Il baratro morale di Mattia Feltri La Stampa, 6 luglio 2024 Suicida in carcere numero cinquantatré del 2024, Ben Sassi Fedi, tunisino, vent’anni. Era arrivato in Italia a undici, da solo, su un camion che trasportava olio. Ha vissuto per strada, è finito in riformatorio, a diciotto anni e mezzo a Sollicciano dove giovedì s’è chiuso in cella e s’è impiccato. Sarebbe uscito fra poco più di un anno. Suicida in carcere numero cinquantadue, non ho trovato il nome, un italiano di trentacinque anni, tre figli, detenuto a Livorno in attesa di giudizio, qualche giorno fa s’è impiccato in cella con un laccio ricavato da pezzi di stoffa, giovedì è morto. Suicida in carcere numero cinquantuno, Yousef Hamga, egiziano, diciannove anni, detenuto a Pavia, s’è chiuso in cella e s’è impiccato qualche giorno fa, giovedì è morto. Sarebbe uscito fra poche settimane. Ai cinquantatré detenuti che si sono ammazzati, se nel frattempo non sono diventati cinquantaquattro o cinquantacinque, bisogna aggiungere cinque agenti. Totale: cinquantotto. Poi bisogna aggiungere quelli che in carcere ci muoiono non per propria mano, ma perché malati. Nel 2024 sono cinquantanove. Totale: centodiciassette. In sei mesi, fa una media di due ogni tre giorni. Giovedì, dopo il suicidio di Ben Sassi Fedi, a Sollicciano i detenuti si sono rivoltati. Sono usciti dalle celle e hanno dato fuoco a coperte e lenzuola. Protestano perché il carcere è invaso da cimici, da topi, le pareti sono ricoperte di muffa, da tre giorni da numerosi rubinetti non esce acqua. Il carcere dovrebbe contenere un massimo di 497 persone, ne contiene 565. Quando si parla di capienza, un lettore distratto potrebbe pensare che sessantotto persone in più su una capienza di quasi cinquecento non è un dramma. Serve qualche dettaglio. Secondo la Corte europea dei diritti umani, un detenuto deve avere a disposizione almeno tre metri quadrati, sottratto lo spazio occupato dal letto. Tre metri quadrati corrispondono alla misura di un quadrato con il lato lungo un metro e settanta centimetri. Se c’è sovraffollamento, qualcuno si mangia un pezzetto del tuo quadratino. Oggi le carceri italiane ospitano 61 mila 480 detenuti in spazi previsti per 51 mila 303. Poi però, siccome alcune sezioni sono chiuse perché fatiscenti o in via di ristrutturazione, i posti effettivi sono poco più di 47 mila. Non so fare il calcolo di quanto s’è ridotto il quadratino col lato da un metro e settanta. Poi ci sono le carceri minorili. Al 31 maggio, i minorenni in riformatorio erano 546. Era dal 2009 che non si superava quota cinquecento. Era dal 1998 che non erano così tanti. Al Ferrante Aporti di Torino, alcuni ragazzi per un po’ hanno dovuto dormire per terra. Poi sono state acquistate brandine da campeggio. Al Cesare Beccaria di Milano, i ragazzi si sono rivoltati dopo brutali torture su cui sta indagando la procura. Nel carcere minorile di Treviso, i ragazzi sono ventitré su una capienza di dodici. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, solitamente ragionevole, in un’intervista al Corriere della Sera ha detto che dal 2010 al 2022 i reati commessi da minorenni sono aumentati del 39 per cento, per cui bisognerebbe inasprire le pene perché un diciassettenne di oggi è più adulto di un diciassettenne di cinquant’anni fa. Se lo dica su basi scientifiche o per una sua sensazione, lo si ignora. Quanto ai reati commessi da minorenni, Zaia prende l’anno in cui ne sono stati commessi di meno (2010) e quello in cui ne sono stati commessi di più (2022, secondo solo al 2015) e li mette in paragone. Ma già nel 2023 erano calati di oltre il 4 per cento rispetto al 2022, allo stesso livello del 2014 e molti meno del 2015, anno del record. Dal 2015 al 2020 sono sempre calati. Sono risaliti nel 2021 e nel 2022. Sono di nuovo calati nel 2023. Eppure il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, pochi giorni fa è riuscito a parlare di “aumento quasi esponenziale” di minorenni stranieri dediti al crimine a cui si deve il sovraffollamento dei riformatori, e di cui portano la responsabilità soprattutto i governi precedenti. A rimettere a posto le cose, ci ha dovuto pensare Antonio Sangermano, capo del dipartimento della giustizia minorile del ministero, dunque collaboratore di Nordio: “Dall’entrata in vigore del decreto Caivano, relativamente a ingressi e presenza media giornaliera, il numero è obiettivamente cresciuto, non può e non deve essere negato”. Il decreto Caivano è quello licenziato dal governo lo scorso settembre con cui si sono incrementati i reati per i quali è previsto l’arresto di minorenni e si sono inasprite le pene (ma non abbastanza, per Zaia). I reati diminuiscono, ma i carcerati aumentano. Rimane da aggiungere un ultimo dato: il tasso di criminalità minorile (rilevamenti Eurispes) in Italia è dell’1,1 per mille, tre volte inferiore a quello della Gran Bretagna (3,3), quattro volte inferiore a quello della Germania (4,3), otto volte inferiore a quello della Francia (8,2). Se pensate che siamo di fronte a un impazzimento generale, aspettate un attimo. Perché sull’impazzimento c’è altro da dire. Delle 61 mila 480 persone detenute oggi in Italia, il quaranta per cento (quasi 25 mila) è sottoposto a cure psichiatriche. Forse non tutti ne avrebbero bisogno, ma siccome in carcere se non si è pazzi si impazzirà, si impone un consumo abnorme di psicofarmaci: secondo uno studio di Altreconomia, si consumano antipsicotici destinati al disturbo bipolare e alla schizofrenia in quantità cinque volte superiore a quanti se ne consumino fuori. Venerdì 28 giugno, un ragazzo di ventuno anni, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, è stato ricondotto in cella a Frosinone dopo un breve ricovero in ospedale, e lì ha respirato gas da un fornelletto da campo fino a morire. Ogni anno in carcere ci sono circa diecimila casi di autolesionismo: ci si spegne la sigaretta sulla pelle, si ingoiano lamette o batterie, ci si spacca la testa contro il muro. Poi, abbiamo detto all’inizio, i suicidi. Il record è del 2022, ottantaquattro suicidi fra i detenuti. Siccome a oggi siamo a cinquantatré, e manca metà anno, il record promette di essere sbriciolato. Qualche giorno fa - e ne ha dato notizia soltanto il Foglio - è uscito il rapporto Space I del Consiglio d’Europa che ha descritto lo stato abominevole delle carceri italiane, e il Foglio si è giustamente soffermato sul paragone con quelle ungheresi, a cui Ilaria Salis è stata meritoriamente sottratta dall’Alleanza sinistra verdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. Il sovraffollamento delle carceri italiane, certifica Space I, è del 130 per cento, in Ungheria è del 111,5 per cento. In Italia i detenuti in attesa di giudizio, quindi non ancora condannati, sono il 27,6 per cento, in Ungheria il 24,5 per cento. Il tasso di suicidi in Italia è di 15 ogni diecimila reclusi (riferito però agli ottantaquattro suicidi del 2022, quest’anno sappiamo già che sarà superiore), in Ungheria di 3,5. Rispetto all’Ungheria, l’Italia ha un tasso di incarcerazione più basso (poco più di 100 ogni centomila abitanti, contro il 190) ma, per fare un solo esempio, in Italia il tasso di omicidi, che è fra i migliori al mondo, è quasi la metà: 0.5 contro 0.9. Perché tutti quelli che si sono indignati e inalberati per Ilaria Salis, non si indignano e non si inalberano per quello che gli succede sotto al naso? Perché Fratoianni e Bonelli pensano allo sciagurato sistema carcerario ungherese e non allo sciaguratissimo sistema carcerario italiano? Forse perché l’intera sinistra, magari non con l’accanimento dell’attuale governo, quando non era all’opposizione ha giocato allo stesso modo: ha fatto allarmismo, ha inventato nuovi reati, ha inasprito le pene. I carcerati, attuali e prossimi, sono lo strumento migliore su cui fondare una propaganda, costruire un’emergenza, promettere la mano di ferro della giustizia, alimentare la bava alla bocca generale. In fondo i carcerati sono un mondo a parte, sono stati sbattuti fuori dalla società civile e cioè dalla Costituzione. Il carcere è diventato una costruzione criminale di Stato legalizzata dalla nostra indifferenza, e questo a me pare il baratro morale della nazione. Quei suicidi in cella e il “patto” drammatico tra vittime e “carnefici” di Alessandro Barbano Il Dubbio, 6 luglio 2024 Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Così recita il codice penale all’articolo 40, e c’è da chiedersi se questa modalità specifica di imputazione, che si richiama a un principio di responsabilità morale, possa riguardare solo il cittadino, e non anche e soprattutto lo Stato. Non impedire una catena di suicidi in un luogo, il carcere, dove la vita dei singoli è sotto il controllo totalitario dello Stato, non equivale forse a esserne corresponsabili? “Lo sconto di pena no - dice il ministro Carlo Nordio, bocciando l’indultino proposto dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti -, sarebbe una resa”. Mi chiedo che cosa siano invece cinquantadue detenuti impiccati o soffocati nei primi sei mesi dell’anno, diecimila detenuti oltre la capienza massima, quattromila risarcimenti per trattamenti inumani certificati dai magistrati di sorveglianza. Con quale coraggio un governo inerte su questo tema continua a gettare la palla in tribuna, annunciando soluzioni impraticabili o numericamente irrilevanti? È il caso dei mille nuovi agenti assoldati dal decreto del guardasigilli. Sono appena un sesto dell’intera quota di personale mancante rispetto alla dotazione della pianta organica del Ministero. E arriveranno solo tra il 2025 e il 2026. Quale impatto possono avere su un’emergenza che deflagra nell’inferno agostano di istituti di pena sovraffollati e invivibili, infettati dalle cimici che di notte ti mordono la pelle come una gruviera, dove perfino una doccia è un diritto non garantito, dove le ferie fermano scuola e ogni altra attività, e una moltitudine caotica scopre la sua disperata solitudine? Bisogna avere il coraggio di uscire dall’ipocrisia e denunciare che cosa rappresenta il carcere per la nostra società e per la nostra politica: fino a ieri era il luogo dove confinare il male del mondo per rimuoverlo e non vederlo più, oggi si è aggiunto un cattivismo propagandistico a cui una quota rilevante ed egemone di questa maggioranza non intende rinunciare. Nessuno però pensi di professare il garantismo ritagliandolo a là carte, poiché quest’inerzia, e i suoi funesti effetti, da soli vanificano ogni altra riforma e ogni sbandierata buona intenzione. I suicidi delle carceri, venti volte più frequenti di quanto accade nella popolazione libera, sono, per paradosso, la soluzione di un problema. Per convincercene bisogna entrare nella storia dei protagonisti, quelle vittime di cui si dà solo una connotazione aritmetica: il cinquantaduesimo detenuto che si toglie la vita si chiama Fedi, ha vent’anni, a dodici è giunto dalla Tunisia nascosto nella cisterna di un camion che trasportava olio sbarcato da una nave. Ha passato la sua adolescenza da solo in un paese straniero, scappando da una comunità all’altra, tra Lecce, Trieste e Firenze. E in mezzo alle fughe ha incontrato la strada e il carcere minorile. Il traffico degli stupefacenti ne ha fatto uno schiavo, persuadendolo a vivere di reati. Appena maggiorenne, ha rubato lo smartphone a un turista sardo, per poi chiederne il riscatto. Se l’è cavata con una pena a un anno e quattro mesi, finita di scontare nell’ottobre scorso. Ma nel frattempo sono andate in giudicato altre condanne per furti compiuti da minorenne. Sarebbe uscito a novembre del 2025. L’altro ieri ha approfittato del colloquio del compagno di cella con i familiari, si è barricato tra le sue sbarre, bloccandone la serratura, e si è impiccato con il lenzuolo. Fedi era tossicodipendente ma non incapace di intendere e di volere, dice l’avvocato Ivan Esposito, che lo ha difeso con patrocinio a spese dello Stato. Si è tolto la vita quando ha capito che trovare una via d’uscita sarebbe stato impossibile. Nessuna comunità avrebbe accolto un maggiorenne irregolare. Per lui, e per lo Stato allo stesso modo, a fine pena non c’era che la strada e la prospettiva di un ritorno al carcere. Ecco la “soluzione”. Tra un reinserimento fallito e un rimpatrio proibitivo, il suicidio a suo modo fa coesistere la disperazione individuale con la rimozione collettiva. Il giovane tunisino è come il signor K del romanzo kafkiano, che agevola il compito ai suoi carnefici infliggendosi la coltellata fatale. Lui non vuole più soffrire, noi non vogliamo più vederlo. Quell’altrove esistenziale che è il carcere in Italia, separato dal mondo dalla sua invivibilità immobile e dallo stigma collettivo, dove si giunge alla fine di vite condotte sul bordo del precipizio, suggella l’alleanza a perdere tra il vittimismo e il cattivismo. L’ipocrisia del dibattito pubblico è la sua giusta colonna sonora. E il guardasigilli può dire, senza timore di cadere nel tragico, che “uno sconto di pena sarebbe una resa dello Stato”. La storia di Fedi dimostra invece che aumentare gli agenti penitenziari, riempire gli istituti di pena di psicologi, e perfino decongestionarli con pure auspicabili sconti di pena, non basterà a risolvere la piaga dei suicidi. Che ci impone piuttosto di rimettere in discussione l’idea stessa del carcere in una società pacificata e sempre più gelosa delle libertà individuali. Assodato che non è un deterrente, come la storia di Fedi ampiamente dimostra, il carcere è ancora un risarcimento sociale, come lascia intendere Carlo Nordio quando parla di funzione retributiva della pena? O piuttosto è un automatismo burocratico? Quello che fa dire a Matteo Concetti, 23 anni, bipolare, arrestato perché, svolgendo la pena alternativa in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa: “Mamma, se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”. Oppure il carcere può essere solo un rimedio estremo, a protezione dell’incolumità pubblica, dove si persegue davvero quel recupero che estingue il male, anziché trascinarlo tra le generazioni? Se partissimo da quest’ultima domanda, avremmo fatto un passo avanti per disarmare vittime e carnefici. È troppo chiedere a un ministro illuminato un atto di coraggio? Rivolte, violenze e suicidi. Il dramma delle carceri ai tempi di Carlo Nordio di Nello Trocchia Il Domani, 6 luglio 2024 I morti da inizio anno sono 52, cinque tra le forze dell’ordine, e aumentano gli abusi. La risposta dell’esecutivo è affidata a un provvedimento giudicato inutile e dannoso. “Inadeguato” per sindacati e addetti ai lavori, “infiltrato” per alcuni esponenti della maggioranza, “impreparato” per alcuni magistrati antimafia. Eppure Carlo Nordio resta incollato alla cadrega. Ministro della Giustizia che, per quanto riguarda il delicato dossier delle carceri italiane, per ora ha ottenuto risultati pari a zero. Peccato che i nostri istituti di pena siano ormai al collasso tra suicidi, con il cinquantaduesimo detenuto che si è tolto la vita dall’inizio dell’anno, violenze, sommosse ed evasioni. A fronte di tutto questo il governo si è affidato a un inutile decretino. E, intanto, la situazione viene descritta dagli addetti ai lavori come la peggiore degli ultimi 30 anni. Il decretino - Nei giorni scorsi era stato annunciato un provvedimento per alleggerire gli istituti di pena. Ma è diventato presto un decreto fantasma che alla fine Nordio ha comunque portato in Consiglio dei ministri. Per capire l’inutilità delle misure approvate basta ascoltare il parere di due tra i massimi esperti di detenzione e personale penitenziario. Il primo è Mauro Palma, per anni garante dei detenuti: “Si tratta di un provvedimento inadeguato perché distante anni luce dalla drammaticità che viene vissuta negli istituti, avrà pochissimi effetti e certamente non immediati”. Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa, “a essere equilibrati è un decreto pressoché inutile, ma in certi aspetti è anche un decreto farsa. Più che oscure, le previsioni sono inefficaci, se non alcune minime ma con impatto nel lungo periodo. C’è la riduzione della durata del corso per gli agenti a 60 giorni, alcuni in didattica a distanza, una misura deleteria. Significativa, poi, la questione dell’articolo 5”.Si tratta di un articolo annunciato nelle bozze, scomparso nel decreto e che “Nordio aveva presentato in maniera diametralmente opposta. Siamo al dilettantismo”, conclude De Fazio. Dilettanti all’opera mentre il sistema carcerario è al collasso. Suicida a 20 anni - Il numero di detenuti continua a crescere, siamo a 61mila reclusi, il personale, invece, resta sempre lo stesso. E a fine anno dovrebbe addirittura diminuire arrivando a 18.500 unità in meno. Le nuove assunzioni annunciate, sono previsti mille innesti entro il 2026, non riusciranno a rimpiazzare gli agenti che vanno in pensione, ma soprattutto i nuovi poliziotti penitenziari saranno meno formati rischiando di finire stritolati. Anche perché, quando in un settore i record negativi aumentano e non diminuiscono significa che il comparto è letteralmente allo sfascio. Il 2024 rischia di essere l’anno con più suicidi in carcere. Siamo già a 52, cinque tra le forze dell’ordine. In dodici ore si sono uccise tre persone tra gli ospiti degli istituti di pena. Un detenuto in attesa di giudizio, ventuno anni, rinchiuso nel carcere di Frosinone, è morto dopo aver inalato il gas di una bomboletta. Il giovane aveva già manifestato disturbi e disagio psichico. Poco dopo la stessa sorte è toccata a un ventenne nel carcere di Sollicciano (Fi). È lunga la lista di chi si toglie la vita dietro le sbarre. E il paradosso è che questo accade mentre è sotto la tutela di uno stato democratico. Nell’istituto di pena fiorentino sono scattate le proteste con incendi, danneggiamenti e il coinvolgimento di 2 sezioni. Un carcere, come tanti, dove regna la sporcizia, la disorganizzazione mentre il caldo entra nei blindo e infuoca le celle. Il disastro genera inevitabilmente violenza subita e, in alcuni casi, inferta dagli agenti in un meccanismo criminogeno che provoca disagio e abusi. Anche a Regina Coeli nei giorni scorsi si erano verificati disordini e proteste. Il governo annuncia più uomini e donne in divisa, senza dire che lo scarto con chi va in pensione è sempre negativo, promette nuovi posti in carcere, entro il 2026 dovrebbe aprire otto nuovi padiglioni, in tutto 2.200 posti, mentre il sovraffollamento racconta di 14mila persone in più di quelle previste. Depenalizzare mai - Misure insufficienti ma, soprattutto, è totalmente sparito il tema della depenalizzazione annunciato da Nordio prima di diventare ministro. Di più, nell’ultimo anno sono stati introdotti 22 nuovi reati e si prevede sempre più carcere come risposta al dissenso e a ogni fenomeno sociale che denuncia disagio e insofferenza. Dalle parti di Fratelli d’Italia chiamano il ministro, che pure è stato eletto nelle liste del partito, “l’infiltrato”, perché esterno al mondo meloniano di stretta osservanza. La verità, però, è che a tutti i partiti fa comodo averlo ministro: può intestarsi riforme sgradite alle toghe che altri non sono riusciti a fare, care ai colletti bianchi e a Forza Italia, ma soprattutto non dare seguito ai suoi annunci pre elettorali. Inoltre a Lega e Fratelli d’Italia servono nuovi reati per rivendicare la “politica della sicurezza”, quindi il ministro è utilissimo a tutti tranne che alla giustizia. E pensare che, nel 2006, c’era un magistrato che spiegava la ricetta per migliorare le condizioni in carcere criticando l’indulto: “Ho presieduto per quattro anni la commissione per la revisione del codice penale e, malgrado le dichiarazioni di volontà, questa riforma non si fa e si procede sulla strada sbagliata di introdurre nuovi reati, anziché depenalizzare”. Quel magistrato si chiamava Carlo Nordio, lo stesso che ha iniziato la sua avventura a via Arenula benedicendo il reato contro i rave party e, dopo due anni, diventando uno dei responsabili del disastro carceri con zero misure utili e una limitazione alla giustizia riparativa. Acceleratore sul decreto, ma non sui trasferimenti dei detenuti nelle strutture di accoglienza di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 luglio 2024 Carceri sovraffollate e “brutali”. In Gazzetta ufficiale il dl, si riparte dal Senato. Ma l’albo delle Comunità sarà pronto tra un anno. Dovrebbe iniziare già la prossima settimana, al Senato, l’iter di conversione in legge del decreto approvato mercoledì in Cdm e denominato dal governo “Carcere sicuro” proprio nello stesso frangente - non è ironia della sorte ma l’inevitabile tragedia annunciata da un’emergenza non più trascurabile - in cui si registrano ben tre suicidi di detenuti (a Pavia e Livorno, dove i due morti avevano già tentato di impiccarsi pochi giorni prima, e a Firenze Sollicciano dove la procura ha aperto un’inchiesta sul suicidio di un ventenne ed è anche scoppiata una fortissima protesta per la mancanza di acqua). Sono 51 i suicidi dall’inizio dell’anno. E, al di là di quanto annunciato dal ministro Nordio in conferenza stampa, il decreto che da ieri è in Gazzetta ufficiale, e dunque legge, mostra ancora di più i suoi limiti. Perciò, in tanti hanno espresso dissenso rispetto ad un provvedimento che di necessario e urgente non ha nulla o quasi, a cominciare da alcuni sindacati di polizia penitenziaria fino a tutta l’opposizione, passando per molti garanti territoriali dei detenuti. È mancata però, come ha fatto notare la senatrice Ilaria Cucchi, la voce del Garante nazionale. “Del decreto “Carcere sicuro” - attacca Gennarino De Fazio, segretario della UilPa - di sicuro c’è solo che si tratta di un provvedimento farsa, inutile a risolvere la gravissima emergenza e, anzi, foriero di ulteriori effetti pesantemente negativi. Peraltro, che sia un pasticcio è dimostrato anche dalla scomparsa nel testo dell’originario art. 5, relativo agli incarichi di livello dirigenziali nel Ministero di Giustizia, pure annunciato dal Ministro Nordio in conferenza stampa e da lui illustrato in senso diametralmente opposto a quello prefigurato nelle bozze circolate”. Restano nel testo però le mille assunzioni di agenti penitenziari, la riforma del procedimento per la liberazione anticipata (senza altri sconti di pena), un paio di telefonate in più al mese da concedere ai detenuti, la riforma del codice penale che cerca di mettere una pezza alla cancellazione dell’abuso di ufficio, e l’istituzione di un albo di comunità d’accoglienza dove far scontare i domiciliari ai reclusi che non hanno un domicilio a disposizione. Una norma, questa, che ricalca le misure prese negli anni del Covid, quando con il finanziamento della Cassa delle ammende si tentò di collocare in strutture di accoglienza disponibili le persone più indigenti. Eppure, come ricorda Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, “nella regione che conta un decimo dei detenuti d’Italia avevamo trovato oltre 90 posti. Ma per problemi legati alle valutazioni delle équipe interne agli istituti o della magistratura di sorveglianza, furono trasferiti solo 30 detenuti circa”. Forse ora, con la volontà politica, si riuscirà pure ad arrivare alla cifra ipotizzata dal Dap, secondo il quale potrebbero essere circa 3 mila i reclusi accolti in questo tipo di strutture, in tutta Italia. Secondo il decreto si tratterebbe di detenuti adulti senza dimora o “con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico, che non richiedono il trattamento in apposite strutture riabilitative”. Peccato però che, come stabilisce lo stesso art. 8 del testo, comma 2, il trasferimento dei detenuti non sarà possibile prima dei “sei mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Sette mesi minimo, ammesso che il decreto diventi legge entro le ferie d’agosto. Nel frattempo la popolazione carceraria cresce: un anno fa c’erano 4 mila detenuti in meno nelle celle. E perfino qualche legge criminogena in meno. Ma Nordio insiste, e dai microfoni di Sky ribadisce: “L’amnistia sarebbe una resa dello Stato”. Un resa evidentemente possibile in uno Stato democratico e antifascista, in quanto prevista dalla Carta costituzionale. Per una “reale” umanizzazione della pena di Giunta dell’Unione delle Camere penali camerepenali.it, 6 luglio 2024 Suicidi in carcere, i rimedi proposti dal Governo appaiono davvero insufficienti. È quanto mai impellente l’emanazione di provvedimenti idonei a risolvere, in tempi rapidi, la condizione in cui vivono e muoiono i detenuti nelle carceri italiane, partendo dall’approvazione del disegno di legge Giachetti-Bonino. Il documento della Giunta. Di fronte al numero dei suicidi in carcere, che nella giornata appena trascorsa ha raggiunto la terribile soglia di 53 morti in poco più di sei mesi dall’inizio dell’anno, i rimedi proposti dal Governo con il DL per “l’umanizzazione delle carceri”, appaiono davvero insufficienti. Se alcune delle soluzioni preannunciate nel comunicato diramato all’esito del Consiglio dei Ministri potrebbero produrre qualche effetto positivo nel lungo periodo, allo stato i rimedi indicati si caratterizzano per la loro inadeguatezza a fronteggiare l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Risulta irrisorio l’impegno ad assumere 500 unità di agenti del Corpo di Polizia penitenziaria per l’anno 2025; irrilevanti - ove non farraginose - le nuove dinamiche procedimentali volte alla concessione della liberazione anticipata; inidonea ad incidere in tempi brevi sull’incremento della applicazione delle misure penali di comunità la creazione di elenchi delle strutture residenziali idonee. Nessuna delle misure previste possiede concrete ricadute sull’impellente necessità di ridurre il numero dei detenuti, garantire cure e assistenza ai soggetti affetti da fragilità e disagi psichici, evitare nuovi ingressi limitando l’adozione di misure cautelari in carcere, interrompere il decorso dell’esecuzione della pena reso inumano e degradante a causa delle carenze strutturali, della mancanza di risorse umane e strumentali adeguate e di sproporzione assoluta fra offerta trattamentale e popolazione detentiva. Nonostante l’ennesimo monito rivolto dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa appena due settimane fa, con il quale si è chiesto al nostro Paese di adottare misure generali, concrete ed efficaci, per far fronte al numero di suicidi senza precedenti e ad assicurare residenze alternative al carcere per i detenuti che soffrono di disturbi psichiatrici, è mancata una doverosa e concreta assunzione di responsabilità da parte del Governo. È quanto mai impellente, in attesa di un ripensamento complessivo dell’esecuzione penale, l’emanazione di provvedimenti idonei a risolvere, in tempi rapidi, la condizione in cui vivono e muoiono i detenuti nelle carceri italiane, partendo dall’approvazione del disegno di legge Giachetti-Bonino. A fronte delle condizioni di oggettiva inciviltà in cui versano le carceri in Italia, auspichiamo che la politica abbandoni inutili slogan e scelga di operare, in aderenza ai principi costituzionali, ponendo in essere rimedi immediati e urgenti realmente sottesi all’umanizzazione della pena ed al superamento delle attuali condizioni di sostanziale illegalità. Giustizia e carceri ci riguardano tutti: “Fate filtrare luce nelle celle” di Paolo Lambruschi Avvenire, 6 luglio 2024 L’ex guardasigilli Marta Cartabia rilancia l’allarme sulle condizioni dei detenuti: “Interventi urgenti e pene alternative”. L’impegno delle diocesi nella mediazione tra rei e vittime. “Il sovraffollamento nelle carceri è tornato ai livelli del 2013 come il tasso di suicidi. È urgente perciò fare qualcosa per allevare la sofferenza e la disperazione dei detenuti. Facciamo filtrare un po’ di luce”. Se la giustizia è uno dei poteri meno partecipati dai cittadini, che delegano, Marta Cartabia con il suo appello lanciato ieri pomeriggio nell’assolata piazza della Borsa alla settimana sociale di Trieste, ha richiamato l’attenzione sulla sua faccia più nascosta, la pena. Che per la Costituzione non va solo scontata in carcere, ma anche con pene alternative alla detenzione e da poco con forme nuove e complementari che soddisfino il bisogno di giustizia di vittime e colpevoli. i quali prendono così consapevolezza delle proprie responsabilità per il danno provocato dal reato commesso confrontandosi con le vittime. Questo ultimo aspetto fa parte della giustizia riparativa, altro pilastro della riforma processuale del 2022 che porta il nome di questa docente di diritto costituzionale, già presidente della Consulta e ministro della giustizia nel governo Draghi. La settimana sociale triestina ieri ha acceso la luce anzitutto il dramma delle carceri dove le persone detenute suicidatesi nella prima metà del 2024 sono 44. Dieci in più rispetto al giugno del 2023 mentre alla fine giugno del 2022 erano 33. “Dobbiamo chiederci - ha proseguito Marta Cartabia - cosa vogliamo fare, se continuare a punire e creare disperazione o se, come ha detto il papa a fine aprile nella visita alla Giudecca a Venezia, se lasciare un orizzonte alle persone recluse. Come chiede anche la nostra Costituzione. Invece sono stati fatti passi indietro nella vigilanza dinamica e la gente resta chiusa in cella”. In concreto, per l’ex Guardasigilli vanno attuate subito alcune misure di sollievo già sperimentate durante la pandemia da Covid. “Ad esempio penso alla possibilità di effettuare più chiamate ai famigliari o alle scarcerazioni anticipate che non hanno creato allarme sociale”. Cartabia - che ai detenuti del Beccaria, il carcere minorile di Milano, che nell’ultimo giorno i n cui era in carica le domandavano perché si preoccupasse di loro rispose che i loro problemi erano i suoi problemi - guarda ovviamente con attenzione all’attuazione della parte della riforma che ha normato la giustizia riparativa. “Bisogna fugare i pregiudizi che la circondano. Contrariamente a quanto si pensa, l’adesione è volontaria da parte di chi ha commesso il reato e da parte delle vittime o dei suoi famigliari o della comunità danneggiata ed è complementare, non alternativa alla pena.” Quanto al reinserimento dei detenuti, il ruolo dei territori, a partire dalle diocesi, è sempre più strategico. “In questa fase storica in cui manca la manodopera anche poco formata, il terzo settore può fare da tramite con le imprese per fare assumere detenuti prima che vengano scarcerati in modo da creare un rapporto di fiducia”. Infine la lunghezza estenuante dei processi. Lo scopo della riforma è certamente deflattivo dei processi, come ci ha richiesto l’Ue, per alleggerire il carico sui tribunali. Nell’ultima rilevazione Istat su “Cittadini e giustizia civile” del 2023 risultava che in Italia solo il 28% delle cause civili si chiude in un anno. “E i processi lunghi giovano solo a chi ha torto”, ha concluso Cartabia. Trieste è anche vetrina di buone pratiche. Per Sara Rata, responsabile dell’ufficio distrettuale Uepe triestino la giustizia riparativa è una sfida che richiede un cambio di paradigma culturale. “Chi ha commesso reati, lo ha fatto non solo contro lo stato e quindi occorre preoccuparsi di come reinserirlo nelle comunità in cui ha creato danni. A Trieste abbiamo costituito un tavolo di coprogettazione con territorio, università e terzo settore, la rete è fondamentale per passare da reclusione a inclusione Andrea Natali, dell’associazione degli avvocati specializzati in mediazione Unam ha ricordato come la mediazione civile e commerciale con la riforma Cartabia venga valorizzata. “La mediazione riparativa e familiare è diventata obbligatoria per diverse materie, tra cui le liti in materia di condominio, successioni ereditarie, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa. Ma ci sono ancora pochi mediatori riparativi, è in lavoro povero che richiede molte ore di formazione e molta passione. in ambito penale non va confusa la giustizia riparativa con perdono e pentimento. L’obiettivo è il dialogo e il riconoscimento dell’altro, un percorso che attraversa il dolore ed è un vaccino contro il virus dell’odio”. Fondamentale è l’opera educativa. A Marsala se ne ò fatta carico l’esperienza dei “Giisti di Scialia”, fondata nel 2013 nella diocesi di Mazara da Padre Francesco Fiorino che si è trasferita due anni fa in un bene confiscato. “La cui corretta gestione e utilizzo sono il primo messaggio educativo. Qui teniamo diverse esperienze culturali e formative - spiega padre Fiorino- q da noi vengono anche persone a scontare le pene alternative. La Sicilia non è mafiosa, ma è stata la prima a reagire con forza alla mafia. Noi teniamo viva la memoria di chi, famoso o no, si è opposto con la il proprio esempio di vita”. Suicidi in carcere, Petralia: “Numeri drammatici, bisognerebbe riflettere su un’amnistia” di Giuseppe Legato La Stampa, 6 luglio 2024 L’ex capo del Dap nel biennio del Covid: “È giunto il momento di ripensare il carcere: non più come isolamento e separazione dal mondo esterno”. “Al netto di reati molto gravi che impongono temi di sicurezza seri è giunto il momento di ripensare il carcere: non più come isolamento e separazione dal mondo esterno. Non riesce a rieducare come dovrebbe anzi, deprime e induce a sottostimarsi. I suicidi hanno raggiunto numeri drammatici. E bisognerebbe cominciare seriamente a riflettere su un’amnistia”. Parla Bernardo Petralia ex magistrato dirigente, già Procuratore generale di Reggio, membro del Csm, ma soprattutto vertice del Dap dal 2020 al 2022, il biennio del Covid. Con rara franchezza affronta il tema dell’emergenza carceri il giorno dopo l’approvazione, da parte del governo, del decreto “Carceri sicure”. Misure sufficienti a risolvere il problema? “Astrattamente non è negativo, ma mi spingerei su qualche misura più radicale”. Ovvero? “Con più di 15 mila unità mancanti di personale di Polizia penitenziaria, 1.000 assunzioni non bastano”. Da più fronti si solleva il tema che gli agenti dovrebbero essere più formati su profili psicologici. È d’accordo? O servono più educatori e psicologi in carcere? “Ci vuole l’uno e l’altro. Consideri che molti agenti, che sono stati tantissime volte protagonisti di salvataggi dimostrando acume e prontezza, stanno per andare in pensione, entrerà diverso personale giovane privo di esperienza che ha bisogno di maestri. Il carcere è ambiente complicato”. Negli ultimi giorni, quattro suicidi e due tentati suicidi di uomini che hanno meno di 35 anni. Come si fa ad accettare che un ragazzo non veda più un futuro quando ha una vita intera ancora da vivere? “Ci sono diversi temi che incidono. Quando ero direttore del Dap facemmo uno studio articolato sui suicidi: dalla scarsa contiguità territoriale tra istituti e aree geografiche di provenienza dei ristretti, all’assenza di lavoro per i detenuti negli istituti, alle condizioni delle strutture i motivi e i piani sono diversi. Resta un dato: il carcere non è un mondo a sé, riflette larghi tratti del mondo esterno: se fuori aumentano i suicidi aumenteranno anche dentro”. Vale anche per i giovani? “Il tema della fragilità dei ragazzi che vediamo nel mondo esterno esiste anche in carcere, è evidente”. Perché alcuni carcerati non vedono più una prospettiva? “Anche per via di una giustizia lenta. La portata drammatica della questione risiede nei numeri: fino a quando ero al Dap la maggioranza dei detenuti era in attesa di giudizio e credo che la situazione non sia cambiata. Le posizioni - e quindi i destini - vanno definiti molto più in fretta”. Come si fa a fermare questa drammatica escalation di suicidi? “Più lavoro aiuterebbe. Se il carcerato lavorasse, si impegnasse, sarebbe disincentivato a deprimersi. Lavoro - sia chiaro - non per distrazione, ma per affermazione della propria identità. Purtroppo, su questo c’è anche una vistosa differenza tra zone del Paese. Poche occasioni al Sud, molto di più tra Lombardia, Veneto, Toscana ed Emilia Romagna”. I tossicodipendenti devono stare in carcere? “Bisognerebbe prendersene cura in strutture non solo di vigilanza ma di assistenza che incentivino un recupero vero che non è solo il Serd per il metadone quotidiano”. E le persone con problemi psichiatrici? “Sono più a rischio suicidi del detenuto “classico”. Ma non ci sono le Rems per ospitarli… “Questo più che un problema del ministero della Giustizia è un tema dell’amministrazione sanitaria e, in buona distanza, del Tesoro. Dovrebbero costruirle le Regioni ma necessitano di finanziamenti”. Alcuni dicono che in Italia si arresta troppo. Lei è stato magistrato dirigente. Cosa pensa? “Che anche sulla custodia cautelare in carcere andrebbe fatta una riflessione”. In definitiva? “Bisognerebbe essere pronti a riflettere su un’amnistia. C’è un sovraffollamento impressionante. Quando divenni capo del Dap erano ospitati 61 mila detenuti e con il Covid arrivammo a 52 mila. Adesso l’emergenza è riesplosa”. “Quei ragazzini in carcere sono figli di questa nostra società” di Simona Musco Il Dubbio, 6 luglio 2024 “Siamo abituati a confondere la colpa con la responsabilità. Il carcere è lo specchio della società: se produce disagio, il disagio si manifesta. Ma per far sì che il carcere serva a qualcosa dobbiamo riempire i vuoti con valori e parole. I ragazzi chiedono di essere visti”. A dirlo è Girolamo Monaco, direttore dell’Istituto per minorenni di Treviso. Direttore, qual è la situazione della giustizia minorile? Credo che il carcere sia lo specchio della società. È tanto vero il rapporto che c’è tra carcere e società che la nostra Costituzione, come diceva Calamandrei, è stata scritta in carcere. I reati sono figli delle culture, che non sono più quelle di 30 anni fa, di questi rapporti modificati. Sono aumentati le rapine con aggressione, le risse, i tentati omicidi. In carcere arrivano minori che sono figli di questa società in difficoltà a gestirsi. Ma se i modelli esterni sono quelli che sono, cosa devono assorbire questi giovani? Così tutti gli istituti d’Italia sono sovraffollati. Qui a Treviso siamo al doppio della nostra possibilità, ma tutte le strutture sono al limite. Ma questo sovraffollamento è aumentato negli ultimi tempi, a seguito del dl Caivano? È aumentato sicuramente negli ultimi nove mesi. E secondo me c’entra anche un effetto di ritorno dovuto al Covid: c’è stata una slatentizzazione di pulsioni, di pressioni. Il decreto Caivano, dal canto suo, ha reso “carcerizzabili” reati che prima non prevedevano la custodia, come l’oltraggio pubblico ufficiale o il furto semplice. Quindi il sovraffollamento non ha a che fare con i minori non accompagnati? Qui a Treviso rappresentano una presenza veramente minima. La maggior parte dei ragazzi sono del territorio, con il cognome tronco, dico io. Sono figli del disagio di queste famiglie, delle nostre famiglie. Ci sono ragazzi, cittadini italiani, che non hanno la licenza media. E quando stavo a Caltanissetta c’erano minori italiani, non stranieri, che non sapevano né leggere né scrivere, che firmavano in stampatello. Come si può intercettare e curare questo disagio? Bisognerebbe farlo partendo dalla scuola. Ma è tutto il mondo degli adulti che si deve interrogare. Viviamo in una società che non ha limite, troppo fluida. Ognuno si sente onnipotente. E il carcere cosa può fare? Può tentare di riempire i vuoti che quel reato evidenzia. I vuoti dovuti alla cattiva gestione dell’aggressività, i vuoti culturali di apprendimento e i vuoti di relazione. Non deve insegnare soltanto un mestiere, perché in questo modo non si evita la recidiva. Il carcere deve cercare di riparare le ferite. E serve solo a una cosa: a fare toccare il fondo. Da quel fondo bisogna risalire. Ma gli istituti italiani riescono a farlo? Io posso parlare del mio carcere. Il carcere che voglio io è un carcere pieno, non vuoto. Il tempo della carcerazione non è il tempo della privazione della libertà, ma è un tempo da riempire con significati. Comprendendo cosa fare per riparare il danno fatto, che è un danno contro la vittima e contro la società. Cosa ci ha insegnato Caivano? Che gli spazi vuoti vengono riempiti di violenza. Gli spazi pieni vengono riempiti di significato, di valori. Lo so, detto così sembra un’utopia. Ma è il senso del nostro lavoro. Però il carcere serve. Serve dire basta. Se abbiamo il coraggio di presentarci noi adulti come modelli positivi, forse qualche cosa si può fare. Ma devo dare atto dell’impegno del capo del dipartimento della giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano, per dare ordine morale organizzativo al sistema penale per i minorenni: anche lui, come me, è un don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento. Com’è la situazione a Treviso? In questo momento abbiamo cinque definitivi su 23 persone. Gli altri sono in custodia cautelare, anche per cose minime, reati che prevedono un massimo di tre mesi di custodia. C’è un turn over continuo. Abbiamo un centro di prima accoglienza che è passato da un ingresso ogni 15 giorni a due arresti a settimana. Abbiamo una situazione di sovraffollamento che non sta creando difficoltà proprio grazie alle nostre capacità relazionali: pur avendo pochi agenti non faccio saltare mai le attività ai ragazzi. E questo permette di prevenire molte situazioni di tensione. Ma la mia paura vera è che possa esserci un’emergenza sanitaria. Ha mai visto nella sua carriera così tanti giovanissimi in carcere? No. È sicuramente un tratto nuovo di questi tempi. Non ho mai visto, come in questo periodo così tanti quindicenni. Anche ragazzi di appena 14 anni. E c’è anche l’ipotesi di abbassare l’età punibile… Non risolverebbe niente. Il problema non è l’età. Noi abbiamo confuso la colpa e la responsabilità. Se mio figlio di dieci anni rompe qualcosa, la colpa è di mio figlio, ma la responsabilità è mia, è collettiva. Se noi vogliamo trovare le colpe le troveremo e possiamo abbassare l’età anche a 10 anni, ma non avremo colpito le responsabilità. Che effetto può avere, su ragazzi così giovani, il sovraffollamento? Nelle carceri per adulti, purtroppo, sappiamo come vanno le cose.... I ragazzi si tagliano, si fanno tatuare. L’unica cosa di cui abbiano il controllo è il loro corpo. E allora lo si devasta, per dare voce al proprio disagio. È un grido d’aiuto: sono ragazzi abituati ad essere visti solo se c’è un’emergenza. Ragazzi che non hanno una modalità di comunicazione. Non si sentono ascoltati, non si sentono riconosciuti. Per cui se non mi ascolti, mi taglio, così mi ascolti. Noi cerchiamo subito di intervenire con psicologi ed educatori: ogni ragazzo è preso in carico da un educatore che incontra quotidianamente. Come si fa a “vederli” e ascoltarli, questi ragazzi? La prima cosa è parlare. Il carcere è il luogo del silenzio e invece questo silenzio deve essere riempito di parole. Noi facciamo molti corsi di scrittura autobiografica, di canzoni. Un disagio parlato è già mezzo affrontato. Bisogna avere personale che voglia e sappia parlare. C’è questo personale, in termini di numeri e preparazione? Siamo sotto organico. Sicuramente come polizia penitenziaria siamo al limite delle presenze. L’ 8 luglio prenderanno servizio 11 nuovi agenti, non so se sono formati, ma li formeremo noi. La vera formazione è quella in itinere. Arrivano giovani di 23- 24 anni, allievi, ragazzi insieme ai ragazzi e vanno formati. Ma ho una buona squadra di educatori, che hanno esperienze anche pregresse, dentro le comunità: lì dentro il lavoro è difficilissimo, anche più che in carcere. Com’è possibile arrivare a situazioni come quelle registrate al Beccaria? Noi abbiamo il dovere di guardare sia ai nostri utenti sia agli operatori. Perché cose come le violenze del Beccaria sono possibili perché nessuno ha detto al collega “fermati”. Io ogni mattina convoco una conferenza di servizio e il comandante informa i colleghi delle situazioni fragili. Le persone vanno conosciute e vale anche per i poliziotti: sono uomini, figli anche loro della società. Come deve essere guardato un detenuto, deve essere guardato anche un collega. Ci sono storie che le sono rimaste particolarmente nel cuore? C’è un ragazzo che, in questo momento, si trova in affidamento in prova presso una comunità e ha avviato un percorso bello: presta servizio di aiuto e pulizia alla Caritas Diocesana di Treviso e serve il cibo ai senza tetto. Ci sono ragazzi sono andati all’università. Ragazzi che mi scrivono e mi fanno vedere la fotografia dei figli. E purtroppo ci sono anche tanti ragazzi che sono morti, uccisi. Noi non siamo i padroni della libertà. La libertà è individuale. Noi, però, abbiamo il dovere di accompagnare questi ragazzi per un pezzo di strada. Al massimo delle nostre capacità. Gaia Tortora: “Carceri inumane. Sono polveriere pronte a esplodere” di David Allegranti La Nazione, 6 luglio 2024 “L’Europa ci bastona da anni ma non cambia niente. Neanche per chi ci lavora. Non bastano i decreti svuota carceri. Sollicciano andrebbe abbattuto e ricostruito”. Un altro grido inascoltato. Un ragazzo di 20 anni detenuto nel carcere di Sollicciano si uccide, a febbraio aveva denunciato l’inferno in cui era costretto a vivere. Celle ricoperte di muffa, topi, cimici, scarafaggi. Un crescendo di orrore che porta i più fragili a considerare il suicidio unica via di fuga. Un posto che non è ancora la morte ma non è più la vita. Gaia Tortora - giornalista, vicedirettrice del TgLa7, figlia di Enzo - in quell’inferno è entrata un anno fa e ha scritto per questo giornale un reportage che terminava così: “Ecco, a Sollicciano non esiste più neanche la speranza. Sollicciano è la nostra indifferenza, la nostra impotenza, la nostra sconfitta. La nostra vergogna”. Ma non c’è solo Firenze. Stiamo vivendo la più grave emergenza carceraria italiana di tutti i tempi. Signora Tortora, quante Sollicciano ci sono in Italia? “Venti giorni fa sono stata nel carcere minorile di Casal Del Marmo e un ragazzo mi ha detto: sono entrato nella scuola del crimine, in queste condizioni posso solo diventare più cattivo oppure ammazzarmi. Parliamo di un sovraffollamento del 120%, di giovani che dormono sui materassi buttati a terra. Come nelle prigioni per adulti. L’Europa ci bastona da anni e non cambia niente. Il 2022 è stato l’anno dei record con 85 suicidi accertati. Il 2023 e il 2024 continuano a registrare numeri impressionanti. Quando ho messo piede a Sollicciano ho pensato: è anche peggio di Poggio Reale. Ma non voglio fare una classifica. Siamo di fronte a un problema enorme e generalizzato che non scuote più nessuno. Gli scarafaggi, gli escrementi sul pavimento, il caldo asfissiante, il disabile in carrozzella, il malato di mente chiuso là dentro perché non si sa dove mandarlo. Tutte cose che sembrano non riguardare chi sta fuori”. E lei che si è sforzata di coltivare la speranza adesso l’ha persa... “È un senso di impotenza di fronte al totale disinteresse per le condizioni primarie di vita. Chi ha sbagliato non è condannato a espiare diventando pietra. Gli animali nelle stalle se la passano meglio, al fresco e ben nutriti. Vale per i detenuti e per chi in quelle condizioni è costretto a lavorare. Le nostre carceri sono un’immensa discarica umana. Una polveriera pronta a esplodere. Non lo dico da oggi e il punto di rottura si avvicina”. Scriveva Victor Hugo nei Miserabili: “Prima della galera, ero un povero contadino, pochissimo intelligente, una specie d’idiota; e la galera m’ha cambiato. Ero stupido e sono diventato malvagio; ero un ceppo e sono diventato tizzone.” Non ci siamo mossi... “Appunto. Adriano Sofri parlava della regina del regno carcerario, la domandina. Uno grida “voglio morire”, l’altro risponde “fai la domandina”. Ma non basta nemmeno quella, un detenuto in quelle condizioni non vede la luce, né nell’800 né oggi. E non bastano nemmeno i decreti svuota carceri”. E che cosa allora? “Un cambiamento culturale, i cui affetti però si farebbero vedere fra mezzo secolo. Il problema è adesso. Questa catena non si spezza pontificando una nuova edilizia carceraria perché non c’è tempo. Va bene il giardino, l’area di ricreazione. Ma dove dormono, come sono i bagni, quale il grado di pulizia? Puntualmente d’estate il caldo fa esplodere anche la tolleranza. Mi aspetto un aggiornamento continuo del bollettino di chi dice basta. Mi fai mangiare per terra e mi tratti da bestia, ma sappi che le bestie prima o poi si rivoltano, a costo di farsi male”. Lanci un’idea... “L’unica soluzione per Sollicciano è svuotare il serpentone con le sbarre, abbatterlo, ricostruirlo e intanto trasferire i detenuti da un’altra parte. Se non si sa dove metterli almeno si stia zitti, ricordo quando Nordio proponeva le caserme e gli hanno detto che non si può fare. E poi, subito, fuori quelli che possono scontare la pena con misure alternative. Fuori anche i malati psichiatrici, anche se poi non ci sono le comunità per accoglierli”. Tutto un circuito che non funziona. E il senso di impotenza aumenta... “Poteva essere evitato, si è perso tempo. Ora bisogna trovare un modo per incatenarsi al tema e non mollarlo. Ci siamo giustamente indignati per Zaki nelle carceri egiziane. E per le condizioni di Ilaria Salis in Ungheria. Ma io dico: andate a Sollicciano e candidate uno che sta lì dentro ed è al limite anche senza guinzaglio e cavigliera. Sono felicissima per chi è uscito, ma le nostre prigioni sono piene di Zaki e di Salis e davanti ai cancelli non vedo politici che si strappano i capelli per loro”. Ilaria Cucchi: “Sollicciano luogo inumano, in prigione diventa criminale anche chi non lo era” di Mario Neri Il Tirreno, 6 luglio 2024 La senatrice: il decreto Nordio è inutile, dannoso e senza coperture. “Siamo di fronte ad una strage che si vuole ignorare. I numeri sono terribili e raccontano la realtà delle nostre carceri. A Sollicciano si è tolto la vita un ragazzo di soli 20 anni, a Livorno un uomo di 35, il 53esimo dall’inizio dell’anno. Rischiamo di superare tutti i record”. Ilaria Cucchi c’è stata ad aprile nella prigione fiorentina. Visita a sorpresa, come consentito ai parlamentari. “Un carcere inumano”, lo definì la senatrice di Sinistra Italiana e sorella di Stefano, il ragazzo morto ammazzato da detenuto dopo un pestaggio in una stazione dei carabinieri a Roma. Cucchi, cosa ricorda di Sollicciano? “Fuori pioveva. Sono entrata con l’ombrello e basti dire che dovevo riaprirlo perché pioveva anche dentro, quindi in molti settori erano inagibile, acuendo così l’emergenza sovraffollamento in un penitenziario a cui mancano agenti”. Che pensa del decreto Nordio? “Partiamo dal presupposto che oggi il ministro si accorge che le nostre carceri hanno un problema, solo che è ministro da quasi due anni. E di fronte al problema sovraffollamento il nostro governo pensa di risolverlo continuando ad introdurre nuovi reati. Peccato che il sovraffollamento è dovuto anche a loro, al governo e alla maggioranza”. Il decreto però punta a svuotarle le prigioni... “E continuando a parlare alla pancia della gente, fanno tutto fuorché il cosiddetto svuota carceri. Siamo partiti dal decreto rave per arrivare a Cutro, passando per Caivano e ora si arriva al nuovo reato per le occupazioni di case. In realtà è un decreto inutile se non dannoso. Tra i punti previsti le comunità per coloro che non possono permettersi i domiciliari. In realtà le comunità esistono già, solo che in Italia si fanno le leggi senza metterci i soldi. Peraltro non si chiama nemmeno più svuota carceri, ma carceri sicure”. E cambia qualcosa? “Bisogna capire qual è il concetto di sicurezza. Significativo che il segretario nazionale del Sappe, Donato Capece, abbia ringraziato il ministro per l’introduzione del Taser per la polizia penitenziaria. Ma quale Taser, agli agenti serve formazione. Ma rientra tutto nella prassi di questa maggioranza, abituata alla repressione. Della vita di un detenuto non importa a nessuno, invece dovrebbe importare a tutti i cittadini se all’interno di un penitenziario si segue o meno un percorso che consente a chi sconta una pena di tornare nella società”. Sono previste anche nuove assunzioni... “Benissimo le nuove assunzioni, perché a fronte di questo sovraffollamento, che ormai è a livelli mai visti, c’è un enorme problema di sottodimensionamento del personale, agenti frustrati perché non riescono a svolgere il loro lavoro”. Un agente frustrato è anche un agente più violento? “È un rischio concreto. Incontro spesso agenti sotto stress. E d’altra parte, come non esserlo? Dico sempre che il carcere ha due vittime: da un lato i detenuti, coloro che sono costretti a viverci per scontare la loro pena, dall’altro chi vi è costretto ad entrarci tutti i giorni per lavorare, ma non è messo nelle condizioni di poterlo fare in maniera seria ed efficace”. Gli psicologi in Toscana lanciano l’allarme sulla mancanza di specialisti... “Mi viene in mente un nome tra tutti che ho incontrato proprio nel carcere di Sollicciano: Federico Brunetti. C’è entrato per piccolissimi reati, in realtà non avrebbe dovuto nemmeno entrarci. Era affetto da gravissimo disturbo psichiatrico e in carcere è diventato assassino perché ha ucciso il suo compagno di cella. Questo è il fallimento totale dello Stato, queste sono le nostre carceri oggi”. La pena non è fine a se stessa di Roberto Monteforte L’Osservatore Romano, 6 luglio 2024 Il carcere è sofferenza e privazione della libertà. Ma la pena non è fine a se stessa, è finalizzata al reinserimento nella società. Per questo il tempo della detenzione non deve essere “un tempo vuoto”, ma riempito dalle attività trattamentali, quindi lo studio, la formazione, lo sport e il lavoro. Sono questi gli strumenti per strappare alla rassegnazione o alla vecchia vita la persona “ristretta”. Sono tante le misure annunciate che però si misurano con gli effetti del sovraffollamento e con l’insufficiente numero di educatori, personale penitenziario e psicologi. Eppure le attività non mancano, grazie alla sensibilità di direzioni ed educatori e soprattutto ai volontari e ai loro progetti culturali e di formazione: laboratori teatrali, di lettura e di scrittura creativa, corsi abilitanti al lavoro che danno un senso e un futuro alla popolazione reclusa. Almeno ai pochi che le seguono, perché di una minoranza si tratta, visto che spesso restano fuori quelli che già erano ai margini della società: stranieri, dipendenti da sostanze, portatori di disagio psichico. Se con pazienza si costruiscono attenzione e ascolto verso il “mondo ristretto” valorizzando le competenze presenti, possono emergere realtà di eccellenza e veri talenti. Chi non conosce il panettone Giotto, prodotto di alta pasticceria realizzato dal laboratorio del carcere Due Palazzi di Padova? Ma sono tanti i prodotti di eccellenza “galeotti”, realizzati nei diversi penitenziari italiani. Come pure le “produzioni” artigianali frutto dell’impegno di imprese, fondazioni e realtà di volontariato laico e cattolico, come la “Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti” che con il suo presidente Arnoldo Mosca Mondadori è nel comitato promotore del Padiglione della Santa Sede. Così è stato possibile assicurare professionalità, lavoro e futuro. In varie carceri si tengono attività teatrali e laboratori di lettura e scrittura creativa che favoriscono percorsi di consapevolezza e maturazione personale che hanno fatto scoprire veri talenti, come l’ex ergastolano Cosimo Rega, recentemente scomparso. Da camorrista è diventato attore, scrittore e regista, tra i protagonisti del film Cesare deve morire dei fratelli Taviani premiato con l’Orso d’Oro al festival di Berlino, si è dedicato al recupero della devianza giovanile. Vi sono vere tradizioni teatrali come quella della “Compagnia della Fortezza” del carcere di Volterra o esperienze più recenti, come quella della Casa di Reclusione di Rebibbia dove con lo Stap Brancaccio i detenuti hanno portato in scena Nella pancia del pescecane, liberamente tratto dal Pinocchio di Collodi. I laboratori di lettura e scrittura creativa presenti in tante carceri sono occasioni per colmare il vuoto del “tempo ristretto” e rompere la barriera tra il dentro e il fuori le sbarre. È questo l’impegno della rivista Ristretti Orizzonti del carcere di Padova da cui è nato anche il podcast e libro Io ero il Milanese. Storie di errori e rinascite, che ha fatto conoscere al grande pubblico cosa sia la realtà carceraria. Il sogno di un carcere “vuoto” di Guglielmo Gallone L’Osservatore Romano, 6 luglio 2024 “Il carcere che vorrei non esiste. Perché, per come la vedo io, il carcere andrebbe abolito”. A lanciare questa provocazione è una persona che il sistema detentivo italiano lo conosce bene: Luca Pagano è entrato nell’Amministrazione penitenziaria nel 1979, è stato direttore presso diversi Istituti (da Pianosa a Taranto, passando per Alghero, Asinara, Nuoro, Piacenza, Brescia, infine Milano San Vittore) e dal 2004 ha ricoperto vari incarichi dirigenziali. “Lo so, è un sogno irrealizzabile - prosegue Pagano parlando al nostro giornale - questa società ha poca fantasia. Tuttavia, ci possiamo avvicinare il più possibile a certi ideali”. Come? “Beh, i passi in avanti fatti dalla legislatura internazionale e italiana in questo senso sono tantissimi: le misure alternative dell’ordinamento penitenziario, la riforma del codice di procedura penale, la riforma Cartabia, la sentenza Torreggiani della Corte Europea o le sentenze della Corte costituzionale per l’ergastolo ostativo”. Eppure, manca qualcosa. “E non si tratta mica di un vuoto burocratico. Il carcere lo abbiamo creato noi. E i parametri legislativi da noi stabiliti non sono neanche tanto male. Piuttosto, il problema è che in Italia non sappiamo amministrare quasi niente. Le strutture detentive non sono da meno. Temi come il sovraffollamento o i suicidi dei detenuti dovrebbero essere un campanello d’allarme, invece pochissimi ne parlano”. Insomma, “si avverte la mancanza di amministratori capaci - osserva Pagano -. Nessuno riesce a interpretare la norma. Pochi capiscono che il carcere deve svilupparsi non in maniera verticale, bensì orizzontale: occorre creare spazi, gestire, avere idee, progettare nel lungo periodo, dare stabilità e ampiezza, respiro. La legge riconosce che in carcere esistono diritti: la doccia, l’aria, la telefonata, la posta, il lavoro come parte del trattamento… occorre semplicemente applicare questi concetti giuridici a valori morali”. Il giurista Francesco Carnelutti notava proprio come “il diritto deve castigare non come il carnefice”, ma “come il padre che tocca, nel procurare dolore al figliolo, il culmine dell’amore”. Solo così il penale potrà “rivelare tutta la sua spiritualità” perché “il diritto è un surrogato della libertà”. E il segreto di questo mestiere, in fondo, è tutto qui: nell’essere sbirro e riformatore, nel saper incrociare l’empatia del cuore con la rigidità della norma. “Si rischia di diventare schizofrenici e talvolta ipocriti - ammette sorridendo Pagano - ma alla fine si arriva ad essere concreti. Non sono un intellettuale, non devo portare avanti correnti di pensiero, ho fatto per una vita il burocrate, ma l’ho fatto con consapevolezza. È normale che, se rinchiudo per 20 ore su 24 una persona in una cella all’interno di un carcere sovraffollato, gli faccio del male e dovrò riempirlo di ansiolitici. È normale che, se ignoro la precondizione di non colpevolezza e tratto un presunto imputato come un colpevole, lasciandolo in isolamento, la società avrà paura della giustizia. Che dire poi del paradosso del sovraffollamento? Almeno un terzo dei detenuti in Italia potrebbe ricevere misure alternative, ma non può usufruirne a causa di condizioni sociali soggettive svantaggiose. Se non ho un alloggio, se sono un migrante irregolare, se sono un ex tossicodipendente non so dove andare. Ecco come il carcere diventa un circolo vizioso troppo spesso alimentato dalla povertà. A scanso di equivoci, occorre ribadirlo a gran voce: la legge non prevede niente di tutto ciò”. Anzi, se il dibattito sociale è tanto sterile lo si deve proprio a queste mancanze politiche e non solo giuridiche: troppo spesso parlare di valorizzazione spirituale del recluso significa “andare a favore della criminalità. Chi sta in prigione deve, secondo la visione comune, avere di meno rispetto a chi vive fuori. Ragionamenti diversi da questo non portano voti. Peraltro, si tende a confondere il reinserimento sociale con l’inserimento sociale. In carcere ci sono tantissimi delinquenti, poveri, malati di mente, chi ha problemi psichici, tossicodipendenti, ci sono gli scartati, coloro a cui la società non ha mai voluto dare alcuna opportunità. Di quale reinserimento sociale parliamo?”. Vengono dal nulla e, dopo la detenzione, rischiano di tornare nel nulla. “Ecco perché abolire il carcere non è solo uno slogan, ma un progetto sociale”, conclude Pagano. Oppure, lo si dovrebbe trasformare in quella struttura tanto ambita dal personaggio interpretato da Peppino De Filippo nel mitico film “Accadde al penitenziario”, che faceva di tutto pur di andare in galera perché “io mi ci trovo tanto bene, è un mio diritto”. Condizione ben diversa da quella - ahinoi più realistica - provata da Alberto Sordi nella pellicola “Detenuto in attesa di giudizio”. Cinema a parte, la domanda centrale diventa una: esistono alternative? “Abbiamo provato a crearle - riflette Pagano -: nel 2006 a Milano abbiamo ideato il primo Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute (icam). Il progetto è nato con l’ambizione di portare via da San Vittore le donne con figli. Un bambino ha il diritto di essere bambino ovunque, soprattutto nei primi tre anni della crescita. Anziché creare dei piccoli centri per ogni regione, che avrebbero aumentato il rischio di isolamento per le donne incinte, abbiamo quindi creato una grande comunità”. Ma ben presto sono arrivati i problemi: “La legge ha ribaltato il processo dal quale eravamo partiti. Per le donne incinte oggi è vietato l’arresto, salvo una serie di eccezioni. In caso contrario, la donna col bambino viene però portata in carcere e poi sarà il magistrato a decidere se trasferirla all’ icam oppure no. Tutto ciò rallenta i processi, li rende più difficili. Molte carceri hanno creato dei nidi al loro interno, ma tenere un bambino in prigione è tutt’altra cosa”. Ecco perché la Santa Sede ha deciso di aprire il suo padiglione alla Biennale di Venezia 2024 nel penitenziario femminile della Giudecca e Papa Francesco aprirà una Porta Santa in carcere: per portare avanti un’idea e una battaglia, per assumersi il rischio di un futuro migliore non solo per un singolo individuo, ma per un ideale a cui non rinunciare mai. Quello della giustizia. Toscana. Carceri horror tra insetti, “celle bara” e zero acqua di Mario Neri Il Tirreno, 6 luglio 2024 Cinque persone stipate in15 metri: “Come si vive nell’inferno dietro le sbarre, dove ogni speranza rischia di cancellarsi dalla mente”. Dietro le sbarre, in Toscana, c’è tutto quello che un carcere non dovrebbe essere. Si vive, si dorme, si mangia, ci si riposa, ci si allena, ci si dispera, si piange, si compiono i più elementari bisogni fisiologici in soli tre metri quadrati. “E per di più lordi - avverte Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti regionale. Sì perché ogni cella misura 15 metri quadrati ed è destinata a 5 detenuti, dunque nei tre metri va calcolato anche lo spazio comune riservato ad armadietti o altri oggetti”. Un letto a castello su un lato, uno sull’altro, uno singolo nel mezzo e un minuscolo bagno spesso destinato a diventare una latrina puzzolente. Le celle di Thanatos - Anche solo questo basta a trasformare la prigione in “un grande e infernale tempio di Thanatos”. Basta a spiegare i due morti per suicidio avvenuti dietro le sbarre a Firenze e Livorno o il numero - incredibile per un paese civile - di volte in cui qualcuno ha provato a farsi del male nell’ultimo anno. A stare alla relazione stilata dal Garante su ciò che è avvenuto nelle 16 carceri toscane nel 2023, sono state 5 le persone che si sono tolte la vita, 153 i tentati suicidi, 608 i casi di autolesionismo, 359 gli scioperi di fame e/o sete. Rivolte e decreti - Per questo, di fronte a due dei tre morti suicidi registrati nelle carceri italiane in soli due giorni (l’ultimo un 35enne che era detenuto alle Sughere e deceduto nella mattina di venerdì 5 luglio all’ospedale di Livorno, gli altri due a Sollicciano e Pavia), le rivolte dei detenuti e un decreto arrivato molto dopo da data annunciata, Fanfani lancia l’allarme: “Non si può più aspettare. Questo sistema è generatore di disperazione e morte. In Italia dall’inizio del 2024 52 morti tra i detenuti e 5 tra gli agenti. Come si fa a far prevalere considerazioni politiche, peraltro tradotte in proposte di nessuna utilità come il decreto Nordio, su un dramma umano di così grandi dimensioni”. Non solo sovraffollamento - A guardare i dati, il sovraffollamento non sarebbe neppure più la patologia del sistema penitenziario. A dicembre 2023 erano 3.094 le presenze su una capienza totale di 3.163 posti. In realtà, a causa di ristrutturazioni programmate da anni e mai realizzate o sezioni chiuse per inagibilità, i posti reali erano 3.072. Le prigioni inferno - “Le strutture mostruose per le condizioni in cui versano sono innanzitutto Sollicciano, San Gimignano e Livorno”, dice Fanfani. Del carcere fiorentino non si salva nulla. Chi sconta lì la sua pena lo fa sopportando di tutto: un mostro di cemento che diventa una ghiacciaia in inverno, un forno in estate, poi cimici, sporcizia, muffe e “nessuna vera possibilità di riabilitazione. L’articolo 27 della Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, resta lettera morta”. L’Europa ci striglia - Sollicciano è perfino un emblema di ciò ha appena stigmatizzato il Consiglio d’Europa nell’ultimo rapporto sul sistema carcerario dei paesi europei, decretando quello italiano tra i peggiori del continente. Peggiore perfino di quello dell’Ungheria di Orban. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è del 130% con 61.480 persone, a fronte di 47 mila posti disponibili. In Ungheria il tasso è del 111,5%. Il Consiglio d’Europa sottolinea poi che il 27,6% dei detenuti, quasi uno su tre, si trova in carcere pur essendo in attesa di giudizio (in Ungheria è il 24,5%). Proprio come il detenuto morto a Livorno. Era finito alle Sughere un mese fa in custodia cautelare per maltrattamenti in famiglia. “Sono sicuro che se avesse avuto a disposizione un luogo dove trascorrere i domiciliari con il braccialetto elettronico - dice il garante livornese dei detenuti, Marco Solimano - non ci saremmo trovati di fronte a un dramma di questa portata. Probabilmente questa persona, davanti alla sua vita, ha visto una saracinesca, decidendo per il gesto estremo”. Il paradosso dei costi - La carcerazione preventiva innesca perfino un paradosso. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, le misure alternative per un detenuto costano allo Stato 50 euro al giorno, la detenzione 150. Un detenuto che ha fruito di misure alternative ha un tasso di recidiva 3 volte inferiore a chi ha scontato per intero la pena dentro. Se mandassimo in misura alternativa 12 mila persone risparmieremmo 438 milioni di euro l’anno, che si potrebbero utilizzare per la prevenzione. Le peggiori - “In penitenziari come le Sughere, San Gimignano o Sollicciano si sopravvive, non si vive - continua Fanfani - Sono luoghi tanatogeni, forieri di morte, o quando va bene criminogeni, perché chi ne esce è peggio di prima. A Sollicciano non c’è nulla che alimenti la speranza. Manca l’acqua, c’è un caldo terribile, un sovraffollamento inaccettabile, insetti di ogni tipo, ma soprattutto mancano fabbriche interne, laboratori o servizi che insegnino un lavoro collegato con le aziende esterne e che diano la speranza per il futuro. Andrebbe immediatamente chiuso, demolito e ricostruito. In queste condizioni il sistema detentivo porta alla disperazione e poi alla morte come scelta inevitabile per i più fragili. Il Ministro lo deve chiudere o avrà sulla coscienza altri morti”. Psicologi dentro - Il dato più clamoroso, e anche drammatico, del rapporto del Consiglio d’Europa riguarda i suicidi. Il rapporto ricorda che nel 2022 in Italia si sono suicidati 84 detenuti, 15 ogni 10 mila detenuti, contro i 3,5 in Ungheria. L’Ordine degli psicologi toscani lo sa bene: “Troppi pochi gli psicologi che lavorano in carcere”, dice la presidente Maria Antonietta Gulino. In media uno per ogni carcere. “Non possono bastare, poche sono le ore destinate e spesso gli interventi sono puramente sanitari, non di gruppo, serve un grande rinnovamento strutturale”. Firenze. Nella cella di Fedi a Sollicciano: cimici, topi e detenzione crudele di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 6 luglio 2024 Il ragazzo che si è ucciso chiedeva il ripristino delle condizioni minime di vivibilità. In cella senza acqua, con i topi e le cimici. Fedi, a 20 anni, aveva fatto pace con il proprio passato: dal rocambolesco viaggio nascosto in un camion che lo aveva portato dalla Tunisia in Italia, all’approdo nel centro per minori non accompagnati, fino a condurre una vita sprezzante delle regole fatta di piccoli furti e rapine. Aveva accettato di scontare tre condanne (due emesse dal tribunale per i minori e l’ultima del tribunale ordinario a 2 anni e 10 mesi) ben sapendo che avrebbe abbandonato Sollicciano nel 2025. Ma era insofferente alla vita nel carcere, fatta di degrado. La rabbia, le malattie e la decisione di farla finita - Due giorni fa, al termine del colloquio con uno dei difensori, aveva manifestato la propria disperazione tirando un calcio al muro. Era preoccupato per la salute di alcuni suoi compagni che si erano ammalati di scabbia. Il “piccolo”, come lo chiamavano i suoi colleghi più anziani, era legatissimo alla famiglia e, sempre due giorni fa, aveva un appuntamento in videochiamata con la madre, poi l’incontro era saltato per mancanza di linea telefonica. Era rientrato in cella e dopo qualche ora aveva deciso di farla finita. Forse l’ultimo gesto di rivolta. Il reclamo al Tribunale di Sorveglianza: “Azioni di crudeltà” - Qualche mese fa aveva protestato per le condizioni di vita degradanti. Fedi, assistito dal professore Emilio Santoro del centro di documentazione Altro Diritto aveva presentato un reclamo al Tribunale di Sorveglianza. Non voleva ritornare in libertà. Ma chiedeva ai giudici il “ripristino delle condizioni di salubrità”. Aveva scritto, un lungo cahier de doléances, sollecitando i giudici a “ordinare alla amministrazione penitenziaria di porre fine alla lesione e alla limitazione dei suoi diritti”. Non solo. In caso di accoglimento aveva chiesto ai giudici di trasmettere il reclamo in Procura per accertare se la detenzione in quelle condizioni configurasse il reato di tortura: “L’Amministrazione penitenziaria ha agito con crudeltà ponendo in essere un trattamento inumano e degradante per la dignità delle persone”. L’udienza si è svolta il 22 maggio, ma la decisione non è stata depositata. Aveva denunciato la presenza di ratti nella sezione e nella cella. Era riuscito a catturarne uno mostrandolo poi agli agenti e al personale medico nel novembre 2023. I topi nei corridoi e in cucina, le cimici nei materassi - “La situazione da novembre a ora non è affatto migliorata - si legge nel reclamo - i topi sono anche nei corridoi e in cucina. In cella ci sono anche le cimici che in passato lo hanno morso procurandogli lesioni. Si annidano nei materassi, nei tessuti, nelle crepe delle pareti e provocano lesioni, chiazze, prurito e gonfiore”. Fedi le ha viste camminare sul soffitto ed è capitato che si dovesse svegliare in piena notte per girare il materasso e igienizzarlo. “Le lenzuola non vengono cambiate e lavate con la frequenza necessaria a garantire un livello dignitoso di pulizia e igiene. Esse vengono fornite una volta al mese”. Il freddo, l’umidità, la muffa, niente acqua calda - Muffa e umidità disegnano mappe geografiche nelle celle. Formazioni causate dalle infiltrazioni di acqua, che aumentano in caso di pioggia. “I detenuti sono costretti a pulire la muffa con la candeggina, ma il problema si presenta in maniera talmente endemica che da soli non riescono a risolverlo in maniera strutturale”, scrive Fedi. “L’Amministrazione Penitenziaria fornisce ai detenuti i prodotti per la detersione dell’ambiente solo una volta al mese”. Per l’umidità e la mancanza di aerazione deve tenere la finestra del bagno aperta, anche in inverno, al freddo: “L’impianto di riscaldamento spesso non è funzionante - si legge nel reclamo - anche a causa del costante sovraffollamento”. Non c’è l’acqua calda. Fede è costretto a “lavarsi tutti i giorni con l’acqua gelata”. Inoltre le docce della sezione sono fatiscenti e soltanto due sono funzionanti. “La cucina è infestata da piccioni e topi che si nascondono sotto i mobili lasciando tracce di cibo rosicchiato”. E anche i passeggi per accedere all’aria aperta sono “sporchi e pieni di muffa e allagamenti”. Fedi aveva fatto un reclamo ma non è riuscito ad avere una risposta. Firenze. Sollicciano è un inferno. La sindaca Funaro: “Il carcere va rifatto completamente” di Matteo Lignelli La Repubblica, 6 luglio 2024 Il presidente della Camera penale invita il ministro Nordio e la presidente Meloni. “Se lo Stato non riesce a garantire la vita delle persone allora è responsabile della loro morte”. “Sollicciano è un inferno”. Su questo sono d’accordo tutti quelli che prendono la parola fuori dal carcere dove si è tolto la vita Fedi, detenuto di 20 anni di origini tunisine. Il 54esimo suicidio nelle carceri italiane del 2024, un gesto estremo che ha fatto da detonatore per la rivolta dei detenuti di Sollicciano, sedata questa mattina, 5 luglio. I reclusi hanno incendiato lenzuola e materassi gridando di essere trattati “come animali” e uno dei loro (poi ritrovato) era stato perso di vista dopo essere salito sul tetto. “Invito il ministro della giustizia Carlo Nordio e la premier Giorgia Meloni a passare un’intera giornata con me a Sollicciano” è l’appello di Luca Maggiora, presidente della Camera penale. “Se lo Stato non riesce a garantire la vita delle persone allora è responsabile della loro morte”. “Le condizioni strutturali di Sollicciano sono drammatiche” ribadisce la nuova sindaca di Firenze, Sara Funaro, che ha incontrato la direttrice della struttura. Insieme a lei Andrea Giorgio, Emiliano Fossi e il deputato Federico Gianassi. “Sollicciano deve essere rifatto completamente, ma nel frattempo servono interventi. I lavori iniziati sono fermi dal febbraio del 2023” aggiunge Funaro. “Sono stati inviati nuovi agenti, è vero, ma i numeri tra le uscite e le entrate restano comunque in deficit. Il governo deve intervenire”. A Firenze nasce un comitato civico - E a proposito del governo, “il provvedimento uscito nei giorni scorsi non risolve assolutamente il sovraffollamento: vuol dire che non si è capito qual è l’emergenza” denuncia il garante dei detenuti di Firenze, Eros Cruccolini. Nelle bozze del decreto si parla di “semplificazione e velocizzazione delle procedure per la libertà anticipata” e di misure per il reinserimento sociale. “Noi crediamo nel tema dell’indulto e dell’amnistia” dice Cruccolini. “L’indulto di due anni porterebbe fuori 15 mila persone dalle carceri, che sono il sovrannumero attuale; l’amnistia interviene per non fare entrare altri detenuti, stabilendo che per reati con al massimo due anni di pena non si entri in carcere. Facciamo un appello a tutti i parlamentari fiorentini per portare questa proposta al Parlamento”. Cruccolini annuncia poi la nascita “di un comitato civico a Firenze per l’emergenza Sollicciano: sarà in collegamento con tutti gli altri istituti carcerari affinché ci sia una forte integrazione tra chi si occupa di carceri, le associazioni che lavorano per le persone detenute e i cittadini”. La protesta di un gruppo di manifestanti - “Non si può vivere con carceri che portano al suicidio un ragazzo di 20 anni e alla protesta di più di 80 detenuti”. Quando arriva il turno di Andrea Quartini, deputato dei 5 Stelle, i politici presenti vengono sommersi dalle grida di un gruppo di manifestanti che protestano contro il degrado: “Riattaccate l’acqua e spegnete il riscaldamento”. Attimi di tensione con la sindaca Funaro scortata via dal carcere. Un gruppo con alcuni parenti e amici dei detenuti, in cui le forze dell’ordine hanno riconosciuto anche ex occupanti di viale Corsica. “Siamo la Regione che già dal 1786 abolì la pena di morte, la tortura, l’esproprio dei beni ai carcerati. Lo Stato deve fare la sua parte” commenta il governatore Eugenio Giani. Sul suicidio di Fed interviene anche l’arcivescovo Gherardo Gambelli: “Non possiamo continuare ad accettare che tante persone disperate si tolgano la vita in carcere. Devono essere rispettati i diritti umani e la dignità delle persone, e non sia tolta la speranza della redenzione”. Firenze. La mamma del detenuto suicida: “L’avevo sentito al telefono, ora voglio la verità” di Matteo Lignelli La Repubblica, 6 luglio 2024 Un volontario dell’associazione Pantagruel: “Mi aveva confidato che non ce la faceva più”. Era arrivato in Italia a 11 anni. “Nonostante tutto Fedi era un ragazzo allegro, un amante della vita. Lo abbiamo sentito giovedì (il giorno del suicidio, ndr) ed era tranquillo. Vogliamo sapere la verità su quel che è successo ma non ci fanno parlare con nessuno del carcere”. La madre del detenuto di 20 anni di origine tunisina che giovedì si è impiccato nella sua cella di Sollicciano è sconvolta. Parla soltanto arabo e francese, così si è fatta aiutare da un parente che conosce l’italiano e che ieri, per tutta la mattina, ha provato a farsi passare qualcuno dentro il carcere. All’ambasciata e ai legali hanno invece chiesto aiuto per riconoscere il corpo e riaverlo in Tunisia. “L’ho conosciuto a 18 anni, era un ragazzo fragile anche se cercava di sembrare forte” dice Ivan Esposito, l’avvocato che lo seguiva e con cui si vedeva e parlava di frequente. “Non c’erano segnali che facessero pensare a un epilogo del genere. Era stato arrestato a Firenze il 4 luglio 2022 per una rapina (un telefono, ndr) dovuta alla condizione di tossicodipendenza. Due anni fa era in serie condizioni di difficoltà, ma all’interno del carcere ha poi seguito un percorso di disintossicazione, sostenuto anche dagli psicologi. Un percorso con alti e bassi, ma positivo”. A riprova di questo ci sarebbe il fatto che nella sua cella avevano portato un altro giovane detenuto, ben più in difficoltà, a cui avrebbe dovuto fare forza. Invece giovedì, una volta rimasto solo, ha ostruito la serratura e si è tolto la vita. Era il 4 luglio, la stessa data dell’arresto del 2022. “Una coincidenza che fa riflettere” ammette il suo legale. Aveva due fratelli. Tra poco più di un anno sarebbe uscito: aveva scontato la pena per la rapina e ora stava espiando piccoli reati commessi da minorenne. Racconti da inserire nel contesto di profondo degrado e disagio di Sollicciano. Fonti vicine alle indagini ricostruiscono infatti una situazione complessa, e di frequenti episodi in cui Fedi aveva manifestato segni di malessere, legati sia alle condizioni del carcere che a una profonda sofferenza maturata nel tempo. Lo conferma l’ultimo volontario ad averlo visto, Leonardo, dell’associazione Pantagruel: “Mi ha detto di non farcela più ad andare avanti”. In passato Fedi aveva chiesto il trasferimento, poi ha cambiato idea. Ad alcuni parlava della possibilità di andare in comunità. “Una promessa poco reale” secondo l’avvocato Esposito “perché non aveva il permesso di soggiorno”. Lo conosceva bene Fatima Ben Hijji, presidente dell’associazione Pantagruel che ieri a Sollicciano ha pregato per lui: “Ha sofferto moltissimo, adesso spero che la sofferenza sia finita. È arrivato in Italia a 11 anni dentro un camion di olio ed era già stato nel carcere minorile. A 18 anni e 5 mesi è entrato a Sollicciano e lì è morto”. Livorno. Suicida detenuto in attesa di giudizio. Il Garante: “Ennesima vergogna” di Francesco Ingardia La Nazione, 6 luglio 2024 A Livorno un 35enne con tre figli si era impiccato il 2 luglio e giovedì è morto. E il 22 giugno scorso un altro detenuto era evaso scavalcando un cancello. Il garante Solimano: “Qui la testimonianza e del degrado e della fatiscenza”. Un’evasione e una tentata impiccagione. Detenuti che evadono, detenuti che soccombono. Anche Livorno nella lista nera della “strage senza fine” dei suicidi in carcere. Gli eventi degli ultimi dieci giorni che hanno investito la casa circondariale Le Sughere hanno palesato una volta di più la situazione d’emergenza (nazionale) dietro le sbarre. I fatti, in ordine. Prima di una latitanza lampo terminata col blocco alla stazione Tiburtina a Roma, lo scorso 22 giugno un detenuto 36enne originario della provincia di Napoli è fuggito dal reparto di alta sicurezza dopo essere riuscito ad arrampicarsi sul muro dei passeggi e a scavalcare quello di cinta a lato del cantiere del nuovo reparto, in mancanza del presidio del servizio ‘sentinelle’. Nella notte tra l’1 e il 2 luglio, un altro detenuto di 35 anni in attesa di giudizio (siciliano, sposato con tre figli) ha tentato di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella. Per poi spirare in rianimazione 48 ore dopo in ospedale, divenendo così il 52esimo da inizio anno. Il giovedì nero è proseguito con la vittima numero 53, a Sollicciano, con il suicidio di un 20enne di origine nordafricana con poco più di un anno di pena da scontare - proprio come il caso di Livorno - nel giorno dei tumulti all’interno dell’istituto fiorentino. Marco Solimano, il garante dei detenuti, o meglio, dei diritti delle persone private della libertà personale per Livorno e l’isola di Gorgona, non usa mezzi termini e va dritto al punto. “Un suicidio ogni tre giorni e mezzo: una strage senza fine, un’ecatombe senza precedenti, una situazione drammatica e umanamente sconvolgente”. Come sconvolgente è la fotografia da lui scattata circa le condizioni dei detenuti a Le Sughere: “Livorno è testimonianza amplissima delle concause che risiedono nel degrado e nelle fatiscenze strutturali in cui riversano gli istituti penitenziari italiani. La struttura è al limite del sovraffollamento: 120 detenuti in alta sicurezza, 135 nei due reparti che ospitano quella media (le ex sezioni femminili e di transito), mancano a oggi circa 45 agenti. Se scattano 5-6 arresti in un giorno il carcere non è in grado di assorbirli”. Secondo Solimano, servono a ben poco le 19 unità aggiuntive recentemente assegnate a Livorno. Il motivo? “La caserma che ospita gli agenti di polizia penitenziaria è chiusa da 15 anni. Come fa un giovane agente ad accettare l’incarico a Livorno se poi deve accollarsi le spese di vitto e alloggio?”. Ma il danno, oltre la beffa, a Le Sughere è da rintracciare altrove. E al di là “della mensa chiusa, della muffa che emerge dalle pareti, docce in condizioni disastrose, celle in cui vivono anche sei persone, delle telecamere di sorveglianza non funzionanti, di spazi inesistenti per le attività trattamentali come teatro, scuola, l’accesso ai libri e il lavoro, fondamentale per la riabilitazione “, come segnalato dall’onorevole Pd Laura Boldrini dopo la visita alla struttura di giovedì. Ad avvilire Solimano è la mancata fine-lavori dei padiglioni del reparto di alta sicurezza e del blocco centrale della media, chiusi nel 2011 perché dichiarati inagibili. “Tre mesi fa - rivela Solimano - la ditta ha consegnato i reparti. I lavori sono finiti, ma questi padiglioni non aprono per questioni di natura burocratica e amministrativa che però non conosciamo. Livorno ha diritto di sapere. Gli agenti penitenziari, i detenuti hanno diritto di sapere. Perché non si effettua il collaudo? Con la riconsegna potrebbe finalmente cominciare una storia nuova per il carcere di Livorno, perché a giovare del trasferimento sarebbero quei detenuti di media sicurezza che di fatto uscirebbero dalla condizione di continua emergenza”. Il quadro cambia drasticamente, invece, se dalla terra ferma ci si sposta in Gorgona, “l’isola dei diritti”, l’unica isola carcere in tutta Europa. Il modello dei modelli che sarebbe opportuno replicare. “Non è possibile purtroppo - conclude Solimano -. Gorgona è una realtà straordinaria, ma unica nel suo genere, per condizioni ambientali, strutturali non trapiantabili sulla terraferma. Quei 90 detenuti incarnano appieno l’articolo 27 della Costituzione incentrato sul trattamento: sull’isola si lavora, beneficiando di spazi aperti, si cura il vigneto, si producono olio e miele, vengono garantiti ai carcerati assunzioni da parte di ditte e realtà sociali-commerciali che hanno interesse a sviluppare sull’isola progetti. Difendiamo Gorgona, ma la realtà carceraria nazionale è tutt’altra cosa. La detenzione va vissuta con dignità tale da consentire di poter superare le scelte moralmente sbagliate del passato al fine di essere reimmessi in società con una nuova dimensione. Fintanto che il carcere verrà inteso (anche dalla nostra classe politica) come un mero spazio contenitivo, faticheremo sempre a comprendere il gesto misterioso, personalissimo ed estremo come quello del suicidio dietro le sbarre, a cui i più fragili inevitabilmente sono più esposti per natura e contesto”. Reggio Emilia. “Torture in carcere”, un agente: “Pensavamo avesse delle lamette nascoste” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 6 luglio 2024 Sono proseguiti ieri gli interrogatori, davanti al giudice Silvia Guareschi, degli agenti accusati a vario titolo di tortura, lesioni, falso nelle relazioni, verso un detenuto tunisino 44enne, fatto datato 3 aprile 2023, e ora a processo con rito abbreviato. Un agente semplice di 27 anni, difeso dagli avvocati Carlo De Stavola e Pierfrancesco Rossi, insieme ad altri tre, è accusato di averlo “sollevato di peso, dopo averlo denudato degli indumenti, afferrandolo dalla parte della federa, per poi condurlo nella cella di isolamento”. Poi insieme ad altri due, gli si contesta di “averlo colpito, senza cappuccio, con calci e pugni, per poi lasciarlo nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora nonostante si fosse autolesionato”. Lui era addetto alla sezione ‘Spiraglio’, quella dell’isolamento. “Fui avvertito di un’urgenza, sentii urla, mi avvicinai e vidi gli agenti che lo stavano trattenendo col volto a terra coperto da un tessuto. Ebbi l’indicazione di aiutare un collega a togliergli i pantaloni perché c’era il sospetto che lui avesse lamette. Così lo portammo in isolamento, dove il detenuto oppose resistenza”. Avrebbe denudato il tunisino, ma lui ha giustificato così la sua condotta: “Quando si tolgono i pantaloni, si levano anche le mutande per controllare che non nasconda oggetti pericolosi. Se un detenuto è collaborativo, lo si fa spogliare spontaneamente. Ma lui era a terra e contenuto”. Ha negato di aver assistito a violenze fisiche: “C’erano alcuni colleghi e le telecamere: non mi sono posto il problema che ci fossero irregolarità. Ho avuto la percezione che fosse una situazione urgente e grave”. È stato sentito anche un poliziotto 51enne, difeso dall’avvocato Nicola Tria, a cui si contestano diverse azioni. Insieme a un altro, “pugni al volto mentre lo portavano isolamento”; averlo fatto cadere a terra con uno sgambetto; poi di aver colpito, con altri due, il detenuto quand’era a terra incappucciato con una federa, dandogli schiaffi, pugni e calci. Con quattro colleghi, avergli torto il braccio dietro la schiena ed essergli saliti con le scarpe sulle gambe. “Ognuno dei tre imputati sentiti - dichiara Tria - ha chiarito la propria posizione rispetto a un’operazione che fu loro ordinato di eseguire, cioè accompagnare il detenuto in isolamento: si trattava di una sanzione disciplinare disposta dal direttore del carcere. Il suo comportamento aggressivo richiese un contenimento energetico e l’uso della forza”. Parola anche a un altro agente 50enne, assistito dall’avvocato Alessandro Conti, che avrebbe partecipato alla fase in cui fu preso il braccio al detenuto e gli salirono sulle gambe. “Ha chiarito in modo fermo e corretto la sua posizione rispetto a un intervento d’urgenza - afferma Conti -. La sua versione contrasta con quella della parte civile, ma è logica e coerente”. Sassari. Tubercolosi nel carcere di Bancali, la Asl di Sassari rassicura: “Nessun rischio” di Davide Pinna La Nuova Sardegna, 6 luglio 2024 Le radiografie non hanno mostrato “casi attivi”, dopo l’allarme lanciato nei giorni scorsi per un focolaio. È possibile tirare un sospiro di sollievo, al termine delle procedure di screening: a Bancali non esiste un pericolo di contagio di tubercolosi. Lo ha comunicato ieri con una nota la direzione sanitaria della Asl 1 al direttore della casa circondariale, Francesco Cocco, in attesa dell’incontro previsto per oggi. La buona notizia arriva dopo l’allarme lanciato a fine giugno dalla Camera Penale “Enzo Tortora” di Sassari. Il caso di tubercolosi registrato ad aprile su un detenuto trasferito a gennaio dalla penisola è rimasto isolato, anche grazie alle misure di prevenzione messe in atto, ma nell’ultima settimana il quadro poco chiaro ha alimentato i timori di chi vive all’interno del sistema carcerario, dai detenuti agli agenti penitenziari, passando per avvocati e personale amministrativo. Ultimo intervento quello della garante regionale dei detenuti Irene Testa, che aveva denunciato come la situazione poco chiara e preoccupante stesse rendendo ancora più difficile la situazione “in uno dei peggiori istituti penitenziari dell’isola, che versa già da tempo in condizioni di abbandono”. Nei giorni scorsi, erano intervenuti i sindacati della polizia penitenziaria e gli avvocati sassaresi, oltre che il garante comunale dei detenuti Gianfranco Favini. Ad alimentare le preoccupazioni, un documento interno alla Asl datato al 20 giugno e trapelato nei giorni successivi, che presentava una serie di dati inquietanti, relativi ad un alto numero di detenuti, agenti e dipendenti dell’amministrazione penitenziaria positivi ad alcuni esami. Fonti sanitarie spiegano, però, che si trattava di controlli, come il Quantiferon test, in grado soltanto di rilevare se il paziente sia mai entrato in contatto con il virus della tubercolosi, ma non se sia o no malato in quel preciso momento. Questi ultimi approfondimenti sono stati svolti con le radiografie toraciche e, ieri, al termine di questa lunga campagna di screening, è arrivato il verdetto, prontamente comunicato alla direzione della casa circondariale: “Non sono stati finora riscontrati casi di tubercolosi in fase attiva di contagio all’interno dell’istituto, tra tutto il personale sanitario, i pazienti reclusi, la polizia e il personale dell’amministrazione penitenziaria”. Il paziente zero era stato un detenuto arrivato a Bancali da una struttura della penisola a gennaio, accompagnato da un certificato che ne attestava le buone condizioni di salute. Dopo qualche tempo, però, l’uomo è stato colpito da febbre e gli esami hanno confermato che si trattasse di tubercolosi. Malattia che, secondo le fonti sanitarie, sarebbe stata contratta dal detenuto prima del trasferimento nel carcere di Sassari. Milano. Una Giornata per ricordare Giuseppe, condannato a una pena fino alla morte e morto per pena di Diana Zogno L’Unità, 6 luglio 2024 “Percorriamo il nostro viaggio in luoghi sacri, perché qui avvengono sacrifici, preghiere, pentimento, dolore e speranza”, sottolinea Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno tocchi Caino. Siamo all’interno del carcere di Milano-Opera, dove anche il tempo non sembra scorrere in modo lineare, né lo spazio può essere pensato come uno spazio definito. Le idee e i ricordi si mescolano mentre scorrono liberi nei lunghi corridoi labirintici, tra le celle, oltre le finestre e il passare dei decenni. Nello scorrimento caldo e silenzioso di fine giugno a Milano, Nessuno tocchi Caino svolge il proprio incontro mensile all’interno della sala del teatro “Marco Pannella” della Casa di Reclusione con la partecipazione dei detenuti coinvolti nel laboratorio, meno uno: Giuseppe Di Benedetto, recluso da 34 anni e morto la settimana prima a causa di una, ultima, caduta, dovuta alle gravi patologie di cui soffriva da tempo, tra cui il morbo di Parkinson all’ultimo stadio: condizioni giudicate non sufficienti dal magistrato di sorveglianza per una sospensione della pena, per andare a casa e cercare il conforto famigliare. Il ricordo di Giuseppe, in linea con il precedente appuntamento “Compresenza” tenuto a Opera a maggio per ricordare Mariateresa Di Lascia, Marco Pannella ed Enzo Tortora, è il fil rouge della prima parte del laboratorio: i detenuti, amici di Giuseppe, raccontano commossi la storia del suo percorso umano da detenuto, la forza, il suo atletismo. Giuseppe era silenzioso, per loro un amico fraterno, con cui ridere e da aiutare nelle attività quotidiane di cura della salute e di igiene oltreché di speranza personale - di cui Giuseppe non riusciva più a occuparsi da solo e per cui nessun supporto, al di fuori dell’affetto dei compagni detenuti e detenenti, era stato previsto. Così, tentato l’ultimo di tantissimi gradini scesi e saliti, Giuseppe è caduto e il silenzio si è rotto. Il ricordo più commosso che arriva sul palco è quello di Antonio Aparo, anche lui detenuto a Opera e fratello di una vittima di Giuseppe Di Benedetto. Giuseppe e Antonio, Antonio e Giuseppe, le cui vite si erano per anni incrociate come specchi riflessi in esperienze di faide, violenza e morte, avevano ritrovato nel carcere il proprio comune denominatore umano, il pensiero e poi la forza di trasformare negli anni l’odio, la vendetta, in conversione e comprensione dell’altro: una vita nuova. Con fatica rotta dal pianto Antonio dice poche parole: “mio fratello è morto per la seconda volta”. Il miracolo del perdono? No. Un’esperienza umana fatta di anni di odio, di espiazione, di dolore, comunione, conversione e accettazione, di cui detenuti e detenenti sono stati testimoni, anche se Giuseppe non c’è più, come se però ci fosse ancora, a raccontare che la sua pena umana per quel crimine orribile era già stata scontata. La sua morte annunciata, invece, poteva essere evitata. Sono presenti non solo Giuseppe: altre anime guardano mentre si discute di una giustizia giusta, della necessità di liberazione anticipata special e, della ragionevolezza del riconoscimento di innocenza della persona che ha già espiato l’ergastolo umanamente possibile, del principio di ordine e di armonia che deve essere ripristinato nel sistema di esecuzione delle pene perché “la Legge è fatta sì di ordine, ma anche di coscienza”, ricorda Sergio D’Elia, segretario dell’associazione. Marco Pannella, Mariateresa Di Lascia, Enzo Tortora “accompagnano” il dibattito, avendo dato la forma e quindi la sostanza a quel concetto di Giustizia Giusta e di Spes contra Spem per cui oggi Nessuno tocchi Caino è in prima linea nella richiesta di interventi legislativi contro il sovraffollamento e le condizioni inumane e degradanti in cui tutt’ora vivono detenenti e detenuti all’interno degli istituti penitenziari italiani, come, del resto, già riconosciuto nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Torreggiani. Nel frattempo, negli ultimi 6 anni, come rilevato da Antigone, oltre 24mila detenuti hanno ricevuto, con il risarcimento del danno arrecato, il riconoscimento certificato da parte del proprio magistrato di sorveglianza della violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: ovvero di aver subito tortura e trattamenti inumani e degradanti. Le morti per suicidio, 49 da inizio anno, scandiscono il tempo dell’urgenza: il prossimo 17 luglio, la Camera dei Deputati, voterà la proposta di legge presentata da Roberto Giachetti e Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino contro il sovraffollamento e il persistere di uno stato di illegalità all’interno degli istituti penitenziari. Di altro tempo e altro spazio non ce n’è più. Roma. “Per fermare questa mattanza portiamo la nostra battaglia in mezzo alla gente” Il Dubbio, 6 luglio 2024 “Il tempo è finito. Una persona ogni tre giorni di toglie la vita nelle nostre carceri. In tanti muoiono per mancanza di cure, per abuso di psicofarmaci, per solitudine e abbandono”. E ancora: gli istituti di pena sono “luoghi sovraffollati e indecenti che interrompono la vita, spezzano gli affetti e negano ogni speranza di riabilitazione e di ritorno in società. Non possiamo permetterlo. Non possiamo subire inerti questa mattanza di Stato”. L’appuntamento in piazza per la maratona oratoria dei penalisti romani è arrivato nelle ore più drammatiche per il pianeta carcere. Mentre avvocati, politici e attivisti si alternavano sul palco allestito nel quartiere Pigneto di Roma per dire basta ai suicidi in cella, nel pomeriggio di giovedì altri tre detenuti si sono tolti la vita: a Pavia e a Sollicciano due ventenni si sono tolti la vita impiccandosi, e il terzo - un uomo di 35 anni finito in coma dopo aver tentato il suicidio - è morto in ospedale a Livorno. Il drammatico bilancio dei suicidi in carcere dall’inizio dell’anno sale dunque a 52. Cifre record, ma soprattutto persone, che non possono essere ridotte a un numero. Un dato drammatico al quale aggiungere il tasso nazionale di sovraffollamento che va oltre il 130%. Una vera e propria emergenza, a cui il decreto Carcere appena varato non sembra dare sufficiente risposta. Per interrompere questa tragedia servono interventi rapidi e incisivi, ribadiscono i penalisti con la loro presenza in piazza. “Siamo al Pigneto per dare sostegno all’iniziativa delle Camere penali, perché noi pensiamo che questa maratona vada fatta in mezzo alla gente. Le persone devono capire, odorare il carcere”, ha spiegato Gaetano Scalise, presidente dell’Unione camere penali di Roma, a margine della maratona promossa nell’ambito dell’iniziativa avviata in tutto il Paese delle Camere penali italiane. Nel corso dell’evento romano i cittadini hanno potuto infatti sperimentare per qualche minuto l’esperienza della detenzione all’interno della cella di isolamento riprodotta dal Dubbio e dal Consiglio nazionale forense per sensibilizzare l’opinione pubblica. Uno spazio angusto abitato da una piccola brandina, un water e un lavandino che il Dubbio ha aperto al pubblico nel corso del convegno del 13 giugno al Tempio di Adriano di Roma. Un’esperienza replicata in occasione della maratona di giovedì, a cui hanno preso parte, tra gli altri, Roberto Giachetti e Rita Bernardini, firmatari della legge sulla liberazione anticipata speciale; Ilaria Cucchi (Avs); Walter Verini (Pd); Stefano Anastasia (Garante dei detenuti del Lazio); Vincenzo Comi, vice presidente della Camera Penale di Roma, e l’ex presidente dei penalisti romani Cesare Placanica. “Non abbiamo la bacchetta magica, ma l’impegno ce lo stiamo mettendo tutto - ha chiosato Scalise nel suo intervento. Ed è un impegno senza colore politico. Stiamo facendo una battaglia per migliorare la condizione carceraria, e sarà ben accolto ogni provvedimento o idea che possa migliorare quello che noi da anni denunciamo come vero e proprio scandalo nazionale”. Trento. Dramma delle carceri italiane: maratona oratoria degli avvocati trentini L’Adige, 6 luglio 2024 Nel quadro dell’iniziativa nazionale ieri, 5 luglio, nel capoluogo si è svolto un evento all’esterno del Tribunale, per chiedere alle autorità uno scatto contro il degrado del sistema penitenziario: dall’inizio dell’anno sono stati 53 i suicidi fra i detenuti e la situazione è esplosiva anche nelle carceri minorili. Una maratona oratoria per sensibilizzare la popolazione sul sovraffollamento delle carceri italiane e sul fenomeno dei suicidi in carcere. È quanto organizzato ieri, 5 luglio, dalla Camera penale di Trento in piazza Pigarelli, all’esterno del Tribunale del capoluogo (foto), nell’ambito di un’iniziativa nazionale coordinata dall’Unione delle Camere penali italiane (Ucpi) con il supporto dell’Osservatorio carcere. “Questa è la terza iniziativa in circa sei mesi. Le prime due astensioni, lo strumento più forte che abbiamo per richiamare l’attenzione, non sono state sufficienti per dare concretezza alle promesse fatte. Da inizio anno sono stati 53 i suicidi in carcere, a cui si aggiungono molteplici di tentativi di suicidi. La situazione è esplosiva, ora anche nelle carceri minorili”, ha spiegato il presidente della Camera di Trento, Roberto Bertuol. Tra gli intervenuti a Trento, c’erano anche il consigliere provinciale Andrea De Bertolini, che ha rilevato la mancata applicazione delle convenzioni europee per i diritti umani, Nicola Canestrini, che ha parlato di “situazioni umane degradanti”, e il sindaco di Trento, Franco Ianeselli. “La situazione di sofferenza è in aumento e la convivenza è sempre più difficile. Il passaggio a misure alternative è stato importantissimo, ma richiede una rete sociale forte interna ed esterna. Il dato dei suicidi è veramente allarmante”, ha affermato la sostituito procuratore generale Teresa Rubini. Il percorso della maratona oratoria è partito lo scorso 29 maggio. Sono state coinvolte le 150 Camere penali italiane. L’Ucpi ha annunciato un’astensione degli avvocati dalle udienze penali dal 10 al 12 luglio prossimi. Una delegazione trentina parteciperà anche alla manifestazione nazionale prevista a Roma il prossimo 11 luglio. Scrivono gli avvocati nella presentazione dell’iniziativa: “La Camera penale di Trento è intervenuta più volte con forza - in simbiosi con l’Unione delle Camere Penali italiane, per stigmatizzare l’ingravescente condizione di degrado in cui versail nostro sistema carcerario. L’astensione si riallaccia alle iniziative degli scorsi mesi, con le quali le Camere Penali avevano già posto con forza all’attenzione di tutti, tra l’altro con 2 astensioni dalle udienze, tale gravissima situazione carceri italiane e del loro indicibile sovraffollamento e del drammatico fenomeno dei suicidi in carcere, nella totale assenza, da parte del Governo, di urgenti iniziative volte alla decompressione ed alla salvaguardia della dignità dei detenuti. Tutte le Camere Penali territoriali sono state così sollecitate a dare il via ad una maratona oratoria, coordinata dall’UCPI, col supporto dell’Osservatorio Carcere, a partire dal 29 maggio e fino al 11 luglio 2024, alternandosi in luoghi pubblici e rappresentando alla società civile la condizione inumana dei detenuti, il degrado della realtà carceraria nella quale si vedono costretti a svolgere la propria attività lavorativa gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori tutti, le inefficienze del sistema, le mancate riforme, l’irresponsabile indifferenza della politica e ogni altro aspetto che possa offrire l’immagine del fallimento di un sistema che rappresenta la negazione stessa della democrazia ed organizzare ogni opportuna iniziativa di informazione e protesta”. A Trento la “maratona oratoria” avrà luogo in Largo Pigarelli (piazzetta di fronte al Tribunale) a partire dalle ore 10.30 di Venerdì’ 5 luglio 2024; prenderanno la parola, avvicendandosi al microfono, non solo Avvocati della Camera Penale e del libero Foro, ma anche molte persone che a più vario titolo si occupano del pianeta carcere, esponenti della politica, persone attive nell’impegno sociale, rappresentanti della Magistratura, e molti altri per esporre anche pubblica testimonianza diretta di esperienze e per illustrare proposte concrete di intervento. Sono stati invitati, tra gli altri, tutti i massimi rappresentanti delle Istituzioni, che potranno, se vorranno, prendere a loro volta la parola sull’argomento. A conclusione di tali iniziative, l’Unione ha inoltre deliberato l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 10, 11e 12 luglio 2024, con convocazione di tutti i Presidenti delle Camere Penali territoriali e di tutti gli iscritti, in Roma alla manifestazione, che si terrà con tutte le associazioni sensibili a tale emergenza e con i rappresentanti della politica favorevoli all’adozione di strumenti immediati, volti alla soluzione della crisi in atto, in piazza dei Santi Apostoli, in data 11 luglio 2024, alla quale parteciperà anche un delegazione trentina. Como. Quelle vite dentro il carcere riaccese dai quadri elettrici di Enrica Lattanzi Avvenire, 6 luglio 2024 A Como il progetto di inclusione lavorativa con formazione per realizzare sistemi molto richiesti dalle aziende. Collaborano don Rigoldi, Intesa Sanpaolo, MekTech, Cooperativa Ozanam. “Non vedo l’ora di iniziare”. Sta negli occhi lucidi di Mohammed - che si allargano in un sorriso quando gli chiediamo cosa ne pensa del percorso in cui è stato inserito - il senso dell’iniziativa presentata a inizio settimana alla Casa Circondariale del Bassone di Como. Si tratta di un progetto imprenditoriale innovativo, tecnologico e altamente qualificante sviluppato all’interno del carcere, che comprende anche la sistemazione di un’intera ala della struttura: 180 metri quadri di spazi rimessi a nuovo, ritinteggiati e con gli impianti a norma che accolgono laboratorio di cablaggio e assemblaggio di quadri elettrici, palestra, aula informatica. Tutto è partito due anni fa da un’idea di don Gino Rigoldi - storico cappellano del minorile “Beccaria” di Milano -, e ha catalizzato un insieme di realtà pubbliche e private: l’istituto di pena comasco, il gruppo Intesa Sanpaolo, l’azienda MekTech di Giussano (Mb), la Cooperativa Ozanam di Saronno (Va), il Provveditorato regionale lombardo per l’amministrazione penitenziaria e il Centro servizi per il Volontariato dell’Insubria. “Dal carcere di Como arriva un messaggio di speranza concreto, che parla di futuro e dignità”, ci ha detto don Rigoldi. In cosa consiste il progetto? Il Gruppo MekTech, specializzato nella progettazione e costruzione di impianti e apparati motorizzati, utilizzerà, per i propri sistemi robotizzati, quadri elettrici complessi, prodotti all’interno del carcere del Bassone negli spazi ristrutturati grazie a fondi ministeriali e al sostegno economico di Intesa Sanpaolo. Li realizzeranno undici detenuti, dipendenti della Ozanam, cooperativa da trent’anni impegnata in programmi di reinserimento lavorativo di persone fragili. I lavoratori sono stati selezionati dagli educatori del Bassone a partire da competenze pregresse e attitudini personali. Hanno seguito un “corso di formazione per tecnico cablatore ed elettricista”, con il rilascio di un’attestazione che ne certifica partecipazione e qualificazione. Questo percorso si traduce in un lavoro e in uno stipendio: oggi all’interno del carcere, domani in un’azienda, in una logica di giustizia riparativa che permetta, a chi abbia scontato la pena per i reati commessi, di reinserirsi e integrarsi nella comunità da cui si è allontanato a causa dei propri errori. “Ci sentiamo dei pionieri - ci hanno raccontato i detenuti -, siamo i primi undici… La prospettiva è che, dopo di noi, altrettanti possano avere questa possibilità”. È stato come tornare a scuola, seduti al banco e con i fogli per gli appunti: “Una sensazione bellissima. Avere la testa occupata, investire il tempo in qualcosa di importante per noi, per le nostre famiglie, per i nostri figli”. È un lavoro che apre prospettive: “è una qualifica molto richiesta - aggiungono -: lavoriamo su sistemi basici ma fondamentali per il funzionamento di bracci robotici, ascensori, catene di montaggio, centrali di automazione. È una grande opportunità di cui siamo grati”. “Ci vorrebbero decine di azioni come queste”, è la riflessione del cappellano del Bassone padre Zeno Carcereri, che ci spiega: “al Bassone ci sono circa 400 detenuti fra sezioni maschile e femminile -. Un centinaio lavorano nei servizi del carcere. Ora c’è questa grossa opportunità. Il recupero parte da qui: è un tempo per mettere a frutto le proprie capacità”. Il lavoro fa la differenza: “avere uno stipendio significa aiutare le famiglie, non dipendere dal pacco che i propri cari, spesso faticosamente, mettono insieme. È la gioia semplice di potersi permettere anche solo un caffè, magari da offrire agli altri”. “Un progetto come questo serve al reinserimento delle persone detenute, anche in una prospettiva di piena integrazione multiculturale”, è la sottolineatura del direttore del carcere comasco Fabrizio Rinaldi. Gli fa eco Maria Milano, del Provveditorato regionale: “sono iniziative che permettono di restituire alla società persone rinnovate, che, dopo lo strappo, diventano risorsa per la crescita di tutti”. Secondo i dati di CNEL e Ministero della Giustizia, la popolazione carceraria italiana conta 60mila detenuti. Il 70%, dopo aver scontato la pena, è fortemente esposto al rischio di recidiva. Un tasso che si abbatte al 2% per chi abbia intrapreso e completato un percorso formativo e lavorativo. “Si creano opportunità nel luogo in cui tutto sembra azzerarsi” è la riflessione di Stefano Barrese, della “Divisione Banca dei Territori” di Intesa Sanpaolo, primo gruppo italiano a posizionarsi ai vertici mondiali per impatto sociale e leader europeo della finanza sostenibile. “Ed è in questo luogo di “non-opportunità” - riprende il concetto l’AD di MekTech Gaetano Sauli - che abbiamo trovato persone desiderose di imparare, di riprendere in mano le proprie vite sospese, oltre ogni pregiudizio”. “Il lavoro è dignità - osserva Edoardo Mazzucchelli, vicepresidente Ozanam - e riscatto: le “storie ai margini” diventano protagoniste di un progetto imprenditoriale”. “Il contrasto alle povertà, primarie ed educative - è il pensiero di Paolo Bonassi, alla guida dell’Area dedicata all’impatto sociale di Intesa Sanpaolo - fa parte della nostra storia e missione. Attualmente siamo impegnati con progettualità in 31 carceri italiane. La povertà, in qualsiasi forma, non è ammissibile. Le diseguaglianze sono un ostacolo a sviluppo e autonomia. Creare valore per le persone fragili significa partecipare alla costruzione di una società più coesa e quindi generativa. Non vogliamo limitarci a erogare fondi, ma desideriamo essere parte delle iniziative che sosteniamo”. “Abbiamo sentito risuonare più volte la parola opportunità - è la conclusione di Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia -. Chi è in carcere è responsabile delle azioni che ha commesso: i percorsi rieducativi sono occasioni per un cambiamento di vita e per la costruzione di una società più sicura che si fonda sulla legalità”. E il progetto nato al Bassone è senza dubbio un’opportunità preziosa. Torino. Un altro modo per narrare il carcere di Alice Bertino La Voce e il Tempo, 6 luglio 2024 La drammaticità delle condizioni delle carceri italiane tra suicidi e sovraffollamento è tornato all’onore delle cronache anche se il muro del pregiudizio (“chi ha commesso un reato deve marcire in carcere”) spesso confina nell’indifferenza verso chi è dietro le sbarre. C’è chi invece - come questa rubrica - vuole fare sentire la voce dei ristretti cercando di comunicare le condizioni di chi si trova privato della libertà anche utilizzando i nuovi media frequentati dai più giovani. Se n’è parlato lo scorso 26 giugno, nel giardino del complesso di cohousing Mari.House di via Madonna delle Salette a Torino, in un incontro promosso dalla Garante dei detenuti del Comune Torino, Monica Cristina Gallo, sul tema “Voci sul dentro: per una diversa narrazione sulla privazione della libertà” a cui sono intervenuti giovani che operano in carcere come “Fratture”, “Milano Invisibile “ e l’autrice e giornalista Francesca Berardi che hanno presentato nuovi mezzi e strumenti per parlare di detenzione. Per far conoscere le pesanti criticità che affliggono i istituti penitenziari, come il “Lorusso e Cutugno” di Torino, occorre raggiungere l’opinione pubblica perché le informazioni sul carcere non riguardino solo gli “addetti ai lavori” (magistrati, garanti, e associazioni) ma tutta società civile. “Il carcere è un tema fuori moda” ha detto Francesca Berardi, giornalista e autrice del podcast “Una finta giornata di sole” (www.raiplaysound. it/playlist/unafintagiornatadisolestoriedigenitoriincarcere), realizzato in collaborazione con il Circolo dei Lettori di Torino, in cui attraverso le interviste ai detenuti del “Lorusso Cotugno” racconta l’esperienza della genitorialità dei ristretti. Berardi ha realizzato un altro podcast “Platano 388” (anche questo su RaiPlay Sound) in cui documenta la durissima realtà del Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri) di Torino. Anche il collettivo di giovani “Fratture” si propone di informare con una newsletter mensile il mondo penitenziario tramite una rassegna stampa sul tema della detenzione. “Ci sono narrazioni dominanti sul carcere ma manca un discorso più continuativo e profondo sul tema. L’obiettivo di Fratture è mettere sotto una lente critica il mondo penitenziario e diffonderne la narrazione”. La prima newsletter trattava di un tema fondamentale sia per i “liberi” che per chi vive dietro le sbarre e cioè il diritto all’affettività. Un altro podcast è prodotto dal collettivo dei giovani di “Milano Invisibile”: si intitola “Uccidere la bestia: il carcere e le sue alternative”, in cui si raccontano, tra l’altro, le difficili condizioni delle patrie galere e dei Cpr. “Nella narrazione ordinaria delle problematicità degli istituti penitenziari mancano degli esempi virtuosi che mostrino come le misure alternative alla detenzione possano essere le scelte migliori per i reclusi. Con ‘Milano Invisibile’ ci proponiamo di raccontare queste realtà invisibili e parlare di carcere da diverse prospettive, non limitate solo a Milano ma anche agli altri penitenziari italiani. Ha chiuso l’incontro l’ex garante nazionale dei detenuti Mauro Palma che ha esortato tutti a “vedere davvero” e non rimanere “assuefatti ed indifferenti” rispetto ad un dato agghiacciante: ad oggi sono i 46 suicidi dall’inizio del 2024, una realtà impensabile e inaccettabile in un Paese civile. Torino. Carcerato, sono rinato con “La Goccia di Lube” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 6 luglio 2024 Non sono solo “dentro” i problemi che affliggono le nostre c arceri: per la maggior parte dei detenuti che finisce la pena e si lascia alle spalle la cella inizia un percorso in salita: se, come raccomanda l’art. 27 della nostra Costituzione, davvero il tempo trascorso dietro le sbarre “deve tendere alla rieducazione del condannato” in vista del suo reinserimento sociale, come mai nel nostro Paese la recidiva - cioè la ricaduta nel reato - per i reclusi che non hanno avuto la possibilità di un inserimento lavorativo sfiora il 70%, mentre per coloro hanno frequentato corsi di formazione e tirocini in azienda si abbassa al 2%? Perché scontare una pena fuori dal carcere con un inserimento lavorativo fa bene a tutti, a chi ha commesso un reato e alla società. È la scommessa di “Impresa accogliente” il progetto che coinvolge imprese profit e cooperative sociali torinesi nella formazione e offerta di lavoro ai reclusi che usufruiscono delle misure alternative come la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova al servizio sociale. Nel 2023, tra Torinese e Astigiano, aree di competenza dell’Uiepe, Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Torino, sono state oltre 2.800 i ristretti soggetti a pene alternative. L’iniziativa, prima in Italia, promossa dall’associazione torinese “La goccia di Lube” che opera dal 2018 per il reinserimento lavorativo delle persone che hanno avuto problemi con la giustizia, è stata presentata lo scorso 27 giugno presso la sede di Vol.To, la “casa” del volontariato torinese, per chiamare a raccolta imprese profit e cooperative sociali disponibili a offrire occupazione o formazione al lavoro a chi sta scontando una pena fuori dal carcere. Il progetto, finanziato dall’assessorato al Welfare della Regione Piemonte, per ora avrà la durata di un anno e si svolgerà nell’area metropolitana di Torino, come ha spiegato Adriano Moraglio, presidente de “La Goccia di Lube”. Coinvolgerà oltre trenta volontari che si alterneranno a coppie nella presa in carico delle persone sottoposte a pene alternative segnalate dall’Uiepe e dall’Ussm (Ufficio di servizio sociale per i minorenni) che ne valuteranno le competenze, i punti di forza e le fragilità per avviarli alla formazione e al lavoro. Hanno già aderito al progetto: Agenzia Piemonte lavoro, i Centri per l’impiego torinesi, Adecco Api Torino, Api formazione, Unione industriali di Torino, Immaginazione e lavoro, Confcooperative Piemonte nord, Confesercenti Torino e provincia, Ucid, Ance Torino - collegio costruttori, Scuola edile fsc, Cdo Piemonte, Fondazione Casa di carità, Vol.To. Sono 40 le persone che nella primavera appena trascorsa “La goccia di Lube” ha preso in carico per l’avviamento al lavoro e 7 hanno ottenuto un contratto avvalendosi in via sperimentale degli enti che hanno aderito all’iniziativa. Ora il Progetto parte ufficialmente e si spera, come ha sottolineato Antonella Giordano, direttore reggente dell’Uiepe, che interventi come questo “a supporto dell’inserimento lavorativo costituiscano anche una efficace strategia per la riduzione della recidiva”. Già alcune aziende hanno partecipato al progetto inserendo del loro organico persone che usufruiscono delle misure di pena alternativa. Durante la presentazione è stata consegnata la prima targa-riconoscimento - che verrà assegnata a tutte le “imprese accoglienti” - a Luca Ordazzo, titolare della Market Service di Givoletto. Informazioni su www.lagocciadilube.it. Spoleto (Pg). Al Festival il teatro si fa in carcere con i detenuti-attori di #SIneNOmine Corriere della Sera, 6 luglio 2024 In scena per due sere lo spettacolo “Creta”, ultima produzione di un laboratorio molto partecipato nato nel 2012. Come la creta può essere plasmata, così anche l’essere umano può trasformarsi, assumere una nuova forma, magari ricomporre alcuni frammenti. Un ragionamento che è uno dei pensieri-guida della compagnia #SIneNOmine, nata nel 2012 da un laboratorio teatrale realizzato nella Casa di Reclusione di Spoleto e da allora attiva con numerosi spettacoli realizzati dagli attori-detenuti della media e dell’alta sicurezza: “Creta” è stato proprio il titolo andato in scena nei giorni scorsi in carcere, con due appuntamenti inseriti nel calendario del Festival dei Due Mondi. Una produzione che è partita da un lavoro sul movimento, finalizzato alla conoscenza della complessità compositiva del linguaggio teatrale, e intrecciatasi poi con un’attività parallela incentrata sullo studio del mito. “Il detenuto si muove in un labirinto spazio temporale come un Minotauro al quale non si permette altra azione che quella dell’uniformità, della ripetizione” ha spiegato il regista Giorgio Flamini. Sua è l’ideazione dello spettacolo, sviluppato insieme a Sara Ragni e Pina Segoni. Ad accompagnare le coreografie, realizzate da Laura Bassetta, Mariolina Maconio, Serena Perna e Lorenza Salis, anche la voce del mezzosoprano Lucia Napoli e quelle del coro diretto da Francesco Corrias. Ma il parallelo tra i detenuti e la creatura mitologica, porta anche Flamini a porre questi interrogativi: “Quale strada prenderà questo sfociare di primordiale vitalità? La strada della distruzione, della violenza non consapevole, come per il Minotauro, o quella della purificazione tramite l’espressione più autentica del sé?”. Il progetto #SIneNOmine, partito con 15 detenuti, ha negli anni superato i 100 partecipanti: attori, danzatori, ma anche aiuto regista, attrezzista, direttore di palcoscenico, in un’ottica di crescita e inclusione della persona. Per ogni produzione, la compagnia è stata affiancata da artisti professionisti, collaborando con la scuola di teatro Teodolapio, e alcuni detenuti-attori hanno avuto il permesso negli anni di esibirsi in tutto il Paese. Nel Cpr di Torino la giustizia è “assopita” di Mauro Gentile La Voce e il Tempo, 6 luglio 2024 In un caso su tre sono bastati meno di cinque minuti, per portare a termine un altro 30% delle udienze. È il tempo trascorso davanti al giudice di pace per convalidare (o rigettare) la richiesta di trasferimento di un immigrato nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino (Cpr). Una durata simile, meno di cinque o non oltre i dieci minuti, tra il 70 e l’80% per cento dei casi, quello delle udienze relative alla prima, seconda e terza proroga. Solo per l’1% il tempo dedicato ad affrontare il caso è risultato maggiore di un’ora. Gli esiti? Nove volte su dieci il giudice di pace ha convalidato il trattenimento richiesto dalla Questura e, nell’83% dei casi, le motivazioni di accoglimento della domanda di convalida sono state espresse attraverso un modulo prestampato. È quanto emerge dal rapporto “La giurisdizione apparente. Osservatorio sulla giurisprudenza del Giudice di Pace di Torino in materia di trattenimento amministrativo”, presentato la scorsa settimana a Palazzo di Città, curato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino in collaborazione con l’Associazione per gli studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi). Lo studio ha raccolto e analizzato i dati contenuti nei fascicoli per le procedure di convalida e proroga del trattenimento nel Cpr “Brunelleschi” relativi al 2022 e ai primi mesi del 2023 (il Cpr è chiuso dal marzo del 2023 per problemi strutturali e dovrebbe riaprire tra qualche mese). Il giudice di pace - rileva il rapporto - si è limitato ad accogliere le richieste della Questura senza fornire alcuna argomentazione, nemmeno nei casi in cui la difesa ha motivato la propria opposizione. E proprio la mancata motivazione dei provvedimenti di convalida e di proroga ha portato la Corte di Cassazione ad annullare alcuni decreti e 150 pronunce su provvedimenti dell’autorità torinese, emesse tra il 2020 e il 2023, a descriverne la giurisprudenza come ancora assopita, incapace di garantire effettività alla tutela del diritto alla libertà degli stranieri. “Continuiamo a registrare provvedimenti di convalida con la stessa formula, senza prendere in considerazione argomenti difensivi. Avere oggi la Cassazione che lo riconosce rafforza il giudizio negativo sulla situazione” ha evidenziato l’avvocato Maurizio Veglio, docente all’International University College, membro dell’Asgi, tra gli autori della ricerca. Condivide Michela Favaro, vicesindaco di Torino con delega ai Rapporti con il sistema carcerario, che ha sottolineato la necessità di “interrogarsi su qual è il significato di legalità e stato di diritto nel nostro Paese e sul nostro territorio, riflettendo anche sul fatto che non ci sia piena attuazione del dettato costituzionale”. “Nel 2023 il Consiglio comunale di Torino aveva approvato all’unanimità un Ordine del giorno che chiedeva la chiusura definitiva del Cpr” ha ricordato la garante dei detenuti del Comune Monica Cristina Gallo “Ora ritengo davvero preoccupante l’idea di riavere tra qualche mese, all’interno della nostra città, un luogo di privazione dei diritti alla luce dei risultati tutt’altro che brillanti in termini di operazioni di rimpatrio ottenuti negli anni passati. E senza aver adottato nuove soluzioni, ma aver invece esteso la permanenza nei Cpr fino a 18 mesi, aumentando il tempo vuoto, sofferenza e disagio per le persone senza permesso di soggiorno o di una documentazione che consenta loro di vivere legalmente nel nostro territorio”. Il rapporto è disponibile su: www.asgi.it/allontanamento-espulsione/la-giurisdizione-apparente-nel-centroper- il-rimpatrio-di-torino Donna con gravi problemi mentali rinchiusa da 9 mesi nel Cpr di Roma di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2024 La Corte europea ordina all’Italia di liberare e curare Camelia. Che i Centri di permanenza per il rimpatrio, i famigerati Cpr, siano un buco nero che strappa la dignità alle persone è cosa nota. Eppure non può esistere assuefazione di fronte a storie degradanti, per le vittime e non solo, come quella di Camelia, una donna che si fa chiamare Giovanni, con evidente “incapacità di intendere e di volere”, di relazionarsi: non si fa avvicinare, urla se vede qualcuno, specialmente donne o personale sanitario. Tuttavia è stata rinchiusa e isolata in una cella del Cpr di Roma Ponte Galeria per nove mesi, senza cure adeguate e con il trattenimento prorogato dal giudice di Pace su richiesta della Questura di volta in volta, nonostante di lei non si conosca di preciso nemmeno la nazionalità, il che renderebbe impossibile ogni ipotesi di rimpatrio e dunque illegittimo il trattenimento anche al netto del grave disagio mentale che la donna presenta. Bisogna ringraziare le deputate del Partito democratico Rachele Scarpa e Eleonora Evi, e le altre persone attivatesi, se qualcosa finalmente si è mosso. Ma non certo per l’interessamento delle autorità italiane. Evi e Scarpa hanno presentato ricorso alla Corte europea che in pochi giorni, il 3 luglio scorso, ha preso la decisione “di indicare al Governo italiano che la ricorrente dovrebbe ricevere l’assistenza medica richiesta dal suo stato di salute, compreso il suo immediato trasferimento dal Centro per il rimpatrio di Roma - Ponte Galeria ad una struttura adatta alle sue condizioni”, si legge nella richiesta della Corte, ai sensi dell’art. 39 del regolamento Cedu che consente un intervento immediato in caso di rischio di danni irreparabili. Era stata video registrata di nascosto dalla deputata Evi - video poi inserito in una trasmissione televisiva - mentre gridava verso chiunque le si avvicinasse. Legali e attivisti si sono interessati al suo caso nella speranza di interrompere la detenzione. Lo scorso 18 giugno, insieme alla dottoressa Monica Serrano e alla legale Federica Borlizzi, Rachele Scarpa ha ispezionato il Cpr di Ponte Galeria, relazionando anche sulla condizione di Camelia. Il passaggio merita di essere letto per intero. “Lontana dal modulo abitativo femminile, si trova la signora C. F. all’interno di una vera e propria “gabbia” di isolamento. Al momento della nostra visita si trova all’aria aperta, visibile attraverso le sbarre. Quando incrociamo il suo sguardo si ritira subito all’interno del modulo. Date le numerose relazioni scritte (psicologa, Be free, psichiatra) valutiamo inutile un tentativo di colloquio diretto e lavoriamo a individuare le condizioni di un incontro con lei/lui: chiamarla Giovanni, nome al quale risponde; avvicinarla con personale qualificato di sesso maschile, essendo “ostile” al personale femminile e sanitario; non chiedere ciò che serve a noi sapere, ma adeguarsi a ciò che lei/lui stessa significa come utile e non minaccioso (le sigarette, il cibo, gesti di offerta concreti). Non riusciamo, in ogni caso, ad avere alcun tipo di relazione con la signora C.F.”. Come già rilevato precedentemente su richiesta di Scarpa, non riceve cure. “Si conferma che, per quanto scritto in cartella, la signora non prende farmaci né psicofarmaci. Quando chiediamo di vedere la documentazione legale e il nome dell’avvocato di ufficio nelle sedute di convalida del trattenimento le stesse Forze dell’ordine ci chiedono di rivolgerci all’Ufficio immigrazione”. Ancora: “Appare evidente la sua completa incapacità di intendere e volere, così come è altrettanto palese che tenerla segregata in tale luogo appare rispondente ad una inaccettabile logica manicomiale, senza alcuna tutela dello stato di salute della signora C.F. che, anzi, rischia di essere gravemente compromesso da un prolungamento del trattenimento”. Peggio: “Preme evidenziare come il personale di polizia e sanitario del Cpr concordi nel ritenere non adeguata la detenzione della signora C.F. nel Centro, addirittura giungono a chiedere alla nostra delegazione un supporto per comprendere come poter fare a trasferire la donna in un luogo di cura adeguato al suo stato di salute. Evidenziamo come la Questura avrebbe potuto, già da mesi, evitare di chiedere le continue proroghe del trattenimento; rilasciare un permesso di soggiorno per cure mediche; attivarsi affinché si procedesse con la nomina di un amministratore di sostegno; intraprendere le necessarie azioni per coinvolgere la ASL nella presa in carico della donna. Tutte gravi mancanze che palesano una responsabilità delle istituzioni competenti nella detenzione, da ben 9 mesi, di una donna del tutto incompatibile con la vita in comunità ristretta”. Camelia era stata fermata a Catania lo scorso ottobre, e la visita che aveva accertato la sua idoneità alla vita ristretta aveva preso in considerazione solo l’assenza di malattie infettive, mentre la direttiva ministeriale in merito impone che debba esserci anche una valutazione psicologica. Invece la visita con lo specialista è arrivata solo a maggio di quest’anno. Di fronte alle sollecitazioni della Corte europea, ricorda Scarpa, “la risposta del Governo è stata del tutto insoddisfacente: si è provato a giustificare la proroga di un trattenimento in sé assurdo, difendendo l’indifendibile, quando è evidente che vi siano state superficialità e disinteresse. La detenzione di una persona con problemi di salute mentale in un Cpr è contraria al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti”. Il caso è stato seguito dagli avvocati Daria Sartori, Gennaro Santoro, Federica Borlizzi e dalla dottoressa Muriel Vicquery, con il supporto della Rule 39 Pro Bono Initiative, di Monica Serrano e dei medici Antonello D’Elia e Nicola Cocco. I promotori del ricorso alla CEDU sottolineano che “la vicenda di Camelia non è isolata e che nei Cpr la violazione dei diritti umani è sistematica”. E che le criticità per la salute mentale delle persone detenute sono state evidenziate anche per altri centri, come quelli di Milano e Macomer. Nello stesso Cpr di Roma, dove mentre scriviamo è ancora trattenuta Camelia - “vigileremo perché la decisione della Cedu venga attuata al più presto”, assicura Scarpa al Fatto -, altri detenuti presentavano incompatibilità con le condizioni del trattenimento. “Dalle cartelle sanitarie visionate - si legge ancora sull’ispezione del 18 giugno - appare evidente la completa lacunosita? dei certificati che attestano l’idoneità? alla vita in comunità? ristretta, che - nella maggior parte dei casi - non indagano in nessun modo la presenza di eventuali “disturbi psichiatrici” o di “patologie acute o cronico degenerative”, come richiesto dalla normativa”. Il paragrafo 5 è dedicato agli incontri coi detenuti. “Un altro ragazzo, A.A., lo incontriamo nella cella di pernotto su volontà degli altri detenuti. Lo troviamo riverso sul letto in stato catatonico, corpo irrigidito, viene fisicamente alzato e tenuto seduto. Non reagisce agli stimoli e non riusciamo ad avere un colloquio con lui. Gli altri detenuti ci dicono che gli hanno fatto una “punturina” e che si trova in quello stato da diversi giorni”. E poi donne in Italia da 15 anni che una volta perso il lavoro non sono riuscite a rinnovare il permesso di soggiorno e una giovane ragazza “detenuta nel CPR nonostante i chiari indicatori di tratta a scopo di sfruttamento sessuale”. A fare da sfondo, la struttura gestita dalla multinazionale ORS. Dove l’ispezione rileva sovraffollamento, materassi usurati, mancanza di armadietti, bagni degradanti, un locale mensa inutilizzato mentre i pasti sono distribuiti attraverso le grate e consumati nelle celle. Totale assenza di attività programmate, di locali adibiti al culto, telefoni fissi non funzionanti, mancanza di un locale di osservazione sanitaria adeguato. E poi, appunto, mancanza di idoneità al trattenimento, abuso di psicofarmaci, assenza di presa in carico psichiatrica e presenza sporadica di una psichiatra della ASL. “Per questo - scrive la deputata del Pd Scarpa - una richiesta della Corte come quella di oggi deve sollecitare un cambio radicale del sistema di accoglienza ed un superamento del sistema detentivo nei Cpr, che eviti al nostro Paese di restare nell’abisso in cui, per qualcuno, i diritti umani non vengono riconosciuti e tutelati”. Fine vita, al Comitato di bioetica sfugge un dettaglio: solo in Italia ci si preoccupa del “sostegno vitale” di Mario Riccio* Il Dubbio, 6 luglio 2024 Nel lontano 2006, nel pieno del caso Welby, l’allora ministra della Salute - Livia Turco - chiese al Consiglio Superiore di Sanità (CSS, organo tecnico dello stesso ministero) di definire cosa si intendeva per accanimento terapeutico e se Welby ne fosse al momento sottoposto. Con l’evidente intento - pur non dichiarato - di approvarne il distacco dal ventilatore qualora il CSS avesse decretato che Welby era sottoposto a tale trattamento. Il CSS rispose - come era ovvio - che non era possibile definire cosa fosse l’accanimento terapeutico, stante l’assoluta soggettività del concetto. Quel termine, accanimento terapeutico, peraltro al tempo già utilizzato solo nel nostro paese, che veniva rappresentato come il fulcro centrale della vicenda. Mentre era evidente che lo era la volontà del paziente, è poi quasi scomparso dal dibattito sul fine vita, anche in Italia. Al tempo pensavo che forse meglio sarebbe stato se la ministra si fosse rivolta al Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), anche se poi la risposta non poteva che essere la stessa. Infatti quel termine, con tutta la sua inconsistente evanescenza, proveniva dal mondo etico-filosofico e quindi più di pertinenza del CNB piuttosto che del CSS. Oggi invece abbiamo assistito alla situazione inversa. Mi riferisco al quesito che è stato posto al CNB da un ospedale umbro circa la corretta definizione di cosa si debba intendere per trattamenti di sostegno vitale, criterio indicato nella sentenza della Corte Costituzionale sul caso noto DJFabo/ Cappato come necessario per accedere al suicidio assistito. È evidente che il quesito posto dall’ospedale umbro sia di stretta competenza tecnica e quindi sarebbe stato più corretto indirizzarlo al CSS piuttosto che al CNB. Ma tant’è. Il CNB - pur a maggioranza- ha comunque ritenuto corretto esprimersi. Tralascio ogni malizioso commento circa il tempismo - il quesito è del novembre scorso nell’elaborazione del documento del CNB. Ovvero la prossimità a (forse) una nuova sentenza della Consulta sul punto. Chiamata a decidere sostanzialmente se il criterio stesso della sussistenza dei trattamenti di sostegno vitale sia da mantenere o confligge con il dettato costituzionale. Ma leggendo il parere del CNB sono due gli aspetti maggiormente rilevanti, nonché paradossali. Il primo. Il CNB è un consesso di esperti di varia provenienza, (giuridica, medica e filosofica) chiamati ad elaborare un pensiero morale ed etico su problematiche di natura medica. Ciononostante non hanno ritenuto elaborare - neanche a margine alcuna riflessione proprio sulla validità stessa del criterio sotteso alla sussistenza del trattamento di sostegno vitale. Mi spiego meglio: tale criterio è un unicum nel panorama internazionale. Nessun paese che ha legiferato in materia di morte medicalmente assistita - o che abbia intenzione di farlo a breve lo ha mai considerato. Ci si sarebbe aspettato che il CNB, partendo da questa premessa, esprimesse un parere - di natura bioetica, appunto, favorevole o contrario che fosse - sull’opportunità del criterio stesso, quale elemento necessario per richiedere la morte medicalmente assistita. Il secondo. Il CNB si è prodotto in una serie di considerazioni tecnico- cliniche su cosa sia un trattamento di sostegno vitale, sostanzialmente restringendone molto i confini. In pratica riportandosi ai casi Welby e Englaro. Quelli che la stampa, per intenderci, ha definito casi in cui si è “staccata una spina” ed il paziente è morto. Ora, stupisce che pur avendo fatto continui riferimenti al mondo giuridico, addirittura internazionale, i saggi del CNB abbiano completamente omesso che l’argomento sia stato già ampiamente trattato, e risolto, proprio nelle aule di giustizia. Varie sentenze (caso Trentini di Massa nel 2020; Mario/ Federico di Senigallia nel 2022, primo caso di assistenza al suicidio in Italia; “Gloria” di Treviso nel 2023, ancora caso di assistenza al suicidio; ed ancora caso di assistenza al suicidio “Anna” di Trieste sempre nel 2023. Tutti casi che chi scrive ben conosce essendo stati sostenuti dalla Associazione Luca Coscioni) hanno ampiamente discusso dei confini interpretativi della sentenza della Consulta, dandone - giustamente - una ragionata versione estensiva. In merito a tali pronunciamenti giurisprudenziali, nessuna società medico- scientifica ha mai sollevato dubbi. Applicando gli indirizzi del documento del CNB, oggi Marco Cappato e Mina Welby sarebbero stati condannati nel caso Trentini. Mentre nessuno dei casi di assistenza al suicidio sopra menzionati si sarebbero potuti realizzare. *Medico Consulta di bioetica Associazione Coscioni Proteste per la giustizia climatica: “Diritto, non crimine” di Linda Maggiori Il Manifesto, 6 luglio 2024 Il report. Impennata di azioni legali, arresti, multe, misure preventive, sanzioni pecuniarie spropositate contro attiviste e attivisti. Il caso Nicoletta Dosio. Un’ondata repressiva sta investendo chi manifesta pacificamente per la protezione dei territori e per la giustizia climatica. È quanto emerge dal rapporto “Diritto, non crimine. Per la Madre Terra, la giustizia sociale, ambientale e climatica”. Il report a cura della Rete in Difesa e dell’Osservatorio Repressione, è scaturito da un gruppo di lavoro promosso all’indomani della visita nell’aprile 2023 in Italia di Michel Forst, relatore speciale delle Nazioni Unite per i difensori dell’ambiente, unendo avvocati e legali dei movimenti No Tap, No Tav, Greenpeace Italia, Amnesty International Italia, Yaku, A Sud, Extinction Rebellion XR! Italia, Fridays for Future, Ultima Generazione, Osservatorio Repressione, Per il Clima fuori dal Fossile, Controsservatorio Valsusa e Case Italia. “La torsione repressiva vissuta da queste realtà è il riflesso di un fenomeno che da tempo persiste e si aggrava a livello internazionale e in Europa” spiega il report. In particolare negli ultimi mesi si è verificata un’impennata di azioni legali, arresti, multe e misure preventive, sanzioni pecuniarie spropositate contro attiviste e attivisti che insieme alle alte spese legali, stanno minando la capacità di iniziativa e pregiudicando il diritto alla libertà di associazione. Il portavoce della Rete, Francesco Martone, precisa: “Una situazione già grave che sarà peggiorata dal pacchetto sicurezza al momento in discussione al Senato che prevede un inasprimento delle pene per chi pratica blocchi stradali”. Il ddl Sicurezza ribattezzato dall’opposizione “anti Gandhi”, approvato una settimana fa alla Camera, prevede l’introduzione di reati e circostanze aggravanti specificamente modellati sulle proteste ambientaliste. “Anziché continuare a reprimere il dissenso nonviolento e alimentare una narrazione anti ambientalista - afferma Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia - politica, aziende e finanza dovrebbero comprendere che stiamo correndo un serio pericolo e ascoltare finalmente la voce di chi protesta per attuare misure concrete e mitigare gli effetti del surriscaldamento globale”. La repressione si abbatte sui giovani ma non risparmia nemmeno anziani e malati. Ancora oggi la settantottenne Nicoletta Dosio, sta scontando nuovamente gli arresti domiciliari (dopo mesi di carcere e arresti domiciliari nel 2020-2021) comminati per manifestazioni nonviolente contro i cantieri Tav. Da tutta Italia oltre 40 associazioni e personalità (130 associazioni, comitati, e 431 singoli cittadini tra cui Alex Zanotelli e Zerocalcare) hanno scritto a Mattarella: “Vogliamo denunciare l’inaccettabile livello di accanimento nei confronti di Nicoletta Dosio persino il giorno (il 28 giugno ndr) in cui è venuto a mancare suo marito Silvano Giai: dopo poche ore, Dosio si è trovata a subire l’intrusione dei Carabinieri per l’ennesima “notifica di diffida” motivata dalla supposta “mancata risposta” alla scampanellata di controllo che avrebbe avuto luogo verso le 2 di notte del 6 giugno scorso, quando la donna, affaticata dal prolungato dovere di accudimento del marito malato terminale, si era finalmente assopita”. Ai Carabinieri che le notificavano la diffida, Nicoletta Dosio avrebbe chiesto un po’ di privacy per la recentissima morte del marito, rifiutandosi di controfirmare la ricevuta di notifica in quanto immotivata, i Carabinieri avrebbero risposto, secondo chi era presente: “Stia attenta perché, con questa condotta, rischia di finire molto male”. L’appello chiede la libertà per Nicoletta, la fine dell’accanimento repressivo, del controllo effettuato in modo disumano e degradante che trasforma il proprio ambiente di vita nel peggior carcere, e obbliga una donna anziana e inoffensiva a restare totalmente isolata per un anno e mezzo.