Detenuti senza dignità di Marcello Bortolato* questionegiustizia.it, 10 maggio 2024 Sono giudice di sorveglianza e per questo mi limiterò a descrivere la situazione delle carceri su cui la magistratura di sorveglianza esercita il suo potere di vigilanza. Ancorché le norme dell’ordinamento penitenziario del 1975 consentano al magistrato di sorveglianza di prospettare al Ministro della giustizia anche le esigenze dei vari servizi e quindi anche un’indicazione di interventi possibili, credo che in questa felice occasione pubblica, in cui una magistratura ed un’avvocatura congiunte si trovano dalla stessa parte, il magistrato “di prossimità” che si occupa di eseguire la pena si debba limitare a denunciare lo stato delle cose, piuttosto che indicare soluzioni, perché quelle sono compito dell’azione del Governo e del Parlamento. E allora dico subito che la realtà dalla quale provengo, e mi riferisco al carcere di Sollicciano a Firenze, è divenuta una realtà che non esito a definire intollerabile. Di cosa parliamo? Parliamo di estremo degrado delle strutture se non di fatiscenza, di condizioni igieniche inaccettabili, peraltro da tempo note a tutti, e prima di chiunque altro ai detenuti che hanno inondato la nostra Cancelleria di reclami a tutela dei loro diritti, istanze alle quali, analogamente a quanto succede in altri Uffici di sorveglianza, non riusciremo a dare tempestiva risposta per la cronica carenza di risorse materiali ed umane, a causa del persistente oblio in cui i nostri uffici, dimenticati da tutti, vengono lasciati. Le stesse carenze che, ad esempio, determinano, circostanza poco nota, l’aumento vertiginoso di condanne ineseguite: il problema dei cc.dd. “liberi sospesi” che hanno raggiunto e superato ormai il numero di 100.000. Ma le condizioni di questo carcere, ove pure negli anni si sono verificati drammatici suicidi, sono comuni a molti altri istituti italiani ove si pratica, come lo stesso Ministro della Giustizia ha avuto occasione di dire solo pochi giorni fa nel carcere femminile della Giudecca, quell’inaccettabile “cultura dello scarto” che fa toccare con mano la disperazione e il dolore, espressione massima di lacerazione esistenziale e insieme di fallimento e contraddizione da parte delle istituzioni e della società. In molte carceri italiane, tranne le poche isolate realtà virtuose che anziché l’eccezione dovrebbero costituire la regola, non viene garantito quel minimo grado di civiltà necessario per far eseguire una pena degna ai condannati e nemmeno le condizioni minime di lavoro per gli agenti di polizia penitenziaria, uniti ai condannati in questa tragica fase discendente. Lo stillicidio dei suicidi, la sua insopportabile escalation, la crescita inarrestabile degli ingressi (ormai 4000 all’anno, frutto anche di leggi che danno priorità alla punizione piuttosto che alla prevenzione) e il degrado di strutture che ove fossero civili abitazioni sarebbero state chiuse da tempo, sono indice del progressivo scollamento tra la rappresentazione ufficiale del carcere e la realtà di esso: da tempo il carcere dopo la stagione di riforme perlopiù abortite, rischia di tornare a chiudersi in sé stesso e in esso l’uomo, con la sua dignità, scompare diventando invisibile. Si rifugge dalle prigioni così come si rifugge dal male mentre la questione carceraria dovrebbe stare in cima all’agenda degli interventi. Difronte ai suicidi il Presidente Mattarella ha detto che non c’è più tempo. Nessuno ha la bacchetta magica per risolvere un problema che ha una pluralità di cause: il disagio psichico, il senso di colpa verso i propri familiari, la mancanza di serie prospettive di reinserimento (se pensiamo che una buona parte dei suicidi avviene nella fase terminale della pena) sono tutte concause di un evento tragico, ma non si può ignorare che stare per molte ore al giorno costretti a condividere spazi sempre più stretti in strutture sempre più inadeguate tra persone con culture, usi ed abitudini di vita così diverse tra loro, in celle fatiscenti spesso nemmeno separate dai servizi igienici e magari con cimici, scarafaggi e infiltrazioni di acqua, non può non avere, nella drammatica decisione di togliersi la vita, un peso decisivo. Il disagio inoltre accresce la conflittualità interna: è dell’altro ieri la notizia di un detenuto che nel carcere di Opera ha ucciso un compagno di cella per una lite sul telecomando. Non può esservi uno stretto determinismo fra sovraffollamento e questi episodi ma è indubbio che riportare il sistema a livelli di accettabilità numerica gli darebbe, seppur temporaneamente, respiro. Una misura immediata, seppur a corto raggio, è dunque oggi indispensabile. Detto questo, una considerazione conclusiva sul problema della pena, perché il tema del sovraffollamento non resti un alibi per non affrontare la vera questione sociale che è sottesa al carcere. Il problema è certamente complesso perché è impossibile individuare una risposta definitiva ed è incerto il futuro su una soluzione alternativa meno disumana, che ancora non si intravede. Nel punire c’è l’essenza dello Stato che ha il monopolio della forza legittima e c’è anche una domanda di sicurezza, ma ciò non toglie che la questione umanitaria, in tempi di detenzione in condizioni degradanti, abbia posto prepotentemente il problema della “fuga dal carcere”, a riprova che per venire incontro a ciò che la dignità implica bisogna “uscire” dal carcere. Se la pena soddisfa una reazione emotiva e immediata alla commissione del reato, vista sempre di più solo come un modo per privare la libertà e infliggere sofferenza al reo, essa ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità e ragionevolezza e soprattutto se non si riduce a una semplice catena di sofferenze e dolore. Dicevo che non sta al giudice, almeno in questa occasione, indicare le soluzioni sia per arginare i costi umani provocati da tale condizione, sia per evitare di incorrere in una possibile nuova condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani ma segnalare, quello sì, la necessità di approntare risposte tanto di breve quanto di medio-lungo periodo. Un piano straordinario che affronti seriamente il tema dell’esecuzione penale dovrebbe comprendere tuttavia sia un serio incentivo delle misure alternative e di tutti gli altri istituti di probation sia un rafforzamento delle dotazioni effettive di uomini e mezzi agli Uffici di sorveglianza (inspiegabilmente esclusi dagli investimenti del PNRR), agli UEPE ed alle Aree trattamentali degli istituti penitenziari. Le misure “altre dal carcere” possono costituire una valida risposta solo se si implementano da un lato gli uffici che le devono concedere, dotandoli di strumenti adeguati, e dall’altro si rinforza il territorio che deve riceverle creando comunità accoglienti e non respingenti per rendere la pena, come vuole la Costituzione, “utile” per il condannato ed anche per la società. Recuperare la funzione “utilitaristica” della pena sarà pure contrario ai più puri principi liberali ma riconquisterebbe il senso di una pena umana da un lato e riabilitante dall’altro, restituendole in pieno quel “volto costituzionale” che le spetta. *Presidente del Tribunale di Sorveglianza Firenze. Intervento al convegno Senza dignità, tenutosi all’Università Roma Tre il 23 aprile 2024 In carcere l’isolamento è usato eccessivamente: oltre il 10% dei suicidi avviene in quelle celle di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2024 Lo scorso marzo un giovane di 28 anni con problemi di tossicodipendenza, marchigiano di origine ma in carcere a Parma, si è appeso a un lenzuolo in una cella di isolamento. Solo, dentro quel baratro di solitudine, non ha visto altra speranza che quella di rinunciare a vivere. I familiari non si danno pace. Era già successo un paio di mesi prima in un altro istituto e di nuovo il mese ancora prima nel carcere di Verona. E purtroppo potrei continuare. Oltre il 10% dei tantissimi suicidi degli ultimi mesi dietro le sbarre sono avvenuti in celle di isolamento. Persone spesso con problemi psichiatrici che venivano isolate invece che prese in carico. In isolamento crescono le violenze. Come è presumibilmente accaduto al carcere minorile Beccaria di Milano, dove la cella di isolamento, sottratta allo sguardo delle videocamere, veniva usata secondo le ricostruzioni del gip come teatro di abusi. O come è accaduto nel carcere di San Gimignano dove, secondo una delle prime condanne in assoluto avute in Italia per il reato di tortura, un uomo ha subito brutali vessazioni mentre si trovava nel reparto di isolamento. L’isolamento fa male. L’isolamento non può essere lo strumento per gestire i problemi del carcere. L’isolamento genera danni alla psiche fin dai primi giorni, che secondo la letteratura medica rischiano di diventare irreversibili dopo circa due settimane. In carcere, nelle carceri di tutto il mondo, la pratica dell’isolamento è usata in maniera eccessiva. Gli Stati Uniti sono maestri in questo. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2021, ci dicono che sono state tenute in isolamento nelle carceri statunitensi per almeno quindici giorni consecutivi tra le 41.000 e le 48.000 persone lungo l’arco dell’anno. Un isolamento inumano e spesso lunghissimo. Circa la metà dei suicidi in carcere avvengono lì tra il circa 5% dei detenuti in isolamento. Ma anche in Italia l’isolamento si pratica massivamente. Nei soli primi quattro mesi scarsi di questo 2024 sono stati disposti ben 668 provvedimenti di isolamento disciplinare. E, si badi, l’isolamento non è utilizzato in carcere solo per motivi disciplinari. Si usa per le più disparate ragioni, tra cui appunto per allontanare il problema di persone con disagi psichiatrici che andrebbero prese in carico da professionisti e che vengono così condannate all’abbandono e alla disperazione. Antigone, insieme a Physicians for Human Rights Israel, un’organizzazione di medici che ben conosce i danni prodotti dall’isolamento, ha avviato da vari anni una campagna a livello mondiale per superare la pratica dell’isolamento penitenziario. È stato prodotto un documento puntuale che illustra le alternative cui caso per caso si può ricorrere nella gestione delle complessità. Il documento è stato presentato alle Nazioni Unite e ad altri soggetti interessati, nella speranza che divenga un riferimento a livello internazionale. Ad aiutarci a stilarlo sono stati studiosi di fama mondiale, come Andrew Coyle della University of London, attivisti per i diritti umani, come David C. Fathi dell’American Civil Liberties Union, esperti dalla lunga esperienza nazionale e internazionale, come Mauro Palma e Grazia Zuffa, per non citare che alcune figure. Ma anche dirigenti penitenziari che hanno sperimentato in prima persona che si può (e si deve) mandare avanti un carcere senza ricorrere all’isolamento. Tra questi c’è Rick Raemisch, in passato a capo delle carceri del Colorado e collaboratore di Obama proprio su riforme legate a questo tema. A dimostrazione del fatto che non si tratta di proposte da anime belle sedute alle loro scrivanie e lontane dai problemi quotidiani delle carceri. Abbiamo fatto di più: abbiamo inviato Raemisch in Italia a raccontare agli operatori, ai politici, agli studiosi del sistema delle pene che si può fare. E con lui abbiamo invitato Juan Mendez, anche lui firmatario del documento, in passato Special Rapporteur sulla tortura delle Nazioni Unite che tanto ha lavorato sul tema dell’isolamento. Con loro e con molti altri esperti italiani e internazionali ne discuteremo il prossimo lunedì 13 maggio presso il Dipartimento di Giursprudenza dell’Università Roma Tre. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Il Garante nazionale dei detenuti D’Ettore: “Impegnati ad affrontare il disagio psichico” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2024 Si è tenuto presso l’Università Lumsa di Roma il convegno “Carcere e salute mentale L’intervento con adulti e minori autori di reato”, un importante momento di confronto su un tema di scottante attualità. L’evento, organizzato dal Centro di ricerca sui sistemi sociali e penali “Diritto alla Speranza” - Das, diretto dal professore Filippo Giordano, ha visto la partecipazione di esperti del settore, tra cui il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Felice Maurizio D’Ettore, e la direttrice della Casa circondariale Regina Coeli di Roma, Claudia Clementi. Nel suo intervento, D’Ettore ha snocciolato dati allarmanti sulla situazione all’interno delle carceri italiane. Al 7 maggio 2024, i detenuti presenti negli istituti sono 61.356, a fronte di una capienza regolare di 51.157 posti e di una disponibilità effettiva di 47.247. L’indice di affollamento è di 129,86, con punte ben oltre questa cifra in alcuni istituti. Ancora più preoccupanti sono i dati relativi agli atti di autolesionismo, ai suicidi e alle aggressioni al personale. Dall’inizio dell’anno, si sono verificati 4.283 atti di autolesionismo (+ 177% rispetto all’anno scorso), 32 suicidi e 668 tentati suicidi. Le aggressioni al personale di Polizia penitenziaria sono state 666, mentre quelle al personale amministrativo 27. Numeri che, come sottolineato da D’Ettore, “dimostrano quanto c’è da fare, ma anche quanto si sta facendo con le risorse attuali”. D’Ettore ha poi evidenziato la necessità di un intervento integrato per affrontare il problema della salute mentale in carcere. “Per avere la medicina penitenziaria ci vogliono le risorse”, ha affermato. “Il Dap sta tentando, attraverso il ministero della Sanità, di supplire ad alcune carenze che ci possono essere sui territori regionali. Ma serve di più”. In questa direzione, il Garante nazionale ha proposto una serie di protocolli d’intesa tra le Asl e le istituzioni carcerarie, come già sperimentato con successo in alcune regioni. “Non vogliamo sostituirci al Dap”, ha precisato D’Ettore, “ma qualche stimolo ogni tanto può essere utile”. Claudia Clementi, direttrice della Casa circondariale Regina Coeli di Roma, ha confermato la gravità della situazione all’interno delle carceri. “Ormai c’è una situazione di disagio e di patologia mentale molto diffusa”, ha affermato. “L’area del disturbo è così elevata che il carcere non può essere più la risposta unica a queste situazioni”. Clementi ha poi sottolineato l’importanza di una collaborazione tra operatori penitenziari e sanitari per garantire una presa in carico adeguata dei detenuti con problemi di salute mentale. “A volte noi non conosciamo i dati sanitari dei detenuti”, ha spiegato, “perché a causa della normativa sulla Privacy, non sappiamo quali sono le persone all’interno dei nostri istituti che hanno dei disturbi diagnosticati e chi sono le persone che assumono terapie prescritte dagli psichiatri. Non sappiamo quali sono e quanti sono i detenuti che risultano tossicodipendenti”. Secondo la direttrice del Regina Coeli, ci sono situazioni che non possono essere trattate all’interno del carcere e che richiedono strutture adeguate. “Per molte delle persone che sono in carcere, la commissione del reato è l’ultimo dei problemi”, ha concluso Clementi. “A Regina Coeli c’è una forte attenzione sulla sanità in carcere, ma ci sono situazioni che non possono essere trattate in un ambiente come quello del carcere. Hanno bisogno di altre strutture”. Il convegno “Carcere e salute mentale” è stato un’occasione importante per fare il punto su un tema complesso e delicato. Le parole degli esperti hanno messo in luce la necessità di un impegno concreto da parte di tutte le istituzioni per garantire il diritto alla salute delle persone private della libertà personale. Per i giovani il carcere è solo violenza di Erica Manna L’Espresso, 10 maggio 2024 Il caso “Beccaria” rivela che gli abusi sono ricorrenti negli istituti penali per i minorenni. Ma è l’intero sistema della giustizia a non essere adeguato a loro. Come racconta chi ci è passato. A colpire M. non erano solo gli schiaffi. Ma il fatto che gli agenti cercassero di farla sentire in colpa. “Mi dicevano: grazie a te dobbiamo fare il nostro lavoro”. Per R. c’entra anche il pregiudizio: “Io sono appassionato di bricolage. Quando i poliziotti hanno perquisito la casa, hanno visto un taglierino sul comodino e hanno detto: questo dorme con un coltellino accanto, per alludere all’uso di droghe. Ma non era così”. A G. è successo al momento dell’arresto: “Mi hanno tolto il cellulare e mi hanno picchiato”. Anche A. racconta di essere stato percosso durante il fermo: “Non l’ho detto a nessuno e comunque dirlo a qualcuno non cambia niente”. Eccole, le voci che nessuno ascolta: quelle delle ragazze e dei ragazzi detenuti nelle carceri minorili in Italia. Quasi cinquecento, nei 17 istituti penali per minorenni del nostro Paese: numeri in crescita, anche a causa dell’approccio punitivo su cui è incentrato il decreto Caivano. Voci che raccontano come le violenze all’Ipm “Cesare Beccaria” - oggetto dell’inchiesta condotta dalla Procura di Milano che ha portato agli arresti di tredici agenti penitenziari - non sono un’eccezione, ma “un elemento ricorrente del sistema”, come spiega Pippo Costella, direttore di Defence for Children Italia. Nasce per questo il rapporto del progetto “Just Closer”, di cui l’associazione è capofila: cofinanziato dall’Unione europea, ha raccolto le testimonianze dei ragazzi e delle ragazze attualmente coinvolti nei procedimenti di giustizia minorile. Storie confluite in una serie podcast, in uscita a maggio. “Volevamo far ascoltare chi è meno ascoltato - spiega Costella - la forza della ricerca sta anche nel fatto che è stata svolta da un gruppo di giovani che avevano vissuto in passato, in prima persona, un procedimento penale minorile. E la fotografia è preoccupante: una buona esperienza sembra questione di fortuna, più che il frutto dell’applicazione delle garanzie richieste dal diritto europeo e nazionale. Anche i tanti operatori competenti, in questo quadro, vengono penalizzati. Sfamo ancora ben lontani da una giustizia a misura di minorenne”. “Beccaria”, la punta dell’iceberg - I fotogrammi in bianco e nero, frammenti del pestaggio di un detenuto quindicenne trascinato nei corridoi a torso nudo, ripreso da una telecamera lo scorso 8 marzo, hanno la forza di lasciar intuire tutto il resto. Quello che resta sommerso. Perché, mentre l’inchiesta in corso potrebbe allargarsi, il report di Defence for Children (“La giustizia a misura di minorenne. Le voci dei ragazzi e delle ragazze in Italia”) accende una nuova luce su quel che accade “dentro”. Ma anche prima, al momento dell’arresto, o nel rapporto con avvocati, giudici, educatori. Nove principi disattesi - Il rapporto è guidato da nove principi che suonano come altrettante domande ai minori intervistati: la giustizia è stata accessibile? Adeguata all’età? Rapida? Diligente, ovvero accurata? Attenta ai bisogni? Ha seguito i dettami del giusto processo? È stata partecipata e comprensibile? Rispettosa della vita privata e famigliare? E, soprattutto, protegge da intimidazioni, stigmi o - come sta emergendo dal caso “Beccaria” - torture e trattamenti inumani? “A guidarci sono stati i principi del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di minore del 2010 e la direttiva europea 800 del 2016 promossa dalla deputata europea Caterina Chinnici, che disciplinano il trattamento che deve essere riservato prima, durante e dopo il procedimento penale minorile”, riprende Costella. Ma le risposte raccontano come questi principi vengano applicati in modo come minimo discontinuo, per la carenza di risorse strutturali e di un’adeguata formazione degli operatori del sistema. Al momento dell’arresto, racconta uno dei ragazzi intervistati, “mancavano quattro giorni al mio quattordicesimo compleanno: fino ad allora mi hanno tenuto isolato e non mi hanno permesso di chiamare nessuno”. Il motivo? In Italia sei imputabile solo al compimento dei 14 anni. “Io - continua il ragazzo - non avevo idea di quali fossero i miei diritti”. Effetto Caivano - Inasprire le pene: è il mantra di questo governo. I dati raccolti dall’ultimo rapporto di Antigone, “Prospettive minori”, mostrano come - al 15 gennaio 2024 - i detenuti nei 17 istituti penali per minorenni del nostro Paese siano, per l’esattezza, 496. Questo è il secondo anno di fila in cui crescono le presenze: ma se l’aumento del 2022 rappresentava un ritorno alla situazione pre-pandemia, l’impennata registrata l’anno scorso ha altre spiegazioni. “Fino al 15 settembre, giorno dell’entrata in vigore del decreto Caivano - sottolinea il rapporto - sono stati registrati 1.231 ingressi; una media di 4,8 al giorno. Da quel momento fino al 31 dicembre si sono registrati 576 ingressi in 108 giorni, con una media di 5,25 ingressi al giorno”. Il punto è che il decreto diventato un simbolo per Giorgia Meloni inverte una rotta già tracciata: un approccio punitivo a discapito di quello educativo, su cui è invece improntato il processo penale minorile secondo il relativo Codice (Dpr 448 del 1988). Stranieri, i più deboli - A farne le spese sono gli ultimi: vittime anche, come rimarca Costella, di un sistema di accoglienza spesso inefficace. Del totale di 496 detenuti presenti negli Ipm - sottolinea il rapporto di Antigone - gli stranieri sono infatti il 54,2%: quelli che beneficiano meno di misure più leggere ed efficaci. Se prendiamo i provvedimenti di messa alla prova adottati “solo il 20 per cento di essi ha riguardato ragazzi e ragazze stranieri”. Che restano dentro. Daria Bignardi: “Fin da piccola ho imparato che in prigione può finirci chiunque” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 10 maggio 2024 “La società più sicura non è quella che rinchiude più persone, ma quella che le fa uscire migliori di come sono entrate”. “Quelli del Beccaria sono fatti che fanno sprofondare nella desolazione più amara”. Daria Bignardi abita a poche centinaia di metri da San Vittore, giri l’angolo e ci sei, se fuori dalla finestra non ci fosse quell’altro palazzo potresti guardare la prigione più famosa del Nord ogni volta che scoli la pasta. In realtà ora è pomeriggio nella cucina dove stiamo facendo l’intervista sul suo nuovo libro e lei ha messo a bollire l’acqua per il tè. Il libro parla di carcere e di carceri - fa differenza, c’è il tema e ci sono i luoghi - a partire dal titolo: “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori). Senonché il giorno dell’appuntamento è anche quello in cui è uscita la notizia degli agenti del minorile milanese arrestati per violenze all’interno dell’istituto. Difficile non partire da questo... “Tu e io che frequentiamo il carcere da tempo lo sappiamo quanto il sistema carcere sia malato, sappiamo che la violenza è patologica. Di certo non ignoravamo che cose di questo genere succedano, nei posti più abbandonati, più problematici, più sotto pressione: le abbiamo viste tutti le immagini di Santa Maria Capua Vetere. Come hai letto ne parlo anch’io, come dei tredici morti nelle rivolte di marzo 2020. Ma sapere che probabilmente torture e violenze accadevano anche in un minorile, a dei ragazzini, è una di quelle cose che ti fan venire voglia di gettare la spugna, come se davvero non ci fosse più niente da fare, come se avessimo superato un limite dal quale non si può tornare indietro”. E c’è un motivo per non farlo? “Non ce lo possiamo permettere. Se non altro per la responsabilità che abbiamo come adulti nei confronti di chi viene dopo di noi. E non penso solo ai ragazzi del Beccaria ma a tutti i giovani, che non meritano uno Stato dove queste cose possano accadere”. Il libro è nato da questo proposito? “Sinceramente no. Direi che lo scopo etico, se mai alla fine lo avessi raggiunto, è maturato in corso d’opera. Cioè: ovvio che mentre nel mondo tira un’aria sempre più di destra parlare di carcere diventi un fatto politico. Ma all’origine di questo libro c’è stata semplicemente la mia esperienza. Fin da bambina, a Ferrara, quando passavo davanti alla prigione di via Piangipane. La mia compagna di banco ci abitava accanto e ogni volta che andavo da lei mi domandavo chi fossero le persone chiuse là dentro. Sapevo che c’era stato anche Giorgio Bassani, il più importante scrittore di Ferrara, e non capivo cosa c’entrasse con chi magari aveva ucciso o rapinato. Ero piccola, a ripensarci, quando ho imparato che in prigione può finire chiunque”. E poi? “E poi da grande, in carcere ho cominciato a entrare come volontaria. In principio qui di fronte, a San Vittore. Con l’articolo 78, quello di chi fa delle attività con le persone detenute. E non ne sono più uscita. Salvo che ogni volta, finita l’attività, io poi saluto e torno fuori”. Ma il libro? “Un paio d’anni fa ho scritto un lungo articolo su San Vittore. Me l’aveva chiesto Jonathan Bazzi in occasione di BookCity, la rassegna di libri milanese. La mia editor di Mondadori, Linda Fava, dopo averlo letto mi ha detto che secondo lei avevo molto altro da aggiungere. Così sono partita per Linosa”. Il libro di Daria Bignardi è in effetti un viaggio. Fatto di incontri con tante persone detenute o ex detenute, ma anche direttori e direttrici di istituto, agenti, magistrati, che l’autrice ha conosciuto nella sua lunga frequentazione penitenziaria. Il tutto però all’interno di una struttura narrativa che non è quella del saggio, per quanto ricco di dati e informazioni anche tecniche, bensì quella del romanzo-diario: ogni capitolo “carcerario” in senso stretto è alternato a uno che in forma di metastoria racconta in tempo reale la composizione del libro stesso, avvenuta perlopiù a Linosa. Ma un po’ anche a Stromboli e a Lampedusa. Se ogni prigione è un’isola, anche ogni isola è un po’ prigione. “Linosa l’ho scoperta da poco” riprende “e la ricordavo tra le altre cose come isola storica di soggiornanti, mafiosi mandati lì in soggiorno obbligato tra gli Anni 70 e 80. Quello col faldone più gonfio tuttora conservato nella biblioteca locale fu il boss Angelo La Barbera. Ma più avanti anche Giovanni Brusca, di cui non è rimasta traccia negli archivi ma che gli isolani ricordano come “un ragazzo gentile, sempre disponibile a dare una mano”: nessuno di loro immaginava di aver avuto a che fare con la persona che pochi anni più tardi uccise Falcone a Capaci e strangolò il bambino Di Matteo. Quando l’hanno saputo i linosani sono rimasti raggelati”. Facciamo un altro nome: Scotty Moore... “Scotty era un americano mio coetaneo detenuto nel braccio della morte: da ragazza mi sono scritta a lungo con lui. Avevo conservato le sue lettere anche se non avevo avuto il coraggio di rileggerle. Ero sicura fossero in un determinato posto. Invece quando sono andata a cercarle non le ho trovate e ho dovuto consegnare il libro - che parla anche di lui - senza ricordare il suo cognome. Che invece tu conosci perché te l’ho appena detto. Finisci il tè, aspettami qui”. Si alza, sparisce in un’altra stanza e torna con una cartellina piena di buste. Ne sfila una. “Il giorno in cui Mondadori mi ha consegnato la prima copia stampata del libro ho aperto per caso questa cartellina e mi è caduta in mano la sua ultima lettera: Scotty Moore si chiamava. Mi sono commossa come se Scotty avesse voluto salutarmi, strizzare l’occhio perché lo avevo ricordato. Sono più di trent’anni che l’hanno ucciso, ormai”. Il libro, in realtà, di nomi è strapieno. Chi vuoi ricordare? “Tino Stefanini, della banda Vallanzasca, che conobbi tra i primi, a San Vittore, e tra poco sarà libero dopo una pena di mezzo secolo. Sisto Rossi che ha presentato il libro con me a Roma: dopo cinque minuti il pubblico pendeva solo dalle sue labbra. Pino Cantatore, forse l’unico ex detenuto che come posto di lavoro ha scelto di tornare in carcere, con la cooperativa da lui creata e che di ex detenuti o tuttora detenuti ne ha assunti centottanta: Bee4 AltreMenti si chiama. Cecco Bellosi, che dopo un passato da brigatista ha dedicato la vita alla Comunità di recupero Il Gabbiano. Luigi Pagano, direttore storico ed eroico di San Vittore: dopo aver diretto carceri per tutta la vita ha concluso che così come sono non servono. Lucia Castellano, provveditrice delle carceri campane. Roberta Cossia, magistrata di sorveglianza. Ma soprattutto Marco Boattini, Ante Culic, Carlos Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Abdellah Rouan, Artur Iuzu, Ghazi Hadidi, Salvatore Cuono Piscitelli”. I tredici morti di Modena durante le rivolte del 9 marzo 2020... “Una strage che in un altro momento storico avrebbe fatto scendere la gente in piazza. Ma forse eravamo troppo assorbiti dalla nostra preoccupazione personale per il Covid, con l’inizio del lockdown. Quello stesso giorno io e te eravamo davanti a San Vittore, dove era in corso una rivolta analoga, ti ricordi?”. Facemmo un video per il Corriere... “C’erano i detenuti sul tetto che gridavano “Non siamo bestie” e tenevano un lenzuolo con scritto INDULTO. Dissi nel tuo video che se noi fuori ci sentivamo in gabbia figuriamoci come dovevano sentirsi chiusi in una cella, senza notizie e contatti coi familiari. Dai social arrivò una marea di insulti. Ma ci sono abituata, me li aspetto, se non si sa niente del carcere chi se ne occupa rischia di passare per chi trascura le vittime in favore dei delinquenti”. C’era bisogno di un libro sul carcere? “Ho cercato di far entrare in carcere chi non c’è mai stato, condividere quel che ho visto. Bisognerebbe che tutti almeno una volta ci entrassero. Non solo perché, come dice Svetlana Aleksievi? della guerra, è un posto in cui l’essere umano è illuminato a giorno e ridotto all’essenziale. Ma anche perché una società si misura attraverso le sue carceri: e la società più sicura non è quella che rinchiude in galera più persone, ma quella che fa uscire coloro che ci entrano - come prevedrebbe la nostra Costituzione - migliori di come sono entrati. Un risultato dal quale siamo molto lontani”. Rita Bernardini: “A Strasburgo, per i carcerati e i fragili di questo Paese” di Ilaria Dioguardi vita.it, 10 maggio 2024 Presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini è candidata alle prossime elezioni europee con gli Stati Uniti d’Europa. “Faccio lo sciopero della fame per richiamare tutte le istituzioni all’obbligo di intervenire sul tema del sovraffollamento nelle carceri. In Europa mi occuperei di diritti umani fondamentali”. Sta per iniziare uno sciopero della fame, Rita Bernardini, candidata alle Elezioni europee nella lista Stati Uniti d’Europa come capolista nella circoscrizione Isole e presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. “Da stasera a mezzanotte non mangerò più. Il mio sciopero della fame durerà un mese, tutta la campagna elettorale. Molto probabilmente farò anche qualche giorno di sciopero della sete”. Bernardini, perché ha deciso di iniziare uno sciopero della fame? La proposta di legge per ridurre il sovraffollamento nelle carceri italiane, calendarizzata in Commissione Giustizia alla Camera, è stata rimandata a dopo le elezioni. Gli strumenti per combattere il sovraffollamento ci sono: dall’amnistia (e indulto) alla liberazione anticipata speciale e ordinamentale, già incardinata alla Camera dei Deputati grazie a Roberto Giachetti e a Nessuno tocchi Caino. Ma è tutto rimandato a dopo le Europee. Ho chiamato questo mio sciopero “Memento”. Perché “Memento”? Voglio essere, assieme ai miei compagni di viaggio e ai cittadini che vorranno sostenermi anche con il voto, “Memento” per chi, avendone il potere, ritarda a fare le scelte che è obbligato a fare se solo vuole definirsi democratico. Voglio ricordare, con questo termine, a tutti i decisori politici che il nostro Stato ha l’obbligo di uscire da una condizione completamente illegale per i trattamenti inumani e degradanti nelle carceri, causati dal sovraffollamento. Ormai sono migliaia e migliaia i detenuti che ricevono i risarcimenti da parte dei magistrati di sorveglianza, grazie all’art. 35-ter dell’Ordinamento penitenziario che prevede rimedi risarcitori, appunto, per trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, Cedu. Ricordo che l’articolo 35-ter è stato inserito nell’Ordinamento dopo la “condanna Torreggiani” (la Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani, adottata l’8 gennaio 2013 con decisione presa all’unanimità, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Cedu, ndr). Prima di questa sentenza, non succedeva nulla se i detenuti venivano trattati male. Il problema delle carceri non è solo il sovraffollamento... Al sovraffollamento si aggiunge la carenza di personale, la sanità ridotta al lumicino. In carcere è molto facile ammalarsi gravemente e anche morire: sono già 34 i suicidi negli istituti penitenziari dall’inizio dell’anno, a cui bisogna aggiungere tutti gli altri detenuti che muoiono in carcere. Ho deciso di sfruttare questa “tribuna” che dà le elezioni europee per richiamare tutte le istituzioni, attraverso lo sciopero della fame (quindi con un’iniziativa non violenta), all’obbligo di intervenire. Si dicono tante cose che non stanno né in cielo né in terra, come la costruzione di nuove carceri. Ma quanto ci vuole a costruire nuovi istituti? Le persone sono sofferenti ora. Come diceva, gli strumenti ci sarebbero per migliorare il problema del sovraffollamento... Sì, la concessione della liberazione anticipata speciale è un beneficio dato ai detenuti che hanno un buon comportamento in carcere. Abbiamo 7.500 persone che devono scontare da 15 giorni a un anno e altre 7mila che devono scontare tra uno e due anni di carcere. Non si può fare il ragionamento: “Continuo a trattarti in modo disumano fino a che, io Stato, non sarò pronto”. Quello che commette lo Stato è un reato reiterato. Marco Pannella lo definiva “delinquente professionale”. Un conto è che un problema di sovraffollamento ci sia in un carcere, un conto è che sia diffuso in tutto il territorio nazionale. Poi bisogna attuare tutte le riforme necessarie, ma prima bisogna dare respiro agli istituti carcerari, con un minor numero di detenuti diviene più giusto ed equo il rapporto tra detenuti e personale. Oggi ogni educatore deve seguire in media un centinaio di detenuti, il che vuol dire che non può farlo. Di cosa si occuperebbe in Europa, in particolare, se venisse eletta? Mi occuperei dei diritti umani fondamentali, che non sono solamente quelli dei detenuti, ma anche di tutte le fragilità che esistono. A partire dalle discriminazioni per razza e per sesso a come sono trattati gli stranieri. Vorrei sostenere in Europa le riforme necessarie per la giustizia, perché ci sia anche in Italia un giusto processo, che oggi non c’è. Questi sono punti del programma degli Stati Uniti d’Europa, penso di poter dare il mio contributo per un’Europa veramente federalista, in cui i 320 milioni di cittadini europei abbiano voce in capitolo. Oggi non è così perché è tutto intergovernativo. Se pensiamo che il Parlamento europeo non ha il potere legislativo, cioè l’unico organismo europeo eletto direttamente dai cittadini non ha potestà legislativa… Ci spieghi meglio... Europa federalista significa avere un presidente eletto, avere le istituzioni veramente democratiche. Inoltre, significa che non ci sarebbe (come c’è oggi) il potere di veto di un Paese, per cui nessuna scelta può essere fatta se c’è il veto anche solo di una piccola nazione. Il senso federalista è quello del Manifesto di Ventotene (documento per la promozione dell’unità europea del 1941, ndr) di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi. Ad esempio, per quanto riguarda la Difesa, abbiamo in Europa 27 eserciti: per i grandi problemi del nostro tempo, ogni Paese fa da sé, abbiamo 27 politiche estere. A livello economico, l’Europa potrebbe essere una grande forza se fosse veramente unita, questo presuppone che gli Stati conferiscano potere al Parlamento europeo, come avviene negli Stati Uniti d’America: non ci sono 50 politiche estere, c’è la politica estera fatta da un Paese. Qualche altro tema che le sta particolarmente a cuore? Un altro tema a cui tengo tantissimo è quello della mafia, centrale in Sicilia (sono candidata come capolista nella circoscrizione Isole, Sicilia e Sardegna). Un altro tema che mi sta a cuore è quello dell’antiproibizionismo sulle sostanze stupefacenti, che mi ha visto portare avanti anche delle disobbedienze civili, le facevo soprattutto perché (purtroppo accade ancora oggi) dal Servizio sanitario nazionale non viene data come si dovrebbe la cannabis terapeutica ai malati. Voglio portare in Europa il vero modo di combattere la mafia. Oggi accade questo: gli Stati fanno gestire il fenomeno alla criminalità più o meno organizzata che fa guadagni talmente elevati che è in grado di corrompere addirittura gli Stati, ha un altissimo potere di corruzione. Chiediamo non la liberalizzazione ma la regolamentazione, che oggi non c’è, per cui non si sa neanche quali sono le sostanze che si assumono. Se si regolamenta un fenomeno, si possono fare anche politiche dissuasive. Se si lascia il fenomeno in mano alla mafia, questa fa politiche per incrementarlo e non per diminuirlo. Ispezioni nelle Procure contro i “dossier”, passa la linea Costa di Simona Musco Il Dubbio, 10 maggio 2024 Approvato alla Camera l’emendamento al ddl Cybersicurezza che prevede controlli sulla regolarità degli accessi alle banche dati. Le opposizioni: “Indagini a rischio”. Il deputato di Azione Enrico Costa incassa il no al carcere per i giornalisti, ma porta a casa un risultato: il sì del governo dopo la riformulazione - ad un suo emendamento al ddl Cybersicurezza che prevede un controllo del ministero della Giustizia, attraverso l’ispettorato, sulla “regolarità degli accessi alle banche dati” e sul “rispetto delle prescrizioni di sicurezza”. Una possibilità che ha di fatto scatenato la bagarre, nella seduta congiunta di mercoledì delle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera, dove Pd, M5S e Avs hanno lanciato l’allarme su un possibile controllo politico sulle inchieste, controllo celato dal paravento della sicurezza. In Commissione, l’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho, oggi deputato del M5S, ha preso la parola per opporsi alla proposta, sottolineando il rischio di controllo sui contenuti delle informazioni oggetto di accesso, che “determinerebbe una verifica nel merito”, con il conseguente “allargamento dell’intervento del ministro della Giustizia sui contenuti dell’attività investigativa”. Ciò che il ministro deve controllare, ha aggiunto, è che “vengano osservate le prescrizioni e che quindi il sistema sia effettivamente garantito e protetto, impedendo il verificarsi di illiceità come quelle già accadute”. Non è possibile - gli ha fatto eco la collega Valentina D’Orso - “avallare un’indebita ingerenza dell’organo amministrativo su indagini coperte dal segreto, sarebbe opportuno accantonare il tema in questa sede e concentrarsi preliminarmente su un apposito intervento legislativo volto ad individuare le prescrizioni di sicurezza”. Preoccupazione condivisa da Federico Gianassi del Pd, che ha inviato il governo “a riflettere più attentamente”, dal momento che con la proposta Costa “si attribuirebbe ad un corpo amministrativo alle dipendenze del ministero della Giustizia - che invece è un organo politico - il compito di verificare l’accesso regolare o abusivo alle banche dati da parte della polizia giudiziaria in relazione a delle indagini penali che, per loro natura, devono restare segrete e riservate”. Considerazione alla quale si è aggiunto un commento di valore: data la vicenda che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Delmastro, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio - il Pd “non nutre fiducia nella capacità dei componenti di tale dicastero di preservare le notizie segrete”. Alle proteste delle opposizioni ha replicato la sottosegretaria Matilde Siracusano, che ha parlato di “ampia riflessione da parte dell’Esecutivo” e di una proposta che va “nella direzione prudenziale che tende ad evitare gli indebiti accessi alle banche dati da parte di persone non legittimate a farlo”. I fatti relativi al cosiddetto caso dossieraggi, ha aggiunto, “sono particolarmente gravi” e pertanto “necessitavano di un intervento. La proposta emendativa dell’onorevole Costa - che tuttavia presentava degli elementi di rischio - ha quindi rappresentato l’occasione giusta per intervenire sul tema attraverso la riformulazione vagliata con grande attenzione dal ministero della Giustizia”. La formulazione iniziale prevedeva “ispezioni annuali volte a verificare la regolarità degli accessi degli operatori alle banche dati giudiziarie e alle altre banche dati in uso agli uffici giudiziari”, dunque interventi random, senza un atto d’impulso collegato a specifiche esigenze. La nuova formulazione, approvata mercoledì, prevede invece che nel corso delle ispezioni venga verificato, tra le altre cose, anche “il rispetto delle prescrizioni di sicurezza negli accessi alle banche di dati in uso presso gli uffici giudiziari”, “nonché il rispetto delle prescrizioni di sicurezza negli accessi alle banche di dati in uso presso gli uffici giudiziari”. Una formulazione un po’ più morbida, ma comunque preoccupante per le opposizioni, Italia Viva esclusa. Costa incassa dunque la vittoria, dopo esser stato costretto a rinunciare all’emendamento che mirava a punire i giornalisti finiti in possesso, consapevolmente, di notizie frutto di reato, proposta che aveva fatto infuriare giornalisti e associazioni della stampa, mettendo in allarme anche il governo, che con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha messo un veto sull’emendamento. Il deputato ha parlato di “violento attacco giornalistico e mediatico”, per aver voluto “segnalare una lacuna normativa sul tema. Invero - ha dichiarato durante una delle ultime sedute -, neppure la giurisprudenza può dirsi univoca sul punto. Spetta al legislatore stabilire i confini del diritto di cronaca, effettuando un bilanciamento tra gli interessi costituzionali in gioco, come avvenuto sulla questione della presunzione di innocenza in tema di ordinanze di custodia cautelare”. Ma il governo, a suo dire, avrebbe preferito evitare di affrontare a viso aperto una questione “potenzialmente divisiva”, per portare a casa questo provvedimento nel più breve tempo possibile. Il responsabile giustizia di Azione, però, non sembra intenzionato a gettare la spugna. E dopo aver ottenuto la possibilità di vigilare su una delle due parti in causa, ovvero le procure, per verificare eventuali accessi illegittimi alle banche dati, scalda i motori per portare a casa anche la stretta sui trojan - altro emendamento ritirato nell’ambito del ddl Cybersicurezza - incassando la disponibilità del governo ad accogliere la discussione sul tema in un prossimo provvedimento. Quello prescelto dovrebbe essere il ddl su intercettazioni e sequestro dei telefoni. “Dei contenuti non abbiamo ancora parlato - ha spiegato il deputato di Azione al Dubbio -, però mi sembra che ci sia una condivisione di massima, da parte del governo, sullo spirito dei miei emendamenti, quantomeno sul trojan”. La battaglia di Costa è solo all’inizio. Cybersicurezza, agli ispettori di via Arenula il controllo sugli accessi alle banche dati di Liana Milella La Repubblica, 10 maggio 2024 Un emendamento presentato da Costa (Azione) obbligherà il ministero della Giustizia a verificare l’esistenza di ingressi abusivi. Cafiero De Raho (M5S): “Siamo al controllo politico sulla magistratura?”. Un nuovo “potere” per gli ispettori di via Arenula, la longa manus del Guardasigilli da sempre. E per Carlo Nordio adesso. Un potere assai invasivo che può penetrare facilmente il segreto istruttorio. Non solo la possibilità, ma il “dovere” per gli 007 ministeriali della Giustizia, di verificare se dalle procure siano partiti accessi non necessari, e quindi illegittimi, alle banche dati. Un emendamento di Enrico Costa, il responsabile Giustizia di Azione, al ddl Cybersicurezza in discussione alla Camera lo renderà possibile. E dunque proprio Costa colpisce ancora. Ormai, sulla giustizia, propone più norme della maggioranza. E tutte davvero preoccupanti. Ossessionato, dopo il caso Striano, nato dalla denuncia a Perugia del suo amico Guido Crosetto, dai possibili accessi accessi abusivi nelle banche dati. Tant’è che sia lui, sia Tommaso Calderone di Forza Italia, avevano proposto di punire con l’arresto per ricettazione il giornalista che utilizzasse notizie frutto di un ingresso non autorizzato alle banche dati. Ma il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano non ha dato il via libera e i due emendamenti sono stati ritirati. Ma ecco qua un nuovo emendamento al ddl sulla Cybersicurezza, che ha scatenato la bagarre alla Camera in commissione Giustizia. Contro Pd, M5S e Avs, furibondo e ovviamente contrario l’ex procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho oggi deputato di M5S che parla di “controllo politico sulle indagini”. Ma Costa ha ottenuto il pieno appoggio della maggioranza e il via libera alla sua proposta. E vediamo che succede con il suo emendamento che dà agli ispettori di vita Arenula un potere, ma anche un onere in più, e cioè quello di verificare se ci siano stati accessi abusivi della procura sotto esame, anche per una verifica ordinaria, nelle banche dati. L’emendamento non spiega come questo potrà essere possibile. E non è dato sapere se gli addetti all’ispettorato siano già in grado o debbano chiedere gli strumenti per effettuare una simile verifica invasiva perché comporterebbe di fatto l’accesso alle indagini stesse, per verificare se una richiesta alla banca dati è compatibile con il contenuto dell’inchiesta. Ma tant’è. Adesso la possibilità e il potere ce l’hanno. Perché la proposta del responsabile Giustizia di Azione recita così: “Nelle ispezioni è verificato altresì il rispetto delle prescrizioni di sicurezza negli accessi alle banche dati in uso agli uffici giudiziari”. Nella relazione tecnica Costa spiega innanzitutto che si tratta di una misura a costo zero perché “non determina nuovi o maggiori oneri a carico della finanza in quanto gli adempimenti in questione verranno svolti nell’ambito dell’attività dell’ispettorato generale presso il ministero della Giustizia, avvalendosi delle risorse umane, finanziarie e strumentali già previste a legislazione vigente”. Una proposta criticata da tutti i capigruppo dell’opposizione, Pd, M5s, Avs. Valentina D’Orso, la capogruppo M5S in commissione Giustizia, dice di essere “fortemente preoccupata” perché, in assenza di maggiori dettagli su quali debbano essere le anomalie, “viene il legittimo sospetto che questo sia il grimaldello con cui il governo intende esercitare indebite ingerenze sulle indagini delle procure in violazione peraltro del segreto investigativo”. In effetti basta leggere la norma per rendersi conto che essa dà ampia libertà agli ispettori di cercare negli uffici dei pm gli eventuali eccessi abusivi nelle banche dati. Ma questo consentirà loro di entrare inevitabilmente nel merito di indagini anche delicate. Tant’è che anche la pattuglia parlamentare di Alleanza Verdi e sinistra, con Devis Dori e Filiberto Zaratti, ha spiegato come la maggiore preoccupazione si concentra sul rischio che la norma Costa possa portare “a un controllo politico delle attività giurisdizionali”. Inutilmente il capogruppo del Pd Federico Gianassi cerca di frenare la maggioranza e farla riflettere proprio su questo pericolo. Perché, spiega, “la proposta di Costa non chiarisce a quali condizioni l’organo ispettivo del ministero possa intervenire per verificare regolarità e sicurezza dell’accesso alle banche dati, che riguarda procedimenti penali in fase di indagine e quindi coperti da riservatezza”. Il punto è questo, un eventuale verifica “abusiva” per scoprire un eccesso abusivo. Come spiega Gianassi “è pericoloso che si consenta di controllare dando questo strumento a un organo politico come il ministero, attraverso l’ispettorato, che è un organo amministrativo”. Tant’è. Ormai l’emendamento è passato. E in aula, con la maggioranza allargata ad Azione e Iv, non avrà nessun problema. Io, avvocato democratico, per le carriere separate di Michele Passione* La Stampa, 10 maggio 2024 Gentile direttore, sul quotidiano da Lei diretto nella giornata di ieri Donatella Stasio ha definito le carriere separate un attacco alla democrazia, rivolgendo un insistito invito agli “avvocati democratici” a “difendere la magistratura”. Non ho alcun ruolo per prendere posizione sulla proposta di legge avversata, ma mi preme consegnare alcune considerazioni rispetto a quanto ho letto. La prima: l’articolo prende le mosse dal rilievo che si tratterebbe di una battaglia vecchia e portata avanti in chiave punitiva dalla destra (vecchia e nuova). Così facendo, appare subito chiaro come venga confuso il merito della proposta, la si condivida o meno, siccome sovrapposto a logiche totalmente estranee agli avvocati penalisti. Però, siccome ho premesso di non poter parlare a nome altrui, aggiungo solo che per chi mi conosce (pochi, lo so) è noto come la sola idea di essere accostato alla destra di questo Paese faccia sorridere, anche in relazione agli altri temi (premierato forte, autonomia differenziata) che l’articolo evidenzia, proponendo una sineddoche che non riesco a condividere. La seconda: sono d’accordo sul fatto che la separazione delle carriere sia non solo una questione tecnica, ma politica, sol che si attribuisca alla parola il senso nobile a cui la giornalista fa riferimento in premessa. Trattandosi di modifica costituzionale, sarebbe difficile negarlo. La Politica è una cosa preziosa, guai ad attribuirle altro significato. Del resto, è noto; liberatosi dalla dittatura il Portogallo ha fatto esattamente questo, separando ciò che qui si vuol tenere insieme (e ponendo il pm al riparo dall’esecutivo, come invece era previsto negli anni bui della sua storia). La terza: non comprendo come possa darsi relazione tra le censure in Rai, lo stallo indecente per l’elezione di un Giudice della Consulta (secondo logiche proprietarie che sfuggono al bene comune e rivelano, queste si, un manifesto attacco alle regole costituzionali) e la separazione delle carriere. Non capisco, ma il limite è mio, quale sia la relazione tra l’abitudine a difendere i diritti e le libertà di tutti, “a partire dalle minoranze”, e il dovere di difendere la magistratura per la funzione di garanzia che svolge. La magistratura non è minoranza e non viene affatto attaccata dai penalisti; non vive in una riserva indiana, e anzi trova suoi rappresentanti in tutti i luoghi di rappresentanza e potere (in primis, con i suoi tanti fuori ruolo nei vari dicasteri, soprattutto alla Giustizia, esperienza che davvero non ha eguali). Di più; è noto come l’Anm si sia di recente rifiutata di condividere un’iniziativa legislativa avanzata in materia di liberazione anticipata speciale, che l’Ucpi aveva proposto di portare avanti. Per inciso, il biglietto di ingresso in carcere è affare del Giudice, a proposito di tutela delle minoranze (e a tutti è noto il passaggio ormai conclamato dal welfare sociale a quello penale; basterebbe andare in carcere e vedere da chi è composta in maggior parte la popolazione detenuta, ma non risulta che sia un’esperienza molto praticata da chi non fa l’avvocato). La quarta: la sollecitazione ad andare in piazza quando la Democrazia è in pericolo non ha bisogno di spinte particolari. In risposta a chi voleva il processo infinito (imputati a vita) gli Avvocati hanno detto la loro per giorni, per strada, e in mille occasioni sono andati nei luoghi dove nessuno mette il naso (galere, cpr, opg, rems, spdc, etc.) in splendida solitudine. La quinta: attendant Godot abbiamo consentito che il reato di tortura per decenni non venisse introdotto e gli opg custodissero persone povere e abbandonate al loro destino, minoranze delle minoranze. Qualcuno (un giudice) ha chiesto alla Corte di tornare indietro, consentendo al ministro (“separazione” anche questa?) di riempire di nuovo le rems. La risposta è nota, e per fortuna discorde. Il refrain infinito per cui non è questo il momento deve cedere il passo alle ragioni del dibattito pubblico, politico, su cui può esservi ovviamente dissenso, ma non malcelata confusione. Qualche giorno fa a Firenze si è tenuto un convegno all’Università degli studi: Dicono di noi. Gli avvocati visti da fuori. In quella sede Donatella Stasio ha accennato alle cose più diffusamente scritte qui, e del resto il suo pensiero è noto. È certo che la prospettiva dello sguardo dei nostri osservatori sul nostro incedere, agire, raccontarci, sia diversa dalla percezione che abbiamo di noi stessi, diversi come siamo, peraltro, gli uni dagli altri (diecimila i penalisti iscritti all’Ucpi). Può darsi che si debba guardare alle ragioni del nostro dire, interrogandoci sul linguaggio, sui tempi e sui modi della nostra azione e narrazione. Ma credo sia davvero impossibile pensare che un avvocato debba rinunciare a dire la sua (o dirla solo in un modo), anche per le ragioni specularmente esposte da chi mi ha preceduto sul tema da questo giornale, che ringrazio per aver ospitato questa risposta periferica. *Avvocato Con un Csm riservato ai requirenti la parità resta una chimera di Ennio Amodio* Il Dubbio, 10 maggio 2024 Lo “sdoppiamento” dell’autogoverno non produrrà l’effetto voluto: un magistrato dell’accusa collocato sullo stesso piano della difesa. Separati in due case identiche, uguali a torri gemelle, con gli stessi piani alti e le stesse forme delle porte e delle finestre. Così il centro destra vuole mettere a dimora giudici e pubblici ministeri in una rinnovata architettura del nostro sistema giudiziario. Verrebbero creati due organi di autogoverno paralleli, destinati a regolare le carriere, rispettivamente, dei magistrati che devono emettere la sentenza e di quelli che, invece, investigano ed esercitano l’azione penale. Tutto semplice e chiaro, dunque? Può la divisione della giustizia in due versanti, popolati da toghe divenute sempre più simili, avere la forza di creare un fossato tra chi ha il potere di accertare i reati e coloro che invece vanno a caccia di prove per dare fondamento ad una imputazione? Pare proprio di no. Più che una separazione, il progetto del doppio Csm dà vita ad una omologazione. Si vuol far entrare in funzione un ascensore istituzionale che porta i magistrati dell’accusa allo stesso piano dei giudici. E li incorona come se fossero i privilegiati compagni del percorso processuale di chi ha il compito di pronunciare la sentenza. Non era certamente questa la separazione delle carriere cui avevano pensato gli avvocati penalisti e i professori delle Università dopo l’entrata in vigore del processo accusatorio nel 1989. Si voleva un pubblico ministero tutto calato nel suo ruolo di parte, su un gradino all’altezza di quello della difesa, spogliato della veste rituale simile a quella del giudicante. Insomma, un accusatore costretto a bussare alla porta di quest’ultimo, proprio come fa il difensore. È questa una scelta di democrazia processuale che costituisce il perno dei sistemi vigenti in Inghilterra e negli Stati Uniti. La grande forza morale del rito accusatorio sta proprio nel non contrapporre all’imputato un accusatore dalla statura gigantesca. La Procura è un ufficio che rappresenta la società offesa dal delitto, ma non per questo diventa la depositaria della verità. Il progetto del centro destra è dunque viziato da uno strabismo istituzionale. Si propone di guardare verso la magistratura requirente per privarla delle somiglianze alla figura del giudice e poi invece ne fa un corpo paludato con il “suo” Csm. E ne accentua così l’attuale patologica tendenza ad esibire i galloni del “guardiano” della giurisdizione. Ne risulta disatteso l’insegnamento dei padri costituenti che, mediante il disposto dell’articolo 107 comma 4 dalle Costituzione, hanno attribuito al pubblico ministero garanzie diverse e comunque di rango inferiore a quelle dei giudici. È vero che c’è sempre il rischio del risveglio delle velleità di soggiogare le Procure all’esecutivo. Ma per contrastare qualsiasi tentativo in questa direzione, basta ricondurre il controllo sulle grandi linee operative dei pubblici ministeri al Parlamento, come suggeriva un grande costituente come Pietro Calamandrei. Forse però non è il caso di impensierirsi troppo per la riforma costituzionale annunciata dal Governo, con qualche squillo di tromba. Le cronache confermano infatti che da Palazzo Chigi non è uscito ancora alcun testo, mentre si sa che da più di un anno pendono in Parlamento ben quattro disegni di legge che anticipano quasi alla lettera il disegno riformatore ora messo in cantiere. A cosa si deve, allora, la tardiva riscoperta della separazione delle carriere da parte dello stato maggiore della maggioranza? Non è malizioso immaginare che sia tutta una manifestazione di fervore preelettorale che presenta al pubblico una riforma scritta in maiuscoletto per affiancarla a quello a caratteri cubitali che inneggia al premierato. *Avvocato, emerito di Procedura penale nell’Università di Milano Test ai magistrati: necessità o vendetta? Il dibattito al Salone del libro di Valentina Stella Il Dubbio, 10 maggio 2024 Allo stand del Dubbio l’incontro con Anna Rossomando, Enrico Costa, Armando Spataro e Francesco Starace sul tema “rovente” della giustizia. “Test ai magistrati: necessità o vendetta politica?” è stato il titolo del primo dibattito organizzato dal Dubbio al Salone internazionale del Libro a Torino a cui hanno partecipato la dem Anna Rossomando, vice-presidente del Senato, Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep), Armando Spataro, già magistrato, che hanno discusso della nuova norma introdotta dal Governo per cui dal 2026 gli aspiranti magistrati dovranno sottoporsi anche ad una valutazione psicoattitudinale. Per l’esponente del Partito democratico “la norma sui test psicoattitudinali rientra nella categoria dei provvedimenti di questo governo a scopo puramente propagandistico. Siamo alla provocazione, mentre si continuano ad eludere temi fondamentali come l’attuazione delle riforme approvate a larghissima maggioranza nella scorsa legislatura. Tutto questo in un’ottica di riapertura dello scontro politica-magistratura e ignorando invece nodi fondamentali come i tempi della giustizia o lo stato degli interventi finanziati e previsti da Pnrr e altri fondi, per un totale di oltre 3 miliardi. Su questo sarebbe utile si concentrasse il governo e non su interventi propagandistici, come i test psicoattitudinali, da cui emerge un’idea in realtà autoritaria del rapporto tra cittadino e Stato”. Ha proseguito Enrico Costa: “Vi stupirò ma sono abbastanza d’accordo con Anna Rossomando. Ci deve essere uno stile nel predisporre le norme di legge e un percorso innovativo che con cambiamenti di questa portata deve garantire un approfondimento. Tutte le norme del passato - che siano stati disegni di legge o decreti legge in sede di conversione - sono passati attraverso delle audizioni. In questo caso il Governo ha introdotto una innovazione che non era nella delega, senza una adeguata discussione. Il Governo ha delegato la scrittura della norma ai relatori in Commissione Giustizia e poi alla fine si è delegato al Csm. Non so se sia una vendetta ma almeno un modo strampalato di approvare la norma”. Nel merito, per il parlamentare, “questa nuova norma non serve a nulla. Ciò che conta è la valutazione di professionalità, che ad oggi sono positive al 99,6%. E questo non va bene perché bisognerebbe valutare gli esiti dei procedimenti. Ma anche in questa occasione il Governo ha indebolito la norma perché ha deciso di valutare a campione”. La questione ha diviso anche il mondo scientifico, in particolare psichiatri favorevoli e psicoanalitici contrari. Starace ci ha detto: “Bisogna avere massima cura dei magistrati che sono dei veri professionisti. Per farlo occorre selezionare questo gruppo di professionisti sulla base di capacità, competenze, motivazioni. Credo che alla base del dibattito che si è creato ci sia un fraintendimento: un test psicoattitudinale non è uno strumento per scovare una patologia psichiatrica né sarebbe appropriato farlo a persone che con il concorso hanno già superato dei test, superando la prova scritta e orale, essendo stati prima studenti di giurisprudenza. Il test è semplicemente uno strumento che ambisce ad essere predittivo delle caratteristiche attitudinali che debbono essere proprie di un certo profilo professionale. Ed è in questi termini che credo si esprima la norma. Profilo che sarà diverso a seconda delle aree in cui il magistrato sarà impegnato: una cosa saranno le richieste per chi si occuperà di diritto fallimentare, altre quelle per chi dovrà occuparsi di delitti efferati”. E ha concluso: “Uno studio condotto qualche anno fa negli Stati Uniti su mille magistrati ha mostrato oggettivamente che essi hanno elevati livelli di stress, di ansia, di depressione, il 10 per cento era a rischio di abuso di alcol”. Poi è intervenuto l’ex magistrato Armando Spataro: “I test come pensati dal Governo non sono previsti per valutare lo stress nel corso della carriera ma soltanto nella fase del concorso, dopo gli iscritti per valutare l’attitudine a fare il magistrato. La formulazione tecnica della norma non è da marginalizzare: c’è una legge delega che risale al 2022 solo in parte attuata, ma la scelta di inserire nell’ordinamento questi test è assolutamente incostituzionale. Innanzitutto perché la Costituzione prevede che si diventi magistrati per concorso. Nessun concorso potrebbe essere vincolato a dei test”. Processo alla gogna: Francesca Scopelliti racconta il dramma del caso Tortora di Giacomo Puletti Il Dubbio, 10 maggio 2024 Il processo mediatico al centro della prima giornata di eventi, con la testimonianza della compagna di Enzo e con Marco Sorbara che ha descritto i suoi 900 giorni in cella. La gogna che soffoca, strozza, uccide. Il carcere che umilia, debilita, massacra. E la riabilitazione che arriva a fatica, e a volte non arriva mai. Si è parlato di tutto questo nel panel di presentazione di quello che è leit motiv della presenza di quest’anno del Dubbio al Salone del libro di Torino, cioè Processo mediatico: il colpevole sei tu. All’incontro, moderato da Valentina Stella, hanno partecipato la compagna di Enzo Tortora, Francesca Scopelliti, e Marco Sorbara, già consigliere comunale di Aosta e assessore regionale in Valle d’Aosta. Un incontro emotivamente forte, a tratti commoventi, che ha dimostrato al numeroso pubblico presente gli effetti che la gogna mediatica può provocare sul corpo e sull’anima delle persone. Si è partiti ricordando quel 17 giugno 1983, giorno in cui Enzo Tortora viene arrestato per associazione camorristica e traffico di droga. “Tortora fu chiamato la sera prima da un giornalista che gli disse che era stato arrestato, ma lui si mise a ridere ha raccontato Scopelliti - Era una fuga di notizie, d’altronde i procuratori napoletani non vedevano l’ora di aprire le danze della pubblica gogna”. Poi, la mattina dopo, l’arresto, con tanto di attesa nella camionetta per aspettare l’arrivo delle troupe televisive proprio di fronte alla caserma, prima del trasferimento a Regina Coeli. “Seguitelo, seguitelo bene questo mostruoso caso giudiziario”, disse Tortora, come racconta la compagna leggendo dei brani di Cara Italia ti scrivo, uno dei libri scritti dal conduttore per spiegare il suo caso. “Enzo era stato arrestato in mancanza di prove e quindi serviva una scenografia che rendesse sin da subito evidente la colpevolezza, che mai fu data per presunta ma sempre per certa”, continua Scopelliti. Che poi legge alcune delle Lettere a Francesca, contenute nell’omonimo libro che raccoglie tutte le lettere inviate da Tortora alla compagna durante la detenzione. Ed è a questo punto che Scopelliti usa l’espressione “giornalismo antropofago”, per descrivere “il massacro che fu fatto di Enzo, una sorta di cannibalismo”. Con un esempio su tutti: quello di Camilla Cederna, che sulla Domenica del Corriere diede sostanzialmente al conduttore del colpevole perché antipatico. Ma ci fu anche chi lo difese, tra tutti Enzo Biagi. Che scrisse una lettera intitolata E se fosse innocente?, sottoscritta anche da altri come Giorno Bocca, Indro Montanelli e Piero Angela. “C’erano autorevolissime voci di pensiero libero che si scagliarono contro l’inchiesta napoletana, ma oggi non sarebbe possibile perché il clima che si è instaurato è quello della gogna a tutti i costi e del fango”, ragiona amaramente Scopelliti. Che poi parla dell’esperienza del compagno in carcere anche in “positivo”, spiegando che condivideva la cella con altri sei detenuti, di cui uno sofferente di enfisema polmonare e verso il quale il conduttore si prodigò per fargli avere un ventilatore. “Da un lato ha vissuto il carcere con il carattere che ha sempre avuto, generoso e attento agli altri - continua Scopelliti dall’altra visse la galera per quel che è, cioè un luogo di privazione della libertà con tutto ciò che ne consegue”. Tra cui il tumore che colpì Tortora, il quale al momento dell’arresto disse di aver sentito “una bomba al cobalto scoppiarmi nel cuore”, e che lo portò alla morte nel 1988. E non è mancata la parte più intima del racconto, quella in cui Scopelliti ha spiegato che “nonostante fossimo fidanzati ma non c’era la possibilità di andarlo a trovare in carcere” ma ammettendo anche che “forse lui stesso non voleva che lo andassi a trovare per non farsi vedere da me in quella condizione”. E l’emozione non è mancata nemmeno nel racconto di Sorbara, nominato pochi giorni fa “ambasciatore del perdono” dall’organizzazione di volontariato My Life Design. “È terribile: sono arrivati alle tre e un quarto del mattino e hanno messo la casa a soqquadro”. L’ex assessore racconta la sua vicenda: la corsa in caserma, la foto segnaletica, le impronte digitali. Momenti rivissuti nell’installazione del Dubbio che quest’anno al Salone simula un caso di gogna mediatica, dopo la cella simulata lo scorso anno. “All’arrivo in carcere vieni spogliato di tutto, l’unico tuo compagno di viaggio è la paura”, ha raccontato Sorbara. Una cella di quattro passi per due, la sua, 45 giorni di isolamento, una condanna in primo grado a dieci anni, poi 945 giorni di carcere e 24 chili persi in poco meno di tre anni. E poi il mutuo revocato, i crediti dell’ordine dei commercialisti non completati, l’infamia di essere giudicato “figlio di un calabrese”, e quindi, per i giustizialisti, per forza ‘ndranghetista. Dopo la prima condanna e 72mila pagine di inchiesta, il pensiero di farla finita. E quella frase di sua madre: “Marco, non si molla”, che lo fa desistere. “Non cambierei una virgola di quel che mi è successo - dice oggi Sorbara - assaporo i momenti e mi godo la vita perché a tutti può succedere quel che è successo a me”. Campania. Nelle carceri situazione drammatica: quasi duemila reclusi in più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2024 Il Garante regionale, Samuele Ciambriello, nella relazione annuale segnala anche la presenza di tanti detenuti con doppia diagnosi, affetti sia da disturbi mentali che da dipendenze, e la carenza di psicologi. Sovraffollamento, presenza di detenuti con doppia diagnosi, assenza di psichiatri e psicologi, e un tasso di suicidi superiore a quello delle persone libere: sono le gravi criticità emerse dalla relazione annuale appena redatta da Samuele Ciambriello, garante delle persone private della libertà della Campania. I dati regionali mettono in evidenza una serie di problematiche che riflettono le difficoltà dell’intero sistema penitenziario nazionale. Le carceri campane si trovano in una situazione drammatica, caratterizzata da un cronico sovraffollamento e da gravi carenze strutturali. Al 23 aprile 2024, si contano 7.573 detenuti a fronte di 5.645 posti regolari, posizionando così la Campania al secondo posto in Italia per indice di sovraffollamento. Pozzuoli è il 24esimo carcere più sovraffollato d’Italia, con 169 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. La situazione sanitaria è altrettanto allarmante: a Poggioreale, con oltre 2.000 detenuti, ci sono solo 2 psichiatri. Inoltre, mancano dati completi sulla presenza di psichiatri e psicologi in altri istituti. Le precarie condizioni di vita e la mancanza di assistenza adeguata contribuiscono all’alto numero di eventi critici: nel 2023 si sono verificati 1.299 atti di autolesionismo, 156 tentativi di suicidio e 5 suicidi. Ma l’analisi dei dati sulle pene inflitte ai detenuti in Campania da parte del Garante Ciambriello rivela una realtà altrettanto preoccupante: la metà di essi deve scontare pene inferiori a due anni. Al 24 marzo 2024, si registrano 44 detenuti con pena fino a 8 mesi, 109 detenuti con pena fino a 1 anno, 254 detenuti con pena da 1 a 2 anni, 503 detenuti con residuo pena fino a 8 mesi, 840 detenuti con residuo pena fino a 1 anno, e 956 detenuti con residuo pena da 1 a 2 anni. L’applicazione delle misure alternative previste dall’ordinamento italiano potrebbe contribuire a ridurre significativamente il sovraffollamento carcerario, soprattutto per i detenuti con pene brevi. I dati sottolineano l’urgente necessità di interventi per alleggerire il carico sulle carceri campane e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Come evidenzia il Garante Ciambriello, l’applicazione delle misure alternative, l’aumento degli investimenti nelle strutture e nel personale, e un maggiore focus sulla riabilitazione e sul reinserimento sociale sono solo alcuni dei passi necessari per affrontare questa grave emergenza. Un altro problema rilevante è la presenza di detenuti con doppia diagnosi, ovvero che soffrono sia di disturbi mentali che di dipendenze. Al 31 dicembre 2023, si contavano 1.024 detenuti tossicodipendenti in Campania. Tuttavia, i dati relativi ai tossicodipendenti non sono completi a causa della mancata collaborazione di alcune Direzioni sanitarie. La mancanza di adeguati trattamenti per le dipendenze aggrava la situazione di disagio e frustrazione all’interno delle carceri. Non manca la situazione dei minori detenuti che è particolarmente preoccupante. Al 31 dicembre 2023, 76 minori erano detenuti tra Nisida e Airola. I reati più frequenti commessi dai minori sono le rapine, lo spaccio di droga e i reati con armi. Negli istituti minorili di Airola e Nisida si sono verificati atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, aggressioni e infrazioni disciplinari. Il garante campano sottolinea che la loro fragilità e la necessità di un supporto psicologico adeguato rendono ancora più urgente un intervento per migliorare le loro condizioni. Il lavoro rappresenta un importante strumento di riabilitazione e reinserimento sociale per i detenuti, ma il suo potenziale non è ancora pienamente sfruttato. Nel 2023, 2.510 detenuti in Campania hanno lavorato, di cui 2.183 alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. I numeri relativi al lavoro di pubblica utilità sono bassi: solo 31 detenuti svolgono questo tipo di attività. Le Rems (Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza) sono strutture dedicate ai malati psichiatrici che hanno commesso reati. Tuttavia, il numero di posti disponibili è insufficiente e le liste di attesa sono lunghe. Nel 2023, 39 pazienti erano ospitati nelle Rems di Calvi Risorta e San Nicola Baronia. Sono state 24 le persone coinvolte nel Progetto Terapeutico Riabilitativo. I dati relativi ai Tso (Trattamenti Sanitari Obbligatori) e Spdc (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) sono incompleti a causa della mancata risposta di alcuni enti. Tuttavia, i dati disponibili evidenziano un numero elevato di Tso e Tsv (Trattamenti Sanitari Volontari). L’Area penale esterna si occupa del reinserimento sociale dei detenuti dopo la scarcerazione. Nel 2023, 22.392 persone erano seguite dai servizi dell’Area penale esterna in Campania. Da aprile 2023 ad aprile 2024, 2.533 persone sono uscite dal carcere in Campania con misure alternative alla detenzione. Non mancano i dati sugli Indennizzi per ingiusta detenzione: le Corti d’Appello di Napoli e Salerno hanno emesso nel 2023 rispettivamente 43 e 16 ordinanze di pagamento per ingiusta detenzione, per un importo totale di oltre 1.7 milioni di euro. Torino. Detenuto suicida, verso il processo psichiatra che aveva definito “lieve” il rischio di Sarah Martinenghi e Elisa Sola La Repubblica, 10 maggio 2024 La procura chiede il rinvio a giudizio: per la morte di Alessandro Gaffoglio nel carcere delle Vallette l’accusa è di omicidio colposo. La difesa: “Vicenda dolorosa con gigantesche smagliature nell’organizzazione della custodia”. Un anno e nove mesi dopo il suicidio di Alessandro Gaffoglio, la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per la psichiatra del carcere di Torino che aveva visitato il detenuto di 24 anni indicando in “lieve” il suo rischio di suicidio. Il ragazzo si era tolto la vita soffocandosi con una busta di nylon, con la stessa modalità del precedente gesto anticonservativo. Il giovane era da considerarsi “un soggetto ad alta vulnerabilità psichica”. Nonostante questo, secondo la pm Rossella Salvati, la dottoressa avrebbe abbassato il livello di pericolo, sottovalutando così l’ipotesi che il giovane potesse tentare di togliersi la vita. Per l’accusa quel sacchetto non avrebbe dovuto trovarsi in cella: Gaffoglio si era nascosto sotto una coperta sfuggendo così anche al controllo degli agenti che avrebbero dovuto sorvegliarlo attraverso le telecamere. Alla psichiatra, difesa dall’avvocato Gian Maria Nicastro, è contestato l’omicidio colposo. Quando è stata interrogata ha sostenuto che il nuovo protocollo del carcere sul lieve livello di rischio prevedrebbe comunque maggiori attenzioni rispetto al vecchio regolamento sul “basso livello di attenzione”. Le più recenti disposizioni indicherebbero che sia comunque previsto un rischio anticonservativo, e che venga per questo monitorata la disponibilità di oggetti pericolosi per i detenuti. La psichiatra non avrebbe quindi responsabilità per l’ingresso della busta in cella: “Riteniamo di poter far comprendere davanti al giudice che la mia assistita ha fatto tutto quello che era in suo potere e dovere. Si tratta di una vicenda dolorosa in cui ci sono state smagliature gigantesche nella maglia custodiale”, ha spiegato l’avvocato Nicastro. Gaffoglio aveva una grande fragilità. Era oppresso dal senso di colpa di trovarsi in carcere per la prima volta, per rapina, e temeva di aver deluso i genitori. L’incontro con loro era previsto il 16 agosto 2022. Ma non ne hanno avuto il tempo. Nella notte tra il 14 e il 15, il ragazzo si era stretto il sacchetto al collo. E quando è accaduto nessuno ha avvisato la famiglia e nemmeno l’avvocato Laura Spadaro che era la sua legale e che ora assiste i genitori con la collega Rosaria Scicchitano: “Abbassare il livello di rischio porta in automatico a far scendere la soglia di attenzione: la famiglia aspetta da tempo risposte e che vengano accertate le responsabilità”. Torino. Torture nel padiglione del carcere riservato ai sex offender, 22 agenti a processo di Ludovica Lopetti La Stampa, 10 maggio 2024 In tribunale a Torino la testimonianza della garante Monica Gallo: “Entravo nell’istituto e non ero considerata”. “Quando entravo nell’istituto non ricevevo nessuna attenzione, gli agenti restavano con i piedi sulla scrivania, fumavano o urlavano per chiamare i detenuti. Dovevo insistere per farmi ascoltare, mi lasciavano aspettare anche un’ora”. Era una testimonianza molto attesa quella di Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, ascoltata per diverse ore nell’aula del processo a 22 agenti penitenziari del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. L’accusa? Torture sui detenuti. Gallo è una “teste-chiave”. È stata lei a denunciare in Procura le tante segnalazioni ricevute dai reclusi del padiglione C, quello dei “sex offender”, che parlavano di schiaffi, botte e umiliazioni. Il pm Francesco Pelosi contesta a vario titolo i reati di tortura, abuso di autorità, lesioni aggravate, violenza privata, favoreggiamento, omessa denuncia e rivelazione di segreto. Gallo ieri ha ripercorso le tappe che l’hanno convinta a presentare un esposto nel 2019. “Sin dal mio ingresso - ha raccontato - operatori, insegnanti e il cappellano don Guido mi fermavano per dirmi che tirava una brutta aria. I detenuti dicevano “noi non stiamo bene qui”. Vis-à-vis le parlano di botte nella “rotonda” e durante i trasferimenti, perquisizioni violente, soprusi gratuiti. Alcuni le mostrano lividi e cicatrici. Puntano il dito contro l’ispettore Maurizio Gebbia, coordinatore di sezione. “Gli agenti entravano e buttavano tutto per terra, strappavano fotografie - ha proseguito - A un detenuto che amava disegnare hanno tolto i pennarelli e li hanno piantati nei vasi di fiori. Un altro è stato costretto a pulire gli escrementi in cella con dei fogli di giornale, mentre prendeva calci nella schiena”. Non tutti i reclusi erano sorpresi del trattamento. “Uno mi ha detto: “ho fatto una cosa grave, è giusto che mi puniscano”. Riscontri di quello che accadeva sarebbero arrivati anche dalla lettura dei “registri degli eventi critici”, dove vengono annotati gli incidenti. “Il direttore sanitario mi disse che in effetti i detenuti del C cadevano delle scale molto più degli altri”. A quel punto Gallo dice di aver parlato con il direttore Luigi Minervini (processato con il rito abbreviato e condannato a 300 euro di multa per omessa denuncia). “Di Gebbia disse: “Quando ci sono le mele marce bisogna spostarle”. Ma poi disse anche che aveva poco personale e non poteva spostarlo”, ha spiegato la Garante. Ancora Gallo: “Una volta il cappellano ha visto un detenuto con la testa fasciata, zoppicante, così mi ha scritto. Ho chiamato Minervini, ma lui mi ha detto “Sto andando in vacanza, rivolgiti alla capo area”. “Mi diceva: tutto sotto controllo, indagheremo”, ma non cambiava mai niente”. La testimone ha anche riportato una confidenza ricevuta da un’educatrice: “Gebbia le disse, “fosse per me, quel detenuto andrebbe sciolto nell’acido”. Qualche divisa si sarebbe poi sfogata con la garante. “Questi anarchici ci odiano. Se do due rotoli di carta igienica alla settimana anziché uno sono fin troppo buono”, le parole attribuite a un agente. Torino. “Pugni e calci dagli agenti”. Le confidenze dei detenuti nel racconto della Garante di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 10 maggio 2024 Presunte torture in carcere, Monica Gallo sentita per oltre tre ore: “A un certo punto, segnalai le cose a provveditore e sindaca”. Tutto inizia così: “La prima segnalazione di violenza arriva nel settembre 2018: durante un colloquio, un detenuto mi disse che era stato preso a calci da alcuni agenti, durante un trasferimento tra padiglioni”, racconta Monica Cristina Gallo, dal 2015 Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà. Sulle domande del pubblico ministero Francesco Pelosi, parla per oltre tre ore, come testimone al processo sulle presunte torture nel carcere “Lorusso e Cutugno”, che vede imputati - a vario titolo - 21 agenti della polizia penitenziaria. Ne esce uno scenario - preoccupante, ma complesso - fatto dalle confidenze dei carcerati o da parole a loro volta sentite da altri e poi riferite. Per un’escalation di relazioni e allarmi, fatti da Gallo: “A un certo punto segnalai le cose anche alla sindaca, oltre che al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria”. Inevitabilmente, nella lunga ricostruzione non sempre spuntano i nomi dei presunti responsabili, a parte quello dell’ispettore Maurizio Gebbia, coordinatore del padiglione C, e quello di un collega che, a un certo punto, Gallo indica in aula. “Io raccolgo segnalazioni, ma non faccio indagini”, precisa la garante davanti al tribunale (presidente Paolo Gallo). Però, molti sapevano, sostiene: “Durante una riunione con Liberato Guerriero (ex Provveditore, ndr), Minervini (l’ex direttore del carcere, ndr)mi disse che erano consapevoli delle situazioni di tensione nell’area C”, quella che ospita anche i condannati per reati sessuali. Di più, il primo avrebbe detto: ““Domenico, quando ci sono le mele marce bisogna spostarle”. E qualcuno fece il nome di Gebbia”. Morale: “All’inizio del 2018, dentro al padiglione C c’era una situazione di tensione e di abbandono. Anche il direttore diceva: “C’è una situazione un po’ particolare”. Ogni tanto, la memoria viene rinfrescata dalla citazione delle informazioni testimoniali rese da Gallo durante le indagini: “Giravano diverse voci, che in quel padiglione i detenuti venivano picchiati, ma nessuno aveva fatto specifica denuncia”, un passo del verbale letto dall’accusa. La garante concorda: “Se ne parlava in maniera generica, non specifica. Gli educatori facevano intendere che c’erano stati episodi di violenza”. Dopodiché, cominciarono a spuntare episodi: “Un detenuto mi parlò che durante le perquisizioni gli venivano piantati i pennarelli nel vaso dei fiori, così che non potesse più disegnare”. Un altro si confidò con un prete: “Noi qui perdiamo la dignità”. Ma - secondo la Procura - sarebbe successo ben di peggio: “Un ragazzo raccontò una serie di cose, piangendo. Che era stato portato in una saletta e picchiato dagli agenti - spiega Gallo - con pugni nella schiena e schiaffi”. E ancora: “Agenti leggevano ad alta voce alcuni passaggi del suo procedimento penale. E al ricevimento della posta, lui doveva ripetere: “Io sono un uomo di m.”. Salta fuori un dialogo tra alcuni agenti, ascoltato dal prete: ““Il detenuto che ha tentato la fuga è stato spaccato dagli agenti del reparto”, dicevano. Era nel padiglione B, dov’era stato spostato Gebbia”. Alla prossima udienza, ci sarà l’esame da parte delle difese, tra cui gli avvocati Luca Bruno, Enrico Calabrese, Antonio Genovese, Antonio Mencobello. In abbreviato, Minervini è stato condannato a una multa per omessa denuncia, ma assolto dal favoreggiamento; come pure è stato assolto l’ex capo della penitenziaria, Giovanni Battista Alberotanza. Condannato invece (a 9 mesi) un agente, che si era visto riqualificare il reato di tortura in abuso di autorità. Insomma, sarà un dibattimento complicato. Milano. Caso Cpr, la Procura chiude l’inchiesta sulla gestione gravemente deficitaria della struttura di Andrea Siravo La Stampa, 10 maggio 2024 Dalle indagini della Guardia di Finanza sono emerse irregolarità delle società Engels e Martinina nelle gare d’appalto per gestioni altri centri in Italia. Non sarebbe stata ingannata solo la Prefettura di Milano. Le società salentina Engel Italia e Martinina avrebbero presentato documentazione contraffatta anche alle prefetture di Salerno, Avelino, Lecco, Brindisi e Taranto, alterando così le gare d’appalto per la gestione dei centri migranti. È quanto emerge dalle indagini del nucleo di polizia economico-finanziaria della GdF di Milano e dei pm Paolo Storari e Giovanna Cavalleri che lo scorso dicembre avevano portato a commissariare la Martinina, che dalla Engel aveva acquistato il ramo d’azienda che gestiva il Cpr di Milano. La struttura di via Corelli, alla periferia Est della città, in cui i migranti in detenzione amministrativa sarebbero stati trattenuti in condizioni “disumane” e “infernali”, tra “cibo pieno di vermi”, assenza di mediatori culturali e linguistici, l’uso costante di “psicofarmaci”, letti e bagni fatiscenti, solo per citare alcuni fatti riscontrati dalle testimonianze e dall’ispezione del 13 dicembre 2023. Il prossimo passaggio prevede la richiesta di rinvio a giudizio per i due amministratori di fatto e di diritto della srl, Alessandro Forlenza e la madre Consiglia Caruso, e tra l’altro la Martinina è indagata per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti. Dall’avviso di conclusione indagini, inoltre, emergono una serie di altre imputazioni a carico di Forlenza per turbativa perché, scrivono i pm, “quale amministratore di fatto di Engel Italia srl e Martinina srl” avrebbe presentato “documentazione contraffatta” partecipando ad altre “gare d’appalto” sulla gestione, in particolare, di centri di accoglienza per stranieri richiedenti asilo, tra Milano, Salerno, Brindisi e Taranto. Il Cpr di Milano, intanto, dopo la convalida del sequestro il 21 dicembre scorso, è gestito ora da un amministratore giudiziario, il commercialista Giovanni Falconieri. “Il mio assistito, Alessandro Forlenza, - spiega l’avvocato Antonio Ingroia - ribadisce la sua estraneità ai fatti contestati, così come contestati, e fornirà i dovuti chiarimenti documentati, riservandosi di chiedere di essere sentito dagli inquirenti e depositare apposita memoria corredata delle prove della sua difesa”. Drammatici i video che erano finiti agli atti dell’inchiesta: ce n’era uno, ad esempio, che mostrava “una persona a terra nel piazzale del CPR” di via Corelli “appoggiata su una sorta di materasso di spugna”, che emetteva “gemiti di estrema sofferenza”, ma “invano in quanto ignorato da tutti”. Nel frattempo, secondo l’accusa, la società che gestiva il centro, non offrendo in pratica i “servizi” indicati sulla carta per vincere la gara (con documentazione falsa), avrebbe “tratto un illecito vantaggio economico d’importo considerevole” su quel contratto d’appalto per la gestione del valore di oltre 4 milioni di euro. Un migrante, ad esempio, come si legge nell’avviso di chiusura indagini, “pur avendo il piede fratturato, non ha potuto effettuare la visita per il rifiuto del gestore di pagare”. Ad un altro, “annientato dal mal di denti”, il direttore sanitario del centro rispose: “ma ce l’abbiamo i soldi per ricostruire i denti a questo ragazzo?”. Nel Cpr “senza medicinali”, si legge ancora, c’erano anche persone malate di “tumore al cervello” o altre che avevano subito “l’asportazione della milza”. Non c’erano mediatori linguistici e ha riferito un teste “ci si capiva sulla base del feeling”. Oltre al cibo, si legge ancora nelle imputazioni, “avariato e scaduto”, nessuna “informativa legale”, nessun “luogo di culto”, camerate “sporche” e bagni “in condizioni vergognose”. Mentre ai dipendenti del CPR, intanto, non veniva versato il Tfr e pure “parte della retribuzione” in certi casi. Le altre contestazioni di presunte turbative di gare in giro per l’Italia coprono anni che vanno dal 2019 al 2022. Milano. Dal Gruppo Trasgressione a InGalera, come creare ponti con le carceri di Claudia Radente Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2024 Maltrattamenti in danno di minori, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di tortura, anche mediante omissione; concorso nel reato di lesioni in danno di minori, anche mediante omissione, aggravate dai motivi abietti e futili, dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di falso ideologico e infine una tentata violenza sessuale a opera di un agente nei confronti di un detenuto. Questi alcuni dei reati contestati a 13 agenti della polizia penitenziaria dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria. La cronaca dei giornali degli ultimi giorni ci riporta un quadro non dignitoso delle carceri italiane, che farebbe rivoltare nella tomba Voltaire, cui si attribuisce la famosa citazione: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. Il carcere quindi come lo specchio della salute morale di un Paese. Quanto agli atti, mette in evidenza che il ponte tra società e carcere è tuttavia lungi dall’essere pronto. Difficile che la società dei cittadini guardi ai detenuti con empatia, se gli stessi addetti ai lavori si macchiano di violenze nei loro confronti. La necessità di un sistema che ripari lo strappo sociale - Ciò nonostante tanti lavorano proprio per costruire un ponte, perché le carceri non siano isole irraggiungibili. La giustizia riparativa ha proprio questo scopo ambizioso. Certo un percorso non semplice e lastricato di fatiche. Probabilmente la giustizia retributiva è meno esigente dal punto di vista del coinvolgimento emotivo. La rieducazione che sta alla base della giustizia riparativa prevede invece un lavoro su di sé del reo. È necessario guardarsi dentro, guardarsi indietro e prendere in considerazione, forse per la prima volta, chi, suo malgrado, è coinvolto nello strappo sociale del crimine: tutte le vittime coinvolte. Dirette e indirette. I ponti del Gruppo Trasgressione grazie a Dostoevskij - Il Gruppo Trasgressione continua a lavorare in questo senso. Durante gli incontri in carcere con i detenuti, partecipano anche familiari, vittime della criminalità organizzata, magistrati, psicologi e studenti universitari. A febbraio il pretesto di dialogo al carcere di Bollate è stato il romanzo di Dostoevskij’I fratelli Karamazov’, lo scorso anno invece era ‘Delitto e castigo’. “In verità, in verità vi dico: se il grano di frumento cadendo in terra non morrà rimarrà esso solo; ma se morrà, apporterà gran frutto.” (Vangelo secondo Giovanni XII, 24). Questa citazione dal Vangelo apre l’ultimo capolavoro di Dostoevskij ‘I fratelli Karamazov’ e anticipa il percorso spirituale che i fratelli dovranno vivere a seguito del parricidio, commesso dal più giovane e illegittimo. Un’evoluzione dell’anima, morirà la vecchia anima per lasciar spazio a un nuovo io più consapevole. Una sintesi perfetta per definire la giustizia riparativa, dove si dà modo a chi è stato ‘ingiusto’ di essere nel ‘giusto’. Prestare ascolto all’umanità sorprendente - Sabato 4 maggio il Gruppo Trasgressione si è raccontato a Rho nell’hinterland milanese, in un incontro non a caso definito “l’umanità sorprendente”. Sorprendente è stata infatti la testimonianza di alcuni detenuti. Disposti, dopo un percorso riabilitativo a calarsi in una nuova funzione nel tessuto sociale. “Prima cercavo banche da rapinare, ora quando vado in giro, cerco statue da spazzolare. Perché quando restauro una statua, sto spazzolando la mia anima” racconta un ex detenuto, ringraziando chi gli ha dato la possibilità di sistemare la fontana di Villa Burba a Rho. Il percorso di ricostruzione di se stessi non è semplice, è necessario mettersi in discussione e sfatare ciò in cui si è ciecamente creduto fino a quel momento, come conferma Angelo Aparo, psicoterapeuta e fondatore del Gruppo Trasgressione: “Quando non c’è una guida credibile, l’essere umano, a partire dall’adolescenza, si trova in difficoltà. Prova rancore, prima verso la guida e poi nei confronti delle persone che ne derivano. Prova la sensazione di avere un credito insanabile, sviluppa la sensazione che qualcuno lo ha abbandonato. Spesso vive con la convinzione, che il credito non sarà mai saldato”. Questo muro va abbattuto, riunione dopo riunione, finché il detenuto non si rende conto di essere in debito con la società e cerca di trovare una funzione che lo accolga nel tessuto sociale. Il reato come lesione nella società di tutti - L’umanità è parimenti sorprendente, perché seduti nell’auditorium Maggiolini di Rho si ha la sensazione di non trovare dei mostri, perché come dice Giacomo, studente di giurisprudenza: “Chi commette un crimine non è un mostro, ma un uomo che commette mostruosità”. Solo con questo sguardo non giudicante si possono vedere le persone dietro al crimine e la loro voglia di rivalsa. “Il carcere - aggiunge il pubblico ministero Francesco Cajani- è un male necessario. La giustizia riparativa, tuttavia, ambisce a vedere il reato come una lesione che riguarda la società, di cui tutti facciamo parte. Un conto è attraversare un luogo, altrimenti è farsi attraversare da quel luogo. Prendiamoci per mano e diamo un senso al sangue versato”. Il primo passo è perciò quello di aiutare la persona a ricostruirsi, a comprendere il perché del proprio passato, darsi delle risposte, mediare con le vittime, capire i punti di vista altrui e poi riscoprirsi in nuovi ruoli e nuove funzioni nella società. Imparare un lavoro è una strada. InGalera ovvero un ponte vero con la società - Fiore all’occhiello tra le carceri italiane è sicuramente il penitenziario di Bollate. Nel 2015 ‘InGalera’ ha servito il suo primo piatto, il primo esperimento al mondo di ristorante gestito da detenuti. D’altronde il cibo è conviviale, quando si mangia, si sta insieme e si condivide. “La lasagna mette d’accordo tutti” come dice Davide, lo chef del ristorante, nel documentario girato da Michele Rho. Il documentario uscito il 12 gennaio di quest’anno, totalmente in bianco e nero, racconta la storia della nascita di questo esperimento. Senza troppi fronzoli. I dialoghi in cucina vengono ripresi in modo naturale: discussioni, risate, fatiche. Al cinema Gloria di Milano lunedì 6 maggio era presente alla ventiduesima proiezione anche il giovane regista: “Il cibo è una metafora. Significa preparare qualcosa per gli altri. È un modo per guardare fuori”. InGalera è uno spettacolare ponte con la società. Gli ospiti entrano nel carcere e i detenuti si affacciano fuori dalle sbarre. Nel ristorante può lavorare solo chi gode delle misure alternative (articolo 21), escono dal carcere per lavorare e tornano a dormire. Il percorso offerto a chi passa la selezione per entrare in ‘InGalera’ è una patente per imparare un lavoro che apra qualche porta una volta liberi. “La recidiva in Italia è, in media, del 70 per cento, ma il carcere di Bollate ha un tasso del 17 per cento. È quel 70 per cento a essere una vergogna della società” dice Silvia Polleri, imprenditrice alla base del progetto InGalera nel film. La maggior parte dei detenuti infatti trova un lavoro, una volta scontata la pena. Anche non nella ristorazione. Lavorare consente non solo di potersi mantenere, ma di poter acquisire quella famosa funzione sociale che fa sentire importanti, che cancella quel marchio del criminale che ti ha segnato finora. Esemplare in questo senso la storia di Said, cameriere in galera, che una volta libero, si è inventato una società di pulizie. Il Gruppo Trasgressione e InGalera sono solo alcune delle storie che aiutano a coltivare la speranza, le opportunità, i ponti. Alessandria. Cinquant’anni dalla strage del carcere: i dubbi irrisolti e la lezione dimenticata di Luigi Mastrodonato Il Domani, 10 maggio 2024 Il 9 maggio 1974 tre detenuti armati del carcere Don Soria prendono in ostaggio sei insegnanti, un medico, sei agenti e sei detenuti. La trattativa viene interrotta e le autorità decidono l’irruzione e la prova di forza. Moriranno in sette tra sequestratori, ostaggi e agenti. Nel febbraio 1974, durante una rivolta al carcere fiorentino delle Murate, gli agenti sparano sui detenuti, uccidendo il ventenne Giancarlo Del Padrone. Con il movimento del Sessantotto lo stato fatiscente delle carceri italiane era diventato argomento di dibattito e di lotta. La pressione politica per una riforma carceraria aumentava, ma ai proclami dello Stato non seguivano i fatti. Si preferiva usare ancora il bastone. Il 9 maggio successivo, durante una rivolta al carcere di Alessandria, va ancora peggio. Muoiono in sette tra detenuti, agenti, assistenti sociali e medici. Sono passati cinquant’anni da quell’episodio e lo Stato italiano non ha mai voluto fare realmente i conti con la strage e con le proprie responsabilità. Non si è mai interrogato sui propri errori, per non ricommetterli. E quando succede così la storia, spesso, si ripete. La strage - La mattina del 9 maggio 1974 tre detenuti armati del carcere Don Soria di Alessandria prendono in ostaggio sei insegnanti, un medico, sei agenti e sei detenuti. Si rifugiano nell’infermeria e avviano un negoziato con le autorità. “L’azione è stata provocata dal comportamento irresponsabile del governo che si ostina da anni a non concedere la riforma del sistema penitenziario e del codice penale”, scrivono in una lettera. “Stanchi di essere presi in giro, decidiamo di prenderci ciò che ci spetta”. I tre detenuti vogliono la libertà e chiedono un pulmino con cui poter fuggire. La situazione è tesa, ma tutte le parti sono ben disposte al dialogo. Addirittura un’assistente sociale si offre in ostaggio per provare a convincere i rivoltosi a desistere, con il beneplacito del procuratore locale. Un modus operandi che esclude sin dall’inizio il ricorso alla soluzione di forza. Poi però fuori dal carcere arrivano le autorità di più alto grado: il generale dell’Arma dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa. E il procuratore generale di Torino, Carlo Reviglio della Veneria. La situazione precipita. Alle 19.30 i Carabinieri danno il via all’assalto armato. Nonostante il parere contrario delle autorità locali e di chi conosce bene il carcere di Alessandria e i rivoltosi, Dalla Chiesa e Reviglio Della Venaria scelgono la via della forza. L’irruzione dura una manciata di minuti e sul pavimento resta senza vita il corpo di un ostaggio, il medico Roberto Gandolfi. La responsabilità della sua morte verrà attribuita a spari dei rivoltosi, senza mai svolgere alcun esame balistico per certificarlo. Due giorni dopo le pareti dell’infermeria erano già state imbiancate. Secondo i testimoni il proiettile che uccide Gandolfi, che si trovava di fianco alla finestra, arriva da fuori. Durante l’irruzione muore anche un altro ostaggio, l’insegnante Pier Luigi Campi. Il primo assalto è un fallimento. Il sequestro prosegue e ricominciano le trattative, che vanno avanti fino al pomeriggio del giorno dopo, quando la situazione sembra lì lì per sbloccarsi. “Ad un certo punto eravamo tutti pronti per uscire”, racconterà uno degli ostaggi. Ma la trattativa è una messinscena. Alle 17 viene dato il via, per la seconda volta, all’uso della forza. La scena è la stessa della sera precedente: lacrimogeni, irruzione, spari all’interno e dall’esterno. L’esito è ancora peggiore. Tre ostaggi morti: l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola e gli agenti di custodia Sebastiano Gaeta e Gennaro Cantiello. Muoiono anche due dei tre detenuti-sequestratori, Domenico Di Bona e Cesare Concu. Quindici i feriti. Lo Stato forte - “I tre detenuti si sentivano forti perché avevano in ostaggio dei cittadini. Mai avrebbero pensato a una risposta di questo tipo da parte dello Stato”, sottolinea Alessandro Venticinque, autore della docuserie di LaV Comunicazione “Memoria dimenticata”, che ripercorre la storia della strage del 1974. “Gli ostaggi si fidavano più dei rivoltosi che di chi dirigeva l’operazione dall’esterno. Si conoscevano bene, c’era un rapporto umano, lavoravano lì dentro. La situazione era relativamente tranquilla fino all’arrivo delle autorità da fuori, che hanno estromesso le autorità locali e sono passati all’uso della forza”. La strage nel carcere di Alessandria del 1974 avviene in un momento storico non casuale. La repressione delle contestazioni studentesche del Sessantotto, la cesura tra un’Italia conservatrice e un’Italia che voleva il cambiamento in termini diritti e libertà civili, gli anni di Piombo. Tre settimane prima della strage c’era stato il primo rapimento di un magistrato da parte delle Brigate Rosse, quello di Mario Sossi. Due giorni dopo la strage si sarebbe tenuto il referendum per il divorzio. Nel mezzo, si discute di riforma carceraria per superare il codice introdotto nel 1931, durante il fascismo. Lo Stato italiano si sente sotto attacco. E non è disposto ad arretrare di un millimetro, anche a costo di sacrificare vite civili. Un discorso di immagine. “Non si poteva ammettere che lo Stato venisse ancora una volta calpestato. Volevo dare un esempio”, sottolinea a margine della strage il procuratore Reviglio della Veneria, che definisce l’operazione un successo. Dalla Chiesa viene addirittura nominato plenipotenziario del nuovo sistema carcerario. Come scrive lo storico Cesare Manganelli, “la strage rappresenta un punto di svolta nel mondo delle carceri italiane e un elemento imprescindibile nella costituzione ideale e morale dell’organizzazione dei Nuclei armati proletari (Nap)”. A partire da quella strage le istanze carcerarie riformiste di Lotta Continua vengono sostituite dalla radicalizzazione e dalla lotta armata dei Nap. Preferendo lo scontro alla mediazione, lo Stato inaugura una nuova stagione di tensioni. Le carceri esplodono e la riforma penitenziaria del 1975 arriva troppo tardi. La storia si ripete - Sono passati cinquant’anni dalla strage nel carcere di Alessandria e oggi il sistema penitenziario italiano sembra non essere mai andato avanti. Chi ha provato ad aprire uno squarcio su quanto successo a maggio 1974 è stato silenziato. Don Maurilio Guasco, l’ultimo mediatore prima dell’irruzione finale, si è visto stralciare le sue testimonianze durante il processo per la strage perché “inficiate da animosità verso le forze dell’ordine”. Mezzo secolo non è bastato per chiarire i dubbi e le ombre di quella terribile storia. Tutti i protagonisti di quelle ore, tranne le più alte cariche dello Stato, sin dall’inizio sono concordi che la strage poteva essere evitata. Che le irruzioni non servissero, se non per dare una prova di forza. Un messaggio al paese. Sono passati cinquant’anni dalla strage di Alessandria e lo Stato italiano non ha mai voluto interrogarsi sugli errori fatti. Non è un caso che la storia si ripeta. La strage di marzo 2020, i tredici morti in circostanze mai del tutto chiarite durante le rivolte negli istituti penitenziari di Modena, Rieti e Bologna, sono legati da un filo sottile ai morti di Alessandria. Foggia. Quando l’agricoltura dà un’altra opportunità ai detenuti di Youssef Hassan Holgado e Tommaso Panza Il Domani, 10 maggio 2024 Dopo la confisca un magazzino utilizzato per lo spaccio è stato affidato nel 2010 alla cooperativa “Pietra di scarto” che attraverso un’agricoltura sostenibile, praticata anche da ragazzi inseriti in percorsi di lavoro durante la loro detenzione in carcere, genera prodotti alimentari di alta qualità. In mezzo alla campagna sulla strada statale tra Foggia e Cerignola fino a qualche anno fa lo sguardo dei passanti veniva attirato da un piccolo ecomostro di cemento grigio. Veniva usato da alcune famiglie legate alla criminalità organizzata locale come magazzino per lo smercio delle sostanze stupefacenti. Oggi quello sguardo è attirato da un grande murales e una scritta in cima al tetto “Qui la mafia ha perso”. E ha perso veramente. Dopo la confisca quel bene è stato affidato nel 2010 alla cooperativa Pietra di scarto che attraverso un’agricoltura sostenibile, praticata anche da ragazzi inseriti in percorsi di lavoro durante la loro detenzione in carcere, genera prodotti alimentari di alta qualità. Ad accogliere chi entra nell’azienda c’è il presidente Pietro Fragasso. “Abitiamo in un territorio fortemente caratterizzato da fenomeni criminali mafiosi. Ma qui è anche dove nasce il diritto del lavoro, è il territorio che ha dato i natali a Giuseppe Di Vittorio e che ha già dato la possibilità di capire quanto i diritti delle persone passino per le lotte e la possibilità di emanciparsi dall’oppressione. Con le mafie accade la stessa cosa”, dice con lo sguardo nascosto dietro un paio di occhiali da vista e con una kefiah bianca e nera al collo. Ogni anno dall’azienda escono custoditi in barattoli di diverse dimensioni prodotti locali eccellenti come le olive di Cerignola, l’olio di coratina, diverse verdure sottolio, marmellate, passate di pomodoro rosso e di datterini gialli. Ora Fragasso sta cercando di assumere un tecnologo agroalimentare attraverso l’università di Foggia perché ha anche intenzione di aggiungere dei pesti all’inventario. Il motore della cooperativa è un piccolo laboratorio artigianale, qui non ci sono macchinari automatici. È una scelta consapevole, dato che l’obiettivo è creare posti di lavoro e dare un’opportunità economica in un territorio, quello della Capitanata, dove secondo l’Istat il tasso di disoccupazione è al di sopra della media nazionale. In questo contesto economico è ancora più difficile trovare un lavoro per chi ha una condanna penale alle spalle. “Vogliamo dimostrare che attraverso la nostra azione, attraverso il lavoro, si possono creare nuove opportunità anche per chi ha condotto una vita diversa”, dice Fragasso mentre sistema i macchinari del laboratorio agricolo. Lavorare la terra - Michele ha 36 anni. È originario di Cerignola e si trova detenuto nel carcere di Foggia da tre anni, gli mancano altre due anni di pena da scontare. Ogni mattina ha il permesso di uscire per andare a lavorare nella cooperativa. “Vengo qui e faccio quello che serve, dalla salsa di pomodoro alla coltivazione di peperoni, zucchine e ortaggi vari. Qua mi sto costruendo un futuro, guadagno anche uno stipendio, un domani quando uscirò se Dio vuole rimango qui a lavorare”, racconta seduto a terra con la schiena poggiata a uno degli ulivi del campo. Mentre parla le sue dita giocano con un piccolo ciuffo d’erba: “Ho avuto comportamenti ottimi in galera, sto pagando i miei errori - racconta - A casa ho un bambino di otto anni e grazie alla cooperativa sto ottenendo risultati. È la cosa più bella del mondo”. Michele ricorda bene i primi giorni che ha messo piede nell’azienda agricola: “Erano bellissimi. Prendere aria dopo tre anni di carcere è una sensazione indescrivibile”. Con gli occhi socchiusi per il sole e i capelli mossi dal vento parla con orgoglio del figlio. “Un giorno lo porterò qui al campo. Voglio fargli vedere le cose che faccio, cosa cresce da questa terra e come cresciamo noi. Gli farei vedere come si raccolgono le olive, non le cose brutte. Da grandi si devono ricordare come crescono i fiori”. Vincenzo è di una decina d’anni più grande. Ha le mani ruvide, una voce profonda e indossa degli occhiali da sole che coprono il suo timido sguardo. “Qui mi occupo della potatura, piantiamo il pomodoro e lo trasformiamo in salsa. Produrre un qualcosa dalla terra non è semplice, ma vedere pianta crescere è una cosa bella. Il prodotto finale ti dà molta soddisfazione, capisci che riesci a fare qualcosa”, dice Vincenzo mentre con le mani prosegue la legatura dei tralci di vite al filo dell’impianto di palificazione. Una pratica che serve a rendere uniforme lo sviluppo dei germogli e rendere equilibrata la produzione dell’uva con cui poi produco il vino a fine stagione. Tra cinque mesi Vincenzo uscirà dal carcere. “Quando finirò di scontare la pena mi vedo proiettato nel mondo del lavoro ma so anche che non è facile, ci sono difficoltà non solo per me che nella vita ho commesso degli errori. Io l’impegno ce lo metto, poi si vedrà”. I prodotti creati dalla fatica di Vincenzo, Michele, Giuseppe e tanti altri che lavorano nella cooperativa sono in vendita anche online sul sito di Altromercato. Lo scorso Natale Fragasso aveva ideato una confezione di prodotti che aveva chiamato “Il pacco dei banditi”. “Equivale alla nostra stella natalizia. C’è meraviglia maggiore che vedere una vita rinascere attraverso il lavoro in un bene confiscato alla mafia e diventa testimonianza di professionalità, capacità, talento e opportunità?”. La memoria - Tutti i prodotti escono dall’azienda con un’etichetta e il nome di Francesco Marcone. Non è una scelta causale. Marcone era il direttore dell’Ufficio del registro di Foggia ed è stato assassinato a colpi di revolver nell’androne del palazzo di casa sua il 31 marzo del 1995. È stato ucciso perché ha segnalato alla procura una serie di anomalie riguardanti alcuni imprenditori e affaristi locali. Denunce che ha pagato con la sua vita. Ancora oggi, a quasi 30 anni di distanza non c’è una verità giudiziaria sul caso, il processo non ha portato a nessuna condanna né per il killer né per il mandante. Dedicare l’etichetta dei prodotti della cooperativa a Marcone è un gesto simbolico per la comunità locale e serve anche a tramandare una cultura della legalità anche alle scolaresche che visitano la cooperativa. “Noi non siamo soltanto una realtà che gestisce un bene confiscato. Noi siamo una realtà che ha deciso di fare della memoria una leva decisiva del suo impegno, che si traduce poi nel lavoro di tante persone e nella diffusione di un messaggio che non è soltanto teoria”, dice Fragasso. Venezia. La sartoria nel carcere femminile della Giudecca cresce e si apre all’e-commerce legacoop.veneto.it, 10 maggio 2024 Nei giorni scorsi l’incontro col Papa. Promuovere la dignità delle detenute, fornendo loro strumenti e spazi di crescita umana e professionale. È l’obiettivo del laboratorio di sartoria gestito dalla cooperativa sociale “Il Cerchio”, associata a Legacoop Veneto, all’interno della Casa di Reclusione Femminile della Giudecca (Venezia). A breve, ovvero nel mese di giugno, la coop inaugurerà nel proprio sito web la sezione e-commerce per la vendita online di abiti e accessori, così da ampliare il pubblico di clienti potenziali e consolidare ulteriormente l’attività. La sartoria nasce trent’anni fa e offre formazione e lavoro a donne recluse. Attualmente il laboratorio artigiano impiega, oltre a due commesse, anche otto donne detenute ed ex detenute. Il gruppo di lavoro ha ricevuto nei giorni scorsi la visita del Papa che, come prima tappa del suo itinerario veneziano, ha scelto proprio il carcere. Il Pontefice, nell’occasione, ha avuto in dono uno zucchetto realizzato a mano dalle lavoratrici della sartoria, con un tessuto fatto arrivare appositamente dalla casa fornitrice del Vaticano. Tra maggio e giugno la sartoria sarà inoltre coinvolta in vari eventi nel territorio, tra i quali alcune sfilate in programma in diverse location. La prima avrà luogo giovedì 30 maggio, alle ore 17, a palazzo Santo Stefano, sede storica della Provincia di Padova. L’iniziativa è indetta dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto: in questa occasione le detenute sfileranno accanto alle studentesse dell’Istituto Ruzza di Padova. Fondata nel 1997 a Venezia, la cooperativa sociale “Il Cerchio” ha l’obiettivo primario di promuovere l’inclusione sociale e lavorativa di persone svantaggiate. Profondamente radicata nella comunità veneziana, collabora attivamente con enti pubblici e aziende locali, implementando progetti e iniziative che contribuiscono allo sviluppo del territorio e della comunità. “Samad”, la vita dopo il carcere di un giovane musulmano askanews.com, 10 maggio 2024 Quanto è difficile per un giovane musulmano cambiare vita dopo un’esperienza in carcere? Marco Santarelli nel suo “Samad”, nei cinema dal 13 maggio, racconta la storia di uno di loro, Samad, appunto, interpretato da Mehdi Meskar. Il ragazzo ha pagato il suo conto con la giustizia e ora ha un lavoro, una nuova vita. Quando rientra in carcere insieme a Padre Agostino interpretato da Roberto Citran, per essere d’ispirazione per i suoi compagni, come esempio di reinserimento, succede qualcosa di imprevisto. Il regista prima di questo film aveva girato due documentari ambientati nelle carceri, osservando le difficoltà di integrazione dei detenuti stranieri. “Le carceri hanno un problema di sovraffollamento, mancanza di educatori, ed è un sistema di potere che non fa altro che alimentare la rabbia”. Il carcere per gli amici di Samad, per i suoi ex compagni rimasti in carcere, diventa così il luogo della radicalizzazione. “La religione in carcere diventa un modo per riscattarsi, diventa per molti un modo per continuare a sopravvivere. Il problema è che spesso la religione viene strumentalizzata, diventa un modo per aumentare la rabbia e il vittimismo”. Il regista ha conosciuto il vero Samad, che nel film interpreta un ruolo, e si è ispirato in parte alla sua storia per raccontare le difficoltà che affronta oggi un ragazzo che esce dal carcere. “È un film sulla libertà, che si interroga sulla libertà come scelta”. “Difendo Cospito e Ilaria Salis, ma un pezzo della politica per come la conoscevo si è esaurita” di Luca Castelli Corriere della Sera, 10 maggio 2024 Salvini, Salis, la guerra e i “disegnetti”: il fumettista Zerocalcare al Salone del Libro di Torino con “Quando muori resta a me”, Bao Publishing. Galeotto fu Aftersun. È dopo aver visto al cinema il film di Charlotte Wells su un’estate trascorsa da una ragazza con suo padre che l’ispirazione ha bussato alla porta di Zerocalcare. “Mi ha smosso cose di cui non avevo mai parlato, su di me, mio padre e più in generale quelli che oggi sono i rapporti tra i maschi”, dice il quarantenne fumettista di Rebibbia, che al Salone ne presenterà il risultato (Quando muori resta a me, Bao Publishing) con un incontro domani alle 15.30 all’Auditorium e tre sessioni di “disegnini”, oggi alle 14, domani e domenica mattina dalle 10.30. Come funzionano queste sessioni? “Arrivo alle 10.30, mi siedo, ascolto le richieste delle persone, disegno e spesso mi rialzo dopo il tramonto”. Le chiedono qualcosa di strano? “Robe assurde tipo “mia nonna con le sembianze di Godzilla” o “i miei due figli neonati, però disegnati da adolescenti mentre litigano ma si vede che si vogliono bene”. A Torino di solito si sente anche l’influenza calcistica: disegno tori di tutti i tipi”. Niente zebre? “Poche, me ne chiedono molte di più in altre città”. In “Quando muori resta a me” scava parecchio nel passato. Come mai? “Perché le persone sono la somma delle loro esperienze, a volte anche di quelle delle generazioni che le hanno precedute. È difficile comprendere e descrivere qualcuno senza risalire indietro”. Nel libro si sorprende a scoprire i giovanili trascorsi da contestatore di suo padre, che ha sempre ritenuto la persona più mite del mondo. Seguirà lo stesso percorso? “Non credo. Continuo a spendermi per i temi più impopolari di questo Paese, come la difesa di Alfredo Cospito e Ilaria Salis. Anche se forse oggi lo faccio in forma più dialogante”. Al Salone potrebbe incrociare Matteo Salvini (atteso oggi allo stand Piemme per un firmacopie), con cui in passato non sono mancati gli screzi. L’approccio sarebbe dialogante? “Un conto sono le persone, un altro i personaggi che sfruttano il disagio della gente. Con le prime dialogo ogni giorno, anche con quelle che votano i secondi. Cerco di rapportarmi con loro e rispettarne l’opinione, ma non faccio un millimetro indietro. Anche se mi rendo conto che molte cose sono cambiate, nella mia vita e nella società. Un pezzo della politica per come la conoscevo si è esaurita, anche i centri sociali o non esistono più o hanno una funzione diversa”. A Torino Askatasuna, con cui ha un legame stretto, è stato riconosciuto come “bene comune”. “Sono contento sia stata riconosciuta la funzione importante che ha sempre svolto per la città”. Cosa ne pensa della candidatura di Ilaria Salis alle Europee? “Che dentro quell’aula ho percepito bene come non ci sia la possibilità di un processo democratico: tutto è già scritto. Non sapevo nulla della sua candidatura, ma non credo ci fosse un modo diverso di procedere. Spero che vada bene. Poi non bisogna dimenticare che il processo non è solo contro di lei, bisogna aiutare anche le altre 18 persone imputate”. Nel libro fa capolino la guerra, con crude immagini di trincea del primo conflitto mondiale. Un riferimento all’attualità? “In origine, no. La Grande Guerra fa parte del dna dei paesini del Veneto in cui è ambientata la storia: parlando del loro passato, non potevo non farne riferimento. Scrivendolo, però, mi sono reso conto che è la prima volta in vita mia in cui disegno scene di guerra e accade proprio mentre sta tornando ad affacciarsi nel quotidiano”. Conoscere meglio quel passato ci aiuterebbe a evitare di ripeterlo? “Probabilmente sì. Il problema è che quel passato lo conosciamo in modo un po’ imbalsamato. Sono convinto che tante persone che oggi si esaltano per gli interventi militari, lo facciano perché non hanno chiaro cosa sia davvero una guerra”. Ha mai pensato di scrivere una storia sul futuro? “No, sono troppo crepuscolare e proiettato sul passato per farlo. Già a otto anni rimpiangevo i sette. Ho paura che mi verrebbe un po’ triste e non voglio fare libri troppo tristi”. Papa Francesco indice il Giubileo della Speranza: amnistia ai detenuti, sia abolita la pena di morte di Carlo Marroni Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2024 Pace, migranti, ambiente, povertà, emarginazione, detenuti (ci sarà una celebrazione dentro un carcere), spesa militare, natalità, cura degli anziani. Ma anche un profondo richiamo alle ragioni della fede e del cammino cristiano. Nella Bolla di indizione dell’anno Santo per il 2025 c’è tutta la profondità della pastorale di Francesco, una vera “Agenda-Giubileo” che farà da guida alle celebrazioni che dureranno tutto l’anno e vedranno a Roma l’afflusso stimato di 35 milioni di pellegrini, più di quello straordinario della Misericordia del 2015, che furono un po’ di venti milioni. Il Papa come previsto ha stabilito che la Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre, la domenica successiva, 29 dicembre a San Giovanni in Laterano, a seguire il 1° gennaio a Santa Maria Maggiore e il 5 gennaio a San Paolo fuori le Mura. Per i carcerati forme di amnistia o indulto. E lo sprone alle diplomazie per la pace - Il Giubileo inizierà tra pochi mesi per quell’epoca tutti sperano che si siano placati i venti di guerra. E infatti scrive il Papa che “il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza” e ricorda come “l’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura”. Nel suo recente viaggio a Venezia ha visito il carcere femminile della Giudecca, forse il momento di maggiore emozione, e ora torna a scrive dei detenuti che “privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. E chiede che in ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i Pastori, “si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento. Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”. I poveri sono vittime, “scandalosa la spesa per gli armamenti” - Sui migranti Bergoglio sollecita segnali di speranza: “Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale”. E qui parla dei di poveri del mondo, che “spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti i poveri siano “la maggior parte, miliardi di persone. Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli”. Un altro invito del Papa è destinato alle “Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: “C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi”. La comunità cristiana costruisca un’alleanza sociale per la speranza - Sul tema della natalità (venerdì 10 maggio parlerà agli Stati Generali a Roma) Francesco ricorda che “è urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza”. Tutte queste istanze (ma ce ne sono anche altre, sulle quali si sofferma) Bergoglio lancia una prospettiva di coesione: “La comunità cristiana non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo”. Nel 2033 saranno 2.000 anni dalla Crocifissione. L’anno prossimo 1.700 dal primo concilio ecumenico - Inoltre, scrive il Papa, questa Anno Santo “orienterà il cammino verso un’altra ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù”. Poi Un capitolo della bolla parla del Concilio di Nicea, convocato da Costantino che si tenne nel 325, primo concilio ecumenico. Ebbene nel 2025 - 1700 anni dopo - la Pasqua cadrà il 20 aprile, coinciderà sia per i cattolici che per gli ortodossi che i protestanti, e nell’agenda del Papa questo evento eccezionale è un evento da cogliere: “Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua”. La popolazione italiana è pacifista, ma viene aizzata continuamente dalla propaganda di Luciano Casolari* Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2024 Come è difficile essere pacifisti! Il ricatto psicologico è in agguato sotto forma di questa domanda: “Ma se qualcuno ti attacca il tuo pacifismo significa che cederai sempre al prepotente e ti arrenderai?”. Chiaramente questo ragionamento è frutto di una esasperazione del concetto pacifista portando il tutto alle estreme conseguenze per cui pare che chi è pacifista debba per forza essere un imbelle imbecille che accetta ogni angheria. Occorre ribellarsi a questa domanda che è un tranello psicologico. Resistere alle aggressioni e contrastare chi ci minaccia non significa rispondere occhio per occhio e dente per dente. La storia non si fa con i se e i ma. Proviamo però a pensare come sarebbero andati certi eventi recenti che ora ci ambasciano se fosse prevalsa l’idea pacifista. Se a Gaza Hamas, invece di progettare il terribile attentato, avesse adottato la strategia ghandiana della disubbidienza civile e delle manifestazioni per poter ottenere uno Stato palestinese avrebbe avuto maggiori risultati di quelli che si profilano ora? Se gli israeliani, dopo l’attentato, invece di invadere la striscia di Gaza, avessero fatto manifestazioni per la libertà degli ostaggi, applicato sanzioni economiche e coinvolto le organizzazioni internazionali e gli Stati della regione per isolare Hamas, avrebbero ottenuto maggiori o minori liberazioni? Se gli ucraini nel 2014 invece di combattere gli abitanti russofoni del Donbass avessero conferito loro maggior autonomia e aiuti sul modello dell’Alto Adige ora sarebbero in una situazione migliore? Se i russi avessero protestato per l’espansione della Nato ai loro confini sollecitando gli europei ad autonomizzarsi dalle decisioni Usa ora avrebbero vicini meno belligeranti? Guerrafondai si devono così chiamare coloro che non provano mai a capire i loro avversari e dicono solo che bisogna armarsi, distruggono ogni possibilità di dialogo e compromesso poi quando la situazione è marcia mettono i pacifisti di fronte alla terribile alternativa di cedere al nemico o andare ancora di più verso la guerra. Ora che a Gaza e in Ucraina la situazione è deteriorata fino al limite estremo si richiede a gran voce lo schierarsi o di qua o di là. Non schierarsi, a testa bassa senza ragionare, significa per il guerrafondaio cedere al nemico. Anche ora però esistono delle possibilità, pur in una situazione molto grave e quasi impossibile, di proporre qualche passo che vada verso una forma di pacifismo. Ad esempio deprecando l’intervento israeliano, ponendo sanzioni economiche se continueranno a uccidere civili, ma pretendendo la liberazione degli ostaggi e isolando Hamas. Nel conflitto con la Russia la presidente Von der Leyen e il ministro degli esteri Europeo Borrell invece di auspicare più armi potrebbero invitare Putin a Bruxelles o andare loro a Mosca per provare a immaginare un futuro con meno armi e guerra. È chiaro che a questo punto occorre continuare a foraggiare i governanti Ucraini ma, sapendo che anche loro sono una democratura (misto fra dittatura e democrazia), imporre, se vogliono il nostro aiuto, un atteggiamento più dialogante e meno bellicista. La parodia del pacifista utile idiota al servizio del nemico è propagandata per provocare una repulsa psicologica e indurre il popolo ad abbandonare l’idea che sia possibile arrivare alla pace. La maggioranza della popolazione sarebbe pacifista però viene aizzata continuamente con la propaganda. Si afferma che con l’aiuto di noi europei l’Ucraina da sola potrà sconfiggere la Russia poi subito dopo si ribadisce che la Russia ha il progetto di invadere l’intera Europa. Queste due affermazioni sono in netto contrasto logico fra loro in quanto o la Russia è debole da essere sconfitta dagli Ucraini o è forte da progettare l’invasione Europea. Non può essere che sia l’uno e l’altro contemporaneamente ma la propaganda le usa assieme. *Medico psicoanalista Migranti. Cosa c’è dentro al Cpr di Palazzo San Gervasio di Angelo Mastrandrea ilpost.it, 10 maggio 2024 Il Centro di permanenza per il rimpatrio dei migranti in Basilicata non è facilmente accessibile, e anche entrandoci non è possibile avere contatti con i migranti detenuti. Appena varcato il portoncino d’ingresso del Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, si viene accolti da un gruppetto di militari in divisa che fanno parte dell’operazione “Strade sicure”. A Palazzo San Gervasio i militari hanno il compito di proteggere il perimetro delle mura esterne e di controllare chi entra e chi esce. Chiedono un documento d’identità e l’autorizzazione della prefettura a entrare nella struttura, poi uno di loro va a chiamare il funzionario di polizia che dovrà accompagnare la visita. I CPR sono i luoghi in cui vengono detenute le persone in attesa di essere espulse: quelle che non hanno un permesso valido per rimanere regolarmente in Italia e la cui domanda di protezione internazionale è stata respinta. Applicare i decreti di espulsione però è spesso complicato, perché mancano accordi bilaterali con molti dei paesi verso cui dovrebbero tornare le persone detenute, e i tempi di permanenza spesso si allungano. In generale le informazioni su ciò che avviene in questi centri circolano soprattutto grazie alle inchieste giudiziarie, che hanno riguardato il CPR di Milano e proprio quello di Palazzo San Gervasio. Queste inchieste e alcune successive ispezioni di attivisti, avvocati, medici e politici hanno fatto emergere che nei CPR non vengono rispettati i più basilari diritti umani. Per i mezzi di informazione accedervi non è facile, la richiesta del Post è stata accolta dopo cinque mesi, passando il controllo della prefettura di Potenza, della questura e del ministero dell’Interno. In mezz’ora di attesa al checkpoint militare non è entrato né uscito quasi nessuno. In giro non si vedono persone e l’atmosfera tra i militari è rilassata. Solo a un certo punto, dal cancello della cosiddetta “area reclusi”, escono alcuni agenti con un giovane. Vanno verso la palazzina dove vengono convalidate o respinte le espulsioni. Li seguono due persone, presumibilmente un avvocato e l’interprete, necessari per lo svolgimento delle udienze, che si svolgono davanti al giudice di pace che arriva da Melfi (provincia di Potenza). Dopo un quarto d’ora escono e lo riportano oltre le sbarre. Passano ancora pochi minuti e arriva il funzionario di polizia che è il responsabile della sicurezza nel centro. Per entrare dentro, il cellulare e i bagagli devono restare fuori, in un armadietto chiuso a chiave. La struttura si trova in piena campagna, a quattro chilometri da Palazzo San Gervasio, un paese di 4.500 abitanti al confine tra Puglia e Basilicata. È stata costruita su un terreno che negli anni Novanta ospitava una fabbrica di mattoni confiscata a un imprenditore affiliato alla Sacra Corona Unita, la più importante organizzazione criminale pugliese. Nei primi anni Duemila, dopo la confisca, il comune ci fece un centro di accoglienza per i lavoratori migranti che arrivavano d’estate a centinaia per la raccolta dei pomodori. Furono montate 300 tende che i migranti portarono con sé anche a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dove in autunno si spostavano per la raccolta delle arance. Poi nel 2010 il centrodestra vinse le elezioni comunali e la nuova giunta decise di chiudere il centro di accoglienza. I migranti però non hanno mai smesso di andare a Palazzo San Gervasio per lavorare nei campi: cominciano ad arrivare a maggio e vanno via a ottobre. Nel periodo di maggiori arrivi, in piena estate, si contano tra le 1.500 e le 2.000 presenze, con i “caporali”, come vengono chiamati gli intermediari che contribuiscono allo sfruttamento della manodopera, che organizzano il trasporto nei campi. Molti dormono in un centro di accoglienza a pochi chilometri di distanza dal CPR, altri in baracche e masserie nei terreni in cui lavorano, mentre un centinaio ha trovato casa e vive a Palazzo San Gervasio tutto l’anno. Il primo aprile del 2011 il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi vi aprì uno dei tre Centri di identificazione ed espulsione (CIE), creati per affrontare quella che fu definita “emergenza Nordafrica”, cioè il massiccio arrivo di migranti con i barconi dopo e durante le cosiddette “primavere arabe” e la guerra in Libia. Su un terreno di un ettaro fu costruito un piazzale di cemento sul quale furono montati 18 tendoni blu con il marchio del ministero dell’Interno. Il centro fu recintato con una rete metallica alta cinque metri e con le maglie strette. “Somigliava a una enorme gabbia per uccelli, per questo da allora lo chiamiamo la voliera”, dice Gervasio Ungolo, coordinatore dell’Osservatorio migranti Basilicata. La tendopoli arrivò a ospitare fino a 600 persone, tutti maschi tunisini tra i 18 e i 35 anni. Le condizioni di queste persone erano inumane e degradanti, come documentarono alcune inchieste giornalistiche. Dopo un’ispezione dei parlamentari del PD Jean-Léonard Touadi, Rosa Calipari e Giuseppe Giulietti, e dopo la pubblicazione di un video registrato dagli stessi detenuti che mostrava una rivolta e un tentativo di fuga di massa con persone ferite e agenti in tenuta antisommossa, alla fine del 2011 il centro fu chiuso. Rimase abbandonato fino al 2017, quando una legge firmata dal ministro dell’Interno Marco Minniti e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, entrambi del PD, aumentò i Centri per il rimpatrio, che fino ad allora si chiamavano Centri per l’identificazione e l’espulsione (CIE). L’ex tendopoli per i migranti di Palazzo San Gervasio fu così ristrutturata e riaperta come CPR. Oggi il piazzale di cemento è circondato da alte mura e da una rete di recinzione. Le tende sono state sostituite da container e moduli in muratura prefabbricati. Non ci sono alberi, solo qualche ciuffo d’erba al cancello d’ingresso. Il colore dominante è il grigio delle mura e dei pavimenti. Ci sono sbarre e inferriate dappertutto come in un qualsiasi carcere, anche se i migranti “trattenuti”, come vengono definiti in gergo burocratico, non hanno commesso reati, ma sono in attesa di essere espulsi perché non hanno un permesso di soggiorno in Italia. Il CPR è diviso in due settori. Oltre il checkpoint militare c’è un piazzale su cui sono parcheggiate le auto degli operatori e i mezzi della polizia e dei carabinieri, tra cui ci sono anche un paio di pullman. Sulla sinistra c’è una palazzina di un piano con alcuni uffici della questura e le aule in cui si svolgono le udienze di convalida delle espulsioni. Più avanti alcuni prefabbricati ospitano l’ufficio immigrazione, dove i migranti vengono portati per essere identificati e registrati appena arrivano nel centro. C’è anche una stanza per gli avvocati, spesso nominati d’ufficio, e un deposito dove devono lasciare tutto ciò che hanno con sé. Nel mezzo, all’aperto, ci sono una macchinetta del caffè e un distributore automatico di bibite e snack per il personale che lavora nel centro, per le forze dell’ordine e per gli avvocati, ma non per i migranti. Proseguendo, si arriva a un campo di calcetto circondato da alte sbarre dove a volte di pomeriggio i migranti vanno a fare una partita: è l’unica attività consentita nel centro, poiché i migranti non possono uscire all’aperto, neppure nel piazzale davanti alle celle, e non ci sono altri spazi di socialità, neppure una mensa. Il pranzo viene portato da un’azienda esterna e ogni migrante riceve una diaria di 2 euro e mezzo al giorno che può spendere come vuole, spesso ordinando del cibo aggiuntivo. Un’inferriata alta cinque metri dipinta di giallo e un cancello separano quest’area da quella di reclusione. Catia Candido dirige il CPR dal luglio del 2023, quando Officine Sociali, una cooperativa di Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa, sostituì la Engel. “Inutile negarlo, qui dentro non è tutto rose e fiori e non è facile gestire un luogo come questo”, dice. A gennaio del 2024 la procura di Potenza ha iniziato le indagini su una trentina di persone, tra cui un ispettore di polizia, diversi medici e due amministratori della società Engel, che aveva gestito il CPR prima dell’arrivo di Candido. L’inchiesta riguarda presunti maltrattamenti sui migranti, che sarebbero avvenuti tra il 2018 e il 2022. Secondo gli investigatori, le persone indagate avrebbero usato in “maniera massiva” e “senza che ce ne fosse bisogno” alcuni psicofarmaci, in particolare il Rivotril, un antiepilettico prescritto anche come tranquillante, per sedare i detenuti e “risolvere le situazioni di tensione provocate dalle forme di disagio psicologico e di dipendenza”. “Le situazioni di degrado e non conformità al rispetto della persona umana e dei diritti in cui si trovavano a vivere i reclusi venivano lenite dall’uso inappropriato di farmaci sedativi volti a rendere gli ospiti innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui si trovavano a vivere”, si legge nell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari (gip). In un’indagine parallela, i magistrati hanno parlato anche di “un vero e proprio monopolio dell’assistenza legale” all’interno del centro, con parcelle “in un caso anche di 700mila euro” pagate dallo Stato a un unico studio legale. “Sulla gestione dei CPR è in gioco la credibilità dello Stato”, aveva detto il procuratore di Potenza Francesco Curcio durante la conferenza stampa in cui ha illustrato i risultati dell’inchiesta. A luglio 2023 Officine Sociali si era aggiudicata la gara indetta dal ministero dell’Interno per un importo di 7 milioni e 300 mila euro, calcolato sulla base di 128 migranti e corrispondenti a 46,43 euro al giorno per ogni persona reclusa, di cui 2,50 euro da dare a ciascun detenuto sotto forma di pocket money (la diaria) o di scheda telefonica. Secondo un’elaborazione di ActionAid sugli ultimi dati che riguardano il 2021, la cooperativa in realtà riceve circa 30 euro al giorno per ogni migrante trattenuto. La cooperativa gestisce anche l’hotspot di Taranto (una delle strutture volute dall’Unione Europea per identificare rapidamente, registrare, fotosegnalare e raccogliere le impronte digitali dei migranti arrivati in Europa) e i Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Treviso e di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. Dal 2021 al 2023 ha gestito anche l’hotspot di Pozzallo, in provincia di Ragusa. La direttrice Candido proviene da lì e sostiene che “qui è molto meglio perché i migranti sono molti meno e hanno più spazi a disposizione e una maggiore privacy”. La nuova direttrice ci tiene a mostrare che la gestione del CPR è cambiata rispetto a quando c’era la Engel. Ora ci lavorano venti persone, tra medici e infermieri, una psicologa, mediatori culturali, interpreti e altri operatori. Dice che “i medici del centro non prescrivono gli psicofarmaci, ma quando c’è bisogno di una terapia inviamo i migranti da uno specialista esterno”. “Cerchiamo di lasciarli liberi di esprimere le loro emozioni e puntiamo a diminuire o togliere del tutto le medicine, qualche volta anche su loro richiesta”, dice Maria Monetti, che lavora nel centro come psicologa. Il piazzale dell’area reclusi ha una forma circolare. Attorno ci sono i moduli con le sbarre, gli uffici amministrativi di Officine Sociali, la sala per i colloqui con i detenuti e l’infermeria. C’è un problema con il condizionamento, perché i moduli non sono isolati e si soffre il freddo d’inverno e il caldo d’estate, come ha segnalato il Garante nazionale dei detenuti. Sul piazzale non ci sono alberi o zone d’ombra per ripararsi dal sole, né zone coperte per proteggersi dalla pioggia. All’aperto ci sono solo agenti di polizia. Si intuisce che i migranti si trovano dietro le sbarre, dove sono appesi dei panni ad asciugare. Su 128 posti disponibili, al momento della visita ne sono occupati 92. I detenuti provengono soprattutto dall’Africa settentrionale e dalla Nigeria, qualcuno dall’Europa orientale. Secondo i dati forniti dalla prefettura di Potenza, tra il 2018 e il 2021 a Palazzo San Gervasio sono state recluse 2.479 persone: il 37 per cento erano tunisini, il 14 per cento nigeriani e il 12 per cento marocchini. Di questi ne è stato rimpatriato il 35 per cento, meno della media degli altri sette CPR italiani (48,9 per cento) a causa di una maggiore presenza di migranti che hanno ottenuto una forma di protezione internazionale. Nella relazione al parlamento del 2023, l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti ha scritto che delle 6.383 persone recluse nei CPR italiani nel 2022 ne sono state rimpatriate 3.154. I “trattenuti” di Palazzo San Gervasio sono tutti maschi. La direttrice Candido dice che molti di loro vivevano per strada, alcuni hanno problemi di dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti, altri hanno problemi psichiatrici. Non è possibile parlare con nessuno di loro e neppure avvicinarsi alle sbarre. Trascorrono le giornate tra le celle o in un piccolo cortile recintato che si trova davanti a ogni modulo. La zona in cui sono le celle è costituita da 14 moduli abitativi e ognuno ha due camere con quattro posti ciascuna. A questi si aggiungono altri due moduli destinati all’isolamento, per un totale di altri 16 posti. “La zona, ampio piazzale dove si affacciano le gabbie antistanti i diversi moduli abitativi, sembra replicare lo stile del “canile”, si legge in un rapporto dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). L’ASGI ha visitato il centro a maggio del 2022, denunciando di aver trovato bagni con le porte divelte e stanze piccole e non arredate, che ricordano “le celle medievali della Santa Inquisizione”. L’infermeria è stata allestita in un piccolo container. “Appena arrivano qui dentro vengono portati a fare un check-up medico e un esame tossicologico per valutare l’eventuale tossicodipendenza, poi facciamo un colloquio conoscitivo e prepariamo una scheda psicosociale”, dice Monetti. La stanza in cui si svolgono gli incontri si trova in un modulo di fronte all’infermeria, arredata con un tavolo e alcune sedie. “Capiamo bene che nessuno di loro vorrebbe stare qui dentro e cerchiamo di gestire al meglio la loro permanenza”, prosegue. Con quelli che vogliono e che parlano meglio l’italiano, Monetti cerca di avviare un percorso terapeutico, anche se “non si tratta della classica psicoterapia perché sarebbe impossibile per me dedicare un’ora alla settimana a ciascuno di loro”. In qualche caso va a incontrarli nelle celle e nei casi più difficili prova a organizzare delle sedute di gruppo per permettere anche a chi è più restio di esprimersi. Le condizioni di reclusione, a detta degli stessi gestori del CPR, giustificano in molti casi il fatto che alcuni detenuti diano in escandescenze. Tornando indietro verso l’uscita, seduto su una panchina nel piazzale dell’area reclusi c’è un detenuto attorniato da un gruppo di poliziotti che lo sorvegliano a vista. È un giovane con la pelle molto chiara e il volto con alcuni tatuaggi indefiniti. A parte questo incontro, per tutto il tempo nel centro c’è stato un grande silenzio. “È stata una mattinata tranquilla”, commenta la direttrice Candido, lasciando intendere che non è sempre così. All’esterno l’avvocato Arturo Covella, che segue diversi migranti reclusi nel CPR, dice che con la nuova gestione di Officine Sociali “c’è stato qualche miglioramento”. Tuttavia il problema di Palazzo San Gervasio, secondo lui, è strutturale, perché chi comanda davvero nel centro sono le forze dell’ordine, che hanno come unico obiettivo di garantire la sicurezza “con norme più rigide e una maggiore discrezionalità rispetto alle carceri”. Covella ritiene che gli psicofarmaci vengano ancora prescritti con troppa leggerezza. Mostra alcuni documenti che riguardano un suo assistito, un giovane marocchino, che è entrato nel CPR il 12 febbraio. Era stato inviato a Palazzo San Gervasio dall’ufficio immigrazione di Ancona, dove un medico dell’azienda sanitaria locale aveva attestato che fosse “esente da patologie evidenti che rendano incompatibile l’inserimento” nel CPR. Tra queste, secondo una direttiva del ministero dell’Interno, ci sono i “disturbi psichiatrici”, eppure dal giorno seguente e per un mese di fila al giovane sono stati somministrati un antipsicotico e un ansiolitico. Il decreto-legge del 2017 noto come Minniti-Orlando prevede che per costruire i nuovi CPR vadano privilegiati “i siti e le aree esterne ai centri urbani che risultino più facilmente raggiungibili e nei quali siano presenti strutture di proprietà pubblica che possano essere, anche mediante interventi di adeguamento o ristrutturazione, resi idonei allo scopo”. Il CPR di Palazzo San Gervasio risponde in pieno alle prescrizioni legislative: fuori non c’è nulla, solo un distributore di benzina e un bar poco lontani. Se la detenzione non viene convalidata dal giudice di pace, i migranti recuperano le loro cose sequestrate all’ingresso, restituiscono i soldi della paga giornaliera che non hanno speso e vengono buttati fuori con l’obbligo di andare alla questura di Potenza, dove spesso ricevono l’ordine di lasciare il territorio nazionale entro sette giorni. Una volta fuori, si trovano in piena campagna e non sanno dove andare e come spostarsi. L’ex Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, dopo una visita al centro avvenuta il 18 giugno del 2019, scrisse che il fatto che il centro si trovi in una zona periferica, lontana dal centro abitato, “è un problema per le persone trattenute al momento della loro uscita”. Un tempo c’era una stazione ferroviaria, inaugurata nel 1891 ma dismessa nel 2011. Gli autobus del trasporto pubblico regionale, appaltati a un concessionario privato, passano una volta al giorno e il fine settimana sono sospesi. Migranti. Con evidenti problemi mentali, ingeriva feci e urine: tenuto per quattro mesi nel Cpr di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 maggio 2024 Ponte Galeria, protocollo per lo psichiatra. La garante Calderone: “Si spera possa far emergere più rapidamente le situazioni di disagio mentale”. La rete Mai più lager: “Rischio deriva manicomiale”. Alla fine H.B. è uscito dal Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Ponte Galeria. Il cittadino algerino, che era finito il 9 gennaio scorso nell’analoga struttura di Macomer da cui è stato successivamente trasferito, ingeriva le sue stesse feci e urine. Per questo l’avvocato Gennaro Santoro ne aveva chiesto la liberazione tre settimane fa. Nonostante l’evidente disturbo psichiatrico e la mancanza di chiarimenti dell’ente gestore, il giudice di pace ha confermato il trattenimento. Per due volte. Così Santoro ha presentato un ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti umani (Cedu). I giudici di Strasburgo hanno chiesto alle autorità italiane chiarimenti sul caso - esami medici e cartella sanitaria del migrante - e sulla struttura detentiva - condizioni materiali di igiene e sicurezza e trattamenti medici disponibili. Il termine per la risposta era stato fissato al 17 maggio. Nel frattempo la commissione territoriale ha respinto la domanda di asilo di H. B. “Non ha fatto in alcun modo riferimento alle gravi condizioni mediche della persona, ha solo detto: l’Algeria è un paese sicuro”, afferma Santoro. Il caso spiega bene la posta in gioco dell’inserimento degli Stati nell’elenco di quelli ritenuti sicuri: proprio l’altro ieri il governo ne ha aggiunti altri sei per decreto. Tra questi Egitto, Bangladesh e Camerun. Comunque Santoro ha impugnato il diniego e il tribunale civile di Roma ha disposto la sospensiva. Successivamente ha anche ordinato di liberare il cittadino algerino. Il governo non dovrà dunque rispondere alla Cedu. H.B. è uscito da Ponte Galeria mercoledì. Lo stesso giorno la Garante dei detenuti di Roma Valentina Calderone ha annunciato un protocollo tra prefettura e asl per garantire la presenza di uno psichiatra nel Cpr romano. Quattro giorni a settimana per un totale di quattro ore. Finora le visite specialistiche erano possibili solo fuori dalla struttura, in un Centro di salute mentale, e così andavano sempre deserte. “Si spera che la presenza di uno psichiatra permetta di far emergere molto più velocemente le vicende di persone con problemi di natura mentale, dunque non idonee al trattenimento”, afferma Calderone. Preoccupazione ha invece espresso la rete Mai più lager-No ai Cpr, la quale in un comunicato denuncia che l’ingresso dello psichiatra è “la conferma di un rapido avanzamento verso il modello di Cpr come ospedale psichiatrico sotto mentite spoglie, senza che vi siano minimamente struttura e personale adeguati: solo i pazienti, ma abbandonati a loro stessi”. Il timore deriva da quanto visto nel Cpr di Macomer, dove tale figura professionale è presente. Durante la visita realizzata il 23 marzo scorso dall’associazione Naga e dalla deputata di Alleanza verdi sinistra Francesca Ghirra, oltre alla presenza di H. B. poi trasferito a Ponte Galeria, ha colpito la situazione di un cittadino statunitense, afroamericano. “Vaneggiava dicendo di essere Richard Nixon e che la famiglia lo attendeva in un porto. Presentava una chiara dissociazione, ma il personale sanitario sosteneva di essere in grado di gestirlo perché nel centro c’era una psichiatra - afferma Nicola Cocco, medico della rete Mai più lager-No ai Cpr - È una cosa gravissima: quel luogo non è attrezzato per simili problemi. Sommando uno psichiatra a un contesto detentivo viene fuori una deriva manicomiale”. Secondo Cocco i medici dovrebbero rilevare e far emergere il disagio mentale durante le visite che decidono se una persona è idonea o meno al trattenimento: “L’articolo 3 del regolamento Lamorgese stabilisce che chi è affetto da disturbi psichiatrici non deve stare nei Cpr”. Migranti. Gli avvocati di Locri con i pm contro l’imputata. Come mai?... è una naufraga di Piero Sansonetti L’Unità, 10 maggio 2024 La Camera penale ha scritto un comunicato nel quale attacca l’Unità perché ha difeso una signora iraniana carcerata e innocente, mancando così di rispetto all’infallibilità dei magistrati. Vi racconto un episodio minore della storia del “garantismo che non esiste”. Riguarda un gruppo di avvocati di Locri, riuniti nella locale Camera Penale, i quali nei giorni scorsi hanno deciso di sferrare un attacco contro il nostro giornale che aveva difeso con foga - come spesso ci capita - un’imputata iraniana, profuga, naufraga, vistosamente innocente, finita in un carcere calabrese, separata dal figlioletto, accusata senza indizio alcuno di essere una scafista, e che ora rischia una vagonata di anni di carcere, e che già ha avuto la vita rovinata - la sua e quella di suo figlio - dalla caccia allo scafista inopinatamente rilanciata da Giorgia Meloni dopo che, per colpa dello Stato Italiano, un centinaio di profughi erano stati lasciati affogare a due passi dalla spiaggia di Cutro. Voi direte: beh, gli avvocati vi avranno attaccato perché la vostra difesa della signora iraniana, che si chiama Marjan Jamali, evidentemente è stata troppo blanda. Direte: è giusto che vi abbiano attaccato perché la funzione degli avvocati è quella di difendere gli imputati, specie se innocenti. Beh, non è così. Gli avvocati (non tutti gli avvocati, per fortuna, solo il direttivo della Camera Penale di Locri, spero ad esigua maggioranza) ci attaccano perché abbiamo mancato di rispetto alla Procura e al tribunale di Locri, raccontando come in quei luoghi si dà la caccia a scafisti immaginari, si incarcera senza indizi, si perseguita una signora che ha un figlioletto di 8 anni e che è fortunosamente scampata a un naufragio dopo essere fortunosamente scampata al regime iraniano. La Camera penale ha scritto un comunicato nel quale mette in discussione il modo nel quale abbiamo ottenuto le notizie e si erge a difensore dei magistrati indebitamente criticati, e chiede l’intervento dell’Anm (l’associazione dei magistrati). Su come abbiamo ricevuto le notizie, confessiamo subito, per evitare che poi ci si accusi di mentire: siamo andati sul posto. Siamo entrati in tribunale. Violando le buone regole del giornalismo che impone ai cronisti di tenersi lontano dai tribunali, di non verificare i fatti e di prendere per buone le carte che verranno generosamente fornite dalla Procura. Beh, sì: è vero. Abbiamo violato una legge sacra del giornalismo giudiziario. Per il resto c’è poco da dire. La Camera penale non si è neanche preoccupata di spedirci il comunicato, lo ha consegnato a un quotidagli diano locale che lo ha pubblicato. A noi lo ha mandato 24 ore più tardi, cioè dopo la pubblicazione. È un comunicato che lascia a bocca aperta chiunque lo legga. Impossibile credere che sia stato scritto avvocati. Comunque lo giriamo all’Ordine di Reggio Calabria perché valuti se una cosa del genere sia compatibile con l’etica dell’avvocatura. Credo che basti una scorsa al comunicato per capire che non è compatibile. Lo inviamo anche all’Unione delle Camere penali, perché ci sembra giusto che sappiano come funziona e che idee ha in testa la Camera di Locri. E poi lo mandiamo al Cnf (il consiglio nazionale forense) che forse dovrebbe difendere l’onorabilità di migliaia di penalisti che non si sognerebbe mai di compiere un gesto così insensato come quello compiuto dai penalisti (da alcuni penalisti) di Locri. Dopodiché facciamo due considerazioni. La prima riguarda il caso specifico. È evidente che il passo scriteriato compiuto dalla Camera penale avrà un effetto fortemente dannoso nei confronti dell’imputata. Il fatto è di una gravità inaudita. E qui facciamo appello agli avvocati italiani, al garante dei detenuti, ai settori più moderni e democratici della magistratura, perché intervengano. Non si può lasciare questa signora innocente in mano a un tribunale dichiaratamente ostile e a una comunità di avvocati saldamente schierati dalla parte dei magistrati dell’accusa. La seconda considerazione è solo la prosecuzione di un ragionamento che abbiamo fatto in queste ore a proposito del garantismo che non esiste più. Lo abbiamo visto sul piano della politica alta, e ora lo vediamo sul piano della politica contro i migranti. La destra schierata coi giudici che colpivano il Pd in Puglia. Poi la sinistra schierata coi giudici che colpiscono il centrodestra in Liguria. Ora persino gli avvocati schierati coi giudici che colpiscono una naufraga innocente. Dov’è il garantismo? In quale sgabuzzino della società civile e politica lo possiamo scovare? Voi dite che il caso Puglia, il caso Toti e il caso di questa signora iraniana sono cose tutte diverse? No, amici miei: sono esattamente la stessa cosa. Quando la giustizia ti prende e vuole stritolarti, non c’è differenza tra ricco e povero, tra politico e viandante. Sono uguali: sono vittime di un potere mostruoso - quello della magistratura - e della viltà infinita della politica. Per me Giovanni e Marjan, Toti e Jamali sono sullo stesso piano. Sono amici miei. Sto dalla parte loro. Senza indugi, senza calcoli. Stavo con Dell’Utri, sto con Cospito, sto con Lello Valitutti, con D’Alì, sto con i ragazzi messi in prigione perché avevano uno spinello in tasca. Quanti siamo a pensarla così? Sto contando, tranquilli ci metto pochi minuti. Migranti. Iraniane detenute, Grimaldi (Avs) e Boldrini (Pd) chiedono un’informativa urgente a Nordio di Marika Ikonomu Il Domani, 10 maggio 2024 I due deputati hanno portato in parlamento le loro vicende, chiedendo di rilasciarle. Sono accusate di essere “scafiste” per aver fatto parte dell’equipaggio della barca con cui hanno raggiunto le coste italiane. Ma ci sono prove di pagamento del viaggio, traduzioni approssimative e testimoni irreperibili, oltre alla violazione del loro diritto di difesa. Le storie di Marjan Jamali e di Maysoon Majidi, le due donne iraniane accusate di essere “scafiste” e in custodia cautelare nelle carceri calabresi, è arrivata in parlamento. Dopo le visite in carcere della deputata del Partito democratico e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo Laura Boldrini, la parlamentare e il collega Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Alleanza Verdi Sinistra alla Camera, hanno chiesto un’informativa urgente al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Le due donne, di cui Domani aveva raccontato la storia, non hanno nemmeno trent’anni e, approdate in Italia, sono state arrestate con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Entrambe in fuga da un paese in cui è in atto una repressione sanguinaria da parte del regime. Soprattutto nei confronti delle donne. “Non si conoscono, ma sono entrambe in fuga da un regime dittatoriale e da una mentalità misogina”, ha spiegato in una nota Boldrini, e ha sottolineato: “Il timore è che dalla lotta ai trafficanti siamo passati alla caccia a un capro espiatorio, uno qualsiasi, anche se ad andarci di mezzo sono due ragazze che in Europa cercavano solo pace, libertà e sicurezza. Pensavano finalmente di essere al sicuro e invece da mesi si ritrovano in carcere”. Da ciò, continua la deputata, nasce l’esigenza di chiedere a Nordio di riferire in aula. Jamali e Majidi hanno due percorsi diversi, ma dal punto di vista processuale le esperienze si intrecciano. Entrambe hanno pagato migliaia di euro il viaggio, hanno avuto traduzioni approssimative e fuorvianti, e le testimonianze su cui si fondano le accuse sono state rese da passeggeri che poi hanno lasciato l’Italia. “I mediatori culturali che hanno tradotto le domande degli inquirenti rivolte alle due donne non parlavano la loro lingua”, ha continuato infatti Boldrini nella nota. Un elemento che aveva precisato anche a Domani. “Ho incontrato Marjan e Maysoon nelle due carceri in cui sono detenute, ho avuto con loro dei lunghi colloqui ed entrambe e mi hanno raccontato di sentirsi dentro un incubo, con un’accusa assurda”, scrive la deputata del Pd, aggiungendo che “le storie di queste due donne, con tanto di documentazione, sono assolutamente credibili”. La storia di Jamali - Una prima interrogazione sul caso Marjan Jamali è stata presentata da Grimaldi il 1 marzo 2024. Jamali ha 29 anni, è partita dall’Iran con il figlio di 8, è arrivata in Turchia e si è imbarcata con un altro centinaio di persone a Marmaris. Dopo cinque giorni di navigazione, soccorsi dalla Guardia costiera italiana, sono sbarcati sulle coste calabresi. Ha acquistato il viaggio in un’agenzia di Teheran, pagando per sé e per il figlio 14mila dollari. Sbarcata in Italia è stata subito accusata da tre uomini, due iracheni e un iraniano, di essere stata parte dell’equipaggio. La testimonianza di tre passeggeri su 102 passeggeri ha giustificato il suo arresto, persone che non sono più state rintracciate. Inoltre, tutte le traduzioni sono state fatte da un interprete iracheno, che non parla il farsi, la lingua persiana parlata in Iran. Detenuta nel carcere di Reggio Calabria, “a Marjan è stato anche tolto il figlio di 8 anni, che è ospite in una struttura calabrese che si prende cura di lui. Come se arrestassero me in Iran e mi mandassero un mediatore culturale che parla tedesco perché sono comunque due lingue europee”, prosegue la nota di Boldrini. Grimaldi ha definito la risposta di Nordio alla prima interrogazione sul caso “autoassolutoria e piena di inesattezze”. “Non corrisponde al vero”, ha precisato il deputato di Avs, “che il giorno dello sbarco fosse presente un interprete di lingua curdo iraniana e, in ogni caso, l’imputata comprende solo il farsi, ossia la lingua ufficiale iraniana; così come non corrisponde al vero che la donna sa esprimersi in lingua araba”. Il caso di Majidi - La storia di Maysoon Majidi è invece parte della seconda interrogazione presentata al ministro della Giustizia da Grimaldi il 7 maggio. Attivista curdo-iraniana di 27 anni, Majidi è laureata in regia teatrale e ha collaborato con diverse organizzazioni per i diritti umani. Ha subito torture ed è riuscita a fuggire con il fratello prima in Iraq poi in Turchia. Da qui ha raggiunto l’Italia via mare, approdando sulle coste calabresi. Come nel caso di Jamali, è stata accusata da due persone su 77. Testimoni che hanno lasciato l’Italia e, rintracciati dal fratello, hanno affermato di “non aver detto quelle parole”, aveva raccontato a Domani Boldrini. Oltre al fatto che anche la ragazza e il fratello curdo-iraniani hanno speso in tutto 17mila dollari per il viaggio. Diritto di difesa negato - Per questo Grimaldi, nell’interrogazione presentata al ministro, sottolinea che “le informazioni raccolte consentono di ritenere che sia stato leso il diritto alla difesa delle due persone accusate e che le attuali condizioni psico-fisiche delle due donne siano incompatibili con lo stato di detenzione in carcere”. Entrambe le ragazze, ha precisato Boldrini nella nota, per mesi “hanno ricevuto provvedimenti in una lingua per loro incomprensibile”. E sia a Jamali che a Majidi è stato negato l’interrogatorio. Elemento ritenuto ancor più grave da Grimaldi che, riferendosi a Jamali, ha dichiarato: “Come può un indagato difendersi se non gli è permesso di fornire la propria versione dei fatti? Siamo di fronte a una violazione non solo del codice di procedura penale, ma del diritto alla difesa”. Anche a Majidi “l’interrogatorio non è stato concesso. Anche per lei si è disposta la misura cautelare di massimo rigore, quella del carcere. Nordio sostiene “l’assoluta linearità dell’operato dell’autorità giudiziaria?”, ma cosa c’è di lineare nella detenzione preventiva, sulla base di testimonianze inattendibili, di due donne reduci da storie dolorose e faticose, separate dai propri cari e non trattate come innocenti fino a prova contraria?”, ha concluso Grimaldi. Nella Tunisia di Saied adesso viene colpito chi aiuta i migranti di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 10 maggio 2024 Perquisizioni nelle sedi di importanti organizzazioni umanitarie e arresti di attivisti, mentre Italia e Ue continuano a elargire fondi. Continuano le deportazioni dei cittadini stranieri nelle zone desertiche al confine con Algeria e Libia. Fin dove si spingerà Kais Saied? Chi lavora in ambito migratorio a Tunisi si pone questa domanda da tempo. Il 21 febbraio 2023 il presidente della Repubblica ha accusato le persone di origine subsahariana e sudanese di stare compiendo una sostituzione etnica nel paese. Successivamente, nel luglio dello stesso anno, sono arrivate le strette di mano con la premier Giorgia Meloni e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per la firma del memorandum d’intesa, mentre il ministero degli Interni attuava vere e proprie deportazioni di migliaia di migranti verso le zone desertiche ai confini con Algeria e Libia. Le deportazioni continuano ancora oggi. Saied, invece, ha rivolto l’attenzione verso tutti coloro che si occupano di migrazioni: “La Tunisia non sarà una terra d’insediamento per questi immigrati e non è neanche un punto di passaggio per loro. Ci sono degli individui che hanno ricevuto dei soldi nel 2018 per portare qui queste persone. Enormi somme di denaro sono arrivate dall’estero a favore degli immigrati africani e a profitto di reti e associazioni che pretendono falsamente di proteggere queste persone”, ha dichiarato il presidente durante il Consiglio di sicurezza del 6 maggio scorso. Saied è passato presto dalle parole ai fatti. Nell’ultima settimana quattro persone di tre organizzazioni diverse sono state poste in custodia cautelare con capi di accusa che vanno dall’associazione a delinquere con il fine di aiutare le persone a entrare illegalmente in Tunisia al riciclaggio di denaro e appropriazione indebita. Si tratta di due esponenti del Centro tunisino per i rifugiati (Ctr) che lavora a stretto contatto con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), all’interno di un quadro giuridico estremamente precario in quanto il paese manca di una legislazione sul diritto d’asilo; della ex presidente di Terre d’Asile in Tunisia Sherifa Riahi e di Saadia Mosbah, uno dei volti più conosciuti della società civile locale per la sua attività di sensibilizzazione contro il razzismo e presidente dell’associazione Mnemty. I dettagli della messa in applicazione di queste disposizioni rappresentano un precedente a cui la società civile tunisina potrebbe abituarsi molto presto. I locali di Terre d’Asile sono stati perquisiti a Sfax, Sousse e Tunisi. La stessa sorte è capitata all’ufficio di Mnemty e all’abitazione di Mosbah. Nonostante un quadro altamente frammentato e a rischio per chi decide di andare contro le disposizioni presidenziali, le reazioni non sono mancate. Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, ha dichiarato che “la Tunisia sta aggravando la crisi e promuove l’idea che non ci sia una soluzione”. Si è espresso duramente anche Bassem Trifi, presidente della Lega tunisina dei diritti umani, organizzazione che vinse il premio Nobel per la pace nel 2015. Al di là della cronaca è importante capire dove si inserisce l’ulteriore stretta autoritaria del presidente Kais Saied. Da inizio anno la Garde nationale ha dichiarato di avere intercettato in mare 21.270 persone, 9mila in più rispetto al 2023. Un dato preoccupante sia per il piccolo Stato nordafricano, diventato un hub strategico di primo piano per le partenze, ma anche per l’Europa e per l’Italia in particolare, impegnate a finanziare in maniera sempre più importante le politiche securitarie della Tunisia. Una soluzione per garantire gli interessi delle due sponde del Mediterraneo sono le deportazioni verso il deserto. Da quasi un anno migliaia di persone sono state caricate sui bus e lasciate a loro stesse in aree disabitate lungo i confini del paese con l’Algeria e la Libia. Un meccanismo attuato dal ministero degli Interni su tutto il territorio nazionale, con una particolare attenzione a Sfax, seconda città della Tunisia dove il fenomeno migratorio è più accentuato. L’ultimo caso risale alla mattina del 3 maggio di fronte ai locali dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dell’Unhcr a Tunisi dove centinaia di persone in attesa del rimpatrio volontario o che godevano di qualche forma di “protezione” avevano trovato un rifugio precario costruito con tende di fortuna. Un imponente intervento securitario ha evacuato la zona, arrestato circa 80 persone e deportato almeno altre 200, secondo la ricostruzione di Refugees in Libya. Anche in questo caso urge andare oltre la cronaca. La sensazione che emerge da questo ulteriore restringimento presidenziale è che da ora in avanti occuparsi di migrazione e documentare possibili abusi diventerà sempre più complicato, soprattutto in quelle zone periferiche dove le violazioni avvengono. A partire proprio da Sfax: in questa città da più di un mese sono aumentati i raid della polizia nei confronti della popolazione subsahariana e sudanese. Iran. Condannato alla fustigazione Rasoulof, il regista vincitore dell’Orso d’oro a Berlino La Repubblica, 10 maggio 2024 Durissima la sentenza a carico dell’autore di “Il male non esiste”. Ma il suo ultimo film verrà presentato in concorso al prossimo Festival di Cannes. Cinque anni di carcere, la confisca dei beni e la fustigazione: questa la condanna comminata a Mohammad Rasoulof, il regista iraniano vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino con il film Il male non esiste. L’accusa è di aver fatto parte di un complotto contro la sicurezza nazionale realizzando film e documentari contro il regime. Rasoulof era stato arrestato nel marzo del 2010 insieme al collega Jafar Panahi per atti e propaganda ostili a Mahmud Ahmadinejad e alla Repubblica islamica dell’Iran. Nel dicembre dello stesso anno i due registi erano stati condannati a sei anni di carcere con il divieto di realizzare altri film e rilasciare interviste ai media, poi ridotti a dodici mesi e infine assolti. Nel maggio del 2011 aveva ottenuto il permesso di partecipare al Festival di Cannes dove aveva presentato “Be omid e didar”, premiato per la miglior regia nella sezione “Un certain regard”. Nel febbraio 2020, costretto agli arresti domiciliari e con il passaporto confiscato, Rasulof non ha ricevuto il permesso di viaggio per accettare personalmente l’Orso d’oro; pochi giorni dopo la cerimonia, è stato condannato a un anno di carcere. Il suo ultimo film, “The Seed of the Sacred Fig”, parteciperà in concorso al prossimo Festival di Cannes.