Giustizia riparativa: una garanzia di sicurezza migliore del carcere di Paolo Foschini Corriere della Sera, 11 maggio 2024 L’importanza della finalità rieducativa “a cui tende la Costituzione”: gli interventi di Marta Cartabia e Gherardo Colombo. “Il passaggio dal carcere lascia sempre il segno” e può non “esasperare inclinazioni” rivolte alla violazione della legge ma anche “avere effetti desocializzanti”, anche alla luce del “sempre più grave sovraffollamento” degli istituti: per questo le pene sostitutive al carcere in caso di condanne brevi non solo sono perfettamente compatibili con l’articolo 27 della Costituzione, ma nella loro umanità sono anche “garanzia maggiore di sicurezza per la società”. La sicurezza e la giustizia - questa la sintesi - non passano attraverso la vendetta. Cosi Marta Cartabia, presidente emerita della Corte Costituzionale e prima donna ministra della Giustizia nella storia della nostra Repubblica, ha commentato la sentenza della Consulta che appena poche ore prima aveva appunto affermato quella compatibilità. Ed è questo uno dei passaggi centrali del dibattito cui Marta Cartabia ha preso parte con l’ex magistrato Gherardo Colombo, fondatore tra l’altro dell’associazione Sulleregole, nell’ambito di Milano Civil Week 2024 dedicata alla Costituzione. “Noi pensiamo sempre - che la pena ovvia da infliggere a chi ha compiuto un reato sia il carcere, ma nell’articolo 27 della Costituzione il carcere non è neppure nominato. La Corte dice oggi che il carcere è solo la forma più severa di pena, non soltanto perché priva una persona del bene più prezioso che è la libertà e quindi va contenuta nel minimo necessario ma perché una pena breve scontata in carcere non consente neppure quelle finalità rieducativa a cui la pena secondo la Costituzione deve tendere”. Al centro del dibattito il tema della giustizia riparativa, chiave di volta della riforma di due anni fa voluta da Marta Cartabia come ministra. “E purtroppo ancora adesso - ha sottolineato Gherardo Colombo - non sono stati fatti i decreti attuativi”. Per spiegarla ai tanti giovani presenti a seguire l’incontro nella Sala delle Colonne di Palazzo Giureconsulti a Milano, l’ex magistrato ha precisato che in realtà si tratta di un “percorso liberamente scelto” che coinvolge vittima di un reato, autore del medesimo, ma anche la società esterna, con l’aiuto di un mediatore. “Le domande che si fa chi subisce un male sono due: perché mi hanno fatto questo? E perché proprio a me? Solo una persona può rispondere, e cioè chi il male lo ha compiuto. Naturalmente non è semplice creare le condizioni perché possa verificarsi un incontro, e neppure portarlo avanti. Ma se questo avviene è la strada per ricucire una ferita attraverso un riconoscimento reciproco”: riconoscimento del male compiuto e della vittima come persona, da parte dell’autore; e riconoscimento come persona anche dell’autore, da parte della vittima, laddove ne emerga la storia. “Soprattutto ai giovani vorrei ribadire - ha aggiunto Marta Cartabia - che non c’è nessuna contraddizione tra una pena improntata al senso di umanità e l’esigenza di sicurezza da parte della società. Anche perché una pena sostitutiva rispetto al carcere è una risposta comunque certa e rapida, molto più di quanto non lo sia in carcere pe esempio nei tantissimi casi, oggi circa 90mila in Italia, di pene sospese in attesa di esecuzione: e che arrivano a essere applicate, paradossalmente, addirittura anni dopo la sentenza. Magari interrompendo un percorso di recupero avviato nel frattempo”. Al termine sono arrivate le domande degli studenti e delle studentesse del liceo Allende Custodi, messe a punto nel corso del laboratorio Ri-Costituente svoltosi nelle ore precedenti all’incontro: “Esistono modelli diversi da quello italiano - hanno chiesto tra gli altri John e Toto - in altri Paesi del mondo?”. Colombo ha risposto citando l’esempio delle carceri norvegesi, con spazi comuni studiati apposta per consentire una vita simile quanto più possibile a quella fuori: “Se trascorro anni in una cella - ha detto - e poi vengo catapultato all’esterno, come posso pensare di riprendere la mia vita come se niente fosse?”. Stop all’isolamento, anticamera della tortura di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 11 maggio 2024 Da inizio anno circa 700 detenuti sottoposti a questa premoderna pratica carceraria. “Uno di questi apriva la cella di isolamento e diceva a S.M. di entrare; poiché S.M, temendo di essere picchiato, non voleva entrare, uno degli agenti lo colpiva con un calcio da dietro e lo faceva rovinare a terra, battendo la testa; a questo punto tutti gli agenti lo colpivano con calci e pugni…”. E così via. Questo accadeva, secondo la ricostruzione dei giudici milanesi, alle porte della cella di isolamento dell’istituto penale per minori Beccaria di Milano. L’isolamento in carcere fa male. Ha effetti devastanti dal punto di vista psicologico, fisico e sociale. Tra coloro che si sono tolti la vita nelle carceri italiane, uno su dieci tra il 2023 e il 2024, si è suicidato mentre era stato trascinato in cella di isolamento. Antigone e Phisicians for Human Rights Israel hanno avviato dal 2022 una campagna a livello globale per superare questa pratica carceraria che costituisce il residuo storico di una concezione premoderna della pena. Isolare una persona, anche per periodi non lunghi, significa farle del male, destabilizzarla, intimidirla, terrorizzarla, sottrarla agli sguardi, ai controlli, alle rassicurazioni. Nelle sezioni di isolamento i detenuti vengono lasciati alla mercé dei custodi. Il ragazzino pestato al Beccaria lo sapeva e per questo non voleva entrare nella cella di isolamento, luogo dove le videocamere sono di solito meno presenti e meno funzionanti. Antigone e Phisicians for Human Rights Israel hanno elaborato linee guida dirette a superare ogni forma di isolamento in carcere a livello internazionale. Tra i primi firmatari non vi sono solo studiosi come Andrew Coyle della University of London o attivisti come David C. Fathi, dell’American Civil Liberties Union, ma anche alti funzionari delle Nazioni Unite come Juan E. Mendez e dirigenti penitenziari come Rick Raemisch, già a capo delle carceri del Colorado negli Usa, oltre ad esperti come i nostri Mauro Palma e Grazia Zuffa. Oggi le regole penitenziarie Onu prevedono che l’isolamento disciplinare non possa superare i 15 giorni. Di tutto questo, e di come superare la pratica dell’isolamento carcerario ne discuteranno esperti internazionali e italiani lunedì 13 maggio all’università Roma Tre, presso il dipartimento di Giurisprudenza. Anche in Italia l’isolamento è ampiamente ammesso nella legislazione interna. Si può subire l’isolamento disciplinare sino a 15 giorni nel caso di infrazioni disciplinari. Si può essere posti in isolamento giudiziario dai magistrati nella fase della custodia cautelare allo scopo dichiarato di evitare che gli arrestati possano precostituire tesi difensive. E poi c’è l’obbrobrio giuridico dell’isolamento diurno previsto all’articolo 72 del codice penale del 1930 (dunque, un codice dichiaratamente fascista) che prevede l’isolamento diurno da sei mesi a tre anni come pena vera e propria nel caso dei pluri-ergastolani. Nel caso dell’isolamento diurno ci attendiamo che un giudice sollevi la questione davanti alla Corte Costituzionale affinché lo si cancelli dall’ordinamento giuridico. L’isolamento come pena è palesemente violativo dell’articolo 27 della Costituzione in base al quale le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non si vede come l’isolamento possa mai avere questo nobile scopo. Bisogna avere il coraggio di bandire del tutto l’isolamento dalle carceri (ad eccezione di quello precauzionale sanitario purché motivato da evidenti ragioni epidemiche), nel nome di un’idea di pena che non trasformi il detenuto in un oggetto da poter maltrattare, punire, vessare. Anche nei casi più difficili di detenuti problematici, violenti verso se stessi o gli altri, o con problemi comportamentali, esiste sempre un’altra via per superare il momento di crisi. Al detenuto isolato resta addosso un senso di ingiustizia e sofferenza che non lo abbandonerà mai, come i loro racconti, una volta liberi, testimoniano. Governare una struttura con la disciplina e l’isolamento è antipedagogico, esito di una cultura irriflessa di tipo autoritario. Nei primi mesi dell’anno in corso in Italia ci sono stati ben 668 episodi di isolamento disciplinare, a cui si aggiungono 15 casi di isolamento giudiziario, disposti dalla magistratura per esigenze cautelari. Sono dunque circa 700 i detenuti messi in isolamento, più o meno l’1% della popolazione reclusa. Numeri assurdi, segno della mancanza di una capacità trattamentale diversa. In attesa che l’isolamento sia del tutto cancellato dalle carceri italiane, sarebbe necessario che chiunque vada in visita in un istituto di pena (parlamentari, consiglieri regionali, garanti a tutti i livelli) parta dalle sezioni di isolamento per osservare e denunciare in quali condizioni i detenuti là posti sono lasciati vivere, e qualche volta purtroppo, anche morire. *Presidente dell’Associazione Antigone Effetti devastanti sui detenuti: l’isolamento va cancellato di Rachele Stroppa* L’Unità, 11 maggio 2024 Medici a livello internazionale hanno denunciato i danni di questa pratica. L’Onu nelle Mandela Rules ne vieta il ricorso oltre le due settimane. Superarla è sempre più urgente. Il 13 maggio a Roma il convegno internazionale organizzato da Antigone. Sono 35 le persone che si sono tolte la vita dall’inizio del 2024. Almeno 5 di loro si trovavano in una cella di isolamento. L’isolamento è una pratica ampiamente utilizzata nelle carceri italiane. L’articolo 72 del Codice Penale prevede l’isolamento diurno da sei mesi a tre anni come pena vera e propria nel caso dei pluri-ergastolani. Inoltre, secondo l’articolo 33 della Legge sull’Ordinamento penitenziario, l’isolamento può essere applicato per ragioni disciplinari, sanitarie o giudiziarie. La sanzione disciplinare di isolamento viene imposta alla persona detenuta che si sia resa responsabile di una infrazione disciplinare ed ha una durata massima di 15 giorni. Questo limite temporale è stato individuato dalla letteratura medica internazionale, poiché dopo due settimane i danni prodotti dall’isolamento -che potenzialmente si verificano sin dal primo giorno di collocamento in tale regime- potrebbero essere addirittura irreversibili. È per tale ragione che le Mandela Rules delle Nazioni Unite e anche il report prodotto nel 2011 dall’ex Special Rapporteur sulla tortura delle Nazioni Unite, il Professor Juan Méndez, vietano espressamente l’isolamento che si estende per più di due settimane. Juan Méndez è uno dei principali relatori che interverranno al convegno organizzato da Antigone il prossimo lunedì 13 maggio presso l’Università Roma Tre dal titolo “Contro l’isolamento”. Nella convinzione per cui sia estremamente urgente superare questa pratica, Antigone ha deciso di dedicare un’intera giornata di studi ad un tema poco conosciuto, ma che è fonte di preoccupazione per le principali organizzazioni che si dedicano alla protezione dei diritti delle persone detenute a livello mondiale. I protagonisti della sessione mattutina del convegno sono esperti di fama internazionale che ragioneranno sul documento prodotto da Antigone e Physicians for Human Rights Israel dal titolo “Linee Guida Internazionali sulle Alternative all’Isolamento Penitenziario”. Nonostante l’isolamento sia una delle pratiche penitenziarie più antiche, negli ultimi decenni la funzione dell’isolamento nel contesto carcerario è andata modificandosi, differenziandosi e moltiplicandosi. Si tratta di uno strumento di gestione dell’ordine interno e, in particolare, di quegli individui che difficilmente si adattano alla logica penitenziaria, spesso perché affetti da disagio psichico, doppia diagnosi o da plurimi fattori di marginalità. Davanti a questi soggetti, le amministrazioni penitenziarie a livello globale affermano di non avere a disposizione alternative valide all’isolamento, ricorrendo anche a situazioni di isolamento di fatto, ovvero non esplicitamente previste dall’ordinamento penitenziario. Si tratta soprattutto di persone che presentano fragilità psichiche e che necessiterebbero di attenzioni e cure particolari, che invece spesso vengono isolate, poiché il sistema penitenziario non è in grado di prenderle in carico e di gestirle. Ebbene, le Linee Guida che saranno oggetto di presentazione il 13 maggio, mirano proprio a fornire indicazioni concrete al fine di superare l’utilizzo dell’isolamento penitenziario. Oltre a Juan Méndez, tra gli altri relatori troviamo anche il Professor Mauro Palma, Nuno Pontes, un ricercatore con una lunga storia di isolamento penitenziario alle spalle che ci offrirà quindi una testimonianza diretta e Rick Raemisch, direttore delle carceri del Colorado, il quale decise di non applicare l’isolamento nelle carceri di sua competenza. Nella sessione pomeridiana del convegno, invece, vi sarà una tavola rotonda in cui ci focalizzeremo sull’isolamento nel contesto italiano. Parteciperanno al dibattito Grazia Zuffa, presidente de La Società della Ragione e membro del Comitato Nazionale di Bioetica, Simone Spina, magistrato che ci racconterà di come spesso l’isolamento sia lo spazio delle violenze e delle torture, Giuseppe Nese (psichiatra) e molti altri. L’intento è quello di ragionare sul tema dell’isolamento da molteplici prospettive e punti di vista, nella convinzione condivisa che, davanti agli effetti estremamente gravi che può produrre sia dal punto di vista fisico che psichico sulle persone detenute, è necessario adoperarsi affinché questa pratica così dannosa venga al più presto superata. *Ricercatrice dell’Associazione Antigone Il sistema carcerario italiano equivale al disastro dello space shuttle Challenger di Fabio Falbo* L’Unità, 11 maggio 2024 Questo doloroso e umiliante articolo è conoscenza, servirà a far capire come le morti e i suicidi in carcere sono una strage di Stato, lo stesso che sa quello che succede e non interviene; forse pensa che non ha alcuna responsabilità in merito. La realtà ci dice che la Costituzione dietro le sbarre è maltrattata, ingannata e non rispettata. Il professor Giuliano Amato in occasione del “Viaggio in Italia della Corte costituzionale nelle carceri” del 4 ottobre 2018 affermava: “Non si deve morire in carcere perché non ci sono state cure adeguate; ma perbacco questo è inammissibile; ci battiamo perché non accada in Africa e l’Africa ce l’abbiamo nelle nostre carceri; questo non è ammissibile, non può succedere”. Vogliono far credere che il sistema carcere per alcuni versi è stato trasformato in una clinica medica universitaria o in un ospizio o in un centro di salute mentale o finanche in una comunità terapeutica, ma tutti sappiamo che il carcere non cura e non è in grado di guarire un semplice raffreddore o un’allergia. Sono tanti i nomi delle persone con dei mali incurabili che non ricevono cure adeguate alle patologie. Queste persone allo stato di fatto moriranno qui, in carcere. Oreste Squillaci è un ultrasettantenne affetto da una aggressiva patologia neoplastica che imporrebbe una terapia altrettanto aggressiva, che si è interrotta per il suo recente rientro in carcere. Franco Gizzi ha un’incompatibilità con il regime carcerario eppure è qui in carcere a perire nel silenzio assordante di chi deve tutelare la vita umana. Francesco Venezia è gravemente infermo, cardiopatico, ha rischiato la vita per sottoporsi a un semplice intervento chirurgico odontoiatrico. Federico De Cupis è affetto da tre tumori e ha bisogno di cure urgenti, ma ad oggi è qui nel reparto senza alcuna cura adeguata. Le patologie di Stefano Monteferri sono molteplici. Il quadro clinico complessivo di Roberto Canulli è gravemente compromesso, anche dallo stato avanzato della sua età. Sono tanti gli altri casi che meritano ascolto, attenzione. Ho già scritto su questa pagina dei “nonnetti” in carcere, ma da allora non si è fatto niente; anzi, ho assistito al rigetto della richiesta di differimento pena e della grazia per Antonio Russo, un uomo di 86 anni. Che senso ha l’esecuzione di una pena su persone quasi novantenni? questo sistema collettivo di responsabilità lo si trova nelle tante certificazioni mediche dell’area sanitaria che il più delle volte indicano le “condizioni generali mediocri” senza tener conto che sono relative alla sola sopravvivenza, senza pronunciarsi in merito al riacquisto della salute. Paragono il sistema carcerario italiano al disastro dello Space Shuttle Challenger perché tutti sono a conoscenza dei suicidi, delle morti, di tutti gli ultrasettantenni in carcere e nessuno interviene. Nel disastro dello Shuttle il Premio Nobel per la fisica Richard Feynman indicava quella cosiddetta “cecità organizzativa”, intendendo con questa una situazione in cui un fatto ritenuto certo dai singoli componenti di un’organizzazione non viene considerato a livello collettivo. Nel caso di specie, Feynman, che è un fisico e non un ingegnere del settore, rivelò che tutti i tecnici erano di fatto consapevoli dell’estremo rischio di autorizzare il lancio in quelle condizioni, ma da una parte autoconvincendosi che il rischio non era nel proprio perimetro di responsabilità, dall’altra confidando erroneamente che i livelli superiori disponessero di informazioni a loro non note e fossero in grado di assumere decisioni corrette. In sintesi, lo scaricabarile e l’eccessiva fiducia nell’autorità superiore spesso sono la ricetta più sicura per il disastro. La mia formazione ha ben impresso il contenuto dell’articolo 40 coma 2 del codice penale; forse a qualcuno è meglio ricordarlo, anche perché le persone detenute sono sotto le responsabilità dello Stato e quindi “non impedire un evento che sia ha l’obbligo giuridico d’impedire equivale a cagionarlo”. La perdita di una vita umana in carcere è un fatto che più delle volte ha delle responsabilità collettive. Chiudo con questa frase di Richard Feynman: “Non so che cosa non va nella gente; non imparano usando l’intelligenza, imparano in altri modi, meccanicamente o giù di lì. Il loro sapere è così fragile!” *Detenuto nel carcere di Rebibbia Qual è il senso di usare la psichiatria per controllare i magistrati di Ugo Mattei L’Espresso, 11 maggio 2024 L’idea dei test si inserisce nella tendenza di voler normalizzare e prevedere tutti i comportamenti, dai consumatori fino ai giudici. Un altro modo per rafforzare il potere. Mi sono interrogato in queste settimane circa la posizione che ritengo corretta sulla questione dei test psicologici per entrare in magistratura. Ovviamente, il dibattito in Italia è caratterizzato dalle opposte tifoserie. Una curva Nord, garantista, si contrappone ad una Sud, giustizialista. I tifosi della curva Nord, non di rado per ragioni pelose, protettive di potenti corrotti, cercano di delegittimare l’intera categoria dei magistrati, facendo di ogni erba un fascio e maramaldeggiando sui casi clamorosi à la Palamara. Per questi tifosi, prima di entrare in magistratura, i candidati dovrebbero esser sottoposti ad un test psicologico-attitudinale, visto come una specie di Tso. Sull’opposta curva Sud, si arroccano coloro che, da Tangentopoli in poi, considerano i magistrati come una fonte politica di progresso “a prescindere”, ed esultano ad ogni tintinnio di manette, soprattutto quando i destinatari politici sono quelli del fronte opposto. Per questi tifosi chiedere ad un magistrato di sottoporsi a un test psicologico è tanto offensivo quanto chiedere il certificato di laurea ad un esimio chirurgo che sta per operare. Non ho immaginato le tifoserie come di destra o sinistra perché i due schieramenti non sono necessariamente contrapposti su quella linea. Tuttavia, tendenzialmente il centro-destra, insieme ad una maggioranza della avvocatura, invoca i test, mentre il centrosinistra è più giustizialista e li rifiuta (ovviamente insieme alla maggioranza corporativa dei magistrati). Per prendere una posizione ragionata è bene porsi alcuni interrogativi preliminari. Servono i test per comprendere se un giovane futuro magistrato sarà sufficientemente equilibrato? Quali controindicazioni, oltre alla potenziale inutilità, possono avere i test? Occorre dunque interrogarsi sul potenziale delle scienze cognitive, su cui gli investimenti nel cybercapitalismo (così Emanuela Fornari chiama l’attuale fase storica che muove guerra ai legami sociali e individualizza per sorvegliare) sono ingentissimi, nel prevedere o condizionare i comportamenti della magistratura, magari al fine di renderla sostituibile dall’Ia. Varrà la pena di tener presente che la psichiatria e la psicologia sono strumenti molto invasivi nelle mani del potere (per questo molti psicologi sono indignati dal nuovo codice deontologico), perché strutturano quali comportamenti siano normali e quali patologici o devianti, standardizzandoli. Si tratta di un enorme potere di disciplina che in era neoliberale è penetrata progressivamente nei meccanismi della giustizia (civile e perfino penale) dando sempre crescente spazio a psicologi e cognitivisti, in procedure formalizzate di mediazione. Il conflitto giudiziario si sostituisce con un ambiente artificiale, falsamente cooperativo, permeato di “ideologia dell’armonia”, che premia i comportamenti standard volti a un ragionevole compromesso, a scapito del dissidente, magari infuriato, che insiste sulle proprie ragioni. Si è aperta così la strada nel diritto al giudizio predittivo sulla persona, fondato sulla sua devianza dallo standard. Il diritto, a differenza delle scienze cognitive, dovrebbe occuparsi di fatti storici effettivamente accaduti nei rapporti fra persone, senza cercare di penetrare le menti. Le persone ai suoi occhi devono essere maschere (il significato latino di persona) nel cui intimo non è lecito né rilevante addentrarsi. La dea giustizia è bendata e oggi di fronte all’esplosione dell’Ia (che esaspera la logica predittiva) qualche critico parla di privacy cognitiva. Per il diritto deve rilevare cosa sia dimostrabilmente successo, non chi siano nel loro intimo le persone. Al contrario il cybercapitalismo della sorveglianza è molto più interessato a conoscer l’intimo dietro la maschera, per prevedere e condizionarne i comportamenti del consumatore o del cittadino, standardizzandolo. Di qui i massicci investimenti in scienze cognitive nei principali dipartimenti di marketing statunitensi ed i premi Nobel per l’economia e la medicina dati a queste frontiere del bio-potere. Di qui la fede nelle possibilità predittive dei test attitudinali o psicologici, che già da molti anni sono divenuti una fiorente industria con fatturati miliardari per multinazionali come Parson, in quanto imposti per accedere a ogni programma universitario. Gli studenti si preparano per superare i test psicologici proprio come qualsiasi altra prova. Tali test potrebbero benissimo esser superati, se ben addestrati da appositi corsi online a pagamento, anche da magistrati psicopatici. Dubito che l’alternativa di un colloquio con un professionista, o peggio una psicoterapia preventiva obbligatoria, possa servire a capire chi sia davvero la persona che vuole fare il magistrato. Sicché i test mi paiono inutili, anche se in vita mia ho conosciuto più di un magistrato disturbato. Possono esser dannosi? Sappiamo che diritto e psichiatria, pur provenendo da tradizioni molto diverse, vissero una stagione fortemente integrata, sulle orme del grande Bogdanov, nell’Unione Sovietica stalinista, dove i dissidenti politici furono oggetto tanto di processi farsa quanto di internamenti in istituzioni psichiatriche. I tempi recenti hanno mostrato come, anche senza test, il conformismo politico sia fin troppo diffuso in magistratura. Immaginare che esso possa essere amplificato in nuove leve di magistrati programmati come l’Ia per essere forti coi deboli e deboli coi forti fa venire i brividi. Studierei invece forme serie di controllo ex post, iniziando da una responsabilità civile dei magistrati che non sia, come oggi, una farsa. L’altolà dei magistrati alle riforme: gettano la Costituzione nel cestino di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 maggio 2024 L’Anm e gli attacchi alle indagini: la politica ha perso i freni inibitori. L’ovazione per Mattarella. È come se la politica avesse perso i freni inibitori che dovrebbero tenere a bada la tentazione di reclamare provvedimenti giudiziari conformi o comunque non contrari all’attività di governo. Questo pensa e dice il presidente Giuseppe Santalucia, seppure con il linguaggio felpato del giurista, che apre il congresso dell’Associazione nazionale magistrati denunciando “un progressivo indebolimento dei presìdi culturali che dovrebbero inibire la pretesa delle maggioranze di governo che decisioni di tribunali e corti non contrastino o addirittura si adeguino ai loro programmi e fini”. Il primo, lungo applauso della platea di toghe radunate nel teatro Massimo di Palermo sottolinea l’incisività di questo passaggio. Il capo dell’Anm l’ha scritto giorni fa, avendo in mente le polemiche e persino le iniziative disciplinari seguite a verdetti sgraditi: dagli arresti domiciliari concessi all’oligarca russo poi evaso alla disapplicazione del decreto Cutro sui migranti. Ma le reazioni politiche all’inchiesta di Genova e all’arresto del presidente della Regione Giovanni Toti rendono ancora più attuali le sue parole. Prima dell’inizio dei lavori, sui telefonini dei congressisti rimbalzano le dichiarazioni ministeriali anti-magistrati, a cui però Santalucia non reagisce: “Cerchiamo di essere istituzionali”. Ma quando nel teatro entra l’istituzione più alta, il capo dello Stato garante della Costituzione nonché dell’autonomia e dell’indipendenza delle toghe, l’ovazione lunga più di un minuto diventa la risposta più evidente del congresso agli attacchi del governo. È il segno che i magistrati si appellano a Sergio Mattarella di fronte agli affondi politici che traspaiono non solo dalle ultime prese di posizione, ma dai progetti di riforma sul tappeto. Da ultimo, il più avversato dall’intera categoria: la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Stanno buttando la Costituzione nel cestino, pensa e dice Santalucia, sempre con i suoi toni misurati. Ma la sostanza è chiara quando avverte: “Il messaggio costituzionale che ora si vorrebbe cestinare, è che nella nostra Repubblica anche la magistratura inquirente non è e non può essere una magistratura di scopo; che essa condivide con la magistratura giudicante lo stesso disinteresse per il risultato dell’azione e del processo, indispensabile premessa per non restare indifferenti rispetto ai diritti e alle garanzie delle persone”. Significa che il pm-poliziotto o “avvocato dell’accusa” sarebbe fuori dalla “cultura della giurisdizione” comune a inquirenti e giudicanti, con il solo scopo di ottenere la condanna dell’imputato così come l’avvocato difensore ne cerca l’assoluzione. Colpevole o meno che sia. Una distorsione che oggi è una patologia da correggere, ma con la riforma diventerebbe la norma. Quella riforma è un virus, pensa e dice il presidente dell’Anm quando spiega che la separazione delle carriere “reca in sé il germe dell’indebolimento della giurisdizione, che troverà compimento quando il pm, collocato in un ideale ma oggi sconosciuto spazio di autonomia, sarà in breve attratto nel raggio d’influenza del potere esecutivo, che mal tollera di non poter includere l’azione penale nei programmi di governo”. Altro convinto e prolungato applauso. Nell’avanzare le proprie critiche alle riforme in cantiere (compresa l’abolizione dell’abuso d’ufficio) Santalucia auspica che non torni “l’usurata critica della politicizzazione” dei magistrati. Discutere di questioni legate alla giustizia non è “il tentativo obliquo di interferire nell’esercizio del potere di decisione che spetta ad altri, al Parlamento innanzitutto; può invece consentire decisioni e soluzioni di migliore qualità, di maggiore avvedutezza”. A nome del governo, in attesa del Guardasigilli ex pm Carlo Nordio previsto per oggi, interviene il viceministro della Giustizia (di Forza Italia) Francesco Paolo Sisto, sostenendo l’esatto contrario di ciò che ritengono l’Anm e il suo presidente: la separazione della carriera dei pm da quella dei giudici - dice - altro non è che l’attuazione del dettato costituzionale sul processo da svolgersi “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Anche lui, come Santalucia, auspica “il dialogo anziché lo scontro”, ma con queste premesse rischia di essere un dialogo tra sordi. Nel frattempo, conclusa la relazione del presidente, Mattarella se ne va salutato da un’altra standing ovation, mentre dagli esponenti delle correnti arriva qualche risposta alle accuse dei ministri. Delegittimazioni inammissibili, ribattono tutti, e il segretario di Area Giovanni Zaccaro sintetizza: “Abbiamo giurato tutti sulla Costituzione che dovremmo tutelare e attuare insieme”. Santalucia (Anm): “Non potete escludere noi magistrati dal dibattito politico” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 maggio 2024 Al via il congresso Anm di Palermo: il presidente, nella sua relazione, ha evocato il caso Apostolico e rivendicato il diritto del giudice a “verificare la coerenza costituzionale della legge”. Ribadito il no alla separazione delle carriere. Un lungo applauso ha accolto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella al suo ingresso al Teatro Massimo di Palermo, dove si è aperto il 36esimo congresso Anm. In un momento in cui il governo vuole modificare la Costituzione per rivedere l’assetto ordinamentale della magistratura, le oltre 800 toghe accreditate avranno apprezzato le parole di due giorni fa del Capo dello Stato, secondo il quale occorre “evitare il rischio” che la Costituzione diventi “un albo di argomenti”. In platea anche la seconda carica dello Stato Ignazio La Russa, la cui presenza si può leggere come una conferma che nel partito della premier non si vogliono creare strappi con la magistratura. La stessa premier Giorgia Meloni ha delegato a intervenire alle assise Anm il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che nei saluti istituzionali ha sottolineato come “per collocare l’interesse generale al di sopra di quelli particolari” vi sia “una sola e unica via: il dialogo: la giustizia non può e non deve essere terreno di scontro”. Tuttavia, Sisto ha rimarcato il fatto che il “cittadino ha il diritto di percepire il giudice come arbitro distinto dai contendenti”: un chiaro riferimento alla separazione delle carriere. Il numero due di via Arenula ha confermato che “il governo intende proporre in Costituzione l’inserimento dell’Avvocatura, libera e indipendente, come essenziale alla giurisdizione. Anche per respingere ogni tentativo di artificiale sopraffazione dello spirito critico che, da parte dell’interprete, rigorosamente umano, deve contraddistinguere la partecipazione al processo”. La platea delle toghe ha accompagnato con una lunga serie di applausi, e con una standing ovation finale, la relazione del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: il quale ha ribadito ancora una volta la posizione contraria della magistratura alla riforma costituzionale. Al centro delle critiche, la questione dell’interpretazione della legge e dell’indipendenza del magistrato: “È assunto condiviso che l’interpretazione sia operazione intellettuale complessa, non riducibile a semplici sillogismi che facciano derivare la regola concreta da una norma astratta, che si vorrebbe chiara e facilmente leggibile, sì che il giudice possa essere un mero e asettico esecutore”, ha detto Santalucia. Che ha sottolineato come si percepisca una ricorrente spinta alla “ridefinizione in senso restrittivo dei confini entro cui la giurisdizione può esprimersi”. Nonostante questo “la nostra posizione è stata sempre ispirata dalla ricerca di un confronto e non dalla contrapposizione con la politica: non intendiamo rievocare fantasmi di un passato che non vogliamo torni a inquinare il discorso sulla giustizia”. Ma il congresso sarà anche il momento per chiedersi dove finisce la libertà interpretativa e di espressione del “cittadino magistrato” nella vita sociale. In merito Santalucia ha detto che “la soggezione” del giudice alla legge, a cui “nessuno intende sottrarsi”, si invera “in un impegno interpretativo condotto” anche “saggiando della norma la conformità costituzionale e convenzionale”. In altre parole: se una legge è scritta male o carente di tassatività, se non si inserisce coerentemente nel sistema o non è coerente coi principi costituzionali o sovranazionali, in tutti questi casi si amplia lo spazio interpretativo del giudice. Difficile non cogliere un rimando al caso della giudice Iolanda Apostolico. Sulla libertà interpretativa del magistrato, il presidente Anm ha concluso: “Si deve convenire con chi ha osservato che, nel cono d’ombra della ostentata riservatezza e della proclamata neutralità, alligna a volte una faziosità che non si riscontra in chi non fa mistero delle proprie convinzioni, ma è professionalmente attrezzato per trascendere, nella decisione, le proprie opzioni di valore, in modo da realizzare il massimo dell’indipendenza, quella da se stesso”. In merito alle accuse di politicizzazione rivolte all’Anm quando interviene nel dibattito pubblico, il leader dei 10mila magistrati italiani ha specificato che “va sgombrato il campo” dall’idea secondo cui “i magistrati che intervengono nel pubblico dibattito su temi relativi alla giustizia siano politicizzati e quindi inaffidabili. Il termine politica, con i suoi derivati, non può divenire un dispositivo di espulsione dalla sfera pubblica: una democrazia partecipativa non può che arricchirsi del contributo di una categoria che di giustizia e di giurisdizione può dire a ragion veduta”. E poi Santalucia è passato a parlare della separazione delle carriere, che il Consiglio dei ministri potrebbe licenziare a breve: “Si mette mano alla Costituzione mostrando di non aver compreso il senso di massima garanzia per i diritti dei cittadini assicurato dall’attuale impianto, con un pm appartenente al medesimo ordine del giudice e accomunato al giudice per formazione e cultura della funzione”. E non bastano a rassicurare le toghe le dichiarazioni di chi in questi giorni quale “alfiere della separazione, assicura e rassicura sulla piena indipendenza del pubblico ministero di domani”. Infine una domanda sull’intelligenza artificiale: “Può immaginarsi una giustizia digitale sostitutiva, si può aspirare a un giudice automatico, come è stato appellato, e per esso alla certezza del diritto senza ombra di parzialità?”. La risposta che si dà Santalucia è che “come già acutamente osservato, il dialogo, anche quello processuale, non è trattabile sulla base di meccanismi computazionali”, perché “si svolge nella formazione del senso, aperta alla molteplicità dei contributi dei dialoganti”. Alla relazione di Santalucia ha fatto seguito la tavola rotonda con i leader di tutti i gruppi associativi: Loredana Micciché (Mi), Maria Rosaria Savaglio (Unicost), Andrea Reale (Articolo 101), Stefano Musolino (Md) e Giovanni Zaccaro (Area). Proprio quest’ultimo ha dichiarato, a proposito delle polemiche rivolte alla magistratura per l’inchiesta su Toti, che “a furia di dire che i magistrati devono apparire imparziali, ci dimentichiamo della tutela della imparzialità sostanziale: le continue polemiche, la delegittimazione quotidiana mirano a intimidire i magistrati, ad avere una magistratura che non osi toccare i potenti. Ormai il dibattito sulla giustizia è come il processo del lunedì: politici e giornalisti sono garantisti o forcaioli a seconda che gli indagati siamo loro amici o loro avversari. Ho letto il tweet di Crosetto: un ministro non può delegittimare così un altro potere dello Stato. Entrambi giuriamo sulla Costituzione e dovremmo tutelarla e attuarla insieme”. Stamattina interverranno il ministro della Giustizia Carlo Nordio, Elly Schlein, Enrico Costa, e Matteo Renzi: “Credo nel confronto civile e nell’importanza del dibattito pubblico - ha detto il leader di Italia viva - ho dunque deciso di accettare l’invito dell’Anm e sarò a Palermo al congresso. A viso aperto, come sempre”. Musolino (Md): “Il Csm ha un problema di trasparenza e comprensibilità delle scelte” di Giulia Merlo Il Domani, 11 maggio 2024 Il segretario generale di Magistratura democratica, Stefano Musolino, prende posizione sulla riforma annunciata dal ministro della Giustizia e ritorna sulla questione etica ancora aperta dentro la magistratura. In vista del congresso dell’Anm, il segretario generale di Magistratura democratica, Stefano Musolino, prende posizione sulla riforma annunciata dal ministro della Giustizia e ritorna sulla questione etica ancora aperta dentro la magistratura: “affidare le risposte solo ai procedimenti penali e disciplinari è stata una scelta che ha impedito di avviare un serio dibattito sulle cause che hanno generato quella crisi: il mito della carriera dirigenziale, la progressiva gerarchizzazione, la perdita di autorevolezza e credibilità dell’associazionismo giudiziario che ha travolto anche il Csm”. Siamo alla vigilia del congresso dell’Anm, con l’annuncio di una riforma che tocca il Csm e la separazione delle carriere. Cosa pensa della cosiddetta riforma Nordio? Bisogna considerare con particolare attenzione critica ogni intervento che va nel senso dell’alterazione della posizione costituzionale del pubblico ministero. Oggi, di fronte a norme sui percorsi lavorativi che già hanno reso rarissimo il passaggio di ruolo tra giudicanti e pubblici ministeri, forse sarebbe utile fermarsi a riflettere sul fatto che il nostro modello, che “tiene” il pubblico ministero nella giurisdizione costituisce una garanzia per i cittadini. E, nella fase del processo, non contraddice la parità tra le parti. Non credo che gli avvocati stessi si sentirebbero più a loro agio trovandosi di fronte un aggressivo avvocato della polizia. L’invito è a riflettere, al di là delle suggestioni. Si è paventata l’ipotesi di rendere facoltativa l’azione penale. Come la valuta? L’obbligatorietà dell’azione penale, è bene sempre chiarirlo, non equivale a meccanicità o irrazionalità dell’esercizio dell’accusa, ma è un criterio di garanzia di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La “ragionevole previsione di condanna” come nuovo criterio di esercizio dell’azione penale costituisce di per sé una garanzia. Né, in negativo, si può pensare che le Procure della Repubblica abbandonino arbitrariamente indagini. Certo, rispetto alla possibilità di gestire razionalmente il lavoro, la recente ansia di penalizzazione di una inusitata quantità di comportamenti è del tutto contraddittoria. Dunque La soluzione al numero eccessivo di procedimenti penali è una coraggiosa depenalizzazione, non già introdurre una discrezionalità che condurrebbe il pubblico sotto il governo dell’Esecutivo. Il ministro ha detto che a Palermo ci sarà e incontrerà prima l’Associazione. È una mano tesa? È la risposta a un invito cortese e rispettoso da parte di chi chiede una maggiore e migliore collaborazione per fare funzionare la Giustizia. Le critiche, le sollecitazioni, i conflitti argomentativi sono il sale della democrazia e il miglior metodo di confronto per un Ministro interessato a garantire il diritto dei cittadini ad una giustizia efficace ed efficiente. Credo del resto il Ministro della Giustizia abbia anche come dovere istituzionale quello di relazionarsi con l’Associazione nazionale magistrati. Sarebbe semmai da leggere negativamente un suo rapporto selettivo e privilegiato con alcune componenti della magistratura ritenute “politicamente affini”. L’altro auspicio è che il Ministro tenga conto della voce della magistratura associata soprattutto, in questo momento, per quanto riguarda le risorse e dunque i compiti costituzionali che gli impongono di occuparsi di funzionamento dei servizi di giustizia. Si tornerà alla stagione del conflitto permanente tra toghe e politica? L’idea dell’esistenza di un conflitto è di per sé fuorviante: la magistratura svolge i suoi doveri istituzionali con continuità, impegno e coscienza, in decine e decine di sedi giudiziarie, affrontando un insieme enorme e differenziato di temi, dalla criminalità organizzata, alla tutela di diritti dei cittadini nella quotidianità. Lo sguardo non può essere drammaticamente (o strumentalmente) ristretto a pochi casi giudiziari, reinterpretati come “conflittuali”. Vede invece una ritrovata sinergia tra i gruppi associativi, nell’ottica di contrastare le iniziative del governo? La vita dei gruppi associativi costituisce una ricchezza per il dibattito, interno ed esterno alla magistratura: un dialogo produttivo tra i gruppi ci può e ci deve essere con le precondizioni dell’indipendenza di ciascuno da collateralismi con altri poteri e della difesa dell’assetto costituzionale. Questa, e non un mero “contrasto”, è la via da seguire. Chi attacca la magistratura, continua a sostenere che la cosiddetta “questione morale” post caso Palamara non sia ancora risolta, è così? Magistratura democratica in vista del Congresso dell’Anm ha offerto al dibattito congressuale un documento che affronta i temi di etica e imparzialità. In sintesi estrema: centralità della questione morale da affrontare con decisione; rifiuto di una richiesta di imparzialità ridotta al malcelato desiderio di un modello di magistrato “allineato” e burocrate. Per fortuna quei tempi sono lontani e quelle dinamiche perverse non più attuali. Tuttavia, è vero che affidare le risposte solo ai procedimenti penali e disciplinari è stata una scelta che ha impedito di avviare un serio dibattito dentro la magistratura in ordine alle cause che hanno generato quella crisi. Che si ritrovano nel mito della carriera dirigenziale, nelle relazioni verticali che si vanno instaurando nei rapporti interni, con una loro progressiva gerarchizzazione, nella perdita di autorevolezza e credibilità dell’associazionsimo giudiziario che ha travolto anche il Csm. È curioso, tuttavia, che nessuna delle proposte di riforma attuali affronti questi temi, ma finisca, anzi, per aggravarli. La crisi sembra essere stata l’occasione per aggredire il ruolo di garanzia e tutela dei diritti fondamentali che la Costituzione riconosce alla magistratura. L’effetto sarà che i cittadini saranno più esposti alle angherie dei potenti e vedranno meno spazi di tutela per i loro diritti. Rispetto alle nomine dell’attuale Csm, Md ha spesso richiamato alla necessità di applicare regole certe e trasparenti. Il fenomeno carrieristico e le logiche spartitorie sono ancora un problema? Magistratura democratica ha molto dibattuto al suo interno per offrire a tutta la magistratura una riflessione equilibrata: noi pensiamo che l’attenzione debba spostarsi dalle singole vicende proprio alle regole. La discrezionalità del Csm è un valore che ne esprime, a tutto tondo, il ruolo costituzionale. Abbiamo però registrato troppi annullamenti da parte del giudice amministrativo delle nomine dirigenziali. E neppure la lettura delle sentenze che hanno disposto questi annullamenti offre una chiara indicazione dei criteri applicabili a decisioni omogenee. Vi è perciò un problema di trasparenza e comprensibilità delle scelte che dobbiamo porci a tutela della autorevolezza ed affidabilità del Csm. Per questo abbiamo avanzato una proposta tesa a semplificare e rendere più immediata l’applicazione piana dei criteri che rendano più trasparenti e comprensibili le scelte del Csm. Il caso Apostolico ha portato alla luce anche la questione dell’utilizzo dei social da parte dei magistrati, insieme al dibattito sulla necessità di apparire e non solo essere imparziali. Servirebbe un regolamento di condotta, come ipotizzato dal Csm? Abbiamo già un codice etico, possiamo aggiornarlo ed implementarlo. Ma non è la continua introduzione di regole, lo abbiamo visto, che può dare una soluzione. Piuttosto una migliore consapevolezza di noi e del nostro ruolo. Per questo l’associazionismo deve tornare ad essere uno spazio di confronto tra le plurali sensibilità che attraversano la magistratura in cui affrontare collettivamente le sfide della modernità, piuttosto che un’organizzazione stancamente chiusa nei suoi riti, volti a governare l’esistente: Nel contempo, ancora una volta, è importante chiarirci sul tema dell’imparzialità: al di là della questione social, al magistrato i cittadini devono chiedere l’attenzione alla realtà concreta e la sua comprensione. Ciascun magistrato deve essere autonomo e indipendente, ma non separato dalla società in cui vive: un magistrato tanto più consapevole del suo ruolo quanto più capace di abbandonare ogni tentazione di autoreferenzialità, e invece di saper ascoltare, di sapersi confrontare con ciò che gli sta intorno. Contro i pm schiavi del consenso. Parla il vicepresidente del Csm di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 maggio 2024 “Il compito di un buon magistrato è far rispettare la legge, non definire un’etica pubblica. L’imparzialità di un giudice si difende con i dubbi, non alimentando il processo mediatico”. Colloquio con Fabio Pinelli. Il problema, in fondo, è tutto lì: come si ricostruisce, con la magistratura, una fiducia che in alcuni casi non c’è più? E, soprattutto, come si può evitare che il tema dell’imparzialità di un magistrato venga considerato dal magistrato un tema meno importante rispetto alla ricerca del proprio consenso personale? Fabio Pinelli è il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e in questa conversazione con il Foglio accetta di ragionare intorno a un tema delicato e ambizioso. Come evitare che il virus del giustizialismo possa alimentare, tra i magistrati, una pericolosa pandemia giudiziaria. Come lavorare affinché la figura del magistrato possa essere sempre più sinonimo di terzietà e sempre meno sinonimo di parzialità. E come evitare che la politica continui in modo poco lungimirante a offrire alle procure leggi ballerine, dai contorni difficili da decifrare, destinate a mettere nelle mani dei magistrati un potere discrezionale enorme, spropositato. “Per il pubblico ministero, come per il giudice, la fiducia si ottiene attraverso l’autorevolezza. E la responsabilità sociale di un magistrato deve essere finalizzata non alla ricerca del consenso popolare, in senso politico e maggioritario, ma all’acquisizione della fiducia da parte di tutti i cittadini. Fiducia di essere ugualmente trattati di fronte alla legge, sia come imputati, sia come vittime”. Facile a dirsi, ma nel concreto? Per farlo, dice Pinelli, occorre riflettere senza ipocrisie attorno al “modo di esercitare la funzione del magistrato”, nel rapporto tra i propri diritti e i propri doveri, e per farlo occorre ricordare ai magistrati che “il concetto di fiducia deve tornare a essere distinto da quello di consenso”. Facile a dirsi, anche qui, ma nel concreto? Pinelli la prende da lontano. “Diceva Montesquieu alla fine del Settecento che chiunque abbia potere è portato ad abusarne, che chiunque abbia potere arriva sin dove non trova limiti e che perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere. Direi che in un certo senso è questo il nostro compito oggi. Ristabilire con urgenza il principio che l’essere imparziale torni al centro dell’esercizio dell’azione penale. Il magistrato, per citare Luciano Violante, deve dunque tornare a ragionare, e a lavorare, senza considerare più l’avere un dubbio come un tabù. Deve sapere che ha il dovere di pensare che potrebbe sbagliare. Deve ricordare che il nostro sistema processuale assegna al pubblico ministero di merito il compito di acquisire anche le prove a favore dell’imputato. Deve sapere che la ricerca del consenso determina una inaccettabile torsione delle sue funzioni. E deve sapere che oggi uno dei principali ostacoli al raggiungimento di una verità giudiziaria è proprio l’idea di infallibilità del magistrato”. Per provare a ristabilire, come suggeriva Montesquieu, un equilibrio tra i poteri dello stato, tra potere giudiziario e potere legislativo, non è sufficiente che vi sia una semplice consapevolezza da parte della magistratura dei suoi limiti, ma è necessario, dice Pinelli, che la politica smetta di sentirsi sotto scacco del potere giudiziario al punto da offrire alle procure della Repubblica strumenti utili per poter esondare dalle proprie competenze. La politica contesta spesso alla magistratura di non essere imparziale nella interpretazione della legge, di essere eccessivamente creativa, ma per evitare di indurre in tentazione i magistrati, dice Pinelli, la politica, e il legislatore in particolare, dovrebbe essere più responsabile e lavorare affinché “oltre a occuparsi principalmente del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, utilizzi una tecnica legislativa che eviti formulazioni generiche, tali da delegare sostanzialmente al magistrato scelte assiologiche che essa non è in grado o non vuole compiere. Purtroppo, in questi anni, la magistratura si è trovata a dover far fronte alla richiesta di risoluzione di ogni conflitto sociale. Mancano luoghi di mediazione che consentano di non entrare nel circuito giudiziario. Questo va riconosciuto, unitamente al grande lavoro compiuto quotidianamente da tanti magistrati al servizio del paese”. Ma detto ciò, dice Pinelli, “bisogna che i magistrati sappiano difendere la propria imparzialità”. E sul punto occorre, dice ancora il vicepresidente del Csm, aggiungere un altro tassello al mosaico. Occorre fare di tutto affinché il circo mediatico-giudiziario, che trasforma il processo che si celebra sui media in un processo più importante di quello che si celebra nelle aule di tribunale, venga limitato, combattuto, arginato, con il contributo di tutti. Pinelli non ha paura di dire che “il modo migliore per provare a disinnescare gli ingranaggi patologici del processo mediatico è mettere al centro dell’azione la tutela massima delle garanzie individuali e l’inderogabilità da un principio centrale che non deve essere considerato come un vezzo ma deve essere considerato il cuore del processo accusatorio: il principio del condannare oltre ogni ragionevole dubbio”. Essere garantisti, dice Pinelli, non dovrebbe essere un concetto rivoluzionario, ma dovrebbe coincidere con “l’essere legalitari”, un pensiero condiviso da chi è desideroso di rispettare ciò che prescrive la Costituzione da molti considerata la più bella del mondo. Ma cosa vuol dire, fuori dalla retorica, rimettere la Costituzione al centro? Facile. “Il richiamo principale è all’articolo 27, l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva e le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E insiste che “l’articolo 111, che prevede che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale, all’interno di un percorso che garantisce alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e ad avere diritto a una durata ragionevole del processo, deve trovare una costante e quotidiana applicazione”. E ancora: “L’articolo 112 della Costituzione, poi, prevede che l’obbligatorietà dell’azione penale debba essere volta a garantire sia l’indipendenza del pubblico ministero, quale organo appartenente alla magistratura, sia l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge; quest’ultimo è il principio più alto da salvaguardare”. Il magistrato, conclude Pinelli, non deve cadere nelle trappole che abbiamo visto durante Tangentopoli, “quando le procure della Repubblica cercarono di definire un’etica pubblica effettuando un controllo di legalità partendo dal diritto penale”. Un magistrato che si occupa di morale, e non di penale, non è un magistrato che fa bene il suo lavoro. Ma un magistrato che non fa bene il suo lavoro è anche quello convinto di non essere soggetto ad alcuna legge, di essere immune dal pagare per gli errori che commette e di essere così al di sopra delle parti di non saper più distinguere tra un sospetto e una prova, fra un teorema e un reato. Sintesi: i magistrati eroi non sono quelli che usano il processo mediatico per accrescere il proprio consenso, e la propria popolarità, ma sono quelli che portano a casa i risultati, quelli che rispettano il principio di terzietà, di indipendenza, di imparzialità. Sono quelli, per capirci, che comprendono bene che il magistrato non è un’autorità morale, ma è una figura strategica che deve limitarsi però ad accertare la commissione di reati e le responsabilità individuali. “La forza istituzionale del Consiglio superiore della magistratura sta nella presidenza della Repubblica, garanzia di equilibrio tra i poteri dello stato. Affrontare ‘la questione giustizia’ partendo da questa base aiuta ad affrontare la complessità dei problemi in modo più corretto e ordinato. E seguire il faro del capo dello stato aiuta a capire cosa vuol dire interpretare perfettamente il principio costituzionale dell’imparzialità”. Conclusione. “Sciascia diceva che l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Diceva che quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. Valeva nel 1986, vale ancora di più oggi”. La Consulta ribadisce: giusto puntare sui domiciliari, il carcere non è l’unica pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2024 Via libera al decreto attuativo della riforma penale che amplia la possibilità di scontare ai domiciliari le detenzioni brevi e concede più ore per il lavoro esterno. La Corte costituzionale, con la sentenza numero 84, ha confermato la validità della recente introduzione della pena sostitutiva della detenzione domiciliare tramite il decreto legislativo n. 150 del 2022, approvato dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio, nell’ambito dell’attuazione della Riforma voluta dall’ex ministra Marta Cartabia. I giudici supremi hanno dichiarato che il decreto legislativo non ha violato la legge delega nel disciplinare la riforma. Tale decisione è stata preceduta da una serie di critiche e interrogativi sollevati dalla Corte d’Appello di Bologna, che sono stati attentamente esaminati dalla Consulta. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili alcune delle questioni sollevate, giudicandole non rilevanti per la questione centrale del dibattito. Tuttavia, per quanto riguarda la questione principale, la Corte ha respinto l’accusa di violazione della legge delega mossa al decreto legislativo, sostenendo che la riforma del 2022 sia pienamente in linea con gli obiettivi generici stabiliti nella legge stessa. Secondo la Corte, la riforma mira principalmente a “ridurre il ricorso alla detenzione carceraria per pene di breve durata, considerando gli effetti desocializzanti noti e accentuati dal sovraffollamento delle carceri italiane”. Inoltre, si propone di favorire la rieducazione del condannato attraverso pene alternative che agevolino il suo reinserimento nella società, oltre ad alleviare il carico del sistema penale incoraggiando l’imputato a optare per un rito semplificato, come il patteggiamento. Un altro obiettivo chiave è garantire risposte certe e immediate al reato tramite pene alternative eseguite senza indugi, a differenza delle pene detentive brevi che spesso restano in sospeso per lunghi periodi in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza. La nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare si caratterizza per alcune peculiarità che la rendono più vantaggiosa rispetto alla detenzione domiciliare tradizionale. In particolare, prevede un limite minimo di permanenza nel domicilio di almeno 12 ore al giorno, rispetto alle 10 ore previste per la detenzione domiciliare come misura alternativa. Inoltre, offre maggiori possibilità di uscita dal domicilio per esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro o di salute. La nuova pena sostitutiva si propone come strumento alternativo al carcere, favorendo la rieducazione del condannato e il suo reinserimento nella società. Ricapitoliamo. Tra i suoi benefici, la Consulta evidenzia maggiori possibilità di uscire dal domicilio per esigenze familiari, di studio, lavoro o salute, rispetto alla detenzione domiciliare come misura alternativa; un regime più favorevole di permanenza in casa, con un limite minimo di 12 ore al giorno (contro le 10 previste per la detenzione domiciliare); incentivi a definire il processo con riti semplificati, come il patteggiamento, alleggerendo il carico del sistema penale; risposte certe e rapide al reato, con pene alternative immediatamente esecutive, a differenza delle pene detentive brevi spesso sospese per anni. Queste caratteristiche, secondo la Corte costituzionale, rendono la nuova pena sostitutiva più adatta a realizzare gli obiettivi di rieducazione e reinserimento sociale del condannato, in linea con i principi rieducativi della pena sanciti dall’art. 27 della Costituzione. Un aspetto fondamentale sottolineato dalla Consulta è quello evidenziato dall’Unione delle Camere Penali Italiane, che ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae: la detenzione domiciliare sostitutiva sarebbe configurata come “pena-programma”, caratterizzata da “elasticità nei contenuti, predeterminati dalla legge, perché funzionale alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio”, in funzione della garanzia di rieducazione e risocializzazione del condannato e, al contempo, di prevenzione speciale. Tale misura - secondo la relazione illustrativa del decreto legislativo in esame - sarebbe volta a “soddisfare le esigenze umanitarie proprie della detenzione domiciliare/misura alternativa alla detenzione, rappresentando una misura dall’applicazione anticipata e alternativa, rispetto a quella, con migliore e più tempestiva soddisfazione delle esigenze sottese, nell’interesse del condannato e dei suoi familiari”. Le diverse modalità di esecuzione della detenzione domiciliare sostitutiva troverebbero fondamento nell’imperativo costituzionale di personalizzazione del trattamento sanzionatorio e non sarebbero irragionevoli, consentendo invece di “mantenere inalterate le imprescindibili esigenze special-preventive, che peraltro potranno essere assicurate anche con l’utilizzo di strumenti di controllo elettronici”. I giudici della Consulta sottolineano che le nuove sanzioni sostitutive previste dal decreto legge sarebbero state concepite in “un’ottica di risocializzazione del condannato in tempi più rapidi e certi, dunque con modalità più efficienti e rispettose dei diritti costituzionali del condannato, e ciò per porre rimedio alle criticità che ormai da anni manifesta l’esecuzione penale”. Tale riforma rivitalizzerebbe le pene sostitutive, finora scarsamente applicate nella prassi, conferendo alle stesse “connotati di razionalità e mitezza sconosciuti alla legislazione previgente”, in piena attuazione dei principi costituzionali che il giudice rimettente erroneamente assumerebbe violati. In conclusione, la sentenza della Corte costituzionale costituisce un’approvazione definitiva della nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare voluta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Corte ha riconosciuto la validità degli obiettivi e delle caratteristiche di questa nuova forma di pena, considerandola uno strumento utile per ridurre l’uso della detenzione carceraria, promuovere la rieducazione dei condannati e alleggerire il sistema penale. Questo pronunciamento apre la strada a un’ampia applicazione della nuova pena sostitutiva, potenzialmente contribuendo a migliorare il sistema penale italiano e renderlo più rispettoso dei diritti umani. Riforma Cartabia, la detenzione domiciliare sostitutiva non viola la delega di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2024 Lo ha stabilito la Corte costituzionale, sentenza n. 84, depositata oggi, affermando che è conforme all’idea di una “pena-programma”, elastica nei contenuti e tale da garantire risocializzazione e tutela della collettività. Il decreto legislativo n. 150 del 2022 non ha violato la legge delega nel disciplinare le modalità esecutive della nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 84, depositata oggi, con la quale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate una serie di questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bologna. Rispetto all’unica questione valutata nel merito, la Consulta ha sottolineato che la riforma del 2022 mira a rivitalizzare le pene sostitutive delle detenzioni di breve durata, i cui effetti desocializzanti sono da tempo noti, specie nel contesto di significativo sovraffollamento in cui, nuovamente, versano le carceri italiane. La Corte ha evidenziato che le pene sostitutive sono ispirate al principio secondo cui il sacrificio della libertà personale va contenuto entro il minimo necessario, oltre che alla necessaria finalità rieducativa della pena sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Inoltre, la loro previsione incentiva l’imputato a definire il processo con un rito semplificato, e in particolare con il patteggiamento: il che contribuisce ad alleggerire i carichi del sistema penale, in funzione dell’obiettivo di assicurare a tutti tempi più contenuti di definizione dei processi. Infine, le pene sostitutive garantiscono risposte certe, rapide ed effettive al reato, ancorché alternative al carcere, dal momento che sono immediatamente esecutive non appena la sentenza di condanna passa in giudicato. E ciò a differenza di quanto accade rispetto alle pene detentive di durata non superiore a quattro anni, che restano di regola sospese anche per vari anni, sino a che il tribunale di sorveglianza non decida sulla richiesta del condannato di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione. Con la conseguenza che circa novantamila persone in Italia sono oggi “liberi sospesi”: e cioè condannati in via definitiva, che però non sono sottoposti allo stato ad alcuna misura restrittiva, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza. Secondo la Corte, la disciplina della pena sostitutiva della detenzione domiciliare risponde a questi obiettivi generali della legge delega, che prescriveva al Governo di mutuare la disciplina prevista, in fase esecutiva, per l’omonima misura alternativa della detenzione domiciliare, ma soltanto “in quanto compatibile” con tali obiettivi. In particolare, la previsione, da parte del legislatore della riforma, di un più favorevole regime del limite minimo di permanenza nel domicilio (almeno dodici ore al giorno), così come di un’ampia possibilità di uscire dal domicilio stesso in relazione a “comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale di lavoro o di salute”, è coerente - ha osservato la Corte - con la spiccata funzionalità rieducativa di questa pena sostitutiva, che prevede uno specifico programma di trattamento elaborato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato. Ciò appare conforme all’idea - che è alla base della riforma - di una “pena-programma” caratterizzata da elasticità nei contenuti, perché funzionale alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio, in modo da garantire la risocializzazione del condannato e, assieme, una più efficace tutela della collettività. Lazio. Colloqui riservati, lettera dei Garanti per l’attuazione della sentenza della Consulta garantedetenutilazio.it, 11 maggio 2024 Anastasìa e Calderone scrivono alle direzioni degli istituti penitenziari, per ricordare che è già possibile dedicare degli spazi ai colloqui intimi. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, ha inviato una lettera alle direzioni degli istituti penitenziari del Lazio, affinché siano trovate soluzioni idonee a consentire incontri intimi tra le persone detenute e i propri partner, secondo quanto previsto dalla sentenza n. 10/2024 della Corte costituzionale. “Come noto - si legge nella missiva sottoscritta anche dalla Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone -, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 10 del 2024, depositata il 26 gennaio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di polizia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Una sentenza che tutti sono tenuti ad osservare - I Garanti evidenziano che il tipo decisorio scelto dalla Corte in questa pronuncia è quello della sentenza additiva, avente efficacia erga omnes, vale a dire che tutti i soggetti sono tenuti ad osservare questo tipo di sentenze. “Pertanto- proseguono i Garanti-, la Corte enuncia una serie di regole e criteri, utilizzabili, almeno in una prima fase, dall’amministrazione penitenziaria per orientarsi nella individuazione in concreto delle modalità di attuazione del contenuto dell’addizione che è già operante dal momento della pubblicazione della sentenza. Ad esempio, la Consulta indica che la durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività e che, pertanto, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico, tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva”. Unità abitative appositamente attrezzate - La Consulta, si spiega nella missiva, “ipotizza che le visite a tutela dell’affettività possano svolgersi in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. Ribadisce che debba essere assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia. Specifica che, nella fruizione dei locali predisposti per l’esercizio dell’affettività, siano favorite le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio”. Direttori, direttrici, la Corte si rivolge proprio a voi - Nella missiva indirizzata alle direzioni delle carceri viene inoltre evidenziato che la Corte costituzionale, pur sollecitando il Parlamento a intervenire per un’auspicabile disciplina organica della materia, tuttavia precisa che, in attesa di tale intervento, è già possibile dedicare degli spazi ai colloqui intimi all’interno degli istituti penitenziari, “laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria”. A tale opera di attuazione della norma introdotta dalla sentenza, la Corte chiama anche l’amministrazione penitenziaria, “in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti” Di qui la missiva dei Garanti Anastasìa e Calderone che così concludono: “Considerato che alla luce della sentenza della Corte costituzionale il diritto ai colloqui riservati con i propri partner appare pienamente riconosciuto e già vigente nel nostro ordinamento, con la presente si chiede a codesta Direzione - nelle more di una disciplina organica e di auspicabili linee di indirizzo dipartimentali - quali iniziative siano state intraprese per dare attuazione a tale decisione e se si sia provveduto ad individuare degli spazi da adibire agli scopi individuati dalla Consulta, anche all’esito di eventuali attività di adattamento”. Salerno. Protesta dei detenuti contro cibo scadente e condizioni disumane di Enrica Riera Il Domani, 11 maggio 2024 A Salerno è in corso lo sciopero dei pasti. La mobilitazione si allarga ad altri penitenziari d’Italia. Micaela Tosato dell’associazione “Sbarre di zucchero” spiega che “per il carrello pasti lo Stato spende 3 euro al giorno a detenuto”. Ma l’elenco delle rivendicazioni riguarda molti altri aspetti della vita carceraria. È una “protesta pacifica” quella dei reclusi nel carcere di Fuorni, a Salerno. D’altronde l’hanno definita così quando hanno enumerato, punto per punto, i disagi che vive quotidianamente chi, come loro, si trova in stato di detenzione. Disagi tali da spingerli a una decisione drastica. Niente più “carrello del vitto cucina”, niente più spese al di fuori del penitenziario se non quelle che garantiscano la “sopravvivenza”. Questo sciopero è dunque spia di diritti negati e sommersi, quelli che i detenuti nel carcere campano hanno condensato nei due fogli protocollo indirizzati ai vertici del carcere di Fuorni, al tribunale di sorveglianza di Salerno e al Dap. Uno sciopero che rivendica le prerogative di tutti coloro si trovino in una cella, dietro le sbarre, in Campania come nei penitenziari delle altre regioni italiane. “Scioperiamo perché negli istituti penitenziari è impossibile eseguire una pena detentiva che rispetti i diritti umani. La carenza di magistrati, cancellieri, educatori e assistenti sociali implica ritardi enormi nel fissare le udienze e, ancora, per l’ottenimento di permessi premio e liberazioni anticipate o misure alternative”, scrivono i detenuti di Fuorni. L’elenco delle mancanze riscontrate è così lungo che quei residui di libertà che ciascuno di loro dovrebbe mantenere vengono ridotti a brandelli microscopici. La Corte Costituzionale trent’anni fa in una sentenza storica scrisse appunto che “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità”. Parole che sembrano essere rimaste lettera morta. “Pasti di tre euro” - “Si tratta di persone che non stanno chiedendo una riduzione di pena, ma solo di scontarla in modo dignitoso”, commenta Micaela Sposato di “Sbarre di zucchero”, l’associazione che, da Verona, si batte per i diritti dei detenuti in Italia. “Quello che i ristretti dei penitenziari del Paese hanno iniziato - continua Sposato - è un vero e proprio sciopero della fame. A protestare, di fatti, sono anche i detenuti del carcere di Rebibbia, che hanno iniziato da lunedì 6 maggio, e quelli, tra gli altri, di Padova e di Pesaro. Il carrello pasti che ricevono è del resto indicibile: lo Stato spende circa 3 euro a detenuto per colazione, pranzo e cena complessivamente; mentre il sopravvitto ha costi altissimi. Chissà se il governo, prima o poi, ascolterà questi loro, nostri appelli”. Intanto proprio davanti al ministero della Giustizia, giovedì 16 maggio, “Sbarre di Zucchero” si radunerà insieme alle famiglie dei detenuti che in carcere si sono suicidati. “Qualcuno - conclude la rappresentante dell’associazione che ha referenti su tutto il territorio nazionale - dovrà ascoltarci”. I Garanti: “Inerzia dalle istituzioni” - Anche il direttivo della Conferenza nazionale dei garanti territoriali dei detenuti, nei giorni scorsi, ha lanciato un appello, denunciando più in particolare la “sostanziale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza dei reclusi”. “Nell’inerzia delle istituzioni - continua il direttivo - si sta allungano l’elenco delle persone detenute che, da gennaio 2024, si sono tolte la vita: ad oggi, sono 34 le persone detenute suicide. Altrettanto preoccupante è l’aumento dei casi di autolesionismo e il dilagare di fenomeni di violenza e di tortura “sistemica” che si consumano nelle carceri italiane, come testimoniato anche dalle recenti indagini giudiziarie riguardanti i fatti consumati nel carcere di Reggio Emilia o, ancor più drammaticamente, l’inchiesta sulle violenze poste in essere in danno di soggetti minori, reclusi presso l’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano. Numeri e fatti impressionanti - proseguono i garanti - che richiedono, nell’immediato, l’adozione di soluzioni che rendano le carceri luoghi davvero rispettosi della dignità umana e vivibili, sia per chi vi è recluso sia per chi ci lavora”. Utopia? Col problema del sovraffollamento - pari al 130,03 per cento, con un totale di 61.351 detenuti a fronte di una capienza effettiva ammontante a 47.180 posti nei penitenziari italiani - le speranze sono poche, pochissime. Da qui, pertanto, le richieste del direttivo: dall’approvazione di misure deflattive del sovraffollamento fino a, come si diceva, interventi migliorativi delle condizioni detentive. “Indignarsi - scrivono i garanti - non basta più”. Ebbene sì, non basta indignarsi, cosa che succede sempre più spesso davanti alle cronache che descrivono condizioni di detenzione che non rispettano nessun principio costituzionale. E davanti, per esempio, ai due fogli A4 dei detenuti di Fuorni. Dal carcere salernitano chiedono anche il “ripristino delle docce (…), di risolvere al più presto il problema dell’immondizia, di implementare il servizio Caritas”. Di essere, insomma, trattati come persone. Milano. Pochi educatori e guardie troppo giovani: ecco perché l’Ipm è diventato un problema di Andrea Montanari La Repubblica, 11 maggio 2024 La visita dei Consiglieri regionali. Il sopralluogo della Commissione carceri del Pirellone: “Non si può solo sorvegliare e accudire, ma devi avere una forte presenza educativa”. Un carcere minorile sovraffollato, con pochi educatori e con personale penitenziario giovane, spesso poco formato per lavorare in una struttura di questo tipo. Questo il bilancio della visita della commissione Carceri del Pirellone al carcere minorile Beccaria di Milano. “Proprio in un istituto minorile dove l’attenzione deve essere a trecentosessanta gradi non si può solo sorvegliare e accudire, ma devi avere una forte presenza educativa - racconta la consigliera regionale del Pd Paola Bocci - Il grande tema è inserire degli educatori. Molti operatori che partecipano ai concorsi poi decidono di andare in altre sedi e di non stare lì”. Il Beccaria, attualmente, ospita 80 detenuti minori, di cui quasi il cinquanta per cento sono minori stranieri non accompagnati. Alcuni arrivati in Italia con i barconi. Su una popolazione carceraria minorile di 600 giovani detenuti su tutto il territorio nazionale. “Vista la giovane età del personale penitenziario, a maggior ragione bisognerebbe investire in una formazione specifica per chi deve avere rapporti con detenuti minori”. Mancano poi gli educatori. Ne servirebbero almeno una ventina, ma ora sono solo sei più quattro messi disposizione dal Comune di Milano. La maggior parte dei reati commessi da questi minori sono rapine, furti, non legati alla criminalità organizzata. Molti di loro hanno avuto esperienze in lager libici. Il sopralluogo si è svolto in due parti. Prima un incontro tra vertici della struttura e una delegazione del Consiglio regionale formata da Paola Bocci del Pd, Luca Paladini del Patto civico, Martina Sassoli di Lombardia migliore, Paola Pollini del Movimento Cinque stelle, presidente della commissione speciale Carceri lombarda e Onorio Rosati di Sinistra italiana. Quindi un incontro con due gruppi di giovani detenuti. Nessuno dei minori ha voluto parlare direttamente dei fatti oggetti dell’indagine della magistratura. Alcuni non sono nemmeno usciti dalle celle e sono rimasti in attesa delle comunicazioni dei loro avvocati. Dal confronto con i nuovi dirigenti della struttura sarebbe emerso che da parte dei giovani detenuti cui sia stata “una sottovalutazione” della gravità di quanto accaduto. Come se alcuni di loro essendo abituati a subire violenze nei lager non avessero dato peso al fatto di essere stati picchiati, tanto da non essersi confidati con i cappellani. Per Bocci, un altro tema è “che questo personale penitenziario lavora e dorme nella struttura. Fa turni lunghissimi e dovrebbero avere soluzioni abitative diverse da quelle della caserma”. Cagliari. “Detenuti disabili in celle non a norma”, l’allarme della Garante sassarinotizie.com, 11 maggio 2024 La situazione nelle carceri sarde continua a destare preoccupazione. Questa volta, al centro delle attenzioni della garante dei detenuti Irene Testa, si trova la casa circondariale di Cagliari- Uta E. Scalas. Riportiamo di seguito le sue dichiarazioni in merito: “La mia visita nei giorni scorsi alla Casa Circondariale di Uta ha confermato ancor di più la situazione di estrema precarietà e violazione dei diritti umani nei confronti di alcune persone private della libertà personale, in particolare per quanto concerne l’assistenza sanitaria. Sono circa 655 i detenuti costretti a vivere in una situazione di sovraffollamento e grave disagio, privati della giusta assistenza sanitaria prevista dalle norme. Ho trovato alcuni detenuti disabili costretti a vivere in condizioni inaccettabili e disumane. In una sola sezione ben cinque detenuti affrontano gravi invalidità: quattro costretti su sedie a rotelle e uno sulle stampelle. L’unica cella predisposta per la disabilità è insufficiente a soddisfare le esigenze di tutti, costringendo gli altri detenuti a vivere in condizioni di illegalità e a fare affidamento sui compagni di cella per le attività quotidiane più basilari. Le barriere architettoniche nelle celle si traducono in una serie di difficoltà quotidiane insormontabili, come ad esempio l’accesso ai servizi igienici e la possibilità di fare la doccia in modo sicuro. Questa situazione umiliante e degradante mette a rischio la salute fisica e mentale dei detenuti. A questo si aggiunge il concreto pericolo dell’azzeramento del servizio 118, che getta nel panico non solo i detenuti ma anche i loro familiari, aggiunge un ulteriore stato di emergenza a una situazione già critica.” Le richieste della garante dei detenuti sono chiare e perentorie: “Chiedo con urgenza un intervento immediato da parte delle autorità competenti per garantire il pieno diritto alla salute che deve essere garantito a tutti. Chiedo che si mettano a norma le celle per i disabili e che si fornisca all’istituto nell’immediato il personale sanitario adeguato per gestire un trattamento dignitoso e adeguato a tutti i detenuti con disabilità fisiche e psichiche.” Roma. A 13 mesi in cella con la madre: no ai domiciliari per un cavillo di Eleonora Camilli La Stampa, 11 maggio 2024 La donna sconta una pena divenuta esecutiva dopo anni. Prossima udienza il 7 giugno. Il piccolo è stato costretto a sospendere la fisioterapia. La garante: “Si è verificato un errore. Recluso in un istituto di pena a soli 13 mesi perché la mamma deve scontare una pena per reati compiuti più di sei anni fa. L’assurda storia arriva dall’Ipm di Casal del Marmo, l’istituto per minorenni di Roma. La ragazza, che oggi ha 24 anni, tre settimane fa è entrata nel carcere con il figlio di poco più di un anno, per una pena divenuta esecutiva dopo anni. Poco importa se nel frattempo è diventata madre. E se il bambino, che ha festeggiato il primo compleanno nell’aprile scorso, con l’ingresso in istituto ha dovuto interrompere le sedute di fisioterapia a cui si sottopone. Nel carcere, pensato per i minori, non c’è uno spazio per le neomamme né un nido, così la ragazza e il suo bambino condividono la camerata con altre detenute minorenni. Ad aggravare la situazione un pasticcio burocratico: un indirizzo sbagliato che ha rallentato la possibilità per la donna, che pure avrebbe un luogo idoneo dove stare, di accedere alla detenzione domiciliare. Ora bisognerà attendere l’udienza del 7 giugno: il magistrato di sorveglianza dovrà deciderà se comminare una misura alternativa o prevedere la sospensione della pena, che però sopra l’anno di età del bambino è un’ipotesi facoltativa. La vicenda è sotto osservazione da parte della Garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, che ha fatto visita alla ragazza e al bimbo per accertarsi delle loro condizioni. “Quella di Casal del Marmo è una struttura molto buona, la direzione sta facendo il possibile - spiega -. Certo, nessun posto carcerario è adeguato per un minore di 13 mesi. Stiamo comunque monitorando la situazione per fare in modo che in tempi rapidi si trovi una soluzione idonea. Io ho incontrato la ragazza, è un po’ spaesata, c’è stato un errore che sta rallentando il processo decisionale. Ma ci stiamo attivando per risolvere la situazione”. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, sono 22 i bambini in carcere con le madri detenute. E vengono ospitati negli Icam e nelle sezioni nido di carceri ordinarie. “Noi da sempre difendiamo la norma del 1975 che permette alle mamme di avere i figli in carcere fino ai tre anni di vita - spiega Susanna Marietti, responsabile dell’area minori dell’organizzazione -. Separare madre e figlio non è il male minore. Detto questo però bisogna anche ragionare caso per caso, senza seguire facili slogan”. Per Marietti bisognerebbe aumentare i luoghi adatti alla detenzione con i minori e “mettere i soldi sulle case famiglia, che spesso hanno pochi posti” ma anche “potenziare, laddove possibile, tutte le misure alternative alla detenzione in carcere, specialmente quando è presente un bambino”. Padova. “Lo studio è speranza”. La Rettrice Mapelli al Due Palazzi per l’anno accademico di Sara Busato Corriere del Veneto, 11 maggio 2024 Studio e cultura: strumenti di riscatto e libertà anche dietro le sbarre. Ieri mattina, nel carcere di Padova, la Rettrice Daniela Mapelli ha inaugurato, con la presenza delle istituzioni, il ventunesimo anno accademico dedicato agli studenti detenuti. Il progetto, avviato nel 2003, ha visto finora sessantatré reclusi ottenere la laurea. Quest’anno, ci sono 59 nuovi iscritti alle sette scuole dell’ateneo, di cui dieci matricole. L’università ha dimostrato un forte impegno, mettendo a disposizione diciotto tutor che seguono settimanalmente gli studenti detenuti, fornendo supporto e materiali didattici. “Dal prossimo anno anche i dottorandi potranno contribuire alla didattica - aggiunge la rettrice - Lo studio non è solo un modo per passare il tempo in detenzione, ma rappresenta una speranza per il futuro”. Convinto dell’efficacia del progetto anche il sottosegretario alla giustizia, il padovano Andrea Ostellari. “Quando chi ha scontato la sua pena esce rieducato e abbandona l’attività criminale, allora possiamo dire che il sistema carcerario ha funzionato”, ha commentato, sottolineando che: “Qui a Padova la pianta organica degli educatori è al completo”. Tornando al progetto formativo il format offre agli studenti l’opportunità di entrare in contatto con la realtà carceraria e consente agli studenti detenuti di esplorare il mondo al di fuori delle mura del carcere, interagendo con persone che non fanno parte di quel contesto. “Cultura, istruzione e diritto allo studio sono fondamentali, insieme al lavoro” ha commentato Claudio Mazzeo, direttore del carcere di Padova, “per creare percorsi di inclusione e reintegrazione sociale”. Molti detenuti scelgono di iscriversi all’università dopo aver completato il percorso scolastico in carcere, ottenendo il diploma delle scuole medie e successivamente quello di scuola superiore. Durante la cerimonia, non sono mancate le testimonianze di chi ha fatto i conti con i propri errori, trascorrendo il periodo di detenzione immergendosi nei libri. Un esempio è Elton Kalica, il primo iscritto al progetto Università in carcere. Dopo aver conseguito la laurea triennale e magistrale, e aver completato un dottorato, nel 2011 ha terminato di scontare la sua pena ed è ora un dottore di ricerca in Scienze Sociali presso l’università di Padova. “Una volta fuori”, racconta Kalica, “ho affrontato la realtà con maggiore consapevolezza, attrezzato e con maggiori risorse. L’istruzione è fondamentale per la qualità della vita e aiuta a superare le delusioni”. Nel corso della cerimonia, si sono alternati momenti di leggerezza, grazie alla partecipazione dell’attrice comica Emanuela Aureli a toccanti testimonianze e richieste specifiche. “Studiare abbatte i muri fisici e mentali - racconta Nicola, studente di storia -. Sentiamo la mancanza di un ambiente adeguato allo studio”. Per coloro che non hanno accesso al Polo Universitario, lo spazio ristretto di una cella può rappresentare un’altra sfida da affrontare. Milano. CarteBollate in crisi lancia la raccolta fondi: “Aiutateci o chiudiamo” di Roberta Rampini Il Giorno, 11 maggio 2024 Il periodico CarteBollate, creato dai detenuti del carcere di Bollate, rischia la chiusura per mancanza di fondi. Attivo da vent’anni, promuove la cultura e l’informazione in un contesto carcerario fragile. Una campagna di crowdfunding è in programma per salvare il progetto. “Aiutateci tutti, altrimenti chiudiamo” è il titolo di copertina dell’ultimo numero di CarteBollate, il periodico scritto, pensato e finanziato dai detenuti e dalle detenute del carcere di Bollate. Dal 2002 informa dal carcere e sul carcere, ma ora rischia di chiudere perché i soldi sono finiti. “I motivi di questa crisi sono semplici: l’economia carceraria è estremamente fragile, basta un piccolo intoppo perché si sgretoli e stiamo lavorando con tutte le nostre forze per continuare ad esserci”, scrive Susanna Ripamonti nel suo editoriale. Che aggiunge, “il nostro giornale vive da più di vent’anni e non ha mai interrotto la sua attività, neppure durante la pandemia”. Il periodico è tra i tanti progetti del carcere all’avanguardia per il trattamento dei detenuti. Si tratta di un bimestrale di 32 pagine, indirizzato ai detenuti, agli operatori del carcere, agli abbonati, alla magistratura di sorveglianza, scritto e impaginato da una redazione di 25 persone supportata da 6 giornalisti professionisti che svolgono il loro lavoro come volontari. C’è anche una redazione radiofonica che produce un giornale radio che va in onda regolarmente su Radiopopolare, nell’ambito della trasmissione “Jail house rock”. Informazione ma non solo. In questi anni ha organizzato anche molte attività culturali con alcune associazioni, biblioteche e librerie della zona di Milano per promuovere la lettura tra le fasce più disagiate della popolazione, “i detenuti sono stati testimonial davvero fantastici, perché hanno raccontato come un libro può aiutarti a sopravvivere”. O ancora, insieme a Naba (Nuova accademia di belle arti) ha organizzato la mostra “Oggetti d’evasione” alla Fabbrica del vapore di Milano con gli oggetti che i detenuti creano per sopravvivere ai divieti. Nelle prossime settimane la redazione avvierà un crowfounding per raccogliere finanziamenti, ma si può dore anche subito: sul sito www.cartebollate.com ci sono le indicazioni. Pesaro. Yoga in carcere”, un progetto dedicato alle detenute di Luigi Benelli centropagina.it, 11 maggio 2024 Obiettivo del corso settimanale è ridurre i livelli di aggressività, il recupero mentale ed emotivo. Si chiama “Yoga in carcere” il progetto rivolto alle detenute della sezione femminile del carcere di Pesaro, che portranno praticare una volta alla settimana, la disciplina. Un’iniziativa di totale karma yoga (servizio in volontariato) nato da un’idea di Manuela Andreani, realizzatrice e coordinatrice del progetto, con il patrocinio dell’assessore allo Sport Mila Della Dora, e del direttore della Casa Circondariale di Pesaro Annalisa Gasparro. “Un bellissimo progetto che si pone l’obiettivo di far riflettere, prendere consapevolezza del nostro corpo e della propria mente - ha commentato l’assessore Della Dora -. Nell’anno della Capitale italiana della cultura 2024 abbiamo scelto di rafforzare questo tipo di sensibilità, legata allo sport e al benessere della comunità. Ringrazio gli organizzatori e la direttrice della Casa Circondariale”. Un progetto che, come spiega Manuela Andreani, coerentemente con i temi di responsabilità e legalità, nasce con l’obiettivo di vedere il carcere “come un luogo in cui restituire qualcosa al detenuto lungo il suo percorso, affinché non venga ripristinato una volta uscito lo stato di illegalità. Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi”. Le ripercussioni della pratica dello yoga all’interno di un contesto carcerario e su persone che devono vivere una situazione di costrizione forzata, possono essere secondo Andreani: “una diminuzione del livello di aggressività che ciascun detenuto riversa sui compagni e su se stesso e una maggiore serenità d’animo, che spinge al superamento delle dinamiche di isolamento e ulteriore emarginazione di alcuni detenuti”. E continua: “Crediamo nelle potenzialità della pratica dello yoga in tutte le condizioni e vogliamo portarla anche dove più difficilmente arriverebbe, farla conoscere e metterla a disposizione di persone che vivono, hanno vissuto, hanno provocato sofferenza; perché una civiltà che dimentica i detenuti non può dirsi una società civile. Questo progetto vuole fare la propria parte per la diffusione dello yoga come strumento attuativo di integrazione, personale e sociale. L’insegnamento dello yoga in carcere assume particolare efficacia in termini di recupero della presenza fisica, mentale ed emotiva”. La visione che ha del carcere la nuova dirigente Annalisa Gasparro è infatti quella di un luogo in cui “restituire qualcosa” al detenuto lungo il suo percorso, un luogo in cui cominciare a praticare l’assunzione di responsabilità, affinché non venga ripristinato, una volta uscito, lo stato di illegalità. Così la direttrice della Casa Circondariale: “Quella della detenzione femminili è una situazione abbastanza peculiare. Una condizione che, a mio avviso, non viene sempre guardata con la dovuta importanza, vuoi per la percentuale minore delle donne detenute rispetto alla popolazione per la quale è stato pensato l’impianto dell’ordinamento. Abbiamo accolto il progetto con entusiasmo perché mette la condizione della donna al centro, attraverso la pratica, importante e riabilitativa, dello sport”. Partner determinante la società King Spa, con il suo nuovo store King (via Gagarin 126 a Pesaro), che ha donato al settore femminile del carcere di Pesaro i tappetini su cui praticheranno le detenute. Prezioso il supporto del comandante Nicandro Silvestri, del Sostituto Commissario Tiziano Tontini e del capo area giuridico pedagogica Enrichetta Vilella. Cinema. Con “Samad” dentro le scelte difficili di chi sta in carcere di Angela Calvini Avvenire, 11 maggio 2024 Il regista Santarelli, attraverso la vicenda di un giovane arabo, racconta “un mondo fatto di rabbia, paura, speranza”. Il film è frutto di una lunga esperienza sul campo come documentarista. Quanto è difficile rifarsi una vita dopo il carcere, farsi accettare dagli altri e, soprattutto, liberarsi da ciò che la prigione ha lasciato dentro di sé? Sono alcuni dei quesiti posti da Samad, in sala dal 13 maggio, il primo coinvolgente lungometraggio di Marco Santarelli, protagonista l’attore di origine marocchina Mehdi Meskar, nato in Italia ma che vive e lavora in Francia. Accanto a lui un intenso Roberto Citran nei panni di padre Agostino, Marilena Anniballi e Luciano Miele. Gli altri attori arabi arrivano sul grande schermo per la prima volta: alcuni di loro sono ex detenuti formatisi nei laboratori di teatro presso la casa circondariale “Dozza” di Bologna, altri sono giovani artisti marocchini del collettivo bolognese Cantieri Meticci. Il film è sostenuto da Antigone, l’associazione che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, ed è prodotto da The Film Club e Kavac Film con Rai Cinema. Samad (Mehdi Meskar) ce l’ha fatta. Ha pagato il suo conto con la giustizia e ora ha un lavoro da giardiniere, una nuova vita. Padre Agostino (Roberto Citran), suo amico e mentore, lo invita in carcere perché possa essere di ispirazione per i suoi compagni, come esempio di reinserimento, perché possa raccontare la nuova vita da uomo libero. Ma è la giornata sbagliata: una rissa fa esplodere la rabbia e il risentimento dei detenuti, che decidono di barricarsi nella biblioteca del carcere. Samad, che sta pensando alla conversione al cattolicesimo oppresso dai sensi di colpa per la morte della madre cristiana il giorno del suo arresto, si troverà a dover scegliere chi essere: musulmano o cristiano, complice oppure ostaggio. “Samad - racconta il regista Santarelli con alle spalle una lunga carriera come documentarista impegnato - nasce durante le riprese del mio secondo documentario in carcere: Dustur (Costituzione). L’idea mi è venuta filmando ore e ore d’incontri tra un volontario religioso cattolico, il monaco Ignazio de Francesco, e un gruppo di detenuti musulmani, su temi legati ai principi della Costituzione italiana e delle Costituzioni arabe. Un confronto non facile, tra due mondi molto diversi, sconvolti dall’attentato alla sede del giornale satirico di “Charlie Hebdo”. È da qui che parte il film Samad, una visione sul tema della “sottomissione” e della radicalizzazione in carcere”. Una storia dentro la galassia delle seconde generazioni arabe, raccontata dietro le sbarre di un carcere, in cui si inseriscono anche immagini delle vere rivolte nel carcere di Modena nel 2020 durante la pandemia. E dove ritroviamo a interpretare il duro capo dei rivoltosi anche il vero Samad Bannaq, protagonista del documentario Dustur in cui da ex detenuto portava la sua testimonianza di redenzione ai carcerati del Dozza di Bologna. “Il vero Samad l’ho conosciuto quando ho girato il mio primo documentario alla Dozza nel 2011 dove era detenuto. Poi è uscito, è riuscito a rifarsi una vita ed è nata una amicizia fra noi. Anche i suoi racconti sono stati di ispirazione per il film” spiega il regista. Il Samad del lungometraggio è un ragazzo di seconda generazione che non ha paura di guardarsi dentro per trovare la sua libertà ma non riesce a trovare il coraggio di tradire i suoi ex compagni. “Un film che ha l’ambizione di spingersi oltre i confini del bene e del male in un mondo fatto di rabbia, paura, speranza. Un duro e lungo viaggio alla ricerca di una pace che per Samad diventerà anche la sua condanna” aggiunge Santarelli. Il quale frequentando i volontari della Dozza ha incontrato una persona che lui definisce “fondamentale”, padre Ignazio de Francesco (a cui si ispira il padre Agostino del film) monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, la comunità fondata da Giuseppe Dossetti, che lavorava con l’area pedagogica del carcere bolognese e di cui il regista ha seguito gli incontri sul tema della costituzione. “Il film parla di conflitti che alimentano rabbia e vittimismo. Sentimenti che in carcere sono esasperati - aggiunge Santarelli -. L’idea della rivolta in carcere nasce perché durante uno degli incontri di Dustur si era accesa una discussione fortissima sull’apostasia. Per me è stata una esperienza formativa personale forte. Sono rimasto colpito dalla capacità di padre Ignazio di dialogare con un mondo distante, dalla sua forza e dalle sue competenze, e anche da come si fidavano i ragazzi. Alla fine loro hanno scritto una loro piccola Costituzione. All’interno del carcere vittime e carnefici sono la faccia della stessa medaglia, schiavi di un sistema di potere che si fonda sulla violenza”. Il 13 maggio il film verrà proiettato in anteprima al cinema Corso multisala di Piacenza e anche nel carcere cittadino dove sono state girate alcune scene del film (l’idea è quella di portarlo anche in altre carceri italiane), il 14 maggio sarà a Bologna e dal 20 maggio al cinema Tivoli a Roma. Diritto alla sussidiarietà, ricucire la fiducia tra cittadini e istituzioni di Maria Elena Viggiano Corriere della Sera, 11 maggio 2024 Il professor Sabino Cassese e don Virginio Colmegna hanno colloquiato con gli amministratori. “La sussidiarietà non è solo portatrice di servizi ma costruzione della socialità”. “Il potere appartiene a noi, al popolo”, dice Sabino Cassese, professore emerito Scuola Normale Superiore di Pisa durante l’incontro “Articolo 118 - Istituzione e sussidiarietà. La sfida dell’amministrazione condivisa” moderato da Elisabetta Soglio. La sussidiarietà riguarda “l’autonoma iniziativa di cittadini nella funzione di interesse generale, aspirazione molto importante ma poco realizzata”. Anche se non sempre è possibile applicarla, questa aspirazione “rappresenta un criterio, un canone dove si stabilisce che il cittadino viene prima”. Cassese continua con un excursus sulla nascita ed evoluzione del principio di sussidiarietà, una parola utilizzata nell’800 da un vescovo tedesco che era anche un deputato della Dieta di Francoforte e sosteneva i corpi intermedi. La parola divenne famosa un secolo dopo grazie a Pio II che nel 1931 spiegò come il principio di sussidiarietà comportava l’apostolato dei laici. Ma nella Costituzione, precisa Cassese, “il principio di sussidiarietà è usato in tre contesti diversi: l’iniziativa deve partire dai cittadini, le funzioni devono essere distribuite partendo dal basso, e infine quando il governo centrale deve intervenire per riequilibrare delle situazioni, deve farlo ricordando che in primo piano vengono i cittadini”. Per tanti anni la Pubblica Amministrazione ha chiesto al Terzo settore di competere ma come sottolineato da don Virginio Colmegna, presidente onorario Casa della Carità, Famiglia e Disabilità Comune di Genova, “la sussidiarietà non è solo portatrice di servizi ma costruzione della socialità, di una amministrazione condivisa. Si pensa che venga fatta co-programmazione per aggirare il sistema degli appalti, invece è un modo per i cittadini di costruire qualcosa di duraturo”. Concorda Lamberto Bertolé, assessore al Welfare e Salute Comune di Milano, che ritiene necessario “cambiare il paradigma che deve diventare collaborativo e non competitivo, un percorso condiviso di co-programmazione e co-progettazione. Abbiamo aperto dei tavoli per costruire la partecipazione su tanti livelli di confronto e di ascolto in tante partite come la salute mentale, l’immigrazione, la povertà, gli anziani e la violenza maschile contro le donne. In due anni e mezzo la quota di budget è passata da 6 a 70 milioni, tutti investiti nel settore del welfare”. Anche Genova ha avviato un percorso di rigenerazione per trovare soluzioni ai problemi e ai bisogni delle persone. Lorenza Rosso, assessore alla Avvocatura e Affari legali, Servizi sociali, Famiglia e Disabilità Comune di Genova, sottolinea che “fino al 2015 utilizzavamo contratti di appalto mettendo gli enti del terzo settore in competizione senza risultati per il territorio. Poi abbiamo iniziato con i patti per i senza dimora che a Genova sono sempre stati fondamentali, soprattutto nel centro storico. Grazie agli enti del terzo settore non ci siamo limitati a cercare una mensa o un dormitorio ma a iniziare un vero e proprio processo per soluzioni definitive”. Invece a Roma, “una città complessa con 15 Municipi - evidenzia Barbara Funari, assessore alle Politiche sociali e alla Salute Comune di Roma - bisogna uniformare le procedure e le modalità di partecipazione. È fondamentale cercare le strade per ricucire la fiducia tra cittadini e istituzioni, attuare la riforma del Terzo settore può essere una svolta importante. Per una governance condivisa ci vogliono 3 P: partecipazione, programmazione, partecipazione”. Dunque c’è ancora molto da fare ma ricorda don Virginio Colmegna, “il Terzo settore non è più un fornitore di servizi ma un alleato. Le politiche sociali non sono politiche di emergenza ma vengono da richieste dei territori dove c’è spazio per innovazioni e sperimentazioni”. Per Bertolé, è necessario “costruire delle reti sociali nei territori per dare risposte. Abbiamo deciso di puntare sui luoghi fisici che vogliamo trasformare in case di quartiere per creare coesione sociale”. Rosso racconta l’iniziativa di “un tavolo per la food policy per il recupero del cibo. La Liguria è lunga e stretta e Genova ha nove municipi molto diversi tra loro la co-progettazione è fondamentale”. In conclusione Funari sottolinea che per attuare “un vero cambiamento è necessario il coinvolgimento delle giovani generazioni”. Libertà di stampa: social e fake news minano l’informazione di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 11 maggio 2024 “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure (…)”. Così recita l’articolo 21 della nostra Costituzione al centro dell’incontro “Libertà di Stampa. L’informazione nei paesi del mondo” moderato dal vicedirettore del Corriere della Sera, Venanzio Postiglione. Dalla sala Donzelli di Palazzo Giureconsulti a Milano è iniziato un viaggio nel mondo con i collegamenti in diretta con le firme del Corriere della Sera per conoscere lo stato di salute della stampa estera. Prima tappa gli Stati Uniti con Federico Rampini collegato da New York che ha ricordato gli anni gloriosi della stampa americana, quelli dello scandalo Watergate fatto emergere dai reporter del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein. “Allora la stampa fu davvero Quarto Potere, svolse il suo ruolo di vigilanza sulle istituzioni democratiche - ha spiegato Rampini - oggi siamo lontani da quel tempo e la stampa si è calata nella mischia”. Ecco allora organi di informazione schierati con una precisa agenda politica e perfino il New York Times ha perso l’impostazione storica che divideva le pagine di pura informazione da quelle di commento. “C’è una divisione tribale della società americana - ha proseguito Rampini- che il mondo dei media non aiuta a sanare. Invece di unire, acutizza questa divisione”. In questo scenario i veri “grandi” sono i social media governati dal capitalismo digitale della Silicon Valley che è in maggioranza schierato a sinistra con l’eccezione di Elon Musk che non è trumpiano, ma certamente più a destra. La libertà di stampa è garantita dal Primo emendamento della Costituzione americana che offre la protezione più estesa al mondo per il settore dell’informazione e rende difficile intentare anche una causa diffamatoria, però la stampa tradizionale oltreoceano non gode di buona salute, fatta eccezione per il New York Times che è esploso con gli abbonamenti digitali. L’informazione che passa dai social è invece infestata di fake news: “Un fenomeno recente - ha concluso Rampini- ma se le fake news hanno successo è perché vogliamo farci convincere”. La seconda tappa del viaggio nell’informazione ha fatto tappa a Bruxelles, ad un mese dalle elezioni europee, con la corrispondente Francesca Basso. Proprio da Bruxelles arriva la valutazione dell’informazione dei paesi d’Europa che vede ai primi posti i Paesi del Nord Europa, al decimo la Germania, al ventunesimo la Francia, al trentesimo la Spagna e l’Italia solo al quarantaseiesimo posto. “In vista delle elezioni europee - ha commentato Basso- i timori sono le interferenze straniere capaci di intorpidire le idee che i cittadini europei si possono fare. Sotto la lente ci sono in particolare i paesi dell’ex blocco socialista come Polonia e Ungheria, ma la situazione è in evoluzione”. Da un punto di vista legislativo a marzo a Bruxelles è stata approvata la legge europea sulla libertà dei media per proteggere i giornalisti e media da ingerenze esterne, la trasparenza sulla proprietà dei media e una direttiva a protezione dei giornalisti. Terzo scalo nel viaggio dell’informazione con Mara Gergolet, corrispondente da Berlino che ha parlato dell’ottimo stato di salute della stampa tedesca. “C’è una percezione poco diffusa della grande qualità della stampa tedesca - ha spiegato Gergolet - è una stampa che dopo la Seconda guerra mondiale è stata rifatta da zero e rimodellata sul modello americano. I giornali costano di più, ma Der Spiegel ha la forza economica per formare 40 giornalisti all’anno alla Columbia University o di avere una redazione di inchiesta che nessun altro può vantare”. Il timore più grande sono le fake news dalla Russia: “C’è grande preoccupazione - ha confermato Gergolet - perché la Germania sa di essere nel mirino di Putin e la propaganda russa diffusa sui social ha segnato il ritorno dell’estrema destra in Germania”. Per chiudere il viaggio dell’informazione si è atterrati a Parigi con Stefano Montefiori che ha parlato di “una stampa che sta bene, ma potrebbe andare meglio”. La novità degli ultimi anni è il rapporto con la politica sempre più complesso e molti organi di informazione sempre più polarizzati. “Lo racconta bene il libro di Fourquet “L’arcipelago francese” che ha fatto molto discutere”. L’altro motivo di preoccupazione è la discesa in campo nel mondo dell’informazione di imprenditori come Vincent Bolloré del Gruppo Vivendi o l’armatore marsigliese, amico del Presidente Macron e nuovo proprietario de “la Provence”. “Sono imprenditori che non vogliono entrare in politica - ha spiegato Montefoschi - ma danno indicazioni molto chiare ai propri giornalisti”. “Razzismo sistemico”: l’Onu censura la giustizia italiana di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 maggio 2024 Le anticipazioni del rapporto, a missione conclusa, degli inviati dalle Nazioni Unite. In eccesso nelle galere, in difetto nelle leadership: discriminati gli afrodiscendenti. Nelle carceri italiane, sovraffollate oltre ogni limite di rispetto dei diritti umani, “il 32% circa dei detenuti è di origine straniera; di questi il 54% è africano o di origine africana. Siamo preoccupati per questa sovra rappresentazione di popolazione straniera, in particolare afrodiscendente, nel sistema di giustizia penale italiano”. Senza contare i casi di maltrattamenti e torture, o i singoli comportamenti delle polizie di qualunque corpo, in Italia si evidenzia un forte rischio di “razzismo sistemico” e istituzioni non adeguate a garantire “l’uguaglianza razziale nel contesto del sistema delle forze dell’ordine”. È quanto hanno evidenziato i tre esperti indipendenti delle Nazioni unite, ieri nella sede della Stampa estera a Roma, a conclusione della missione svolta nel nostro Paese per monitorare la giustizia razziale italiana. In una settimana la giudice ghanese Akua Kuenyehia, presidente del Panel Onu, la dirigente del Center for Policing equity Tracie Keesee, statunitense, e l’argentino Juan Méndez, Special rapporteur delle Nazioni unite sulla tortura, hanno visitato penitenziari, Cpr e caserme a Roma, Milano, Catania e Napoli, hanno raccolto testimonianze, analizzato leggi e pratiche, consultato giudici, pubblici ministeri, avvocati e rappresentanti delle forze dell’ordine, incontrato l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, e diversi dipartimenti chiave all’interno dei Ministeri dell’Interno e della Giustizia. E dopo otto giorni, tra le cose più importanti da anticipare del loro rapporto finale che sarà presentato a settembre al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, ci sono le denunce raccolte in più di un’occasione sulla profilazione razziale come base per controlli e perquisizioni da parte di polizia e carabinieri. Premesso che “il lavoro delle forze dell’ordine è difficile”, e inviato un doveroso augurio di buona guarigione al poliziotto Christian Di Martino accoltellato durante un intervento alla stazione di Milano Lambrate, gli esperti dell’Onu hanno affermato chiaramente: “Il legittimo compito di promuovere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini non dovrebbe essere interpretato come una licenza per impegnarsi nella profilazione razziale - ha detto la presidente Akua Kuenyehia - Questa pratica erode la fiducia nelle forze dell’ordine e, di conseguenza, riduce l’efficacia delle forze dell’ordine, oltre a creare associazioni dannose tra l’essere neri e la criminalità e la delinquenza”. Per contro, tutti i corpi di polizia e i carabinieri contano su una presenza di agenti e militari afrodiscendenti vicina allo zero, hanno notato gli inviati Onu. “Abbiamo parlato con agenti che hanno espresso la necessità di servizi di supporto aggiuntivi per la loro salute e per quella dei loro familiari”, riferisce Tracie Keesee che chiede di esentare poliziotti e carabinieri dagli interventi per i quali sarebbe più appropriato l’aiuto di altre figure socio-sanitarie, come ad esempio “nel trattare con persone senza fissa dimora e persone affette da crisi legate allo stato di salute mentale”. Manca anche una raccolta dati adatta ad analizzare le disparità razziali: “La raccolta, pubblicazione e analisi dei dati disaggregati per razza o origine etnica in tutti gli aspetti della vita, in particolare riguardo alle interazioni con le forze dell’ordine e il sistema di giustizia penale, è un elemento essenziale per progettare e valutare le risposte al razzismo sistemico”, ha detto Juan Mendez. Razzismo che si evidenzia dalla mancanza di una legge sulla cittadinanza che non discrimini le seconde generazioni di immigrati. O nelle sfide che migranti e richiedenti asilo devono affrontare nell’accesso alle tutele legali, “spesso esacerbate dall’abuso di autorità da parte delle forze dell’ordine e dai ritardi burocratici”. Mancanza di traduttori, servizi per l’immigrazione gestiti dalla polizia anziché da civili, uffici collocati in zone remote e difficilmente accessibili. Tutto questo, e molto altro, genera “preoccupazione” negli inviati dell’Onu. E una domanda, che pone Tracie Keesee notando la mancanza totale di donne afrodiscendenti nelle leadership e nei posti di potere: “What is happening?”. Cosa accade al Belpaese? Migranti. Fioccano “Paesi sicuri”: così si aggira il diritto di asilo? di Gianfranco Schiavone L’Unità, 11 maggio 2024 L’aggiornamento dell’elenco messo a punto dal governo italiano sembra rispondere a fini politici più che a criteri giuridici. Vengono inseriti paesi di origine dai quali arrivano domande di protezione in aumento. Il diritto dell’Unione europea in materia di asilo prevede da tempo la nozione di paese di origine sicuro del richiedente asilo. Un paese di origine del richiedente è definito sicuro “se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (allegato n. 1 Direttiva 2023/32/13). Al fine di effettuare tale valutazione ed eventualmente classificare un paese quale sicuro in generale si deve tenere conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante l’analisi delle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese esaminato ed il modo in cui tali disposizioni sono applicate in concreto, nonché del “rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea”.(allegato n. 1) Classificare uno stato terzo come di origine sicura non significa che la domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di tale stato non vada comunque esaminata in modo “individuale, obiettivo ed imparziale” (Direttiva cit. art. 10 paragrafo 3), ma solo che il Paese può essere ritenuto sicuro se dall’esame della domanda emerge che il richiedente “non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel paese non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso” (Direttiva cit. art. 36 lettera b). È dunque onere del richiedente quello di circostanziare, e ove possibile documentare i gravi motivi che lo riguardano idonei a superare la presunzione di sicurezza generale sul paese di provenienza. Se ragioni però emergono per l’autorità amministrativa che esamina la domanda rimane fermo il dovere di cooperare attivamente all’accertamento dei fatti, in applicazione del principio generale dell’esame delle domande di asilo (art 8 co 3 del D.vo n. 25/2008). In altre parole nessun automatismo volto a denegare le domande in ragione della sola provenienza del richiedente può essere ammesso. Una corretta applicazione dei principi giuridici sopra indicati dovrebbe portare gli Stati UE ad un uso assai limitato della nozione di Paese di origine sicuro, considerato che i requisiti per dichiarare tale un Paese terzo sono assai stringenti e che il rispetto dei diritti umani fondamentali vive da tempo una fase di progressivo e generale deterioramento (vedasi Amnesty International, Rapporto 2022-2023. La situazione dei diritti umani nel mondo). La nozione di paese di origine sicuro (che rimane una nozione controversa e scivolosa) è stata infatti introdotta al solo scopo di frenare possibili utilizzi strumentali delle domande di asilo da parte di cittadini di paesi terzi che palesemente non hanno alcun bisogno di protezione, e non già per introdurre surrettiziamente una procedura generale di esame delle domande di asilo che deroghi dalle garanzie fondamentali. Purtroppo, come sempre più spesso accade nell’Unione Europea diversi stati UE hanno invece forzato la normativa unionale elaborando proprie liste di paesi di origine sicuri non tanto sulla base dei criteri giuridici a cui avrebbero dovuto attenersi bensì sulla base di obiettivi politici del tutto estranei al procedimento di riconoscimento del diritto d’asilo. Dopo aver scelto per molti anni una linea di apertura non introducendo nel proprio ordinamento la nozione (che è facoltativa) di paese di origine sicuro, l’Italia ha adottato tale nozione con il D.L. n. 113 del 2018 come convertito dalla L. n. 132 del 2018. A seguito di tale introduzione, con DM 17 marzo 2023 è stata istituita la prima lista di paesi di origine sicura, appena arricchita di nuovi ingressi con il nuovo DM 7 maggio 2024. Attualmente l’elenco dei Paesi di origine sicuri prevede dunque il seguente lungo elenco: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Una verifica condotta con distaccata oggettività giuridica sullo stato del rispetto dei diritti fondamentali nei paesi inseriti nella lista non potrebbe non evidenziare come tali inserimenti non rispettino in alcun modo i parametri di legittimità posti dal diritto dell’Unione Europea. In particolare colpisce la presenza in tale elenco di Paesi nei quali sono presenti generalmente e costantemente persecuzioni, o tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, o pericolo a causa di situazioni di violenza indiscriminata in ragione di conflitti armati interni o internazionali al punto tale che alcuni Paesi possono persino essere collocati tra i Paesi più problematici del mondo per ciò che riguarda il rispetto dei diritti umani fondamentali; si pensi all’Egitto, appena inserito con il DM del maggio 24, un Paese nel quale “migliaia di persone critiche verso il governo o percepite come tali rimanevano arbitrariamente detenute e/o perseguite ingiustamente. I casi di sparizione forzata e di tortura e altro maltrattamento sono rimasti dilaganti” (Rapporto Amnesty International 2023) oppure come la Nigeria, caratterizzata tuttora da una condizione di violenza generalizzata in molte aree del paese. O il caso, non meno clamoroso, della Tunisia, Paese rapidamente rotolato verso una pesante autocrazia e nel quale “sono continuate le gravi violazioni dei diritti umani, comprese le restrizioni alla libertà di parola, la violenza contro le donne e le restrizioni arbitrarie dovute allo stato di emergenza del Paese” (Human Rights Watch (Hrw), World Report 2023). La predisposizione e l’aggiornamento dell’elenco dei paesi di origine sicuri effettuato dal Governo italiano appare pertanto rispondere non al dovere di rispettare precisi criteri giuridici bensì al conseguimento di obiettivi politici (ad esempio il mantenimento delle relazioni con tali stati o il tentativo di limitare il numero delle domande di asilo) del tutto estranei al procedimento di riconoscimento del diritto d’asilo, in evidente contrasto con quanto previsto dal diritto dell’Unione. In particolare appare sempre più evidente che l’inserimento di un Paese nella lista dei paesi di origine sicuri sia collegato al fatto che da quel Paese si registra una netta tendenza all’aumento delle domande di asilo. Si verifica così una torsione, piuttosto forte, degli strumenti di diritto piegati ad altri fini politici e il messaggio inequivocabile indirizzato alle Commissioni territoriali per l’esame delle domande di asilo (che in Italia hanno una debole indipendenza e sono invece fortemente permeabili a pressioni di natura politica) diviene quello di rigettare il maggior numero possibile di domande di asilo provenienti da dati Paesi in modo da attuare una sorta di politica della deterrenza. Ciò ha plurime conseguenze nefaste: la prima è quella di produrre un sistema di esame delle domande di asilo a doppio canale; prima, e con chiaro pregiudizio verso di esse, vanno smaltite in via accelerata tutte le domande di asilo di chi proviene dai paesi di origine sicuri, divenute nel frattempo la maggioranza delle domande (e non, come dovrebbe essere, in una logica corretta, un numero contenuto in quanto frutto di valutazione su situazioni particolari) e poi tutte le altre domande lasciate ad attendere molti mesi (compresi i casi prioritari per vulnerabilità o manifesta fondatezza). La seconda conseguenza è l’aumento dei contenziosi giudiziari. Come richiamato più volte dalla giurisprudenza spetta al giudice l’esame di merito di tutti i profili della domanda di asilo che è stata rigettata, e dunque anche la valutazione se ad essa erano o no applicabili i criteri per ritenere se nel caso specifico il paese di origine del richiedente fosse realmente sicuro oppure no. Il ruolo di vigilanza del magistrato sul rischio di indebita estensione di applicazioni illegittime della normativa sul paese di origine sicuro diviene così sempre più importante, ma anche più oneroso sia per la cronica mancanza di risorse che per lo stesso aumento del contenzioso. In parallelo cresce il numero di cittadini stranieri la cui condizione giuridica nel nostro Paese rimane sospesa per anni dentro un’attesa su cosa sarà il loro futuro così lunga che pare non avere mai fine. In questa ossessiva torsione delle norme che travalica ogni buon senso intravedo due finalità: la prima è di natura più prettamente ideologica, ovvero la tendenza dell’Esecutivo a cercare in tutti i modi di far prevalere la propria normativa secondaria (laddove ha il potere di emanarla come nel caso della individuazione dei paesi di origine sicuri) sulla norma primaria interna e persino su quella europea verso la quale è evidente l’insofferenza. La seconda, che è ben riscontrabile in tutti gli aspetti della gestione dell’immigrazione e dell’asilo, è quella di generare difficoltà al funzionamento del sistema pubblico di accoglienza e di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati per poter sfruttare sul piano politico lentezze, contraddizioni, carenze e distorsioni di un sistema che non funziona perché viene posto nelle condizioni di non funzionare. Migranti. “Più lunga è la lista dei Paesi sicuri, più persone possono essere portate in Albania” di Marika Ikonomu Il Domani, 11 maggio 2024 Intervista alla presidente di Magistratura democratica, Silvia Albano. Per il governo i paesi di origine sicuri sono aumentati e lo ha messo nero su bianco in un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale il 7 maggio. Ai 16 paesi già individuati a marzo 2023 se ne sono aggiunti altri 6, arrivando così a 22. All’Albania, Algeria, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia si aggiungono quindi Bangladesh, Camerun, Colombia, Egitto, Perù e Sri Lanka. Non è chiaro perché, ad esempio, l’Egitto venga considerato un paese in cui è assicurata la garanzia dei diritti, l’indipendenza dell’autorità giudiziaria e la libertà di espressione. “Un paese governato da un presidente diventato tale dopo un colpo di stato, nel 2013, che mette oppositori, difensori dei diritti umani e sindacalisti in carcere, com’è successo a Patrick Zaki per qualche post sui social”, ha commentato la deputata del Partito democratico Laura Boldrini su X. Quando un paese è considerato sicuro - I paesi di origine sicuri sono quelli in cui, secondo una valutazione ministeriale, viene garantito lo stato di diritto e possono essere considerati così sicuri da legittimare le procedure accelerate di frontiera. In altre parole, la situazione del paese è tale da presumere che le richieste di protezione internazionale non siano fondate. Non vengono però pubblicate le valutazioni alla base della scelta di inserire un paese nell’elenco. E sono proprio le persone che hanno la nazionalità di quei 22 paesi a poter finire nei centri per migranti in Albania, voluti dal governo di Giorgia Meloni e previsti dal protocollo firmato con il premier albanese Edi Rama. In queste strutture dovrebbero essere portate le persone salvate dalle autorità italiane nelle acque internazionali, ma essendo considerato un luogo di frontiera, in cui si applica la relativa procedura accelerata, “possono essere portate solo persone provenienti da paesi di origine sicuri”, spiega la giudice del tribunale di Roma e presidente di Magistratura democratica Silvia Albano. Un pezzo dopo l’altro il governo sta cercando di dar vita a un progetto, che sul piano dei diritti e sul piano economico, mostra gravi carenze e della dubbia legittimità. “È chiaro”, sottolinea Albano, “che più è lunga la lista dei paesi di origine sicuri, più persone possono essere portate in Albania”. Cosa significa paese di origine sicuro? È la legge che stabilisce quali paesi sono di origine sicuri, cioè dove opera lo stato di diritto, un sistema democratico, dove non ci sono atti di persecuzione né tortura, o forme di pena o trattamento inumano e degradante. Stati in cui non ci sono pericoli a causa di violenza interna e indiscriminata, c’è il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali ed esiste un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni dei diritti e delle libertà. Quali conseguenze ha sui diritti la provenienza da un paese di origine sicuro? Ha delle conseguenze processuali molto pesanti, sul piano del diritto alla difesa, della possibilità di un ricorso effettivo, di poter compiutamente rappresentare le proprie ragioni e il proprio bisogno di protezione. Questo perché c’è un sistema che deroga la procedura ordinaria e la rende accelerata: tempi molto stretti per essere sentiti, tempi molto stretti alla commissione territoriale, organo amministrativo di prima istanza, per decidere, tempi molto stretti per impugnare il provvedimento di rigetto davanti al giudice. E non opera la sospensione automatica del provvedimento di rigetto, in deroga quindi al principio generale secondo cui il richiedente asilo può restare sul territorio italiano fino alla decisione definitiva. Se il richiedente asilo viene rimpatriato, perde il diritto a partecipare al procedimento e diventa più difficile difendersi in giudizio. Mentre il principio generale prevede che i richiedenti asilo possano rimanere in Italia fino a decisione definitiva. Qual è, secondo lei, l’esigenza che ha portato ad allargare la lista dei paesi? Noto che un allargamento era già avvenuto con il decreto ministeriale del 17 marzo del 2023, con cui erano stati aggiunti, ad esempio, la Nigeria, la Costa d’Avorio, il Gambia. È un allargamento che riguarda le nazionalità di maggior arrivo (Bangladesh, Tunisia, Egitto, Costa d’Avorio e Gambia sono tra le dieci nazionalità di maggior arrivo, secondo i dati del ministero dell’Interno, ndr). Siamo l’unico paese europeo, insieme a Cipro, a prevedere come paese di origine sicuro la Nigeria. L’unico a inserire la Costa d’Avorio. Siamo poi solo noi, Cipro, la Grecia e la Slovenia ad avere inserito l’Egitto. Mi pare che l’esigenza sia più quella di controllare i flussi migratori che di garantire i bisogni di protezione imposti dalle convenzioni internazionali e dalla Costituzione. Quali valutazioni possono fare i giudici quando esaminano le domande? La legge prevede che nei procedimenti di protezione internazionale il giudice ha un dovere di cooperazione istruttoria. I decreti ministeriali sono una fonte secondaria, non possono violare né le norme ordinarie interne né quelle sovraordinate costituzionali o sovranazionali. I giudici nel momento in cui devono applicare le procedure accelerate, se il richiedente proviene da un paese di origine sicuro, devono innanzitutto verificare se l’inserimento nel decreto ministeriale di quel paese sia conforme alla legge. Qualora i centri per migranti in Albania dovessero diventare operativi, che impatto avrebbe sui diritti delle persone la decisione di aumentare i paesi di origine considerati sicuri? La legge prevede che in Albania possono essere portate solo persone provenienti da paesi di origine sicuri e che si applichi quindi la procedura accelerata. E, in Albania, il trattenimento sarebbe generalizzato perché, come stabilisce il protocollo, gli stranieri non possono uscire dai centri. È chiaro che più è lunga la lista dei paesi di origine sicuri, più persone possono essere portate in Albania. Bisogna poi considerare che ci sono una serie di soggetti che non possono essere sottoposti alla procedura accelerata, come le persone considerate vulnerabili: sono le vittime di tortura, quindi sostanzialmente tutti quelli che provengono dalla Libia, le persone con disabilità, le vittime di violenza sessuale, di tratta, gli anziani, i minori. Tutte queste persone non potrebbero essere portate in Albania perché non sono sottoponibili alla procedura accelerata di frontiera. È possibile separare in mare chi proviene o meno da paesi di origine sicuri, o chi rientra nella categoria della vulnerabilità? Non è possibile. Individuare le vulnerabilità su una nave non è una cosa semplice, ci vuole personale specializzato. Lo ha dichiarato anche la Corte europea dei diritti dell’uomo in diverse pronunce. Cosa spinge i governi europei a stilare queste liste? I paesi europei hanno liste molto diverse tra loro, non c’è una valutazione univoca. Sembra incidere, in alcuni paesi europei molto più che in altri, l’esigenza di controllare i flussi migratori. Migranti. “Sono loro le scafiste”, due iraniane in cella. Le prove? Inesistenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2024 Maysoon Majidi e Marjan Jamali, rispettivamente di 28 e 29 anni, hanno già pagato un prezzo altissimo per sfuggire all’oppressione del regime iraniano, dove si sta compiendo, per dirla come Amnesty, una strage di Stato sotto la veste di esecuzioni giudiziarie. Ora si ritrovano recluse nelle carceri calabresi, vittime di un sistema giudiziario che sembra non voler fare luce sulla loro reale situazione. Entrambe le donne manifestano segni evidenti di sofferenza: Marjan sta perdendo peso in maniera preoccupante, mentre Maysoon ha compiuto gesti di autolesionismo. Le loro condizioni sono state denunciate dal Garante regionale dei detenuti, Luca Muglia, che sta seguendo da vicino il caso. L’accusa mossa contro le due iraniane è quella di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, basata su fragili testimonianze raccolte tra i migranti che viaggiavano con loro nell’ultimo tratto del viaggio. Questi testimoni, interrogati frettolosamente all’arrivo in Italia e poi scomparsi nel nulla, non offrono prove concrete a sostegno delle accuse. Anzi, nel caso di Marjan, l’unica testimonianza a suo carico riguarda la semplice distribuzione di cibo e acqua agli altri migranti durante il tragitto. Maysoon, invece, ha denunciato di essere stata vittima di un tentativo di violenza da parte di alcuni degli stessi uomini che poi l’hanno accusata. Le loro storie sono purtroppo comuni a tante altre di profughi che, dopo aver rischiato la vita per sfuggire a persecuzioni e violenze, si ritrovano ingiustamente accusati e detenuti nei paesi di approdo. A farvi visita nei giorni scorsi è stato il garante Luca Muglia, il quale sta approfondendo la posizione e le condizioni delle due donne iraniane recluse presso le carceri calabresi. Nei mesi scorsi i nominativi delle due detenute erano stati resi noti da diversi media, atteso il clamore destato dalle rispettive storie personali e dalle modalità che avevano determinato l’applicazione della misura cautelare inframuraria. Il Garante calabrese Muglia ha incontrato più volte Maysoon Majidi, unitamente al Garante della Provincia di Cosenza Francesco Cosentini, riscontrando un suo progressivo calo di peso, fortemente provata dalla detenzione e dal timore che non emerga in tempi rapidi l’estraneità alle accuse. Quanto a Qaderi Maryam, le sue condizioni sono state attenzionate dal Garante nazionale dei detenuti, Felice Maurizio D’Ettore, in quanto la separazione dal figlio di anni 8, affidato temporaneamente alle cure di una famiglia afghana in Comunità, avrebbe generato una serie di atti di autolesionismo ed eventi critici. Il Garante Luca Muglia, ha espresso la propria posizione con fermezza: “La vicenda di queste due donne è profondamente preoccupante e richiede un’attenta valutazione, sia dal punto di vista umanitario che giuridico. Il mio Ufficio e quello del Garante nazionale ci siamo attivati sinergicamente per garantire loro il supporto necessario e per fare luce sulle accuse che le gravano”. Muglia sottolinea le incongruenze delle accuse e le storie drammatiche delle due donne: “Entrambe hanno vissuto esperienze terribili nel loro paese d’origine e sono fuggite rischiando la vita. Maysoon Majidi, nota regista e attivista curda per i diritti umani, è stata costretta a scappare dall’Iran e dal Kurdistan iracheno a causa delle sue attività di protesta antigovernative. Qaderi Maryam, invece, è fuggita con il figlio dall’Iran per sottrarsi a una situazione drammatica e ha subito un tentativo di violenza sessuale durante il viaggio in Italia”. Il Garante evidenzia le difficoltà investigative e la necessità di un approccio più rigoroso: “Le accuse contro le due donne si basano su testimonianze di altri migranti che si sono poi allontanati dall’Italia, rendendo impossibile un contraddittorio. È necessario un metodo investigativo più accurato che si avvalga di nuclei specializzati, tecnologie avanzate e una cristallizzazione immediata delle prove. Non possiamo correre il rischio di scambiare le vittime per carnefici”. L’appello di Muglia è chiaro: “Chiediamo che la repressione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina venga attuata con maggiore rigore e puntualità, garantendo il diritto di difesa e tutelando gli innocenti. Non possiamo permettere che storie come queste si ripetano”. Un testimone chiave nel processo contro Majidi, attualmente rifugiato in Germania, era atteso ieri in tribunale in Calabria per scagionare l’imputata. Tuttavia, l’udienza per l’acquisizione anticipata della prova è stata rinviata perché il testimone, Hosenzadi, non è stato rintracciato dalla Guardia di Finanza italiana. Eppure, al termine dell’incidente probatorio, conclusosi senza esito, l’avvocato Giancarlo Liberati dimostrato che il testimone, poco prima dichiarato irreperibile, era in realtà raggiungibile telefonicamente. Non si comprende come sia possibile che gli investigatori non siano riusciti a trovarlo. La testimonianza di Hosenzad è decisiva perché l’uomo ha confermato all’avvocato di non aver mai accusato Majidi. I migranti nella morsa di arresti poco trasparenti, criminalizzazione e ricerca di capri espiatori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2024 Spesso la confusione tra gli “scafisti” e i veri trafficanti alimenta una narrazione distorta. Il caso delle due giovani donne iraniane, sfuggite dalla repressione, e ora nelle carceri italiane perché accusate di essere delle “scafiste” riaccende il focus su questo termine che è diventato sinonimo di colpevolezza per l’inarrestabile flusso migratorio che il nostro Paese si trova ad affrontare, spesso associato a naufragi e tragedie in mare. Eppure, secondo quanto emerso dal report “Dal mare al carcere” già reso noto l’anno scorso su queste stesse pagine de Il Dubbio, le crescenti azioni repressive dell’Italia contro gli scafisti hanno contribuito paradossalmente ad alcuni dei peggiori disastri marittimi della storia recente, mostrando più un impegno di facciata nel contrastare l’immigrazione irregolare che un effettivo miglioramento della situazione. In molti casi, gli arresti di presunti scafisti avvengono in modo non trasparente, quasi a voler trovare un capro espiatorio a tutti i costi. La criminalizzazione è stata alimentata dal reato di “favoreggiamento dell’ingresso clandestino” e, più di recente, dall’introduzione del reato di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” nel nuovo decreto Curto. Pene severe, fino a 30 anni di carcere, per un’idea fallace: arrestare gli scafisti possa combattere il traffico di esseri umani e prevenire le stragi in mare. Scafisti o pedine? La confusione tra scafisti e trafficanti alimenta una narrazione distorta. Gli scafisti si occupano del trasporto via mare dei migranti, spesso come pedine in un sistema ben più complesso. Chi guida le imbarcazioni non è necessariamente l’organizzatore del viaggio, ma può essere un migrante costretto dalla violenza o da incentivi economici, o addirittura un passeggero che si ritrova improvvisamente al comando. Chiudere le frontiere non salva vite. L’idea che arrestare gli scafisti possa fermare le morti in mare è stata sostenuta da Italia, Ue e Onu. Ma la realtà è ben diversa. La criminalizzazione degli scafisti ha contribuito a tragedie senza precedenti. Sono le politiche di chiusura delle frontiere, eliminando vie sicure per raggiungere l’Europa, soprattutto per i più vulnerabili, a causare naufragi e stragi. Criminalizzare chi fugge dalla repressione e cerca una vita migliore non risolverà il problema. Occorre una visione più ampia e umana del fenomeno migratorio, che ponga al centro la tutela dei diritti e la ricerca di soluzioni concrete. Il caso delle due giovani donne iraniane recluse nelle carceri calabresi è un monito. Ucraina. L’Europa vuole rimandare in patria e i giovani fuggiti dalla guerra di Uski Audino La Stampa, 11 maggio 2024 Berlino pronta a non rinnovare i permessi di soggiorno per aiutare Kiev. Anche Polonia ed Estonia d’accordo: “Servono uomini al fronte”. È finita la ricreazione. Una gran parte dei circa 860.000 uomini ucraini tra i 18 e i 59 anni, che hanno lasciato il loro Paese dopo l’invasione russa e trovato ospitalità in Europa, ora potrebbero essere rispediti in Ucraina per tamponare il disperato bisogno di Kiev di soldati da mandare al fronte. Polonia, Lituania e Germania sono pronte a interloquire con il governo ucraino per dare una mano, ma la situazione non è semplice. Si può mandare qualcuno in guerra contro la propria volontà? I polacchi hanno pochi dubbi. “Credo che molti polacchi siano indignati quando vedono giovani ucraini negli alberghi e nei Caffè e sentono quanto sforzo dobbiamo fare per aiutare il loro Paese” ha detto il ministro della Difesa polacco Wladyslaw Kosiniak-Kamysz a Polsat News television. Il 24 aprile a Varsavia centinaia di ucraini hanno protestato davanti all’ufficio passaporti perché era stato negato loro il rinnovo del documento, ufficialmente per “problemi tecnici”. La questione in realtà era e rimane più complessa. A partire dal 23 aprile, il ministero degli Esteri ucraino ha deciso di sospendere i servizi consolari all’estero per i suoi cittadini di sesso maschile in età compresa tra i 18 e i 59 anni. Chi vorrà rinnovare il passaporto non potrà più passare dai consolati sparsi per l’Europa come da prassi, ma rientrare in Ucraina dove vige la legge marziale. “La permanenza all’estero non solleva un cittadino dai suoi doveri verso la Patria” e “il nostro Paese è in guerra”, ha scritto il ministro ucraino Dymitro Kuleba su X. Il governo lituano è meno convinto dei vicini polacchi e ha fatto un passo avanti e uno indietro. All’inizio il titolare della Difesa Laurynas Kas?i?nas ha dichiarato che il suo Paese era pronto ad aiutare Kiev con i rimpatri ma la premier Ingrida Šimonyt?, in un’intervista al Financial Times, ha gettato acqua sul fuoco: “Non organizzeremo deportazioni, né cercheremo uomini ucraini nel Paese perché questo non sarebbe legale”. Del resto l’Unione europea, nella direttiva emanata poco dopo l’invasione russa del 2022, garantisce ai cittadini ucraini lo status di protezione fino al 4 marzo 2025. Problema risolto? No. Rimanere senza passaporto valido può rendere la vita difficile: non solo è impossibile spostarsi, ma anche avere un contratto di affitto o di lavoro diventa complicato. Vivere in Europa da non europei senza un documento valido è quasi impossibile. In Germania, per esempio, non possedere un documento sopra i 16 anni è illegale. Ecco che la scelta di Kiev apre a Berlino un autentico dilemma politico. Da una parte c’è poca disponibilità della Germania a costringere alla guerra persone che hanno cercato protezione sul suo territorio, dall’altro il governo Scholz - che si fa vanto di guidare il primo Paese in Europa per sostegno militare all’Ucraina - ha difficoltà a mettere in discussione la linea politica di Kiev. Il dibattito sul destino di quei 256.000 ucraini residenti in Germania, secondo i dati dell’Ufficio federale per la Migrazione (Bamf), è aperto. Mesi fa il ministro della Giustizia Marco Buschmann aveva detto: “Non costringeremo le persone a prestare il servizio militare obbligatorio contro il loro volere”. Dopo la Seconda guerra mondiale, del resto, la Germania ha inserito l’obiezione di coscienza in Costituzione come un diritto fondamentale. Ieri però un collega dei liberali, Marcus Faber, ha sottolineato che “la mobilitazione di chi è sottoposto a obbligo militare è una responsabilità in primis dell’Ucraina”, quindi la Germania dovrebbe limitarsi a eseguire. Stessa posizione dell’esperto di Difesa dei conservatori della Cdu, Roderich Kiesewetter, secondo il quale “non dobbiamo pugnalare alle spalle gli sforzi dell’Ucraina”. Per l’ex co-leader dei verdi, Anton Hofreiter, invece, agli ucraini che non possono rinnovare il passaporto “è più sensato rilasciare documenti sostitutivi” perché “chi non si sente in grado di combattere non dovrebbe essere costretto a farlo”. La ministra degli Interni Nancy Faeser ha rimandato la questione a un incontro la prossima settimana dei ministri degli Interni dei Laender. La questione è in stand-by. Ma, c’è da giurarci, il dibattito è solo agli inizi. Donbass, dieci anni fa il referendum che spaccò in due l’Ucraina di Alfredo Bosco Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2024 Fu l’inizio della guerra civile che tutta l’Europa non ha voluto vedere. Dieci anni sono volati come il colpo di un cannone. Il Donbass forse rappresenta meglio il peccato originale di un’Europa che non ha voluto ascoltare e capire che quel manipolo di uomini e donne disorganizzati con in braccio il kalashnikov, erano più di una pedina usata dal governo di Mosca per destabilizzare l’Ucraina dopo il referendum non riconosciuto della Crimea. Dall’11 maggio del 2014 è una brace che arde, che verrà sepolta da un protocollo, quello di Minsk, che si limita a circoscrivere l’importanza della questione, togliendola dalle agende politiche ed editoriali. Ma la brace continuava a poter far riaccendere un incendio. E nel febbraio del 2022 chiunque avesse lavorato come reporter tra le strade di Donetsk e i villaggi vicinissimi a Mariupol non era sorpreso da cosa è accaduto, e neanche dalla direzione che i russi hanno subito intrapreso: Kharkiv e Mariupol, oltre la capitale Kiev. Il tempo è stato così rapido da quando il palazzo dell’amministrazione di Donetsk veniva preso d’assalto, le scrivanie ribaltate per rinforzare posti di blocco urbani e copertoni di automobili ammassati per non consentire facile ingresso alle forze ucraine governative. L’aeroporto di Donetsk, gioiellino che rappresentava il potere economico della città sarà raso al suolo da mesi di bombardamenti e combattimenti furiosi: da una parte gli uomini del battaglione “Somali” guidati dal comandante Givi, dall’altra i soldati di Kiev, soprannominati “cyborg” per il loro coraggio e resistenza. Saranno i primi soldati celebrati come simbolo dell’aggressione di Mosca sull’Ucraina, con film e documentari concepiti per celebrare quello che hanno fatto: morire sotto i colpi feroci di obici dopo mesi di lotta tra le macerie. Ma il conflitto armato nel Donbass non è riconosciuto come una guerra civile, l’allora governo di Poroshenko lo ritiene più che altro un coacervo di terroristi sostenuti da Mosca. Solo con lo scoppio del conflitto del 2022, gli ucraini grideranno ad ogni reporter: “C’era una guerra civile nel Donbass e nessuno diceva niente!”. Peccato che per anni non si poteva considerarla tale e anzi, giornalisti come Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi per il loro documentario sulla Rai Fratello contro Fratello si sono ritrovati attaccati proprio dalla comunità ucraina in Italia perché non era tollerabile sostenere che in quello che era “il cuore dell’Unione Sovietica” ci fosse una guerra vera e propria, tra ucraini, sostenuti da due distinte parti: l’occidente a trazione americana e l’oriente filo russo. Anni di tregua forzata che è stata costantemente violata da entrambe le parti: le prove erano evidenti da Pisky fino ad Avdiivka, ma nessuno voleva per davvero trovare una soluzione lasciando a Putin la scusante del popolo minacciato dal governo di Kiev. I testimoni di quello che è successo nel 2014 sono sempre meno, Donetsk per anni ha vissuto anni violenti tra attentati bomba e faide interne, quasi tutti i leader sono morti per circostanze misteriose, mai sul campo di battaglia, ultimo il volontario straniero forse più famoso da quelle parti: Russell Bentley, detto “Texas”, che è stato ritrovato ucciso nella zona periferica di Donetsk dopo giorni che era stata denunciata la sua scomparsa. Un’altra uccisione dovuta a questioni interne che non hanno nulla a che vedere con la guerra ma dimostra quanto ancora sia una vita tremenda quella che c’è aldilà dei territori sotto ancora il controllo dell’Ucraina. Texas andò a combattere per i separatisti filo-russi perché odiava i nazisti, ma dove ha trovato casa ha anche trovato la morte per mano probabilmente amica. Medio Oriente. L’Assemblea generale Onu vota per lo stato di Palestina di Marina Catucci Il Manifesto, 11 maggio 2024 L’Assemblea generale dell’Onu ha determinato che la Palestina è “qualificata” per presentare richiesta di ammissione come membro delle Nazioni unite, e ha raccomandato al Consiglio di Sicurezza di “riconsiderare favorevolmente la questione”. I voti sono stati 143 a favore, 9 contrari, tra cui Usa ed Israele, e 25 astensioni, tra le quali quelle di Italia e Ucraina. Dal 2012 la Palestina è uno Stato osservatore dell’Onu, con un effetto soprattutto simbolico che ha consentito comunque la partecipazione ai dibattiti delle Nazioni unite. Con la nuova risoluzione l’Assemblea generale ha attribuito alla Palestina nuovi “diritti e privilegi” all’interno dell’Onu. Anche questa nuova risoluzione ha un valore più simbolico che effettivo, ma con qualche spazio di azione maggiore. La Palestina continuerà a non poter votare le risoluzioni discusse dall’Assemblea generale, ma potrà proporre dei temi da dibattere, i suoi rappresentanti potranno partecipare alle discussioni su tutti gli argomenti e non solo a quelli legati al Medio Oriente, e prendere parte alle conferenze e ai dibattiti organizzati dalle Nazioni unite. La risoluzione ha naturalmente fatto infuriare la rappresentanza israeliana. “Avete aperto le Nazioni unite ai nazisti moderni - ha detto l’ambasciatore israeliano all’’nu Gilad Erdan - Questo giorno sarà ricordato con infamia”. Erdan ha parlato di uno “stato terrorista palestinese” che sarebbe guidato “dall’Hitler dei nostri tempi. State facendo a pezzi la Carta Onu con le vostre mani. Vergognatevi”, ha detto passando alcune pagine del documento in un tritacarte. EPPURE non ci sarebbe molto di cui preoccuparsi visto che sicuramente gli Usa si serviranno del proprio veto al Consiglio di sicurezza per bloccare la questione caldeggiata dall’Assemblea. Durante il dibattito il portavoce della missione Usa all’Onu, Nate Evans, ha dichiarato che “L’Autorità palestinese attualmente non soddisfa i criteri per l’adesione previsti dalla Carta delle Nazioni unite. Il presidente Biden è stato chiaro sul fatto che una pace sostenibile nella regione può essere raggiunta solo attraverso una soluzione a due stati”, ma “resta l’opinione degli Usa che le misure unilaterali, all’Onu e sul campo, non porteranno avanti questo obiettivo”. Inoltre, ha sottolineato Evans “la bozza non altera lo status della Palestina di ‘osservatore non membro’”. Gli Usa hanno giustificato la propria posizione sostenendo inoltre che “l’adozione di questa risoluzione non porterà un cambiamento tangibile per i palestinesi. Non metterà fine ai combattimenti a Gaza né fornirà cibo, medicine e riparo ai civili. È qui che si concentrano gli sforzi degli Stati uniti: ottenere un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, continuando a fornire aiuti ai civili di Gaza”. Di sicuro il popolo palestinese non riceverebbe danni dall’approvazione di questa risoluzione il cui risultato sembra già scritto, ma la determinazione dell’Assemblea generale è comunque un passo avanti in un momento in cui i rapporti fraUsa ed Israele sono molto tesi, con Biden che ha minacciato di interrompere le forniture di armi se Netanyahu inizierà l’offensiva a Rafah: “Attaccare Rafah - ha detto - non sconfiggerà Hamas”. “SE DOBBIAMO restare da soli, resteremo da soli”, ha dichiarato in risposta Netanyahu, lasciando Biden tra due fuochi: non apparire complice dei bombardamenti israeliani che hanno già fatto decine di migliaia di vittime palestinesi, e allo stesso tempo non dare l’impressione di abbandonare il suo alleato di lunga data. Con la sua base democratica ebraica che spinge in entrambe le direzioni. Medio Oriente. Palestinesi spogliati, bendati e legati ai letti per giorni di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2024 Una parte della base militare di Sde Teiman è stata trasformata in centro di detenzione: qui i detenuti sono costantemente bendati, legati, picchiati, perquisiti di notte sotto la minaccia dei cani. Due foto sfocate in cui si vedono decine di uomini bendati, con tute grigie, costretti immobili a sedere per terra, su dei materassini sottili. Il filo spinato tutto intorno, le luci dei riflettori puntate su di loro e qualche coperta posata sulle gambe. Ciò che le foto non dicono è che quelle persone sono detenuti palestinesi in quella che la Cnn ha identificato come la base-carcere del Negev di Sde Teiman. Nell’aria le grida delle guardie che pretendono il massimo silenzio dai prigionieri che provano a comunicare tra loro pur non sapendo chi si trova al loro fianco, oltre a un fetore di ferite mal curate. L’inchiesta della tv americana mostra le immagini di quella che assume le sembianze di una Abu Ghraib israeliana. Le ha raccolte da tre fonti interne che hanno poi testimoniato segretamente ciò che avviene nella struttura, i trattamenti disumani ai quali sono costretti i detenuti palestinesi arrestati a Gaza e rinchiusi nelle carceri di Tel Aviv. Racconti difficili da ottenere, ma che hanno un macabro precedente all’inizio di aprile, quando è stata diffusa la lettera con la quale un medico operante all’interno di questa prigione ingoiata dal deserto aveva inviato ad alti funzionari israeliani parlando di persone incatenate per 24 ore al giorno con le ferite delle manette che, in alcuni casi, rendono necessaria l’amputazione degli arti. Quel posto, oltre a essere uno dei carceri più duri del Paese è considerato “un paradiso per i medici stagisti” perché lì, raccontano gli informatori, sono dottori con scarse qualifiche a compiere, spesso, alcune procedure mediche oltre le loro capacità. Secondo le ricostruzioni, la struttura si trova a circa 25 km di distanza dalla frontiera con Gaza ed è divisa in due parti. Nella prima si trovano i recinti dove sono detenuti circa 70 prigionieri arrivati dalla Striscia. Ma è nella seconda che la brutalità della detenzione emerge maggiormente, secondo i racconti: un ospedale da campo dove i feriti sono legati mani e piedi ai loro letti, costretti a rimanere in posizione supina, con gli occhi bendati, indossando pannoloni e venendo alimentati attraverso cannucce. “Li hanno spogliati di tutto ciò che li faceva somigliare a esseri umani”, dice un informatore. I pestaggi “non sono stati fatti per raccogliere informazioni. Sono stati fatti per vendetta”, dice un altro. “È stata una punizione per ciò che i palestinesi hanno fatto il 7 ottobre e una punizione per il comportamento nel campo”. E le testimonianze che arrivano da questo luogo sono da girone dell’inferno. “Quello che ho provato quando avevo a che fare con quei pazienti è un’idea di totale vulnerabilità - ha detto un medico che ha lavorato a Sde Teiman - Se immagini di non poterti muovere, di non poter vedere cosa sta succedendo e di essere completamente nudo, questo ti lascia completamente esposto. Penso che sia qualcosa che rasenta, se non addirittura rientra nella tortura psicologica”. Un altro informatore ha detto che gli è stato ordinato di eseguire procedure mediche sui detenuti palestinesi per le quali non era qualificato: “Mi è stato chiesto di imparare come fare delle cose sui pazienti, eseguendo procedure mediche che sono totalmente al di fuori delle mie competenze”, ha detto aggiungendo che questo veniva spesso fatto senza anestesia. “Se si lamentavano del dolore, gli veniva somministrato del paracetamolo. Il solo fatto di essere lì mi faceva sentire complice degli abusi”. Strutture come quella di Sde Teiman non sono un unicum nel panorama carcerario israeliano. Si tratta di ex basi militari riconvertite in campi di detenzione dopo il 7 ottobre. Sono complessi previsti dalla legge israeliana sui combattenti illegali che, dopo essere stata approvata dalla Knesset lo scorso dicembre, ha ampliato l’autorità militare sulla detenzione dei sospetti militanti. Così le persone possono rimanere in carcere per 45 giorni senza mandato di arresto, dopodiché devono essere trasferite nel sistema carcerario formale israeliano, dove oltre 9mila palestinesi sono detenuti in condizioni che secondo i gruppi in difesa dei diritti umani sono drasticamente peggiorate dopo l’attacco di Hamas. Le immagini satellitari analizzate dalla Cnn confermano che dopo il 7 ottobre si è registrato un ampliamento di questi complessi segreti. Nei mesi passati dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, a Sde Teiman sono apparse più di 100 nuove strutture, tra cui grandi tende e hangar. C’è stato anche un aumento significativo del numero di veicoli nella struttura che indica un aumento delle attività. Le immagini satellitari di due date all’inizio di dicembre mostravano, inoltre, dei lavori di costruzione in corso. Alla richiesta di commento da parte della Cnn, l’esercito israeliano ha ribadito di garantire “una condotta adeguata nei confronti dei detenuti in custodia. Qualsiasi accusa di cattiva condotta da parte dei soldati dell’Idf viene esaminata e trattata di conseguenza”. Entrando nello specifico, hanno poi aggiunto che “i detenuti vengono ammanettati in base al loro livello di rischio e al loro stato di salute. Gli episodi di ammanettamenti illegali non sono noti alle autorità”. Medio Oriente. “All’ombra della guerra a Gaza corre la vendetta nelle carceri israeliane” di Chiara Cruciati e Giansandro Merli Il Manifesto, 11 maggio 2024 Oneg Ben Dror, attivista ebrea di Physicians for human rights: “Nella base militare di Sde Teiman avviene la selezione dei gazawi. Possono rimanerci fino a 75 giorni, in celle a cielo aperto, ammanettati e bendati tutto il tempo”. Se il grado di civiltà di un paese si misura dalla condizione delle sue carceri, la fotografia di Israele che emerge dal trattamento dei detenuti palestinesi è a dir poco sconcertante. “I loro diritti erano violati sistematicamente anche prima di questa guerra, ma la situazione è peggiorata”, racconta Oneg Ben Dror, attivista ebrea della ong Physicians for human rights ed esperta della condizione dei prigionieri politici nelle carceri di Tel Aviv. La incontriamo a Roma, nella sede di Antigone. Dal 7 ottobre le autorità israeliane hanno arrestato migliaia di palestinesi in Cisgiordania. Come è cambiata la vita nelle prigioni? I diritti dei palestinesi nelle carceri israeliane sono stati violati sistematicamente anche prima di questa guerra. Le persone imprigionate erano circa 15mila, di cui 6mila palestinesi classificati come pericolosi. Adesso il numero è quasi raddoppiato. Un altro esempio: nell’estate 2023 c’erano 1.200 persone in detenzione amministrativa, il numero più alto negli ultimi sette anni. Dopo sette mesi di offensiva militare sono 3.500. Contro di loro non ci sono accuse formali. Hanno possibilità di difesa estremamente ridotte. Il ministro della sicurezza Ben Gvir è responsabile delle prigioni e ha fatto tutto ciò che poteva per rendere insostenibile la condizione dei palestinesi. È come se all’ombra del massacro di Gaza la guerra abbia giustificato una politica di vendetta. La vostra associazione è in prima linea nel denunciare le condizioni di detenzione nel centro militare di Sde Teiman, dove sono detenuti molti dei 3-4mila palestinesi arrestati a Gaza... Prima della guerra i palestinesi venivano arrestati dall’esercito e, dopo un paio di giorni, trasferiti nelle prigioni civili. Ora invece i gazawi sono detenuti dall’esercito per mesi. Sde Teiman è il luogo dove avviene la selezione. Le persone possono rimanerci fino a circa 75 giorni, in celle a cielo aperto, ammanettate e bendate tutto il tempo. Non possono sedersi durante il giorno, né muoversi o parlare. Altrimenti subiscono punizioni violente, comprese molestie sessuali. Abbiamo sentito storie terrificanti di soldati che fanno la pipì sui detenuti o gli inseriscono oggetti nel retto. Israele non rende pubblico il numero dei gazawi in detenzione, ma si parla di migliaia di persone. L’Unrwa ne stima circa 3mila. Molti sono prigionieri in centri appositi a Gaza, in basi militari o a Sde Teiman. Siamo al corrente di almeno 900 persone - forse di più - trasferite in questa base militare. La nostra associazione, insieme ad altre, cerca di localizzare i prigionieri, ma molte famiglie di Gaza non conoscono la sorte dei loro cari. Alla Croce rossa è stato proibito ogni accesso ai centri di detenzione fin dall’inizio della guerra. Di recente è stata pubblicata la notizia che l’accesso potrebbe essere concesso a ufficiali britannici. Così quando abbiamo fatto appello in tribunale perché la Croce rossa possa entrare nei centri, ci hanno risposto che i controlli sarebbero stati affidati ai britannici. Probabilmente perché il Regno unito ha minacciato di interrompere la fornitura di armi a Israele se questo avesse continuato a negare l’accesso alle strutture. Comunque quegli ufficiali non si sono mai palesati. Avete denunciato abusi sessuali contro i prigionieri palestinesi, aumentati dopo il 7 ottobre... In Israele non c’è una legge contro la tortura. Una sentenza del 1999 la aveva in qualche modo proibita, ma consentiva delle deroghe ad agenzie di sicurezza come lo Shin Bet, che possono condurre interrogatori anche servendosi della violenza fisica se la persona in questione è considerata una “bomba a orologeria”. Una concezione che le autorità israeliane estendono a tutti i palestinesi. Dopo il 7 ottobre i detenuti sono denudati appena entrano in prigione. Online ci sono video di persone lasciate in mutande per giorni. Oltre ai casi di cui ho già parlato, abbiamo ricevuto testimonianze di prigionieri nudi legati gli uni agli altri nei bagni. In una dichiarazione raccolta dall’Unrwa una prigioniera tornata in libertà ha detto che i soldati le hanno tolto l’hijab e l’hanno palpeggiata. Il vostro lavoro è criminalizzato in Israele? A ottobre c’è stata un’udienza alla Knesset sul sovraffollamento delle prigioni e la condizione dei palestinesi. Dopo essere intervenuta in favore dei loro diritti ho ricevuto per mesi messaggi di minaccia. Ma non siamo noi il centro della storia, viviamo comunque una condizione privilegiata. Il livello di criminalizzazione è senza precedenti: è quasi impossibile postare sui social media, i docenti universitari sono sottoposti a interrogatorio. Come Nadera Shalhoub-Kevorkian della Hebrew University, arrestata e interrogata per aver parlato di genocidio. Cambiare il primo ministro sarà sufficiente a porre fine a questa situazione? Non credo. Sudan. Nel Darfur Rsf all’offensiva, torna la pulizia etnica di Stefano Mauro Il Manifesto, 11 maggio 2024 Human Rights Watch accusa le Forze di supporto rapido di massacri indiscriminati delle popolazioni non arabe: tra 10 e 15mila vittime nella sola el-Geneina. E ora c’è ansia per l’assedio della città di El Fashir, con oltre un milione di abitanti e 600mila profughi. Human Rights Watch (Hrw) ha pubblicato giovedì un nuovo rapporto sul Sudan, in particolare sulla città martire di el-Geneina, capitale del Darfur occidentale. Nelle 186 pagine del report, Hrw “solleva la possibilità di un genocidio in atto”, citando pratiche di “pulizia etnica e crimini contro l’umanità” contro la comunità Massalit e altre etnie non arabe, sterminate dalle Forze di supporto rapido (Rsf). Da oltre un anno violenti combattimenti vedono contrapposti l’esercito sudanese (Fas), guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhan, alle Forze di Supporto Rapido (Rsf) del generale Hamdane Dagalo (detto Hemedti). Nessuna delle mediazioni tentate è riuscita a porre fine a un conflitto che ha provocato finora almeno 25mila vittime e oltre 8 milioni di sfollati interni o rifugiati nei paesi vicini come Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Etiopia, Sud Sudan. Proprio in questi giorni sul quotidiano Sudan Tribune al-Burhan ha escluso “ogni possibilità di negoziato, cessate il fuoco o pace prima della completa sconfitta dei criminali delle Rsf che hanno commesso violenze atroci in tutto il paese e nel Darfur in particolare”. Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite, più di 600mila sudanesi sono fuggiti dalle violenze in Darfur verso il Ciad, con “il 75% dei profughi che provenivano da el-Geneina”, in una regione che dal 2003 è teatro di violenze compiute dalle milizie Janjaweed - confluite successivamente nelle Rsf - contro le comunità non arabe dei Fur, Zaghawa e Massalit. Oltre 400mila le vittime. Il rapporto documenta come, dalla fine di aprile a inizio novembre 2023, i paramilitari delle Rsf “hanno condotto una campagna di pulizia etnica attraverso massacri e omicidi”, con il preciso obiettivo di “sterminare l’etnia dei Massalit”. Sistematica la distruzione di abitazioni e ospedali. “Torture di massa, stupri e saccheggi” hanno raggiunto il picco a metà giugno, quando migliaia di persone sono state uccise nel giro di pochi giorni, ed è aumentata nuovamente a novembre, causando complessivamente tra le 10 e 15mila vittime nella sola città di el-Geneina. Hrw ha chiesto un’indagine sull’intento genocida contro i responsabili e ha esortato le Nazioni Unite ad “estendere l’embargo sulle armi nel Darfur a tutto il Sudan”. La Corte penale internazionale (Cpi), che ha già in corso indagini, sulla “pulizia etnica compiuta dalle Rsf in Darfur”, afferma di avere “motivo di credere che sia i paramilitari sia l’esercito”, stiano tutt’ora commettendo “crimini di guerra contro civili e profughi in numerose aree del paese”. Anche con “saccheggi” e “blocco degli aiuti”, con attacchi continui contro gli operatori umanitari. Le preoccupazioni e l’attenzione della comunità internazionale è rivolta in queste settimane a ciò che sta avvenendo nella città di el-Fashir (Nord Darfur), l’unica capitale dei cinque stati del Darfur a non essere nelle mani dei paramilitari di Hemedti e principale centro di rifugio dei profughi dell’area. Numerosi esperti avvertono del rischio di “un possibile massacro che potrebbe generare altre decine di migliaia di vittime nella città”, soggetta a bombardamenti a tappeto e ormai totalmente circondata dalle Rsf, con oltre un milione di persone - di cui circa 600mila profughi - senza alcuna possibilità di fuga. A fine aprile l’Onu aveva già messo in guardia su questo “nuovo fronte” del conflitto, con il rischio di un “ulteriore ed esponenziale spargimento di sangue di civili e profughi inermi, colpiti dal fuoco incrociato, privati di cibo, acqua, medicine e senza aiuti umanitari in una regione già sull’orlo della carestia”, come indicato dal sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari politici, Rosemary Di Carlo.