “la farò prossimamente, se avessi voluto l’arei fatta al prossimo giro”. Lucido e affilato, l’autore dei tre tomi imprescindibili per capire il fascismo (M. il figlio del secolo premio Strega del 2018; M. l’uomo della provvidenza del 2020 e M. Gli ultimi giorni dell’Europa, 2022 - tutti editi da Bompiani) si è mosso tra passato e presente e ha tracciato preoccupanti analogie. Ha iniziato sfatando la favola bella che il fascismo fosse una sorta di burletta fino all’abbraccio mortale con il nazismo, ricordando come fin dall’inizio si nutrisse di violenza. Ha ribadito un concetto a lui caro, che “la storia della democrazia è sempre lotta per la democrazia”, quando si smette di lottare cala anche il desiderio di democrazia. Come è successo negli anni del Riflusso, quei mitici e/o dannati anni Ottanta che hanno pasciuto Scurati e tutti noi suoi coetanei, “gli ultimi ragazzi del secolo scorso”, figli di un Occidente decadente, che dopo 12 generazioni di lotta a partire della Rivoluzione francese hanno vissuto in un eterno presente fatto di discoteche, weekend al mare, privilegi, salute, agi e ricchezza. E invece no. Aprite gli occhi, è il messaggio. Stiamo scivolando in un mondo illiberale, la democrazia è sotto attacco e si rischia di essere come i liberali del secolo scorso che non hanno capito la pericolosità di Mussolini. “I benpensanti, moderati, liberali, che allora dirigevano e scrivevano sul Corriere della Sera e che oggi continuano a dirigere e scrivere su quel giornale pensavano di saperla lunga e Albertini, intellettuale di punta del liberalismo italiano, chiese di scarcerare Mussolini”, arrestato perché nel suo ufficio erano state trovate armi e granate. “E con questa straordinaria lungimiranza i moderati liberali che allora e oggi scrivono sul Corriere della Sera normalizzano l’abnorme. I leader sovranisti odierni non tengono strumenti di violenza nei loro uffici, ma questo atteggiamento di supponenza e saccenza liquidatoria interessata - perché dietro c’è un calcolo e non solo un abbaglio - tende a normalizzare l’abnorme. Io penso che questa normalizzazione dell’anomalia illiberale sia una grave colpa morale, un grave abbaglio intellettuale e una grave colpa storica”. Passando agli attacchi personali, Scurati ha affondato: “Quando il think tank del movimento giovanile del partito del capo del governo fa dei manifesti per la campagna elettorale in cui indica deridendoli, sbeffeggiandoli, denigrandoli i volti di scrittori, conduttori televisivi, giornalisti, attori come gli avversari che dovranno piangere alle prossime elezioni quando loro vinceranno, non c’è dubbio alcuno che stiano individuando dei nemici. Non indicano l’avversario politico, ma il nemico in un privato cittadino. Anche se nascosto dietro l’ironia o il sarcasmo, che in realtà è molto più sottile e sofisticato di questo, quando invochi il loro pianto sono dei nemici”. Sul caso della censura in Rai, Scurati va dritto al punto: “Non facciamo casi personali, per favore. Io non ne posso più di vedere la mia faccia. Non mi sopporto più io, pensate un po’ gli altri. Non dobbiamo personalizzare. È un processo storico, una dinamica sociale. Personalizzare significa fare un danno alla democrazia e fare un danno a queste persone”. Poi chiarisce: “Io non ho mai parlato di censura, tantomeno di censura di Antonio Scurati. È oggettivo che un monologo per la Resistenza e la sua memoria è stato cancellato. Una delle ferite che viene inflitta alla matura e piena democrazia è che si tende a trasformare il dibattito di idee in attacchi contro le persone sul piano dell’insulto personale. Questa è la svolta illiberale. Quando sostengo delle idee e tu mi attacchi personalmente dandomi del poco di buono, dell’avido, del profittatore stai applicando un metodo antidemocratico che nella nostra storia, non quella dell’Unione Sovietica che ha fatto molto peggio, ha le sue radici nel fascismo”. Ci sono legami e analogie tra ieri e oggi. I populismi si cibano degli stessi semi di seduzione del fascismo. Mussolini si definiva “l’uomo del dopo: stava un passo indietro al popolo, per utilizzarne gli umori, per soffiare sulla paura”. Diceva: “Io sono il popolo, che diventava il popolo sono io”. Con tre gravi conseguenze: screditare i portatori di sapere (intellettuali, scienziati, medici, tecnocrati), perché sottraggono sovranità popolare; creare un nemico, perché chi è contro di me è contro il popolo e come tale può essere annientato. Terzo: gettare discredito sul Parlamento “vecchio, inetto, corrotto”. Istituzione pletorica contro l’interesse del popolo. Fino all’assalto di Capital Hill. Sui tentativi di riscrittura revisionista della storia Scurati ha piantato un paletto invalicabile. “La parola antifascista va custodita contro chi la denigra. E sono tanti, anche a sinistra. Antifascista non sono gli Antifa che spaccano le vetrine. Antifascista è la nostra Costituzione. Antifascista è quel signore dai capelli bianchi che siede al Quirinale e si chiama Sergio Mattarella. Sono i sindacati. Alcuni esponenti del governo stanno cercando in maniera esplicita di identificare questa parola con i terroristi degli anni Settanta che pure la usavano e l’hanno umiliata e infangata. Non ci sono due versioni di quel che è successo ormai 100 anni fa, “ci sono due memorie, ricordi da una parte e dall’altra, e poi, come ha detto lo storico Alessandro Barbero, c’è la Storia. La Storia ci deve tirare fuori dalla condanna della memoria personale, dagli accanimenti e dall’odio”. Sangiuliano: “La libertà è garantita. Il Salone? Ora è plurale e democratico” di Francesco Rigatelli La Stampa, 13 maggio 2024 Il ministro della Cultura: “I giovani fanno bene ad avere a cuore valori come la pace e l’ambiente”. Ministro Sangiuliano, perché secondo lei tanti scrittori al Salone del libro di Torino, da Rushdie alla Strout, da Saviano a De Giovanni, sottolineano proprio in questo momento l’importanza della libertà di espressione? “Gli scrittori fanno bene a preoccuparsi per la libertà di espressione nel mondo. Dedichiamo un pensiero al grande Aleksandr Isaevi? Solženicyn che trascorse anni nei gulag sovietici. E ricordiamo che, quando nel 1977 Carlo Ripa di Meana decise di dedicare la Biennale di Venezia agli scrittori del Dissenso nell’Europa dell’Est, fu duramente attaccato dal Pci”. Si sente di confortarli almeno sulla situazione italiana? “Assolutamente sì. Noi che abbiamo subito censure vogliamo lavorare per la piena libertà di espressione”. Lo stesso tipo di apertura e dialogo non sarebbe auspicabile nei confronti dei giovani che si impegnano per valori come la pace e l’ambiente? “Sono due grandi questioni del nostro tempo sulle quali dobbiamo tutti impegnarci. Fanno bene i giovani ad averle a cuore. Poi bisogna capire cosa si intende per pace”. Da Scurati a Bortone si moltiplicano i casi in Rai e lo scrittore denuncia una “svolta illiberale”. Così come Maurizio De Giovanni si chiede per chi lavori il servizio pubblico... “Quando ero direttore del Tg2 Scurati è stato intervistato più volte e ha potuto dire quello che voleva. Addirittura due servizi nello stesso telegiornale, ci siamo anche scambiati qualche messaggio”. Ha dedicato il Salone a Piero Gobetti e proposto una mostra su di lui a Torino, poi ha citato un editore ebreo come Formiggini, sente il bisogno di celebrare l’antifascismo? “Magari mi sbaglio, ma credo di essere l’unico ministro della Cultura ad aver deposto una corona alla memoria di Formiggini a Modena. Gobetti promosse con Prezzolini il Manifesto degli apoti, ossia di coloro che non la bevono. Sono antesignani dell’opposizione al “mainstream”, cioè il procedere per luoghi comuni che non vengono sottoposti ad alcun vaglio critico”. Lei cita spesso Prezzolini, ma tra l’ottimismo dell’azione gobettiano e il pessimismo della ragione prezzoliniano si collocava anche un altro personaggio come Indro Montanelli. Perché la destra lo ha rimosso? “Rimosso Montanelli? Ma per carità! È un esempio di libertà intellettuale ben presente in noi tutti, un modello per il conservatorismo liberale. Fra poco parteciperò alle celebrazioni per i cinquant’anni della nascita de Il Giornale, 1974-2024, organizzate dal direttore Alessandro Sallusti, per ricordare la nascita di quel quotidiano che fu un atto di coraggio del grande Indro. E poi, a tempo debito, comunicherò altro”. Giordano Bruno Guerri ha detto che gli intellettuali di destra sono pochi e vanno ognuno per conto proprio, ma meglio così se no litigherebbero sempre. Ha ragione? “Io con lui ho un’antica amicizia. La differenza fra noi e la sinistra è che non siamo irreggimentati, non abbiamo il “centralismo democratico” del pensiero, non abbiamo il “contrordine compagni” di guareschiana memoria”. A parte lei, Guerri, Buttafuoco e Veneziani su chi potete contare? “Le potrei fare un lungo elenco, ma non mi sembra il caso. Molti di loro non hanno grande notorietà, pur avendo scritto cose pregevoli, perché discriminati. Mi faccia ricordare, però, il compianto Paolo Isotta. Mi manca molto”. Lei ha un’origine missina e poi è diventato un liberalconservatore, come è avvenuto il suo percorso? “Una volta il mio maestro Pinuccio Tatarella rispondendo a un’intervista disse di essere stato missino perché era l’unico partito fermamente anticomunista. In me sono stati fondamentali la lettura e lo studio di Croce, di Prezzolini a cui ho dedicato una biografia e un saggio introduttivo del Manifesto dei conservatori. Ma anche la lettura di autori molto diversi come Burke, Burckhardt, Mosca, Pareto, Scruton e degli esponenti del conservatorismo americano”. Il percorso della destra italiana in tal senso è compiuto o cosa manca? “Grazie a una leader straordinaria come Giorgia Meloni, che tutto il mondo riconosce, abbiamo finalmente un grande partito conservatore occidentale. Quello che Prezzolini auspicò in un famoso articolo sul Corriere degli anni ‘70 La destra che non c’è”. Come vede il collocamento della destra italiana a livello europeo e una possibile alleanza con il centro per la riconferma di Von der Leyen? “Noi pensiamo che l’Europa sia un grande valore. Quando ero ragazzo c’era lo slogan “Europa Nazione”. Il Partito Comunista, invece, votò contro i Trattati di Roma. Questo fatto storico viene spesso nascosto. Certo, è auspicabile un’Europa più dei cittadini, dei popoli e meno di burocrazie che non hanno alcuna investitura democratica. Lavoriamo in questa direzione anche in un sistema di alleanze”. Ha parlato di un Salone del libro finalmente pluralista, perché prima non lo era? Lei stesso si complimentò con Lagioia l’anno scorso... “Ringrazio Annalena Benini e la sua squadra. Mi pare che il Salone 2024 sia stato aperto, democratico e plurale. Come deve essere”. Il Salone ha avuto successo, ma i lettori hanno sofferto code e caos, come si può fare? “Gli organizzatori sono al lavoro per trovare soluzioni”. È stato anche al Santuario di Oropa sopra Biella, come verranno spesi i 7 milioni stanziati? “Esiste un bel progetto di riqualificazione che punta anche a creare spazi di socialità, per mostre e cultura. Tutto, ovviamente, sarà seguito dalla Soprintendenza”. Qual è l’obiettivo a cui tiene di più ora? “Concludere il raddoppio di tre grandi musei: la Pinacoteca di Brera con Palazzo Citterio, gli Uffizi con i due nuovi siti di Careggi e Montelupo e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli con il recupero dell’ex Albergo dei Poveri che diventerà la più grande infrastruttura culturale d’Europa. Poi mi ha fatto piacere una lettera della commissaria europea alla Cultura che ci dà atto di essere fra i migliori nella capacità di spesa dei fondi del Pnrr”. Come passa il weekend un ministro della Cultura? “Domenica mattina ho ricevuto due sindaci per questioni su cui lavoriamo. Sabato sono stato al complesso dei Girolamini a Napoli tornato al suo splendore. Merita una visita. L’Ansa ha anche riferito che ho fatto da guida ad un gruppo di turisti bergamaschi. Nel tempo libero visito mostre e vado al cinema”. Il senso della vita nelle parole di Navalny: “Il mio sacrificio per salvare la Russia” di Ezio Mauro La Repubblica, 13 maggio 2024 Un libro raccoglie i pensieri dell’oppositore dal 2010 fino all’ultimo post alla moglie, due giorni prima della morte: lettere e dichiarazioni pronunciate in aula che hanno stravolto il diritto all’”ultima parola”, trasformata in otto processi in un atto d’accusa contro il regime. La guardia d’onore in alta uniforme apriva le porte maestose del Cremlino davanti a Vladimir Putin, che giovedì 9 celebrava nella neve di maggio l’anniversario della Vittoria, “la nostra festa più sacra”, e insieme il suo quinto mandato alla guida della Russia. Ma soltanto tre mesi prima una porta di ferro si era chiusa per sempre davanti a Aleksej Navalny, morto a 47 anni nella colonia penale a regime speciale di Kharp, oltre il Circolo polare artico, dopo 300 giorni di cella d’isolamento e una condanna infinita. Le due figure sproporzionate nel potere e nel destino sono tuttavia collegate tra loro, perché la tensione putiniana verso il dominio assoluto non ha trovato ostacoli nelle istituzioni russe, ma ha dovuto fare i conti con la testimonianza irriducibile di Navalny, che con la sua scelta di denuncia estrema ha trasformato il dissenso in opposizione. Che cosa resta oggi di quella ribellione che ha tentato di far nascere una pubblica opinione nel Paese in cui l’individuo si è trasformato da suddito a bolscevico, senza mai diventare cittadino, portatore consapevole di diritti? Un libro pubblicato da Scholé (“Io non ho paura, non abbiatene neanche voi”) raccoglie le parole di Navalny dal 2010 fino all’ultimo post alla moglie per San Valentino, due giorni prima della morte: sono appunti, messaggi affidati agli avvocati in visita nella prigione, lettere, dichiarazioni che il detenuto ha pronunciato davanti ai giudici stravolgendo il diritto dell’imputato all’”ultima parola”, trasformata in otto processi in un atto d’accusa contro il regime. Un documento appassionato di denuncia, dunque, e insieme di speranza, che dura oltre la morte, e rivela come la lotta per la democrazia in Russia riesca a sopravvivere anche oltre quella porta di ferro. Navalny era arrivato fin qui dopo l’attentato con il novichok, quando era stato avvelenato rischiando di morire sull’aereo che da Tomsk lo riportava a Mosca, e riuscì a salvarsi solo per la decisione del pilota di atterrare immediatamente per prestargli soccorso: “È una giornata magnifica, sono seduto al mio posto, mi aspetto un viaggio tranquillo e mi preparo a guardare una delle mie serie preferite, quando sento che qualcosa non va, come un sovraccarico che mi spezza. Sudore gelido. Dico a Kira: parlami, ho bisogno di sentire una voce, non capisco cosa mi sta succedendo. Vado alla toilette, mi lavo con l’acqua gelida, niente. Non ho dolore, ma so con sicurezza che sto morendo, proprio lì, in quel momento. Mi stendo sul pavimento, lo steward si china su di me, gli dico: mi hanno avvelenato, muoio. Poi più niente, perdo conoscenza”. Le cure in Germania, il coma, Yulia gli parla, canta, ricorda a voce alta, spiega, lui riapre gli occhi ma non riesce a parlare e non sa chi è lei, capisce solo che quando è nella stanza lo fa sentir bene: lo salva. Poi, nel gennaio 2021, la decisione di tornare in Russia, sapendo che sarebbe stato definitivamente arrestato. Perché? “Il dilemma tornare o non tornare non si è mai posto, non c’è stata nessuna discussione, per la semplice ragione che io non avevo mai deciso di andarmene, ero finito in Germania in una capsula di terapia intensiva solo perché avevano tentato di uccidermi. Sono tornato perché dovevo farlo e volevo farlo. La Russia è il mio Paese, ho sempre detto alle persone che venivano ad ascoltarmi nelle manifestazioni che non li avrei mai abbandonati: alla fine della fiera dovrà pur apparire in Russia qualcuno che non mente, e fa corrispondere le parole alla realtà. Così ho comprato i biglietti dell’aereo”. C’è in questa scelta la fedeltà a un impegno con se stesso e con la Russia: “Io non mi faccio illusioni, capisco tutto. L’unica cosa che non capisco è perché troppi continuano ad abbassare lo sguardo. La vita è troppo breve per guardare solamente il tavolo e scrollare le spalle. Gli unici momenti della nostra vita che hanno un senso sono quelli in cui facciamo qualcosa di giusto, quando alziamo lo sguardo e ci guardiamo negli occhi. Tutto è costruito sulla menzogna, ma non vogliamo vedere. Cosa abbiamo ottenuto distogliendo lo sguardo? Questo: abbiamo permesso che ci trasformassero in bestiame. Io esorto tutti a vivere senza menzogna. Si può, senza azioni disperate ma moralmente giuste, senza persone che osano l’impossibile non ci possono essere persone prudenti che imboccano il sentiero corretto”. Ma c’è anche una fede vera e propria, adulta, un ravvedimento dopo l’ ateismo feroce della gioventù: “Sono credente, mi piace essere cristiano e ortodosso, sentirmi parte di qualcosa di grande e condiviso. Tutto diventa più semplice, ho meno esitazioni nella vita perché esiste un libro in cui è scritto cosa bisogna fare in ogni situazione. È scritto anche “beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”. Ecco, io ricevo molte lettere di speranza e una su due finisce con la frase “la Russia sarà libera”. Bene, ma non basta perché ognuno vede che siamo un Paese infelice. Dunque la Russia dovrà essere libera, e finalmente felice”. Da qui l’invito a non farsi divorare dall’odio, neppure per i carcerieri, i giudici, il potere. E le dichiarazioni di Navalny nel passato, con gli immigrati clandestini definiti “scarafaggi” nel 2007, il nazionalismo esasperato, l’assoluzione per l’occupazione della Crimea? “Ho fatto e detto molte cose di cui mi pento e mi sono scusato. Non faccio fatica a riconoscere i miei errori. Sulla Crimea ho detto la verità, è un problema che durerà anni, come Cipro del Nord, le Falkland, le isole Curili, ne discuteranno i nostri nipoti. Ma l’occupazione della Crimea è stata chiaramente illegale, e qualsiasi ricerca di soluzione deve cominciare da un vero referendum, onesto e trasparente, non come quello che c’è stato. E la Russia deve riconoscere i confini dell’Ucraina. Quasi tutti i confini nel mondo sono casuali, ma combattere per cambiarli nel XXI secolo non si può, si sprofonderebbe nel caos”. Dalla denuncia della corruzione alla battaglia per la democrazia: “Noi siamo particolari, come ogni nazione, ma siamo Europa, siamo Occidente. La nostra struttura politica fondamentale dovrebbe essere la democrazia parlamentare, dove le libere elezioni, i tribunali indipendenti e la libertà di stampa dovrebbero essere sacri”. Ma il sacrificio di una vita è il modo più giusto per combattere questa battaglia? “Ho imparato a non considerare la mia situazione come un peso, ma solo come un lavoro. Ogni lavoro ha una parte spiacevole: e io sto facendo la parte sgradevole del lavoro che mi sono scelto”. Nella realtà quotidiana, vuol dire sedici condanne all’isolamento, sveglia alle 6, inno nazionale, esercizio fisico all’aperto, marcia sul posto, sbobba nelle ciotole di metallo dove poi si verserà il tè, un uovo sodo due volte alla settimana, il lunedì e i venerdì, la scelta tra il mestiere prigioniero di “cucitrice” e quello di panettiere, le finestre della baracca sigillate con fogli di carta bianca sui vetri, le grida nel buio col suo nome: “Aleksej, aiutami”. I tormenti psicologici: gli stivali di feltro che non arrivano, a 32 gradi sotto zero e con il cortile dell’ora d’aria completamente ghiacciato; il compagno di cella nuovo e l’ avvertimento: ha la tubercolosi attiva; quindi l’arrivo di un “demonio”, che nel gergo carcerario è un barbone che non si lava mai; e infine la decisione di ospitare nel braccio deserto, ma proprio nella cella di fronte, uno psicopatico che urla, ringhia e ulula per 14 ore al giorno, e continua di notte. Poi le razioni speciali di cibo comprate alla mensa, pagate ma sospese se si finisce in isolamento, dove vengono mostrate, e sottratte, secondo regolamento. “È chiaro che preferirei non dovermi svegliare in questo canile, e fare invece colazione con la mia famiglia, ma la vita funziona in modo tale che il progresso sociale e un futuro migliore si ottengono solo se qualcuno è disposto a pagare per il proprio diritto ad avere delle convinzioni, e a unire la coscienza con il raziocinio”. E oggi, tutto questo è svanito? “Forse a voi sembra che io sia pazzo, nuotando controcorrente. Invece a me sembra che siate voi i pazzi. Avete una vita sola, e per cosa la spendete? Potete opporvi, ognuno può fare qualcosa, parlare coi vicini, attaccare un volantino, tenere un blog, scrivere sui social, disegnare graffiti. Voi potete: non abbiate paura”. Tunisia. Arrestata in diretta tv l’avvocata dei diritti umani Di Davide Varì Il Dubbio, 13 maggio 2024 L’arresto di Sonia Dahmani filmato da France 24. In manette anche Borhen Bssais, conduttore televisivo e radiofonico, e Mourad Zeghidi, commentatore politico. Gli avvocati della regione della Grande Tunisi, in Tunisia, hanno annunciato uno sciopero generale a partire da domani, con la sospensione dei lavori in tutti i tribunali, in segno di protesta all’arresto di Sonia Dahmani, avvocata e opinionista televisiva e nota voce critica del presidente Kais Saied, avvenuto nella sede dell’Ordine per dichiarazioni considerate dalle autorità offensive nei confronti del Paese. Lo riporta l’agenzia di stampa “Ta”. La donna è stata arrestata, circondata da colleghi, e l’arresto è stato filmato in diretta dal canale francese France 24 prima che la connessione fosse interrotta dagli agenti di polizia. L’edificio è stato “preso d’assalto da decine di agenti delle forze di sicurezza mascherati, che hanno usato violenza”, ha protestato davanti alla stampa Laroussi Zguir, presidente della sezione dell’Ordine degli avvocati di Tunisi, chiedendo il “rilascio immediato” di Dahmani e annunciando uno sciopero degli avvocati da domani. L’emittente pubblica France 24, da parte sua, ha denunciato l’atteggiamento degli agenti di polizia che hanno interrotto l’intervento del suo corrispondente, “hanno strappato la telecamera dal treppiede” e hanno arrestato il suo cameraman per “dieci minuti”. France 24 “ha condannato fermamente questo ostacolo alla libertà di stampa e questo intervento brutale e intimidatorio della polizia che impedisce ai suoi giornalisti di esercitare la loro professione”. Sonia Dahmani aveva ricevuto due giorni prima un invito della magistratura a presentarsi in tribunale, a sua detta senza che le venissero specificate le ragioni. L’avvocata sarebbe stata arrestata mentre era in corso una diretta televisiva e sarebbe indagata per il presunto “utilizzo delle reti di comunicazione per diffondere informazioni false” e per “incitamento all’odio”. Alcuni giorni prima, intervenuta nel corso di un programma radiofonico, Dahmani avrebbe pronunciato dei commenti sarcastici sulla situazione interna della Tunisia, in riferimento all’afflusso di migranti di origine subsahariana. Non essendosi presentata in tribunale, è stato emesso nei suoi confronti un mandato di arresto, nonostante la richiesta dei legali della donna di rinviare l’udienza. Il consiglio regionale degli avvocati di Tunisi, esprimendo il “sostegno incondizionato” a Dahmani, ha chiesto il suo immediato e incondizionato rilascio. Il mandato d’arresto emesso dal primo gip del Tribunale di Tunisi contro Sonia Dahmani è stato eseguito sabato sera. Lo ha confermato all’agenzia di stampa tunisina Tap il portavoce del Tribunale di Tunisi, Mohamed Zitouna, aggiungendo che “la procura desidera chiarire che gli agenti delle forze dell’ordine incaricati dell’esecuzione del mandato lo hanno eseguito sulla base della buona applicazione della legge e dell’efficienza delle indagini in corso e che tutte le procedure legali sono state rispettate”. Zitouna ha sottolineato che il caso contro la Dahmani, che secondo lui era “in fuga”, non ha nulla a che fare con la sua professione di avvocato. L’avvocata Sonia Dahmani - conclude la Tap - è stata portata via durante un sit-in presso la sede dell’Ordine degli avvocati, in esecuzione del mandato di arresto. Sono stati arrestati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di primo grado di Tunisi anche Borhen Bssais, conduttore televisivo e radiofonico, e Mourad Zeghidi, commentatore politico, sono oggetto di un mandato di rinvio a giudizio per aver diffuso “false informazioni con l’obiettivo di diffamare altri o ledere la loro reputazione”“, ha detto sempre il portavoce del tribunale di Tunisi, Mohamed Zitouna. I. Gli esiti delle indagini e gli sviluppi verranno comunicati successivamente. I tre editorialisti detenuti sono perseguiti ai sensi del decreto 54, promulgato nel settembre 2022 dal presidente Saied per reprimere la diffusione di “notizie false”. Provvedimento criticato dai difensori dei diritti tunisini e internazionali perchè soggetto a un’interpretazione molto ampia. Secondo l’Unione Nazionale dei Giornalisti, in un anno e mezzo, più di 60 persone, tra cui giornalisti, avvocati e oppositori di Saied, sono state perseguite sulla base di questo testo. Da quando il presidente Saied, eletto democraticamente nell’ottobre 2019 per cinque anni, si è concesso i pieni poteri durante un colpo di stato nel luglio 2021, le Ong tunisine e internazionali hanno deplorato una regressione dei diritti in Tunisia. Questa mattina, circa 300 persone si sono radunate a Tunisi su appello del Fronte di Salvezza Nazionale (FSN), la principale coalizione dell’opposizione, per chiedere il “rilascio dei detenuti politici”, mentre una quarantina di persone tra cui diversi funzionari del FSN sono state arrestate per “cospirazione contro la sicurezza dello Stato”. “Fermate lo stato di polizia” oppure “Via da Kais Saied”, hanno gridato i manifestanti. Ahmed Nèjib Chebbi, cofondatore del FSN, ha denunciato “un sistema liberticida” in Tunisia. “Tutte le libertà sono state pugnalate. Oggi è il potere personale assoluto (di Kais Saied, ndr) che sottomette tutti gli strumenti dello Stato per soffocare i diritti e le libertà”, ha detto all’AFP. Zeghidi è sotto processo “per una pubblicazione sui social network in cui ha sostenuto un giornalista arrestato (Mohamed Boughalleb, condannato a sei mesi di carcere per diffamazione di un pubblico dipendente, ndr) e per dichiarazioni rilasciate durante programmi televisivi da febbraio”, ha spiegato l’avvocato Ghazi Mrabet all’AFP. Oltre all’ondata che ha colpito i commentatori e giornalisti, la settimana scorsa diverse Ong che aiutano i migranti sono state sottoposte a controlli e il presidente dell’associazione antirazzista Mnemty (“il mio sogno”), Saadia Mosbah, è in custodia di polizia con l’accusa di riciclaggio di denaro. Mosbah era stata in prima linea nella difesa dei migranti sub-sahariani in Tunisia dopo il violento discorso del presidente Saied nel febbraio 2023 in cui denunciava l’arrivo di “orde di migranti illegali” come parte di un complotto “per cambiare la composizione demografica” del paese. Così Israele costringe allo sgombero i beduini palestinesi: demolite 47 case, cacciati in 300 di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2024 Da oltre dieci anni le autorità israeliane ricorrono a numerosi pretesti per sgomberare e segregare le comunità beduine palestinesi della regione del Negev/Naqab; dall’ampliamento delle autostrade alla costruzione di zone industriali, dalla creazione di foreste per il Fondo nazionale ebraico alla designazione di zone a uso esclusivo militare. L’ultimo atto è andato in scena l’8 maggio, quando sono state demolite 47 abitazioni del quartiere di Abu Aissa, nel villaggio non riconosciuto di Wadi al-Khalil. I primi ordini di demolizione erano stati emessi dalle autorità di pianificazione israeliane nel 2019 per far posto all’estensione del percorso dell’autostrada 6 verso sud. Le demolizioni dell’8 maggio, le più numerose in un solo giorno dopo quelle di al-Araqib nel 2010, hanno lasciato senza alloggio oltre 300 abitanti. Jabr Abu Assa, uno degli abitanti rimasti senza casa a Wadi al-Khalil, ha dichiarato ad Amnesty International: “Non possiamo fermare questo piano; l’autostrada 6 passerebbe sopra i nostri corpi indipendentemente da quanto resistiamo, quindi abbiamo chiesto alle autorità un’alternativa equa e giusta per trasferirci in un luogo dove possiamo vivere in pace e dignità, nel quartiere di Mtalla a Tall al-Sabe’. Tuttavia, l’unica opzione che ci è stata data è quella di trasferirci in un quartiere del vicino villaggio di Um al-Batin, dove i residenti locali hanno già detto di non avere spazio per noi e che non siamo i benvenuti; questo significa metterci contro di loro. Significa costringere noi e loro a lottare per le scarse risorse che sono appena sufficienti per loro”. Jabr Abu Assa ha aggiunto che né lui né gli altri residenti le cui case e altre strutture sono state demolite hanno ricevuto alcuna forma di risarcimento. Il 31 dicembre 2023 la Corte suprema israeliana aveva respinto l’ultimo appello dei residenti di Wadi Al-Khalil contro il loro trasferimento forzato a Umm al-Batin, permettendo così all’Autorità beduina per lo sviluppo e l’insediamento del Negev, un ente governativo che da tempo serve a consolidare il dominio e l’oppressione della comunità beduina, di decidere dove trasferire i residenti. Hussein al-Rabaya’a, un attivista della comunità del Negev/Naqab, ha aggiunto: “Qui non hai scelta: ti negano il riconoscimento poi decidono di spostarti, decidono dove andare e se protesti e chiedi un’alternativa equa, dicono che non spetta a te decidere il tuo destino”. Queste le parole di un altro abitante sgomberato: “Non sappiamo dove andare: non possiamo trasferirci a Umm al-Batin perché lì siamo indesiderati. Faremo quello che hanno fatto quelli di al-Araqib: monteremo una tenda sulle rovine delle nostre case demolite, non abbiamo altra scelta”. Le demolizioni a Wadi al-Khalil sono state eseguite meno di un anno dopo che la Corte distrettuale israeliana aveva approvato lo sgombero forzato del villaggio non riconosciuto di Ras Jrabah per far posto all’espansione della vicina città ebraica di Dimona. Gli abitanti di Ras Jrabah sono tuttora impegnati in una battaglia legale contro la demolizione del loro villaggio. *Portavoce di Amnesty International Italia