Le prigioni, specchio della coscienza del Governo di Francesco Petrelli* L’Unità, 9 luglio 2024 Si ricorda spesso il motto secondo il quale le condizioni del carcere sono lo specchio della civiltà di un Paese. Ma se è così, è senz’altro vero che quelle condizioni sono anche lo specchio della coscienza di chi lo governa e che, governandolo, dovrebbe avere a cuore quel livello di civiltà. Chi ci governa dovrebbe fare attenzione che la civiltà del nostro Paese non cada troppo in basso, facendo sì che un domani non potremo guardarci senza vergogna nello specchio della nostra storia. Inchiodati agli slogan della certezza della pena ed all’idea che più carcere significhi più sicurezza, viaggiamo contro il nostro stesso interesse di cittadini, contro ogni statistica, contro ogni buon senso e razionalità. Perché sappiamo che quanto peggiori sono le nostre carceri, tanto maggiore il rischio della recidiva. A inizio luglio, intanto, si contano già 53 suicidi: l’ultimo a Potenza, dove un detenuto di 83 anni si è impiccato nella sua cella. Se in assenza di alcun serio intervento questa media dovesse essere mantenuta, si supererebbe la terribile soglia dei cento suicidi in un solo anno. Sono vite di uomini che erano in nostra custodia e nella responsabilità dello Stato, uomini e donne ai quali avevamo detto che il carcere li avrebbe resi migliori. Sono vite che pesano sulle nostre coscienze. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) ad aprile ha già richiamato l’Italia per l’assenza di iniziative volte alla soluzione del problema. Nel mese di giugno ha fatto seguito il monito da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, proprio per non aver adottato misure adeguate alla prevenzione dei suicidi. Si sono susseguiti nell’indifferenza i moniti del Presidente della Repubblica Mattarella e gli inviti del Pontefice all’adozione di provvedimenti di clemenza. Il sovraffollamento nelle nostre carceri ha già da tempo raggiunto le soglie critiche che del 2013 determinarono la condanna dell’Italia da parte della Corte EDU. Ma la carcerizzazione è ancora imponente. Lo è per via della mancata utilizzazione in sede processuale delle pene sostitutive e della carente applicazione delle misure alternative in sede di esecuzione. In entrata, il fenomeno è generato dalla persistente abnorme utilizzazione delle misure cautelari in carcere (il 30% dei detenuti è in attesa di giudizio), intese come anticipazione della pena piuttosto che come extrema ratio. Ed è ulteriormente aggravato dalla introduzione di aumenti delle pene anche per reati di piccolo spaccio, il che implica, non solo l’ingresso di una quota maggiore di tossicodipendenti, ma anche un consistente aumento della popolazione carceraria minorile con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Il sovraffollamento si risolve infatti, ovviamente, in un drammatico squilibrio rispetto alle già scarse risorse disponibili all’interno di ogni struttura carceraria. Rende ancor più gravi le carenze di personale amministrativo e di tutti gli operatori: dagli educatori al personale di Polizia penitenziaria. Vanno in sofferenza l’assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica assieme all’intera area del trattamento. Il sovraffollamento è infine, a un tempo, causa ed effetto della mancanza di adeguate risposte di giustizia da parte della magistratura di sorveglianza. Ma al di là di tale ovvia osservazione, non possiamo certo dimenticare che questa tragica emergenza si consuma all’interno di strutture carcerarie che spesso, come nel caso di Sollicciano (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare), versano in condizioni di inaccettabile degrado. La carenza o la condizione deprecabile dei servizi igienici essenziali, la mancanza di acqua calda nelle poche docce, le stesse complessive condizioni igieniche degli edifici, che implicano assieme alla presenza di muffe, parassiti e di roditori nelle celle, l’innesco di focolai di malattie infettive, trasformano la detenzione in un qualcosa di totalmente diverso da quelle “pene” che la nostra Costituzione ha immaginato e che le Convenzioni tutelano. In simili condizioni di promiscuità i corpi si accalcano in spazi ridottissimi e il caldo e l’umido divengono elementi di ulteriore degrado ambientale e di insopportabile sofferenza fisica e psichica. Si tratta di condizioni che non hanno nulla a che vedere con l’espiazione di una pena che dovrebbe consistere nella sola privazione della libertà personale. Si tratta evidentemente di sofferenze aggiuntive che rendono quella pena ben più afflittiva di come ogni codice ed ogni giudice avrebbero voluto intendere, nel prevederla e nel comminarla. Una liberazione anticipata speciale costituirebbe, dunque, nient’altro che una parziale e modesta restituzione di quell’originario e necessario equilibrio fra ciò che la sanzione avrebbe voluto e dovuto essere e ciò che è in concreto, nella sua esecuzione. Dire che un giorno di privazione della libertà, vissuto in quelle condizioni indegne per ogni essere umano, vale molto di più in termini di afflittività e di retribuzione, è solo una intuitiva ovvietà. Anche obliterando del tutto le finalità costituzionali della pena, i conti elementari di una giustizia punitiva non tornano. Se si stenta a comprenderlo, se i nostri governanti non riescono ancora a cogliere questa verità, affermando che ogni provvedimento clemenziale costituirebbe un “fallimento” o una “resa dello Stato”, se il mondo della politica e della giustizia consentono che circolino simili parole d’ordine, capisco allora che si possa anche non cogliere il nesso che lega le condizioni di vita inumane e degradanti nelle quali vivono i detenuti con l’incremento della disperazione, con la caduta di ogni possibile speranza, con quel sentimento di arbitrarietà del destino e di assenza di giustizia che deve attraversare la mente di chi decide di fare quel passo atroce dal quale non vi è più ritorno. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Sul carcere un altro racconto è possibile di Giuseppe Belcastro* Il Dubbio, 9 luglio 2024 Oppure di fronte a questa strage non ci resterà che la vergogna e il perdono. I momenti drammatici sconsigliano troppe parole. Eppure, noi avvocati, non abbiamo che quelle. Abbiamo allestito, del resto, una maratona oratoria per mezzo di esse e, al contempo, per dar loro lo spazio che meritano. Noi vorremmo che le nostre parole, uscendo dai labirinti delle nostre menti - a volte forse non troppo chiari nei percorsi - e dagli elitari cenacoli pseudo-culturali nei quali ci ostiniamo a confinarle, prendessero aria e arrivassero all’orecchio e al cuore di chi, del carcere, non sa nulla, se non quel poco che pennivendoli e venditori di fumo hanno provato a raccontare. La narrazione di una cosa, le parole che intorno a una cosa possono esser dette, partecipa essa stessa della sostanza della cosa; ecco perché parlare di carcere significa edificare, nella mente di ciascuno che ascolta, l’idea del carcere. Questa opera di racconto, che qui e adesso abbiamo deciso di provare a portare a compimento, è però costantemente contrastata dal vento di altre parole, uguali e contrarie; parole che disegnano il reo come se fosse il reato e il carcere come l’ultimo baluardo, eretto a protezione dei giusti e dei buoni dall’opera dei delinquenti che saranno dissuasi dal mantenere le proprie condotte delittuose. E questo vento a contrasto però, queste parole sono false e convincenti. Sono false, perché l’effetto dissuasivo della pena come punizione è una chimera, un gioco a bilancia per bambini: ti do tanto, mi dai tanto e siamo pari! Se così fosse, paesi come l’America, dove alligna ancora la pena di morte, sarebbero liberi dal reato. Ma sono convincenti, perché hanno la caratteristica di parlare alla pancia di chi ascolta, di vellicare istinti ancestrali, alimentati da quel diffuso e non sempre giustificato senso di disinteresse e di frustrazione che ha colpito ormai da tempo la nostra collettività. “Buttare la chiave” e “lasciarli marcire in galera” sono del resto concetti intuitivi che si distanziano dalla giustizia e dal raziocinio, ma che si comprendono con immediatezza. Ciò che le nostre parole provano invece a raccontare è qualcosa di più complesso, di meno intuitivo, di umano insomma. Noi vorremmo raccontare la verità del carcere. Noi vorremmo raccontare che le donne e gli uomini che vi sono reclusi non sono il reato che hanno commesso. Noi vorremmo raccontare che costoro non sono i numeri ai quali l’apparato governativo vorrebbe ridurli, ma restano, anche quando hanno commesso reati e persino quando i reati sono gravi, donne e uomini che hanno figli, amici, genitori, fratelli che soffrono con e per loro. Noi vorremmo insomma raccontare cosa davvero significhi vivere in una cella, ammucchiati come animali e privati della dignità e di qualsiasi prospettiva di futuro. Un uomo senza la prospettiva di futuro è un uomo morto: i 52 nomi snocciolati da inizio anno, a tacere degli agenti di custodia e delle centinaia di tentativi sventati, e più ancora i 1779 morti in carcere per mano propria dal 1992 ad oggi, raccontano bene la tragedia e dicono meglio di ogni altra parola che il fetore della morte non è più il disegno letterario di una ideale perdita di orizzonte, ma la scelta concreta di chi ha preferito smettere di respirare che continuare a farlo in quella maniera. Ecco, non si trovano le parole - e per noi avvocati è un’ammissione grave - per dire tutto questo in maniera diretta, leale e convincente; mentre si va cianciando di vacuità buone ad imbonire gli stolti e i creduloni, a raccattare voti - o quanto meno a non perderne - centellinando provvedimenti normativi in funzione di tornate elettorali di cui si temono gli esiti. Questa difficoltà di chiamare le cose con il loro nome, restituendo l’idea autentica della loro essenza, rende vitale per l’intento comunicativo la cella a dimensioni reali che il CNF ha costruito e che abbiamo avuto a fianco durante tutta la maratona affinché ciascuno provasse ad entrarci, soggiornandovi per qualche minuto. Immaginate, pur sapendo che ciò non è vero, di dover trascorrere in un cubicolo di pochi metri quadri e magari in compagnia di altri sventurati, anni interi, senza un progetto, senza un affetto, senza un abbraccio, senza poterne uscire se non per consolare un coniuge o un figlio in lacrime, stringere la mano di un avvocato, camminare in tondo come nella Ronda di Van Gogh o, più terra terra, come criceti senza dignità all’interno di una ruota. Due sole parole forse merita una storia così ignobile: la vergogna, che invade - e invada! - quotidianamente, come un sottile miasma, i nostri pensieri e la nostra silenziosa ignavia di fronte al disastro umano a cui assistiamo; il perdono, che dovremmo tutti insieme domandare contriti a quelli che sono andati, a quelli che inevitabilmente lo faranno e alle loro famiglie; perdono a nome nostro, ma pure di tutti quelli che hanno chiuso cervello e cuore oppure, più semplicemente, dispongono dell’uno e dell’altro in misura assai limitata. Fate, facciamo qualcosa perché il tempo è scaduto e non ci saranno esimenti per la nostra colpa. *Avvocato penalista Perché il “decreto carceri” è inadeguato e incompleto di Vincenzo Musacchio huffingtonpost.it, 9 luglio 2024 Si sta procedendo sulla strada sbagliata introducendo nuovi reati, anziché depenalizzare. Il carcere non può essere la soluzione alla mancanza di politiche sociali ed economiche da parte dello Stato. Occorrono misure strutturali. Qualsiasi riforma dell’ordinamento penitenziario non può prescindere da una seria ed efficace opera di depenalizzazione. L’attuale governo, invece, sta facendo il contrario, avendo già introdotto più di venti nuovi delitti e sanzioni che prevedono sempre più carcere come risposta a determinate forme d’illegalità contenenti spesso condotte punibili con altre forme di sanzioni. La riforma carceraria ha un senso se servirà a costruire un sistema penale più equo e giusto. Nei nostri istituti di pena spesso è recluso chi potrebbe star fuori e, purtroppo, sta fuori chi, invece, dovrebbe esser recluso. Il numero di detenuti, secondo le stime del Ministero della Giustizia, continua a crescere, siamo oltre i sessantamila reclusi, il personale, invece, diminuisce o resta lo stesso. L’anno in corso, con altissime probabilità, rischia di essere quello con il maggior numero di suicidi in carcere. Siamo già a cinquantadue, cinque tra le forze dell’ordine. È lunga la lista di chi si toglie la vita dietro le sbarre. Il paradosso è che tutto questo accade mentre si è sotto l’egida dello Stato di diritto. Affrontare e risolvere il problema della depenalizzazione è ormai indispensabile. Non servono nuovi reati per rivendicare la “politica della sicurezza” cara alla Lega e a Fratelli d’Italia. Si sta procedendo sulla strada sbagliata introducendo nuovi reati, anziché depenalizzare. Il carcere non può essere la soluzione alla mancanza di politiche sociali ed economiche da parte dello Stato. Dobbiamo avere il coraggio di dire che nelle nostre galere non ci sono corruttori, mafiosi, stupratori e assassini. La metà dei detenuti in carcere sono responsabili di reati contro il patrimonio. Se rubo una bottiglia di vino in un supermercato rischio la detenzione. Ci sono invece persone che provocano molti più danni alla società, dal punto di vista politico ed economico, ma in carcere non ci entrano. Il dettato costituzionale e il moderno diritto penale sono gli strumenti con cui dovremo operare. Dobbiamo però cominciare a riflettere seriamente e concretamente sul futuro del nostro sistema carcerario. Su questo tema, purtroppo, il dibattito è ancora fermo alla sola teoria o a riforme di “bandiera”. No, caro ministro, quel decreto non cura i mali della detenzione di Guglielmo Starace L’Edicola del Sud, 9 luglio 2024 Il Governo ha recentemente emanato il decreto legge 92 riguardante misure urgenti in materia penitenziaria. Il decreto è stato presentato come risposta al sovraffollamento carcerario da cui deriverebbe il trattamento disumano dei detenuti e il numero impressionante di coloro che decidono di togliersi la vita. In tema di liberazione anticipata, anziché provvedere ad ampliare il beneficio (magari da 45 a 75 giorni per ogni semestre di pena sofferto, come suggerito da Roberto Giachetti e Rita Bernardini), si attribuisce alla Procura il compito di computare eventuali detrazioni di pena a titolo di liberazione anticipata nell’ordine di esecuzione e al Magistrato di sorveglianza di farlo in caso di ricezione di richiesta di accesso alle misure alternative alla detenzione o ad altri benefici. Il decreto dispone anche l’istituzione di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale. Il provvedimento legislativo programma, inoltre, l’assunzione di mille unità di polizia penitenziaria e dispone l’incremento dei colloqui telefonici con i familiari. Il ministro ha definito il provvedimento come “decreto carcere sicuro”, respingendo quella terribile definizione di “svuota-carceri” che sembra richiamare il tema dello smaltimento dei rifiuti anziché riferirsi a persone che hanno diritto a una riabilitazione sociale. Al di là della definizione, però, prendiamo atto che si tratta dell’ennesima occasione persa per cercare di cominciare a risolvere un problema sociale di straordinaria serietà con dei palliativi. Del resto, l’espressione “carcere sicuro” tende a tranquillizzare la parte della società che vede le mura delle strutture penitenziarie rassicuranti soltanto perché invalicabili e non in quanto delimitanti un ambiente che cura i cittadini. Come ben rappresentato dall’Unione delle Camere penali italiane, “di fronte al numero dei suicidi in carcere, i rimedi proposti dal Governo con il decreto per “l’umanizzazione delle carceri” appaiono davvero insufficienti”. Il decreto mostra di non comprendere che, a fronte di un’emergenza, occorrono rimedi urgenti che riducano drasticamente il numero dei detenuti. È indispensabile una scelta emergenziale, come quella della liberazione anticipata speciale, idonea a fare riconquistare la libertà alle tante persone che devono espiare ancora pene brevi per reati di inconsistente allarme sociale, in tal modo favorendo le uscite. Ma occorre pure ridurre le “entrate”, razionalizzando l’uso della misura cautelare carceraria che dovrebbe riguardare soltanto le persone accusate di reati che consentono di accertare un oggettivo pericolo per la società derivante dall’adozione di misure meno afflittive. Occorre pure evitare gli accessi al carcere per tutti i condannati a una pena inferiore a quattro anni di reclusione, con un favor incondizionato per la detenzione domiciliare. Come conclude l’Unione delle Camere penali, “a fronte delle condizioni di oggettiva inciviltà in cui versano le carceri, auspichiamo che la politica abbandoni inutili slogan e scelga di operare, in aderenza ai principi costituzionali, ponendo in essere rimedi immediati e urgenti realmente sottesi all’umanizzazione della pena ed al superamento delle attuali condizioni di sostanziale illegalità”. Non si potrebbe dire meglio poiché dovrebbe essere compito di tutti noi provare a fare qualcosa per evitare il protrarsi di un massacro di persone deboli e indifese. Comunque, tanto per cambiare, il decreto, che si presenta come finalizzato a risolvere i problemi del carcere rendendo la pena più umana, introduce distrattamente un reato: il redivivo peculato per distrazione. Intellegenti pauca. “Il Decreto Nordio? Irride la sofferenza dei detenuti” di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 luglio 2024 Giovedì scorso l’ennesimo suicidio dietro le sbarre, un ragazzo di 20 anni che si è impiccato nell’istituto fiorentino di Sollicciano. Nella Casa circondariale è scoppiata una protesta. Il bilancio, dall’inizio dell’anno, è di 52 persone che si sono tolte la vita. Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale a Roma: “C’è una sottovalutazione totale delle minime condizioni di vivibilità in un momento già estremamente difficile” “Nell’ultimo anno e mezzo ho visto una precipitazione totale delle condizioni delle persone, uno scadimento della vivibilità, un enorme nervosismo. E anche un’incomprensione per quello a cui sono sottoposte”. A parlare è Valentina Calderone, garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale da marzo 2023. Giovedì scorso l’ennesimo suicidio in carcere, un ragazzo di 20 anni che si è impiccato nell’istituto fiorentino di Sollicciano. Nella casa circondariale è scoppiata una protesta dei detenuti, con lenzuola bruciate. Nello stesso giorno sono morti altri due detenuti, uno a Pavia e l’altro a Livorno, che avevano tentato di togliersi la vita i giorni precedenti. Calderone, nelle carceri è molto alta la tensione. Quella di Sollicciano è solo l’ultima di una serie di azioni di protesta. Cosa può dirci della situazione negli istituti penitenziari? La situazione è molto grave perché il tema del sovraffollamento purtroppo è un tema che non possiamo più definire emergenziale, ma che soprattutto con l’arrivo dell’estate si fa sentire in maniera importante all’interno degli istituti. A Regina Coeli, a Roma, il tasso di sovraffollamento è del 180%, siamo arrivati a una media nazionale intorno al 130%. Ci sono dei picchi di sovraffollamento, in alcuni istituti, in cui questo problema si sente ancora di più. L’estate è il momento non solo del caldo e della condivisione di spazi con moltissime persone, ma è anche il momento in cui ci sono molte meno attività. E, quindi, le persone sono costrette, anche per colpa della circolare “Circuito media sicurezza”, a stare tutto il giorno all’interno delle proprie stanze, che sono già sovraffollate e che hanno una serie di problemi. Tutto viene esasperato dalla stagione e dal fatto che le persone stanno in quelle condizioni. Può spiegarci meglio la circolare “Circuito media sicurezza”? Si tratta della “Circolare Circuito media sicurezza - Direttive per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento penitenziario” (è la circolare n.3693/6143 del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Dap, del 18 luglio 2022, QUI il link, ndr). Nel circuito della media sicurezza è detenuta la parte quantitativamente più consistente della popolazione detenuta. In questa circolare, che prevede una riorganizzazione dei reparti, si dice sostanzialmente che le persone non possono più essere aperte nel corridoio, possono stare fuori dalle loro stanze solo se devono svolgere delle attività altrimenti stanno nelle celle. Inizialmente è stata fatta una sperimentazione, poi è diventata organica. Le attività nelle carceri non sono molte, quindi le persone passano moltissimo tempo chiuse nelle celle. E i suicidi in carcere, dall’inizio dell’anno, sono arrivati a 52... Pochi giorni fa si è ucciso quel ragazzino di 20 anni a Sollicciano, motivo per cui è nata la protesta. Sempre lo stesso giorno, sono morti il ragazzino diciannovenne che aveva provato ad uccidersi qualche giorno prima a Pavia e un signore di 52 anni che aveva tentato il suicidio nel carcere di Livorno. Servirebbero degli interventi immediatamente. Oggi è pure tardi, dovevano essere fatti ieri, ma ci accontenteremmo anche di oggi, se venissero fatti però oggi. Quello che produce questo decreto è un’irrisione nei confronti della sofferenza delle persone. Qualche altra novità del decreto che vuole commentare? Ora c’è la deroga piena dell’aggiunta di due telefonate al mese (che avverrà chissà tra quanti mesi), anche se i direttori delle carceri già avevano la deroga piena di far telefonare le persone più di quanto è scritto nel Regolamento penitenziario (quattro telefonate al mese, ndr). Vengono aggiunte due telefonate al mese quando abbiamo avuto una sentenza della Corte costituzionale lo scorso gennaio, auto applicativa, sulla possibilità di colloqui intimi e sul diritto all’affettività che ancora non è stata applicata: non c’è una persona in Italia che ha fatto un colloquio riservato. Ornella Favero, presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia, ci ha raccontato in una recente intervista le difficoltà frapposte al lavoro delle associazioni, anche a causa di due circolari dello scorso anno che rendono tutto più difficile... Sì, c’è una combinazione di fattori. È stata centralizzata la decisione delle attività, la maggior parte di esse deve essere autorizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-Dap, quindi i tempi di approvazione dei progetti slitta di molto. Inoltre, con la carenza di Polizia penitenziaria, spesso il pomeriggio non c’è una copertura sufficiente per organizzare la sorveglianza per le attività. Quindi, ci si trova nella condizione per cui le attività ci sarebbero pure, ma poi non ci sono gli agenti che la possono garantire, quindi saltano. C’è un aggravamento di una situazione che è già grave di per sé, a cui concorrono un po’ di fattori diversi. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato che il decreto “Carcere sicuro” approvato pochi giorni fa prevede l’assunzione di 1.000 agenti di Polizia penitenziaria. Potranno essere una delle soluzioni per l’emergenza penitenziaria? Assolutamente no. I dati ci dicono che, su 36mila agenti in servizio, ogni giorno più o meno non è in servizio un terzo: per malattie, per permessi familiari, per permessi della 104. Quindi dobbiamo calcolare che ogni giorno sono in servizio circa 24mila agenti. Questi 1.000 agenti in più (500 l’anno prossimo e 500 l’anno dopo) non sarebbero affatto sufficienti. Oltre agli agenti, servirebbero altre figure professionali nelle carceri? Oltre alla Polizia penitenziaria servirebbe anche altro. È stato fatto un concorso per le figure dei funzionari giuridici pedagogici, stanno entrando in servizio quest’anno. Mancano i mediatori, in carcere circa il 30% delle persone sono straniere. E c’è un grande problema che riguarda le aree sanitarie. Una novità del decreto “Carcere sicuro” è l’istituzione di un albo di comunità, adibite alla detenzione domiciliare, che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti: quelli con residuo di pena basso, i tossicodipendenti e quelli condannati per determinati reati. Cosa ne pensa? Prima che venga fatto l’albo e che si istituisca passerà almeno un anno. Dovremo anche capire quanti sono i posti, quante sono le disponibilità. Al momento questo non risolve nulla riguardo alle più di 5mila persone che hanno un fine pena sotto gli otto mesi, non risolve niente rispetto alle oltre 14mila persone detenute in più rispetto ai posti disponibili (i detenuti presenti negli istituti sono 61.509, a fronte di 47.003 posti disponibili, “Analisi dati sistema penitenziario al 3 luglio 2024”, ndr). E non risolve niente riguardo alle altrettante 14mila persone che hanno un fine pena sotto i due anni, persone che dovrebbero poter uscire adesso. Non credo che queste comunità possano risolvere tutto. Il problema delle persone che scontano tutta la pena all’interno del carcere è rilevante proprio perché la maggior parte di esse non ha una possibilità abitativa a cui rivolgersi, una rete familiare. Potremo ragionare su quanto siano incisive le proposte rispetto a quanti sono i posti che verranno messi a disposizione. Quindi è presto per giudicare l’idea dell’albo di comunità? Lì dentro c’è un’idea, finanziata da Cassa delle Ammende, ma non sappiamo la portata: le persone che potranno andare nelle comunità potrebbero essere 500, 1000. Se iniziassero ad essere 10mila allora potremmo pensare che tra un anno avremo risolto una parte dei problemi del sistema penitenziario. Ma ora che vedremo gli effetti del decreto passerà molto tempo, e l’emergenza è adesso. Lei è garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale da marzo 2023. È passato quasi un anno e mezzo da quando ha assunto questo incarico, ha visto la situazione peggiorata? Moltissimo. Ho visto una precipitazione totale delle condizioni delle persone, uno scadimento della vivibilità, un enorme nervosismo. E anche un’incomprensione per quello a cui le persone sono sottoposte. Ogni volta che vado in carcere c’è una richiesta di spiegazioni. Cosa le chiedono? Mi chiedono: “Ma com’è possibile che stiamo così, che dobbiamo vivere in queste condizioni? Com’è possibile che ci hanno occupato le salette socialità con i letti, quindi non possiamo neanche usare queste stanze?”. A Regina Coeli hanno messo i letti nelle aule scolastiche quando è finita la scuola. Quindi nelle salette socialità e nelle aule scolastiche non c’è neanche un televisore. Queste persone vengono chiuse dentro alle stanze alle 18-18,30 del pomeriggio e vengono riaperte alle 7,30-8 del giorno dopo, senza neanche un televisore. C’è una sottovalutazione totale delle minime condizioni di vivibilità in un momento già estremamente difficile. E questo è inaccettabile. Le persone trovano inconcepibile essere trattate in quel modo, è incomprensibile per me e per le persone che sono in carcere. Poi è incomprensibile una contraddizione di fondo. Quale? Come può uno Stato assumersi la responsabilità della sanzione nei confronti di chi ha commesso un reato comportandosi in maniera totalmente illegale, tenendo le persone in una condizione totalmente illegale? Come si sana questa contraddizione? Come si fa a chiedere alle persone che sono detenute, che hanno sbagliato, che dovrebbero aderire al principio educativo, all’idea che quello che gli è capitato è conseguenza delle loro azioni, di avere fiducia nelle istituzioni? Che fiducia noi aiutiamo loro a ricostruire nei confronti delle istituzioni, che hanno in qualche modo tradito attraverso il loro reato? Può farci qualche esempio delle condizioni difficili a cui si è costretti in carcere? A Regina Coeli ci sono ancora le schermature alle finestre, sono di ferro, passa l’aria rovente. Sono stati regalati dei ventilatori, che però non possono essere installati nelle stanze perché l’impianto elettrico non reggerebbe anche i ventilatori. È impossibile dare una spiegazione ai detenuti, dire loro che quello che sta succedendo ha un qualche senso, un qualche fondamento. È impossibile dare risposte. Quale potrebbe essere una delle soluzioni per il sovraffollamento e le condizioni difficili delle carceri? Io mi accodo totalmente a quello che ha scritto il Papa nella sua bolla giubilare. Francesco chiede ai governi un provvedimento di clemenza, amnistia e indulto. Anche l’inserimento di nuovo personale, l’ideazione di nuovi progetti, la costruzione di percorsi di presa in carico delle persone (con l’albo delle comunità annunciato), si possono iniziare a fare, ma in una condizione in cui il sistema penitenziario sia vivibile, consenta agli operatori di polizia di lavorare e agli educatori di non avere 200 persone da seguire. Se un educatore ha 200 casi che tipo di approccio personalizzato può riuscire a fare? Non riesce a fare neanche il minimo indispensabile. Tutto quello che si può fare in prospettiva, tutta la progettualità la possiamo mettere in campo con un sistema penitenziario che sia intorno alle 50mila persone. E allora da lì si può ripartire, si può progettare, si può programmare. Ora cosa si può fare? In questo momento nelle carceri non c’è nient’altro che si possa fare che non abbassare il numero della popolazione detenuta. Dopo si può fare tutto il resto. In queste condizioni tutta la progettualità salta, non è pensabile farla e portarla avanti, non è pensabile costruire e organizzare niente. Questa è l’unica realtà dei fatti. Per quanto riguarda le opportunità di reinserimento lavorativo? La progettazione c’è e, come spesso succede, è a macchia di leopardo. Ci sono istituti in cui ci sono molte attività, sono avanzate dal punto di vista del trattamento, c’è anche un grande scambio con il territorio. A Roma, tra le due circondariali Rebibbia Nuovo complesso e Regina Coeli c’è una differenza abissale. Ci sono degli istituti che, anche grazie a direzioni che hanno intessuto negli anni ottimi rapporti con il tessuto sociale e anche grazie all’esistenza di spazi che si possono utilizzare, hanno moltissime attività, ma poi nel pomeriggio ci sono comunque difficoltà a fare qualunque attività per la scarsità di agenti. Ma in tanti istituti ci sono problemi strutturali che hanno un tasso di sofferenza gigantesco per mancanza di attività da fare. A Roma com’è la situazione delle carceri? A Rebibbia ci sono gli spazi per fare le attività, una serie di condizioni che consentono di portare le attività all’interno. A Regina Coeli c’è il deserto. “Lasciare che disperati si ammazzino in cella? Roba da soluzione finale” di Ciriaco M. Viggiano L’Edicola del Sud, 9 luglio 2024 “Siamo davanti a una soluzione finale adottata per liberarsi di un fardello pesante per la sicurezza pubblica”: Alessandro Barbano, già direttore de “Il Mattino”, “Il Riformista” e “Il Messaggero” e oggi punta di diamante del format-web “War Room”, non usa mezzi termini nel commentare l’escalation di suicidi nelle carceri italiane. Direttore, siamo già a quota 55 vittime dall’inizio del 2024… “L’articolo 40 del codice penale sancisce il principio per il quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Se ciò vale per il cittadino, deve valore a maggior ragione per lo Stato. Quindi non impedire un suicidio in un luogo dove la vita di una persona è sotto il controllo totalitario dello Stato, rende quest’ultimo quanto meno corresponsabile”. Possibile che nessuno riesca a fermare la progressione? “Nel momento in cui annuncia l’entrata in servizio di mille agenti di polizia penitenziaria di qui al 2026, il governo Meloni non fa altro che buttare la palla in tribuna. Quale impatto può mai avere l’arrivo di poche unità di personale sull’emergenza agostana? Perché è di questo che si parla: in estate il numero dei suicidi in carcere è quadruplicato. Perché il personale va in ferie, perché le attività di recupero si fermano e anche per il caldo e le pessime condizioni igieniche. Certo è che, in quei giorni, la moltitudine caotica dei detenuti diventa solitudine disperata con gli esiti che conosciamo”. All’origine dei suicidi c’è soltanto il sovraffollamento? “No. C’è il sovraffollamento, ma ci sono anche le pessime condizioni igieniche e strutturali, l’insufficienza delle attività di recupero, la mancanza di prospettive occupazionali dopo l’espiazione della pena. Non a caso l’indice di suicidi in carcere è venti volte più alto di quello che si registra nella popolazione non detenuta. E poi c’è un altro tema”. Quale? “Nell’80% dei casi a suicidarsi sono giovani immigrati il cui percorso si adattamento e inserimento nel nostro contesto sociale è fallito. In carcere ci si ammazza perché si è consapevoli del fatto di avere poco o nulla al di fuori di quel perimetro. E questo succede anche a causa di una legislazione che, per esempio, impedisce a una comunità di recupero di prendere in carico una persona che viva irregolarmente sul territorio italiano. Il risultato è che i detenuti si suicidano spesso in prossimità dell’uscita, perché consapevoli di non avere un futuro “fuori”, o all’ingresso del carcere, perché incapaci di reggere la distanza siderale che “dentro” si apre tra viventi e morti viventi”. Intanto il governo Meloni istituisce nuovi reati: quanto incide questa linea securitaria? “C’è una ferocia di destra, dai tratti securitari, e una ferocia di sinistra, moraleggiante e indirizzata prevalentemente ai colletti bianchi. Ma sempre di ferocia si tratta. Questa implementazione dei reati ha un impatto soprattutto sui minori non accompagnati che giungono nel nostro Paese. Se a 12enni che hanno lasciato la famiglia e affrontato il viaggio della speranza offriamo soltanto comunità e servizi dai caratteri quasi ottocenteschi e un sistema carcerario come quello al quale siamo abituati, è difficile pretendere da loro l’osservanza della legge. Bisognerebbe dare vita a una grande infrastruttura, capace di incidere su scuola, formazione, lavoro e affetti, per trasformare quei giovani in cittadini e lavoratori consapevoli. Invece ci si ostina a rispondere alla devianza istituendo altri reati: è una strategia ipocrita e stupida, quasi una “soluzione finale” per liberarci di un fardello pesante per la sicurezza pubblica. Noi non vogliamo vedere quei ragazzi “difficili”, non riusciamo a rimpatriarli, loro non voglio soffrire e così lasciamo che si ammazzino: c’è un elemento di cattivismo politico-elettorale in tutto questo”. La liberazione anticipata speciale più essere la soluzione? “Quella di Giachetti è un “indultino”, una proposta non risolutiva. Ciò che serve è riconsiderare il ruolo del carcere nella legislazione penale, prevedendo la detenzione soltanto nei casi in cui essa sia indispensabile per proteggere l’incolumità pubblica. E poi i penitenziari vanno trasformati: non possono essere il luogo in cui concentriamo tutto il male al solo scopo di non vederlo più”. Carcere, aiuti per chi assume i detenuti e salari parificati di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2024 Un bonus per l’impresa che assume detenuti. Lo prevede il Disegno di legge depositato in Parlamento su iniziativa dell’assemblea del Cnel presieduta da Renato Brunetta. Un progetto che punta a recuperare socialmente i detenuti, riducendo i tassi di recidiva. Trai punti cardine anche la parità di trattamento salariale. Depositato in Parlamento il disegno di legge del Cnel che cambia la legge Smuraglia e ridefinisce l’accesso a lavoro e formazione. Abbattere fino ad annullarlo il tasso di recidiva, attualmente pari al 68,7%, per tutti i detenuti presenti nelle 189 strutture carcerarie italiane. È l’obiettivo di un disegno di legge approvato dall’assemblea del Cnel lo scorso 29 maggio - il primo della XI Consiliatura presieduta da Renato Brunetta - e che è stato depositato in giugno nei due rami del Parlamento (Atto Camera n. 1920 e Atto Senato n. 1169). Un intervento che punta a incidere sulla qualità della carcerazione e della vita di una platea numericamente articolata e spesso dal monitoraggio complesso: oltre infatti ai 61.049 che stanno scontando la loro pena in carcere ci sono i 100-120mila in esecuzione esterna e un gruppo ancora più eterogeneo che oscilla tra gli 80 e 100mila che è in attesa di sapere quale sarà l’esecuzione. Di queste persone solamente un numero ristretto accede ad attività lavorativa. Secondo infatti gli ultimi dati Dap, complessivamente il 33% dei detenuti è sì coinvolto in attività lavorative ma solo l’1% è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza (l’85%) cioè lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. I numeri fra l’altro evidenziano una disparità geografica nell’impiego dei detenuti, con un divario di 15,1 punti percentuali tra la prima e l’ultima Regione classificata, rispettivamente Lombardia e Valle D’Aosta. Da qui la necessità di un’inversione dirotta, anche perché la mancata offerta di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un ritorno sul Prodotto Interno Lordo (Pii) fino a 480 milioni di euro. Con il testo - “Disposizioni per l’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o restrittivi della libertà personale emanate dall’Autorità giudiziaria” - l’assemblea del Cnel ha inoltre approvato un documento di Osservazioni e Proposte in materia di studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere. Questo passaggio normativo definito con il disegno di legge è infatti il frutto di un percorso articolato cominciato i113 giugno del 2023 con la sottoscrizione di un accordo interistituzionale con il ministero della Giustizia sul tema specifico dell’impatto positivo che l’istruzione, la formazione e l’inserimento lavorativo delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privativi della libertà personale possono avere in termini di abbattimento del tasso di recidiva. Molteplici, dunque i punti su cui il ddl interviene, dalla legge Smuraglia stabilendo un rafforzamento delle agevolazioni previste per gli imprenditori che impiegano persone detenute, all’introduzione della parità di trattamento economico; dall’informatizzazione ovvero la sistematizzazione di tutte le esperienze in campo che coinvolgono le imprese e le strutture carcerarie in una piattaforma informatica, all’inserimento al lavoro dei giovani in uscita dagli istituti penale per i minorenni. In sostanza si tratta di una profonda rivisitazione dell’attuale quadro normativo e regolamentare in materia di ordinamento penitenziario che punta alla strutturazione di una rete interistituzionale integrata in grado di gestire il problema dell’inclusione lavorativa nella sua globalità sia in carcere che nella fase post-rilascio; ma anche ad attrarre stabilmente risorse esterne sia in termini economici che di competenze anche digitali; ad elaborare e implementare interventi ad alto impatto su scala nazionale in grado di coinvolgere un numero significativo di detenuti. Per realizzare ciò è stato previsto uno strumento operativo vale a dire un segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale istituito dall’Assemblea presso il Cnel. Istituzioni, imprese e istruzione insieme per abbattere la recidiva di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2024 Oltre un anno di lavoro e la mobilitazione di soggetti istituzionali, economici - provenienti dal mondo produttivo - e sociali, cioè il volontariato. Ma anche il mondo dell’istruzione, in testa le università. È una mobilitazione numericamente ampia, eterogenea e salda nel tempo, quella che, valorizzata dal Cnel, ha contribuito alla definizione del Ddl depositato dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro in Parlamento ma soprattutto a cementare un impegno che si connota come strutturale. Il punto di partenza è stato l’accordo interistituzionale con il ministero della Giustizia del 13 giugno 2023, è in questa fase infatti che comincia a prendere formala necessità di dare gambe a quanto già delineato dalla letteratura scientifica: tra i detenuti che hanno un inserimento professionale stabile la recidiva si riduce drasticamente. Il passaggio successivo è stata la definizione, il16 aprile scorso, di un coinvolgimento massiccio. Già allora si staglia quello che poi sarebbe diventato, nelle scorse settimane, il filo conduttore del Ddl. Il titolo, infatti, di quella giornata, promossa dal Cnel in collaborazione con il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, era “Recidiva Zero. studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere. Dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema”. “Possiamo azzerare la recidiva con il lavoro dentro e fuori il carcere, con la sua giusta remunerazione, con l’istruzione e la formazione - incalza il presidente del Cnel, Renato Brunetta. La riabilitazione e il reinserimento dei detenuti è un obiettivo difficile ma raggiungibile. Conosciamo poco e male il capitale umano che è nelle carceri. Ciò incide fortemente sugli esiti occupazionali. Di un detenuto su due non sappiamo il titolo di studio; per gli stranieri arriviamo a due su tre. Ma soprattutto per un terzo della popolazione carceraria non abbiamo la storia personale”. Brunetta, ricordando come la popolazione carceraria è “composta dai detenuti presenti negli istituti di reclusione, dai condannati che scontano la pena all’esterno con misure alternative, e da quelli che sono in attesa di esecuzione della pena”, spiega che “questi tre stock vanno fatti confluire in una piattaforma digitale per poi profilarli e individuare percorsi adatti di formazione e accompagnamento al lavoro mettendoli a disposizione delle reti imprenditoriali. Un aspetto centrale che riguarda il lavoro in carcere è quello della piena equiparazione del lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria agli standard ordinari dei contratti collettivi di riferimento. Dobbiamo puntare sulla diffusione di una cultura imprenditoriale vantaggiosa per tutti nella logica win win win”. A nessuno dei soggetti coinvolti sfugge la complessità da dipanare. “Non faremo miracoli dall’oggi al domani - sottolinea il ministro della Giustizia, Carlo Nordio - ma possiamo realizzare una sinergia programmata, non lasciata al solo volontariato. L’obiettivo è avere in ogni carcere o luogo di detenzione alternativa la possibilità di fare apprendere alle persone detenute un lavoro, in modo tale che possano riuscire a trovarlo una volta liberate”. In che modo? “Serve un ponte tra carcere e imprese, orientato al dopo, così da permettere a una persona quando esce dal carcere di avere già una sua sistemazione”, prosegue il ministro. Ecco allora che l’impostazione, data dal Cnel che vede nelle reti sociali (“più una rete è di qualità, di valori, di strategie, più il suo valore aumenta esponenzialmente”, ripete Brunetta) l’architrave di questo nuovo sistema ridefinito, diventa determinante per il raggiungimento di risultati importanti. “Ci sono già parecchi detenuti che lavorano all’interno del carcere e parecchi condannati che espiano la pena in situazione di semilibertà o carcerazione attenuata. Ma è la prima volta che cerchiamo di collegare le tante iniziative ed esperienze cambiando soprattutto la concezione esclusivamente carcerocentrica dell’espiazione della pena. È una svolta epocale”, chiosa dunque Nordio. E così la questione del lavoro diventa non solo dirimente ma anche l’opportunità per creare un modello. Tanto che per il sottosegretario, Andrea Ostellari: “il vero miracolo non è solo la recidiva zero ma aiutare il paese a fare sistema, per definire un “modello” di percorso di rieducazione. Stiamo lavorando sul tema dell’esecuzione della pena attenuata, non stiamo parlando di sconti ma vogliamo affrontare il tema per dare una soluzione diversa. Noi possiamo impiegare il tempo di esecuzione della sentenza di condanna non più per guardare il soffitto ma per pensare a come imparare un mestiere e come formarsi”. Tutto ciò all’interno di una visione estremante pragmatica: “In un anno o poco più - ripercorre il Capo del Dap, Giovanni Russo - le spese che la Cassa delle ammende sostiene per contribuire allo sviluppo del lavoro in carcere sono passate da 9 milioni a 30 milioni di euro. In questi primi mesi del 2024 oltre 600 imprese hanno fatto richiesta di sgravi fiscali. Questi sono già risultati importanti. Ora con il Cnel vogliamo andare oltre e offrire una visione nuova, perché la detenzione divenga uno spazio di tempo durante il quale inserire la nostra missione costituzionale, la rieducazione. Vogliamo che gli istituti penitenziari siano luoghi da cui i detenuti escano con maggiore cultura e maggiore professionalizzazione”. Il caso di Halili Elmahdi e lo stato dell’arte della deradicalizzazione dentro e fuori dal carcere di Nicolò Cenetiempo altreconomia.it, 9 luglio 2024 Il nostro Paese non si è dotato di strumenti per garantire il reinserimento sociale dei soggetti “radicalizzati”: il tutto si limita nel contesto penitenziario all’intercettazione dei fattori di pericolo, al monitoraggio e alla reclusione nel circuito “Alta Sicurezza 2”. La vicenda dell’uomo nuovamente arrestato a fine maggio mette in crisi gli annunci celebrativi del Viminale. Il racconto dell’imam Ibrahim Gabriele Iungo. L’uomo nella foto guarda verso l’obiettivo. Ha le mani dietro la schiena ed è affiancato da due agenti di polizia con il volto coperto. Poco più in basso campeggia la scritta “Arrestato pericoloso terrorista dell’Isis”. Si tratta di un post pubblicato il 28 maggio sui profili X del Viminale e del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Recita: “Un arresto che premia l’impegno e la professionalità che le nostre Forze dell’ordine e le agenzie di intelligence dedicano alla continua attività di monitoraggio e prevenzione della minaccia terroristica nel nostro Paese”. Presentata come un successo, l’operazione non è però che l’ultimo capitolo di una storia che da un decennio sembra ripetersi sempre uguale. Il nome dell’uomo è Halili Elmahdi, ha 29 anni ed è già alla sua terza carcerazione. “Lo conobbi su internet, lui traduceva e caricava in rete alcuni documenti dell’Isis. Fu mia la decisione di contattarlo, sia per interesse personale sia per una funzione preventiva di carattere informale: quando un ragazzo condivide contenuti pericolosi, bisogna cercare di prendersene cura”, racconta ad Altreconomia l’imam Ibrahim Gabriele Iungo, una delle persone a essere state più a stretto contatto con Halili Elmahdi. “Lui - continua l’imam - si mostrò disponibile per un confronto dal vivo, ma fu arrestato prima ancora che potessimo incontrarci”. È il 2015 quando per Halili, allora ventenne, iniziano i primi problemi giudiziari: viene condannato a due anni di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, per “istigazione a delinquere con finalità di terrorismo”. L’imam perde le sue tracce e il rapporto si interrompe. Nel 2018, all’età di 23 anni, Halili torna però in manette e Iungo lo viene a sapere dai giornali. “Avevo appena iniziato la mia collaborazione quale imam autorizzato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a entrare in carcere. Presentai domanda per incontrarlo, tramite il direttore dell’istituto e d’accordo con il procuratore di Torino”. Condannato nel 2019 a una pena detentiva di sei anni e nove mesi per “associazione a delinquere al fine del raggiungimento degli obiettivi dello Stato Islamico”, Halili viene collocato nel circuito di Alta sicurezza (As) della casa circondariale Lorusso e Cutugno. “Lo vedevo una volta al mese, alternandomi nei colloqui con la famiglia. Aveva passato un primo periodo in isolamento. Notai in lui un’insofferenza crescente: solo in un secondo momento avrei appreso che, in quella fase, stava già maturando sintomi paranoici”. Dal 2009, in base a una circolare del Dap, chi - come Halili - è imputato o condannato per reati di terrorismo viene detenuto nel sotto-circuito As2. Ad aprile 2024 erano 9.439 le persone ristrette in Alta sicurezza; nei 99 istituti visitati da Antigone nel 2023, le presenze in As2 erano 34. “Il procuratore auspicò per il ragazzo un percorso di deradicalizzazione. Il fatto che io andassi a visitarlo - spiega Iungo - era già dal loro punto di vista l’avvio di un percorso. Ma non mi furono dati gli strumenti per sminare il terreno: avevo un normale permesso da imam che pronuncia il sermone del venerdì e per incontrare Halili dovevo mettermi d’accordo con la famiglia. Inoltre, non ebbi alcun tipo di coordinamento con la direzione del carcere né con i mediatori interculturali, gli assistenti sociali o gli psicologi. Mai visto nessuno”. Questo perché l’Italia non si è dotata degli strumenti legislativi necessari per garantire la prevenzione del radicalismo e il reinserimento sociale delle persone radicalizzate. Le due proposte che andavano in questa direzione sono naufragate: il cosiddetto ddl Dambruoso, presentato alla Camera nel 2016, non ha ottenuto l’approvazione del Senato entro la fine della legislatura; la stessa sorte è poi toccata al “ddl Fiano”, presentato nel 2018. Un’iniziativa di legge analoga - il “ddl Guerini” - è stata invece avanzata lo scorso 14 maggio, ma deve ancora essere assegnata alla commissione competente. Intanto, la strategia italiana resta oggi confinata alla sorveglianza e alla reclusione nel circuito As2. “Successivamente Halili è stato trasferito nel carcere di Sassari, dove il suo stato di salute mentale è peggiorato sensibilmente. Ciononostante, non ha ricevuto un’assistenza psichiatrica adeguata: i suoi colloqui con lo psichiatra sono consistiti in pochi minuti finalizzati a valutare la sua idoneità alla detenzione. Si è provveduto a un monitoraggio complessivo solo nell’ultimo mese prima del suo rilascio, dietro mia sollecitazione”. Nel 2023, alla fine di luglio, Halili -ormai 28enne- termina di scontare la sua pena, ma una volta uscito dal carcere viene privato della cittadinanza italiana e trattenuto per due volte in un Centro per la permanenza e il rimpatrio (Cpr). Malgrado sia nato e cresciuto in Italia, dove sono residenti anche i suoi genitori, le autorità provano a estradarlo in Marocco. Tuttavia, l’operazione non va a buon fine per presunte “ragioni burocratiche” e Halili ritorna a casa della sua famiglia, a Lanzo Torinese (TO), da cui però viene presto allontanato. A ottobre dello stesso anno, Halili finisce così per vivere all’addiaccio. “Un giorno mi trovo a Porta Palazzo e noto un ragazzo che mi osserva da lontano. Era Halili. Da quel momento ho cercato di sostenerlo economicamente, acquistando per lui della carne in una macelleria halal. Prima che uscisse dal carcere, mi ero premurato di contattare i servizi sociali di Lanzo Torinese in vista del suo rientro. Ma nulla è stato fatto. Ora era una persona senza fissa dimora, per di più in condizioni di instabilità psicologica”. A febbraio del 2024, la testata La Luce ha pubblicato un appello integrale di Iungo. “Avevo bisogno di far conoscere la storia di Halili, anche per tutelare me stesso: non era possibile che per un caso di questo tipo, considerato l’emblema della radicalizzazione in Italia, fosse sollecitato unicamente il mio intervento”. L’arresto del 28 maggio - in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di “associazione terroristica internazionale” - non ha che riconfermato i limiti della via italiana, orientata alla sola repressione del radicalismo. La vicenda di Halili è esemplare: prima detenuto in carcere, poi privato della cittadinanza e trattenuto in Cpr, infine costretto a vivere in strada e riarrestato. Un circolo vizioso le cui responsabilità sono politiche. “È sotto gli occhi di chiunque che Halili sia uscito dal carcere molto peggio di come ci è entrato. La famiglia, abbandonata dalle istituzioni, non poteva essere in grado di accoglierlo in casa. La revoca della cittadinanza ha significato poi una sconfitta del percorso rieducativo. Negli ultimi tempi si era aperto un tavolo in prefettura: stavamo cercando di individuare un progetto di reinserimento sociale in Marocco, visto che tecnicamente non poteva rimanere in Italia. Adesso si torna da capo”. L’ingorgo referendario rischia di bloccare le carriere separate di Giuseppe Benedetto* Il Dubbio, 9 luglio 2024 Perché mai la maggioranza non porta subito a casa una riforma che porterebbe tanti consensi, posticipando quella sul premierato? Autonomia differenziata, premierato, separazione delle carriere. Tre riforme che dovrebbero caratterizzare l’attuale legislatura. La prima approvata con legge ordinaria, in attuazione della riforma costituzionale del 2011 di riforma del Titolo V. Le altre di rango costituzionale, dovendosi modificare alcuni articoli della Costituzione. Tre percorsi necessariamente diversi per tempi e modalità di approvazione e di attuazione. La riforma della cosiddetta autonomia differenziata è legge. Entrerà in vigore a breve, prevede tempi di attuazione di alcuni anni (nella migliore delle ipotesi). Ma non è di questo che intendo occuparmi in questa sede. E nemmeno del “merito” delle altre due riforme, quelle di rango costituzionale. Voglio invece soffermarmi su un altro aspetto, paradossalmente più urgente, in quanto prevede tempi più ravvicinati rispetto alla eventuale entrata in vigore delle tre riforme. Parlo dei referendum. Quello abrogativo (ex art: 75 Cost.) relativo alla riforma dell’autonomia e quelli confermativi (ex art. 138 Cost.) riguardanti le riforme costituzionali. Pressoché tutte le opposizioni hanno depositato in Cassazione il quesito su cui richiedere le 500.000 firme di cittadini italiani per far celebrare il referendum sull’autonomia entro la primavera del 2025. Dal 1997 ad oggi si sono svolti 8 referendum abrogativi di cui solo uno nell’ormai lontano 2011 raggiunse il quorum. Cosa fa pensare agli odierni proponenti, in una Italia dove la curva dei partecipanti al voto è in costante discesa, che tra pochi mesi (primavera 2025) su un tema che non scalda i cuori possa raggiungersi il quorum per rendere valido il Referendum (metà più uno degli aventi diritto al voto) è un mistero che ben può collocarsi tra i misteri gaudiosi, gloriosi o dolorosi. Con una conseguenza ovvia, diretta e immediata, rafforzare il governo e la maggioranza al mancato raggiungimento del quorum. Non aggiungo una riga sul merito della riforma dell’autonomia differenziata perché non è questa la sede in cui intendo affrontare la questione. All’opposto si pone il ragionamento per i due eventuali referendum costituzionali su premierato e separazione delle carriere. La presidente del Consiglio sembra, al di là delle voci di corridoio che non ci riguardano e non aiuterebbero questa analisi, determinata a completare entro il prossimo anno l’iter complesso di approvazione della riforma sul premierato, quella che lei chiama “la madre di tutte le riforme”. Anche in questo caso, mettendo per un momento da parte il merito della delicata questione, mi chiedo cosa spinga l’on. Meloni a voler imitare il fatidico tacchino che intende anticipare il Natale. Se il quorum per il Referendum abrogativo, per usare un eufemismo, sarebbe fortemente in forse, per un referendum costituzionale, come è noto, non c’è bisogno di alcun quorum. Dunque l’esito sarà valido qualunque sia il numero dei votanti. L’assist questa volta lo fa il governo all’opposizione, mai come in questo caso più unita e motivata a “licenziare” la Meloni, magari con la tacita ma fattiva collaborazione di un pezzo di maggioranza. La probabilità che tale referendum passi e dunque la riforma sul premierato divenga legge e di quelle per cui i bookmaker non accetterebbero la quotazione, avvicinandosi allo zero. Cosa muove la leader di FdI dunque è incomprensibile. Ma andiamo alla terza grande riforma in cantiere. Quella sulla separazione delle carriere tra giudici e pm. Questa volta evito per ragioni di buon gusto di affermare che non entro nel merito. È la battaglia di una vita, della mia vita. Ma anche in questo caso voglio parlare di questioni tattiche più che di fondo. Bene, il referendum costituzionale (dunque senza quorum) per la separazione delle carriere, vedrebbe la maggioranza compatta e un pezzo significativo di opposizione pronta a sostenerla, ma soprattutto secondo qualunque sondaggio ci sarebbe un’ampia maggioranza degli italiani ampiamente favorevole. Guarda caso però, con i tempi a disposizione da qui alla fine della legislatura e con gli “ingorghi referendari” di cui ho cercato di chiarire la portata (manca all’appello il referendum della Cgil sul Jobs Act), non ci sarebbe il tempo per concludere l’iter di approvazione della riforma e celebrare il relativo Referendum. Ora la domanda che sorge spontanea, e che forse ci occuperà nei prossimi mesi, è: ma perché mai la maggioranza non accelera sulla separazione delle carriere e porta a casa una riforma epocale che tanti consensi gli riserverebbe nelle urne, posticipando quella sul premierato? La domanda rientra anch’essa nella categoria dei misteri del Santo Rosario sopra citati. *Presidente Fondazione Einaudi L’Associazione magistrati del Piemonte contro Il Foglio: vietato parlare dei flop di un pm di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 luglio 2024 Per il sindacato delle toghe elencare i fallimenti del magistrato di Torino Colace “supera il diritto di critica”. Una logica di casta, che non ammette valutazioni del proprio operato né al suo interno né da parte di soggetti esterni, come i giornalisti. La giunta distrettuale del Piemonte e della Valle d’Aosta dell’Associazione nazionale magistrati si è risentita per un articolo pubblicato sabato scorso su questo giornale, dedicato ai flop giudiziari di un magistrato in servizio alla procura di Torino, Gianfranco Colace. La giunta locale dell’Anm si è spinta a emettere un comunicato stampa in cui, oltre a “esprimere solidarietà” al collega, “condanna l’ennesimo attacco portato avanti nei confronti di un singolo magistrato, condotto con toni ed espressioni che, di certo, superano il diritto di critica giudiziaria e, inoltre, appaiono fondarsi su un’errata concezione del lavoro del pubblico ministero, gravato da una ‘obbligazione di risultato’ contrastante con l’impianto costituzionale e con il fisiologico sviluppo del processo penale”. Chi credeva di vivere in una liberaldemocrazia dovrà ricredersi: ormai non sono più i tribunali a stabilire se un quotidiano ha superato il diritto di critica, sfociando in un reato (come la diffamazione), ma basta un semplice comunicato del sindacato dei magistrati, in cui peraltro non si lascia spazio a dubbi (“di certo”). Una singolare e preoccupante concezione della libertà di stampa da parte dell’Associazione nazionale magistrati, soprattutto se si considera l’articolo da cui è nata tutta la vicenda. L’articolo si limitava infatti a elencare una lunga serie di indagini condotte negli ultimi anni da Colace e terminate con l’assoluzione o l’archiviazione delle persone coinvolte (spesso a distanza di molti anni). L’ultima inchiesta, in ordine di tempo, è crollata giovedì, con il proscioglimento di tutti gli amministratori locali (tra cui l’ex governatore Chiamparino e gli ex sindaci di Torino, Appendino e Fassino) che erano stati accusati da Colace addirittura di aver contribuito alla morte di almeno 900 persone, non adottando misure adeguate per ridurre il livello di smog a Torino. L’accusa, piuttosto singolare (il reato contestato era di inquinamento ambientale colposo) e basata su accertamenti di dubbia validità scientifica, è stata bocciata in sede predibattimentale, cioè ancor prima di arrivare a processo. Partendo da quest’ultima notizia, l’articolo elencava altre indagini di rilievo condotte da Colace che si sono andate a schiantare in sede di giudizio, ad esempio quella sulla vecchia gestione del Salone del libro di Torino, conclusasi con l’assoluzione di tutti i principali imputati (tra cui, di nuovo, Fassino), e quella contro Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, accusato di falso elettorale e assolto dal tribunale di Torino (nei suoi confronti Colace aveva chiesto una condanna a otto mesi). L’articolo si concentrava, poi, sulla maxi indagine avviata da Colace nei confronti dell’imprenditore torinese Giulio Muttoni, intercettato oltre 30 mila volte con l’iniziale accusa di associazione mafiosa e poi, archiviato questo filone, accusato di corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze illecite. Nell’ambito di questa inchiesta Colace è giunto a intercettare illegalmente per tre anni circa 500 volte l’ex senatore del Pd Stefano Esposito, senza alcuna autorizzazione del Parlamento come invece richiederebbe la Costituzione. Un’attività condannata dalla Corte costituzionale con una sentenza durissima. Curioso che il comunicato dell’Anm del Piemonte, così attento all’”impianto costituzionale”, non faccia alcun accenno a questa vicenda, per la quale nei confronti di Colace è stato avviato pure un procedimento disciplinare al Csm (ignoto il suo destino). La stessa Anm, soprattutto, sembra dimenticare che è la stessa legge a prevedere che la valutazione dell’operato dei magistrati da parte del Csm debba (o meglio, dovrebbe) fondarsi anche sull’esame degli esiti delle attività delle toghe: se un pm imbastisce venti processi e di questi venti soltanto uno si conclude con una sentenza di condanna, il Csm deve (dovrebbe) tenerne conto nel valutare l’operato del magistrato. Tanto più se l’attività di questo magistrato è stata pure censurata dalla Corte costituzionale. Altro che “obbligazione di risultato”: è la legge a parlare. Ancora più curiosa è l’affermazione che l’Anm Piemonte fa nel comunicato secondo la quale “la richiesta di archiviazione non è indice di fallimento del pm, ma di serena ed equilibrata valutazione degli elementi di prova a tutela innanzitutto dell’indagato stesso, nel rispetto della cultura della giurisdizione”. Il passaggio risulta bizzarro per due motivi. Primo, solo alcune delle inchieste citate nell’articolo si sono chiuse con l’archiviazione su richiesta di Colace. Secondo, e ringraziamo l’Anm per lo spunto, ciò che emerge è una tendenza del pm Colace a chiedere - e a ottenere poi dal giudice - l’archiviazione delle indagini soltanto dopo che per anni queste sono state lasciate “a bagnomaria”, e soltanto in seguito alle richieste insistenti delle difese degli indagati. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel caso dell’indagine per associazione mafiosa contro Muttoni. Visto che Colace aveva aperto il fascicolo da anni, senza poi chiedere né l’archiviazione né il rinvio a giudizio, la difesa di Muttoni (avvocato Fabrizio Siggia) presentò istanza di avocazione dell’indagine alla procura generale della Corte d’appello. Solo dopo questo atto, Colace si decise a chiedere, dopo ben quattro anni, l’archiviazione dell’indagine. In un altro filone di indagine, il “caso Palavela”, riguardante sempre Muttoni e altri otto indagati, è andata persino peggio. Avviato nel 2017, il procedimento è rimasto a bagnomaria fino a quando nel settembre 2023 (sei anni dopo) è stato avocato dal procuratore generale Francesco Saluzzo, che ha chiesto e ottenuto l’archiviazione, disponendo pure la trasmissione degli atti al Csm per valutare eventuali provvedimenti disciplinari per Colace, che neanche aveva risposto alle richieste di informazioni da parte del pg (anche di questa valutazione disciplinare si sono perse le tracce). Chissà ora se anche queste osservazioni saranno intese dall’Anm come un “attacco” a Colace, nella tradizionale logica di una casta, che non ammette valutazioni del proprio operato né al suo interno né da parte di soggetti esterni, come i giornalisti. Sentendosi intoccabile. Reintegrate a scuola quel prof ingiustamente accusato di mafia di Simona Musco Il Dubbio, 9 luglio 2024 L’ex sindaco, assolto dall’accusa di associazione mafiosa dopo una custodia cautelare lunga 5 anni e 10 giorni, rimase senza lavoro dopo la scarcerazione per quasi due anni. Non erano bastati i processi - ingiusti - per mafia e per abuso d’ufficio aggravato dall’articolo 7, con una custodia cautelare durata ben cinque anni e 10 giorni, chiusi con l’assoluzione perché il fatto non sussiste. E nemmeno quello per turbata libertà degli incanti, conclusosi con una condanna di sei mesi per la piantumazione di alcune palme, ma con l’esclusione di qualsiasi aggravante mafiosa. A Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa (Rc), è toccato pure un processo del lavoro, per opporsi all’ingiusta sospensione stabilita dall’Ufficio scolastico regionale, che nonostante l’assoluzione lo ha messo in pausa dal ruolo di insegnante di educazione fisica, spedendolo, poi, a svolgere mansioni diverse lontano dalla sede in cui, prima dell’arresto, aveva sempre lavorato. Una sospensione, ha stabilito ora il Tribunale di Locri dopo due anni, ingiusta, tanto da imporre il pagamento di quell’anno e dieci mesi nei quali Femia è rimasto parcheggiato ingiustamente a casa. “Ho dovuto affrontare tre processi. Un accanimento incredibile. Ma alla fine ce l’ho fatta, ancora una volta”, dice Femia al Dubbio. L’ufficio scolastico aveva sbagliato nell’applicare la legge, dice ora il giudice, che contesta un errore marchiano alle istituzioni scolastiche: aver fondato la propria decisione su una legge che, al momento in cui Femia aveva commesso il fatto, non era in vigore. In base alla norma, infatti, la sospensione “è inflitta per il compimento di uno o più atti di particolare gravità integranti reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni”, per atti “non conformi ai doveri specifici inerenti alla funzione”. Tali atti riguardano una gara d’appalto per la fornitura di 40 palme: il sindaco e un suo assessore, secondo l’accusa, avrebbero agevolato una ditta in odor di ‘ ndrangheta, dando in subappalto la piantumazione delle palme sul corso principale. Ma agli atti del Comune non c’era alcuna delibera di subappalto, né una determina da parte dell’ufficio tecnico. Ma soprattutto, non c’era la fattura da 1500 euro che la procura sosteneva fosse stata pagata. Ma non solo: la ditta, in ritardo con la consegna dei lavori, era stata anche costretta a pagare una multa da 700 euro. Femia, alla fine, è stato condannato: fatale è stata, per lui, la scelta di chiedere ad un imprenditore locale - finito con lui a processo - di fargli i nomi delle persone alle quali avrebbe potuto inviare la lettera di invito a partecipare alla gara. “Una leggerezza amministrativa - ha spiegato Femia nel corso del processo -, ero ad un mese dall’insediamento”. Ma soprattutto, il sindaco avrebbe potuto affidare il servizio in maniera diretta, senza passare alcun guaio. “Per una questione di trasparenza e legalità ho preferito indire una gara e far passare tutto dall’ufficio tecnico”. Non avrebbe dovuto: dal momento che solo quell’imprenditore (che non risultava legato ai clan) presentò un’offerta, l’appalto risultò truccato, costandogli, alla fine, una condanna a sei mesi, ampiamente scontata con l’ingiusta custodia cautelare di oltre cinque anni. L’amministrazione scolastica, ragionando sull’opportunità di punirlo, ha considerato una versione dell’articolo 353 del codice penale, comma 2, entrata in vigore nel 2010, che stabiliva un massimo edittale di 5 anni. Femia, però, aveva commesso il fatto nel 2008, quando il reato veniva punito con un massimo di due anni. Non abbastanza per giustificare una sospensione. “Il principio di irretroattività (...) il quale si pone come strumento di garanzia del cittadino rispetto ai possibili abusi e arbitri del legislatore e come mezzo per “calcolare” le conseguenze della propria condotta criminosa, nel rispetto dell’autodeterminazione individuale - scrive il giudice Maria Fenucci -, trova un diretto riscontro costituzionale nel comma 2 dell’articolo 25 della Costituzione e, in un’ottica garantistica, non può che trovare applicazione anche nella specie, in quanto il presupposto per l’applicazione della sanzione disciplinare irrogata è il compimento di uno o più atti di particolare gravità integranti reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni che non può che essere valutata, anche in un’ottica disciplinare, in relazione alla legge penale più favorevole al reo vigente al momento della commissione del fatto penalmente rilevante, che ha condotto alla condanna e, da ultimo, all’attivazione del procedimento disciplinare. Conseguentemente, la sanzione disciplinare irrogata è illegittima in quanto non è stata realizzata, né in astratto né in concreto, la condizione del compimento di uno o più atti di particolare gravità integranti reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni”. Femia rappresentato dagli avvocati Santo Fortunato Barillà e Lorenzo Micari - aveva chiesto anche la restituzione delle somme decurtate nel periodo di sospensione cautelare, durato in totale 6 anni 10 mesi e 25 giorni, di cui 5 anni e 10 giorni trascorsi, appunto, in carcere. Una parte, quest’ultima, qualificata come sospensione obbligatoria. Ma non il restante anno, 10 mesi e 15 giorni, per il quale ora l’amministrazione scolastica dovrà sborsare il dovuto: essendo illegittima la sospensione, Femia “è meritevole della restitutio in integrum, con il pagamento delle differenze retributive tra l’assegno alimentare percepito e la retribuzione che avrebbe percepito, nonché con diritto alla ricostruzione della posizione contributiva”. L’ennesima vittoria dell’ex sindaco nelle aule di giustizia. E, si spera, l’ultima necessaria. Caso Lucano, la procura generale presenta ricorso contro la sentenza di Appello di Silvio Messinetti Il Manifesto, 9 luglio 2024 Ci vorrà un nuovo processo per stabile se sia stata giusta la decisione dei giudici di secondo grado: l’allora sindaco (appena rieletto) “mai ha neppure pensato di guadagnare sui rifugiati”. La procura generale di Reggio Calabria non ci sta e impugna in Cassazione la sentenza emessa dalla Corte d’Appello nei confronti di Mimmo Lucano, assolto dai reati più gravi sulla gestione dei progetti di accoglienza ai migranti al tempo in cui era sindaco di Riace, per il suo terzo mandato consecutivo. Diversi i punti che ad avviso della Procura generale non sono stati correttamente valutati dai giudici di piazza Castello. Nelle 33 pagine di ricorso firmato dall’avvocato generale Adriana Costabile e dai sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antono Giuttari viene smontato il provvedimento di gravame che risulterebbe “affetto da erronea applicazione degli artt. 266, 270, 271 cpp, e da contraddittorietà e illogicità della motivazione per aver ritenuto l’inutilizzabilità delle intercettazioni disposte con riferimento al reato di truffa aggravata. La Corte d’Appello, infatti, ha ritenuto - annota la procura generale - sulla base di una verifica statica ancorata al momento genetico dell’intercettazione, siccome demandata al giudice, che non fossero presenti i presupposti di legge per disporre il mezzo di ricerca della prova, sulla scorta di una riqualificazione del reato operata solo nel secondo grado di giudizio; la Corte d’appello - con motivazione del tutto illogica - non ha considerato che proprio nel caso in esame la captazione correttamente autorizzata, è stata disposta sul presupposto della esistenza di gravi indizi di reato e, pertanto, rimane del tutto insensibile al fisiologico sviluppo del procedimento, secondo il principio di diritto più volte espresso in materia dalla giurisprudenza di legittimità e, peraltro, astrattamente richiamato nella stessa sentenza che qui si chiede di cassare”. Ad avviso della Procura generale la questione probatoria è dirimente nella vicenda processuale, “atteso che le gravi irregolarità sulla rendicontazione, attinenti al complesso meccanismo della erogazione di contributi pubblici emerso nel corso delle indagini e su cui è stata resa ampia testimonianza in dibattimento trovano spiegazione logica circa le intenzioni truffaldine solo in esito alla valutazione del compendo probatorio derivante dai dialoghi intercettati, dai quali in modo inequivoco emerge il ruolo centrale nella vicenda di Lucano; in essi, infatti, ripetutamente i conversanti fanno riferimento alla necessità di far confluire anche acquisti e spese non pertinenti alle finalità istituzionali previste dalla legge tutti nella causale relativa al progetto di accoglienza e integrazione in favore dei rifugiati”. Secondo il ricorso della Procura reggina, presentato anche nei confronti di altri 12 imputati assolti dai giudici di seconde cure, “si evidenziano dati concreti da cui desumere profili di responsabilità penale in capo all’amministrazione del comune di Riace e in specie alla figura del sindaco Lucano, nonché nei confronti dei responsabili delle associazioni (enti attuatori del programma di accoglienza e integrazione dei migranti secondo il progetto Sprar) con particolare riferimento a Fernando Antonio Capone, prestanome e braccio destro del sindaco Lucano”. Le motivazioni della sentenza pubblicate ai primi di aprile avevano segnato una riabilitazione integrale di Lucano e del cosiddetto “modello Riace” riconoscendo che il neodeputato europeo e da poco rieletto sindaco del borgo jonico “mai ha neppure pensato di guadagnare sui rifugiati” e “ha sempre perseguito un ideale di integrazione, conforme peraltro alle finalità proprie del sistema Sprar”. La sentenza d’appello aveva accolto praticamente tutti i punti principali sollevati dal ricorso delle difese e lanciato critiche esiziali alla sentenza di prime cure contestandone la dimensione elefantiaca “che offusca le ragioni della decisione”, oltre che “l’integrale e acritica trascrizione delle prove”. Un approccio seguito dal collegio d’appello che ha aperto una distanza abissale con i giudici di Locri a cui è stata contestata una malcelata politicizzazione della decisione a discapito delle tecnicalità giuspenaliste e della solidità dei capi d’imputazione. Ergo, circa l’associazione a delinquere secondo i giudici d’appello dall’ampia istruttoria non sarebbe emerso nulla “per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza di una struttura associativa”. Sulla truffa sarebbe mancata “la prova degli elementi costitutivi il reato”. E il peculato “non è configurabile per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato”. La parola passa ora ai giudici capitolini di Piazza Cavour. Il processo si celebrerà all’inizio del 2025. Varese. Detenuto di 57 anni si suicida in carcere: era stato arrestato per furto di Enrico Spaccini fanpage.it, 9 luglio 2024 Un 57enne si è tolto la vita nella sua cella nel carcere Miogni di Varese. Stando a quanto appreso, l’uomo era italiano e si sarebbe suicidato impiccandosi nella notte tra lunedì 8 e martedì 9 luglio. Con problemi di tossicodipendenza, il detenuto era stato arrestato lo scorso settembre per furto. Il 57enne, inoltre, era coinvolto nell’inchiesta di Pianbosco del 2018 sulla morte di un 25enne in seguito a uno scontro tra bande rivali legate al mondo dello spaccio. Quello che riguarda il 57enne a Varese è il 56esimo suicidio di persone detenute nelle carceri italiane. L’ultimo che ha riguardato una casa circondariale lombarda è avvenuto solo il 4 luglio scorso, al Torre del Gallo di Pavia. In quel caso, a togliersi la vita è stato Yousef Hamga, un 19enne di origine egiziana che ha usato un lenzuolo della sua cella. Il ragazzo, che in quel momento si trovava nella sezione dedicata all’osservazione isolati, era stato soccorso da un agente della polizia penitenziaria che stava effettuando un giro di controllo. Trasportato d’urgenza in condizioni disperate al Policlinico San Matteo di Pavia, è deceduto dopo pochi giorni di ricovero nel reparto di Rianimazione. Sulla morte di Hamga è stata avviata un’indagine interna al carcere che cercherà di ricostruire tutti gli elementi che hanno portato il giovane a togliersi la vita. Pare, infatti, che il 19enne avesse manifestato da tempo sintomi di disagio psicologico. Non è chiaro, però, se il ragazzo stesse seguendo o meno una terapia adeguata. Roma. Ishaq si è impiccato in cella a Regina Coeli: aperta un’inchiesta di Irene Famà La Stampa, 9 luglio 2024 Immigrato in Italia dal Pakistan era passato dal vendere pannocchie sul litorale del Circeo a qualche furto in strada. Arrestato, aveva chiesto di essere trasferito nel “repartino” della Casa circondariale. Vita sfortunata la sua. Qualche scelta sbagliata e il destino, che l’ha fatto nascere in una delle zone più povere del Pakistan. Sette anni fa ha cercato fortuna in Italia. Con in tasca il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria e dopo qualche guaio con la giustizia, ha costruito un carretto con cui vendeva pannocchie sul lungo mare del Circeo. Intraprendente, sì. Ma la legge non fa sconti. Nessuna licenza, nessun permesso, e lo scorso agosto il carretto gli viene sequestrato. Ishaq Mohammad Khan non ha casa. Qualche amico capita che lo ospiti, il resto del tempo lo passa in strada. A settembre 2023 viene arrestato per rapina aggravata e lesioni. Condannato a due anni e otto mesi per aver cercato di rapinare una donna a Torpignattara, a sud est di Roma, e portarle via il portafoglio minacciandola con un coltello. Ishaq respinge ogni accusa. “Con quella rapina - ripete ai suoi legali, gli avvocati Maria Cleo Feoli e Andrea Dini Modigliani - non c’entro nulla”. In carcere, così raccontano a Regina Coeli, discute con altri detenuti. Viene preso di mira, così dicono. Calci, pugni, sputi. Ishaq ha paura. Riesce a farsi trasferire di sezione, ma non vuole fare denuncia. Il silenzio è tra le prime “regole” che si imparano in cella: Ishaq lo sa. Sulle braccia porta le cicatrici di gesti autolesionistici e dal 31 maggio viene messo sotto “strettissima sorveglianza”. Significa che qualcuno passava a controllarlo ogni venti minuti. Lui chiede di essere trasferito al “repartino”, l’area del carcere dedicata ai detenuti con fragilità psichiche. Il 4 giugno viene spostato nella settima sezione. “Un ingovernabile porto di mare in cui è ospitato chi è appena arrivato, chi è in attesa di essere trasferito, chi è sottoposto a provvedimenti disciplinari”. Il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, non utilizza mezzi termini. “Non vengono garantite le ore d’aria e di socialità”. Alle 22,40 Ishaq si impicca alla porta della cella. I suoi compagni dormivano e non si accorgono di nulla. Sulla morte di Ishaq, la procura di Roma ha aperto un’inchiesta per colpa medica al momento a carico di ignoti. E il pubblico ministero Attilio Pisani ha dato delega per acquisire atti e documentazione. Il suicidio di Ishaq accende un faro sulla situazione carceraria. Trentanove i suicidi in cella nel 2024, tre nel Lazio, due a Regina Coeli. “Una realtà storicamente complicata e strutturata male”, dichiara Valentina Calderone, garante dei detenuti di Roma. Sovraffollamento, condizioni strutturali non adeguate, carenza di personale. “Tutto questo incide sul senso di insicurezza, di sostanziale abbandono - aggiunge Calderone - Si tratta di condizioni di vita illegali, in cui non c’è margine di rispetto dei più basilari diritti delle persone”. Livorno. Suicidio in carcere, è emergenza. “Servono i poliziotti, ma senza caserma non verranno” di Stefano Taglione Il Tirreno, 9 luglio 2024 Fra le richieste del Comune all’amministrazione penitenziaria anche l’apertura di una sezione femminile alle Sughere. Tre richieste, risalenti a prima di Natale, dal Comune all’amministrazione penitenziaria. Nessuna risposta, almeno per il momento. Si è mosso anche palazzo civico per arginare l’emergenza Sughere, il carcere livornese nell’occhio del ciclone da settimane dopo il suicidio di un detenuto di 35 anni, il sovraffollamento delle celle, la carenza di personale di guardia, i padiglioni che cadono a pezzi, topi e blatte ovunque, le telecamere fuori uso dalla terribile alluvione del 2017 e perfino un’evasione da film, poco più di due settimane fa, dall’alta sicurezza (conclusa con la cattura, a Roma Tiburtina, del fuggitivo Umberto Reazione, salito su un treno proprio alla stazione di Livorno centrale dopo la fuga neanche ben pianificata da via delle Macchie). A riepilogare i punti cardine l’assessore comunale al sociale, Andrea Raspanti, che auspica un tavolo di confronto permanente con la stessa amministrazione penitenziaria. Lo auspicava già prima della tragedia dei giorni scorsi, che purtroppo ha registrato la morte del trentacinquenne livornese, deceduto dopo pochi giorni in ospedale a causa delle gravissime condizioni conseguenti al tentativo (poi purtroppo concretizzatosi) di togliersi la vita. Il secondo in poche ore, dopo che era stato salvato dal compagno di cella e messo sotto sorveglianza. “Le nuove sezioni disponibili dopo i lavori di ristrutturazione - spiega Raspanti, assessore al sociale da cinque anni e recentemente riconfermato dal sindaco Luca Salvetti dopo le centinaia di preferenze raccolte alle urne - non siano considerate aggiuntive rispetto alle vecchie, ma si vadano a chiudere le ali di media sicurezza come l’ex transito e la verde (l’ex femminile) per essere rimesse in sesto, con la prospettiva di riportare il reparto femminile a Livorno e garantire una territorialità della pena. Serve poi - prosegue il delegato al sociale, il cui assessorato comprende anche la tematica delle case - una maggiore attenzione alle aree trattamentali, soprattutto per recuperare l’area polivalente, visto che le nuove sezioni sono state costruite come luoghi di custodia e non per attività extra. Infine bisogna ristrutturare la caserma della polizia penitenziaria, chiusa da 15 anni: se in futuro il carcere diventerà più grande, con maggior capienza rispetto a ora e già oggi scontiamo una pesante carenza di personale di guardia, è chiaro che senza luoghi riservati ai poliziotti nessuno, dal resto d’Italia, verrà a lavorare qui se dovrà pagarsi metà di uno stipendio, purtroppo già decisamente basso, nell’affitto di una casa a mercato libero. I problemi quindi non verranno risolti, resteranno inalterati”. Palermo. Detenuto morto all’Ucciardone. “18 persone in 30 metri quadrati, condizioni disumane” palermotoday.it, 9 luglio 2024 Il Garante, Pino Apprendi, si è recato in carcere: “La situazione del passeggio? Un gabinetto all’aperto alla turca senz’acqua, rifiuti, bottiglie di plastica, sterpaglie ed escrementi vari”. Il detenuto morto sabato sera nel carcere Ucciardone era “cardiopatico, diabetico, con gravi problemi respiratori e per questo ricorreva all’ossigenoterapia. Inoltre, era assistito da un piantone nella cella e quando ha avuto la crisi cardiaca è stato seguito dal medico e due infermieri. C’è da chiedersi se una persona con queste patologie non possa scontare la pena in maniera alternativa”. A dirlo è Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, che dopo la morte per un arresto cardiaco di un detenuto nell’ottava sezione dell’istituto penitenziario del capoluogo siciliano e la protesta, scattata poco dopo (i due eventi non sono collegati), di quelli della nona sezione dello stesso carcere ha voluto incontrare alcuni di loro per “capire le motivazioni che li avevano spinti a tale decisione”. “Ho avuto modo di ricevere tutte le necessarie informazioni dal direttore sanitario, Gaetano Anello, in presenza sul direttore del carcere Fabio Prestopino”, dice Apprendi, sottolineando che nella nona sezione “si trovano persone rinchiuse con l’articolo 32 o con il 14 bis che prevedono l’isolamento, un isolamento a tempo che difficilmente si esaurisce proprio perché le condizioni sono disumane e la protesta è dietro l’angolo. Fra l’altro, ci sono anche persone con gravi problemi psichiatrici”. Il garante dei detenuti di Palermo aggiunge: “Due persone in poco più di dieci metri quadrati, senza potere fare alcuna attività che tenda a un possibile ravvedimento e conseguente reinserimento nella società. Due ore di passeggio al mattino e due ore al pomeriggio, che spesso diventano un’ora e mezza a causa della mancanza di personale”. “Un ‘passeggio’ per modo di dire - sottolinea Apprendi - ci sono fino a 18 persone in circa 30 metri quadrati, con un gabinetto all’aperto alla turca, senz’acqua e circondati dai rifiuti, bottiglie di plastica, sterpaglie ed escrementi vari. Chi salta la doccia al mattino non può farla il pomeriggio perché doccia e passeggio sono in contemporanea. Poi ci sono gli episodi scatenanti, come quello di avere comunicato che sabato pomeriggio non sarebbero usciti dalla cella per telefonare oppure l’episodio di mercoledì quando i parenti, locali o provenienti da Catania, Siracusa, sono stati rimandati a casa senza fare il colloquio e con tutto il cibo che avevano portato. Scontare la pena ma nel rispetto della persona, una pena umana”, conclude. Treviso. Materassi a terra, docce sulle turche e rivolte: il carcere per minori è una bomba sociale di Serenella Bettin Il Domani, 9 luglio 2024 Celle piene. Ne può contenere 12, ma sono 24 i reclusi. E si lavano sui wc alla turca. L’effetto del decreto Caivano voluto dal governo si fa sentire. “Temiamo una nuova rivolta”, dicono gli agenti. “Capoposto non siamo animali che dobbiamo dormire in questo stato!”. Lo vedi subito il carcere di Treviso. Se ne sta qui incastonato tra le case, in via Santa Bona Nuova, alle porte della città trevigiana, cinto da enormi e invalicabili mura. Sopra le mura, le torri di guardia. E, sotto le torri di guardia, le recinzioni, il filo spinato. Gli effetti perversi del decreto Caivano, che anziché prevedere percorsi rieducativi ha sbattuto in carcere i minori detenendoli al limite della dignità, li vedi qui, dove i ragazzi sono il doppio rispetto alla capienza consentita. Venerdì 5 luglio ne è arrivato un altro, e nella lettera di ingresso c’è scritto: “La stanza 5 è già al massimo della capienza”. Questo comporta il “dover aggregare un ulteriore materasso di emergenza”, “tutti i componenti iniziano a protestare: capoposto non siamo animali che dobbiamo dormire in questo stato”. Ventiquattro, quando dovrebbero essere 12. E a breve saranno pure 26. Dormono a terra su materassi e si lavano sopra la turca dove defecano. Un lugubre posto fatto di vento rappreso e cancelli, di lampeggianti accesi, di cancellate che sbattono, si chiudono, si riaprono e si richiudono di nuovo, per far entrare e uscire i parenti in una lenta litania di angoscia, oppressione e tristezza. Il portone blu è quello del carcere per gli adulti. La porta a vetri è per i minorenni. Quando si chiude, quel rumore metallico blocca lo stomaco. Quando giunge la notte, quello scampanellio di chiavi che apre e chiude le celle fa trasalire. Un’unica sezione detentiva, e a destra e a sinistra le stanze di “pernottamento”. Stanze per tre persone, dove dentro dormono in sei. Chi non ci sta sulle brande dorme a terra, sopra i materassi. Rannicchiati, rattrappiti, le teste che spuntano da sotto i letti di chi ce l’ha fatta ad accaparrarsi una branda. Domani ha visto alcune immagini che testimoniano lo stato in cui si trovano i detenuti minori. Un poliziotto, cui garantiamo l’anonimato, ha deciso di denunciare la situazione: “Sta diventando ingestibile, ora, ci sono 24 ragazzi, dovrebbero essere 12”. La denuncia - Un rapporto della associazione Antigone che si batte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, parla, per questo istituto, di “capienza regolamentare di 12 posti”. Anzi, scopriamo che già due anni fa c’erano state segnalazioni. Nel 2022 qui ci fu una rivolta: i ragazzi appiccarono il fuoco, incendiarono i materassi, protestavano per il vitto e alcuni agenti rimasero sequestrati. E dire che all’epoca erano 15, oggi sono 24. Quelli della rivolta vennero trasferiti. “Quella notte fu terribile”, raccontano le nostre fonti, “e temiamo accada di nuovo”. L’associazione Antigone, che si era recata sul posto nei giorni a seguire, scriveva: “L’istituto ci è stato descritto come gravemente sovraffollato: la ristrettezza degli spazi, già di per sé problematica con una presenza regolamentare, in un contesto sovraffollato costringe ad adattamenti ritenuti del tutto inadeguati”. “Le camere”, ci racconta il poliziotto, “sono abbastanza fatiscenti. Siamo troppo pieni. Dormono buttati lì, su un materasso. Non c’è nemmeno l’aria condizionata, hanno i ventilatori sì, quelli grandi, ma con l’afa che c’è qui… Tutti appiccicati”. Dalle immagini si vedono le teste di chi dorme su una piastrella comparire giusto accanto alle teste di chi riposa in branda. Da dire che questi giorni l’afa ha ceduto il passo al maltempo e al vento, che qui dentro però non arriva; il vento che gira è sempre quello, rappreso e condensato, impacchettato in gocce di sudore e angoscia. Ma il Veneto d’estate raggiunge picchi di caldo notevoli, e l’umidità a volte non consente di respirare. Sempre Antigone scriveva: “Le camere (singole, doppie o triple) sono in condizioni piuttosto fatiscenti, come del resto l’intero istituto”. A guardarlo da fuori - ora l’hanno ridipinto di rosa - potrebbe anche sembrare “accogliente”, e invece. “Pensi che l’altro giorno”, ci racconta sempre il poliziotto, “un ragazzo doveva andare in bagno, ma, siccome la turca della sua stanza era occupata, non ha resistito e se l’è fatta addosso. I bagni sono pensati per 12, non per il doppio. E dove fanno i loro bisogni, si lavano anche”. Scusi? “Sì, sì”. Le immagini sono esaurienti. Un buco di un metro per uno, dove i detenuti si fanno anche la doccia. C’è la turca grigia di metallo, con attaccata una grata. Se prendi la grata e la posizioni sopra la turca, in alto c’è il sifone per lavarsi. “I bagni”, fa sapere Antigone, “risultano essere inadeguati: si nota qui la presenza delle turche, le quali sono dotate di una griglia abbassabile per poter consentire le docce. La sovrapposizione tra la doccia e la turca è un aspetto critico: solleva degli interrogativi sia rispetto alle condizioni igienico-sanitarie, che alla gestione dei turni tra i detenuti per quanto riguarda l’uso del bagno”. “Insomma avranno anche commesso reati, ma sono sempre delle persone”, sbotta il poliziotto. Qui a Treviso si trova anche il ragazzo che il 28 giugno scorso aveva ammazzato Michelle Causo, a Roma, e poi l’aveva lasciata su un carrello della spesa. Qualche settimana fa lui è rimasto al centro di una polemica perché dal carcere userebbe i social. “I ragazzi”, ci spiegano, “assistono a delle lezioni. Il professore quel giorno aveva portato un router e lui era riuscito a connettersi, crearsi un profilo falso e andava a spiare altri profili. Del resto, in queste condizioni cosa vuoi riformare qui dentro?”. La protesta del sindacato - E ora a denunciare la situazione è anche il sindacato. “Oggi”, fa sapere Giovanni Vona, segretario nazionale del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) per il Triveneto, “sono presenti 24 detenuti a fronte della capienza massima di 12. Questo comporta gravissime difficoltà nella gestione di ogni attività. Il personale si trova costretto a reperire brande di fortuna e a collocare materassi direttamente sul pavimento per poter accogliere i nuovi giunti. È impossibile dare esecuzione a un isolamento per motivi sanitari, una sanzione per motivi disciplinari o un divieto d’incontro tra minori a seguito di una rissa, episodio frequente in un contesto minorile”. Anche perché poi, per ogni detenuto ci vogliono tot agenti, ma “la pianta organica di 38 unità di polizia penitenziaria è studiata per una capienza di 12 detenuti”. Il governo nei giorni scorsi ha detto che avrebbe mandato altri 11 agenti. Ma la soluzione non è certo aumentare gli agenti, piuttosto dovrebbero diminuire i giovani detenuti: anche perché già sono stretti, se si aggiunge pure personale lo spazio diminuisce. “Questo sovraffollamento”, ci fanno sapere fonti riservate dal carcere, “un anno fa non c’era. È accaduto dopo il decreto Caivano, ed è dovuto a questa possibilità che hanno i magistrati di trarre in arresto le persone e alla grave carenza di detenuti minori in uscita nelle comunità. Sono previsti dei trasferimenti, ma per questi ci vogliono gli uomini, scorte”. Noi abbiamo provato a chiedere conto al direttore, ma ancora non ci è giunta nessuna risposta. “Un numero così alto di detenuti per l’istituto potrebbe causare, in una rivolta, un’evasione di massa”, continuano dal sindacato, “siamo preoccupati che da qui a breve possa riaccadere quanto avveratosi nell’aprile 2022, ma con conseguenze ben peggiori”. Quella rivolta, come fa sapere il Garante dei diritti della persona del Veneto nella relazione annuale, aveva provocato la chiusura per più di un anno per lavori di ristrutturazione. E ora auspica un “trasferimento del nuovo Istituto penitenziario minorile che avrà sede a Rovigo”. Milano. Carcere minorile Beccaria, notte di disordini e di ordinaria follia Il Dubbio, 9 luglio 2024 La notte scorsa nel carcere minorile Beccaria di Milano è divampato un incendio. Ne dà notizia Aldo di Giacomo segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria, che spiega che “con l’incendio appiccato la notte scorsa si è sfiorata la tragedia. Solo grazie all’intervento dei vigili del fuoco si è riusciti a domare le fiamme all’ interno dell’istituto. Sono intervenute due autoambulanze che hanno portato due colleghi in codice verde. - spiega di Giacomo - vi è una unica strategia dietro i tre incendi in 12 ore in tre diversi istituto minorili (Roma, Nisida e Milano). A Casal del Marmo (Roma) la scintilla di una situazione incandescente è stata una rissa, scatenata da un giovane detenuto che ha dato in escandescenze. A fatica gli agenti della penitenziaria sono riusciti a riportare l’ordine. Attimi convulsi nel corso dei quali è stato chiesto l’ausilio della polizia di Stato che però, pur raggiungendo il carcere, non è intervenuta, restando all’esterno pronta a supportare”. Bocciato il decreto Caivano - “Ci aspettiamo nuove manifestazioni di protesta negli istituti per minori - dice Di Giacomo - È questo il secondo fronte esplosivo del sistema penitenziario. Lo Stato ha abbandonato anche gli istituti per minori in balia dei rivoltosi. Questi sono tra l’altro i risultati del decreto Caivano con il quale siamo al massimo di detenuti minori degli ultimi anni, ben 558”. Di Giacomo, che per due giorni ha protestato in catene davanti gli uffici del Ministro Nordio, annuncia altre iniziative di protesta e ribadisce la richiesta di dimissioni del Ministro Nordio e del sottosegretario Delmastro. “Non possiamo ulteriormente tollerare - aggiunge - che i massimi responsabili politici dell’Amministrazione Penitenziaria, come se nulla di così grave stia accadendo, restino al loro posto spacciando il “decretino carcere tutto come prima” per la soluzione dell’emergenza carcere che ha raggiunto livelli mai registrati prima e che fa somigliare le nostre alle carceri sudamericane. Come non è più sopportabile che il sottosegretario Del Mastro, in giro per gli istituti in occasione delle nuove assunzioni del tutto inadeguate a fronteggiare la carenza di organico, continui ad elogiare il lavoro del personale salvo a lavarsi le mani rispetto a condizioni di lavoro che sono le stesse dei lavoratori extracomunitari questa estate nei campi”. “Con l’aggravante, oltre a sei suicidi di colleghi dall’inizio dell’anno e 54 detenuti, che alle 12 ore di lavoro di media, alla rinuncia delle ferie - dice Di Giacomo - bisogna aggiungere i 2mila agenti aggrediti e costretti alle cure dei sanitari dall’inizio dell’anno. Avevamo ampiamente previsto che sarebbe stata un’estate caldissima e siamo solo all’inizio. Ripetiamo: non siamo pronti a fronteggiare l’estate e siamo stanchi - conclude - di pagare il pezzo più alto con il rischio di incolumità personale per responsabilità politiche”. Alessandria. Inferno carceri, i sindacati: “Servono le unità speciali” di Giuseppe Legato e Adelia Pantano La Stampa, 9 luglio 2024 Drammatica la fotografia dell’emergenza negli istituti di pena piemontesi tra carenza di personale: interrogazione di Italia Viva al ministro Nordio. La crisi del sistema carcerario italiano non trova eccezioni (semmai conferme) nella prospettiva degli istituti di pena e delle case circondariali piemontesi. Tra assenza di personale di polizia penitenziaria, sovraffollamento di diverse strutture rispetto al tetto massimo di detenuti ospitabili, carenza di educatori e personale medico, il cahiers de doléances è lungo e articolato aggravato dalle ultime statistiche sui suicidi (tentati e riusciti) e sui gesti di autolesionismo all’interno delle celle sintomo di una problematica permanenza e sopravvivenza degli “ospiti” nei luoghi di detenzione. Con alcune situazioni che nessuno esita a definire fuori controllo. È il caso di Asti dove i detenuti ammutinati bivaccano nei corridoi e stanno impedendo di chiudere anche i cancelli dell’area di isolamento, avendo così il controllo di una porzione del carcere. “I detenuti che si rifiutano di rientrare in cella sono quasi tutti ergastolani. Il personale è sotto scacco e senza direttive: per riportare l’ordine serve l’intervento delle unità speciali promesse dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro”. Questa la richiesta dei sindacati della polizia penitenziaria al prefetto di Asti, Claudio Ventrice, che l’altro ieri ha incontrato d’urgenza i rappresentanti di Sappe, Sinappe, Osapp, Uilpa, Uspp, Fns Cisl e Cgil rispondendo al loro appello per un confronto sulle condizioni dell’istituto di alta sicurezza di Quarto, definito “fuori controllo”. Il prefetto ha raccolto le istanze dei sindacati e si è impegnato ad attivare i canali istituzionali per sollecitare l’intervento del ministero. Sul caso di Quarto il senatore Ivan Scalfarotto, capogruppo Italia Viva in commissione giustizia, ha presentato un’interrogazione al ministro Nordio. “Ho chiesto - spiega Scalfarotto - quali provvedimenti intenda adottare per ristabilire immediatamente l’ordine e la sicurezza nel carcere di Quarto, garantendo il rispetto delle regole e la protezione del personale penitenziario”. Senza comandanti - Prima ancora di entrare nel merito di tutto questo, va annoverata l’allarme lanciato dall’Osapp (uno dei più rappresentativi sindacati di polizia penitenziaria in Piemonte) anche sugli organici dirigenziali. Al netto di Torino, certificato dallo stesso dipartimento come istituto tra i più complessi d’Italia insieme a Firenze Sollicciano e in cui il Dap ha appena stabilito l’arrivo di un dirigente di polizia aggiunto al posto dell’ormai ex comandanti Sara Brunetti (destinata a Regina Coeli, Roma), altre strutture non hanno il comandante (o ce l’hanno a scavalco) sostituito da (pur lodevoli) ispettori. Ivrea, ad esempio non ha un comandante titolare - secondo Osapp - e lo stesso vale per Ivrea, Vercelli, Verbania, Asti, Saluzzo e Fossano. A Cuneo c’è un dirigente aggiunto (non di primo livello), pur a fronte di un carcere complesso per via - anche - del 41 bis. “Il vuoto dei comandanti - racconta il vicesegretario generale dell’Osapp Gerardo Romano - significa assenza di punti di riferimento per le direzioni e per tutto il personale a discendere. Attingendo peraltro ispettori per sostituirli si distoglie ulteriore forza lavoro nei piani delle strutture impiegati al contempo fuori-funzione”. I buchi del personale - Chi vive all’interno del carcere sa bene quanto sia indispensabile la presenza di ispettori e sovrintendenti della penitenziaria. Hanno preparazione ed esperienza in grado di gestire criticità e focolai di protesta, sanno aiutare a crescere - con la giusta pazienza - le giovani reclute. Mediano, hanno polso, sono “riconosciuti” dai detenuti. Ma ce ne sono pochi. Troppo pochi. Ad Alba, per dirne una, mancano sei ispettori e 12 soprintendenti, a Cuneo prestano servizio 5 ispettori effettivi su 24 previsti, sei sovrintendenti (amministrati) su 37 previsti. Stride inoltre la carenza di educatori e l’assenza totale di mediatori, a fronte del predominante numero di detenuti non madrelingua italiana. A Saluzzo lavorano 190 effettivi di polizia sui 231 previsti dalla pianta organica. Alessandria di iscrive alla lista delle strutture problematiche su questo versante: 30 agenti in meno del necessario nella casa di reclusione San Michele e 129 agenti (su 171 previsti) nella casa circondariale “Cantiello e Gaeta”. Il carcere di alta sicurezza a Quarto d’Asti - E poi c’è Asti. Dove il numero di sottoufficiali è inferiore di un quarto rispetto al platfond previsto: 157 poliziotti contro 186 unità riconosciute. In servizio - peraltro - non ci sono tutti, bisogna sottrarre riposi, ferie, malattia. E questo dato va contestualizzato su un carcere diventato ad alta sicurezza in cui la maggior parte dei detenuti sconta pene per reati di mafia. Con tutto ciò che ne consegue sull’attrezzatura - di esperienza e formazione - che il quadro richiederebbe. “Anche perché - aggiunge Romano - sovrintendenti e ispettori hanno ruoli di raccordo tra il comandante e gli agenti che operano nell’inferno delle sezioni detentive e che necessitano di essere supportati in tutte le attività quotidiane della popolazione detenuta. Il personale è stressato. Lavora dalle 13 alle 15 ore al giorno mettendo a rischio la loro salute sia negli istituti per adulti che nelle strutture deviate alla detenzione minorile”. Il sovraffollamento - Al netto dei drammatici numeri di Torino (1488 contro 1118 posti), ci sono altre strutture piemontesi alle prese con la presenza di detenuti di gran lunga superiore al consentito. Ad Asti - per cominciare - sono ospitati 267 detenuti anziché 207. In condizioni denunciate dai sindacati: continua a piovere dentro l’istituto a causa di problemi strutturali, spesso manca l’acqua calda nelle celle. Nelle sale colloquio dove in estate si superano i 40 gradi, sono assenti i condizionatori. A Vercelli sono reclusi 323 detenuti contro i 230 posti disponibili. Ancora: ad Alessandria 358 detenuti rispetto a una capienza di 265. Meglio a Saluzzo (342 ospiti su 441 posti) e a Verbania 77 detenuti su capienza massima 89. E in attesa che il legislatore valuti di adottare provvedimenti su tutta la popolazione carceraria “su questa drammatica emergenza - spiega il sindacalista Romano - bisogna trovare una soluzione immediata soprattutto per i detenuti con problemi psichiatrici e con dipendenza dalle droghe”. La piaga dei morti - Alla data del 30 giugno il numero di suicidi avvenuti nelle carceri piemontesi è giunto a 5, cioè il totale registrato nel 2023. I tentati suicidi sono - nei primi mesi dell’anno - 40, in media con le risultanze precedenti. Nel primo semestre del 2024 - date garante regionale dei detenuti Bruno Mellano - i gesti autolesionistici avvenuti nei penitenziari piemontesi sono stati 404, contro i 544 complessivi del 2022 e i 607 dell’anno appena trascorso. I dati più drammatici si registrano a Ivrea dove da gennaio a giugno 2024 si sono raggiunti i livelli dell’intero 2023 (107 contro 102) o ad Alessandria (San Michele): 53 casi in sei mesi contro 55 dell’annualità appena trascorsa. Nell’altro carcere cittadino (Cantiello) 61 detenuti si sono feriti da soli da gennaio a giugno 2024 contro gli 83 dei dodici mesi precedenti. Male anche Vercelli (44 casi contro i 43 del complessivo 2023) e Cuneo /43 autolesioni contro le 63 dell’anno prima). Un tema di assenza di controllo per il sindacato “dettata dalla gravissima carenza di personale”. Romano fa un esempio: “Un agente solo talvolta deve assicurare 4/5 posti di servizio che equivalgono al controllo di 150 detenuti: una missione impossibile. Solo alcune istituzioni sembra non lo comprendano”. Roma. A Regina Coeli record di sovraffollamento: 1.150 detenuti con una capienza di 600 di Alessia Marani Il Messaggero, 9 luglio 2024 Nel carcere romano il rapporto tra posti occupati e disponibili è del 183% contro il 130 nazionale. L’ultimo report del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, relativo al “monitoraggio delle camere e degli spazi di detenzione” delle carceri italiane assegna a Regina Coeli un autentico record, ossia un livello di sovraffollamento pari al 183,89 per cento rispetto a una media nazionale che è del 130 per cento. Tra i più alti di Italia insieme a Foggia. Altri numeri rendono l’idea di quanto la gestione della sicurezza all’interno dell’istituto protagonista nelle ultime settimane di disordini, se non di una vera e propria rivolta esplosa il 27 giugno scorso nella terza sezione (coinvolte 200 persone) seguita da un’altra un paio di giorni dopo (nella quarta, coinvolti in 80), sia a rischio: attualmente i detenuti sono infatti 1.150 quando la capienza massima consentita sarebbe di 600 e questo a fronte di appena 280 agenti di polizia penitenziaria dislocati su turni, con ferie e riposi annessi, quando da pianta organica dovrebbero essere 400. Il tutto inevitabilmente si traduce in un clima rovente non solo per le temperature calde di questo inizio d’estate ma anche perché tra le sbarre, i corridoi e gli spazi comuni dove i reclusi passano la maggior parte del tempo, gira di tutto: dalla droga ai distillati fai-da-te fino, soprattutto, ai telefonini. Ricreando in una zona in cui l’espressione della giustizia dovrebbe essere all’apice, un microcosmo in cui si replicano - con regole proprie - le dinamiche della malavita con tanto di “capibastone” e “piazza” di spaccio. Avere la disponibilità di un cellulare in carcere è assolutamente vietato. Bisogna impedire che i detenuti abbiano contatti con l’esterno, specie per impedire loro di potere continuare con traffici e operazioni illecite. Scontato, si direbbe. Ma così non pare, almeno a farsi un giro nella rete. Spuntano fuori persino i video su Tik Tok che hanno immortalato in diretta la rivolta esplosa nella terza sezione, girati dall’interno delle celle. Urla e boati. Qualche video è accompagnati anche da una “colonna sonora” fatta di canzoni neomelodiche. In uno si sente l’esplosione di quella che sembra una bomba carta o una molotov improvvisata, seguono le fiamme, mentre i detenuti inneggiano alla rivolta: “Evvai, vai zi’...”, un’altra voce irrompe “vai che je stamo ad allaga’ una sezione...”. E ancora: “Daje Regina Coeli daje”. Due giorni dopo altro tentativo di ribellione nella quarta sezione. Qualcuno ha sfondato persino i pannelli in plexiglass precipitati dal terzo piano, pensare che dovevano servire a impedire il lancio di oggetti dai “finestroni”. Per riportare gli animi alla calma era stato necessario l’intervento del Presidente del Tribunale di sorveglianza e del magistrato di Sorveglianza di Roma. Solo una settimana prima sul posto si era recato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. “Le condizioni lavorative del personale di polizia penitenziaria, pedagogico, sanitario e amministrativo sono sempre più in difficoltà nelle attività da svolgere in tale ambito”, scriveva in una nota l’Uspp Lazio, l’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria, ribadendo che “se non ci saranno interventi urgentissimi sarà il caos”. Per il segretario regionale Daniele Nicastrini improcrastinabile è “l’innalzamento di personale presente almeno ai 400 previsti, mentre il saldo tra i nuovi agenti previsti e quelli che saranno pensionati, a dicembre sarà addirittura negativo”. Dopo le recenti rivolte, sui “puffi” i berretti blu della penitenziaria come vengono sbeffeggiati dai reclusi, continuano a piovere dai finestroni rifiuti, bombolette e urina. Ma la situazione rovente si sta allargando anche alle altre carceri di Roma e Lazio, compreso l’istituto minorile di Casal del Marmo dove sabato notte si sono registrati feriti tra detenuti e agenti nel corso dell’ennesimo tentativo di ribellione. Particolarmente pesante il clima nel carcere di Rieti dove l’Uspp ha chiesto un confronto con la Direzione e dove l’indice di sovraffollamento raggiunge il 168 per cento. Due giorni fa alcuni detenuti sono penetrati nella cella di un altro di loro e hanno tentato di dargli fuoco cospargendolo di alcol per poi incendiarlo. “Solo l’intervento degli agenti gli ha salvato la vita”, fa sapere il Sappe, Sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Anche in questo caso i motivi del raid sarebbero riconducibili a regolamenti di conti nell’ambito del traffico di droga. E forse è lo stesso movente dell’aggressione che sabato ha subito a Regina Coeli un detenuto italiano, massacrato di botte da alcuni reclusi nordafricani e finito in ospedale. Firenze. Carcere di Sollicciano, Giani scrive a Nordio: sospesi i trasferimenti dei detenuti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 luglio 2024 Il Governatore: “Sono per la ristrutturazione, ma serve una svolta. Il governo deve fare la sua parte”. “La Toscana e Firenze non possono essere associati all’immagine di un territorio che non assicura condizioni di vita umane e rispettose della dignità. La situazione a Sollicciano è devastante e lo Stato deve trovare le risorse per ristrutturare questo carcere, è importante prendere una decisione perché se ne parla da anni, e occorre agire concretamente”. Lo ha detto il presidente Eugenio Giani a Palazzo Strozzi Sacrati, dove ieri pomeriggio si è svolta una seduta straordinaria di giunta dedicata alla situazione dei penitenziari presenti sul territorio regionale, in seguito al suicidio del ventenne tunisino nel carcere fiorentino di Sollicciano e della protesta di altri detenuti scoppiata alla notizia della morte del giovane. Alla luce di quanto accaduto, il governatore toscano ha scritto una lettera al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per avere chiarimenti sul futuro del carcere fiorentino. Per Giani, sarebbe meglio ristrutturare il carcere anziché demolirlo come proposto da molti, tra cui la sindaca Sara Funaro. Il presidente ha poi sottolineato che la Regione, “nonostante non abbia competenze dirette, fa molto più della sua parte verso il sistema penitenziario”. E quindi “adesso è lo Stato che deve fare la sua parte intervenendo sulle strutture e assicurare condizioni di vita dignitose ai detenuti”. Sono 34 milioni i fondi che la Toscana mette in campo ogni anno a favore del sistema penitenziario. “Tredici milioni di euro - ha detto Giani - in progetti che oggi vanno dai 3 milioni per la formazione che coinvolgono fino a 800 detenuti, ai 4 milioni per l’efficientamento energetico del complesso detentivo fiorentino, alle risorse per il polo universitario penitenziario, ai servizi sociali, fino alle iniziative culturali, come ad esempio la storica eccellenza del teatro in carcere a Volterra”. E poi: “A questi 13 milioni - ha chiarito il presidente - vanno aggiunti quelli garantiti nell’ambito del sistema sanitario regionale per assicurare medici, specialisti, ambulatori, prevenzione, e in generale i Lea, i livelli essenziali di assistenza, per i detenuti. Sono circa 21 milioni, di cui solo 9 provengono dalla ripartizione del Fondo sanitario nazionale, il resto vengono attinti dal bilancio regionale”. Nel frattempo, prosegue il trasferimento di circa 80 reclusi dalle sezioni 5 e 6 di Sollicciano, che in seguito alla rivolta sono diventate inagibili. “Una parte è già stata trasferita in altri istituti penitenziari in Toscana e fuori regione - ha detto il garante comunale dei detenuti Eros Cruccolini - Ma sulla parte rimanente siamo in attesa delle disponibilità. Non si possono aggravare altri istituti per decongestionare Sollicciano”. Il motivo per cui si tarda a trovare soluzioni è dettato anche dal sovraffollamento degli altri penitenziari. Tra i detenuti, qualcuno è stato trasferito a Biella, nonostante avesse avviato un percorso d’inclusione nel territorio con probabili lavori socialmente utili. “Quando sarà completato il trasferimento degli 80 detenuti - ha aggiunto Cruccolini - la condizione di emergenza sarà superata, ma poi bisognerà vedere quali sono gli ingressi giornalieri. Il numero di reati è aumentato per cui entrano molte più persone rispetto al passato. Se gli ingressi dovessero essere elevati, sarà preso in considerazione l’ipotesi di trasferire altri detenuti”. Nelle ultime ore si sta lavorando anche al rimpatrio della salma del giovane detenuto suicida, il ventenne tunisino Fadi, che si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo, dopo aver bloccato la serratura della propria cella, dove in quel momento si trovava da solo. Disperata la madre del ragazzo, che si trova in Tunisia, dove sta circolando una voce infondata secondo cui si sarebbe trattato di un omicidio anziché di un suicidio. Poi, nei prossimi giorni, la salma sarà rimpatriata grazie al consolato tunisino che si sta occupando della questione. Catania. Carcere di Piazza Lanza: detenuto contrae la tubercolosi, positivi altri due di Anthony Distefano livesicilia.it, 9 luglio 2024 Un caso accertato di tubercolosi con il paziente-detenuto ricoverato al Cannizzaro. Due, invece, i casi di positività alla Mantoux, ovvero, chi è entrato in contatto col germe ma non è malato. È un primissimo e breve bollettino medico di quanto avvenuto all’interno del carcere di Piazza Lanza a Catania. Il caso ha riguardato un detenuto in cella con altre cinque persone: le restanti tre sono risultate negative. L’amministrazione penitenziaria ha già incontrato e parlato con i detenuti per mettere in atto disposizioni che circoscrivano il campo del contagio a quanto emerso finora. Ma è l’Asp 3 di Catania a monitorare e controllare la situazione. Si avvieranno tracciamento e indagini Epidemiologiche da parte dell’UOC Epidemiolgia del Dipartimento di Prevenzione sotto la guida di Salvatrice Riillo, direttore UOC Medicina penitenziaria dell’Asp di Catania. Vercelli. Suicidi in carcere, la protesta degli avvocati davanti al tribunale di Andrea Zanello La Stampa, 9 luglio 2024 Maratona oratoria: coinvolte questa mattina tutte le Camere penali. Questa mattina la Camera Penale di Vercelli davanti al Tribunale protesterà contro la situazione dei suicidi in carcere. Lo farà tramite una maratona oratoria, promossa nell’ambito di una più ampia iniziativa dell’Unione delle camere penali italiane, per richiamare l’attenzione su quella che è ormai diventata un’emergenza. Appuntamento alle 9,30. Un’iniziativa simile era stata condotta lo scorso aprile da Pietro Oddo, garante dei detenuti della Città di Vercelli, sempre davanti al Tribunale. A Vercelli dovrebbero esserci 230 detenuti, oggi sono 295: “Il carcere di Vercelli - aveva spiegato Oddo - ha un sovraffollamento del 150% e carenze strutturali: piove dentro alla struttura. Basterebbero pochi accorgimenti per stemperare la tensione: più telefonate per i detenuti, l’apertura delle celle per favorire la socializzazione”. “Da gennaio ad oggi in carcere a Vercelli sono stati sventati tre suicidi. In carcere non si deve morire e non si può morire di carcere” aveva ricordato l’avvocato Marco Materi, nel direttivo della la Camera Penale vercellese che ha da poco votato per rinnovare le cariche eleggendo presidente Massimo Mussato. Il carcere vercellese di Biliemme inoltre ha carenze di personale: un vuoto organico complessivo di 50 persone. Da domani inoltre i processi a Vercelli rischiano di essere a singhiozzo: l’Unione delle camere penali italiane invita infatti l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale da domani fino a venerdì, convocando tutti i presidenti delle camere penali territoriali e gli iscritti a Roma, piazza dei Santi Apostoli, giovedì dalle 14,30, per partecipare alla manifestazione, che avrà luogo insieme alle associazioni sensibili a questa emergenza e ai rappresentanti della politica favorevoli all’adozione di strumenti immediati per risolvere la crisi in atto. Tra i temi anche la situazione delle carceri italiane: proprio per questo è stata indetta la maratona oratoria, avviata il 29 maggio e oggi a Vercelli. Como. Gli avvocati protestano per le condizioni dei detenuti di Marco Marelli La Regione, 9 luglio 2024 La manifestazione è stata promossa dalle Camere penali. Dal 10 al 12 luglio è previsto anche uno sciopero. Una staffetta oratoria, martedì 9 luglio dalle 10 alle 14, di fronte al palazzo di giustizia di Como, promossa dalle Camere penali per protestare contro “la condizione ormai assolutamente tragica, più ancora che drammatica, che stanno vivendo i detenuti”. All’iniziativa hanno dato la loro adesione decine di avvocati, ex magistrati, volontari e amministratori locali. La notizia della protesta è stata fornita dall’avvocato Edoardo Pacia, presidente delle Camere penali di Como e Lecco, che sottolinea come nelle carceri italiane, Bassone compreso, vi sia una “condizione inumana che ci pone al livello di Paesi che, usualmente, definiamo, nella migliore delle ipotesi, ‘arretrati’, culminando nell’impressionante e incessante catena di suicidi dei carcerati, cui siamo costretti ad assistere a ritmi quasi quotidiani”. Lo sciopero degli avvocati penalisti - Per tre giorni, dal 10 al 12 luglio, gli avvocati penalisti hanno indetto uno sciopero di astensione dalle udienze. Pacia: “L’obiettivo è quello di coinvolgere direttamente la cittadinanza per uscire dallo schema del pregiudizio per prendere coscienza di una realtà che ha tutt’altra natura e rispetto alla quale non possiamo voltare la faccia dall’altra parte a fronte di una risposta dell’attuale governo di progetto legislativo davvero insufficiente”. Secondo l’avvocato “per fronteggiare l’emergenza del sovraffollamento carcerario, delle condizioni degli istituti di pena e dei suicidi che derivano da ciò”, si devono “garantire cure e assistenza ai soggetti affetti da fragilità e disagi psichici, interrompere il decorso dell’esecuzione della pena reso inumano e degradante a causa delle carenze strutturali, della mancanza di risorse umane e strumentali adeguate”. Al Bassone ci sono 200 detenuti in più rispetto a quelli per il quale è stato costruito. Così come mancano un centinaio di agenti. Spoleto (Pg). Il teatro in carcere per coltivare la speranza di Alessandra Moreschini cronacheumbre.it, 9 luglio 2024 La campagna rigogliosa e la sera che arriva in una calda giornata di inizio luglio. Il brusio di centinaia di persone nell’attesa scomposta prima dello spettacolo. Il teatro è la casa di reclusione di Spoleto. Il carcere. L’occasione rara di entrare in un sistema chiuso, o meglio, blindato. Il sipario che si apre è un doppio cancello che dà sul perimetro interno della struttura. Il pubblico cammina silenzioso, condotto da avvenimenti, movimenti e suoni. Dal caos, origine di ogni cosa, come insegna la mitologia greca, nascono la forma e l’equilibrio. Gli attori, in uniforme color sabbia, da silenziosi si fanno rumorosi. In una sorta di danza battono le mani sul petto e poi incrociano le braccia al cielo, quasi invocando una preghiera. Tutt’intorno finestre sbarrate che si illuminano e si spengono. Ogni tanto, la sagoma scura di qualche testa si affaccia per assistere allo spettacolo. Alla fine del percorso si approda al palcoscenico, impreziosito da una scenografia minimale e potente. Le teste di toro e il colore rosso della struttura geometrica in cui sono inserite fanno pensare subito a lui: il Labirinto. Lo spettacolo messo in scena trasforma la campagna circostante nell’isola di Creta, mentre intorno agli artisti e al pubblico si stagliano le mura del carcere-labirinto. Teseo, Minosse, il Minotauro, Dedalo, Icaro e tutti gli altri protagonisti del racconto parlano con accenti diversi, talvolta in lingue diverse. Arianna, interpretata dalla mezzosoprano Lucia Napoli, tende il filo rosso della salvezza, ma è il Minotauro che domina la scena con la sua irrequietezza mentre rivela la vita a cui è condannato, arrivando a supplicare la morte per poter essere libero. La compagnia andata in scena è SineNomine, composta da detenuti e attori, frutto di un progetto che porta il teatro come strumento rieducativo all’interno della casa di reclusione di Spoleto. Un lavoro guidato con estro e lungimiranza dal direttore artistico della compagnia Giorgio Flamini, arricchito da una collaborazione artistica che spazia tra scrittura, danza e musica. Il risultato è un’opera di grande qualità. I detenuti recitano, in maniera impeccabile, testi riadattati di Esiodo, Pavese, Borges, Yourcenar. Tra il pubblico non ci sono familiari e parenti ad applaudire. La platea è composta da perfetti sconosciuti, tra cui spiccano personalità istituzionali come il Procuratore generale di Perugia, Fausto Cardella, e il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Giuseppe Caforio. Lo spettacolo “Creta”, inserito nel Festival dei Due Mondi di Spoleto, incarna perfettamente il tema della 67esima edizione: il mito. Mito che impone, per sua natura, un confronto, che presenta interrogativi sulla complessa relazione tra l’essere umano e la società. E quando il mito entra in carcere, la riflessione diviene ancor più urgente. Il Labirinto restituisce la solitudine e il disagio in cui vive l’intera comunità carceraria. A far riflettere sono anche i dati. Nel 2023 sono stati 69 i suicidi all’interno delle carceri italiane e da inizio gennaio ad oggi sono 52 i detenuti che si sono tolti la vita. In Umbria nel 2023 e fino ad aprile 2024 sono stati registrati 5 suicidi tra i detenuti, avvenuti tutti nel carcere di Terni. Numeri che sono storie, persone e famiglie. Numeri che gridano pietà, che richiedono riflettori puntati sullo stato delle carceri nel nostro paese che registrano un tasso di sovraffollamento elevato e ingestibile, come denuncia da anni l’associazione Antigone, per i diritti e le garanzie del sistema penale. Nel 2024 l’affollamento delle carceri tocca il 130 per cento, con alcuni istituti di detenzione che arrivano a un tasso di affollamento del 190 per cento. Ciò nonostante, molti istituti vengono chiusi e molti altri sono sotto organico. Tra questi anche la Casa di Reclusione di Spoleto, in cui a fine marzo scorso la polizia penitenziaria ha denunciato la mancanza di 100 poliziotti, vedendo in servizio attivo solo 193 agenti rispetto ai 292 previsti. Ma a mancare sono anche educatori, psichiatri, traduttori, assistenti sociali. Una situazione grave che rischia di rendere le carceri strutture di contenimento e non di rieducazione. Depressione, abbandono, solitudine. È questa la condizione comune alla maggior parte dei detenuti. Per uscirne sarebbe necessaria una maggiore apertura, soprattutto nei casi di riconosciuta fragilità, dove un contatto frequente con la famiglia e gli affetti potrebbe salvare da un epilogo tragico. Basti pensare che, ad oggi, le telefonate concesse mensilmente ai detenuti sono 4, con una durata di 10 minuti. Dal dossier “Nodo alla gola”, l’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, risulta che molti dei suicidi si registrano nei mesi estivi, quando le attività educative e ricreative diminuiscono o si fermano per la pausa, e a fine pena, segno del totale smarrimento difronte al rientro nella società. Società da cui i detenuti si sentono lontani ed estranei. L’associazione Antigone richiede, per questo, di implementare progetti di volontariato in carcere e percorsi strutturati di reinserimento nella società, che coinvolgano gli enti territoriali. Per non lasciare il detenuto solo, sia dentro che fuori dal carcere. “Despondere spem munus nostrum”, si legge una volta dentro alla Casa di Reclusione di Spoleto. È il motto della polizia penitenziaria. Garantire la speranza è il nostro dovere. E quando, per due sere, il carcere si trasforma in teatro, quella speranza si tocca con mano. Fa commuovere. Invita a riflettere, come vuole il mito. La speranza non può essere rinchiusa tra cancelli e filo spinato. La speranza non può rimanere oltre le mura imponenti che spiccano sulla rigogliosa campagna umbra. Il filo rosso, la salvezza, è l’incontro dei due mondi. Il filo rosso, come la campana che suona alla fine del componimento di John Donne, ci ricorda che nessun uomo è un’isola, ma che ciascuno è parte del tutto. Siamo chiamati all’empatia, a fare nostra la sofferenza e la solitudine dell’altro. Figlio, come noi, della stessa umanità. Quando il popolo cerca un capobranco di Dacia Maraini Corriere della Sera, 9 luglio 2024 Incontro facce allarmate, preoccupate, aggrondate. Cosa sta succedendo in tutto il mondo che al posto della voglia di conoscere sta imperversando il rifiuto dell’altro? Al posto dell’empatia stanno diffondendosi l’antipatia e l’odio? Un dubbio viene, soprattutto considerando che questi cambiamenti stanno coinvolgendo il mondo intero: è possibile che la storia mondiale, oltre che muoversi per spinte e interessi economici, possa essere presa da improvvisi innamoramenti tossici, o da imprevedibili spinte all’autodistruzione? Cose che consideriamo normali nella vita di un individuo: un ragazzo gentile e studioso uccide un amico, o una buona madre di famiglia affoga il suo neonato, ecc. I comportamenti privati li consideriamo prevedibili e li spieghiamo con la follia: è impazzito, è stata la droga, la depressione, un amore infelice, ecc. Ma non sappiamo il perché di impulsi autolesivi che si presentano in varie parti del mondo nello stesso periodo e con le stesse caratteristiche. William Reich, l’originale psicologo fuggito ai tempi di Hitler in America, diceva che quando un popolo prende paura, si trasforma psicologicamente in branco e cerca disperatamente un capobranco. Non importa che questo capo sia un furfante, crudele, egocentrico e perfino assassino, purché dia l’impressione di sapere spaventare il nemico. Un muso feroce che sappia saltare addosso ad altri predoni veri o immaginari. Certamente in questo periodo ci sono molte paure che inquietano popoli interi, come pandemie dello spirito che si propagano velocemente. Ma di quali paure parliamo? La prima riguarda il movimento dei popoli che nessuno riesce a fermare e che spaventa perché mette in discussione le certezze identitarie di un popolo. Poi la crisi economica che tocca le ansietà sociali. Infine i cambiamenti climatici con alluvioni, valanghe, siccità, ecc... Da queste paure che toccano il branco nascerebbe la richiesta di un capo capace di avventarsi contro il nemico. Di solito però questi capibranco finiscono male perché a un certo momento rivelano la povertà e la debolezza di un grugno feroce che prometteva di difendere il suo popolo e invece ha finito per gettarlo in bocca ai lupi. Come reagire? Direi prima di tutto riconoscendo i problemi, discutendone democraticamente, e trovando come affrontarli con strategie razionali e condivise. Ma lo sapremo fare? Premio Ambrosoli, gli “eroi invisibili” oggi? Chi rispetta le leggi di Elena Bellistracci* Corriere della Sera, 9 luglio 2024 Torna il Premio Giorgio Ambrosoli, il premio italiano alla Rule of Law, lo stato di diritto, il cosiddetto governo delle leggi. Un tema sempre più fra le priorità delle diplomazie internazionali e fattore cruciale nel nostro Paese per incrementare l’efficacia delle politiche di prevenzione e contrasto al malaffare. L’iniziativa, promossa dall’omonima Fondazione da oltre un decennio, valorizza le condotte virtuose a tutela della legge in contesti ambientali di minacce, intimidazioni, pericoli e pressioni improprie. Il Premio sta contribuendo a costruire una narrativa tutta in positivo del rapporto fra gli italiani e il rispetto delle leggi, poiché sta emergendo un piccolo grande esercito di “eroi invisibili” di condotte e comportamenti da parte di donne e uomini che si sono esposti a conseguenze e rischi impegnativi per il fatto di ergersi, come antichi opliti, a baluardo del rispetto delle norme, e con esse del pubblico interesse. Imprenditori, pubblici funzionari, politici, liberi professionisti, esponenti delle forze dell’ordine, magistrati, agricoltori, manager, scienziati, medici, giornalisti, figure del Terzo Settore, insegnanti, sacerdoti, e altri. A oggi già 81 casi distintivi insigniti che fanno emergere in modo un po’ inatteso un’Italia collettiva, dal basso, che smentisce con forza il luogo comune degli italiani refrattari al rispetto delle leggi. Una nuvola di piccoli grandi Giorgio Ambrosoli - quasi sempre per nulla o poco conosciuti - che potranno nel tempo magari diventare sempre di più, anche grazie ai riferimenti culturali e valoriali che guidarono il Commissario Liquidatore della famigerata Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Descrivono chiaramente il ruolo dell’alto senso civico e morale che ognuno di noi deve portare con sé nelle quotidiane attività, le parole di Mario Carlo Ferrario, Presidente della Fondazione, per il quale “è sempre più cruciale maturare la consapevolezza, da parte di tutti, che non sono sufficienti le leggi scritte, anche quando sono ben concepite. È indispensabile al contempo un contesto di cultura, competenze, comportamenti, meccanismi che ne assicurino la loro corretta applicazione effettiva. In questo senso, il ruolo dei singoli cittadini, in particolare nell’esercizio delle loro professioni, diviene uno dei fattori determinanti. Le norme non vivono in astratto, ma calate nella realtà che le circonda”. Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, l’XI Edizione avrà luogo oggi - 8 luglio - come da tradizione presso il Piccolo Teatro - Teatro d’Europa, luogo simbolo del teatro civile in Italia, e potrà essere seguito in formato televisivo tramite la diretta streaming su www.premiogiorgioambrosoli.it, sul doppio canale in italiano e in inglese. *Fondazione Premio Giorgio Ambrosoli Troppi giovani sono infelici, ma non diamo la colpa ai social di Andrea Casadio Il Domani, 9 luglio 2024 Crederlo può fare comodo a molti, lo ha lo ha ribadito persino il responsabile della Salute Pubblica degli Usa. Ma non esistono evidenze scientifiche chiare e inequivocabili. Un sondaggio recente ipotizza cause diverse. Da una decina d’anni a questa parte, sempre più giovani si sentono soli e infelici, soffrono di disturbi mentali quali la depressione, i disturbi d’ansia, i disturbi del comportamento alimentare, e tentano il suicidio, talvolta - purtroppo - riuscendo nell’intento. Dopo la pandemia di Covid-19, poi, il numero di quelli affetti da depressione o disturbi d’ansia è quintuplicato, e quello di chi soffre di disturbi del comportamento alimentare è aumentato del 30 per cento. Qual è la causa? Se date retta ai giornali o alla tv non avete dubbi: è tutta colpa dei social e dei telefonini. I giovani passano troppo tempo attaccati allo schermo, si isolano, gli influencer gli propongono ideali di successo e di bellezza irraggiungibili, così si incupiscono, si deprimono, e si tolgono la vita. Qualche settimana fa, lo ha ribadito persino il responsabile della Salute Pubblica degli Usa, il vice ammiraglio Vivek Murthy: i social sono dannosi per i giovani, e bisognerebbe inserire avvisi per i genitori che li mettano in guardia contro le minacce potenziali che essi rappresentano per la salute mentale dei loro figli. Peccato che non sia vero nulla. O, per meglio dire, che non esista una sola ricerca scientifica che dimostri in maniera chiara e inequivocabile che i social fanno male alla salute mentale dei giovani. Sembra incredibile, ma gli scienziati che sostengono che il malessere mentale dei giovani è provocato dall’eccesso di tempo trascorso attaccati ai telefonini a guardare pagine social (il cosiddetto “screentime”) sono pochissimi, una esigua minoranza. La principale sostenitrice di questa tesi è Jean Twenge. Jean Twenge è una psicologa che insegna all’Università di San Diego, in California. Ha scritto un libro che ha avuto molto successo negli Usa, intitolato iGen, dove i sta per iperconnessi, il cui sottotitolo recita: “Perché i giovani iper-connessi di oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e completamente impreparati per l’età adulta”. In un suo articolo pubblicato sulla rivista The Atlantic, Twenge si chiedeva: “I cellulari hanno distrutto una generazione?”. La sua risposta scontata è: ovviamente sì. Lei sostiene che i nati dopo il 1995 sono vittima di una epidemia di disturbi mentali causata dal dilagare dei telefonini e dei social. In un altro suo articolo pubblicato su Emotion, rivista della American Psychological Association, intitolato “La diminuzione del benessere psicologico tra gli adolescenti americani dopo il 2012 è legato al tempo passato davanti a uno schermo durante la diffusione della tecnologia degli smartphone”, spiega le sue tesi. Il suo studio si basa su un vasto rapporto stilato dall’associazione Monitoring The Future, a cui partecipano l’Università del Michigan, l’Istituto nazionale della Salute e l’Istituto nazionale sull’abuso di droga statunitensi: ogni anno circa 50.000 studenti delle scuole medie e superiori vengono intervistati per valutare comportamenti, attitudini e valori. I dati - Esaminando questi dati, Twenge ha trovato che circa il 13 per cento degli studenti dalla seconda media alla terza liceo che passano da una a due ore a settimana sui social “non sono felici”; tra quelli che passano da 10 a 19 ore a settimana sui social i “non felici” sono il 18 per cento; tra coloro che passano 40 o più ore a settimana sui social i “non felici” salgono al 24 per cento. Dice Twenge: “È chiaro: più tempo passi sui social e più sei infelice”. Però, dimentica di dire che tra gli studenti di quarta liceo questa correlazione svanisce, dato che la loro infelicità non aumenta col numero delle ore passate sui social. E come mai 8 giovani su 10 che soffrono di depressione sono di sesso femminile? Gli smartphone non hanno effetto sui maschi? Se la teoria reggesse, poi, un adolescente che passa zero ore a settimana sui social dovrebbe essere felicissimo e per niente depresso: invece, lo stesso rapporto dimostra che gli adolescenti che passano zero ore davanti a un telefonino sono più infelici dei loro pari che ci restano attaccati per ore e ore. Jean Twenge è un personaggio molto controverso. I suoi detrattori sostengono che passa più tempo in televisione che in laboratorio, che non ha mai prodotto ricerche di rilievo, e che gli studi condotti da lei e dal suo collaboratore più fidato - Jonathan Haidt, uno psicologo che insegna alla New York University - sono pieni di errori e forzature. Jonathan Haidt a sua volta ha scritto un libro, di recente pubblicato in Italia, dal titolo: “La generazione ansiosa: come la grande modificazione delle connessioni cerebrali del bambino sta causando una epidemia di malattie mentali”. Le sue tesi sono le stesse della sua più famosa collega: fin da piccoli i nostri figli passano troppo tempo davanti allo schermo di un cellulare, questo modifica il loro cervello e provoca l’epidemia di disturbi mentali che li affligge. Le obiezioni - Candice Odgers - professoressa di psicologia dell’Università di California a Irvine, che a differenza dei suoi due colleghi ha condotto molti esperimenti sul campo per valutare quali effetti abbiano i social e i cellulari sullo sviluppo dei giovani - ha scritto un rovente articolo su Nature - la rivista scientifica più importante del pianeta - in cui recensisce il libro di Haidt, demolendolo. Scrive Odgers: “Bisogna dire due cose dopo aver letto La generazione ansiosa. Primo, questo libro venderà un mucchio di copie perché Jonathan Haidt racconta una storia spaventosa sullo sviluppo dei nostri bambini che molti genitori saranno spinti a credere. Secondo, la tesi più volte ripetuta nel libro che le tecnologie digitali stiano provocando una modificazione delle connessioni nervose nel cervello dei nostri bambini e causando un’epidemia di disturbi mentali non è supportata dalla scienza. E, peggio ancora, proporre in modo sfacciato che i social media siano la causa di tutto ciò ci potrebbe distogliere dall’affrontare efficacemente le cause reali dell’attuale crisi di salute mentale dei nostri giovani”. Continua Odgers: “Centinaia di ricercatori - me compresa - hanno condotto ricerche per capire se il tempo passato sui social abbia effetti pesanti. I nostri sforzi hanno dimostrato che o non c’è nessun effetto, o l’effetto è minuscolo, o molto dubbio. E quando questi studi si sono protratti nel tempo hanno suggerito non che l’uso dei social media predice o causa la depressione, bensì che i giovani che già soffrono di disturbi mentali utilizzano queste piattaforme più spesso o in modi diversi rispetto ai loro pari”. Un’ipotesi di altre cause - Detto in parole più semplici, per Twenge e Haidt i cellulari causano il malessere psichico dei giovani; invece, quasi tutti gli scienziati e gli studi scientifici mostrano che questo nesso di causalità andrebbe rovesciato, cioè se io sono un adolescente infelice allora mi attacco allo schermo del telefonino proprio per fuggire dalle cose della mia vita che mi rendono infelice - come una famiglia disfunzionale con genitori che mi angosciano, o una situazione economica o sociale che mi terrorizza - e non viceversa. Altri studi scientifici hanno dimostrato che i cellulari e i social media possono anche avere effetti positivi - per esempio, i like ottenuti sui social attivano i centri del piacere e della ricompensa del cervello e quindi fanno sentire i giovani meno isolati e più felici. Altri che i social non sono intrinsecamente dannosi ma possono migliorare le abilità sociali e aiutare i giovani a sviluppare una migliore resilienza psicologica. Basterebbe ascoltarli, i giovani, e chiedere loro qual è la causa delle loro ansie. In un ampio sondaggio condotto su 15.000 giovani da Scomodo.org, alla domanda “quali sono le tue paure per il futuro?”, il 94 per cento ha risposto “l’ambiente e il cambiamento climatico”, e il 90% l’economia e “l’aumento dei prezzi”. E se fossero queste le cause del malessere psicologico dei nostri figli?