Suicidi e galere. La “resa dello Stato” e del Guardasigilli Nordio di Liana Milella La Repubblica, 7 luglio 2024 Il ministro della Giustizia definisce una capitolazione l’amnistia. Ma cosa sono 50 suicidi a oggi? Che s’intende per “resa dello Stato”? Una capitolazione? “Senza condizioni di sorta sottostando all’arbitrio del nemico”, come recita il dizionario Zingarelli? Un cedimento bello e buono che toglie l’onore a chi lo concede? Perché dobbiamo intenderci bene su cosa vuol dire quest’espressione quando a utilizzarla, in un’intervista su Sky, è il Guardasigilli Carlo Nordio a proposito dell’amnistia. Che lui liquida proprio così, come “una resa dello Stato”. E occorre domandarsi, al contempo, se la Costituzione italiana, che parla di amnistia e di indulto all’articolo 79, possa davvero introdurre una condizione così obbrobriosa tra quelle che il Parlamento può decidere di deliberare, a patto di raggiungere i due terzi. Ma se l’amnistia e l’indulto sono davvero “una resa dello Stato”, come si possono definire allora i 50 suicidi nelle carceri, inevitabilmente destinati a crescere in modo impressionante? L’anno scorso erano stati 70. E Nordio era già il titolare di via Arenula. Ma erano stati 85 l’anno precedente. Quindi non possiamo addossargli tutta la responsabilità. Almeno fino a quel momento. Ma è ministro della Giustizia dal 22 ottobre del 2022. Quindi, da quel giorno in avanti, lui porta addosso l’onere di tutto quello che accade, di quello che ha fatto, e di quello che non ha fatto. È dunque lecito domandargli se i 120 suicidi avvenuti tra l’anno scorso e quest’anno rappresentano oppure no una “resa dello Stato”. Perché c’è modo e modo di arrendersi e di accettare come un male scontato e irrilevante queste morti. Visto che a uccidersi sono soltanto dei poveracci, molti dei quali stranieri, di cui, diciamoci la verità, non importa un accidente a nessuno dei ministri meloniani impegnati solo ad attenuare le pene dei pubblici amministratori. E lo stiamo vedendo giusto adesso con l’abuso d’ufficio. Mentre moltiplicano i reati contro i poveracci. Inutile qui fare ancora una volta l’elenco delle leggi varate da questo governo che vanno proprio in questa direzione con l’unico effetto di accrescere pure il numero dei detenuti. Un fatto però è certo. Per evitare la vera “resa dello Stato”, le morti di Stato, Nordio ha prodotto un risibile decreto legge, in piena estate, che non eviterà un solo suicidio nei prossimi mesi. E quando man mano le morti si succederanno una dopo l’altra in un macabro elenco noi potremmo dire che è stata colpa sua. Questo sarà per tabulas. E la chiameremo una “resa dello Stato”. Nordio aveva una chance. E con lui l’aveva tutta la maggioranza di governo. Procedere con la “liberazione anticipata speciale” di Roberto Giachetti e Rita Bernardini. Avrebbe avuto il valore di “un segnale”, come ha detto a Repubblica l’ex Garante dei detenuti Mauro Palma. Nordio invece non lo ha fatto. E ovviamente se ne dovrà assumere fino in fondo la drammatica responsabilità. Perché diventare ministro e giurare sulla Costituzione vuol dire anche questo. Poteva fare qualcosa, e non l’ha fatta. E con lui i suoi sottosegretari. Non può che colpire e ferire profondamente la singolare coincidenza di questi giorni. La principale preoccupazione e il principale vanto del Guardasigilli Nordio è varare la sua - peraltro unica - legge che cancella l’abuso d’ufficio, anche se, checché lui ne dica, è stato di fatto costretto a reintrodurlo, perché ha dovuto fare i conti con le segnalazioni del Quirinale. E dunque sì, Nordio si è arreso. Mentre giorno dopo giorno si muore in galera, nelle celle ci sono le cimici, non c’è acqua corrente, si sta chiusi dentro in condizioni disumane e con un caldo soffocante. Tutto questo non è forse tortura? Non è una gravissima “resa” di uno Stato incapace di garantire una detenzione giusta in condizioni civili e umane? È come possiamo definire l’incredibile silenzio del capo delle carceri, l’ex pubblico ministero di Napoli Giovanni Russo? Lui non concede interviste. Ma rispondere alle domande significa assumersi le necessarie responsabilità di fronte al Paese. E spiegare perché di fronte a 50 persone che rinunciano alla vita lo Stato non fa nulla. Questa sì è la “resa dello Stato”. Serve una reazione robusta della società civile per un’azione politica forte e risolutiva di Lucia Fronza Crepaz* Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2024 Sono qui, alla Maratona Oratoria organizzata dalla Camera Penale di Trento, a rappresentare una delle colonne portanti della possibilità di superare l’emergenza sovraffollamento e suicidi: l’associazionismo, il sociale. La CRVG del nostro Trentino Alto Adige lavora per unire e rendere più incisive tutte le associazioni che si interessano di carcere, di pene alternative e di tutto il mondo della giustizia. È chiaro che quando parliamo di persone che hanno debiti con la giustizia, dobbiamo avere sempre le vittime e le famiglie delle vittime davanti agli occhi, ma ogni sofferenza, qualunque sofferenza, merita compassione, non solo come atteggiamento personale, ma come scrive la comunità di Bose in un articolo di questi giorni “come emozione sociale di base, come fondamento della vita stessa della polis”. Solo così vivremo tutte e tutti in una società davvero democratica, capace cioè di far realizzare il proprio disegno a ciascuno. Il sovraffollamento, la cesura dei legami affettivi e sociali in carcere, con norme che hanno come scopo solo la sicurezza, rischiano di rendere la detenzione una “vendetta di Stato”, cioè la negazione del nostro Stato di diritto. Quale imprenditore che vede il suo prodotto non riuscire per il 70% e che di quel 70% vede il 90% deteriorarsi ulteriormente non capirebbe che la sua azienda è completamente da ristrutturare? Bene lo stato-imprenditore, gestore di un’impresa esattamente così, continua a gestire la sua azienda-carcere sempre allo stesso modo. In questa splendida occasione che la Camera penale ci ha messo a disposizione, rafforziamo il proposito di lavorare per una grande rete di alleanze generative in cui volontariato, avvocati, giudici, politici accanto a detenuti, direzione, assistenti di custodia, educatori, scuole, insomma la società tutta, reintegri il carcere dentro il vivere comune. Se c’è un luogo che più di altri deve essere aperto, quello è il carcere. Cosima Buccoliero, direttrice per tanti anni del Carcere di Bollate, nel descrivere il metodo per un carcere aperto elenca 5 parole chiave: ACCUDIMENTO, ATTENZIONE, GIUSTIZIA, DIRITTI e SICUREZZA. E specifica, il valore di queste parole è che stiano in questa successione. La sicurezza in fondo, perché - asserisce Buccoliero - non può esistere senza le precedenti 4. Accudimento, attenzione, giustizia, diritti passano dall’impegno di tutte e tutti noi. Vorrei concludere mostrandovi il disegno della città di Anna e Sara, le mie nipotine. Ho spiegato loro che la città non è fatta solo di case, chiese, moschee, scuole, ospedali, parchi: c’è anche il carcere, un luogo che deve stare dentro il nostro sguardo. Ecco il loro disegno. Mi hanno spiegato che la strada che hanno disegnato dal carcere va nella piazza dove ognuno di noi passa e sta. *Presidente Conferenza Regionale Volontariato Giustizia (preparato per la maratona oratoria della Camera Penale del 5 luglio a Trento) Gli spazi per l’affettività nel carcere di Padova per ora non si faranno ilpost.it, 7 luglio 2024 Sarebbero stati i primi in Italia: secondo il Governo non ci sono le condizioni necessarie e non sono le associazioni a doversene occupare, ma il ministero della Giustizia. Al carcere Due Palazzi di Padova si è temporaneamente fermato il progetto di costruire spazi che permettano alle persone detenute di esercitare il loro diritto all’affettività e alla sessualità. Era una sperimentazione in fase iniziale, annunciata lo scorso febbraio dalle associazioni che lavorano all’interno del carcere, e soprattutto la prima a rispettare la storica sentenza della Corte Costituzionale che mesi fa aveva dichiarato illegittimo il divieto all’affettività in carcere. Il governo ha bloccato la sperimentazione perché sostiene che la costruzione di spazi per l’affettività in carcere non sia di competenza delle associazioni, come finora era stato per numerosi progetti sui diritti delle persone detenute, ma del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), l’ente del ministero della Giustizia che si occupa di carceri. Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia, dice che “il terzo settore collabora col DAP, ma non può sostituirsi ad esso”. La sentenza della Corte era stata storica perché affermava un principio di cui in Italia si discute da decenni, cioè quello del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute. È considerato un diritto fondamentale, ispirato ai principi costituzionali e ai regolamenti europei e italiani sulle carceri, che vietano i trattamenti disumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei detenuti. In Italia le carceri non hanno mai avuto spazi per gli incontri privati dei detenuti, e il principale strumento per mantenere i rapporti affettivi in presenza sono sempre stati i colloqui, che hanno un tempo ridotto e si svolgono spesso in sale affollate e rumorose, dove non è garantita la riservatezza e dove è vietato qualsiasi gesto affettuoso. Il carcere Due Palazzi di Padova non è un carcere qualunque: lì c’è una rete attiva e fitta di associazioni, ed è generalmente considerato un modello virtuoso di carcere, per i progetti che ha e per le loro ricadute sui processi di reinserimento dei detenuti. Il Due Palazzi è anche la sede della redazione di Ristretti Orizzonti, storica rivista legata all’associazione “Granello di Senape” che da anni si occupa di diritti delle persone detenute e a cui lavorano anche le stesse persone detenute. Non solo: l’attuale direttore del Due Palazzi, Claudio Mazzeo, che aveva sostenuto l’iniziativa degli spazi per l’affettività, è lo stesso direttore che autorizzò la costruzione del primo e unico teatro costruito interamente in un carcere in Italia, il Teatro dell’Arca al carcere Marassi di Genova, di cui era allora direttore. Sempre al Marassi, Mazzeo autorizzò anche la costruzione del laboratorio di serigrafia O’ Press all’interno dell’Alta sicurezza, la sezione del carcere in cui sono detenute le persone condannate per reati associativi: il laboratorio, il primo all’interno di una sezione Alta sicurezza, è ancora attivo ed è gestito dalla cooperativa “La bottega solidale”. L’annuncio degli spazi per l’affettività nel carcere di Padova era stato dato a fine febbraio da Ornella Favero, la direttrice di Ristretti Orizzonti. Favero aveva detto di aver incontrato insieme ad alcune associazioni di volontariato il direttore Mazzeo, che aveva sostenuto l’idea. Mazzeo aveva individuato nel cortile del carcere uno spazio in cui costruire alcune unità abitative, prive di controlli audio o video, per gli incontri privati dei detenuti. Nelle settimane successive si sarebbero dovuti svolgere alcuni sopralluoghi, chiesti da Mazzeo al provveditorato regionale, per prendere le misure e cominciare a progettare gli spazi, che avrebbero dovuto essere allestiti all’interno di container e prefabbricati. Favero ha raccontato che era anche già stato discusso il futuro finanziamento del progetto con la Cassa delle ammende, l’ente pubblico che tra le altre cose finanzia progetti di reinserimento sociale delle persone detenute. Cesare Burdese, architetto e studioso di architettura carceraria, si era reso disponibile a regalare al carcere un progetto per la costruzione degli spazi. Ma Favero ha detto di aver recentemente ricevuto un diniego, da parte del DAP, a farlo entrare al Due Palazzi per incontrare i detenuti e fare un’intervista da pubblicare su Ristretti Orizzonti. Pur essendo solo all’inizio, la sperimentazione di Padova era stata molto raccontata perché sarebbe stata la prima in assoluto in Italia, e perché l’aveva avviata un carcere che costituisce un’eccezione in un paese in cui la situazione del sistema carcerario è grave e problematica. Il blocco del governo è arrivato abbastanza presto, e da allora non si è mosso nulla: pochi giorni dopo l’annuncio delle associazioni Ostellari aveva definito “propaganda” l’annuncio delle associazioni e aveva detto che il carcere di Padova non aveva ricevuto nessuna autorizzazione per poter procedere con la costruzione di spazi per l’affettività dei detenuti. Ostellari aveva insistito sul fatto che gli spazi per l’affettività non prevedono telecamere e presenza di polizia, e quindi pongono un problema per la sicurezza rispetto ad altre iniziative: “La sicurezza degli utenti delle carceri, così come quella del personale, della polizia penitenziaria, dei volontari e dei visitatori è responsabilità del DAP”, aveva detto, aggiungendo che per questo motivo l’iniziativa del Due Palazzi è priva di “consistenza giuridica”. Come in altri casi, la sentenza della Corte Costituzionale è vaga su come dovrebbe avvenire concretamente la costruzione degli spazi per l’affettività. Limitandosi a dichiarare incostituzionale un divieto, la sentenza cita la possibilità di costruire spazi all’interno delle carceri per i colloqui intimi dei detenuti, “laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano”, e come in altri casi cita la necessità per il parlamento e le autorità competenti di intervenire per regolamentare l’ambito. “Le sentenze della Corte Costituzionale hanno valore di legge e sono immediatamente applicative”, dice Favero. “In questo caso c’erano tutte le condizioni materiali, citate anche dalla Corte Costituzionale, per procedere”. Il DAP, nel frattempo, ha avviato un gruppo di lavoro per stabilire quando e come andrebbero costruiti gli spazi per i colloqui privati delle persone detenute: è presieduto dal vice capo del DAP e composto da diciassette persone tra magistrati, funzionari di polizia penitenziaria, membri del collegio del Garante dei detenuti, medici, psicologi, avvocati e studiosi. Carlo Nordio e i temi della giustizia: “Raggiunti gli obiettivi. L’abuso d’ufficio? Non serviva” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 luglio 2024 Il ministro interviene a Roma e spiega: il peculato per distrazione non c’entra niente con il reato appena abolito. “Sanzioni dall’Europa? Nulla di vero”. “È una semplice formalità - Giustizia contro giustizialismo Tra riforma della giustizia e ruolo delle carceri” è il titolo dell’incontro organizzato ieri a Piazza Vittorio a Roma da Fratelli d’Italia Roma. Tra i relatori Vittorio Rizzi, vice capo vicario Polizia di Stato, Chiara Colosimo, presidente della Commissione Antimafia, il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ad esordire proprio il guardasigilli, annunciando che “tutti gli obiettivi del Pnrr sono stati raggiunti al cento per cento. Per certi aspetti abbiamo anche superato le aspettative. Abbiamo ridotto l’arretrato dei processi, abbiamo potenziato i numeri delle unità operative e abbiamo realizzato attraverso l’Ufficio per il processo quella immissione di persone ausiliarie dei giudici che sono fondamentali per rendere più efficiente” la macchina della giustizia. “In Italia - ha proseguito il responsabile di via Arenula - i magistrati previsti come pianta organica sono 10.500, operativi sono 9mila perché non siamo mai riusciti a colmare questi vuoti perché mancano i concorsi, perché i concorsi sono lenti. Ebbene noi in questo momento abbiamo in piedi quattro concorsi per 400 posti ciascuno e un quinto sta per essere lanciato, quindi siamo in grado di assicurare che entro il 2026 avremo riempito gli organici”. Ha aggiunto il guardasigilli: “Con il ddl Nordio, che verrà approvato tra martedì e mercoledì, vi è anche a margine della norma una che prevede il giudice collegiale per le misure cautelari e quindi ci sarà un aumento di organico di 250 magistrati”. E ha assicurato: “Entro la fine della legislatura i nostri obiettivi saranno raggiunti”. Sull’abuso di ufficio ha precisato: “Questo reato non ha nulla a che vedere con la corruzione, è un reato evanescente che punisce tutti gli amministratori quando fanno delle cose che non dovrebbero fare o non fanno cose che dovrebbero fare. So di aver dato una spiegazione sommaria, ma dal punto di vista tecnico è una sintesi corretta. Proprio perché questo reato è così vago e generico, in esso sono incappati migliaia di amministratori e a fronte di circa 5000 processi all’anno le condanne sono state pochissime, si possono contare sulle dita di una mano. La situazione era diventata intollerabile. Vi erano migliaia e migliaia di indagini nei confronti di sindaci e di pubblici amministratori che per anni sono rimasti sotto la tagliola giudiziaria, sono stati addirittura costretti alle dimissioni, e poi sono stati assolti o addirittura archiviati”. Ha poi proseguito: “L’informazione di garanzia dovrebbe essere un’informazione del pubblico ministero al cittadino a “garanzia” dello stesso cittadino, ma si è trasformata in una garanzia di informazione. Quando il sindaco riceve quella cartolina verde finisce sul giornale. Amici e nemici ti chiedono un passo indietro, ti fanno rinunciare alla candidatura. Poi la stragrande totalità di loro dopo casomai cinque anni di agonia viene assolta, ma ormai hanno la vita rovinata perché l’esperienza dell’informazione di garanzia è una circostanza che ti crea un chip nella testa che ogni giorno ti ricorda che sei indagato. Lo dimostra anche un magistrato indagato che ti dice che pure di notte ci pensa. Ci è stato detto dall’opposizione, che ha fatto una guerra spietata con argomentazioni maliziose, che l’Europa ci avrebbe sanzionato perché c’era un vincolo che non permetteva l’abrogazione. Ma non è vero, come prevede la risoluzione di Merida. All’Europa interessa la lotta alla corruzione ma noi abbiamo, dal punto vista normativo un arsenale contro la corruzione e l’Europa ce l’ha riconosciuto. In Europa abbiamo ottenuto ancora di più con una risoluzione che dice che gli Stati “possono” introdurre il reato. L’abrogazione del reato di abuso di ufficio è un volano per l’economia e la Pa”. Inoltre, “i sindaci di tutti partiti anche di opposizione sono venuti in processione da noi per abrogare il reato di abuso d’ufficio. Poi capisco che si cambi idea per amore di partito. Hanno votato contro ma in realtà, vi assicuro, che stanno stappando bottiglie di champagne”. Poi un passaggio sul reato di peculato per distrazione introdotto nel decreto carcere, così come spiegato anche a Skytg24: “Le due fattispecie sono completamente diverse: l’abuso di ufficio è stato finalmente abrogato, era un reato che proteggeva l’imparzialità nella pubblica amministrazione, in altre parole puniva gli amministratori che facevano delle cose che non avrebbero dovuto fare al loro vantaggio. Nel peculato per distrazione c’è una ipotesi completamente diversa: vi è un aspetto patrimoniale. In questo caso c’è il sindaco che utilizza i fondi che ha disposizione per una destinazione diversa da quella per cui erano stati concessi, una malversazione di denaro. Non ha nulla a che vedere con l’abuso di ufficio”. Santalucia attacca Nordio: “Giustizia malata? È colpa del ministero” di Gabriella Cerami La Repubblica, 7 luglio 2024 Al consiglio direttivo dell’Anm il presidente risponde alle accuse che gli sono state rivolte dal titolare del dicastero: “Deve darci risorse per lavorare meglio”. Ha parlato di “giustizia malata” il ministro della Giustizia Carlo Nordio, “da riformare” e ha tirato in ballo l’Associazione nazionale magistrati con le “resistenze conservatrici di molti”: “Le leggi le fa il parlamento e non l’Anm”, ha detto il titolare di via Arenula. Un attacco frontale a cui il presidente Giuseppe Santalucia risponde ribaltando il ragionamento perché, se di giustizia malata bisogna parlare, allora “è una malattia che ha come causa il ministero della Giustizia che deve darci le risorse per poter lavorare bene e meglio. Io quasi quasi penso a dargli ragione perché quando entro nel mio ufficio non ho stampanti, non ho computer, queste sono le difficoltà quotidiane. E parlo della Corte di Cassazione, quindi di uno degli uffici centrali, pensate agli uffici periferici, ci sono difficoltà enormi da dover superare ogni giorno per poter fare il proprio lavoro”. Quindi, aggiunge il presidente dell’Anm, “oggi la magistratura si dibatte con carenze strutturali. Se stiamo avendo risultati buoni, perché lo stesso ministro ce lo riconosce, sono in gran parte frutto del sacrificio dei magistrati più che di uno stanziamento adeguato di risorse. Non parlerei di malattia, ma di un grande impegno di tutta la magistratura al servizio dell’utenza e su questo invochiamo un aiuto del ministro”. In corso, negli uffici del quinto piano della Cassazione, c’è il Consiglio direttivo dell’Anm ed è in questa sede che il presidente passa in rassegna le varie riforme e i decreti approvati dal governo. Tra questi, l’ultimo sulle carceri: “Se oggi l’emergenza è il sovraffollamento nelle carceri, perché ci sono 50 suicidi, che è la prova più forte della drammaticità della questione, non trovo nessun tipo di risposta nel decreto. Il carcere così diventa criminogeno. Il carcere deve privare soltanto della libertà non degli altri diritti. Il detenuto quando sarà restituito, prima o poi alla società, porterà dentro quel carico aggiuntivo di sofferenza, che non tutti sono in grado di metabolizzare e qualcuno lo tradurrà in ulteriori commissioni di illeciti. Il carcere deve essere il luogo della rieducazione e risocializzazione, non il luogo della sofferenza”. La questione, per il presidente Santalucia, non è opporsi alle riforme, accusa che il ministro Nordio ha rivolto all’Anm: “Noi abbiamo il massimo rispetto per il lavoro del Parlamento - sottolinea il presidente dell’Associazione nazionale magistrati - noi non ci opponiamo alle riforme, ma ci opponiamo alle riforme sbagliate, come quella sulla separazione delle carriere, parlare non significa contrastare le riforme”. Firenze. Ottanta detenuti via da Sollicciano. Dopo la rivolta chiuse due sezioni di Ernesto Ferrara e Matteo Lignelli La Repubblica, 7 luglio 2024 Il sottosegretario Delmastro: “Un alleggerimento strutturale. Arrivano 51 nuovi agenti della polizia penitenziaria, apriamo una riflessione sull’idea di un rifacimento complessivo”. Ottanta detenuti saranno trasferiti entro una decina di giorni fuori dall’inferno di Sollicciano: 20 sono già stati spostati ieri in altre carceri toscane, altri 10 da domani fuori regione. Due sezioni del carcere fiorentino, la 5 e 6 del padiglione giudiziario, sono state chiuse, del resto la situazione in quelle aree era ulteriormente precipitata dopo la rivolta e gli incendi che si sono scatenati giovedì quando Fedi - detenuto tunisino di 20 anni - si è suicidato riaccendendo un faro e sulla situazione disperata di questa enorme struttura fatiscente dove tra topi, cimici, muffa e infiltrazioni d’acqua è impossibile vivere. Un alleggerimento “non temporaneo ma strutturale di detenuti”, fa sapere il sottosegretario alla giustizia di Fdi Andrea Delmastro a Repubblica rivendicando l’arrivo a breve di “51 nuovi agenti penitenziari”. E aprendo anche per la prima volta da Roma ad una “discussione per il futuro, da condividere con tutti gli enti e le amministrazioni locali, e con finanziamenti da reperire, sull’idea di un rifacimento complessivo del carcere di Firenze”. Progetto certamente con tempi molto lunghi mentre l’emergenza Sollicciano si mostra invece drammatica, immediata. Gli spazi per i reclusi, già in sovrannumero, si sono ridotti ancora. Nessun progetto sociale e di lavoro serio all’orizzonte per dare ossigeno e qualche risorsa economica ai detenuti, come invoca il garante fiorentino Eros Cruccolini. E gli interventi di manutenzione e miglioramento strutturale in corso, pur in gran numero, si mostrano lenti o impantanati nella burocrazia. Lo svela un documento interno del Ministero della giustizia di giugno mettendo in fila le criticità (“il degrado delle facciate, i bagni delle celle non conformi, il muro di cinta instabile, il teatro femminile inagibile, il solaio della chiesa con guai strutturali”) e i lavori previsti: sospesi quelli da 2,6 milioni di manutenzione delle facciate, appena svolti i rilievi per dotare le celle di docce. Chissà quando. L’ultima rilevazione effettuata il 5 luglio parla di 564 detenuti a fronte di 408 posti “regolarmente disponibili” a Sollicciano. I posti nelle celle non agibili però sono 89, quasi un quarto del totale e questo dà una dimensione della crisi. Ci sono 133 persone che non hanno a disposizione lo spazio minimo (3 metri quadri) sotto il quale si viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dopo quel che è accaduto verranno chiuse la quinta e la sesta sezione del padiglione del giudiziario ed è per questo che si è accelerato sui trasferimenti. Data la situazione d’emergenza, il garante nazionale dei detenuti Maurizio D’Ettore era stato in visita a Sollicciano a maggio e giugno e lì ha potuto constatare che ci sono vari progetti ancora indietro. “Ci sono 4 milioni di euro di lavori della Regione Toscana che saranno completati tra 3 o 4 mesi. Prevedono il rifacimento del cappotto, degli infissi e pannelli fotovoltaici. L’obiettivo è diminuire il costo dell’elettricità e climatizzare meglio ambienti dove ora ci sono 50 gradi” dice Cruccolini. Proprio la giunta regionale guidata da Eugenio Giani domani farà una seduta straordinaria sulla situazione carceraria toscana stanziando 500 mila euro. Tra i progetti in vista a Sollicciano, rivendica Fdi col coordinatore regionale Fabrizio Rossi, c’è anche un nuovo edificio, 500 mila euro, un capannone per attività lavorative dei detenuti (come un laboratorio di pelletteria), opera naufragata già nel 2021 e nel 2022, adesso tutto nelle mani della gara del Mit. “Servirà fare nuovo Sollicciano” ammette il neo eurodeputato meloniano Francesco Torselli. “Inutile spendere soldi su Sollicciano che ha 40 anni, mancano spazi, manca tutto” allarga le braccia pure il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani. “Pronti a parlarne ma dal Pd abbiamo ereditato una situazione catastrofica, stiamo correndo per recuperare” dice Delmastro. Grosseto. Il piano anti-crisi carceraria: così cambia l’ex caserma. E via all’albo delle comunità di Stefano Brogioni La Nazione, 7 luglio 2024 Rigenerazione urbana: si trasforma la struttura militare per ospitare 500 detenuti. Anche le “case sociali” in campo per alleggerire il peso sulle strutture esistenti. Sollicciano e Grosseto, così vicine, così lontane. Dalla pecora nera delle carceri toscane, all’esempio che potrebbe dettare la linea di una reclusione più umana: la trasformazione dell’ex caserma Barbetti. Il suicidio del detenuto tunisino di vent’anni nel penitenziario fiorentino, giovedì scorso, l’esplosione di violenza che ne è seguita in una popolazione ristretta già sull’orlo di una crisi di nervi per le cimici nelle celle, i rubinetti asciutti, la muffa, hanno portato il tema carceri al centro del dibattito politico. Poche settimane fa, il guardasigilli Carlo Nordio, ospite di Fratelli d’Italia a Firenze, rispondendo a una domanda sull’ormai cronico problema di Sollicciano aveva introdotto un tema che oggi può essere letto come un palliativo all’affollamento che affligge le case circondariali nostrane: trovare nuovi spazi. Nel caso di Sollicciano, le presenze sono ben al di sopra della capienza - come emerge dall’ultima rilevazione del presidente dell’autorità garante per i detenuti, Maurizio Felice D’Ettore -, ma paradossalmente ci sono situazioni ancora più gravi. Nordio ha in testa - ed è già stato inserito in gazzetta ufficiale - la creazione dell’”Albo delle comunità”. Si tratta di una sorta di riconoscimento ufficiale di quelle realtà che già oggi vengono usate, a discrezione dei giudici, come luoghi di detenzione più soft. A regime, potrebbero ospitare i “definitivi”, condannati per reati meno gravi o che hanno dimostrato una condotta irreprensibile dietro le sbarre, e contribuire al parziale svuotamento delle celle. O chi ha problemi, psichici o di droga. Ma, per Nordio, niente colpi di spugna, come l’amnistia e l’indulto, invocata dal garante fiorentino Eros Cruccolini. “Noi stiamo cercando di dividere le categorie di questi detenuti: per i minori, per i tossicodipendenti, per chi vive situazioni di disagio psichico c’è la grande possibilità di inserirli in comunità - ha sottolineato nei giorni scorsi il ministro -. Una liberazione incondizionata e gratuita di queste persone, così come avveniva una volta con le amnistie, significa una resa dello Stato”. Intanto, la maggioranza di governo si prende il merito del percorso avviato a Grosseto. “Ne eravamo consapevoli che la situazione a Sollicciano era grave. Purtroppo, ne abbiamo ereditato gli effetti nefasti. Se da un lato quest’ultimo deve essere ammodernato, per l’altro, il ministro Nordio e il sottosegretario Andrea Del Mastro, hanno già invece tracciato la rotta da seguire: rigenerazione urbana con un carcere di nuova generazione a Grosseto all’ex caserma ‘Barbetti’, oggi in disuso”. È quanto dichiara Fabrizio Rossi, deputato grossetano e coordinatore regionale Fratelli d’Italia Toscana che però sottolinea che: “dopo quest’ultimi episodi, diventa quanto mai opportuno accelerare sul progetto “Grosseto”, facendone una priorità”. Del resto il progetto sul nuovo carcere di Grosseto (che potrà ospitare 500 detenuti e che sarà all’avanguardia) viene da un lungo iter. Il primo incontro tra il deputato Rossi e il ministro Nordio è avvenuto nel novembre 2022. In quell’occasione il ministro sottolineò la necessità di “costruire nuove carceri e migliorare quelle esistenti”. Ad agosto 2023 a Firenze vennero firmati i verbali di passaggio tra il ministero della Difesa, con la presa in consegna da parte del ministero della Giustizia della caserma di artiglieria “Rotilio Barbetti”. Infine a gennaio di quest’anno è stato firmato l’accordo di acquisizione della Caserma tra il Ministero della Giustizia e l’Agenzia per il Demanio, che era l’originario proprietario dell’area. Reggio Emilia. Maratona oratoria della Camera Penale: “Stop ai suicidi in carcere: non c’è più tempo” Il Resto del Carlino, 7 luglio 2024 La Camera Penale organizza una maratona oratoria per denunciare i suicidi in carcere e la condizione inumana dei detenuti. Invita la cittadinanza a partecipare il 10 luglio in piazza Prampolini. “Fermare i suicidi in carcere. Diamo voce a tutti coloro che non possono parlare. Non c’è più tempo”. La Camera Penale Reggio Emilia ‘Giulio Bigi’ scende in piazza per denunciare quanto sta accadendo nelle carceri italiane con una maratona oratoria, in programma per mercoledì alle 10.30 in piazza Prampolini. L’iniziativa è dell’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi) col supporto dell’Osservatorio Carcere. “Il 20 maggio 2024 le cronache davano notizia dell’ennesima perdita di una vita umana affidata alla custodia dello Stato - si legge nella nota a firma del Direttico della Camera Penale di Reggio Emilia -, la 35esima dall’inizio dell’anno e in pari data l’Unione delle Camere penali invitava tutte le Camere Penali italiane e dare il via a una maratona oratoria finalizzata a denunciare di fronte alla società civile la condizione inumana dei detenuti, il degrado della realtà carceraria nella quale si vedono costretti a svolgere la propria attività lavorativa gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori tutti, le inefficienze del sistema, le mancate riforme, l’irresponsabile indifferenza politica”. Dalla Camera Penale reggiana proseguono sottolineando che “la strage silenziosa nelle carceri italiane continua e oggi il numero di suicidi è salito a 53. La Camera Penale di Reggio Emilia ha sin da subito raccolto l’invito ritenendo compito primario dell’avvocatura la tutela dei diritti fondamentali di tutti e soprattutto di chi non gode di tutela alcuna perché ultimo tra gli ultimi. Ringraziamo per l’adesione all’iniziativa proposta i tanti colleghi e le tante persone che, a vario titolo, con ruoli, sensibilità e funzioni diverse, condividono con noi la convinzione che avere carceri umane all’interno delle quali sia garantito il rispetto dei diritti è una questione di civiltà che travalica i motivi che hanno determinato l’ingresso dei singoli”. Si invita quindi “tutta la cittadinanza a partecipare alla maratona oratoria che si terrà il 10 luglio in piazza Prampolini dalle 10.30 alle 12.30” a Reggio Emilia. Biella. In carcere la partita del cuore con la sfida a calcio padri-figli di Simona Romagnoli La Stampa, 7 luglio 2024 La Casa circondariale apre le porte ai familiari dei detenuti per la giornata di “Bambinisenzasbarre”. Non un semplice giorno di colloquio, ma un’occasione per stare insieme, parlare e giocare. Una situazione normale per qualsiasi bambino, che diventa eccezionale quando uno dei genitori è detenuto. Anche l’amministrazione della Casa Circondariale di Biella, in accordo con il ministero della Giustizia, ha aderito all’iniziativa “Partita con mamma e papà”, organizzata da Bambinisenzasbarre e giunta alla sua ottava edizione. Ieri mattina, quindi, le porte dell’istituto penitenziario di via dei Tigli si sono aperte e le famiglie si sono ritrovate nel campo da calcio per stare insieme e giocare. Papà e figli, ma anche altri detenuti che hanno aderito e alcuni dei volontari del Tavolo Carcere si sono mescolati tra loro formando le due squadre. L'incontro, diretto da una terna arbitrale professionista, è finito in parità, con quattro gol per parte. Particolare curiosità ha creato una sfida familiare molto divertente, tra il figlio dal buon piede in maglia gialla e il padre schierato in porta per i bianchi. Il primo voleva segnare e ci è riuscito: due volte. “L’ho fatto segnare perché è mio figlio”, ha commentato ridendo il padre dopo il primo gol. Dopo il secondo ha aggiunto: “Segna perché quando lo vedo mi emoziono”. Una battuta? Sì, ma con un evidente fondo di verità. La mattinata è proseguita con un’altra partita in cui sono entrati in campo anche i bimbi più piccoli, prima intrattenuti dai palloncini e dai disegni dei clown dottori dell’associazione “Il Naso in Tasca”. Tutti hanno infine condiviso un momento conviviale a base di pizza e frutta. L’iniziativa, ideata da Bambinisenzasbarre, è stata organizzata per la prima volta nel 2015 ed è progressivamente cresciuta: dai 12 istituti che hanno aderito alla prima edizione si è arrivati a 79 lo scorso anno. L’associazione si propone di mantenere il legame tra il genitore detenuto e il bambino, attraverso varie iniziative. La partita è un momento particolare perché “incide anche sul carcere che si ritrova a mobilitarsi in ogni suo settore e a prendere coscienza del fatto che i bambini possono essere, con la loro sola periodica presenza, dei fattori di cambiamento”. L’appuntamento a Biella è stato organizzato dagli agenti della Rete per la Genitorialità in collaborazione con le associazioni che fanno parte del Tavolo Carcere e che si occupano dei detenuti, supportandoli per necessità specifiche e organizzando iniziative e attività all’interno della struttura. “Il nostro compito – spiega Jacopo Sacco, agente di Rete per la Genitorialità che ha coordinato l’iniziativa – è di fare da collegamento tra l’istituto, le associazioni e i detenuti. In questa occasione abbiamo coinvolto anche altri detenuti. I papà non erano infatti in numero sufficiente per formare due squadre e abbiamo esteso l’invito a quelli che frequentano il campo. In base alle diverse sezioni, infatti, hanno la possibilità di accedervi per giocare. Tra le iniziative che mirano a supportare le dinamiche familiari, questa della partita ha risvolti particolarmente importanti, più significativi rispetto al periodico colloquio, perché permette una socializzazione che parte dall’incontro e dal gioco”. Lecco Film Fest, libertà di sognare anche dietro le sbarre di Angela Calvini Avvenire, 7 luglio 2024 La quinta edizione del Lecco Film Fest entra in carcere con la proiezione speciale per i detenuti di “Grazie ragazzi” e di “Ariaferma”, ospiti i registi. Applausi, partecipazione intensa ed anche commozione alla Casa circondariale di Lecco grazie al Lecco Film Fest. Il festival, organizzato da Fondazione Ente dello Spettacolo e promosso da Confindustria Lecco e Sondrio, nell’intensa settimana che si conclude domani 7 luglio, ha portato sulla sponda lecchese del Lago di Como il meglio del cinema italiano attraverso proiezioni, incontri e tavole rotonde. La novità della quinta edizione del Lecco Film Fest è avere offerto un percorso di riflessione sulla condizione di vita nelle carceri e sul ruolo delle arti per costruire il ritorno nella società anche all’interno del penitenziario di Lecco. Riccardo Milani è stato al carcere situato a Pescarenico quindi con Grazie ragazzi, ispirato alla storia vera della prima compagnia teatrale formata da detenuti. Il 3 luglio è stato presentato anche Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, una profonda riflessione sulla condizione umana che racconta il rapporto tra detenuti e guardie con gli straordinari Toni Servillo e Silvio Orlando. “Il tema di quest’anno è Signora libertà spiega ad Avvenire monsignor Davide Milani, presidente dell’Ente dello Spettacolo e promotore del festival curato da Angela D’Arrigo-. E non potevamo non trattarlo con chi della libertà apparentemente è privato ma in realtà sta vivendo un percorso di reinserimento nella società. Inoltre volevamo raggiungere a Lecco tutti, anche chi non si vede perché il carcere, purtroppo, è un luogo di pregiudizio. La direttrice Luisa Mattina è stata molto disponibile ad accogliere questo progetto. Il percorso ha previsto una rassegna cinematografica solo in carcere, alla presenza di attori e registi, mentre stasera in piazza ampliamo l’esperienza, portando al pubblico del Lecco Film Fest la riflessione sulla libertà e il carcere ospiti il regista Leonardo Di Costanzo e don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria e fondatore della Comunità Kairos”. Questa sera, quindi appuntamento alle 18 col regista di Ariaferma in Piazza XX Settembre a Lecco, mentre alle ore 21 all’Arena estiva di Piazza Garibaldi verrà proiettato Sbatti il mostro in prima pagina alla presenza del regista Marco Bellocchio, che è appena tornato nelle sale restaurato. “Un film ancora più centrale rispetto al tema - aggiunge monsignor Milani -. Parla della comunicazione e che libertà ha la comunicazione. Abbiamo aperto il festival con la proiezione di Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson (1956) che focalizza - nella vicenda di un detenuto in attesa della pena capitale - il desiderio di libertà di un intero popolo oppresso dal regime nazista. La conclusione - del festival e della retrospettiva dedicata - sarà affidata domani a La chimera (2023) di Alice Rohrwacher: la lotta per liberare l’arte e la bellezza dal potere economico”. Ma come hanno reagito i detenuti alla proiezione dei film proposti dal Lecco Film Fest, legati alla loro realtà? “Hanno apprezzato anche per le riflessioni - conclude monsignor Milani -. Noi immaginiamo che il primo desiderio per loro sia finire la pena e tornare alla vita normale, ma molto spesso la nostra libertà è condizionata da molte altre cose. A volte non siamo liberi di dire quello che siamo o non crediamo nelle nostre personalità. C’è un percorso verso la libertà più profondo e radicale della libertà fisica”. Ha fatto riflettere anche Ariaferma film vincitore nel 2022 del Premio David di Donatello per il migliore attore protagonista a Silvio Orlando e Premio migliore sceneggiatura originale a Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella. Il film diretto da Leonardo di Costanzo, è ambientato in un carcere in via di dismissione, dove sono rimasti soltanto qualche agente e pochissimi reclusi che si ritrovano a formare una nuova comunità, seppur molto fragile, con nuove regole. Di Costanzo nasce documentarista e nei suoi film, da L’intervallo in poi, ha posto sempre al centro il tema della marginalità a partire dalla sua Napoli. “Avevo raccontato a don Davide di aver visitato varie prigioni da Varese a Bollate e Poggioreale, mentre scrivevo Ariaferma - racconta Di Costanzo ad Avvenire -. Ma è visitando il carcere di Lecco che ho avuto la sensazione di come fare il film: ho incontrato molte persone educatori, agenti, il direttore ed ex detenuti. E qui ho incontrato il personaggio chiave, il Fantaccini del film ispirato a un ragazzo appena maggiorenne che, mi dicevano, entrava e usciva dal carcere perché non aveva nessuno fuori dopo la morte dei nonni con cui conviveva. Rubava per mangiare, ogni tanto lo portavano dentro, tutti gli volevano bene”. Per questo è ancor più speciale questa prima proiezione nel carcere di Lecco per il regista: “Venendo dal documentario cerco di guardare bene quello che succede nella realtà. La realtà è uno straordinario sceneggiatore. Si poneva però il problema di come rappresentare il carcere in maniera credibile. Ho dovuto cercare un universo un po’ separato, una sorta di castello che sta per essere abbandonato, da favola nera, e costruire dei personaggi raccontati con finzione, mescolando documentario e teatro, motivo per cui ho pensato a Servillo e Orlando”. Il film è stato girato nelll’ottocentesco carcere San Sebastiano di Sassari, e la maggior parte degli attori erano non professionisti, detenuti ed ex detenuti, e guardie. “Visitando e parlando con agenti e detenuti questi mi raccontavano sprazzi di umanità, anche in un universo di separazione e distanza come il carcere - ricorda -. Una agente donna mi disse che in un carcere di massima sicurezza aveva passato tutta la notte in cella tenendo la mano a una camorrista perché stava male per suo figlio. Lì dentro restano uomini e donne, l’umanità viene fuori ed è questo che ho voluto raccontare”. Il suo film in questi anni è stato proiettato in molte carceri italiane. “Spesso ho chiesto di accompagnare il film a Salvatore Striano, straordinario attore che ha una esperienza di carcere alle spalle, è diventato attore in cella ed è stato protagonista di Cesare non deve morire dei fratelli Taviani. Lui fa una grande riflessione sulla vita del carcere e su se stesso. I detenuti di Bollate ci dissero durante il dibattito che il film funziona perché a un certo punto c’è un gesto di fiducia, “e noi non possiamo ricostituirci senza un gesto fiducia”. Prima del carcere, la società come dovrebbe agire? “Bisogna sapere se vogliamo fare qualcosa con le parti più complicate e difficili della società - spiega Di Costanzo -. Parlo della scuola. Io ho girato per un anno un documentario in una scuola media in una zona molto difficile di Napoli in cui gli insegnanti cercano di dare un senso all’istituzione, e si capisce quanto sono soli, non c’è un pensiero comune su cosa fare. La scuola non è per tutti, le famiglie sono scoppiate, e gli insegnanti sono il primo pilastro della formazione. Mi hanno detto: “se noi espelliamo i ragazzi difficili dalle scuole, costruiremo prigioni sempre più grandi per stare tranquilli. Occorrerebbe invece un esercito di insegnanti. Ho finito di scrivere un film che ha sempre a che fare con i temi attraversati durante Ariaferma, ogni mio film è quasi una declinazione di quello precedente”. Livorno. L’area dell’ex carcere speciale sull’isola di Pianosa ora si può visitare. Ecco come di Elisabetta Berti La Repubblica, 7 luglio 2024 Quell’area dell’ex carcere speciale sull’isola di Pianosa dove vissero rinchiusi terroristi e mafiosi, ora si può visitare. In quelle celle passarono da Renato Curcio a Leoluca Bagarella a tanti altri detenuti: fino al 1997 quando venne chiuso. Ora apre al turismo: tutti i giorni 88 prenotazioni ed è quasi sempre sold out. Una delle mete toscane più ambite di questa estate è l’isola di Pianosa. Non solo per la sua singolare conformazione geografica o per praticare uno dei tanti sport possibili, dal kayak alla mountain bike, ma da qualche settimana anche per visitare un’ala dell’Agrippa, il carcere di massima sicurezza chiuso da venticinque anni nel quale sono stati detenuti terroristi e mafiosi col 41bis, e per il quale le prenotazioni vanno a ruba. Dopo essere rimasto per anni in stato di abbandono, l’immobile è stato concesso dal Demanio al Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, di cui Pianosa fa parte, e quindi messo in sicurezza ed aperto al pubblico. “È la prima volta che si può entrare nel carcere ed è un successo straordinario: registriamo il sold out quasi ogni giorno. - racconta il presidente del Parco Gianmarco Sammuri - Prima si poteva solo girare intorno a questa gigantesca struttura e osservarla da fuori. Ci sono voluti tre mesi di lavori e alcune decine di migliaia di euro per ristrutturare una piccola porzione del carcere, all’incirca il 10% del totale, ma rappresentativa della vita che si svolgeva all’interno”. Le visite si tengono ogni giorno per quattro gruppi di 22 persone per volta - in totale 88 al giorno - con l’accompagnamento di una guida che spiega ai visitatori arrivati con la motonave dall’Isola d’Elba, e il fine settimana anche direttamente da Piombino, la storia e le trasformazioni subite nel tempo da questo luogo che fu di sofferenza e tuttavia affascinante. A partire dal nome, “diramazione Agrippa”, ripreso dal nobile romano Agrippa Postumo, nipote adottivo dell’imperatore Augusto, che fu esiliato qui divenendo di fatto il primo detenuto di Pianosa. A quest’epoca risalgono i “bagni Agrippa”, rovine romane attualmente in corso di studio da parte della Sovrintendenza. Dalla metà dell’800 sull’isola fu creata una colonia penale agricola, un’esperienza all’avanguardia del Granducato di Toscana, e nel 1864 si costruì il suo primo carcere, per 350 persone. Nel 1880 erano diventate 960. Come diventa un carcere di massima sicurezza - Alla fine dell’Ottocento qui venivano spediti i detenuti malati di tubercolosi nell’errata convinzione che l’aria di mare potesse giovare loro. Un lazzaretto in mezzo al mare che rimase in funzione fino al 1965. Poi negli anni Settanta, per volere del generale Dalla Chiesa, l’Agrippa divenne un carcere di massima sicurezza dove furono ospitati brigatisti rossi come Renato Curcio e più tardi, negli anni Ottanta e Novanta, i capi della camorra e i boss mafiosi come Leoluca Bagarella e Nitto Santapaola. A sottolineare l’inviolabilità di Pianosa non ci si accontentò dell’isolamento, ma fu costruito un lungo muro in cemento armato che fungeva da fortificazione e che è ancora in piedi. 1997: l’ultimo detenuto - L’ultimo detenuto per mafia fu trasferito sul continente nel 1997 e il carcere fu dismesso. Ma le vicissitudini della “diramazione Agrippa” hanno segnato profondamente la storia e l’aspetto di tutta l’isola. “La maggioranza degli immobili si trova in stato d’abbandono - spiega Sammuri - Pianosa è quasi tutta del Demanio, ad eccezione di pochi edifici di proprietà del Comune di Campo nell’Elba attualmente in uso. Il Demanio sta cercando di trovare investimenti per le ristrutturazioni e in qualche caso anche per la demolizione. Ci sono infatti alcune strutture di nessun pregio architettonico che vennero realizzate nel periodo del carcere e che oggi non hanno alcuna utilità. Come Parco dell’Arcipelago chiediamo da tempo un piano per demolire quello che è irrecuperabile ed investire per ripristinare il resto”. Nel frattempo Pianosa viene raggiunta da 30mila visitatori all’anno ai quali viene offerto un variegato programma di attività che spaziano dallo snorkeling alla visita guidata in carrozza o in bus, dal trekking naturalistico alla visita del paese o alle catacombe. Le visite all’ala dell’Agrippa proseguiranno anche dopo l’estate, rimanendo vincolate ai giorni e agli orari di arrivo delle motonavi dall’Isola d’Elba. Il costo è di 20 euro compreso il servizio navetta. Per info e prenotazioni è necessario contattare l’Info park allo 0565/908231. Il Papa: la democrazia è partecipazione, in un regime dirigista i cittadini si limitano ad assistere di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 7 luglio 2024 La convergenza con le parole di Mattarella. “Ecco, vorrei dire così, pensando oggi a cosa significhi il “cuore” della democrazia: insieme è meglio perché da soli è peggio”. Chiede “partecipazione”, Francesco, come un antidoto alle patologie dei sistemi democratici: “Democrazia, lo sappiamo bene, è un termine nato nell’antica Grecia per indicare il potere esercitato dal popolo attraverso i suoi rappresentanti. Una forma di governo che, se da un lato si è diffusa in modo globale negli ultimi decenni, dall’altro pare soffrire le conseguenze di un morbo pericoloso, quello dello “scetticismo democratico”. Bergoglio lo scrive nell’introduzione a un’antologia di discorsi e messaggi pubblicata dalla Libreria editrice vaticana e dal “Piccolo” di Trieste, “Al cuore della democrazia”, che sarà distribuita domenica come un prologo all’intervento del Papa a conclusione della 50ª Settimana sociale dei cattolici. Francesco parlerà al centro congressi prima di celebrare la Messa in piazza Unità d’Italia, affacciata sul golfo, a metà mattina. Se lo chiedeva anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella lectio che mercoledì ha aperto le giornate triestine: “Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”?”. Per questo “battersi affinché non ci possano essere “analfabeti di democrazia” è una causa primaria, nobile, che ci riguarda tutti”, spiegava Mattarella: “Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme”. Sono parole affini alla riflessione di Francesco. Il pontefice osserva che “la difficoltà delle democrazie nel farsi carico della complessità del tempo presente - pensiamo alle problematiche legate alla mancanza di lavoro o allo strapotere del paradigma tecnocratico - sembra talvolta cedere il passo al fascino del populismo”. E richiama l’essenziale: “la democrazia ha insito un valore grande e indubitabile: quello dell’essere “insieme”, del fatto che l’esercizio del governo avviene nell’ambito di una comunità che si confronta, liberamente e laicamente, nell’arte del bene comune, che non è altro che un diverso nome di ciò che chiamiamo politica”. Il Papa risale a ciò che disse nella preghiera solitaria in piazza San Pietro, il 27 marzo 2020, durante il confinamento per la pandemia: nessuno si salva da solo. “È proprio nella parola “partecipare” che troviamo il senso autentico di cosa sia la democrazia, di cosa significa andare al cuore di un sistema democratico”, scrive Bergoglio: “In un regime statalista oppure dirigista nessuno partecipa, tutti assistono, passivi. La democrazia invece richiede partecipazione, domanda di metterci del proprio, di rischiare il confronto, di far entrare nella questione i propri ideali, le proprie ragioni. Di rischiare. Ma il rischio è il terreno fecondo su cui germoglia la libertà. Mentre invece “balconear”, stare alla finestra di fronte a quanto accade intorno a noi, non solo non è eticamente accettabile ma anche, egoisticamente, non è né saggio né conveniente”. Perché “sono tante le questioni sociali sulle quali, democraticamente, siamo chiamati a interagire”, conclude Francesco: “Pensiamo ad un’accoglienza intelligente e creativa, che coopera e integra, delle persone migranti, fenomeno che Trieste conosce bene in quanto vicino alla cosiddetta rotta balcanica; pensiamo all’inverno demografico, che colpisce ormai in maniera pervasiva tutta l’Italia, e in particolare alcune regioni; pensiamo alla scelta di autentiche politiche per la pace, che mettano al primo posto l’arte della negoziazione e non la scelta del riarmo”. I divieti e le paghette di Concita De Gregorio La Repubblica, 7 luglio 2024 Dall’aborto come reato universale ai piccoli spacciatori in carcere. Decreto dopo decreto, legge dopo legge, proposta dopo proposta ecco completarsi il quadro del modello educativo, chiamiamolo così, o se volete la proposta di ordine e armonia sociale immaginata della destra di governo. È facile, è come funzionava negli anni Cinquanta nelle case dei padri padroni: se c’è un problema non se ne parla, si elimina la parola che lo definisce, così vedrai che sparisce. Se persiste, incredibilmente, allora chi si ostina a soffrirne va a letto senza cena, si chiude nello sgabuzzino. Nel recinto dei polli o dei maiali, se ostinato, così impara. Al fratello buono un premio, alla sorella cattiva una punizione esemplare. Funziona per negazione e concessione, l’educazione meloniana. Grande confusione fra cause e conseguenze delle cose, prevenzione e repressione ormai sinonimi nel lessico di governo senza alcuna distinzione fra una funzione - comprendere le ragioni del problema e intervenire a sanarle - e l’altra. Vediamo, elenco incompleto delle più recenti misure. Propone Maurizio Gasparri un bonus di mille euro per un anno alle donne che non abortiscono. (La paghetta nel linguaggio della politica si chiama difatti bonus: se non sai come risolvere un problema dai due soldi, intanto, o li pretendi come riparazione di un delitto già commesso). Dice Gasparri: se così, una sera per caso, vi era venuta l’idea di non avere un figlio allora sappiate che ci pensiamo noi, a crescerlo. Addirittura per un anno intero, pensate. Poi, dal tredicesimo mese e per il resto della sua vita, ci pensate voi. Dai ripensateci. Ah, beninteso. Solo per le donne cittadine italiane e sotto una certa soglia di reddito. Come se la decisione di abortire fosse legata solo alla povertà. Come se le donne immigrate e prive di documenti non fossero persone: loro sì, possono abortire quanto vogliono. Del resto devi già passare per i comitati pro vita, nei sempre più rari consultori. Così senti il battito del feto e ti rendi conto. Come se chi decide di abortire non sapesse cosa sta facendo, come se dovesse spiegarglielo la signorina allo sportello. I bonus, per giunta - le paghette - devi sapere che ti spettano, per pretenderle. Lo sgravio fiscale per le madri che lavorano non è stato richiesto dal quaranta per cento di chi poteva farlo: ma per quale ragione al mondo bisogna chiederlo? E le donne che non lo sanno? E quelle che non hanno gli strumenti per affrontare le forche caudine della burocrazia? Non sono loro, le più fragili, le prime ad averne bisogno? Perché non è automatico, questo sgravio fiscale. Risposte? Il capolavoro della maternità surrogata che diventa per legge reato universale. A dispetto dell’universo: in altri sistemi solari non sappiamo ma in questo, su questo pianeta, la gestazione per altri è in molti casi regolata con norme sovente molto rigide, è lecita. In Irlanda il governo di centrodestra l’ha appena legalizzata. Sono sessantacinque i paesi del mondo in cui è ammessa, trentacinque quelli che la consentono in forma solidale e non commerciale. Quarantotto stati degli Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Grecia, Portogallo, l’elenco è facilmente consultabile. Non stiamo parlando di Paesi culturalmente ed economicamente arretrati. Parliamo di grandi democrazie. Dunque quale universo? E i bambini che nascono - perché nascono comunque - sono colpevoli, delinquenti alla nascita? Il decreto Caivano, altro capolavoro. I ragazzini fanno uso di droghe e spesso le spacciano, non c’è dubbio. Quindi? Vogliamo legalizzare le droghe leggere per disarmare la criminalità e le mafie? Vogliamo esaminare le cause del crescente disagio giovanile, sociale e psichico? No, li vogliamo mettere in galera. A partire dai quattordici anni, se c’è pericolo che fuggano. Lo sapete però vero che il 40 per cento dei detenuti è in carcere per reati di droga. Lo sapete che le carceri sono sovraffollate oltre il limite della disumanità, che quasi ogni giorno un detenuto si suicida e sono spesso ragazzini. Ma dai. Triplichiamo l’affollamento. Minorenni in galera, così imparano. Così sì che si risolve. Ma tutto, tutto. C’è un blocco stradale: arrestiamo chi sta col suo corpo a fermare le macchine, chi se ne importa dei motivi. Deve essere pazzo, di certo è criminale. Proteste di attivisti ecologisti? Galera. Si sa che il cambiamento climatico non esiste. La celebre piaga dei rave? Galera. Borseggiatori coi neonati in braccio: sono delinquenti genetici, non c’è niente da fare. Non una casa non un lavoro. No: galera. Sovraffollamento dei pronto soccorso? Beh potete rivolgervi in farmacia. Perché non dal veterinario, mi domando? Ha mano più pratica. Però i grandi affari, i corruttori e i corrotti di alto lignaggio, talvolta ministri. Presunzione d’innocenza, che è giusto. Per gli altri, per la maggioranza indistinta, vale il principio della colpa a prescindere dalle ragioni, che potrebbero non essere quelle di arricchirsi e farla franca. Ma pazienza. Galera e paghetta. Fate i bravi, vi diciamo noi come. Una società più violenta: cresce la percezione di vivere tra i crimini di Enzo Risso Il Domani, 7 luglio 2024 Negli ultimi dodici mesi il 27 per cento degli italiani denuncia l’aumento di violenza nel proprio quartiere. Un incremento simile è avvenuto in Svezia, Francia e Germania, Spagna, Gran Bretagna e Usa, in un range di percentuali che va dal 27 al 24. Un altro elemento che preoccupa è il fenomeno delle gang. Una società sempre più violenta in cui il quotidiano è presenziato da atti di vandalismo, dall’agire di gang, dal consumo e spaccio di droghe, da furti di auto e in appartamento, ma soprattutto dall’inaccettabile violenza sulle donne. Il dato di peggioramento non è solo italiano, ma è globale. Nel 2021 il tema della criminalità e della violenza era al quinto posto nella scala delle preoccupazioni dei cittadini dei 28 paesi monitorati da Ipsos Global Advisor. Oggi è al secondo subito dopo l’inflazione. In Svezia è addirittura il primo fattore (61 per cento) e supera il tema della povertà (20), dell’inflazione (17) e del lavoro (14). Il peso di criminalità e violenza è alto anche negli Usa (33 per cento). Una preoccupazione superata solo dalla spinta inflattiva (46), mentre povertà (21) e lavoro (17) vengono in secondo piano. In Gran Bretagna povertà (27), inflazione (27) e violenza criminale (26) formano la triade del quadro dei problemi dei cittadini. Più alto, rispetto all’Oltre Manica, è il peso di criminalità e violenza nell’agenda dei francesi (31 per cento). Un aspetto che surclassa la povertà (25) e il lavoro (11) ed è superato solo dal peso dello scatto inflattivo (40). In Germania violenza e inflazione marciano insieme al 30 per cento. Per i tedeschi, però, l’emergenza è quella della crescita della povertà e delle disuguaglianze (34). In Italia e Spagna il primo problema è quello del lavoro (34 in Italia e 33 in Spagna). L’agenda delle preoccupazioni in Italia mette al secondo posto la povertà (27), al terzo l’inflazione (26) e al quarto la violenza (23). Il dato non deve ingannare. Nel 2021 il tema di violenza e criminalità nel nostro paese era al 17 per cento, oggi è salito di ben sei punti. Negli ultimi dodici mesi il 27 per cento degli italiani denuncia la crescita dei tassi di violenza nel proprio quartiere. Un incremento simile è avvenuto in Svezia (32), Francia e Germania (27), Spagna (25), Gran Bretagna e Usa (24). A generare l’impennata sono stati molteplici fattori. Al primo posto in Italia troviamo il vandalismo (55 per cento), seguito da furti di auto (48) e in appartamento (43), consumo di stupefacenti (43), spaccio di droghe (38), ma soprattutto dalla violenza sulle donne (30) e dalle gang (28). Nel corso degli ultimi anni la violenza sulle donne ha marcato la sua barbara recrudescenza anche negli Usa (33), in Francia e Spagna (27), in Svezia e Gran Bretagna (26), nonché in Germania (25). Un altro fattore che risulta in lievitazione è quello delle gang. Il quadro italiano simile a quello inglese (28), al di sotto di quello svedese (38), ma al di sopra del quadro americano (23), spagnolo (19), tedesco (17) e francese (16). Il vandalismo è una piaga non solo italiana. Siamo surclassati, però, solo dalla Svezia (57), mentre negli altri paesi il dato oscilla tra il 43 della Germania e il 49 della Gran Bretagna. La vetta dei furti di auto spetta agli Usa (49). L’Italia con il suo 48 per cento si piazza subito dopo, seguita da Gran Bretagna (46), Svezia (39), Francia (37), Spagna (34) e Germania (31). La palma d’oro dei furti in casa spetta a Francia (52) e Spagna (51). Negli Usa è al (49), seguita da Svezia (47), Germania, Gran Bretagna e Italia (43). Nella classifica della percezione di aumento dello spaccio di droghe svetta la Svezia (40), scortata da Italia (38), Francia (36) Spagna (35), Usa (32), Germania (28) e Regno Unito (25). L’aumento del consumo di droghe, infine, è un cancro che tocca tutte le società. In vetta troviamo gli Usa (53), seguiti da Svezia (51), Regno Unito (47), Francia (45), Spagna (44), Italia (43) e Germania (34). Negli ultimi anni non c’è stata solo una recrudescenza di atti criminali, di violazione dell’incolumità di cittadini, oggetti e case, ma anche le relazioni tra le persone appaiono sempre più marcate da forme di aggressività, prepotenza e sopraffazione. La violenza, come ricorda il sociologo francese Loïc Wacquant, non può essere dissociata dalla povertà e dell’esclusione sociale. L’ampliarsi delle disuguaglianze sociali cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è lì a mostrarci quanto sia stato fallimentare credere, da parte di molti settori della società economica e politica, al famigerato “arricchitevi” del neo liberismo e accettare la ricetta anti-welfare e precarizzante. Oggi sta arrivando il conto salato, in termini ambientali, sociali e esistenziali. La crescita delle disuguaglianze porta con sé non solo l’aumento delle povertà e del malessere sociale, ma anche della violenza e della criminalità. Tutti fattori che rendono la qualità della vita, per molte persone, più incerta, paurosa e faticosa. Orfani di femminicidio, il destino difficile dei testimoni dell’odio di Alice Dominese Il Domani, 7 luglio 2024 Molti di loro hanno assistito all’omicidio della madre. In alcuni casi le famiglie in cui vivono tendono ad “assolvere” il padre. Cambiare cognome, trasferirsi lontano oppure restare con nonni e zii materni e paterni, che da un giorno all’altro diventano genitori dei propri nipoti: ciò che accade agli orfani di femminicidio in Italia è rimasto a lungo ignorato. Tuttora non esistono dati ufficiali dei loro numeri e fino a quattro anni fa non esisteva neppure una normativa dedicata. I tribunali per i minorenni, poi, non possiedono una raccolta digitale di casi specifici come questi, e i servizi sociali intervengono a macchia di leopardo fornendo un’assistenza a orfani e famiglie affidatarie che spesso non è sufficiente. Da qualche anno il terzo settore ha intercettato questo vuoto e ha iniziato a contare gli orfani di femminicidio, rintracciandoli tramite una ricerca sul campo fatta di passaparola con i servizi territoriali e la raccolta dei fatti di cronaca. L’impresa sociale Con i bambini, che gestisce il progetto “A braccia aperte” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, ha individuato a livello nazionale 417 orfani sotto i 21 anni. Di questi, 157 sono attualmente presi in carico dal progetto, da cui ricevono sostegno educativo ed economico insieme alle loro famiglie affidatarie. Alcuni orfani sono stati raggiunti e affiancati dai partner dell’iniziativa fin dalle prime ore successive all’omicidio della madre. In questa circostanza, come raccontano le operatrici, il tipo di sostegno offerto è molto concreto. In assenza di parenti prossimi, si tratta per esempio di stare insieme ai figli e alle figlie della vittima nell’attesa del funerale, oppure di supportare gli orfani che devono tornare nell’abitazione dove è avvenuto l’omicidio, per recuperare le proprie cose. La collaborazione tra forze dell’ordine, servizi sociali e presidi ospedalieri in queste situazioni diventa fondamentale per fornire un aiuto psicologico tempestivo agli orfani. Spesso sono proprio i carabinieri che intervengono sul luogo del delitto a contattare le associazioni che fanno parte della rete di supporto per gli orfani, segnalandoli agli operatori. Nel 36 per cento dei casi, infatti, i figli sono presenti al momento dell’omicidio della propria madre. Questo evento, spiegano gli esperti, ha conseguenze psicologiche devastanti, che nei bambini si possono tradurre in una vera e propria sindrome, detta child traumatic grief. Il bambino, cioè, sopraffatto dal trauma, diventa incapace di elaborare il lutto, trovandosi intrappolato in uno stato di dolore cronico. Testimoni della violenza - Ma quando le famiglie affidatarie e i servizi sociali che intervengono non sono formati e assistiti adeguatamente, il trauma degli orfani può acuirsi. “Chi si approccia a queste persone rischia di fare danni e tanti danni sono stati fatti”, dice Salvatore Fedele, coordinatore della Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali. Il progetto, riassunto nell’acronimo Respiro, opera da tre anni nelle regioni del Sud Italia, dove la concentrazione di femminicidi e di orfani è più alta. Da quando il progetto è stato avviato, Fedele ha riscontrato uno stato di abbandono diffuso dei cosiddetti orfani storici, ovvero delle ragazze e dei ragazzi diventati orfani negli ultimi 15 anni. Molti di loro sono stati rintracciati attraverso un lungo lavoro di mediazione con familiari, insegnanti ed enti territoriali, dopo che se ne erano perse le tracce. Alcuni, provenienti da contesti mafiosi, hanno vissuto per anni all’interno di programmi di protezione in contesti di isolamento, altri hanno cambiato identità. Dal 2018 per gli orfani di femminicidio la legge italiana prevede interventi di tutela appositi, tra cui l’assistenza psicologica gratuita, la possibilità di cambiare cognome, l’accesso a borse di studio, a quote di assunzioni dedicate e a un sostegno economico per le famiglie affidatarie di circa 300 euro al mese. Eppure, secondo quanto emerso dall’analisi della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, la maggior parte delle famiglie affidatarie si trova in condizioni di forte difficoltà economica e non ha ricevuto alcuna assistenza da parte dei servizi sociali. Dove a mancare è il supporto psicologico, anche i parenti prossimi, spesso sprovvisti di strumenti per affrontare il trauma, possono diventare artefici di vittimizzazione secondaria. Questa si verifica quando gli orfani, vittime anche loro dei maltrattamenti del padre o per aver assistito all’uccisione della madre, continuano a subire altre forme di violenza, soprattutto psicologica. È il caso di famiglie dove si parla del femminicidio come se si fosse trattato di un incidente: “Alcune lo fanno pensando di proteggere gli orfani”, racconta un’operatrice. “Non ammettono che il responsabile della morte è il padre, anche quando il figlio ne è consapevole. In casi di questo tipo, ci siamo trovati di fronte a orfani vissuti per anni in una grave condizione di dissociazione, e i danni psicologici sono enormi”. Non tutti gli orfani però accettano l’aiuto offerto dai servizi e dal terzo settore. Tanti sono diffidenti, alcuni temono di essere destabilizzati ulteriormente e preferiscono evitare di intraprendere un percorso psicologico e psicoterapeutico. Altri ancora, che desiderano mantenere un rapporto con il proprio padre, preferiscono evitare il confronto. “Immaginiamo che gli orfani odino sempre il padre, ma in diversi casi la cultura patriarcale fa sì che i figli parlino del femminicidio come di un raptus o di un gesto di follia temporanea, magari perché la madre si voleva separare”, dice un operatore. Ciò accade anche quando tra le mura domestiche le violenze, psicologiche e fisiche, precedenti all’omicidio sono frequenti e radicate. Per questo, tra le attività proposte dai partner del progetto Con i bambini, alcune sono mirate a rielaborare i maltrattamenti vissuti fornendo chiavi di lettura delle dinamiche di violenza assistita di cui sono stati spettatori i figli e le figlie delle donne uccise, spesso ignari di essere anche loro delle vittime. Il telefono del fine vita: “Aiutateci a non patire” di Valentina Petrini La Stampa, 7 luglio 2024 Vittorio, Sara, Bruno e gli altri: le storie di chi aspetta il suicidio assistito. “Vogliamo una via d’uscita dalle sofferenze senza lasciare l’Italia”. “Ho un adenocarcinoma al polmone da quattro anni e ora anche carcinoma osseo. Soffro molto, mi si stanno paralizzando le gambe. La mia è una patologia irreversibile. Aiutatemi a morire” Vittorio. “Scrivo a fatica con il puntatore oculare. Ho la sclerosi multipla dal 2017. Sto velocemente peggiorando. Le condizioni in cui sono costretta a sopravvivere si sono fatte troppo pesanti. Vorrei scegliere il suicidio assistito”. Sara. “Sono affetta da atassia cerebellare cronica e progressiva. Ho un pacemaker, vivo con l’ossigeno, mangio solo cibo frullato. Senza cerotti di morfina non posso nemmeno lavarmi”. Beatrice. Bisogna maneggiare con cautela e rispetto le storie di coloro che soffrono di patologie irreversibili e chiedono di potersi congedare dalla vita con il suicidio assistito perché reputano ormai intollerabili le sofferenze fisiche e psichiche a cui sono sottoposti. Vittorio, Sara, Beatrice, sono solo alcune delle persone che hanno chiesto aiuto nell’ultimo anno al numero bianco istituito dall’Associazione Luca Coscioni per sapere come procedere per fare richiesta in Italia di accesso all’aiuto alla morte volontaria. Otto di loro hanno accettato di rendere pubbliche le proprie storie purché restino anonimi. “Negli ultimi 12 mesi sono arrivate 15.559 richieste di informazioni sul fine vita, 43 al giorno, un aumento del 28% rispetto all’anno precedente”. Filomena Gallo è segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, cassazionista, difensore e coordinatrice nel collegio di difesa che vede imputati Marco Cappato e altri disobbedienti accusati di aver accompagnato in Svizzera a morire diversi cittadini italiani a cui è stata negata la possibilità di ricorrere all’aiuto alla morte volontaria in Italia, è anche colei che ha mandato di rappresentare gli imputati e i malati presso le cause pendenti in Corte Costituzionale. Perché oltre 15mila italiani si sono rivolti a loro e non alle istituzioni per chiedere aiuto visto che il suicidio assistito è legge e dovrebbero esserci campagne di informazione? “Perché c’è un vuoto sul fine vita. La legge sulle DAT (dichiarazioni anticipate di trattamento, il cosiddetto testamento biologico) prevede campagne informative ma non sono mai state finanziate. Tutti invece - prosegue Gallo - dovremmo sapere che possiamo scegliere anche prima di star male”. “Il suicidio medicalmente assistito può essere la mia soluzione perché non voglio morire interrompendo i farmaci e quindi tra ulteriori atroci sofferenze”. Bruno è affetto da numerose patologie, molte delle quali correlate alla spondilite anchilosante di natura genetica: “Malattia cronica intestinale, osteoporosi, insufficienza della valvola cardiaca, gliosi causata da encefalite. Non sto più in piedi, vivo in sedia a rotelle, pancia gonfia, sudo tantissimo, ho costanti dolori al torace, dolori cervicali, nausea, vertigini, non dormo per la sofferenza, non riesco a deglutire, quindi mangio sempre meno”. Bruno come tutti gli altri dipende da terapie varie, è già alla terapia del dolore e alle cure palliative. “Ecco perché quando il legislatore risponde no al fine vita e dice si alle cure palliative fa finta di non capire - spiega Filomena Gallo. - Siamo tutti d’accordo che le cure palliative vanno potenziate e fornite in modo uniforme sul territorio italiano. Ma la legge 38 del 2010 le ha già introdotte. E chi ci scrive ne fa già uso. Quindi una nuova legge del Parlamento dovrebbe riguardare le situazioni non normate”. Ci sono poi figli che scrivono per i loro genitori, come Tommaso. “Mio babbo non riesce più a leggere e scrivere, le metastasi al cervello hanno lesionato il nervo ottico”. Papà Carlo, 83 anni, ha già depositato le DAT in Comune, non vuole accanimento terapeutico. “Al momento è lucido, capace di intendere e volere -spiega Tommaso. - Vorrebbe morire in Italia, a casa sua senza soffrire più. Mi ha chiesto di inoltrare alla ASL la richiesta per il suicidio assistito: non so da dove iniziare”. Anche Caterina si è rivolta all’Associazione Luca Coscioni per sua madre, malata oncologica attualmente in hospice domiciliare, mesotelioma in fase finale non più curabile. Terapia del dolore, allettata e con ossigeno H24 ma comunque ancora vigile e lucida. Caterina mi tocca il cuore, da figlia, prima che madre, mi immedesimo nel suo tormento. “Mamma vuole essere aiutata a morire. Da tempo mi chiede di scrivervi e io le ho detto una bugia: che provo a contattarvi senza ricevere risposta. Ora mi sono fatta coraggio. Vi chiedo informazioni su iter e modulo da utilizzare per poter esaudire la sua volontà”. Olivia ha 58 anni, da poco le è stata diagnosticata la SLA: “Quando arriverà il momento voglio poter scegliere, avere una via d’uscita a sofferenze psichiche e fisiche che riterrò intollerabili”. Simone ha 38 anni ed è affetto da vasculite sistemica idiopatica autoimmune, nella sua manifestazione più grave: i vasi sanguigni danneggiati nei polmoni, nel cervello o in altri organi possono sanguinare e provocare emorragie. Gli effetti sui reni possono progredire rapidamente, portando a insufficienza renale. “Io sono già in questo stadio. Sono laureato in Medicina quindi molto consapevole. Sono lucido e determinato”. Simone ha già fatto richiesta alla sua Asl per accedere al suicidio assistito ma anche a lui come molti altri, la Asl ha risposto no, perché gli manca un criterio: quello della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Proprio nei prossimi giorni la Corte Costituzionale si esprimerà nuovamente sulla legittimità di questo punto che mancherebbe secondo l’interpretazione restrittiva delle aziende sanitarie nelle varie Regioni alla maggior parte degli italiani che stanno facendo richiesta di aiuto alla morte volontaria. Sarà la seconda volta (dopo il caso di Dj Fabo che con la sentenza 242/2019 ha introdotto per legge il suicidio assistito), in cui la Corte dovrà colmare il vuoto legislativo in materia lasciato dal Parlamento. “Il requisito del trattamento di sostegno vitale non è presente in nessun’altra legislazione - conclude Filomena Gallo - e sta causando forti discriminazioni”. Da un recente sondaggio commissionato dall’Associazione Luca Coscioni a SWG è emerso che l’84% degli italiani è favorevole ad una legge che regolamenti persino l’eutanasia. A favore soprattutto i cittadini e le cittadine del Centro Italia (91%), seguiti da quelli del Nord Ovest (85%), delle Isole (84%), Nord Est (83%) e infine quelli del Sud (80%). “Anche l’83% degli elettori di Fratelli d’Italia e Forza Italia vogliono una legge giusta in materia. E invece le proposte dei partiti di maggioranza, compresa la Lega, puntano addirittura a cancellare il testamento biologico”. Un distacco patologico dei partiti dalla società. Esportazione armi. In Tribunale a Roma quell’attrazione del potere assoluto di Alessandra Algostino, Gaetano Azzariti, Enzo Cannizzaro, Claudio de Fiores, Luigi Ferrajoli, Alessandro Somma Il Manifesto, 7 luglio 2024 La Convenzione sul genocidio, il crimine dei crimini, impone a tutti gli Stati di prevenire atti che potrebbero essere qualificati come tali. Se uno Stato si adopera attivamente con assistenza militare o altre forme di sostegno, esso potrebbe essere accusato di complicità nel genocidio. Tutto ciò emerge dalla Convenzione del genocidio del 1948, che l’Italia ha ratificato. Le disposizioni di tale convenzione devono essere considerate come norme generali, che si impongono a tutta la comunità internazionale, aventi un carattere inderogabile. L’inosservanza dell’obbligo di prevenire un genocidio, e il divieto di assistere una Stato sospettato di compiere atti genocidiari, sono anche fondati su norme costituzionali: il ripudio della guerra proclamato dall’art. 11; l’osservanza del diritto internazionale consuetudinario, come indicato dall’art. 10; la tutela dei diritti fondamentali degli individui. Vi sono anche norme più specifiche che intimano di non fornire assistenza militare a Stati che plausibilmente pongano in essere atti genocidiari. L’Italia ha vietato la fornitura di armi a Paesi nei quali è in corso un conflitto armato in contrasto con i principi della Carta delle Nazioni Unite, ovvero che non rispettino l’art. 11 della Costituzione, ovvero che violano gravemente le convenzioni internazionali sui diritti umani. Si tratta della legge 185 del 1990. Una legge che ha un alto valore morale, ma che incontra l’opposizione delle imprese che fabbricano armi. Alla luce di questo chiarissimo quadro normativo, sorprende che il Tribunale di Roma abbia respinto il ricorso di un cittadino palestinese residente a Gaza, chiedendo che lo Stato italiano interrompa l’esportazione di materiali bellici verso Israele, vieti l’uso delle basi in Italia per operazioni militari a Gaza, riprenda i finanziamenti all’Unrwa e agisca a livello internazionale in modo da evitare di incorrere in rischi di complicità in genocidio e in crimini di guerra e contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano a Gaza. Il ricorrente, Salahaldin Abdalaty, ha affermato che l’intervento militare israeliano mette a repentaglio l’incolumità dei suoi congiunti rimasti nella Striscia, nonché rilevato la sistematica distruzione della sua comunità e di qualsiasi struttura funzionale alla vita quotidiana (“domicidio”, “urbanicidio”, “scolasticidio”). Il ricorso era anche fondato su pronunce della Corte internazionale di giustizia. La Corte, infatti, in due ordinanze, ha definito “plausibile” la commissione di atti genocidari da parte di Israele e ha, successivamente, rigettato una richiesta di qualificare il trasferimento di armi a Israele da parte della Germania come plausibili atti di complicità nel genocidio sol perché la Germania ha presentato dati che evidenziavano un drastico taglio di forniture militari a Israele dopo il 7 ottobre. Le motivazioni del rigetto (ordinanza del 7 giugno 2024) appaiono francamente sorprendenti. Queste si fondano sostanzialmente su una sorta di presunzione di non giustiziabilità dei crimini di guerra (dei rischi di genocidio). Assunto molto discutibile, dal tribunale affermato in base ad “un evidente difetto assoluto di giurisdizione” e dalla mancanza di “una norma di diritto a fondamento del ricorso”, concludendo pertanto in modo risoluto che “non compete all’Autorità giudiziaria sindacare il modo in cui lo Stato esplica le proprie funzioni sovrane”. Si tratta di motivazioni inaccettabili, che evocano la ragion di Stato, e, cioè, l’insindacabilità assoluta degli atti di politica estera da parte governativa: una dottrina che non può aver cittadinanza nello Stato costituzionale. La sovranità dello Stato trova un limite nelle norme costituzionali, in coerenza con il costituzionalismo, inteso come limitazione del potere e garanzia dei diritti. La presenza di norme costituzionali e internazionali che assicurano la centralità della persona e della sua dignità non può ridursi a mera ed illusoria retorica, ma richiede un presidio contro la loro violazione. Una democrazia, che voglia continuare a definirsi tale, rinnega sé stessa e le norme fondamentali che la connotano, se di fronte ad un massacro come quello in corso a Gaza chiude gli occhi invece di ricorrere a tutti gli strumenti a sua disposizione per tutelare il rispetto dei diritti e dei principi che la contraddistinguono. Le motivazioni del Tribunale di Roma sono fondate su un principio che purtroppo si va diffondendo non solo in Italia. Un’analoga visione si intravede anche nella recentissima sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale ha stabilito la “semi assoluta” immunità del Presidente, sottraendolo, di fatto, al rispetto del diritto. Questa attrazione verso il potere assoluto, che sembra trovare eco nella sentenza della Supreme Court, così come, più modestamente, nella ordinanza del Tribunale di Roma, rischia di indebolire le ragioni del diritto internazionale e quelle del costituzionalismo che invece occorre salvaguardare per il bene della democrazia.