Il diritto alla vita dei carcerati di Enzo Bianchi La Repubblica, 8 luglio 2024 Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane ci sono stati cinquantatré suicidi ai quali vanno aggiunti molti altri nella società che non vengono resi pubblici, salvo quelli di personalità eminenti come il rettore dell’Università Cattolica di Milano Franco Anelli o dell’ex Capo di stato maggiore della Difesa generale Claudio Graziano che sorprendono e interrogano. In realtà, sempre l’atto del suicidio dovrebbe interrogarci perché chi si toglie la vita lo fa perché questa vita è diventata per lui insopportabile: a volte la causa è un fallimento, a volte è una vergogna, altre volte la perdita del senso del vivere, a volte il dolore di una malattia o di un lutto. Non si potrà mai comprendere pienamente il perché di un suicidio, che appartiene al mistero dell’essere umano e della sua libertà, un mistero che non va mai giudicato ma semplicemente accolto in silenzio e rispettato. Va detto con chiarezza che il suicidio non deve generare sensi di colpa oscuri in chi resta e aveva legami con chi ha scelto la morte, perché il gesto va al di là di ogni quotidiana relazione. Il gesto nasce dalla vita che si vive, dall’isolamento che uccide, dal passare il tempo in condizioni che abbrutiscono, da un sovraffollamento che non permette nessuna intimità e crea una convivenza disumana. Almeno per i carcerati (e talvolta anche per gli agenti di custodia) sono queste le condizioni che generano la disperazione che porta al suicidio. Ora, se tale è la condizione dei carcerati, denunciata più volte, perché la società resta così insensibile? C’è chi risponde: perché se hanno commesso il male è giusto, meritano questa pena e ben gli sta! Purtroppo sono questi i pensieri di chi non conosce la situazione delle carceri, non discerne tra i carcerati i più vulnerabili, non immagina i sentimenti di disperazione di chi deve tornare nella società e non vede la possibilità di un’accoglienza e di un lavoro. Veramente società civile e politica sono lontane dal carcere, che resta una sorta di zona estranea, espulsa dalla comunità nazionale, e così il carcere diventa una condanna a morte. Un tempo, lo ricordo con amarezza, il suicidio era considerato dalla chiesa cattolica uno dei peccati più gravi e al suicida veniva vietato il funerale religioso e non trovava sepoltura nel camposanto, ma fuori, in terreno non consacrato, a monito dei vivi. Ma per grazia oggi la comprensione del suicidio è cambiata: si fanno funerali e il luogo di sepoltura è quello comune. Il suicidio resta comunque un tema offerto alla meditazione di tutti, perché non ci è estraneo, non riguarda solo i suicidi. Di fatto operano in noi forze di morte alle quali cediamo, che ci seducono. Per questo dovremmo comprendere il suicida e non condannarlo, perché significativamente queste forze negative che ci vorrebbero precipitare nell’abisso sono umane, abitano il nostro cuore e sono estranee solo agli animali che non si suicidano mai. Ogni suicidio ricorda che questo mondo a volte non è sopportabile, che questo mondo a volte non basta e che non si ha la forza per continuare l’esistenza sostenendo la fatica del mestiere di vivere. Non si dimentichi che il suicidio è sempre stato l’epifania di una protesta: da Sansone, l’eroe biblico che si uccide con tutti i nemici del suo popolo, ai bonzi buddhisti che si bruciavano contro l’oppressore. Anche i suicidi dei carcerati che non sanno protestare con eloquenza di parola ma compiono il gesto estremo sono un appello, un grido verso di noi, perché guardiamo alla situazione delle carceri e cerchiamo di far sì che ci siano condizioni umane. Sebbene colpevoli va loro riconosciuta la piena dignità, sebbene incarcerati godono dell’esercizio delle libertà personali, sebbene privati di alcuni diritti sono soggetti del diritto, sebbene giudicati è loro garantita la giustizia, sebbene detenuti non devono essere esclusi dalla convivenza civile. Carceri, non solo detenuti nella “strage dei suicidi” di Angelo Vitale L’Identità, 8 luglio 2024 Un altro episodio della “strage delle carceri”: aveva 36 anni, originario di Cittanova in provincia di Reggio Calabria, da un paio di mesi era impiegato presso la Centrale Operativa Nazionale di Roma della Polizia penitenziaria, stamattina doveva assumere servizio, ma nella notte si è tolto la vita sparandosi, sembrerebbe, con l’arma d’ordinanza. “Sale così tragicamente a sei il numero degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita, il precedente a Favignana solo domenica scorsa, mentre a 52 ammontano i suicidi dei detenuti nello stesso periodo. Una carneficina, una strage senza precedenti e che non può non avere, seppur fra concause diverse, un’origine comune. Uno stillicidio di vite spezzate che vede il Governo inerte, capace evidentemente di varare solo decretini, forse strumentali a strategie politiche, ma non certo utili a sollevare le sorti di un sistema carcerario sempre più alla deriva, né a fermare la spirale di morte che non ha precedenti”. Questa, l’ennesima denuncia di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Sappiamo bene - aggiunge - che a provocare un gesto estremo come il suicidio concorrono una serie di fattori, ma ciò che sta accadendo, con un’incidenza di cui non si ha memoria nella storia dell’amministrazione penitenziaria, non può non derivare direttamente anche da ragioni connesse al lavoro prestato. Per questo per noi si tratta di morti in servizio e per servizio”. “Il collega, che non era coniugato - racconta - prima di essere trasferito alla Centrale Operativa Nazionale di Roma, aveva prestato servizio presso la Casa Circondariale di Locri e in Calabria aveva lavorato pure suo papà, anche lui poliziotto penitenziario, ora in quiescenza”. L’ultimo suicidio di un detenuto, pochi giorni fa, a Sollicciano, seguito da una rivolta. Carenza di prodotti igienici, muffa, insetti, barattoli pieni di cimici. Sono queste le condizioni oggetto dei numerosi esposti presentati negli ultimi mesi dagli avvocati dei detenuti reclusi nel carcere fiorentino di Sollicciano e che hanno preceduto il suicidio del giovane detenuto tunisino di 20 anni che avrebbe dovuto finire di scontare la pena a novembre del 2025. Il carcere di Sollicciano è noto per le sue pessime condizioni igieniche e sanitarie e il grave sovraffollamento: al 30 giugno risultavano presenti un numero di detenuti ben superiore a quello previsto dalla capienza regolamentare e in queste settimane la situazione nelle celle è ulteriormente peggiorata a causa del caldo. Sull’argomento è intervenuto il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, annunciando per lunedì 8 luglio “una seduta straordinaria della Giunta regionale dedicata ad una informativa sulla situazione delle carceri in Toscana e particolarmente alla questione relativa a Sollicciano. “È necessario, a questo proposito, che il ministero della Giustizia dia seguito al progetto volto al risanamento e rigenerazione della struttura carceraria ed ad interventi urgenti sotto il profilo igienico - sanitario e ancor di più al ripristino di condizioni di vita dignitose per tutti coloro che sono soggetti a misure detentive. La Regione - spiega Giani - intende destinare 500mila euro di risorse proprie per promuovere ed incentivare attività culturali all’interno delle carceri come misura in grado di contrastare il senso di vuoto e assenza di motivazioni che spesso contraddistinguono la condizione detentiva, specie dei più giovani. Quando un ragazzo di soli vent’anni si toglie la vita è una sconfitta per tutti”. In base ai dati ed alle informazioni raccolte da Giuseppe Fanfani, Garante regionale dei detenuti, nel 2023, nelle 16 carceri toscane, sono state 51 le persone che si sono tolte la vita, 153 i tentati suicidi, 608 i casi di autolesionismo, 359 gli scioperi della fame o della sete. Un altro agente penitenziario si suicida. “Lo Stato ha abbandonato personale e detenuti” Il Riformista, 8 luglio 2024 Un altro suicidio legato alle carceri. Un agente della polizia penitenziaria di 36 anni si è tolto la vita a Roma. Era originario di Cittanova, in provincia di Reggio Calabria. È il sesto agente suicida dall’inizio dell’anno, secondo la Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Aveva 36 anni, originario di Cittanova (RC), da un paio di mesi impiegato presso la Centrale Operativa Nazionale di Roma, stamattina doveva assumere servizio, ma nella notte si è tolto la vita sparandosi, sembrerebbe, con l’arma d’ordinanza” spiega il segretario generale del sindacato Gennarino De Fazio. L’emergenza e i numeri record dei suicidi in carcere continua. Carceri, un altro agente penitenziario si suicida - De Fazio prosegue, puntando il dito contro la politica: “Una carneficina, una strage senza precedenti e che non può non avere, seppur fra concause diverse, un’origine comune. Uno stillicidio di vite spezzate che vede il Governo inerte, capace evidentemente di varare solo decretini, forse strumentali a strategie politiche, ma non certo utili a sollevare le sorti di un sistema carcerario sempre più alla deriva, né a fermare la spirale di morte che non ha precedenti”. “Al Ministro Nordio e al Governo Meloni chiediamo una vera presa di coscienza, di tutte queste morti portano il peso della responsabilità politica e morale”, aggiunge il sindacalista. Il sindacato chiede le dimissioni di Nordio - C’è chi va oltre, come il sindacato Spp che chiede le dimissioni del ministro Carlo Nordio e del sottosegretario Delmastro. “Il tragico gesto dell’agente di polizia penitenziaria, 35enne, originario della provincia di Reggio Calabria ma residente a Roma, il sesto suicidio tra il personale penitenziario dall’inizio dell’anno, insieme ai 54 detenuti che si sono tolti la vita, sono la prova provata che lo Stato ha abbandonato personale e detenuti al loro destino. Non possiamo ulteriormente tollerare che i massimi responsabili politici dell’Amministrazione Penitenziaria siano al loro posto spacciando il “decretino carcere tutto come prima” per la soluzione dell’emergenza carcere che ha raggiunto livelli mai registrati prima e che fa somigliare le nostre alle carceri sudamericane”, dice il segretario Aldo Di Giacomo. Il sindacalista continua: “Il suicidio è purtroppo diffuso non solo tra il personale penitenziario (22 casi in tre anni) ma anche tra gli appartenenti a tutte le forze dell’ordine, al punto che il numero di agenti di polizia morti per suicidio è più del triplo rispetto a quelli feriti a morte nell’esercizio delle loro funzioni di contrasto alla criminalità”. Per questo il sindacato richiama l’attenzione sullo “stress intenso cui le forze dell’ordine sono esposte quotidianamente, specie nelle carceri dove il personale in questi primi sei mesi ha subito 881 aggressioni con le carceri campane al primo posto, seguite da quelle lombarde e laziali”. E segnala che “anche le malattie professionali correlate allo stress lavorativo sono in aumento del 120%”. “Faremo la separazione delle carriere, ma la vera riforma è quella del Csm” di Davide Vari Il Dubbio, 8 luglio 2024 Il ministro Carlo Nordio ospite di Bruno Vespa a Manduria parla dell’organo di autogoverno della magistratura: “Oggi il Consiglio superiore della magistratura è una specie di Parlamento che viene eletto dalle correnti”. La separazione delle carriere “è scritta nel programma elettorale del centrodestra, quindi c’è un vincolo elettorale. La faremo. Ma quello che è veramente rivoluzionario non è la separazione delle carriere, che di fatto quasi esiste già, perché la riforma Cartabia ha enormemente limitato i passaggi dall’una all’altra. La vera riforma è quella che riguarda il Consiglio superiore della magistratura”. Lo ha sottolineato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in un intervento alla cena di ieri sera al “Forum in Masseria”, a Manduria, in Puglia, organizzato da Bruno Vespa. “Cosa vuol dire? Allora, oggi il Consiglio superiore della magistratura è una specie di Parlamento che viene eletto dalle correnti - ha continuato l’esponente dell’esecutivo -. Diciamo che nella struttura istituzionale, il Parlamento italiano sta ai partiti, come il Consiglio superiore della magistratura sta alle correnti; cioé le correnti sono i partiti all’interno della Associazione nazionale magistrati. E hanno un potere immenso, perché sono loro poi che designano i membri del Csm. Quindi, c’é un vincolo tra elettori ed eletti”. Nordio ha proseguito: “E noi cosa abbiamo proposto? Il sorteggio, che tra l’altro è fatto nell’ambito di un canestro di soggetti qualificatissimi, sia per i componenti del Consiglio superiore della magistratura che per quelli della cosiddetta sezione disciplinare. I magistrati si iscrivono alle correnti come ci si iscrive ai partiti, un po’ per ragioni ideali, ma anche per ragioni di convenienza, perché una volta che tu sei iscritto alla corrente eleggi il tuo candidato al Csm che poi ricambierà il favore. Questa è la brutale realtà. È il motivo delle cosiddette nomine a pacchetto”. “Tutti i sindaci brinderanno quando sarà abolito l’abuso di ufficio” di Grazia Longo La Stampa, 8 luglio 2024 Il ministro alla Giustizia Carlo Nordio sostiene di “non voler imbavagliare la stampa”, ma è quanto meno singolare che il suo intervento al “Forum in masseria”, sabato sera nella tenuta di Bruno Vespa a Manduria, sia stato vietato ai giornalisti e diffuso solo ieri. In ogni caso, riferendosi al disegno di legge previsto in discussione alla Camera dopodomani sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, il ministro prevede grande soddisfazione per “la grandissima parte degli amministratori, che magari hanno votato contro in ossequio a un ordine di scuderia, ma invece saranno contenti e magari quando mercoledì sarà approvata questa riforma, apriranno una bottiglia di spumante”. “Ho proposto l’abrogazione dell’abuso di ufficio - spiega Nordio - perché i dati in nostro possesso ci dicono che, su circa 5000 procedimenti pendenti, in un anno le condanne si contano sulle dita di una mano, peraltro condanne collegate con reati connessi. È un reato evanescente che serve soltanto a intimidire i pubblici amministratori. La loro carriera e la vita stessa sono travolte con danni irreparabili alla reputazione e ciò deriva dall’invio dell’informazione di garanzia che diventa uno strumento politico di neutralizzazione dell’avversario che non riesce a eliminare attraverso l’ordinaria competizione elettorale”. Per quanto concerne, poi, la norma sull’avviso di garanzia, il ministro precisa che “cambia, ma è il minimo sindacale nel senso che tutto questo resterà segreto, non sarà reso noto. Il che non significa imbavagliare la stampa, significa semplicemente tenere segreto un atto istruttorio che già dovrebbe essere tale, come previsto dall’articolo 114 del codice di procedura penale. Allora se esce una notizia segreta da una procura della Repubblica e quella stessa procura indaga sulla fuga di notizie, c’è qualcosa che non funziona. Ecco allora noi cominceremo a farla funzionare”. Il suo obiettivo è quello di evitare strumentalizzazioni: “L’informazione di garanzia si è trasformata in una condanna anticipata sia a livello mediatico sia a livello politico, anche perché alcune forze, forse un po’ tutte, hanno strumentalizzato questo istituto per estromettere dalla vita politica gli avversari che non riescono a battere”. Infine, secondo Nordio, la vera riforma rivoluzionaria è quella che riguarda il Csm “con la proposta del sorteggio, sia peri componenti del Consiglio che per quelli della cosiddetta sezione disciplinare”. Stop all’abuso d’ufficio, ecco gli effetti su processi e sentenze di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2024 Cadranno le contestazioni e si dovranno rivedere le condanne. Nuovo reato per colpire le condotte arbitrarie con contenuto patrimoniale. Addio alle contestazioni di abuso d’ufficio nei procedimenti in corso e per il futuro. E condanne definitive da rivedere. Sono queste le conseguenze che avrà l’abrogazione dell’articolo 323 del Codice penale, la norma più qualificante del disegno di legge di riforma voluto dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio: la disposizione è stata approvata in via definitiva la scorsa settimana, mentre il resto del disegno di legge attende il via libera finale da domani. L’intenzione di intervenire sull’abuso d’ufficio è stata annunciata dal ministro già all’indomani della sua nomina. E da subito si è accesa la discussione tra chi sostiene l’opportunità di cancellare un’ipotesi di reato troppo generica, che alimenta la burocrazia difensiva e la “paura della firma”, e chi, invece, ritiene l’abuso d’ufficio un utile presidio per contrastare le condotte delittuose contro la Pa. Si tratta di un reato già modificato a più riprese e ancora nel 2020 rivisto in senso restrittivo. Riforma che ha senza dubbio contribuito a ridurre i numeri dei fascicoli. In base ai dati del ministero della Giustizia, nel 2022 nelle procure sono sopravvenuti 3.938 procedimenti con autori noti, il 17% in meno dell’anno precedente. La Procura di Milano ha registrato 36 procedimenti iscritti con autori noti nel 2021, 30 nel 2022 e 17 nel 2023 (ma 14nel primo semestre di quest’anno). Quanto ai procedimenti pendenti, alla Procura di Milano al 1° luglio scorso erano 31 contro noti (di cui 18 iscritti nel 2023 e nel 2024), con 227 indagati (altri 79 procedimenti erano aperti contro ignoti). Nei tribunali le iscrizioni si sono quasi dimezzate nell’arco di sei anni: nel 2022 sono stati avviati 4.198 procedimenti di fronte alle sezioni Gip/Gup contenenti il reato di abuso d’ufficio, il 47% in meno del 2016, e 316 in sede di dibattimento, il 45% in meno del 2016. Numeri in calo, quindi, ma comunque elevati, su cui resta alto il filtro della magistratura: le Procure nel 2022 hanno definito 4.481 procedimenti, nel 79% dei casi chiedendo l’archiviazione (dato in aumento, anche per il più stringente canone introdotto dalla riforma Cartabia), mentre solo in 360 casi è iniziata l’azione penale. Attività che si riflettono sui tribunali: nel 20221e archiviazioni della sezione Gip/Gup sono state 4.137, l’87,5% dei 4.729 procedimenti definiti. Mentre sono state 20 le condanne e 22 i patteggiamenti, oltre a 33 condanne in dibattimento. Tutto questo sarà cancellato dopo l’approvazione della riforma? Non esattamente. L’abuso d’ufficio è un reato che raramente viene contestato da solo, anche perché difficile da provare, in quanto le soglie di pena previste (da uno a quattro anni) non consentono l’uso delle intercettazioni. Spesso è accompagnato da altri reati: soprattutto dall’ipotesi di falso in atto pubblico (nell’11,5% dei casi presso le sezioni Gip/Gup e nel 31,8% nel dibattimento). I procedimenti per altri capi d’accusa proseguiranno anche dopo la riforma. Mentre, nel caso di condanne che riguardano altri reati oltre all’abuso d’ufficio, sarà necessario rideterminare la pena. Occorrerà anche tenere conto del nuovo reato di “indebita destinazione di denaro”, che il Governo ha introdotto la scorsa settimana (è in vigore dal5 luglio). La fattispecie, recuperando alcuni aspetti della condotta dell’abuso d’ufficio, colpisce (con la reclusione da sei mesi a tre anni) il pubblico ufficiale che destina denaro o altri beni a un uso diverso da quello previsto da leggi da cui “non residuano margini di discrezionalità”. Comportamenti che finora erano inquadrati (dopo l’abolizione del peculato per distrazione) nell’abuso d’ufficio. Cassazione, più tempo per chiedere la discussione di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2024 Dal 1° luglio si applicano alle impugnazioni le norme post-emergenziali. La trattazione orale si può proporre entro 15 o 25 giorni prima dell’udienza. Dall’1 luglio scorso le regole sui giudizi di impugnazione, introdotte a seguito della diffusione del Covid-19 e la cui vigenza era stata più volte prorogata fino al 3o giugno 2024, hanno lasciato il posto alle norme della riforma Cartabia, che mettono a regime alcuni dei meccanismi semplificati sperimentati nell’emergenza. E il decreto legge 89, in vigore proprio dal 30 giugno, che si occupa di “efficienza del processo penale”, conferma la trattazione scritta come modalità ordinaria per il giudizio in Cassazione, ma prevede termini più ampi per fare domanda di discussione orale. Ma andiamo con ordine. Gli articoli 23 e 23-bis del decreto legge 137 del 2020 hanno introdotto per i giudizi di cassazione e d’appello un procedimento in camera di consiglio senza l’intervento delle parti, salvo richiesta di una di esse di discussione orale o, nel caso di appello, salvo i casi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. L’articolo 94, comma 2, del decreto legislativo 150 del 2022 (riforma Cartabia) conteneva una disposizione transitoria secondo la quale le regole contenute negli articoli 23 e 23-bis del decreto legge 137 del 2020 dovevano continuare ad applicarsi per le impugnazioni proposte sino alla data (risultante dopo numerose proroghe) del 30 giugno 2024. La perdurante applicabilità della normativa emergenziale è stata di recente ribadita, con riguardo al giudizio d’appello, dalle Sezioni unite della Cassazione che, con sentenza del 27 giugno scorso, hanno stabilito che il termine per comparire dinanzi al giudice d’appello deve essere commisurato in 40 giorni, come prevede l’articolo 601, comma 3, del Codice di procedura penale nella formulazione introdotta dalla riforma Cartabia, solo per le impugnazioni presentate dopo il 30 giugno 2024. Il decreto legge 89 del 2024 lascia inalterato l’articolo 94, comma 2, del decreto legislativo 150 del 2022 nella versione risultante dal decreto legge 215 del 2023 che ha modificato il termine della disposizione transitoria fino al 30 giugno 2024. Sicché i giudizi di appello promossi con impugnazione depositata a partire dall’1 luglio seguiranno il rito Cartabia con i nuovi termini di comparizione. Nei 40 giorni antecedenti l’udienza fissata deve essere notificato l’avviso che si procederà con udienza in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti, salvo che l’appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore chiedano di partecipare nel termine perentorio di 15 giorni dalla notifica del decreto. L’udienza a trattazione scritta non partecipata e con scambio di memorie diventa strutturalmente la regola, con facoltà delle parti di chiedere la discussione orale entro il termine di decadenza. La discussione orale può anche essere disposta d’ufficio dalla corte d’appello ed è necessaria in caso di rinnovazione dell’istruttoria. L’articolo n del decreto legge 89 interviene invece sulle disposizioni della riforma Cartabia per il rito in Cassazione, introducendo degli aggiustamenti nel nuovo testo degli articoli 610 e 611 del Codice di procedura penale e ribadendo che le nuove regole si applicheranno ai ricorsi proposti dopo ilio giugno 2024. Si stabilisce intanto che l’avviso di fissazione dell’udienza, da notificare nei 3o giorni antecedenti, debba indicare che il ricorso sarà deciso in camera di consiglio senza le parti, così sancendo che questa è la forma ordinaria di trattazione dei giudizi. Tuttavia, nell’articolo 611 del Codice di procedura penale, che nell’impianto concepito dalla riforma prevedeva la facoltà delle parti di chiedere la discussione orale entro il termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione dell’avviso, il decreto legge 89 apporta una modifica importante per le parti sostituendo questo termine di decadenza con un termine a ritroso rispetto alla data di udienza: 15 giorni liberi per i procedimenti da trattare in camera di consiglio nelle forme dell’articolo 127 del codice di rito, 25 giorni liberi per gli altri procedimenti ordinari. In tal modo il legislatore ritiene di lasciare più adeguati spazi di riflessione alla parte per decidere se optare per la trattazione orale, senza essere condizionata a chiederla dai tempi limitati, con conseguenti superflui aggravi per la Corte di cassazione. Tribunale per la famiglia, la riforma slitta. “Un anno? Troppo poco” di Luciano Moia Avvenire, 8 luglio 2024 Critici i magistrati minorili sulla decisione di rimandare al 2025 la riforma. “Troppi errori in questa legge che penalizza i minori più fragili. Serve più tempo per rimediare a tre gravi errori”. Un appello ascoltato a metà. Dopo mesi di iniziative e di proteste da parte di magistrati, avvocati e addetti ai lavori, il Governo ha preso atto che la riforma finalizzata a realizzare il Tribunale per la famiglia non è percorribile. L’entrata in vigore, prevista per il 17 ottobre di quest’anno, è slittata alla stessa data del prossimo anno. Una scelta che, si dice, dovrebbe preludere a un rinvio più lungo. Magistrati minorili e procuratori dei minori chiedono da tempo uno slittamento almeno fino al 2030, periodo minimo - spiegano - per intervenire profondamente sulla riforma Cartabia ed eliminare i tanti aspetti che rischiano se, applicati, di “determinare il fallimento completo della sua attuazione e, con questo, la paralisi di un settore della giurisdizione essenziale per la tutela dei diritti fondamentali della persona e la protezione dei minorenni”, come scrive in un comunicato l’Associazione dei magistrati per i minori e per la famiglia (Aimmf). Al di là degli aspetti tecnici, più volte messi in luce, ci sono due motivi di fondo che rendono vana la pretesa di rivoluzionare il diritto minorile. Impossibile pensare a una riforma così importante a costo zero e senza aumentare gli organici dei magistrati minorili. “È stata solo un’illusione del legislatore della legge delega 26 novembre 2021 n.206 immaginare una Riforma tanto impegnativa - scrivono il presidente Aimmf Corrado Cottetellucci e il segretario generale Annamaria Casaburi - senza una valutazione preventiva di fattibilità organizzativa e senza deliberare alcun investimento in risorse umane e tecniche”. Basteranno quindi 12 mesi per rivedere profondamente una legge che, secondo il parere unanime dei magistrati minorili, è tutta da rivedere? No, in assenza di investimenti volti a colmare le lacune da tempo ampiamente evidenti, questa proroga “avrà come unico risultato quello di dilazionare le carenze e aggravarne gli effetti: ampliamento delle piante organiche delle Procure e dei Tribunali, per quanto riguarda sia i magistrati che il personale amministrativo, superamento della mancata previsione di personale per l’ufficio del processo, dotazione ed effettiva implementazione dei sistemi informativi, reperimento delle soluzioni logistiche idonee, costituiscono altrettante precondizioni per l’attuazione della Riforma, senza le quali ogni rinvio è destinato solo a differirne nel tempo il fallimento”. I motivi di questa ferma opposizione alla riforma Cartabia da parte dei giudici dei bambini e dei ragazzi non sono teorici. Da quasi un anno e mezzo sono state attuate alcune delle disposizioni previste dalla nuova legge. Sono stati introdotti nuovi istituti e forme processuali che hanno in buona misura modificato le forme del processo e, con queste, le modalità e le priorità del lavoro di magistrati ed avvocati. Sono anche aumentati i carichi di lavoro “soprattutto per l’accresciuta incidenza dei provvedimenti connotati da urgenza e di quelli che comportano gli allontanamenti dei minorenni in condizioni di rischio”. Non si sono ancora dati certi, perché “l’assenza di un sistema informatico e statistico pienamente funzionante e aggiornato non consente ora di misurare l’entità degli effetti di queste modifiche”. Ma i magistrati non hanno dubbi. “È certo che nell’ultimo anno è aumentato il numero e la durata dei procedimenti pendenti ordinari, perché non proposti in forma urgente. Si tratta di un dato preoccupante perché nella materia civile della tutela dei minori ogni procedimento richiede di essere trattato con prontezza; una tendenza destinata, in assenza di correttivi, ad accrescersi nel periodo della proroga”. Da qui la necessità di una profonda revisione dell’impianto della riforma, finalizzata ad eliminare quegli aspetti critici più volte evidenziati che, secondo gli esperti, finiscono per tradursi “in un arretramento nel sistema delle tutele predisposte a vantaggio dei minorenni”. Tre, soprattutto, gli aspetti che concorrono a rendere la riforma Cartabia un boomerang per la giustizia minorile: l’abolizione della collegialità nelle decisioni riguardanti la responsabilità genitoriale, affidate ad un giudice solo, la mancanza della necessaria specializzazione dei magistrati del settore, richiesta dalla legge delega e ripetutamente disattesa dalla normazione successiva, l’estromissione dei giudici onorari, esperti in scienze umane, dai collegi civili che trattano i procedimenti sulla responsabilità genitoriale”. Tre errori che - conclude il comunicato Aimmf - costituiscono altrettanti errori nell’impianto della legge delega che occorre correggere”. E si tratta di questioni così complesse da richiedere ben più di dodici mesi di lavoro. Sospettare un’infiltrazione mafiosa non consente allo Stato di agire come se fosse provata di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 luglio 2024 Le misure di prevenzione sono una peculiarità tutta italiana, oggi sotto osservazione da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che fatica a comprendere come sia possibile che una persona assolta dalla originaria accusa di essere mafioso o contiguo alla mafia, possa comunque essere privato di tutti i suoi beni perché sospetti di essere di provenienza mafiosa. Confidiamo, o comunque vivamente auspichiamo, che la giustizia sovranazionale sappia a breve ricondurre sui giusti binari dello Stato di Diritto la legislazione e la giurisprudenza nazionale, che in nome del contrasto - sacrosanto - alle mafie, ha dotato lo Stato di una micidiale santabarbara, in grado di radere al suolo - come si faceva in Vietnam con il napalm - anche ciò che con la mafia non ha nulla a che fare. Senonché, questo italico museo degli orrori non finisce qui. Per quanto incredibile possa sembrare, esistono infatti nel nostro ordinamento strumenti normativi ancora più invasivi delle testé evocate misure di prevenzione patrimoniali. Due in particolare: le c.d. interdittive antimafia, e lo scioglimento dei comuni per ritenute infiltrazioni mafiose. Protagonisti assoluti di queste micidiali procedure poliziesche sono i Prefetti, che - quanto alle interdittive - le adottano direttamente ed autonomamente, con pienezza di poteri; mentre, quanto alle seconde, ne sono promotori ed istruttori principali. La caratteristica comune ad entrambi gli strumenti è la sufficienza del mero sospetto. D’altronde, è quello il parametro operativo delle polizie di tutto il mondo. Non è che possiamo fare una colpa alla polizia di operare in modo poliziesco. Il tema è il rilievo, la forza, la efficacia che queste norme sciagurate assegnano al sospetto poliziesco. In uno Stato di Diritto, ci aspetteremmo non debba accadere mai che si attribuisca al sospetto una forza ed una incidenza sulla vita e sui diritti dei cittadini pari a quello della prova di un fatto illecito. Sospettare una infiltrazione mafiosa - osiamo pensare - non dovrebbe mai consentire allo Stato di agire come se l’infiltrazione fosse provata. E se proprio dovessimo rassegnarci ad un simile obbrobrio, per la superiore ed assorbente esigenza di contrastare le mafie italiche, immagineremmo almeno che un ordinamento civile e democratico prevedesse un sistema di controlli giurisdizionali stringenti ed efficaci, volti a sindacare con la dovuta severità la legittimità di quei provvedimenti. Beh, scordatevelo. La percentuale di annullamenti sia delle interdittive prefettizie che dei decreti di scioglimento di Amministrazioni comunali democraticamente elette è statisticamente risibile. D’altronde, è un controllo affidato ai giudici amministrativi, che sono giudici di legittimità, non di merito, e che dunque limitano il proprio sindacato al rispetto formale delle procedure. E che, per mettere subito in chiaro che non hanno nessuna intenzione di impicciarsi del lavoro dei nostri intoccabili Prefetti, hanno inventato una bella regoletta, cioè un parametro valutativo della sufficienza del sospetto, la formula magica del “più probabile che non”. Essi ci spiegano, sussiegosi, quanto sia vana la pretesa dei ricorrenti di provare la infondatezza dei sospetti in nome dei quali viene distrutta una piccola o grande impresa, o viene annullato il voto popolare. Voi forse invocate la prova che, avendo voi tra i vostri duecento dipendenti anche la cugina incensurata del boss mafioso della zona, questo implichi una qualche effettiva infiltrazione mafiosa nell’azienda? Sciocchini. È sufficiente che l’ipotizzata infiltrazione sia “più probabile che non”. Non è che abbiamo tempo da perdere. Mafie al Nord. Così le voci dei ragazzi smascherano le scimmiette negazioniste di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2024 Ma davvero la mafia si è resa invisibile? Veramente non la si vede più in giro? Siamo certi che al Nord è diventata inodore incolore e insapore? Quando si dice tornare indietro… Tredici anni fa, con Martina Panzarasa, feci una ricerca sulla ‘ndrangheta di Buccinasco, la più forte della Lombardia, quella che dettava legge nel sud-ovest milanese e faceva da crocevia al Nord per i traffici di droga dopo averlo fatto per i sequestri di persona. La politica di quella zona dell’hinterland ne sminuiva la presenza. Voci, spiegava qualcuno un po’ seccato, calunnie anticalabresi. Poi un giorno andammo a presentare la nostra ricerca in una libreria milanese. Lì vennero a sentirci degli insegnanti delle scuole medie di Buccinasco e dintorni. E spiegarono a tutti: come non si sapeva niente? I nostri ragazzi sapevano benissimo con chi non dovevano litigare, perché con i figli dei boss calabresi poteva succedere qualcosa di brutto. La classe dirigente non si era accorta di quel che sapevano a memoria anche i bambini. Oggi dopo tonnellate di mafie silenti, di fine della violenza mafiosa, di “c’è solo corruzione”, ci rendiamo conto purtroppo che lo scenario non è cambiato molto. E questo nonostante gli indubbi progressi fatti dall’associazionismo e dalla sensibilità antimafia. È stagione di esami e di compiti scritti all’università di Milano. E ancora una volta gli studenti più adulti raccontano con immediata freschezza ciò che sanno e vedono nelle città e nei paesi in cui vivono. Altro che spariti. Sentite qui cosa dicono sui loro compiti, responsabilmente firmati. Alice racconta che a Osnago: “Anni fa è iniziata la costruzione di un immenso maneggio, il primo che vedessi di quelle dimensioni, che diventò presto di interesse internazionale. Il proprietario era costruttore di origine calabrese a capo di un impero immobiliare di 100 milioni di euro. Nel 2018 venne arrestato e i suoi beni confiscati. Nel passato dell’imprenditore risultava anche un precedente relativo a una condanna a quattordici anni per l’omicidio. Sull’arrivo di quei soldi nessuno si era interrogato prima”. Sara invece racconta così la realtà del suo quartiere: “Nella prima adolescenza iniziai a sapere che la costruzione di ville moderne e tecnologiche impiegavano molto meno tempo rispetto alla realizzazione del nuovo scivolo al giardinetto comunale, (…) che era un trionfo di aree videosorvegliate (…) che il paninaro continuava ad accettare solo contanti; (…) che vi erano attività e macchine vittime di incendi ma non seguite da denunce”. Michele racconta quanto osserva: “Nel ristorante che frequento ogni tanto, vedo sempre un cliente presentarsi sempre in tuta e accompagnato da amici dallo stesso accento del sud, viene salutato dai capi in modo diverso rispetto a clienti normali, ottenendo un trattamento speciale, non leggendo il menù ed entrando in cucina senza chiedere il permesso a nessuno, ‘lui può farlo’. Questa è proprio una delle capacità dell’organizzazione: mimetizzarsi nell’ambiente in cui si trova e trarne vantaggio”. Insomma, sarebbe il caso che invece di fare le scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano, ci mettessimo tutti a guardarci intorno, per creare un formidabile e consapevole passaparola in grado di aprire gli occhi, per esempio, sui locali che il covid ha aiutato a consegnare in proprietà alla camorra. Non c’è bisogno di tornare bambini per dire che il re è nudo. Non c’è bisogno di rimettersi i pantaloncini corti e riprendere sembianze infantili. Lo si può dire tranquillamente da adulti, con voce matura. I sindaci, gli amministratori, gli imprenditori e i professionisti, i giornalisti e gli insegnanti stessi parlino. Per un Nord ospitale con i cittadini per bene e altamente inospitale per i soldi e le persone al servizio dei clan. Capace di dire finalmente “la mafia è nuda”. “Mio marito ucciso dall’odio social, fermate la cattiva politica” di Carlo d’Elia Corriere della Sera, 8 luglio 2024 Lo sfogo della signora Debora Russo, vedova di Claudio Manara, sindaco suicida a Corte Palasio: dopo la tragedia che ha colpito la sua famiglia lo scorso 29 maggio durante la campagna elettorale: “Era amareggiato per le tante bugie dette nei suoi confronti”. “Ricordo bene quella serata: una volta tornati a casa mio marito si è sdraiato sul divano, sudava, non era tranquillo. Non riusciva a capire come poteva difendersi da tutte quelle false accuse emerse in una campagna elettorale piena d’odio. Era amareggiato per le tante bugie dette nei suoi confronti”. Sfogliando le carte raccolte nell’ultimo mese, non riesce a darsi pace Debora Russo, la moglie di Claudio Manara, 67 anni, il sindaco di Corte Palasio, comune di appena 1.500 abitanti nel Lodigiano, morto suicida il 29 maggio. La donna ripercorre le ultime 24 ore del marito, ex bancario e sindacalista: l’evento pubblico per la presentazione della lista per il secondo mandato da sindaco la sera del 28 maggio, la discussione sul presunto sovraindebitamento comunale, il post su Facebook scritto qualche ora prima di morire contro “gli urlatori da bar” e l’ultima telefonata con il suo Claudio, alle 18.29, poche ore prima del decesso. Poi, alle 21, la tragedia, con la scoperta del cadavere in Comune da parte della stessa moglie, sposata nel 2020, con cui da 13 anni condivideva tutto. Uno choc tremendo, l’inizio di un calvario per lei e i suoi due figli, avuti da un’altra relazione. Sulla vicenda è stato aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Cosa ricorda del 29 maggio? “Ho chiamato Claudio come facevo sempre. Abbiamo parlato della cena, del fatto che accompagnavo il cane dal veterinario, tutto è sempre stato sotto controllo. Poi la tragedia. Capisce perché è stato uno choc tremendo? Qualcosa di impossibile da prevedere. Anche se Claudio, in effetti, soffriva molto per le cattiverie e falsità dette da qualcuno sul suo conto”. Cos’è accaduto durante la presentazione della lista del 28 maggio? “È stata una serata con un dibattito molto acceso. I toni sono stati esasperati, veniva interrotto spesso, ma è stato solo il culmine di una lunga campagna elettorale piena di attacchi frontali, non solo verso l’amministrazione comunale, ma contro la persona”. In che senso? “In tre settimane sono arrivati centinaia di insulti sempre dalle stesse persone. Sono riuscita a fare delle ricerche sui social e ho trovato una quantità enorme di termini lesivi utilizzati contro mio marito. È stata una campagna elettorale d’odio e di strumentalizzazioni, non altro. Qualcosa di pesante, impossibile da sostenere per chiunque”. Per esempio? “Argomenti fantoccio come la presunta indagine della Corte dei Conti, poi archiviata per un errore di trascrizione di un dipendente dell’ufficio finanziario, che peraltro aveva pubblicato sul sito ufficiale del Comune la propria “responsabilità in buona fede”. Era solo un atto denigratorio contro Claudio, che era cristallino e di una disponibilità e correttezza uniche”. C’è un momento particolare che le rimarrà in mente? “Le parole di Claudio la sera prima della tragedia. Nel suo intervento durante la presentazione del suo programma elettorale, ha dedicato l’ultima slide a elencare solo una parte degli insulti ricevuti sui social, per poi concludere dinanzi a tutti i presenti: “Io non ce la faccio più”. A pensarci mi vengono i brividi”. Suo marito aveva deciso di ricandidarsi per il secondo mandato dopo aver vinto nel 2019. “Cinque anni fa, Claudio aveva pensato di candidarsi. Non era un politico di professione, ma voleva dare il suo contributo per la comunità. E aveva vinto per soli quattro voti. Credeva nella sana politica. Ricordo ancora la prima cosa che aveva fatto appena eletto: aveva chiamato l’Auser di Corte Palasio per essere accompagnato dai cittadini disabili. È sempre stato legato al sociale”. Cosa chiede ora? “Io non ho più mio marito, è difficile andare avanti. Ma bisogna fermare questo delirio mediatico. Bisogna fermarlo. Serve la sensibilità di tutti per riuscire a capire quando fermarsi e limitarsi con le accuse. Serve un freno, verso la lesione della moralità di una persona. Mio marito aveva depositato in passato anche delle querele per diffamazione, ma tutto era finito in nulla. Ora chiedo giustizia. Voglio sapere la verità. Quello che è accaduto a lui non deve accadere più”. Giustizia riparativa fuori dal processo: è un servizio di cura delle relazioni di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2024 La giustizia riparativa non ha natura giurisdizionale: i “paletti” messi dai giudici contribuiscono a frenare l’avvio dei programmi. Il procedimento di giustizia riparativa non ha natura giurisdizionale; si pone, piuttosto, in chiave di complementarietà “integrativa” del procedimento penale, nel quale si può innestare in qualsiasi stato e grado si trovi. I programmi riparativi e le attività ad essi connesse appartengono, dunque, non al procedimento penale, ma “all’ordine di un servizio pubblico di cura della relazione tra persone, non diversamente da altri servizi di cura relazionale ormai diffusi in diversi settori della sanità e del sociale”. Lo ha affermato la Cassazione che, con la sentenza 24343 depositata il 20 giugno, pronunciandosi sulla disciplina introdotta dalla riforma “Cartabia” (decreto legislativo 150/2022), ha precisato le conseguenze di alcuni “paletti”, già in parte messi dalla giurisprudenza, che rischiano di frenare ancora l’avvio dei programmi di giustizia riparativa, già in stand-by a causa dei ritardi organizzativi accumulati sul fronte della istituzione dei Centri per la giustizia riparativa e dell’accreditamento dei mediatori. Per la Cassazione, poiché l’oggetto e la finalità del percorso riparativo sono essenzialmente diversi da quelli del processo penale, non possono in entrambi operare gli stessi principi. Anzi, l’avvio del percorso di restorative justice può addirittura prescindere dalla sussistenza di un procedimento penale in corso. Ciò comporta - secondo i giudici - che, all’interno del procedimento riparativo, operino regole peculiari di norma non mutuatili da quelle del processo penale e, anzi, con esse spesso incompatibili: volontarietà, equa considerazione degli interessi tra autore e vittima, consensualità, riservatezza, segretezza. Da tali premesse, la Cassazione - consolidando una linea interpretativa già affermata in precedenti pronunce (si veda Cassazione 6595 del14 febbraio 2024) - fa derivare una serie di ricadute sistematiche di notevole impatto operativo. Anzitutto, viene riaffermata la natura discrezionale, non gravata da alcun onere motivazionale, della decisione dell’autorità giudiziaria sull’invio della parte a un centro di mediazione (si veda anche Cassazione 25367 del 9 maggio 2023) e la conseguente non impugnabilità del provvedimento con il quale il giudice non accolga l’istanza della parte di invio a un Centro di giustizia riparativa, respingendo anche la domanda di sospensione del processo. In secondo luogo, la Cassazione precisa che la giustizia riparativa non può essere richiesta alla Corte stessa né in sede di legittimità si può invocare la sospensione del procedimento penale pendente per consentire all’imputato ricorrente di partecipare ai percorsi riparativi. Durante il giudizio di legittimità, dunque, le parti dovranno rivolgere la relativa istanza al giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (articolo 45-ter, disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale), ovvero potranno attivarsi nella fase esecutiva, a valle del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (così anche Cassazione 16704 del 26 marzo 2024). Potenza. Detenuto di 81 anni si suicida, era accusato dell’omicidio della moglie di Eleonora Panseri fanpage.it, 8 luglio 2024 Si è tolto la vita in prigione Vincenzo Urbisaglia, l'81enne detenuto a Potenza e accusato di aver ucciso a Maschito lo scorso 30 giugno la moglie Rosetta Romano, 73 anni. A darne notizia sono i sindacati di Polizia penitenziaria, tra cui Aldo di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Spp. "È il 55esimo suicidio" nelle carceri italiane, commenta il sindacalista. "Questo caso dimostra chiaramente che vi è bisogno di rivedere il sistema di accesso al carcere. Siamo abbandonati a noi stessi, le carceri stanno vivendo il peggior momento nella storia della Repubblica, la politica sta dando il peggio in termini di incapacità di analisi e risoluzioni di un problema che è sotto gli occhi di tutti", ha aggiunto di Giacomo. "Il rispetto per le vita non interessa alla politica come la condizioni disumane in cui si vive nelle carceri italiane sia per i detenuti che per gli operatori penitenziari". "In qualsiasi altro Stato le dimissioni del ministro e del sottosegretario Del mastro sarebbe state automatiche da noi sembra quasi un merito non essere capaci di trovare soluzioni. Nel frattempo ci aspetta un estate di rivolte, fughe di massa e vite spezzate sia tra i detenuti che tra gli agenti", conclude. Secondo quanto è stato ricostruito nei giorni scorsi, la moglie di Urbisaglia sarebbe morta per soffocamento, lui l'avrebbe strangolata al termine di un litigio. Sul corpo era stata disposta anche l'autopsia per stabilire con esattezza la causa del decesso. Da un primo esame erano stati esclusi traumi esterni. L'uomo, operatore ecologico in pensione, era stato portato in un primo momento nel carcere di Melfi. Subito dopo il delitto sul posto era arrivato rapidamente anche il sostituto procuratore della Repubblica di Potenza che coordinava le indagini degli investigatori. Cuneo. Detenuti suicidi, quel dramma nelle carceri che nessuno vuole vedere di barbara morra La Stampa, 8 luglio 2024 Oggi nell’isola pedonale di Cuneo la “maratona oratoria” degli avvocati per informare sul sovraffollamento e la mancata “rieducazione”. Risale allo scorso gennaio l’ultimo suicidio in carcere a Cuneo e in tutta Italia, dall’inizio dell’anno, sono 50 i detenuti che si sono tolti la vita. “Una situazione insostenibile a cui bisogna porre immediato rimedio” sostengono gli avvocati penalisti della Camera penale “Vittorio Chiusano” che per domani alle 18 hanno organizzato una “maratona oratoria” nell’isola pedonale di via Cavallotti, davanti alla libreria Stella Maris. L’obiettivo è informare i cittadini di quanto, a causa di sovraffollamento e della mancata “rieducazione”, sta accadendo negli istituti penitenziari. L’incontro, cui sono invitati a partecipare in molti, è organizzato insieme alle associazioni Ariaperta Cuneo, “Libera” Cuneo e la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. Attorno ai carcerati in regime di semilibertà c’è una rete che, partendo dal Comune mette in campo educatori e altri operatori specializzati. L’associazione Ariaperta integra dove il pubblico non arriva. Dal 1994 i suoi volontari sono a disposizione per colloqui con i detenuti anche di carattere tecnico-giuridico. Si impegnano versando migliaia di euro l’anno per quello che chiamano “il contributo minimo di dignità”, dieci euro al mese ai carcerati nullatenenti per le piccole spese che pure dentro le mura sono necessarie. Al Cerialdo c’è anche una biblioteca gestita da quattro volontarie per quattro pomeriggi la settimana e un’istruttrice di ginnastica tiene lezioni di fitness nella palestra attrezzata grazie all’associazione Matteo Costamagna. Ariaperta, all’esterno, gestisce un alloggio dato dal Comune per chi ha da scontare misure alternative o ha permessi premiali o, appena uscito, entra in un percorso di reinserimento. I posti sono quattro e in 23 anni sono passate 410 persone. Il tutto in collaborazione con operatori istituzionali. “Aderiamo pienamente all’iniziativa dell’Unione camere penali - spiega Paolo Romeo, dirigente scolastico e presidente dell’associazione Ariaperta -. In questi giorni il Consiglio dei ministri ha approvato un pacchetto di misure deflattive per il carcere e ne siamo ben contenti. Ma non si può pensare di continuare con logiche repressive illiberali che aumentano le pene e poi cercare di compensare adottando misure deflattive. Pensare che più carcere sia una soluzione per i problemi del Paese è sbagliato e la responsabilità è dei vari Governi che si sono succeduti nel tempo, nessuno escluso”. Al di là della gravissima “scia di sangue dei suicidi” la grossa piaga è il sovraffollamento. “Questo problema riguarda tutti i penitenziari compreso Cuneo - aggiunge Romeo - denunciamo l’urgenza di interventi in questo senso. Le attività di rieducazione sono ridotte al minimo: a Cuneo gli operatori fanno quello che possono e i detenuti si trovano perlopiù in continuo ozio. D’altra parte non avrebbe senso attaccare il singolo carcere, sarebbe come attaccare il sistema dell’istruzione partendo da una scuola in particolare”. Domani è prevista la partecipazione del Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano e di quello locale, Alberto Valmaggia, di avvocati, di appartenenti e diverse istituzioni e associazioni. Reggio Emilia. Stop ai suicidi in carcere, la Maratona oratoria della Camera Penale di Serena Arbizzi Gazzetta di Reggio, 8 luglio 2024 Mercoledì la Camera Penale di Reggio Emilia “Giulio Bigi” organizza una maratona oratoria dalle 10.30 alle 12.30. Si tratta di un evento organizzato per dare “voce a tutti coloro che non possono parlare”. In particolare, l’iniziativa vuole accendere un ulteriore faro sulla condizione dei detenuti e delle carceri, con un numero di suicidi che si innalza a livelli esponenziali. “Il 20 maggio 2024 le cronache davano notizia dell’ennesima perdita di una vita umana affidata alla custodia dello Stato, la 34esima dall’inizio dell’anno - afferma il direttivo della Camera Penale reggiana - in pari data l’Unione delle Camere Penali italiane invitava tutte le Camere Penali territoriali a dare il via a una maratona oratoria finalizzata a denunciare di fronte alla società civile la condizione inumana dei detenuti, il degrado della realtà carceraria nella quale si vedono costretti a svolgere la propria attività lavorativa gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori tutti, le inefficienze del sistema, le mancate riforme, l’irresponsabile indifferenza della politica. La strage silenziosa nelle carceri italiane continua e a oggi il numero dei suicidi è salito a 53. La Camera Penale di Reggio Emilia ha subito accolto l’invito ritenendo compito primario dell’avvocatura la tutela dei diritti fondamentali di tutti e soprattutto di chi non gode di tutela alcuna perché ultimo tra gli ultimi. Ringraziamo per l’adesione all’iniziativa proposta i tanti colleghi e le tante persone che, a vario titolo, con ruoli, sensibilità e funzioni diverse, condividono con noi la convinzione che avere carceri umane all’interno delle quali sia garantito il rispetto dei diritti è una questione di civiltà che travalica i motivi che hanno determinato l’ingresso dei singoli”. Il direttivo della Camera Penale invita i cittadini a partecipare alla maratona oratoria che si terrà, dunque, mercoledì. La delibera dell’Unione Camere Penali Italiane muove dalle premesse del “costante aumento del sovraffollamento carcerario e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita” e pone l’accento sulla necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica. Asti. Carcere, sicurezza, rieducazione di Domenico Massano* Ristretti Orizzonti, 8 luglio 2024 In un recente comunicato congiunto delle organizzazioni Sindacali del comparto sicurezza della casa di reclusione A. S. di Asti si denuncia una situazione interna al carcere fuori controllo, ingestibile ed in mano alla criminalità organizzata. La situazione viene illustrata, in particolare, riportando il comportamento di un detenuto ristretto da diverso tempo nel reparto di isolamento che, non vedendo accolte alcune sue richieste (“pretese”), protesta sia con il rifiuto di entrare nella cella, sia con la battitura delle sbarre. Dopo aver criticato l’”assordante silenzio” dell’Amministrazione penitenziaria e della Direzione del carcere nella gestione di tale situazione, le sigle sindacali si sono, quindi, rivolte direttamente al Prefetto per risolvere tale situazione che ha anche ricevuto una sollecita attenzione da diversi politici, tanto da esser tradotta in interrogazione parlamentare. Provando ad analizzare un po’ questa vicenda, quantomeno particolare per come è riportata nel comunicato e dai mezzi di informazione, emergono alcuni interrogativi. Ma davvero la protesta “pacifica”, per quanto fastidiosa possa essere, di un detenuto che fa rumore battendo sulle sbarre e si rifiuta di rientrare nella cella nella sezione di isolamento è la prova inequivocabile ed esemplificativa di un carcere fuori controllo ed in mano alla criminalità organizzata, tanto da indurre i sindacati degli agenti penitenziari, dopo aver criticato la direzione dell’istituto e l’Amministrazione Penitenziaria, a rivolgersi al Prefetto? Ma davvero alcuni politici, silenti sui tanti problemi delle carceri e di quello astigiano in particolare, sentono il bisogno di preparare un’immediata interrogazione parlamentare a partire da questa “pacifica”, seppur fastidiosa, protesta, intesa come specchio dei problemi del carcere? In un momento in cui il drammatico crescendo del numero di suicidi di detenuti (e di agenti) evidenzia tutte le problematicità del sistema carcerario italiano, non si rischia così di dimenticare o mascherare le tante criticità del carcere astigiano, per lo più analoghe a quelle evidenziate a livello nazionale, che limitano il perseguimento della finalità rieducativa della pena costituzionalmente prevista, a partire dal cronico sovraffollamento (circa 300 detenuti a fronte di una capienza di 200 posti), alla fatiscenza della struttura, all’inadeguatezza di alcuni locali, alle lacune nell’assistenza sanitaria, alle carenze di organico, alla mancanza di opportunità lavorative e trattamentali (da tempo ad esempio sono chiuse le sale attività), …. Un carcere che sconta, inoltre, la mancanza di quegli adeguamenti strutturali e trattamentali che lo renderebbero più adatto ad accogliere detenuti di A. S., dopo il passaggio formale da casa circondariale a casa di reclusione nel 2015. Chissà se le ragioni dell’isolamento di questo detenuto e se le richieste (le “pretese”) alla base della sua protesta, sicuramente fastidiosa ma in cui non è dato ravvisare violenze (che sarebbero sicuramente stata segnalate se vi fossero state), sono in parte determinate dalle criticità evidenziate. Lo scorso marzo il Presidente della Repubblica Mattarella nel ricevere i rappresentanti del corpo di Polizia Penitenziaria in Quirinale, richiamava l’importanza del loro ruolo “caratterizzato da aspetti di grande delicatezza: da quello della indispensabile sicurezza a quello finalizzato alla rieducazione per il possibile reinserimento nella vita sociale dei detenuti. In questo ambito si svolge il vostro impegno, tra questi due pilastri dell’attività”. Il Presidente nel sottolineare la centralità di un aspetto spesso dimenticato, ossia di come l’attenzione alla questione della sicurezza debba essere indissolubilmente legata all’attenzione alla garanzia della funzione rieducativa della pena, denunciava la gravità dell’attuale situazione, richiamando il tragico stillicidio di morti che si sta consumando nelle carceri: “Il numero dei suicidi nelle carceri dimostra che servono interventi urgenti. Tutto questo va fatto per rispetto dei valori della nostra Costituzione, per rispetto di chi negli istituti carcerari è detenuto e per chi vi lavora”. Nelle sue conclusioni, infine, il Presidente ribadiva le responsabilità di un coinvolgimento della comunità nel suo insieme: “Tutte le istituzioni e i corpi sociali si sentano non estranei al mondo penitenziario ma si sentano chiamati a dare collaborazione”. L’impressione, però, è che manchi una cultura diffusa orientata dalla prospettiva rieducativa della pena (art. 27 Cost.), che dovrebbe essere sostenuta da un impegno politico e da una pratica amministrativa capaci di valorizzarla e darvi concreta attuazione, se non per avviare una riforma del mondo carcerario, quantomeno per appianare le diverse criticità che lo attraversano, garantendo sia la dignità del lavoro del personale all’interno del carcere, sia la dignità della pena per i detenuti. Forse sarebbe importante ripartire da qui, magari iniziando a dimostrare la stessa sollecitudine ed attenzione rivolta alle questioni di sicurezza anche alle opportunità trattamentali ed educative, ed investendo nella costruzione di percorsi che coinvolgano “tutte le istituzioni ed i corpi sociali” per far sì che la reclusione non si traduca in un tempo svuotato, di privazione di diritti e speranza, ma perché il tempo “sottratto” abbia sempre un significato e la pena conservi la sua tensione rieducativa costituzionalmente prevista. *Pedagogista e volontario carcerario Palermo. Detenuto muore d’infarto e scoppia la rivolta in un’altra sezione palermotoday.it, 8 luglio 2024 Il Garante dei detenuti oggi consulterà la cartella clinica dell’uomo, morto per arresto cardiaco. Un detenuto di 73 anni è morto sabato sera per un arresto cardiaco nell’ottava sezione del carcere Ucciardone. Gli agenti della Polizia penitenziaria hanno fatto di tutto per salvare il detenuto, “e - come fa sapere il segretario regionale del Fsa Cnpp Maurizio Mezzatesta - poco dopo è scattata una protesta alla nona sezione, sottolineando che i due eventi non sono collegati”. Il racconto del sindacalista è il seguente: “Per futili motivi i detenuti hanno devastato le suppellettili delle proprie stanze, riversandole nel corridoio della sezione e hanno tentato di appiccare il fuoco. È professionalmente faticoso e umiliante lavorare negli istituti penitenziari in queste condizioni, per fortuna non si registrano feriti tra il personale, a cui va la nostra solidarietà. Da tempo il Cnpp chiede lo stato d’emergenza e carceri sicure”. Oggi il Garante dei detenuti di Palermo Pino Apprendi andrà all’Ucciardone per consultare la cartella clinica del detenuto deceduto e accertare se le sue condizioni di salute fossero compatibili con la carcerazione. Firenze. Inferno Sollicciano, record da 100 ricorsi contro il degrado nel carcere vergogna di Antonio Del Prete La Nazione, 8 luglio 2024 Sono stati presentati da detenuti che stanno scontando pene definitive. Emerge una vita impossibile: spazi personali di tre metri quadri invasi dalle cimici, confinati fra mura intrise di muffa a causa delle infiltrazioni. Cento ricorsi contro il carcere inumano. Sono stati presentati da altrettante persone che stanno scontando una pena definitiva nella casa circondariale di Sollicciano teatro, nei giorni scorsi, di una violenta sommossa scattata dopo il suicidio di un detenuto di vent’anni. Le istanze, supportate dall’associazione “L’altro Diritto”, hanno avuto anche un effetto boomerang: quello di ingolfare il tribunale di Sorveglianza, chiamato a decidere su questa mole di ricorsi. Vista la massa di atti da valutare, si apprende da fonti legali che stanno slittando le udienze per la trattazione di questi ricorsi. Ricorsi dall’esito pressoché scontato, però, in virtù di una sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a cui si appellano i ricorrenti, che fissa i paletti della dignità ambientale dietro le sbarre. Quella che a Sollicciano è stata smarrita. A far giurisprudenza c’è poi una sentenza dello stesso tribunale di Sorveglianza emessa lo scorso dicembre, alla quale si sono adeguate le successive pronunce che ci sono state finora. I giudici stanno riconoscendo il “trattamento inumano e degradante” subito dai ristretti. Il tam tam carcerario, l’impegno di associazioni come l’Altro Diritto e di alcuni legali specializzati, e pure il costante peggioramento delle condizioni di vita dentro il penitenziario fiorentino, hanno avuto l’effetto di creare una sorta di class action dei detenuti. A Sollicciano, molti detenuti vivono in uno spazio personale di tre metri quadri, infestato dalle cimici, confinati dentro mura intrise di muffa a causa delle infiltrazioni. In un cubo di cemento che è gelido d’inverno e rovente d’estate. Ma gli sconti che vengono concessi a chi fa ricorso (pari a circa il dieci per cento dei giorni trascorsi dentro) non servono a sanare la situazione catastrofica descritta nei sopralluoghi della Asl e, recentemente, anche in un recentissimo esposto presentato dai ristretti pochi giorni prima del suicidio del ventenne tunisino. Pochi giorni prima del gesto estremo di Fedi - che stava scontando un cumulo di pena che si sarebbe esaurito a fine 2025 - erano iniziate tensioni fra i detenuti per le condizioni della struttura. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata la mancanza d’acqua, carenza figlia delle condizioni vetuste delle tubature che, se la pressione viene spinta troppo, rischia di esplodere tutto. Una cinquantina di detenuti dell’ottava sezione hanno messo la loro firma sotto a una denuncia consegnata ai legali. Oggi, l’ottava sezione, come la terza e la quinta, sono le aree in cui la rivolta è stata più pesante. I danni causati dalle devastazioni, dagli incendi, e gli allagamenti figli dell’intervento dei vigili del fuoco, hanno reso i reparti inagibili. A tal proposito sono in corso trasferimenti di detenuti in altri carceri, e indagini della polizia penitenziaria che potrebbero portare a provvedimenti disciplinari. Firenze. Un anno fa il report dell’Asl: “Servono interventi urgenti”. Ma adesso è ancora peggio di Stefano Brogioni La Nazione, 8 luglio 2024 Muffe, infiltrazioni d’acqua, carenze anche nelle cucine, zanzare e cimici che pungono i detenuti. L’Igiene pubblica aveva documentato la necessità di lavori, che ancora non oggi non sono completati. L’ufficio Igiene pubblica fa un sopralluogo, ogni anno, dentro il carcere di Sollicciano. In quello del 2023, effettuato il 5 luglio, si confermano le croniche “importanti problematiche igienico-manutentive” che fanno scrivere al dg della Asl, Paolo Morello, in una lettera al tribunale, che nel carcere servono “urgenti interventi specifici”. In effetti, quello che emerge dalla relazione - il cui contenuto è confluito in diversi provvedimenti del tribunale di Sorveglianza che hanno accolto le istanze dei detenuti che si lamentavano delle condizioni “inumane e degradanti” della struttura in cui sono stati reclusi - è scoraggiante. Rilevate “evidenti tracce di infiltrazioni di acqua in mote zone a comune all’interno delle sezioni con conseguente distacco di intonaco” e, nei corridoi di accesso alle varie sezioni, “non è stata effettuata la sostituzione del vetro cemento, anche se già segnalata come necessaria”. Al reparto accoglienza, al momento del sopralluogo, ci sono celle inagibili. Con le pareti e il soffitto annerito da un pregresso incendio, piastrelle del bagno mancanti, nidi di vespe alla finestra che ne impedivano l’apertura, pozze d’acqua sul pavimento causate dalle perdite del bagno, muffe ovunque. Al ‘penale’ muffe nei locali doccia per lo scarso ricambio di aria, e umidità diffusa; al ‘giudiziario’ finestrature di vetro-cemento rotte in più punti, gli uccelli ai terrazzi attirati dagli avanzi di cibo lasciati dai detenuti (“possibili vettori di zecche”). Nelle celle zanzare e cimici schiacciate sui muri. Alcuni detenuti hanno mostrato i segni delle morsicature sui corpi. “Infiltrazioni con distacco di intonaco dal soffitto” evidenziate anche nel locale della preparazione dei pasti, “carenze di carattere strutturale” presenti in prossimità dell’accesso all’approvvigionamento del vitto. In cucina “le cappe risultano prive di filtri, sono accatastati strumenti di lavoro e materiali in disuso e il soffitto presenta distacchi di intonaco nonostante la tinteggiatura non recente”. Una seconda cucina, aperta nel 2020 (all’inaugurazione parteciparono anche i magistrati della Sorveglianza) chiusa perché già in ristrutturazione. “Le condizioni igienico sanitarie dei reparti visitati lasciavano effettivamente molto a desiderare - conclude il report - e, pur consapevole dell’endemicità del fenomeno, che ha molteplici causa, non ultima la conformazione strutturale ed edilizia del carcere che necessiterebbe di un vasto programma di ristrutturazione complessiva, si segnalava l’opportunità di interventi funzionali alla attenuazione del disagio e in particolare fornire detersivi necessari, il cambio frequente delle lenzuola solo nel periodo estivo evidenziano che nel ricambio del letto si è constatato anche essere intriso del sangue delle cimici”. A un anno di distanza, la situazione a Sollicciano è la stessa. Anzi, probabilmente peggio. Firenze. La presidente dei volontari: “In carcere frequente la negazione dei diritti” di Letizia Tassinari ilcuoioindiretta.it, 8 luglio 2024 Poche ore prima del gesto estremo il giovane detenuto suicida aveva incontrato un ragazzo dell’associazione Pantagruel: “Occorrono misure alternative, non le sbarre”. Sollicciano come un inferno, quello descritto in questi giorni (anche dai sindacati della polizia penitenziaria) dopo il suicidio del giovane detenuto: con sporco, mancanza di acqua, poco cibo, sovraffollamento, celle piccole, di pochi metri quadrati, con letti a castello a tre posti, uno sopra l’altro. Lo sanno bene i volontari della Pantagruel, associazione per i diritti dei detenuti, che da anni, nel carcere fiorentino, con progetti, impegnano i ristretti. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (come stabilisce l’articolo 27 della Costituzione Italiana). Quotidianamente - spiega Fatima Benhijji, attuale presidente della Pantagruel, dopo le dimissioni del professore Salvatore Tassinari - i nostri volontari constatano invece la negazione dei diritti umani e di cittadinanza: in carcere manca tutto, manca lo spazio minimo di sopravvivenza, che spesso ha determinato i richiami dell’Europa al nostro paese per il mancato rispetto della dignità umana, solo una minima parte dei detenuti lavora e solo una minima parte va a scuola. I nostri volontari, che hanno seguito un corso di formazione, instaurano con i detenuti e con le detenute un rapporto che va dagli aiuti materiali (soldi per telefonare a casa o per qualche piccola necessità), all’informazione sui loro diritti, e su possibili percorsi di reinserimento, all’ascolto della loro quotidiana sofferenza, dei loro sbagli, della loro volontà di riscatto, dei racconti di amori perduti e di amori che nascono. Hanno voglia di parlare, le donne e gli uomini dietro le sbarre”. “Il giovane che si è tolto la vita - racconta Fatima alla nostra redazione - era arrivato dalla Tunisia che era ancora un bimbo, 11 anni, da solo, nascosto dentro un camion carico di olio. La fine pena era fissata per il 28 maggio del prossimo anno. Nemmeno 1 anno, e Fedi Ben Sassi avrebbe potuto ricominciare a vivere, cosa, che, fino ad ora, non aveva mai fatto”. Un passato di tossicodipendenza, come tanti che si trovano da soli in un paese straniero, e finiscono allo sbando. Piccoli reati, quando era ancora minorenne, poi una rapina, di un cellulare, ed era finito dietro le sbarre il 4 luglio del 2022, due anni prima del 4 luglio scorso, quando si è tolto la vita. Per i reati commessi quando ancora non aveva 18 anni, e viveva per strada, era ancora a Sollicciano. Poche ore prima del gesto estremo il giovane detenuto aveva avuto un incontro con un volontario della Pantagruel, Leonardo. Non sembrava strano, ma quando è tornato in cella si è impiccato. Per disperazione? Non è da escludere, visto il racconto di come vivono, quotidianamente, i detenuti, tanto che il caso carceri, domani, sarà l’argomento di un consiglio regionale speciale. “Occorrono misure alternative - conclude Fatima - strutture per accogliere questi ragazzi, e non carceri dove ci sono adulti con reati molto più gravi, dai quali “imparano” a delinquere, invece che redimersi. Le attività per i ristretti ci sono ma sono poche, e soprattutto i detenuti giovani passano giornate senza far niente: farli lavorare sarebbe molto importante. Noi volontari abbiamo un ottimo rapporto con gli agenti della Penitenziaria e il loro comandante, e l’area educativa. E questo è già un buon punto di partenza, ma di strada da fare ce n’è ancora tanta”: Terni. A Sabbione in un anno e mezzo più suicidi che a Poggioreale di Sofia Coletti La Nazione, 8 luglio 2024 La punta massima delle criticità del sistema carcerario umbro emerge anche dal numero dei tentati suicidi tra i detenuti e, in particolare per il penitenziario di vocabolo Sabbione, a Terni, da quello dei suicidi. “Gli Istituti dove sono avvenuti il maggior numero di suicidi tra il 2023 e il 2024 sono le Case Circondariali di Roma-Regina Coeli, di Terni, di Torino e di Verona - si legge su rapportoantigone.it -. In ognuno dei quattro Istituti si sono verificati cinque casi di suicidio. Sia a Terni che a Torino i casi sono stati quattro nel 2023 e uno nel 2024, mentre a Verona sono stati tre nel 2023 e due nel 2024. A Regina Coeli sono avvenuti tutti nel 2023, rappresentando così l’Istituto con il maggior numero di suicidi nel corso dell’anno passato”. “Seguono, con quattro casi di suicidi, le due grandi Case Circondariali cittadine di Milano San Vittore e Napoli Poggioreale - continua rapportoantigone.it. A San Vittore i suicidi sono avvenuti tutti nel 2023, mentre a Poggioreale uno nel 2023 e gli altri tre, nel giro di una settimana, a gennaio 2024. Vi sono poi sette Istituti dove i casi di suicidio sono stati tre: Cagliari, Milano Opera, Parma, Pescara, Santa Maria Capua Vetere, Taranto e Venezia. In tutti gli Istituti citati si registra una situazione più o meno grave di sovraffollamento”. Terni ospita circa 560 detenuti, un centinaio in più di quelli previsti. Ma nei quattro penitenziari umbri (Perugia, Orvieto, Terni e Spoleto, gli ultimi due di massima sicurezza) aumentano i tentativi di suicidio tra i reclusi. A fornire i numeri del fenomeno, nei giorni scorsi, era stato il procuratore generale Sergio Sottani: venticinque tentativi di suicidio e tre suicidi nel 2022, aumentati nel 2023 a trentasei casi di tentato suicidio e quattro suicidi. Nel primo quadrimestre di quest’anno si sono già riscontrati ventitré tentativi di suicidio ed un suicidio. “Oltre a favorire percorsi alternativi alla detenzione intramuraria - è la proposta avanzata nel Rapporto Antigone - soprattutto per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza, è necessario migliorare la vita negli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione. Torino. Una vita in carcere accanto alle detenute: “Troppi suicidi, sono momenti terribili” di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 8 luglio 2024 Parla Annamaria Cappitella, 35 anni di servizio presso le strutture femminili. Il pensiero ad Azzurra Campari, la giovane di Riva Ligure ritrovata senza vita nella sua cella alle Vallette un anno fa: la ragazza doveva scontare una pena di due anni. E’ in piedi Annamaria, fuori dalla sala dove a breve cominceranno le celebrazioni del Battesimo per alcune delle detenute. Quando queste arrivano e la trovano li, la salutano con le braccia al collo. “Ci mancherai tantissimo” dice una. “Sei bellissima senza divisa!” esclama un’altra. Una divisa, quella che Annamaria Cappitella ha da poco appeso nell’armadio, dopo 35 anni di servizio presso le strutture carcerarie, nei padiglioni femminili. Prima a Le Nuove, poi alle Vallette, dove ha ricoperto per un lungo periodo l’incarico di sovrintendente capo coordinando i settori dove sono ospitate le 125 donne. Donne che Annamaria, che qui tutti chiamano Anna, si porterà nel cuore: “Questo è stato il mio mondo: ho sempre creduto in un rapporto basato sul rispetto reciproco. Il tempo mi ha dato ragione” racconta Cappitella a margine della cerimonia che ha visto sette detenute essere battezzate alla Chiesa Evangelica. “Le mie donne”, così le chiama quando parla di loro. Donne che l’abbracciano e pregano per scattare una foto ricordo insieme. “Non penso starò mani in mano, non sono il tipo. Mi dedicherò al volontariato, sicuramente, sempre per le donne. D’altronde la cosa più bella che porto con me di questi anni sono i rapporti”. Quando ad Anna chiediamo cosa farebbe se potesse cambiare qualcosa all’interno del Padiglione F (quello appunto dedicato alle ospiti di sesso femminile) lei risponde: “Spazi da dedicare ad attività ricreative e culturali: più ampi, più belli. Stanze più grandi e con le docce. E telefoni, per sentire le famiglie, in contesti controllati ovviamente”. Potrebbe stranire sentire un “capo” parlare in questo modo. “Perché siamo abituati a vedere, di queste persone, le facce sui giornali e basta, dietro quelle foto ci sono delle vite, spesso vissute senza amore. C’è la sofferenza. Io sono certa che possano cambiare e riprendere in mano la loro vita”. Il momento più nero? “I suicidi, 4 nel 2023. Avevamo il terrore allo smontare dei turni di andare a casa e ricevere una telefonata...” Il pensiero ricorre ad Azzurra, la 28enne di Riva Ligure trovata morta nella sua cella ad agosto scorso. “Azzurra, il dolore che mi porterò dentro per sempre: per lei c’era amore. Vorrei incontrare, un giorno, la mamma di Azzurra: perché lei potesse vedermi e capire il senso di umanità oltre la divisa che noi abbiamo nei confronti di queste ragazze” conclude Anna con le lacrime agli occhi. Roma. Carcere minorile di Casal del Marmo, notte di tensione: risse e materassi in fiamme di Valeria Costantini Corriere della Sera, 8 luglio 2024 Il reparto teatro dei disordini è stato evacuato. Risse, caos e materassi dati alle fiamme. Nottata di tensioni al carcere minorile di Casal del Marmo, finita con quattro contusi e intervento di pompieri e polizia. Intorno alla mezzanotte, riferisce il sindacato Fns Cisl Lazio, due detenuti avrebbero tentato di incendiare oggetti e materassi nelle celle, tra le proteste degli altri. Sul posto i vigili del fuoco; è stato necessario lo sgombero dell’intera sezione da parte degli agenti della penitenziaria. Risse fra detenuti sedate dai poliziotti, quattro feriti lievi. Durante l’evacuazione, si sono verificate anche risse tra i detenuti sedate dai poliziotti: bilancio finale quattro feriti lievi e calma riportata a fatica nel carcere. “In questa settimana si erano registrate già tre aggressioni, - ricorda il sindacato - e nel carcere gli agenti sono sotto organico. Attualmente nell’istituto ci sono 58 maschi e 8 donne detenuti su una capienza di 45. La Fns Cisl Lazio chiede una forte azione da parte dell’amministrazione penitenziaria e una vicinanza maggiore alle richieste di aiuto che pervengono da una realtà già di per sé difficile e peggio ancor provata da frequenti episodi di violenza. Secondo i dati della Cisl sono pesanti le carenze nel Lazio, in cui si registrano 930 agenti mancanti nei penitenziari della regione, cioè quasi il 20% del dato nazionale. Agente di 36 anni si toglie la vita: avrebbe dovuto iniziare oggi - E si conta una nuova tragedia proprio tra la polizia penitenziaria: un agente di 36 anni che lavorava per la Centrale nazionale operativa di Roma si è tolto la vita. Si tratta del sesto caso dall’inizio dell’anno, l’ultimo risaliva ad appena una settimana fa. “È una notizia che sconvolge tutti noi”, ha commentato il segretario generale del Sappe, Donato Capece. L’uomo, di origini calabresi, avrebbe dovuto prendere servizio stamane. “Quello dei poliziotti penitenziari suicidi è un dramma che va avanti da troppo tempo senza segnali concreti di attenzione da parte del ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”, ha lamentato Capece. “Non deve essere assolutamente sottovalutato il dato statistico sul tasso di suicidi che nella popolazione italiana si attesta intorno allo 0,60 per mille, tra gli agenti sale all’1 per mille, per raggiungere l’1.30 per mille tra i poliziotti penitenziari”, ha osservato. “Bisogna puntare ad aumentare il supporto psicologico disponibile per i poliziotti e promuovere una cultura che, non solo riconosca il valore dei compiti svolti, ma tuteli la salute mentale degli operatori della sicurezza con lo stesso impegno con cui essi proteggono la nostra società”, ha insistito il segretario del Sappe. Milano. Incendio al Beccaria: trasferiti alcuni giovani detenuti di Nicola Palma Il Giorno, 8 luglio 2024 Ancora tensione al carcere Beccaria. Secondo le prime informazioni, attorno alle 22 di domenica 7 luglio, alcuni detenuti hanno dato alle fiamme effetti personali presenti nelle celle, generando un incendio che è stato domato nel giro di pochi minuti dagli agenti della Polizia penitenziaria. Quando sono arrivati i vigili del fuoco, il rogo era praticamente spento. Le fiamme e soprattutto il fumo che si è sprigionato hanno però avuto come effetto immediato il trasferimento dei giovanissimi reclusi della seconda ala in un altro settore. In via dei Calchi Taeggi sono arrivati anche gli agenti dell’Ufficio prevenzione generale della Questura e una camionetta del Reparto mobile, che sono rimasti davanti agli ingressi dell’istituto minorile fino alle 23.30. Il precedente - Poco più di un mese fa, il 29 maggio scorso, era andata in scena una rivolta dai numeri più elevati: una settantina di detenuti aveva dato vita a una violenta protesta generata da una sanzione disciplinare a un detenuto minorenne e da un controllo antidroga. Anche in quel caso, era stato necessario l’intervento degli agenti in assetto antisommossa per riportare la calma: alla vista dei poliziotti, i giovanissimi reclusi avevano subito messo fine al raid, che comunque aveva provocato diversi danni ai vetri delle porte blindate e ad altri arredi del carcere. L’inchiesta - Fibrillazioni direttamente o indirettamente legate anche all’indagine della Procura, ancora in corso, che a fine aprile ha portato all’arresto di tredici agenti della polizia penitenziaria e alla sospensione di altri otto colleghi per presunti maltrattamenti e torture sui detenuti del carcere minorile, testimoniati anche dai video acquisiti dai magistrati. I rinforzi - Nei giorni immediatamente successivi, il capo del Dipartimento per la giustizia minorile Antonio Sangermano ha inviato 47 agenti a rinforzare un organico falcidiato da misure cautelari e sospensioni dal servizio e già carente prima dell’inchiesta: 25 sono stati dirottati dall’Ufficio esecuzione penale esterna della Lombardia, mentre gli altri 22 sono stati applicati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a seguito di un interpello regionale. In quel delicatissimo frangente, è stato pure annunciato un potenziamento dello staff di educatori e psicologi. Evidentemente, però, le tensioni tra le mura del Beccaria non si sono ancora placate. L’Aquila. Carcere minorile verso la riapertura. “Al lavoro anche per dotazione personale” abruzzoweb.it, 8 luglio 2024 Dopo anni di attesa, polemiche e appelli, potrebbe presto riaprire l’Istituto di pena minorile del quartiere di Colle Sapone a L’Aquila, l’unico in Abruzzo, chiuso dal 2009, nonostante l’avvenuta ristrutturazione post-sismica, in parte oggi occupato dalla facoltà di Economia dell’Università dell’Aquila. Situazione che obbliga i minori abruzzesi destinatari di misure cautelari a “emigrare” in altri distretti, con dannosa interruzione dei rapporti con i familiari e con i servizi sociali di riferimento. Ultimo caso quello dei due presunti killer di Christopher Thomas Luciani, a coltellate e in un parco pubblico di Pescara, e che si trovano ora negli istituti di Bari e Roma. Si sarebbe infatti finalmente sbloccata la pratica presso il Ministero della Giustizia, seguita costantemente dai senatori abruzzesi di Fratelli d’Italia Guido Quintino Liris ed Etelwardo Sigismondi. L’Università dell’Aquila, da parte sua, sarebbe pronta a traslocare nella caserma Campomizzi e anche nell’ex ospedale San Salvatore, liberando le palazzine di Colle Sapone, in virtù di una convenzione firmata nel 2015 e 216, utilizzate per le attività della facoltà di Economia. “Altro passaggio determinante - ha affermato Guido Liris al Tg3 regionale - sarà quello di lavorare sul personale necessario a ripristinare la funzione del carcere minorile che ad oggi non è sufficiente. L’importante è stringere i tempi, perché questo servizio è quanto mai importante con l’aumento della devianza e criminalità giovanile e come garanzia di giustizia e presidio della località sociale”. La riapertura dell’istituto di pena del resto è stata fortemente sollecitata da tempo dalla Procura e Tribunale dei minori, rilanciata con forza dalla presidente della Corte di Appello dell’Aquila, Fabrizia Francabandera, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2023, dove a chiare lettere si è stigmatizzato “l’abbandono della struttura, l’unica struttura del centro Italia che ben potrebbe servire anche le limitrofe regioni di Marche e Molise, oltre che alleggerire la pressione sulla Capitale”. L’obiettivo finale, aveva ricordato la stessa Francabandera, è la realizzazione della Cittadella giudiziaria minorile, progetto lanciato prima del sisma del 2009, con la quale saranno anche restituiti spazi adeguati al Centro di prima accoglienza (Cpa) e l’Ufficio servizio sociale per i minorenni (Ussm), la cui sede, danneggiata dal sisma del 2017, è situata in una struttura provvisoria che soffre di sovraccarico di personale. Roma. Rebibbia, detenuti con ago e filo: in cella si diventa maestri di cucito di Mirko Giustini Corriere della Sera, 8 luglio 2024 I corsi dell’Accademia dei sartori: “Il fine è l’inclusione”. Tre anni di formazione per crearsi un mestiere per quando saranno liberi. Dare una seconda opportunità ai detenuti in cerca di riscatto professionale è l’obiettivo di “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme”, il progetto di reinserimento lavorativo dell’Accademia nazionale dei sartori di via Boncompagni, a pochi passi da piazza di Spagna. Nata nel 2017 da un’idea dell’ex presidente Ilario Piscioneri, l’iniziativa è balzata agli onori delle cronache durante il lockdown, quando gli ospiti del carcere hanno confezionato oltre tremila mascherine per contribuire a proteggere le persone dal coronavirus. Uno dei traguardi raggiunti dal corso di formazione triennale dell’Accademia, che dà modo ai detenuti di imparare un mestiere da esercitare una volta liberi. Come è accaduto al pregiudicato riabilitato assunto a tempo pieno dalla Sartoria Ilario, il laboratorio tra le fermate metro Lepanto e Ottaviano. “Pazienza, precisione e autocontrollo” ancor prima della tecnica - In cattedra il maestro sarto Sebastiano Di Rienzo, che oltre alla tecnica insegna pazienza, precisione e autocontrollo. “Il primo anno ci dedichiamo a pantaloni e gilet, il secondo alla giacca, il terzo alle rifiniture - spiega Di Rienzo -. Il contatto con il gusto e il raffinato fa aprire i cuori più duri. Negli esercizi sui punti di cucito, ad esempio, faccio scrivere con filo bianco su stoffe nere un nome a piacere e la maggior parte sceglie di ricordare gli affetti più cari. E anche chi ha una condanna per furto o droga davanti ad ago e filo può temere di sbagliare”. Artigiani per la comunità - I prodotti finali poi vengono indossati dai loro creatori nell’annuale serata-evento allestita nel piazzale della casa circondariale. L’ultima a giugno, quando in passarella otto allievi hanno sfilato con addosso i trenta capi di abbigliamento realizzati. “Vestiti che per ora restano di loro proprietà, ma in futuro non ne escludiamo la commercializzazione per autofinanziare il progetto - rivela Gaetano Aloisio, presidente dell’Accademia -. Oggi il fine ultimo è l’inclusione, ma di fatto stiamo fornendo nuova e preziosa manodopera al mondo dell’artigianato. I prossimi passi prevedono l’allargamento anche a istituti minorili e il coinvolgimento di diversamente abili”. Il supporto di Bmw Roma - A sostenere l’acquisto del materiale didattico e delle attrezzature la sede capitolina della Bmw. “Un doveroso supporto da chi crede fermamente nella responsabilità sociale d’impresa - afferma Salvatore Nicola Nanni, amministratore delegato Bmw Roma -. Con il programma “SpecialMente” mettiamo a disposizione strumenti economici, organizzativi e comunicativi a realtà come “Made in Rebibbia”. Penso soprattutto al rugby su carrozzina dell’associazione Romanes e allo sport integrato della onlus Insuperabili”. Roma. Un immobile confiscato alla criminalità ospiterà attività sociali per i detenuti romatoday.it, 8 luglio 2024 Pubblicato l’avviso pubblico per la concessione dell’immobile sottratto alla criminalità organizzata che si trova in via Tuscolana 695. Un immobile confiscato alla criminalità organizzata rinascerà come sede di attività sociali e di reinserimento nel tessuto sociale, culturale e lavorativo di persone detenute o ex detenute. L’avviso per la concessione della struttura, che si trova in via Tuscolana 695, è stato pubblicato lo scorso 3 luglio. Un luogo per il riscatto dei detenuti - L’immobile, in cui dovranno svolgersi attività sociali per detenuti ed ex detenuti, sarà concesso a titolo gratuito per sei anni. La concessione potrà poi essere prorogata per altri sei. Associazioni, comunità e organizzazioni di volontariato che intendono partecipare dovranno presentare, entro 30 giorni dalla pubblicazione dell’avviso pubblico “una proposta progettuale dettagliata - si legge nel documento - indicando gli obiettivi generali e specifici dell’attività, nonché le modalità e gli strumenti attraverso cui realizzare l’interesse pubblico, tenendo conto del tessuto sociale e urbanistico, della tipologia dei soggetti destinatari con l’obiettivo di realizzare sinergie e relazioni di rete con iniziative già operanti nel quartiere e nel più ampio contesto cittadino”. La presentazione del progetto varrà come impegno, in caso di aggiudicazione, a portare avanti, per tutta la durata della concessione, le attività proposte, pena la revoca del rapporto di concessione. Sarà poi costituita un’apposita commissione che dovrà valutare tutti i progetti pervenuti e stilare la relativa graduatoria. Roma Capitale provvederà successivamente, con un atto dirigenziale, alla conseguente aggiudicazione. Beni confiscati alle mafie, il Comune di Roma è virtuoso - Secondo il report “RimanDati” di Libera, Roma è tra i comuni più virtuosi per trasparenza, con un ranking di 74.6, oltre la media nazionale. E proprio la Capitale, tra le grandi città, è (quasi) un fiore all’occhiello. Non va, invece, altrettanto bene nel resto della regione, dove quasi la metà dei comuni non pubblicano gli elenchi dei beni confiscati. La gratitudine allunga la vita: il rischio di morte cala del 30 per cento di Paola D’Amico Corriere della Sera, 8 luglio 2024 I risultati del primo studio pubblicato sulla rivista dell’American Medical Association sono la conferma scientifica che questa emozione ha un impatto sulla salute. Sotto esame una popolazione di quasi 50mila infermiere anziane. Scriveva Cicerone che la gratitudine è non solo la più grande delle virtù ma la madre di tutte le altre. Ed era sicuramente già evidente a chi quasi sessant’anni fa propose di celebrarla con una Giornata mondiale, che è una emozione umana potente che ha un impatto anche sulla nostra salute, sul benessere. Ora, però, si aggiunge uno studio scientifico - pubblicato su JAMA Psychiatry, una rivista medica dell’American Medical Association, jamanetwork.com - a validarne l’indiscutibile ruolo nell’allungare la vita. Concedersi del tempo nella giornata per sentirsi grati dovrebbe diventare in sostanza qualcosa di simile all’igiene personale. Un po’ come spazzolare la propria anima come si spazzolano i denti. Calano i tassi di morte precoce - La ricerca sugli effetti della gratitudine o dell’essere grati sul rischio di mortalità ha dimostrato che, indipendentemente dai classici indicatori di mortalità come la salute cardiovascolare, il fumo e il carico di malattie croniche, le persone grate mostrano tassi di morte precoce inferiori rispetto ai coetanei meno grati. Già nota, dicevamo, era l’associazione della gratitudine a migliori biomarcatori per il colesterolo, alla funzione del sistema immunitario, ai livelli di infiammazione e al rischio di malattie cardiovascolari, oltre che a minori rischi di depressione e a una migliore adesione a pratiche igieniche sane come l’esercizio fisico e il buon sonno. Ma fino ad oggi erano molto scarse le informazioni sui suoi effetti sulla mortalità. Questo è dunque un primo studio che ha preso in esame oltre 49.000 donne anziane che esercitavano o avevano esercitato nella loro vita la professione infermieristica. Il campione dello studio - La gratitudine è stata valutata con il “Questionario della gratitudine”: 6 domande con una serie di risposte tra cui scegliere come, ad esempio, “Se dovessi elencare tutto ciò per cui sono grato, sarebbe una lunga lista” e “Ho così tante cose nella vita per cui essere grato”. L’età media delle infermiere che hanno risposto alle domande sulla gratitudine era di 79 anni e, alla fine del 2019 quando lo studio era ancora in corso, 4.068 di loro erano morte. Se si considerano le persone decedute, i punteggi più alti di gratitudine sono stati associati a una riduzione del rischio di morte del 29%. Quando si controllava l’anamnesi di malattie cardiache, ictus, cancro e diabete, la gratitudine era ancora associata a un rischio di morte ridotto del 27% e del 21% dopo aver controllato le abitudini di vita come il fumo, l’esercizio fisico, il consumo di alcol e una dieta sana. Il diario della gratitudine - Benjamin Levine, medico e fisiologo, sostiene da sempre che l’attività fisica dovrebbe essere monitorata negli ospedali come un segno vitale, equivalente alla temperatura e alla pressione sanguigna. E che le persone dovrebbero considerare l’esercizio fisico come un’igiene personale, piuttosto che come qualcosa che compone uno “stile di vita sano”. Ma questo nuovo studio suggerisce che anche concedersi del tempo nella giornata per sentirsi grati dovrebbe essere qualcosa di simile all’igiene personale. Tenere un diario della gratitudine, invitare i membri della famiglia ad annunciare ciò per cui sono grati all’inizio di un pasto insieme, sono tutti modi validi per aprire la mente ai sentimenti di gratitudine. Cosa fare - Ricordiamoci di Seneca, Seneca, il quale nelle Lettere a Lucilio scrive che chi mostra gratitudine, come chi fa del bene a un altro, in realtà fa un regalo a se stesso: “Il guadagno di un’azione virtuosa consiste nell’averla compiuta”. Mettere dei promemoria dove si possono vedere, legare un nastro intorno alla maniglia di una porta per ricordare ogni volta che si esce di casa che ne abbiamo una, o mettere uno sfondo sullo smartphone che ci ricordi di essere grati per le cose che abbiamo ogni volta che accendiamo lo schermo. Oltre ad aiutare a sentirsi meglio durante la giornata, secondo lo studio, potrebbe salvarci la vita. Tunisia. L’avvocato Sonia Dahmani condannata a un anno di carcere Il Dubbio, 8 luglio 2024 La sentenza è stata emessa ai sensi del decreto 54 sulla lotta contro i crimini legati ai sistemi di informazione e comunicazione. Il Tribunale di prima istanza di Tunisi ha condannato venerdì l’avvocato e opinionista televisiva Sonia Dahmani a un anno di prigione per i commenti sui migranti sub-sahariani sul canale televisivo privato “Carthage+”. Lo ha riferito l’avvocato della donna, Sami Ben Ghazi. La sentenza è stata emessa ai sensi del decreto 54 sulla lotta contro i crimini legati ai sistemi di informazione e comunicazione, ha aggiunto il legale, sottolineando che la sua cliente è sotto indagine per altri quattro casi. Il secondo e il terzo contro Dahmani riguardano le dichiarazioni da lei rilasciate alle radio private “Ifm” e “Carthage+”, in cui parlava del razzismo in Tunisia. Il quarto caso invece riguarda le critiche all’operato di alcuni ministri, mentre il quinto i commenti sulle condizioni delle carceri nel Paese nordafricano. Durante la seduta di venerdì, la difesa ha chiesto che le accuse venissero ritirate “perché il fatto non sussiste”, ha detto Ben Ghazi. Dahmani era stata arrestata l’11 maggio presso la Casa degli avvocati dove si era rifugiata dopo essersi rifiutata di comparire davanti agli inquirenti per l’interrogatorio per le sue opinioni, considerate dalle autorità come un “incitamento alla violenza e incitamento all’odio dell’opinione pubblica”.