Separazione delle carriere, Meloni ordina la grande frenata. L’ira dei forzisti di Emanuela Lauria La Repubblica, 12 maggio 2024 La premier non vuole andare allo scontro con le toghe prima delle Europee. Ma i forzisti: “Se c’è un rallentamento se ne parli in Consiglio dei ministri”. È la campagna elettorale delle bandiere politiche che rimangono a mezz’asta. Solo bozze di riforme, da discutere come mezzo di propaganda e poi fermare prima dell’approvazione, in questa asfissiante marcatura reciproca fra i partiti della maggioranza che precede le Europee. L’Autonomia cara alla Lega? Si bloccherà alla Camera, per tacito accordo, già scritto da settimane, la prossima settimana, con il rinvio del voto finale. Il premierato? C’è il sì in commissione, al Senato: ma la lettura dell’Aula (la prima delle quattro richieste da parte dei due rami del Parlamento) arriverà dopo il 9 giugno. E ora arriva la grande frenata della riforma della giustizia, nella parte che riguarda la separazione delle carriere: un totem di Forza Italia. “La faremo ma non so dirvi la data”, dice in sostanza il Guardasigilli Carlo Nordio, additando l’affollamento dei provvedimenti in lista d’attesa sia a Montecitorio che a Palazzo Chigi. Ma era stato lo stesso Nordio, durante un question time alla Camera del 27 maggio, a predire “con quasi certezza” la presentazione della riforma “entro il mese di aprile o al massimo di maggio”. Adesso il ministro non è più in grado di fare una previsione. Il che dà corpo ai sospetti rilanciati prontamente da Italia Viva (“FdI non vuole la separazione delle carriere”, dice Davide Faraone) e Azione: secondo Enrico Costa “questa norma non vedrà mai la luce perché non ci sono le intenzioni e sicuramente mancano i tempi”. Il calendario del governo, in effetti, è molto fitto: non c’è alcuna convocazione ufficiale, ma da qui al giorno delle Europee dovrebbero svolgersi solo due riunioni del Consiglio dei ministri, il 20 e il 29 maggio. E all’ordine del giorno dovrebbero esserci almeno sei importanti decreti. Il tema vero riguarda il clima politico che, proprio intorno alla giustizia, è divenuto molto caldo dopo gli arresti di Genova. Gli attacchi di Matteo Salvini e di altri ministri alla magistratura trasformerebbero in un ulteriore schiaffo il via libera a una riforma osteggiata dal’Anm. Giorgia Meloni vuole incendiare ancora di più il dibattito? In questo senso, i toni concilianti di Nordio, ieri a Palermo, sono apparsi un segnale di pace da parte dell’esecutivo. Ma Forza Italia, al momento, non sembra disposta a fare sconti: “La separazione delle carriere è un punto del programma del centrodestra. C’è un impegno a realizzarla, e Nordio risponde anche a noi - dice Paolo Barelli, capogruppo di FI alla Camera - Se c’è un rallentamento, se ne parla in Consiglio dei ministri”. È laconico il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè: “Sono certo che il ministro Nordio, e con lui il governo, non si farà piegare dal primo refolo proveniente da una parte minoritaria della magistratura”. In questi giorni, d’altronde, il sottosegretario Francesco Paolo Sisto non ha perso un minuto per rassicurare i colleghi sul mantenimento dei patti fra i leader: “II Cdm farà le norme sulla separazione delle carriere”. Ma le cose sembrano cambiate. E sono, anche, gli effetti di una campagna elettorale che mette tutti contro tutti, come è evidente pure dallo scontro sul Superbonus fra Giancarlo Giorgetti e Antonio Tajani, sostenitore di una linea di conservazione - per chi ne può godere in base alla legge - dei benefici dello sconto edilizio. Ma ogni competizione costringe ad aperta propaganda e latenti compromessi, specie in un’atmosfera di nervosismo come quella che pervade la maggioranza per il caso-Toti. Le nuove norme sulla giustizia rischiano di diventare così l’ultimo dei vessilli agitati e ripiegati. Come l’autonomia e il premierato. Nordio a sorpresa ammicca ai giudici: “Sono uno di voi, l’indipendenza dal governo un dogma” di Liana Milella La Repubblica, 12 maggio 2024 Il ministro al congresso Anm fa il vago sulla separazione delle carriere: “Non sarete subordinati all’esecutivo”. I pm: “Effetto Mattarella”. Renzi: “La riforma non si farà”. Carlo Nordio arriva a Palermo. E il muro altissimo della magistratura contro la separazione delle carriere trasforma il lupo in un agnello. Un Nordio così non s’era mai visto. Lui sta al gioco. “Mai e poi mai ho pensato di entrare in conflitto con voi perché ho portato la toga per oltre 40 anni”. È un altro Nordio quello che sotto Monte Pellegrino, con il castello Utveggio che splende dall’alto, mette da parte la spavalderia con cui di solito annuncia riforme draconiane. E quasi dice quello che i suoi ormai ex colleghi avrebbero voluto sentire da sempre. “Non siamo nel paese delle meraviglie, quello di Alice. Ma i nostri programmi sono dettati dal corpo elettorale che con un voto democratico ha chiesto le riforme sulla giustizia”. E qui la protesta serpeggia in sala. Lui spende il nome del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Con lui siamo d’accordo sul dogma dell’indipendenza dei magistrati requirenti e giudicanti”. Poi arriva perfino il giuramento: “Per me è un punto non negoziabile, nessuna dipendenza dal potere esecutivo”. Dice un pm che “il Mattarella di ieri deve avergli fatto effetto”. Certo il Nordio di Palermo non è quello che a Palazzo Chigi aveva concordato con Meloni la separazione prima del voto. Oggi è tutto miele: “La mia presenza è un atto di rispetto e di omaggio al vostro lavoro”. Applauso flebile. Un’altra promessa di peso: “L’ho già detto a Santalucia. La prevalenza dei togati in qualsiasi Csm sarà assoluta, non ci piove, ne scrivo da 25 anni”. E aggiunge perfino: “Nella mia idea originale, in un mondo ideale, il Csm sarà composto solo da giudici per assicurare al massimo l’autonomia della magistratura dal potere politico”. Incredibile, ma vero. Nordio resta 45 minuti. È stanco. Torna a Venezia. Lo scorta la fedele capo di gabinetto Giusi Bartolozzi, la “zarina”. Lascia il parterre alla segretaria del Pd Elly Schlein che non gliene perdona una. La separazione delle carriere? “Non incide sui veri problemi e rischia di essere l’anticamera della sottomissione dei pm al potere esecutivo e compromette l’obbligatorietà dell’azione penale cui non possiamo rinunciare”. Sorteggio per il Csm? Test psicoattitudinali? “Solo un modo sottile e insidioso per incrinare la credibilità dei giudici”. I magistrati si scatenano. Luca Poniz: “Nordio versus Nordio, cosa avrebbe detto Nordio magistrato a Nordio ministro?”. Eugenio Albamonte ironizza su Nordio che ha portato a Palermo l’allarme sul Fentanyl e dice “sono angosciato da questa piaga…”. “Non vogliamo essere trasformati in servi del potere” dice Ida Teresi di Napoli. Maria Rosaria Guglielmi agita lo spauracchio di Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, dove i giudici sono schiacciati dalla politica. E Stefano Celli: “Noi i magistrati li abbiamo arrestati, ma la politica riesce a espellere quelli che sbagliano senza aspettare le nostre indagini?”. Arriva Matteo Renzi, una raffica contro il governo, anche se Iv vota tutte le loro leggi sulla giustizia. “La riforma costituzionale è necessaria, ma questo governo è in grado di farla o no? No, perché chiacchiera e non fa nulla”. Giusto quello che pensa Enrico Costa di Azione, che alle toghe lo dice a brutto muso: “Tutti sono consapevoli che la separazione non si farà, ma fa comodo a tutti non dirlo. A Nordio, che fa credere di rispettare il programma, all’Anm che la usa per compattare le correnti”. “Solo chiacchiere”, per Renzi, “visto che non c’è un disegno di legge del governo”. Renzi catastrofista. “Nella guerra di 30 tra politica e giudici abbiamo perso tutti”. Attacca i giornali: “C’è un rapporto tra alcune redazioni, componenti della politica e altre della magistratura per cui c’è il corto circuito”. La stampa finisce sotto attacco come le toghe. Non è un caso se qui c’è il presidente della Fnsi Vittorio Di Trapani. “Noi come loro” dice. Sì, bisogna guardarsi le spalle. Nordio va dalle toghe e in mezz’ora smonta la sua stessa riforma della giustizia di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 maggio 2024 Il ministro al congresso di Palermo dell’Anm: “Siamo in campagna elettorale, non ho una data”. Schlein: “Separare le carriere è l’anticamera della sottomissione al governo”. È durata mezz’ora la visita del ministro della Giustizia Carlo Nordio al congresso di Palermo dell’Associazione nazionale magistrati: arrivo alle 10 e 30 in punto, foto di rito con il presidente Giuseppe Santalucia, breve intervento, saluti, qualche battuta con i giornalisti. E a casa per il sospirato weekend. Un record di velocità che il guardasigilli comunque ha fatto pesare, perché, dice, il giorno prima era al G7 di Venezia e si è precipitato in Sicilia solo per mostrare la sua buona predisposizione verso la categoria di cui (un po’) ancora si sente parte. “Ho fatto il magistrato per quarant’anni”, ha ribadito anche qui, come del resto fa sempre, prima di elencare, tra un motto in latino e un’autocitazione, i temi che lui ritiene prioritari: la lotta all’immigrazione clandestina, l’intelligenza artificiale, la criminalità internazionale e il Fentanyl, l’analgesico che “negli Usa ha fatto più morti della guerra in Vietnam”. Alla fine il regalo di una notizia scontata prima ancora che attesa: la famosa riforma della giustizia, quella della separazione delle carriere, del doppio Csm, dell’alta corte e forse pure dell’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale si farà - “I cittadini ci hanno dato questo mandato” - ma non subito: “Siamo in campagna elettorale che riduce di molto le possibilità di riunione del parlamento e dello stesso governo: su questo non ho una data”. Quindi a risentirci dopo le europee. Che vuol dire dopo l’estate. Quando però ci sarà da affrontare il bilancio, e allora chissà. Niente male per un provvedimento che, appena pochi giorni fa, lo stesso Nordio aveva dato per imminente, quasi cotto e pronto da mangiare. Ma forse troppo difficile da digerire: le toghe hanno detto che si opporranno senza tentennamenti, perché “non è una questione sindacale”, ma “culturale e costituzionale”. E la cosa mette d’accordo tutte le correnti: quelle di sinistra, quelle di centro e persino quelle di destra, assai raramente ostili al governo Meloni. Dunque fa poco effetto il tentativo di rassicurazione del ministro: “L’assoluta indipendenza del pm è un principio non negoziabile”. Però, sia chiaro, “la separazione delle carriere si farà”. Una dichiarazione d’intenti che non ci sposta di un millimetro dal giorno in cui si è insediato in via Arenula, alla fine dell’ottobre del 2022. Il passo indietro rispetto all’accelerazione prospettata la settimana scorsa è evidente. E infatti se ne sono accorti tutti. Così, con una battuta, l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, esponente di Area democratica per la giustizia: “Credevo che avrei dovuto parlare della riforma, invece ho scoperto grazie a Nordio che il principale problema della giustizia al momento è il Fentanyl”. Per il resto i toni dei magistrati che hanno preso parte alla lunga maratona di ieri - decine di interventi dalla mattina fino al tardo pomeriggio - sono stati ovviamente molto critici verso la futura riforma, ma è mancato il pathos della battaglia campale che ci si aspettava. Effetto del rinvio sine die annunciato da Nordio. Poco prima dell’ora di pranzo è arrivata a Palermo anche Elly Schlein, il cui intervento è stato più volte interrotto dagli applausi. Un particolare del quale la troupe di un talk show di Mediaset ha chiesto conto a ogni giudice incrociato all’esterno del Marina Convention Center: “Perché avete battuto le mani più a lei che a Nordio?”. Complimenti a chi è riuscito a rispondere senza ridere. Schlein, e questo è il punto politico, ha bollato la separazione delle carriere come “l’anticamera della sottomissione dei magistrati all’esecutivo”. La minoranza riformista del Pd, sul tema, potrebbe avere idee molto diverse, e nei prossimi giorni vedremo se ci saranno reazioni. Moderati e senza particolare sussulti gli interventi del deputato di Azione Enrico Costa, storico alfiere del garantismo più critico verso le toghe, e di Matteo Renzi, il cui garantismo invece si è manifestato più recentemente, dopo i primi guai giudiziari (è sempre il premier che voleva mettere il magistrato Nicola Gratteri al ministero della Giustizia, del resto). Oggi il congresso finisce con la presentazione della mozione. Da domani le correnti cominceranno a prepararsi per l’elezione del nuovo comitato direttivo centrale a gennaio. In quella sede bisognerà scegliere il successore di Santalucia. Separazione delle carriere: è muro contro muro tra magistrati e governo Meloni di Angela Stella L’Unità, 12 maggio 2024 L’affondo del leader Santalucia sulla separazione delle carriere: “non si coglie il senso di massima di garanzia per i cittadini dell’attuale impianto”. Sisto: “Andiamo avanti”. I magistrati si riuniscono a Palermo per il loro 36esimo Congresso e attraverso le parole del loro Presidente Giuseppe Santalucia alzano i toni contro il Governo su due piani: interpretazione della legge e separazione delle carriere. Se un lungo applauso ha accolto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, una standing ovation è stata invece riservata al leader dell’Anm dalle oltre 800 toghe accreditate. “È assunto condiviso - ha esordito Santalucia - che l’interpretazione sia operazione intellettuale complessa, non riducibile a semplici sillogismi che facciano derivare la regola concreta da una norma astratta, che si vorrebbe chiara e facilmente leggibile, sì che il giudice possa essere un mero e asettico esecutore”. Insomma, nessun giudice bocca della legge, come vorrebbe il Governo dopo che la Apostolico ha disapplicato il decreto Cutro. Tuttavia, ha sottolineato Santalucia, “si coglie in più occasioni una spinta alla ridefinizione in senso restrittivo dei confini entro cui la giurisdizione può esprimersi e può far uso degli strumenti propri del suo agire”. Il congresso sarà anche il momento per chiedersi dove finisce la libertà interpretativa e di espressione del “cittadino magistrato” nella vita sociale. Santalucia ha detto: “Le mura della legge non segnano soltanto il confine che il giudice non può valicare nel dare e fare giustizia, ma sono i bastioni che proteggono e danno effettività alla sua indipendenza. La soggezione, a cui nessuno intende sottrarsi, si invera però in un impegno interpretativo condotto facendo uso di tutte le tecniche e gli strumenti che la stessa legge offre, dal criterio logico, a quello teleologico, a quello sistematico, saggiando della norma la conformità costituzionale e convenzionale”. In altre parole: se una norma è scritta male o carente di tassatività, o non si inserisce coerentemente nel sistema o non è coerente con i principi costituzionali o sovranazionali, in tutti questi casi si amplia lo spazio interpretativo del giudice. Santalucia è poi passato a parlare della separazione delle carriere che il Governo è in procinto di licenziare in Cdm: “Si mette mano alla Costituzione mostrando di non aver compreso il senso di massima garanzia per i diritti dei cittadini dell’attuale impianto, di un pubblico ministero appartenente al medesimo ordine del giudice e accomunato al giudice per formazione e per cultura della funzione”. E non bastano a rassicurare le toghe le dichiarazioni di chi in questi giorni quale “alfiere della separazione, assicura e rassicura sulla piena indipendenza del pubblico ministero di domani”. Proprio il vice Ministro Sisto, delegato dalla premier Meloni, è intervenuto invece sostenendo che l’Esecutivo andrà avanti con la riforma dell’assetto ordinamentale della magistratura: il “cittadino ha il diritto di percepire che il giudice deve essere arbitro diverso dai contendenti”. Pur ribadendo che “la giustizia non può e non deve essere terreno di scontro” e che occorre “dialogo”, tra le toghe non c’è spiraglio per nessun confronto: la riforma non si deve fare, punto e basta. C’è stata poi una tavola rotonda in cui sono intervenuti tutti i leader dei gruppi associativi: Loredana Miccichè (Mi), Maria Rosaria Savaglio (Unicost), Andrea Reale (CentoUno), Stefano Musolino (Md), Giovanni Zaccaro (Area). Proprio quest’ultimo ha dichiarato, in riferimento alle polemiche cadute sulla magistratura nate a seguito dell’inchiesta sul Governatore della Liguria Toti: “A furia di dire che i magistrati devono apparire imparziali ci dimentichiamo della tutela della imparzialità sostanziale. Le continue polemiche, la delegittimazione quotidiana invece mira ad intimidire i magistrati, ad avere una magistratura che non osi toccare i potenti. Ormai il dibattito sulla giustizia è come il processo del lunedì: politici e giornalisti sono garantisti o forcaioli a seconda che gli indagati siano loro amici o loro avversari. Ho letto il tweet di Crosetto: un ministro non può delegittimare così un altro potere dello Stato. Entrambi giuriamo sulla Costituzione e dovremmo tutelarla ed attuarla insieme”. Oggi interverranno il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, Matteo Renzi, Elly Schlein, Enrico Costa. Domani Giuseppe Conte. Separazione delle carriere, Nordio cerca il dialogo con le toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 12 maggio 2024 Accoglienza tiepida per il guardasigilli al Congresso nazionale Anm. Pinelli: “L’imparzialità dei magistrati è anche un dovere”. Secondo giorno del 36esimo Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati. Tra i primi ad intervenire il vice presidente del Csm Fabio Pinelli: “La magistratura si vede attaccata e condizionata dalla politica nella sua libertà interpretativa (e quindi anche nella sua autonomia e indipendenza), libertà interpretativa che in fondo risulta essere la prima garanzia, potremmo dire il prerequisito, dell’imparzialità”. Tuttavia “alla luce di ciò che la rivoluzione ermeneutica del diritto ha significato nell’uso pratico, con particolare riguardo alle cd. ‘interpretazioni orientate’ (alla Costituzione, alla CEDU e al diritto dell’UE)” bisogna “ripensare, o per meglio dire aggiornare storicamente, il concetto di imparzialità nella prospettiva dell’interpretazione è dunque importante”. Per il numero due di Piazza Indipendenza “è necessario ripensare in modo originale il rapporto imparzialità/interpretazione, partendo da alcuni punti e cercando di capire se su questo terreno possiamo trovare elementi di sintesi comune”. Come? “La magistratura non deve approcciarsi all’imparzialità unicamente come proprio ‘diritto’, ma intenderla anche come un proprio ‘dovere’: il dovere di essere e ‘apparire’ imparziali nella interpretazione”. E infine: “La politica deve assicurare le condizioni per un’interpretazione imparziale, attraverso tecniche legislative adeguate che attualmente non si è in grado o non si vuole compiere. Ogni legge deve essere uniforme alla nostra Costituzione e alle normative europee, solo con la comprensione reciproca tra politica e magistratura si può ottenere il bene di coloro cui la giustizia è destinata”. Un applauso tiepidissimo invece ha accolto il Ministro della Giustizia Carlo Nordio al suo ingresso nella sala del Congresso. Il Guardasigilli ha esordito: “Grazie dell’invito e anche del vostro applauso”. Ha parlato di quanto affrontato nel G7 della giustizia: immigrazione illegale, criminalità organizzata internazionale, criticità dell’intelligenza artificiale, “che può essere buona o cattiva”. Essa va presa “come opportunità e non come fonte di disgrazia. Serve per l’organizzazione degli uffici e la ricerca giurisprudenziale ma mai potrebbe sostituirsi all’intelligenza e indipendenza del magistrato”. Poi ha sottolineato che bisognerà affrontare il problema del fentanyl, “forte stimolo per la criminalità organizzata e grande sfida per le procure della repubblica”. Il Guardasigilli ha poi parlato delle riforme di cui ha bisogno la giustizia: “Saremmo tutti d’accordo sul fatto che occorrono riforme che incentivino efficienza della giustizia: tre concorsi in via di definizione. Bisogna colmare i vuoti della magistratura entro il 2026”. Poi è passato al pomo della discordia, ossia la riforma costituzionale della separazione delle carriere e del Csm: “Con la mia presenza qui, il mio messaggio è: incontriamoci sulle cose su cui potremmo e dovremmo essere d’accordo. Io ho sempre accettato, non ho mai querelato, il dissenso è il sale della democrazia”. “Ho letto delle cose che mi hanno lasciato un po’ stupito - ha proseguito il responsabile di Via Arenula - che ci sarebbe stata una preoccupazione, in base al famoso accordo di Bordeaux. Noi ci atterremo perfettamente a quella che è la convenzione di Bordeaux (si può leggere cliccando qui, ndr)”. “Spero che non si parli più di conflitto tra politica e magistratura. Si potrà parlare di dialogo franco, di dialogo acceso, di idee opposte, di proposte che possono venire da parte vostra”, anche perché “nessuno ha mai pensato che un’eventuale riforma, come quella che gli elettori ci hanno incaricato di fare, possa vulnerare la democrazia né tantomeno l’indipendenza della magistratura requirente o giudicante. Questo non significa affatto che le cose sono già state scritte o irrimediabilmente decise. Noi, sempre nei limiti franche di leale collaborazione, senza retropensieri o riserve mentali, le cose che vorremmo fare le diciamo. Quelle che possiamo fare insieme cercheremo di farle”. Sulla riforma del Csm ha specificato: “La prevalenza dei magistrati togati sarà assoluta in qualsiasi riforma del Csm. Questo non è in discussione. Nella mia idea originale addirittura il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati proprio per assicurare al massimo indipendenza della magistratura da qualsiasi interferenza del potere politico”. A domanda dei cronisti su quando la riforma arriverà sul tavolo del Cdm, Nordio ha fatto capire che i tempi si allungano: “C’è una campagna elettorale molto intensa, sia il Parlamento che il Governo non riescono a riunirsi spesso. Vedremo”. Ha commentato Rocco Maruotti, esponente di Area del Cdc: “La Dichiarazione di Bordeaux non fa alcun riferimento alla separazione delle carriere, ma delinea lo statuto minimo di indipendenza della magistratura. La riforma a cui ha fatto riferimento il Ministro ha, invece, come obiettivo la creazione di due ordini completamente distinti tra giudici e pubblici ministeri, a cui si accede mediante concorsi diversi e governati da due Csm separati. Si tratta di un modello che, così come è pensato, non potrà essere calato nelle realtà senza mettere in crisi l’indipendenza della magistratura requirente, perché in nessun ordinamento democratico sarebbe ammissibile un corpo di 2000 persone (quanti sono i pubblici ministeri in Italia) con le prerogative di cui godono oggi, in termini di autonomia e indipendenza anche nella gestione della polizia giudiziaria, ma sganciato dalla giurisdizione e senza una legittimazione popolare e quindi una sottoposizione al potere Esecutivo. Il Ministro si affanna a ripetere che questa riforma non comporterà mai una sottoposizione del pm al potere Esecutivo. Ma le sue rassicurazioni non possono valere anche per chi verrà dopo di lui e una volta che l’argine sarà rotto l’indipendenza della magistratura requirente non sarà più assicurata”. Ma le carriere separate restano propaganda di Serena Sileoni La Stampa, 12 maggio 2024 La riforma della carriera dei magistrati annunciata dal governo vanta risalenti precedenti, a partire dai lavori della Commissione D’Alema nel 1997. Nel 2011, con la proposta del secondo governo Berlusconi, la separazione delle carriere è diventata uno dei punti più caratterizzanti del centro destra, in particolare di Forza Italia. Al momento, c’è solo un accordo di maggioranza, emerso la scorsa settimana da un incontro a Palazzo Chigi tra il ministro Nordio, il sottosegretario alla giustizia Sisto, il Sottosegretario Mantovano, i presidenti delle commissioni di Camera e Senato e i responsabili giustizia dei partiti di maggioranza. L’intesa riguarderebbe la separazione delle carriere dei magistrati, con concorso distinto, e dei Consigli superiori di magistratura. Un punto importante sarebbe l’istituzione di un’Alta corte per i giudizi disciplinari a carico di entrambe le categorie. Resterebbero ancora da definire, invece, il metodo di elezione dei membri togati e il numero di membri laici, cioè quelli eletti dal Parlamento. Una separazione delle carriere che mantenga uguale dignità e garanzie di indipendenza a entrambe le tipologie di magistrati e che si basi solo sulle modalità di accesso e autogoverno separa i destini della magistratura inquirente da quelli della magistratura giudicante e restituisce, all’interno ma anche all’esterno dell’ordine, cioè presso l’opinione pubblica, la consapevolezza di un ruolo differente. Una consapevolezza necessaria per uscire dalle ambiguità che hanno contribuito a provocare le ben note derive giustizialiste. Certo, se le indagini sembrano i processi, gli avvisi di garanzia sembrano le condanne, le misure cautelari sembrano la pena definitiva, non dipende solo da come è organizzata la magistratura. Dipende dalle regole sulle intercettazioni, dall’uso degli strumenti processuali e, non da ultimo, dalla deontologia dei professionisti, giornalisti per primi. Peraltro, la riforma Cartabia ha già ampiamente limitato il passaggio di funzioni scoraggiandolo, laddove possibile, e evitando, laddove già effettuato, che il giudice operi nella sede in cui operava con altre funzioni. Si può anche dire, come da anni ha già fatto la Corte costituzionale, che l’attuale testo costituzionale non impone la carriera unica e che basterebbe una riforma con legge ordinaria, se si volesse. Però, la questione della terzietà non deriva solo dal fatto concreto, ma anche dal fatto percepito che i giudici sono tutti sulla stessa barca. Percezione da cui, a sua volta, deriva anche la maniera con cui il mondo dell’informazione e i cittadini si avvicinano alle notizie di indagini. Se ne è consapevoli da quasi trenta anni, se si prende come riferimento la Commissione D’Alema, ma si è anche consapevoli che l’argomento è un tabù sia per la resistenza delle associazioni rappresentative dei magistrati, che infatti sono già sul piede di guerra, sia per l’identificazione ancora forte della battaglia come la battaglia di Berlusconi, che ha pesato sulla capacità della sinistra di farne un obiettivo più alto e comune. Il Governo Meloni ha ora la forza di riprendere il progetto. Sia nei numeri sia nell’autorevolezza di un ministro, Carlo Nordio, che sul piano intellettuale sostiene non da oggi la separazione delle carriere. C’è da dire che da un anno e mezzo alla Camera dei deputati sono in discussione cinque proposte di legge di iniziativa parlamentare esattamente su questo. Una della Lega, a prima firma di Jacopo Morrone, due del gruppo Azione/Italia Viva, a firma una di Enrico Costa e l’altra di Roberto Giachetti. Queste proposte hanno un testo identico che a sua volta riproduce un progetto di iniziativa popolare della scorsa legislatura. A queste, all’inizio del 2023 si è aggiunta una proposta molto simile di Forza Italia, dettagli a parte, di cui è primo firmatario Tommaso Antonino Calderone. Tutti e cinque i testi risultano attualmente in corso di esame in commissione Affari costituzionali della Camera. Il fatto che il Governo annunci un suo proprio disegno di legge può voler dire due cose. O che, nel merito, i testi in esame in Parlamento non gli piacciono; o che giudica preferibile, per strategia politica, ricominciare da zero. Tutte le proposte già in commissione ritengono che la separazione delle carriere, basata su separazione degli organi di autogoverno e concorsi diversi, sia un mezzo necessario al raggiungimento della terzietà e imparzialità del giudice, perché eviterebbe le ambiguità e i conseguenti comportamenti dati dal rapporto di colleganza tra pubblici ministeri e magistrati. Più in dettaglio, anche le proposte mantengono una composizione mista laica-togata e non escludono la possibilità di sorteggio per la componente togata. Tutte prevedono un aumento del numero dei componenti eletti dal Parlamento. Oggetto e obiettivi dell’intesa di governo sembrano quindi coincidere con quelli delle iniziative parlamentari già in agenda. La distinzione dei concorsi, delle carriere, degli organi di autogoverno all’interno di un unico ordinamento giudiziario, che mantenga l’equilibrio tra la necessità di non sottoporre i pm al potere esecutivo e quella di distinguerne il ruolo, prima ancora che le singole funzioni, rispetto ai magistrati giudicanti, accomuna sia i testi già in Commissione alla Camera, sia l’idea del governo e del ministro Nordio. Se si volesse raggiungere lo scopo di riformare l’ordinamento giudiziario, sarebbe forse più utile anche a rivitalizzare il ruolo del parlamento e dei partiti in parlamento se il governo volesse investire nelle proposte già presentate, di cui due vengono dalla Lega e da Forza Italia, cioè da partiti di maggioranza. Margini di azione ci sono, perché i testi non sono ancora approvati nemmeno in Commissione e non sembrano lontani dalle intenzioni emerse dalla riunione di governo e maggioranza. Alternativamente, bisogna ritenere che, più che il merito delle riforme, stia a cuore un messaggio di attivismo politico da campagna elettorale, in vista delle europee. Cosa, si vuol credere, lontana dal vero, trattandosi al tempo stesso di una battaglia storica del centro destra, in particolare di Forza Italia, di uno dei punti programmatici con cui Giorgia Meloni ha ottenuto la fiducia in Parlamento, nonché di una delle idee del ministro Nordio, quando non era ancora ministro. Renzi al Congresso Anm: “Riforme? Dal governo solo chiacchiere” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 maggio 2024 Il leader di Italia Viva alle toghe: “Su Davigo neanche una parola”. Schlein: “Sulle carriere separate ferma contrarietà”. Diversi sono stati gli interventi dei politici al Congresso dell’Anm in corso a Palermo. La prima ad intervenire è stata la Segretaria del Pd Elly Schlein: “Quanto annunciato sulla separazione delle carriere vede la nostra ferma contrarietà. Noi riteniamo che la separazione delle carriere, oltre a non risolvere i problemi della giustizia, sia l’anticamera della sottomissione dei magistrati all’Esecutivo e comprometta il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Ha poi aggiunto la dem: “Guai al pericolo di trascinare la magistratura nel dibattito politico quotidiano. L’ascolto delle vostre voci è prezioso. Per questo è essenziale sentire la voce della vostra associazione nel dibattito sulle riforme invece che alimentare un pericoloso scontro istituzionale che non fa bene al Paese”. Non ha temuto la platea Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “Per primo ho presentato una proposta di legge sulla separazione delle carriere, ma questa riforma non si farà mai. Il governo non la vuole fare, sono solo effetti speciali per farlo credere ai loro elettori. Ma chiunque conosca i tempi parlamentari sa che non si farà assolutamente nulla”. E poi un appello: “Sarebbe un bel segnale se l’Anm prendesse le distanze da quei magistrati che descrivono le proposte garantiste come assist alla criminalità. Il diritto di difesa, la presunzione di innocenza, il giusto processo sono principi costituzionali che vanno attuati. Ed è quello che facciamo ogni giorno con le nostre proposte”. “È necessario iniziare ripristinando una corretta grammatica istituzionale cominciando col rispettare l’indipendenza della magistratura. Solo così si possono affrontare le nuove sfide che si porranno come l’uso dell’intelligenza artificiale che deve essere strumento per migliorare l’efficienza della giustizia non per sostituire il giudice”. Lo ha detto invece la responsabile giustizia del Pd Deborah Serracchiani, che ha aggiunto: “La proposta di separare le carriere è inaccettabile nel metodo e nel merito: essa non può essere oggetto di un baratto tra le forze di maggioranza. E comunque fare uscire il pm dall’ ordine giudiziario significa creare le condizioni per la sua sottoposizione all’esecutivo, una sorte ineludibile nonostante le rassicurazioni”. “A noi pare che vengano riportate indietro le lancette dell’orologio - ha proseguito - e ci preoccupano idee come l’introduzione dei test psico-attitudinali per i giudici, mentre sui veri temi non si dice nulla”. “Stessa preoccupazione suscita l’idea del sorteggio per i componenti del CSM. Ho visto l’uno vale uno in politica e vorrei evitarlo in magistratura”, ha concluso. Era molto atteso l’intervento del leader di Italia Viva, Matteo Renzi che subito ha accusato l’Esecutivo: “Sono imbarazzato da un metodo di questo governo, che è il metodo di chi scambia gli annunci con le riforme e Twitter con la Gazzetta ufficiale. Dopo due anni il governo non ha portato a casa una sola riforma”. Ha poi aggiunto: “Da Presidente del Consiglio non avevo capito fino in fondo, come ho capito da indagato e familiare di persone sottoposte a indagini, quanto sia pesante l’intrusione, del tutto legittima, nella vita privata delle persone”. Ha poi ammesso: “Nella guerra dei trent’anni tra giudici e politica tutti abbiamo perso qualcosa e la prima responsabilità è della politica mediocre e vigliacca”. Renzi ha parlato del rapporto “malato che certi magistrati, certi politici, hanno con alcune redazioni di giornali. L’esasperazione del rapporto tra magistratura, politica e giornalismo crea un corto circuito”. Poi un riferimento a Piercamillo Davigo: “Di comunicati contro di me ne ho contati tanti. Ne ho contati meno invece contro chi ha attaccato i magistrati. Renzi l’avete criticato, ma quando l’ex presidente dell’Anm, presente in tutte le tv, dopo aver dato lezioni di giustizialismo, è stato condannato in primo e secondo grado, non ho letto parole di solidarietà verso chi l’aveva condannato”. E rispondendo ai cronisti ha concluso: “Tante persone soffrono oggi per la giustizia ingiusta, occupiamoci di loro. Diamo il diritto alle persone di avere un processo giusto. Ogni giorno tre cittadini innocenti finiscono in carcere. Il tema è la giustizia giusta che riguarda i cittadini e non noi politici o i magistrati”. Giustizia, Costa (Azione): “Ora si metta un limite all’utilizzo dei trojan” di Francesco Malfetano Il Messaggero, 12 maggio 2024 Onorevole Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, qual è il bilancio di questa due giorni siciliana del congresso nazionale dell’Anm? “Mi ha fatto piacere il rispetto reciproco manifestato, anche quando ho detto che i magistrati non pagano mai per gli errori. Ma ho anche evidenziato le responsabilità della politica sulla credibilità della giustizia”. E quali sono queste responsabilità? “Da un lato ha la responsabilità di voler risolvere problemi complessi con soluzioni sintetiche, i classici “giri di vite” buoni per i titoli dei giornali, nuovi reati e innalzamenti di pene per parlare alla pancia del Paese. Dall’altro lato quella di usare la giustizia come clava contro l’avversario politico. Si difende il compagno di partito e si pretendono le dimissioni dell’avversario, anche se non ha neppure potuto difendersi, conta l’accusa e basta”. Dicevamo il bilancio del congresso...Qualche applauso l’ha strappato pure il ministro Carlo Nordio, nonostante si sia mostrato deciso ad andare avanti con la separazione delle carriere dei magistrati. “È stata una recita. Tutti i protagonisti sanno che in questa legislatura non si potrà completare l’iter della separazione delle carriere perché il governo ha perso più di un anno e mezzo. Detto ciò, a scanso di equivoci, a me la separazione delle carriere convince eccome. È fondamentale che il pubblico ministero torni a recitare il ruolo di avvocato dell’accusa e il giudice ad essere terzo e imparziale. E mi piace pure l’istituzione di un’Alta corte per gestire la giustizia domestica dei magistrati, da sempre poco inclini a tributarsi sanzioni da soli. Se solo il governo si fosse accodato alla mia proposta di legge anziché dormire per un anno e mezzo, l’iter sarebbe avanzato. Ora invece forse si concluderà a inizio 2027, quando il peraltro il Csm sarà stato nuovamente eletto”. Il governo non avrà preso in considerazione la sua proposta sulla separazione ma quella sul normare l’uso dei trojan pare di sì. Nei prossimi giorni si impegnerà con un ordine del giorno a farlo? “Ma vede io ho presentato in passato svariati emendamenti sui captatori informatici, stavolta li ho fatti al ddl cybersecurity. Il governo però mi ha chiesto di fare un passo indietro perché non voleva divisioni su questo testo. Io ho concordato, ma come atto di indirizzo presenterò un ordine del giorno che li impegna ad intervenire prima possibile” Dal caso Palamara in poi lei è diventato un po’ l’anti-trojan per eccellenza in Parlamento, ma secondo alcuni giornali senza usare gli smartphone degli indagati come captatori il caso Liguria di cui si discute in queste ore non sarebbe neanche venuto fuori... “Partiamo dal presupposto che la giustizia deve rispettare i princìpi costituzionali. Qui ogni volta che qualcuno fa proposte garantiste si dice che sono un favore alla criminalità, mentre queste proposte sono finalizzate ad attuare principi di civiltà giuridica, dalla presunzione di innocenza al diritto di difesa al giusto processo. Detto ciò, anche la riservatezza è un principio costituzionale che va garantita a tutti a meno che non vi siano esigenze superiori. Non basta che il pm o il gip schiocchino le dita per disporre intercettazioni telefoniche e ambientali. Ci vogliono presupposti rigorosi. C’è la corte di Giustizia Ue che bacchetta i Paesi anche solo per l’uso dei tabulati telefonici e noi disponiamo a piacimento dei trojan. Sono strumenti molto invasivi, in grado di accendere il microfono degli smartphone, la telecamera, di leggere qualsiasi dato nel cellulare, di visualizzare foto e rintracciare la posizione gps, prendere tutto ciò che viene digitato come password o codici della carta di credito. È un’invasione enorme. Non è un caso che la giurisprudenza prima di Orlando e di Bonafede li disponesse solo per reati associativi”. In altre parole punta a tornare a prima della spazzacorrotti? “Sarebbe un primo passo in avanti. In generale penso che ci debba essere una seria riflessione sul mezzo di ricerca della prova. Serve proporzionalità e ponderazione. Altrimenti ci ritroveremo travolti un giorno dall’innovazione tecnologica. Pensiamo a come l’intelligenza artificiale può alterare le voci intercettate. Per di più il trojan produce principalmente elementi mediatici, non prove di reati. Però è questo che oggi interessa, discutere solo delle accuse nelle indagini preliminari. Poi i riflettori durante il processo si spengono. E pure la politica, come dicevo prima, trae conclusioni su tesi di accusa quando la difesa non ha neanche aperto bocca, non c’è stato interrogatorio o riesame. È da brividi. Vedo prese di posizione di alcuni partiti che non hanno nulla a che fare con i principi costituzionali, tranne poi agitarli quando toccano i loro amici”. Stiamo riparlando del caso Liguria? “Direi di sì. Bari e Genova due facce della stessa medaglia. In Puglia forze politiche di maggioranza hanno fatto conferenze stampa sulla mafia a Bari, mentre la sinistra scendeva in piazza a favore della presunzione d’innocenza. In Liguria si sono invertiti i ruoli. Il Pd e il M5s chiedono le dimissioni dopo due ore dalle notizie delle indagini, e quelli che a Bari sparavano a zero che ora si dicono garantisti. Vorrei solo un po’ di equilibrio. Proprio come per l’uso dei trojan”. Quindi cosa ipotizza per i trojan? “Una regolamentazione, che stabilisca per quali reati e per quali no possa essere utilizzato. Sposo la tesi della Cassazione che li prevede per reati gravi e gravissimi, e per i reati associativi. Non credo interessi a nessuno avere intercettazioni in bagno o in camera da letto. Bisogna introdurre delle condizioni, anche perché i testi vengono utilizzati tranquillamente nelle ordinanze, per chiarire il contesto e poi finiscono sui giornali distruggendo l’immagine delle persone”. Cantone: “Toghe intimidite, trojan vietati e reati aboliti. La lotta ai corrotti diventerà una missione impossibile” di Liana Milella La Repubblica, 12 maggio 2024 Parla il procuratore di Perugia: “La separazione delle carriere è inopportuna. Colpire le indagini sulla collusione indebolisce anche la lotta alla mafia. È indispensabile una legge sul conflitto d’interessi”. Procuratore Raffaele Cantone come mai non è qui a Palermo al congresso dell’Associazione nazionale magistrati? “Pur essendo iscritto all’Anm da quando sono entrato in magistratura, di rado ho partecipato ai congressi, ma quest’anno avrei davvero voluto esserci. Purtroppo non ce l’ho fatta, perché non sono riuscito a organizzarmi per ragioni di lavoro. Ci sono però con il cuore e sto seguendo da lontano i lavori con grande interesse”. Allora ha sentito Nordio? “Sì certo, e spero che quelle dette sull’indipendenza della magistratura siano rassicurazioni effettive perché non mi sembrano molto compatibili con le osservazioni fatte in altre occasioni. Spero che queste ultime siano quelle definitive e possano tranquillizzare la magistratura. Ovviamente mi rende meno sereno la prospettiva, pure paventata dal ministro, della separazione delle carriere che non ritengo né opportuna né necessaria”. Nordio ha detto che si farà sicuramente perché l’hanno chiesta gli elettori col voto... “Non voglio entrare in questioni politiche, ma avrei dei dubbi nel ritenere che le ragioni del voto all’attuale governo siano giustificate da questo obiettivo. Credo che gli elettori abbiano tutt’altri interessi e tutt’altre preoccupazioni in questo momento storico”. A chi, come il vicepresidente del Csm Pinelli, ricorda che anche il pm ha il dovere di essere imparziale, pur se veste i panni dell’accusa, cosa risponde? “Credo che l’attuale assetto dei poteri garantisca molto di più l’imparzialità di quanto non la garantirebbe la separazione delle carriere. Il pm separato dal giudice si trasformerebbe sempre più in un avvocato dell’accusa e sempre meno in un organo che svolge funzioni imparziali, come richiede invece l’attuale codice di procedura penale che impone al pm di ricercare anche le prove a favore dell’imputato”. Giusto in questo momento, dopo l’inchiesta in Liguria, i poteri del pm sono pesantemente messi in discussione. Vede i suoi colleghi in pericolo? “Non capisco proprio perché dovrebbero esserlo. I pm, da quello che ho letto, hanno chiesto la misura cautelare a dicembre e c’è stato un giudice che ha ritenuto che ricorressero i presupposti per autorizzarla. E ce ne sarà un altro, quello del riesame, che deciderà se le misure sono legittime”. Ma ha visto che Matteo Salvini rilancia addirittura la responsabilità civile personale e pecuniaria per le toghe? “La norma sulla responsabilità civile c’è ed è stata ritenuta adeguata dalla Consulta. Garantisce in modo corretto le esigenze delle parti private eventualmente danneggiate da atti dei magistrati, senza minare l’indipendenza della magistratura. Non si può e non si deve pensare alla responsabilità civile come uno strumento di intimidazione per le toghe, perché magistrati intimiditi non sarebbero una garanzia per i cittadini sia quando si occupano di corruzione, sia quando indagano su mafia e di terrorismo”. Forse la politica vorrebbe che voi pm vi occupaste solo di orrendi delitti, di mafia e terrorismo, ma non di corruzione... “Mi auguro che quest’affermazione non sia vera. La corruzione è un reato particolarmente grave, e non lo dico certo io, ma le convenzioni internazionali a partire da quella dell’Onu. È giusto che i magistrati si occupino dei reati di grave allarme sociale, ma i cittadini sono ugualmente preoccupati da eventuali comportamenti disonesti di chi esercita il potere”. Vede una nuova Tangentopoli? “Spero assolutamente che non sia così, ma certamente l’indagine genovese smentisce chi troppo trionfalmente va affermando che la corruzione è un problema ormai superato”. Beh… le ultime indagini dimostrano che certa politica non è ancora all’altezza di prendere decisioni con le “mani pulite”... “Ferma restando la presunzione d’innocenza per i singoli soggetti coinvolti, dalla vicenda di Genova emergono una serie di temi che appaiono un po’ un refrain e che sono da anni irrisolti”. A che si riferisce? “Al finanziamento della politica, ai meccanismi trasversali utilizzati attraverso le fondazioni, che non garantiscono, malgrado i primi interventi della legge Spazzacorrotti, la necessaria trasparenza dei finanziamenti medesimi. Ha ragione l’attuale presidente dell’Anac Busia a ritenere indispensabile una legge seria sul conflitto d’interessi perché finché ci sarà opacità dei rapporti tra chi esercita il potere e il mondo imprenditoriale ed economico la corruzione la farà da padrona”. Lei cita la legge Spazzacorrotti di Bonafede, cioè proprio quella che, pezzo pezzo, stanno spazzando via. Basti pensare all’attacco continuo contro la microspia Trojan da escludere per la corruzione... “Sarebbe una scelta legittima certamente, ma pericolosa. Se questa novità intervenisse, aggiunta all’abrogazione dell’abuso d’ufficio e al ridimensionamento del traffico di influenze, le indagini sulla corruzione diventerebbero impossibili e di fatto si avvererebbe l’auspicio di chi ritiene che la corruzione vada eliminata dal codice penale”. Guardi che lo vuole quasi i due terzi del Parlamento... “Ne prendo atto. È la democrazia. Ma ciò non impedisce di criticare una scelta, seppure adottata da un’ampia maggioranza, se non la si ritiene condivisibile. Vorrei ricordare che indebolire le indagini sulle collusioni delle amministrazioni finisce per depotenziare anche quelle sulla criminalità organizzata, come più volte ha affermato l’attuale procuratore nazionale Antimafia Melillo”. Brescia. I detenuti di Canton Mombello: “Condizioni inumane, restituiteci la nostra dignità” di Andrea Cittadini Giornale di Brescia, 12 maggio 2024 L’appello al presidente Emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato, che ha visitato il penitenziario: “Giusto pagare le proprie colpe, ma nessuno ha il diritto di privarci dell’umanità e della speranza”. Una decina di pagine. Piene di domande, ma anche cariche di emozioni e riflessioni. “Perché, se la pena deve tendere alla rieducazione, l’Italia permette l’ergastolo ostativo in contrasto non solo con la Costituzione ma anche con le normative europee stesse? Come può essere la pena rieducativa in carceri sovraffollati, con carenza di personale e strutture vetuste?”. E ancora: “Come può il carcere essere riabilitativo se all’interno di strutture sovraffollate il 40% dei detenuti ha conclamati problemi psichiatrici ingestibili dagli istituti di pena?”. Sono solo alcune delle domande che i detenuti di Canton Mombello hanno presentato a Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio e presidente Emerito della Corte Costituzionale, che nelle scorse ore ha visitato il carcere più sovraffollato d’Italia dopo che giovedì aveva reso omaggio alle vittime del terrorismo. “Un incontro emozionante e carico di significato” lo ha definito chi c’era. “Il problema principale, in questo istituto, ma non solo, è che all’interno di questa struttura ci sono persone detenute per un numero più che doppio rispetto alla capienza regolamentata: su 189 posti disponibili siamo, oggi, circa in 400” hanno detto le persone oggi in cella a Canton Mombello. “Ci sono alcuni di noi che per anni, tutti i giorni, ogni minuto della loro vita, devono condividere con altre 15 persone una stanza di pochi metri quadrati. Non solo, con loro devono anche condividere un unico bagno o, meglio, una vecchia turca fatiscente cui sopra è posto un tubo dell’acqua per farsi la doccia, nel caso in cui si è fortunati, perché in molte altre carceri, le docce sono comuni e disponibili solo per pochi minuti la mattina. Ecco, queste persone siamo tutti noi” le parole dei detenuti di Canton Mombello. Che ad Amato hanno raccontato la loro quotidianità in spazi stretti e obsoleti. Inumani. “Passiamo l’intera giornata chiusi in una cella dove è impossibile stare in piedi tutti insieme: siamo di culture, lingue, etnie, religioni diverse, fatichiamo a comprenderci, a comunicare, a concepire le abitudini degli altri perché a noi stessi estranee. La maggior parte sono tabagisti, fumano in continuazione per lo stress della vita in cattività, ammassati gli uni sugli altri come polli in batteria. Chi può permetterselo prova a cucinare, però pranzo e cena sono preparate in bagno e la preparazione viene più e più volte interrotta, perché bisogna uscire e lasciarlo a chi deve espletare qualche bisogno e, essendo in quindici, succede continuamente”. Passano le stagioni, non cambiano le condizioni: “D’inverno con le finestre a vetro singolo in plexiglass, necessariamente chiuse per il freddo pungente incontrastabile dal riscaldamento vetusto e fatiscente, i muri gonfi di umidità, ghiacciati, la mancanza di areazione con i conseguenti odori acri, pungenti, nauseabondi. D’estate nell’arsura più totale, i polmoni infuocati, una sola finestra con tre file di sbarre roventi, dove l’aria non passa, ma entra surriscaldata dal ferro e dal cemento bollente”. Nessuno dei detenuti si è nascosto, ma tutti hanno chiesto un intervento delle istituzioni. “È giusto pagare le proprie colpe, è giusto saldare il proprio debito con la società, ma non si può prescindere dalla dignità dell’uomo. Con il sovraffollamento - hanno detto a Giuliano Amato i detenuti di Canton Mombello - ci è stata tolta la libertà, la dignità, l’intimità, tutto, ma nessuno ha il diritto di privarci dell’umanità e della speranza”. Milano. Sistema Beccaria, parlano altri detenuti tra paura e conferme di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 12 maggio 2024 Sono 13 i ragazzi - tutti ancora in cella all’Ipm - convocati dalle pm perché chiamati in causa da altre vittime o che hanno chiesto di essere ascoltati. In tre hanno già parlato davanti ai magistrati. Per ore, negli uffici della procura. Sono serviti due pomeriggi per ascoltarli. E non è stato facile, con alcuni detenuti, instaurare subito un dialogo. Convincerli ad aprirsi, raccontare. La prima sensazione che descrive chi li ha visti è quella della paura. Alcuni erano italiani, per altri è stato necessario l’aiuto di un interprete. Fiumi d’inchiostro sui verbali, resoconti di botte e pestaggi. Poi di nuovo dentro. Al Beccaria. Con meno clamore, ma non con meno intensità, va avanti l’inchiesta sul carcere minorile. La prima fase ha portato a ricostruire le storie dei detenuti che, secondo le accuse, sono stati vittime di torture, lesioni e maltrattamenti. Sulla base delle prime indagini, la gip Stefania Donadeo ha arrestato in carcere tredici agenti di polizia penitenziaria (quattro nel frattempo sono andati ai domiciliari) e sospeso otto loro colleghi (alcuni dei quali hanno ottenuto di poter tornare al lavoro ma non dov’erano in servizio prima). Per altre divise pende il Riesame. Ora le indagini delle pm proseguono con l’ascolto di altri detenuti. Almeno tredici. Con una differenza, rispetto a prima: che salvo eccezioni non si tratta più di ex reclusi del Beccaria, ma di attuali ospiti del carcere. Con tutto il carico emotivo che questa differenza comporta, visto che bisogna parlare di luoghi dove, alla fine, poi bisogna ritornare. Dai primi tre interrogatori con i giovani detenuti sono in sostanza emersi racconti compatibili con quelli di chi ha già parlato prima. Pestaggi, botte e violenze. Parole che andranno verificate e blindate con le indagini, l’ascolto di testimoni, la visione di telecamere, l’analisi di cartelle cliniche, le verifiche sugli agenti di polizia penitenziaria. Le nuove presunte vittime sono state individuate principalmente in due modi. Da un lato, si è arrivati a loro attraverso i racconti di altri ragazzi, che non hanno parlato soltanto delle violenze subite in prima persona ma hanno raccontato quello che poi pm e giudici hanno definito un “sistema” di violenze all’interno dell’istituto minorile. Dall’altro lato, sono stati alcuni ragazzi, attraverso i loro avvocati, a farsi avanti per chiedere di essere sentiti. Un altro fronte sarà quello di sentire i genitori, come già avvenuto per alcune delle vicende già accertate: “Aveva segni di percosse sul viso, un segno nero sotto l’occhio, la guancia arrossata. Mi disse che era stato picchiato da tre agenti”, raccontò la madre di un detenuto che aveva scoperto le botte al figlio soltanto in videochiamata e aveva scritto una mail all’ex direttrice del carcere Maria Vittoria Menenti: “So che lei è intervenuta a seguito delle urla. Ciò che è successo è gravissimo. Mio figlio è stato ammanettato e picchiato, l’impronta dell’anfibio era ancora sulla testa quando è giunto in pronto soccorso. I segni sulla psiche non si cancellano. Soffro al pensiero di come si sia sentito in quegli attimi terribili. Solo, maltrattato, impotente”. Il fronte degli accertamenti sui giovani detenuti andrà avanti necessariamente per giorni, anche perché non è semplice. Poi le indagini - coordinate dalla procuratrice aggiunta Letizia Mannella e dalle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena e condotte dalla Squadra mobile della Questura e dal nucleo investigativo della Polizia penitenziaria - si concentreranno sulla tranche delle presunte omissioni valutando le posizioni degli ex vertici del Beccaria, del personale educativo, sanitario, assistenziale. Di recente, la procura ha disposto l’acquisizione di tutte le cartelle cliniche dei detenuti durante gli ultimi due anni. Reggio Emilia. “Torture in carcere”. Domani il presidio di Volt davanti al tribunale Il Resto del Carlino, 12 maggio 2024 Il video di violenza sui detenuti nel carcere di Reggio Emilia porta all’indagine di 10 poliziotti penitenziari per tortura e falso. Volt denuncia la mancanza di tutela dei diritti carcerari e critica l’assessore alla Legalità per difendere uno degli agenti imputati. Risalgono al 3 aprile 2023 e sono stati registrati dalle telecamere di sorveglianza del carcere di Reggio Emilia i video incriminati in cui si vedono esplicite immagini di violenza ai danni di un detenuto. “Le riprese mostrano un gruppo di agenti del carcere incappucciare, trascinare lungo il corridoio, picchiare e prendere a calci l’uomo - si legge in una nota di Volt, un movimento paneuropeo -. Il materiale al momento è agli atti dell’indagine contro 10 poliziotti penitenziari, accusati non solo di tortura ma anche di falso, avendo tentato di coprire l’accaduto. Video che dovrebbero far riflettere, e soprattutto accendere i riflettori sulla mancanza e, troppo spesso, sulla completa assenza di tutela dei diritti delle persone ristrette nelle carceri italiane”. E aggiungono: “Il Comune di Reggio Emilia non si è nemmeno costituito parte civile al processo, mentre l’assessore con delega alla Legalità, l’Avvocato Nicola Tria, presenzierà come difensore di uno degli agenti indagati per tortura e lesioni personali. Come Volt Emilia Romagna, abbiamo sollevato dubbi sulla linea seguita dalla giunta Vecchi sulla questione, esplicitandoli in una lettera indirizzata al sindaco firmata da più di 100 cittadini e cittadine. Alla luce di tutto ciò, saremo presenti lunedì 13 maggio dalle 9 alle 12 di fronte al tribunale di Reggio (via Paterlini 1), per far sentire la nostra voce”. Firenze. In carcere 5 mesi per tentato omicidio: ma lui quel giorno era in un altro posto di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 12 maggio 2024 La vicenda di un cittadino pakistano: denunciato, arrestato e scagionato dopo aver passato in carcere più di 5 mesi. Adesso sarà risarcito con 80mila euro. Era finito in carcere con l’accusa di tentato omicidio per aver travolto con l’auto l’uomo che lo aveva denunciato nell’ambito di un’inchiesta sul caporalato. Ma quasi tre anni dopo il tribunale di Prato lo aveva assolto per non aver commesso il fatto. Adesso per quei 5 mesi in cella e 6 ai domiciliari la Corte d’Appello di Firenze ha riconosciuto a un pakistano di 61 anni, assistito dall’avvocato Stefano Belli, un risarcimento per ingiusta detenzione pari 80 mila euro. La vicenda - La vicenda parte nel febbraio 2017 quando l’uomo, insieme a un connazionale, viene sottoposto a fermo per tentato omicidio di un marocchino che li aveva denunciati come i suoi sfruttatori dopo un infortunio sul lavoro. L’uomo venne abbandonato dai “caporali” davanti all’ospedale di Prato e raccontò che era caduto da un albero mentre lavorava nei campi. Pochi giorni dopo quell’episodio il marocchino fu investito da un’auto pirata a Galciana. Sembrava un incidente stradale ma il marocchino disse di aver riconosciuto nell’auto che fuggiva i due pakistani che aveva denunciato. I due finirono così in carcere. Da lì inizia la vicenda di Ahmed Gulzar. La Procura di Prato chiede l’incidente probatorio che però non viene mai fatto perché nel frattempo il pm titolare dell’inchiesta viene trasferito. Si arriva al processo con il reato derubricato da tentato omicidio a lesioni personali. Il pakistano viene scarcerato dopo che gli inquirenti accerteranno grazie, alle celle telefoniche, che nel giorno e nell’ora dell’incidente lui e il suo connazionale si trovavano all’Impruneta e non a Galciana. Nel corso del processo il marocchino scagiona i pakistani e dice di essersi sbagliato. Così nell’ottobre 2019 l’uomo viene assolto per non aver commesso il fatto. Il risarcimento - Sette anni dopo l’arresto la Corte d’appello di Firenze, presieduta da Francesco Bagnai, ha riconosciuto il risarcimento. “L’accusa a carico di Gulzar - scrivono i giudici - era fondata su un riconoscimento fotografico fatto dalla persona offesa in fase di indagini preliminari. Ma la stessa persona offesa durante il processo ha negato di lui fosse uno dei suoi aggressori e ha ammesso che si era sbagliato: d’altra parte aveva descritto il suo aggressore come alto e magro mentre Gulzar ha una corporatura diversa ed è corpulento”. Una prima istanza per ingiusta detenzione era stata rigettata nel novembre 2021: i giudici avevano imputato a Gulzar una sorta di “colpevole inerzia” nel difendersi dato che nel corso dell’interrogatorio di garanzia si era avvalso della facoltà di non rispondere e per non aver chiesto subito un incidente probatorio per confutare il riconoscimento fotografico. L’avvocato Belli non si è però arreso. E ha fatto ricorso in Cassazione. Nel dicembre 2022 i giudici supremi hanno annullato l’ordinanza e hanno rinviato ad un’altra sezione della Corte d’Appello di Firenze. A gennaio è arrivata la decisione che ha riconosciuto le ragioni del pakistano. La Cassazione ha spiegato che avvalersi della facoltà di non rispondere non incide sul diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. I giudici toscani spiegano che l’indennizzo va riconosciuto anche se “la sua scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere rimane poco razionalmente spiegabile”. Per i 221 giorni trascorsi in cella e i 120 giorni agli arresti domiciliari il risarcimento è stato quantificato in 66 mila euro: per ogni giorno in carcere va liquidata la cifra di 235,82 euro e per ogni giorno di arresti domiciliari circa la metà:117,91 euro. Ai 66 mila euro poi va aggiunto anche il conto del danno derivato dal fatto che la misura cautelare ha privato la sua famiglia (aveva quattro figli piccoli quando è stato arrestato) della principale fonte di reddito. Si arriva così a 80 mila euro. “L’errore - spiega l’avvocato Belli - è fisiologico nelle vicende umane come nei processi. Quello che è patologico è non voler riconoscere l’errore e anzi negarlo, come è accaduto quando abbiamo presentato la prima istanza”. Piacenza. I detenuti coltivano la speranza: l’orto del carcere apre le sue porte di Marcello Tassi Libertà, 12 maggio 2024 È senza dubbio l’orto più “segreto” di Piacenza, quello coltivato dai detenuti che abitano il carcere delle Novate e sabato 11 maggio ha aperto le sue porte al pubblico di Interno Verde. La seconda edizione del festival dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città è stata inaugurata con un evento decisamente inusuale, organizzato grazie alla collaborazione della direzione della casa circondariale: una visita guidata - alla quale hanno preso parte una trentina di persone - che ha permesso loro di scoprire la natura che cresce all’interno del muro di cinta dell’istituto, curata e coltivata dai detenuti stessi grazie a un progetto di notevole impatto e significato. “Ci troviamo all’interno di uno spazio molto delicato - ha spiegato Giulia Nascimbeni di Interno Verde - ma che proprio per questo incarna perfettamente l’anima del nostro progetto, dove il giardino è soltanto un mezzo per raccontare la socialità e le attività che avvengono in questi spazi verdi. È la prima volta che Interno Verde entra nel carcere di Piacenza, un evento per il quale abbiamo ricevuto tantissime richieste di partecipazione”. “Sentiamo crescere da parte dei piacentini - ha spiegato Maria Gabriella Lusi, direttrice del carcere delle Novate - un interesse positivo e costruttivo nei confronti della nostra realtà e questo, per noi, rappresenta uno stimolo per fare sempre meglio. Il nostro obiettivo primario è il mantenimento della sicurezza penitenziaria e nella misura in cui questo obiettivo diventa compatibile con forme di apertura alla comunità esterna, la casa circondariale risponde sempre presente. Tutto questo attraverso esperienze trattamentali diversificate: oggi, ad esempio, parliamo di lavoro e di attività di volontariato da parte dei detenuti, attraverso la coltivazione di spazi. Parliamo del progetto Ex Novo, parliamo di vita penitenziaria. Le Novate è una realtà dinamica e che in situazioni come quella odierna ha l’occasione di crescere insieme alla sua città”. Alle Novate la coltivazione è stata avviata nel 2018, insieme agli operatori della cooperativa L’Orto Botanico, i quali hanno destinato un’area alle verdure più comuni, dalle zucche ai pomodori, e un’area alla serra delle fragole. Da questo spazio, tecnologicamente all’avanguardia, si ricavano ogni anno oltre 4mila chili di frutta. Nel febbraio 2024, inoltre, è stata inaugurata un’ulteriore realtà: il laboratorio di trasformazione agroalimentare, per la preparazione di marmellate, confetture e salse. Il marchio Ex- Novo, che contraddistingue questi prodotti, è già noto ai cittadini. Le fragole si possono acquistare alla Coop, gli ortaggi e il miele si trovano al mercato contadino oppure nel chioschetto in legno posto nei pressi dell’ingresso della Casa Circondariale. “Per i detenuti - ha aggiunto Fabrizio Ramacci della Cooperativa sociale L’Orto botanico - dedicarsi a questo genere di attività rappresenta un’importante occasione per mettersi alla prova. Entrando a far parte di questo progetto diventano dipendenti a tutti gli effetti, assunti dalla cooperativa: devono quindi cimentarsi con un lavoro vero e proprio. Ricevono un riconoscimento economico, importantissimo perché non tutti i detenuti, al di fuori del carcere, hanno delle famiglie in grado di sostenerli. In altri casi, tale riconoscimento serve a mantenere moglie e figli”. Catania. Libri in carcere. “Donne che raccontano” esperienzeconilsud.it, 12 maggio 2024 “Quando si aprono le porte del carcere ti aspetti di percepire subito la sofferenza e la severità di una limitazione assoluta della libertà - racconta Elvira Tomarchio, coordinatrice del progetto La Comunità dei LibEri - in verità varcata la soglia del carcere di Piazza Lanza a Catania non abbiamo sentito paura, né disagio. Tutto appariva sereno: le detenute, le guardie. Si riusciva persino a scorgere attimi di libertà. Poi nella stanza sono arrivate le donne detenute e abbiamo iniziato a conoscerci. Abbiamo iniziato a leggere insieme”. Il progetto La Comunità dei LibEri sostenuto da Fondazione con il Sud e dal Cepell in collaborazione con Anci ha l’obiettivo di portare il libro dove di solito non si legge e di portare la gente che non legge nelle biblioteche. Un continuo sperimentare di iniziative, strategie, occasioni per favorire la lettura e aiutare a trasformare le biblioteche in luoghi vivi, popolati, cuori pulsanti di una cultura aperta a tutte e tutti. L’impegno del Comitato Antico Corso, capofila del progetto, continua a varcare frontiere materiali e immateriali. Il libro e le letture animate arrivano ovunque: nei luoghi della storia della città, nei mercati, nei parchi, tra stranieri, non vedenti, bambini, quartieri abbandonati. In questi giorni le letture sono entrate anche nella sezione femminile del carcere di Piazza Lanza, grazie a una collaborazione avviata con l’Istituto grazie all’impegno della Direttrice Nunziella Di Fazio. “Da tempo lavoriamo con le donne sul tema del contrasto alla violenza di genere - ci racconta la Dottoressa Di Fazio - consapevoli che quella violenza è spesso frutto di un’asimmetria tra uomo e donna e che quindi è necessario creare consapevolezza nelle donne, sulle loro potenzialità, sul loro ruolo. Quest’anno allora abbiamo scelto di focalizzare il nostro lavoro su questo, incentivando la realizzazione di iniziative con questo scopo”. È a questo punto che arriva la proposta di Elvira Tomarchio di portare letture di donne, per donne, all’interno del carcere. È una piccola ma profonda rivoluzione di significati. Quando si scrisse il progetto e si immaginò come titolo “La Comunità dei LibEri” si scelse di giocare sul senso di libri e liberi, consegnando l’idea che il libro genera libertà, apre gli orizzonti, spalanca le porte della mente e dell’anima. Mai si sarebbe pensato, a quel tempo, che quelle parole di libertà avrebbero trovato un senso così profondo portando la lettura anche in carcere. “Donne che raccontano”, si chiama così il titolo dell’iniziativa, con letture di novelle e racconti di Giuseppe Pitrè su usi, costumi e credenze del popolo siciliano. Laboratori di lettura condotti da Nunziata Blancato e Cristina Piazza. “Un’occasione - dice la Dott.ssa Di Fazio - per comprendere la donna in Sicilia e nel mondo. Attraverso l’analisi del ruolo che aveva la donna in passato si è arrivati a capire il ruolo della donna oggi, con un passaggio indiretto ma chiarissimo sulla violenza, la sottomissione, la paura della libertà delle donne”. Ma quale ruolo assumono i libri in carcere? In una situazione di privazione della libertà, ha un valore diverso leggere? In una condizione di tempi vuoti, di spazi da riempire, che ruolo ha la lettura? “C’è una frase di Baricco, all’inizio di uno dei suoi libri, molto calzante, che mi torna in mente adesso: un libro è una finestra sul mondo. Io lo credo davvero. Un libro ti fa entrare in un mondo diverso da quello che vivi e questo vale dentro e fuori il carcere. In carcere certo noi dobbiamo riempire tanti vuoti. Questo lo facciamo con le attività, che dovrebbero essere individualizzate, capaci di portare i detenuti a prendere coscienza di sé. Noi dobbiamo tentare di evitare che si evitino i vuoti, l’abrutimento nell’ozio. I libri ci aiutano molto. Non è semplice riempire tutto lo spazio temporale tra l’ingresso in carcere e il momento in cui si esce fuori. Bisogna fare in modo che quel tempo non sia solo un tempo di attesa. Dal libro impari, il libro può aiutare a crescere, il libro è uno strumento di studio. Il carcere di Catania è un polo universitario e consente a tanti di conseguire la laurea. Anche quelli universitari sono libri”. Quanto leggono le detenute? “Abbastanza. Ma dipende dal livello culturale. C’è chi non ha gli strumenti per leggere, chi non ha mai letto un libro”. Anche a questo serve la lettura animata proposta dal progetto, non solo leggere ma ascoltare leggere. E così dare spunti per capire gli altri e capirsi. Conquistare piccoli pezzi di libertà. Teramo. Mestieri del teatro, un corso per i detenuti Il Centro, 12 maggio 2024 Un percorso formativo incentrato sui mestieri del teatro: è quello attivato nel carcere di Castrogno grazie a un progetto di Acs, Circuito Spettacolo Abruzzo Molise, in collaborazione con la casa circondariale di Teramo, la Fondazione Tercas e il Comune. A misurarsi col mondo dell’arte saranno venti detenuti che hanno aderito all’iniziativa, presentata ieri mattina all’Arca dai promotori. Il progetto si chiama “Giocare a calcio è semplice?” e si compone di corsi sui diversi mestieri presenti nel mondo del teatro (attori, drammaturghi, scenografi, costumisti e tecnici) erogati da professionisti competenti secondo un preciso calendario didattico che è appena partito e andrà avanti fino a fine anno. Saranno 313 le ore di lezione complessive col rilascio, al termine del ciclo, di un attestato di qualifica. Il percorso formativo, a cura del maestro Domenico Polidoro, direttore artistico di Acs, è focalizzato su “Finale di partita” di Beckett in relazione al gioco del calcio, e vedrà salire in cattedra il maestro Davide Verticelli, pianista, compositore e regista; l’artista Marino Melarangelo; il fotografo cinematografico Gianni Chiarini; lo scenografo Filippo Iezzi; il direttore di scena Angelo Boccadifuoco e l’ex giocatore e allenatore di calcio Antonio Valbruni. Il progetto è alla sua seconda edizione ma, come ha spiegato in conferenza stampa il maestro Polidoro, l’aspirazione e l’auspicio di esperienze di questo genere sono di approdare ad un laboratorio stabile e permanente all’interno del carcere di Castrogno. Il percorso attivato prevede l’acquisizione pratica delle abilità professionali utili all’inserimento lavorativo nella produzione dello spettacolo dal vivo con una messa in scena a conclusione del ciclo di formazione. I promotori e i sostenitori del progetto hanno ringraziato l’istituto di pena per la collaborazione sottolineando la valenza di attività di questo genere, capaci non solo a migliorare la vita di chi è in carcere ma anche di creare un ponte fra la comunità interna all’istituto e quella esterna. Perugia. “La popola del futuro ama”, detenuti in scena al carcere di Capanne tuttoggi.info, 12 maggio 2024 Lo spettacolo, diretto da Vittoria Corallo, è parte del progetto Per Aspera ad Astra di Acri. Una produzione del Teatro Stabile dell’Umbria con il sostegno di Fondazione Perugia. Applausi ed emozioni giovedì 9 maggio 2024 all’interno della Casa Circondariale di Capanne, a Perugia, dove è andato in scena lo spettacolo “La popola del futuro ama”, diretto dalla regista Vittoria Corallo, prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria e voluto e sostenuto da Fondazione Perugia. A esibirsi sul palco, alcuni detenuti-attori del carcere e un gruppo di studentesse e studenti dei licei Di Betto e Galilei e del Laboratorio Teatrale Universitario dell’Università degli studi di Perugia. Il progetto fa parte della sesta edizione di “Per Aspera Ad Astra - riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso da Acri, l’associazione delle Fondazioni delle Cassa di Risparmio italiane. Presenti fra il pubblico anche Antonella Grella, direttrice della Casa Circondariale di Capanne, Stefano Salerno del Teatro Stabile dell’Umbria e il Direttore generale di Fondazione Perugia Fabrizio Stazi, oltre a diversi componenti dei loro staff e a molti detenuti e agenti penitenziari. Lunedì 13 maggio lo spettacolo andrà in scena a ingresso gratuito anche al Teatro Morlacchi di Perugia, dove è già tutto esaurito. “La popola del futuro ama - spiega la regista Vittoria Corallo - nasce dalla lettura condivisa di Tutto sull’amore e dalle discussioni accese che ha generato tra di noi durante il laboratorio in carcere. L’idea di gioco è nata mentre scoprivamo, capitolo dopo capitolo, un riverbero nuovo, come i cerchi nell’acqua che continuano a formarsi dopo il lancio del sasso. Un gioco senza regolamento, in cui le prove e le tappe cercano di condurre le pedine a fare esperienza delle parole totemiche disseminate dall’autrice nei 13 capitoli del libro. Lo svolgimento è l’incontro, tra alcune figure e gruppi di figure, spesso rinchiuse in ruoli prestabiliti: gli uomini, i giovani, le femmine, i maschi, le donne, i bambini, attraverso la loro relazione proveranno ad attuare questa visione dell’amore. I protagonisti di questo gioco-spettacolo dovranno misurarsi con dei compiti per raggiungere una nuova coscienza collettiva dell’amore, che lo guarisca e lo liberi dagli abusi e dalle interpretazioni pericolose, che spesso vengono incarnate e trasmesse nello spazio privato e in quello pubblico, causando dolore in nome di esso. La Popola è il germe di questa nuova traccia umana del futuro, e ama fin da ora.” Per Aspera Ad Astra è nato nel 2018 ed è in corso oggi in 15 carceri italiane. L’iniziativa, promossa da Acri e sostenuta da 11 Fondazioni, dal 2018 ha coinvolto oltre 1000 detenuti, che partecipano a percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro riguardati non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Da quest’anno il progetto ha anche un proprio sito internet, dove è possibile consultare il calendario di tutti gli spettacoli sul territorio nazionale: https://perasperaadastra.acri.it/. In carcere per 33 anni. Innocente di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 12 maggio 2024 Le intercettazioni risolutorie, che avrebbero sciolto un giallo lungo 33 anni, erano in lingua sarda. Per tradurle gli esperti del tribunale hanno impiegato circa 29 mesi, un tempo che è andato a sommarsi al resto, vita sottratta al detenuto modello Beniamino Zuncheddu. È una delle tante iniquità che hanno accompagnato il caso giudiziario più lungo della Repubblica. Quello di un servo pastore finito dentro per la strage del Sinnai, in cui morirono tre uomini mentre un quarto si salvò per caso (era il 1992). Il libro - “Io sono innocente”, edito da De Agostini (pp. 256, e 18) - scritto dall’avvocato Mauro Trogu e dallo stesso Zuncheddu parla di beridadi (verità, in lingua sarda) che non coincidono con la giustizia processuale. Riflessione su un metodo così imperfetto da risultare allarmante, con magistrati che quasi affondano nella zona grigia del pentitismo, poliziotti dai metodi opachi, giudici troppo pigri per fare un banale sopralluogo. Ma anche riflessione su un sistema giudiziario in cui la “sana cultura del dubbio” stenta a decollare. In quest’epoca di strapotere inquirente, Zuncheddu, servo pastore dai 17 anni, quando con la licenza media si avventura sulle alture per badare a pecore e capre, possiede solo l’ostinazione dei veri innocenti. Lo invitano, dopo 26 anni in cella, maturata la possibilità della condizionale, a farsi furbo e confessare per uscire. Ma lui continua a ripetere: “Se non ho comprato perché devo pagare?”. Lo dirà anche il 27 gennaio 2024 durante la conferenza stampa organizzata dal Partito radicale per festeggiare la sua assoluzione. Dietro le indagini difensive che porteranno all’istanza di revisione del processo c’è la determinazione di un avvocato inizialmente scettico (“La mia fiducia nella giustizia mi impediva di pensare che vi fosse un uomo innocente dietro le sbarre da decenni”, dirà). Infine l’assist del caso: l’intercettazione in cui il testimone principale del processo, il superstite del massacro Luigi Pinna, svela l’imbroglio a sua moglie. L’identificazione di Zuncheddu quale killer fu frutto di coercizione. Una foto mostrata da un poliziotto ambizioso che invitava il superteste a puntare il dito contro il servo pastore. I veri colpevoli? Li individuerà, forse, l’inchiesta riaperta dalla Procura di Cagliari. Si dubita e si freme leggendo questa storia. Ci si interroga sul significato di quel sostantivo - giustizia - e ciò che ne resta dopo 33 anni di carcere vissuti nella consapevolezza della propria innocenza. Dal carcere, in cerca di un sorriso di Alessandro Chiabrera L’Osservatore Romano, 12 maggio 2024 I minori detenuti raccontati da suor Aurora Consolini e don Nicolò Ceccolini. L’Istituto Penitenziario Minorile di Roma, a Casal del Marmo, attualmente ospita 57 ragazzi e ragazze minori di venticinque anni. Suor Aurora Consolini lavora qui dal 2015. Don Nicolò Ceccolini, invece, dal 2017, essendo succeduto a padre Gaetano come cappellano dell’istituto. Suor Aurora ci racconta come, negli anni, molti progetti siano stati finanziati e attivati con grande sforzo, rendendo il carcere sempre più vicino alla funzione riabilitativa che dovrebbe avere. Corsi di formazione professionale, come parrucchiere, giardinaggio, onicotecnica, sono già in grado di trasferire competenze ai ragazzi o sono in fase di avvio. Come ricorda suor Aurora, fu padre Gaetano a coltivare per primo il sogno di offrire ai ragazzi in carcere uno sbocco lavorativo. A quasi dieci anni da quel sogno, i finanziamenti sono stati trovati, un vecchio padiglione dell’istituto è stato abbattuto e al suo posto è sorta la struttura che oggi ospita un pastificio, il più ambizioso dei progetti per il reinserimento sociale dei ragazzi. Non ci sono porte rivolte all’interno del carcere: si accede solo dalla strada. “La nostra idea è far percorrere fisicamente il percorso ai ragazzi: è lungo cinque minuti se vai lento, però l’idea è che stai uscendo, ti viene data una possibilità e hai nelle tue mani una responsabilità nei confronti della tua vita”. Ad essere coinvolti nel progetto sono soprattutto i ragazzi più grandi: “E la fascia con meno possibilità, perché ormai sono troppo grandi per la scuola, i corsi privati costano e non possono permetterseli. Vorrebbero trovare lavoro, ma difficilmente le persone assumono ragazzi pregiudicati o, peggio ancora, sottoposti a una misura per cui si prevedono controlli sul posto di lavoro, dai carabinieri o polizia”. Come ribadiscono a più riprese suor Aurora e don Nicolò, sono percorsi di vita spesso segnati in partenza da una realtà che offre solo un certo tipo di prospettive, se così è lecito chiamarle. Per quanto la società possa averli indicati come i violenti, i pericolosi o i disonesti, probabilmente lo ha fatto da molto prima di ricevere una sentenza, prima ancora dello stesso reato. Senza mai aver potuto contare su un sostegno familiare, “davanti alle frustrazioni a volte diventano molto rigidi, hanno delle reazioni molto forti. Per questo è importante, come educatori, stare in mezzo a loro. Affinché capiscano che tu puoi essere un punto di riferimento normale, che c’è qualcuno che gli vuole bene, che conta su di loro e a cui possono far riferimento quando stanno nei guai. Ogni tanto, con don Nicolò ce lo diciamo: “Questi ragazzi hanno proprio bisogno di una mamma e di un papà”. Perché hanno delle storie così particolari che... pare davvero che il mondo si sia messo contro di loro! Storie di tristezza, sofferenza, solitudine infinita. Ma come hanno fatto a resistere fino a ora? Troppo bravo sono stati, ringraziamo Dio se sono solo in carcere! Perché io, se fossi stata al posto loro, non so cosa avrei fatto”. Negli anni, don Nicolò ha trovato una chiave per raggiungere il cuore dei ragazzi: “Il primo seme dell’evangelizzazione è il fatto di esserci. Essere presenti all’interno del carcere. È la condivisione quotidiana della vita e, quindi, interessarsi a cosa stanno vivendo: chiedere se hanno chiamato a casa, come sta la famiglia, com’è andato il processo, quali desideri hanno per il futuro. Una lezione fondamentale appresa anche da padre Gaetano è l’importanza di una grande umanità che non si scandalizza. Perché è attraverso una grande umanità che si comunica chi è Gesù e chi è Dio. La cosa più interessante non è solo leggere il Vangelo ai ragazzi, ma farglielo tradurre! Ciò che viene detto dalla lettura del Vangelo aiuta a scoprirne i significati, come se fosse il Signore stesso a parlare attraverso loro. Una delle pagine col maggiore successo è la parabola del padre misericordioso. Dopo averla ascoltata, uno dei ragazzi ha notato come questo padre si è comportato in un modo a suo dire esagerato. In quella parola, “esagerato”, aveva capito già tutto di come Dio si comporta!”. La cappella del carcere è dedicata a don Pino Puglisi, ucciso da Cosa Nostra nel 1993 per il suo impegno nel sottrarre i giovani al crimine. “C’è una foto di don Pino sorridente e, sotto, la frase di Salvatore Grigoli, uno degli assassini, in cui racconta come don Pino gli abbia sorriso mentre lo uccidevano, di come questo sorriso ha lavorato dentro il suo cuore fino a portarlo a cambiare vita. Ogni ragazzo che entra dentro la chiesa per prima cosa vede il sorriso di don Pino, che è anche il sorriso di Dio, e capisce come la propria vita è degna di quel sorriso, è degna di essere voluta”. Il Salone delle libertà: gli scrittori denunciano le minacce al loro lavoro in tutto il mondo di Francesco Rigatelli La Stampa, 12 maggio 2024 Diritti e censura, le voci di scrittori, intellettuali e lettori dal Lingotto: “Non avremmo mai pensato di dover ancora lottare per certi valori”. Da Salman Rushdie a Roberto Saviano, da Elizabeth Strout e You Hua, i principali scrittori presenti al Salone del libro di Torino sottolineano l’importanza della libertà di espressione in questo momento. “Pensavo che fosse una guerra già vinta, invece dovremo combattere ancora. Nel nostro caso bisogna sobbarcarsi qualche rischio e certo è un brutto momento”, ammette Salman Rushdie, mentre Elizabeth Strout parla di “tempi spaventosi che mai avrei pensato di vivere. Triste che la polizia entri nelle università americane. Chi protesta pacificamente deve essere libero di esprimersi”. Anche lo scrittore cinese bestseller Yu Hua rivela a La Stampa: “Quando scrivo non sto a pensare se mi causerà dei guai o se verrò pubblicato, altrimenti non sarei in grado di farlo. Ci sono dei limiti non solo in Cina, ma anche negli Stati Uniti. L’anno scorso più di 4mila libri in America hanno subito forme diverse di censura. Più che in Cina a mio avviso. Si tratta soprattutto di questioni religiose, mentre da noi avviene più sui temi politici. Tutte le forme di libertà sono relative e per questo vanno difese”. Ieri, il giorno dopo il suo incontro con Rushdie, Roberto Saviano è tornato con noi sull’argomento: “Oggi avere una posizione contro il governo mette in discussione carriera e vita privata. È il primo passo verso una democratura. In Italia siamo dentro a una dinamica autoritaria, almeno verso alcuni autori che vengono vessati come esempio per gli altri”. Saviano trova fondamentale il ruolo dei lettori: “Il loro starci accanto e diffondere le nostre idee ci è di grande aiuto. Il mio programma Insider, censurato dalla Rai dopo essere stato già registrato, se davvero andrà in onda lo dovrà alla pressione del pubblico. Si vedranno così la prima intervista al testimone di giustizia che ha fatto arrestare i killer di Don Diana, quella a un killer di mafia, la storia di un giornalista licenziato per volontà di un boss e la vicenda della pentita Rosa Di Fiore della mafia garganica”. Ma la criminalità organizzata viene sufficientemente contrastata secondo l’autore di Gomorra o no? “Vedo la solita disattenzione di tutti i governi, a parte qualche blitz muscolare”. Incontrerebbe Meloni e Salvini per parlarne? “Si sono comportati male con me. Salvini lo aspetto a luglio in tribunale per diffamazione. Se Meloni mi invitasse in veste di premier certo la ascolterei volentieri”. Sul rischio democratura concorda lo storico Luciano Canfora: “Attenzione alle forme plebiscitarie per cui si promette di eleggere un capo, perché il pericolo è di compromettere le garanzie costituzionali. Gli ultimi episodi della Rai non mi sono piaciuti e costituiscono un brutto segnale, anche perché profondamente immotivati, ma da qui a dire che abbiamo perso la libertà ce ne corre. Bisogna restare vigili e sapere che il percorso delle destre a livello globale non va verso il liberalismo, ma verso l’autoritarismo”. Che il tema della libertà di espressione sia “scottante e di vera attualità” lo conferma il giallista Maurizio De Giovanni: “Il fatto gravissimo non è solo quello di Scurati, ma il procedimento disciplinare della Rai su Serena Bortone, che non ha fatto nulla. Dobbiamo chiederci: la Rai di chi è? È legittimo voler sapere su quale base si istruisca un processo contro di lei”. Gli scrittori secondo lui “basano sulla libertà la propria attività, sono gli interpreti delle esigenze della società e le raccontano. Bisogna difendere la nostra Costituzione, che è tra le più belle del mondo”. Anche l’economista francese Thomas Piketty pone un problema di proprietà: “Bisogna limitare il potere degli azionisti pubblici e privati, soprattutto nei media, e spostarlo verso i giornalisti e i cittadini. L’Unione europea dovrebbe definire delle norme sull’indipendenza dell’informazione. Lo stesso vale per i colossi del web”. Per la scrittrice matematica Chiara Valerio “il governo invece di dialogare con i giovani manifestanti li mena e questo echeggia in maniera prodromica limitazioni di movimento e di parola. Avendo letto da piccola la poesia di Danilo Dolci “Ciascuno cresce solo che sognato” penso però che la Costituzione sia intatta e ci permetta di scrivere e parlare”. Valerio ricorda Michela Murgia, “intellettuale impudente, che non si è fatta spaventare dal lato comico delle cose e non ha pensato che questo andasse a detrimento del valore di ciò che stava facendo”. Il super-consulente Mondadori Alberto Rollo teorizza che “la libertà di scrivere è il processo che responsabilizza l’immaginazione e fa diventare concretezza tutto quello che uno ha vissuto nella sua mente. L’immaginazione non è libera di per sé, ma ha bisogno di una responsabilizzazione. Faccio un salto mortale: vedere al Salone i tanti lettori che si aggirano e non sanno dove andare è come porre la premessa di quella promessa di libertà che c’è nella scrittura. Questo tema c’è sempre stato e accelera e decelera secondo il tempo. Non riguarda solo chi scrive in Paesi dove la scrittura viene guardata con sospetto. Da noi c’è un processo di autocensura che spesso non contempla regimi, ma la propria sussistenza”. Padre Enzo Bianchi “avverte nell’aria il bisogno di spegnere delle voci soprattutto se alternative e scomode. Succede in Italia come in tutto l’Occidente. I Paesi dove è nato l’illuminismo però non possono tollerarlo. Un altro valore che credevamo conquistato per sempre è la giustizia, ma pure quella viene attaccata dalla corruzione. I politici vedono una democrazia debole e la attaccano. Gli scrittori anticipano ciò che nei pensieri della gente non trova subito un’eloquenza, ma dicono la verità”. 32 capi della polizia europea chiedono la fine della crittografia nei messaggi di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 12 maggio 2024 Più controlli per la polizia. Per le polizie. Che dovrebbero poter “monitorare” tutti i messaggi, le mail. Alla ricerca di pedofili, terroristi, trafficanti di droga. Più controlli nel mondo digitale altrimenti il crimine dilaga. Quella che potrebbe sembrare la satira di qualche vecchio film italiano anni ‘70, è invece la richiesta messa nero su biancoda tutti i “capi” delle polizie europee. E con loro, i massimi dirigenti dell’Europol, l’organismo che le coordina nel vecchio continente. Una richiesta contenuta in una lettera, intitolata con molta enfasi: dichiarazione congiunta dei responsabili e capi delle polizie europee. Trentadue firme. Lettera che ha un obiettivo sopra agli altri: mettere fine alla crittografia. Quel sistema che consente la tutela del diritto alla privacy nelle comunicazioni digitali, quel sistema - end to end - per il quale nessuno, oltre al mittente e al ricevente, può leggere il contenuto di un messaggio. Sistema, detto per inciso, che garantisce anche la sicurezza delle comunicazioni istituzionali. Per i massimi dirigenti delle polizie, invece, è uno strumento che permette alla criminalità e ai terroristi di farla franca. Che impedisce soprattutto le indagini sugli abusi ai minori. E chiedono che sia trovato un modo col quale possano “spiare” nei messaggi crittografati. Lo scrivono, incuranti del parere di tutti gli esperti, secondo i quali l’eliminazione della riservatezza, al contrario, aumenta i rischi per i soggetti vulnerabili. Perché non avrebbero più la garanzia che i loro messaggi siano al sicuro dall’essere intercettati da hacker malevoli e, come hanno spiegato bene gli psicologi, perché non avrebbero più la certezza di poter parlare con esperti e voci amiche, senza che lo sappia qualcun altro. Una lettera preoccupante allora ma che non arriva inaspettata. Perché da mesi, su sollecitazione della comunità europea, un gruppo di esperti - quelli che si riuniscono nell’High Level Group, finanziato dalla Ue - sta discutendo su come superare la crittografia. Una lettera, ancora, che comunque sembra scritta con molta fretta, con molta approssimazione. C’è un passaggio, infatti, dove i capi delle polizie affermano: “Le nostre società non hanno mai tollerato spazi al di fuori dalla portata delle forze dell’ordine”. Facile la replica, come quella di Meredith Whittaker, la presidente di Signal, il social senza sorveglianza, da sempre in prima fila per i diritti digitali: “Per migliaia di anni, quasi ogni spazio è stato fuori dalla portata della sorveglianza. Quella digitale di massa è invece uno sviluppo molto recente. Per favore, leggete un libro prima di vomitare sciocchezze orwelliane”. Intelligenza artificiale, regole e cautele di Anna Corrado Corriere della Sera, 12 maggio 2024 Al via l’iter del disegno di legge del Governo: Necessaria una governance credibile, strumenti per la trasparenza e la “sorveglianza” umana sulle decisioni, tutela delle posizioni di diritto e di interesse dei cittadini. Ha preso il via l’iter del disegno di legge del Governo in tema di utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA); le basi sembrano gettate ma spetterà comunque al Parlamento decidere gli aspetti più rilevanti per lo sviluppo e l’applicazione dell’Intelligenza artificiale nel nostro Paese seguendo la strada segnata dall’Europa: utilizzo corretto e responsabile, trasparenza, dimensione antropocentrica, il tutto nella logica di prevenire i rischi e cogliere le opportunità. Dovranno assumersi scelte importanti: una governance credibile, strumenti per assicurare la necessaria trasparenza e la “sorveglianza” umana sulle decisioni, un sistema di tutela affidabile per salvaguardare le posizioni di diritto e di interesse dei cittadini. Non sarà facile. L’IA è una tecnologia che cambia rapidamente e le norme rischiano di nascere già superate. In più non è facile nemmeno prevederne con esattezza le potenzialità di sviluppo, per cui sarà necessario mantenere alto il livello di conoscenza e di competenza. Mantenendo l’attenzione all’ambito pubblico, la prima questione che viene in evidenza è far sì che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale non comporti un arretramento dei diritti già riconosciuti ai cittadini nelle procedure amministrative: trasparenza, diritto alla motivazione, partecipazione, accesso ai documenti e alle prestazioni. Sarà importante che ogni novella parta dal quadro normativo esistente e che si inseriscano le future regole per l’utilizzo dell’IA nella legge sul procedimento amministrativo e nel codice dell’amministrazione digitale. La spiegabilità e la conoscibilità delle decisioni assunte mediante l’utilizzo di algoritmi tradizionali (Cons. Stato nn. 2270/2019, TAR Napoli 7003/2022) non potranno assicurarsi con gli algoritmi di apprendimento; sarà, quindi, necessario individuarne, in caso, gli ambiti di utilizzo e le informazioni da fornire ai cittadini per garantirne, per quanto possibile, la comprensione. La trasparenza con i suoi tradizionali strumenti dovrà essere declinata tenendo conto della opacità connaturata ai sistemi di IA: gli obblighi di pubblicazione, l’accesso civico e l’accesso ai documenti vivranno inevitabilmente una diversa stagione in attesa di sistemi di IA “spiegabili”. C’è poi il tema della responsabilità in capo al funzionario pubblico per i provvedimenti e i procedimenti in cui sia stata utilizzata l’intelligenza artificiale, che potrebbe portare a delle resistenze verso le nuove tecnologie. Il Regolamento europeo, in dirittura di arrivo, prevede, quanto agli utilizzatori di sistemi di IA, che la sorveglianza umana venga affidata a persone che dispongano della competenza, della formazione e dell’autorità e del sostegno necessario. Si profilano all’orizzonte riflessioni serie sulla riforma della pubblica amministrazione. Su questo fronte, nel frattempo, andrebbe orientata la ricerca per fare in modo che si individuino ambiti di operatività comuni alle diverse procedure amministrative e che si sviluppino sistemi affidabili e “certificati” che sollevino almeno in parte dalla responsabilità i funzionari pubblici e che non si privino comunque le pubbliche amministrazioni di una ventata di efficienza e di opportunità di maggior sviluppo. Infine, in tema di tutela, va considerato che la decisione assunta attraverso l’intelligenza artificiale può anche essere errata, come può esserla quella del funzionario umano. Non si potrà pretendere dalla macchina la perfezione assoluta. Ciò che invece sarà indispensabile è avere una tutela giudiziaria solida, quale concreto ed effettivo presidio della “riserva di umanità” tanto declamata. Va, infatti, rammentato che i sistemi di IA, per quanto molto intelligenti e sfidanti per l’operatore umano, rappresentano comunque uno strumento per soddisfare i bisogni delle persone, da utilizzare a supporto delle capacità e dell’agire umano. È per questo che sarà necessario che la futura disciplina mantenga fermo l’attuale assetto giurisdizionale e che si individui il giudice “naturale” secondo gli ordinari criteri anche in caso di cattivo funzionamento di un sistema di intelligenza artificiale. Migranti. “Il numero altissimo di detenuti africani è una spia del razzismo sistemico” di Carlo Ciavoni La Repubblica, 12 maggio 2024 Un panel di esperti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite indaga sul rapporto tra profilazione razziale e lavoro delle forze dell’ordine in Italia. Una missione di otto giorni svolta in Italia dagli esperti del Meccanismo indipendente delle Nazioni Unite per promuovere la giustizia razziale e l’uguaglianza nell’applicazione della legge indaga sul collegamento tra profilazione razziale e pratiche delle forze dell’ordine, ovvero in che modo e quanto polizia, guardia di finanza e carabinieri procedono a perquisizioni e controlli fondati sul dato che la persona non è di cittadinanza italiana. Gli esperti hanno raccolto testimonianze e avuto incontri a Roma, Milano, Catania e Napoli. “Il pregiudizio razziale, gli stereotipi e la profilazione creano associazioni dannose e infondate tra l’essere neri, la criminalità e la delinquenza”, spiega Akua Kuenyehia, la giudice ghanese che è anche Presidente della missione. Kuenyehia sottolinea che il compito, legittimo, di promuovere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini non dovrebbe essere interpretato come una licenza per condurre profilazioni razziali, perché questo modo di fare erode la fiducia nell’applicazione della legge e riduce l’efficacia dell’operato delle forze dell’ordine. Le forze dell’ordine. Svolgono un lavoro delicato e per questo hanno bisogno di servizi di supporto aggiuntivi per la loro salute e per quella dei loro familiari, sottolinea l’americana Tracie L. Keesee, Presidente del Center for Policing Equity e membro del Meccanismo durante una conferenza stampa a Roma. In Italia mancano informazioni esaustive basate sulla razza e questa è una lacuna che ostacola gli sforzi per affrontare le disparità razziali. Anche perché - commenta il professore argentino Juan Mendez, anch’egli nel panel di esperti - la raccolta, la pubblicazione e l’analisi di dati disaggregati per razza o origine etnica, in tutti gli aspetti della vita ma in particolare riguardo alle interazioni con le forze dell’ordine e il sistema di giustizia penale, è un elemento essenziale per progettare e valutare le risposte al razzismo sistemico. La questione carceri. I tre componenti del panel delle Nazioni Uniti hanno affrontato poi un tema cruciale: il sovraffollamento delle carceri e l’impatto che questo produce sul rispetto dei diritti dei detenuti. Oggi nelle prigioni si conta un numero altissimo di africani e di discendenti africani: un aspetto che mette in luce la prevalenza del razzismo sistemico. Così come non mancano casi di tortura e di maltrattamenti, tra cui uno recente verificatosi all’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria di Milano. I migranti. Chi arriva in Italia affronta molte difficoltà per accedere all’assistenza legale, difficoltà spesso esasperate dall’abuso di autorità da parte delle forze dell’ordine e da ritardi burocratici. Gli esperti sottolineano la necessità che i servizi per l’immigrazione siano di natura civile e non intesi come una parte dei compiti della polizia. Suggeriscono inoltre che gli uffici per l’immigrazione siano collocati all’interno o vicino alle comunità interessate. Durante la missione i membri del Meccanismo hanno ascoltato giudici, pubblici ministeri, avvocati e rappresentanti dei principali corpi delle forze dell’ordine in Italia: Polizia, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Arma dei Carabinieri. Hanno inoltre consultato l’Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali (UNAR), l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, e diversi dipartimenti chiave all’interno dei ministeri dell’Interno e della Giustizia. I membri hanno visitato un centro di accoglienza per migranti a Catania e i centri di permanenza per il rimpatrio, i cosiddetti CPR, a Milano e a Ponte Galeria, vicino a Roma. Hanno inoltre visitato l’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria e la Casa Circondariale San Vittore a Milano. Che cosa è il Meccanismo. Il Meccanismo Internazionale di Esperti Indipendenti per promuovere la Giustizia razziale e l’Uguaglianza nel contesto delle Forze dell’Ordine è stato istituito a luglio 2021 dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Tra i suoi obiettivi vi è quello di redigere raccomandazioni sulle misure concrete da adottare per garantire l’accesso alla giustizia, la trasparenza, la responsività e il risarcimento legale per l’uso eccessivo della forza e per le altre violazioni dei diritti umani inflitte agli africani e alle persone di origine africana da parte delle forze dell’ordine. Fentanyl, emergenza della droga killer: l’incubo è qui. Ma c’è tempo per salvarsi di Riccardo C. Gatti* Il Messaggero, 12 maggio 2024 Usa e Canada hanno agito troppo tardi. Ecco come evitare di ripetere i loro errori. Non sapremo mai chi ha avuto l’idea di comprare i precursori dalla Cina con cui sintetizzare il fentanyl da vendere in Nord America ma, a suo modo, ha avuto una intuizione geniale. Costa poco produrlo ed è così potente che diventa facile occultarlo perché, con pochissima sostanza, si fanno moltissime dosi. Genera rapidamente una forte dipendenza e, quindi, fidelizza i clienti. Fu una idea folgorante metterlo sul mercato: all’inizio, quasi nessuno in Nord America lo cercava dagli spacciatori. Ma i narcos di quei luoghi capirono che avrebbe avuto successo e costruirono la “fase due” di una grande diffusione della dipendenza da oppioidi. La prima fase era stata aperta da alcune case farmaceutiche che avevano spinto la facile prescrizione ed il consumo dei painkiller anche perché c’era chi, invece di seguire una terapia del dolore, in parte usava i farmaci e in parte li passava ad altri, creando gravi problemi e generando nuovi dipendenti da oppioidi. L’intervento conseguente fu quello di tentare di contenere il fenomeno: indagini, ispezioni ai medici ed alle farmacie, cause collettive, processi, richieste di risarcimenti. Le prescrizioni facili e inappropriate diminuirono. Molte persone dipendenti dai farmaci, però, non trovarono subito una soluzione alla loro dipendenza ed alla loro astinenza e, complice un sistema sanitario molto differente dal nostro, trovarono una risposta negli spacciatori di droghe. Non curavano, ma almeno davano una risposta probabilmente più accessibile e, in molti casi, meno costosa dei medici e, in generale, dei servizi di cura specialistici. La confluenza del mercato di chi cercava droghe e di chi cercava farmaci creò una situazione ibrida, di cui il fentanyl divenne il catalizzatore. In quel momento l’intuizione geniale poteva essere spesa. In fondo quale è una regola dei mass-market? Sempre nuovi prodotti, sempre più potenti e ad un costo accessibile. Nacquero così nuovi prodotti che univano il fentanyl a droghe già note e che aprivano una “nuova frontiera” rappresentata da un mix già oggi iconico: fentanyl + xilazina, pronto per la vendita ed il consumo. La novità stava nella unione di due sostanze prodotte in laboratori clandestini e caratterizzate da essere anche farmaci (la xilazina solo per uso veterinario) e non droghe illecite. A basso costo e ad altissima potenza sinergica avrebbero avuto successo portando quel piacere, quella anestesia e quella parziale euforia sedata che solo chi li usa conosce. Quale “nuova frontiera”? Saltare completamente le coltivazioni agricole e tutto ciò che rappresentano, semplificare i percorsi tra produzione e vendita, resi più complicati da assetti mondiali instabili, e mirare, con nuovi prodotti, ad un profitto più immediato di quello derivante dai lunghi percorsi delle droghe di origine naturale, strumenti finanziari e moneta di scambio, dalla coltivazione al consumo. Risultato: una strage e decine e decine di migliaia di persone dipendenti e difficili da trattare. Ciò che chiamiamo fentanyl in realtà non è una unica sostanza uguale al farmaco ma un insieme sostanze diverse della stessa famiglia e la loro potenza rende difficile dosarle alla produzione ma anche al consumatore. Le overdosi negli Usa stanno, così, uccidendo più delle guerre e, probabilmente, non esiste una famiglia americana che non conosca personalmente almeno una persona morta per overdose. Nel Canada la situazione è simile. Così, mentre ai nostri media piace rappresentare i tossicodipendenti nelle situazioni più estreme e visibili, facendo pensare ad un problema che riguarda solo persone disperate ed emarginate che chiamano irrispettosamente “zombi”, morti viventi scarnificati dalla xilazina, le autorità rendono disponibile l’antidoto per le overdosi da oppiacei anche nelle scuole, nei college, nei luoghi di aggregazione, nei ristoranti. La morte per overdose sta interrompendo la vita di molti, nei luoghi e nelle situazioni più diverse, anche se le condizioni economiche, sociali ed etniche continuano ad avere un peso. Le organizzazioni criminali non paiono curarsi dei clienti che muoiono e non portano più risorse: decine e decine di migliaia ogni anno. Il profitto rimane alto. Probabilmente anche preoccupate dalla legalizzazione della cannabis che, in molti Stati, ha spostato parte di investimenti e profitti sul commercio lecito, ora investono su nuovi prodotti che è difficile pensare di rendere accessibili nei negozi per costruire una nuova economia legale. E poi se, solo negli USA, muoiono 70000 persone ogni anno solo per overdose in cui il fentanyl è coinvolto, l’anno successivo altre 70000 subentrano ed egualmente vanno a morire, facendo ipotizzare che ce ne siano molte di più che entrano in questo mercato come nuovi consumatori, pur essendo oggi chiara la situazione di pericolo. Sembrano guidate da una inquietante e inarrestabile forza autodistruttiva. Se non fosse realtà potrebbe essere la misteriosa trama di un film dell’orrore. Ma i misteri non finiscono qui. In una situazione quasi da guerra mondiale, i governi delle più grandi potenze, Usa e Cina, si incontrano ed uno dei temi della trattativa, portato del Segretario di Stato statunitense, Blinken, è proprio il fentanyl. Intanto i Talebani realizzano in un paio di anni quello che i milioni di dollari investiti dai Paesi Nato non erano riusciti a provocare: la riduzione quasi totale della produzione del papavero da oppio. Una scelta etico-religiosa, una scelta lungimirante nei confronti di oppioidi sintetici meno costosi da produrre dell’eroina o un modo di facilitare l’arrivo del fentanyl o di altri oppioidi ad alta potenza per mettere in difficoltà l’Europa? Già, l’Europa e l’Italia che, sino a poco tempo fa, non si sono chieste perché in Nord America si e da noi no, vivendo una apparente indifferenza anche rispetto alle tonnellate di cocaina che arrivavano dal Sud America. Ma già a settembre, la Commissaria europea agli Affari Interni Ylva Johansson, proprio dopo aver incontrato a Bruxelles i ministri dell’Interno di 14 Paesi dell’America Latina, dava un primo allarme fentanyl ed ora il nostro governo sembra averlo raccolto. Bisogna attivarsi. Ciò che è chiaro è che la questione fentanyl e soprattutto ciò che sottende, con la diffusione di mix sintetici di sostanze ad alta potenza e basso costo, potrebbe diventare, se già non lo è, uno dei grandi problemi mondiali in grado di incidere direttamente sulle aspettative e sulla qualità della vita delle persone, come l’emergenza climatica, le pandemie o le guerre. E proprio con le guerre potrebbe avere un collegamento, se vediamo il tutto come un possibile strumento di destabilizzazione o di guerra asimmetrica, all’interno di scenari geopolitici in fermento. Abbiamo speranze di fermare questo processo? Non credo che sia un processo contenibile a livello di eserciti, servizi segreti, Forze dell’ordine ed apparati di controllo. Se lo fosse, Usa e Canada sarebbero in una situazione differente. Ciò non significa che non vada fatto ciò che deve essere fatto a livello repressivo ma che, comunque lo consideriamo, nelle cause o negli effetti, siamo di fronte ad una azione di mercato e probabilmente di destabilizzazione che funziona se trova consumatori disposti a farsi fidelizzare. Riusciremo a comprendere cosa potrebbe accadere sulla nostra pelle ed a limitare i danni? Riusciremo nell’ansia di voler controllare, a non rendere difficili i percorsi di cura con gli oppioidi a chi ne ha bisogno ed a non spingere in mano alla criminalità organizzata a chi ne è dipendente e se li sta procurando in un mercato grigio, differente dallo spaccio di droghe illecite? Riusciremo ad aumentare l’accessibilità a programmi di cura individualizzati di Servizi Dipendenze che, in molti luoghi, sono già in affanno nell’affrontare problemi sempre più complessi con poche risorse e che, anche in questo momento, non sono nemmeno citati per la loro funzione? Riusciremo a proteggere le persone più in difficoltà, anche attraverso azioni di prossimità nei luoghi a rischio? Riusciremo a ragionare su norme, leggi, scelte politiche ed investimenti, uscendo dai paradigmi e dai dibattiti di bandiera, analizzando i problemi laicamente, per elaborare strategie di intervento che mettano in primo piano la salute, la qualità della vita e la dignità delle persone? Riusciremo a capire che il mondo è cambiato e che dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di riconoscere che dobbiamo ripensare alle nostre azioni in questo ambito perché, ammesso che abbiano funzionato in passato, oggi funzionano sempre meno? Non vedo molte alternative: o riusciamo a farlo adesso, in Italia ed in Europa, anche avvalendoci delle esperienze e delle conoscenze che abbiamo, che non sono poche, o saremo costretti a farlo necessariamente più avanti, ma questa latenza, questa attesa, potrebbe avere risvolti drammatici. *Medico psichiatra, coordinatore del Tavolo tecnico sulle dipendenze della Regione Lombardia