Tre morti per suicidio in poche ore. Il decreto rischia di non servire di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 luglio 2024 In un momento di grave crisi del sistema carcerario italiano, segnato da sovraffollamento cronico, carenze di personale e un’allarmante escalation di suicidi, il governo ha varato un decreto legge che promette di affrontare queste criticità. Purtroppo il bilancio delle persone che si sono tolte la vita in cella dall’inizio dell’anno continua ad aumentare: siamo a 52. Ieri altre tre vittime: un detenuto di 35 anni è morto in ospedale a Livorno, dove era in coma dopo il tentato suicidio avvenuto tra il primo e il 2 luglio. Nel pomeriggio a Pavia e a Sollicciano due ragazzi ventenni si sono tolti la vita, anche loro impiccandosi. Nel carcere fiorentino sarebbero state appiccate anche le fiamme e dalle finestre è stato calato uno striscione sul quale si legge “Suicidio carcere aiuto help”. Un’analisi approfondita del provvedimento rivela che le misure proposte sono largamente insufficienti e, in alcuni casi, potenzialmente controproducenti. Il decreto, di 16 articoli, si concentra principalmente su tre aree: assunzioni di personale, semplificazione delle procedure per la liberazione anticipata e aumento delle telefonate per i detenuti. Nonostante le buone intenzioni, l’approccio appare miope e incapace di incidere significativamente sulle radici del problema. Il provvedimento prevede l’assunzione di mille nuove unità nel Corpo di Polizia penitenziaria, oltre all’aumento di 20 unità del personale dirigente penitenziario. Sebbene ogni rinforzo sia benvenuto, questi numeri sono drammaticamente insufficienti rispetto alle reali necessità. Come sottolinea Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia penitenziaria, mancano all’appello oltre 18.000 unità. Inoltre, le tempistiche previste per queste assunzioni (500 alla fine del 2025 e 500 alla fine del 2026) rendono l’intervento ancora meno incisivo nell’immediato. E Patrizio Gonnella di Antigone evidenzia che assumere sempre e solo poliziotti non basta. Sarebbe necessario aumentare anche il numero di educatori, mediatori, assistenti sociali, medici, psichiatri, etno- psichiatri, interpreti e direttori. “Altrimenti trasformiamo le carceri in un luogo di ordine pubblico!”, chiosa Gonnella. Ancora più preoccupante è la decisione di ridurre il corso di formazione per gli agenti a soli 60 giorni effettivi, di cui molti in didattica a distanza. Questa scelta, motivata dalla volontà di accelerare l’immissione in servizio, rischia di compromettere la preparazione degli agenti, con potenziali ripercussioni sulla gestione dei penitenziari. Le modifiche proposte alle procedure per la liberazione anticipata, pur mirando a una semplificazione, non sembrano in grado di produrre benefici sostanziali. Il decreto si limita a intervenire sull’iter burocratico, senza ampliare i criteri di concessione o aumentare i giorni di sconto di pena. In sostanza, si limita a sollevare i magistrati di sorveglianza dalla valutazione periodica dei requisiti per il riconoscimento della liberazione anticipata, che viene posposta a fine pena, come di fatto già accade, con mille problemi per la ricostruzione del percorso detentivo di ogni singolo detenuto. In un contesto in cui il sovraffollamento ha raggiunto livelli insostenibili - con 14.500 detenuti in più rispetto ai posti disponibili - questa misura appare come un’occasione mancata per incidere concretamente sul problema. L’unica via d’uscita è il provvedimento deflattivo, di aumento dello sconto di pena per buona condotta come proposto dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Si tratta della liberazione anticipata speciale che prevede lo sconto non più dei 45 giorni di pena per ogni semestre (come previsto attualmente) per chi ha partecipato all’opera di rieducazione, ma elevato almeno a 60 giorni. Il 17 luglio sarà al vaglio del Parlamento e non tutto è ancora perduto, poiché su questa proposta è arrivato anche il consenso di Forza Italia. L’unico aspetto positivo del decreto riguarda l’aumento delle telefonate concesse ai detenuti (tranne i ristretti con reati ostativi e 4bis), che passano da quattro a sei al mese. Tuttavia, come sottolinea Patrizio Gonnella di Antigone, questa misura è insufficiente per contrastare efficacemente l’isolamento penitenziario e prevenire i suicidi. Sarebbe stato necessario consentire telefonate quotidiane, non una ogni cinque giorni. Il decreto, infatti, non prevede la maggiore liberalizzazione, richiesta da più parti, ma rinvia ad un regolamento, da emanarsi entro sei mesi, per il necessario incremento del numero dei colloqui telefonici settimanali e mensili, ammettendo intanto un’autorizzazione in deroga ai limiti attuali, lasciata ovviamente alla discrezionalità dei direttori. Una novità significativa è l’istituzione di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale di coloro che hanno i requisiti per accedere alle misure penali di comunità. Un vero e proprio albo di comunità adibite alla detenzione domiciliare, che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti come quelli con residuo di pena basso, i tossicodipendenti e quelli condannati per determinati reati, e in cui potranno scontare il fine pena. L’intervento va nella direzione di consentire ai molti detenuti, soprattutto stranieri e privi di residenza ufficiale, di avere un luogo per la detenzione domiciliare. L’idea è di affidare alla Cassa delle ammende il finanziamento della collocazione in strutture di accoglienza delle persone indigenti e prive di un domicilio che possano accedere alle misure penali di comunità. Tuttavia, dovrà essere emanato un ulteriore decreto per definire le modalità, la disciplina e l’aggiornamento dell’albo, nonché i requisiti di qualità dei servizi necessari per l’iscrizione. Si presume che poi ci vorrà un altro lasso di tempo considerevole per permettere alle strutture residenziali di adeguarsi e iscriversi all’elenco. Inoltre, queste strutture dovranno garantire non solo l’accoglienza, ma anche una serie di servizi di assistenza, riqualificazione professionale, reinserimento socio- lavorativo e riabilitazione per i detenuti con determinate problematiche. Tutto ciò solleva forti perplessità sulla reale fattibilità e consistenza di tali strutture. I tempi dilatati e le complesse procedure rischiano di vanificare l’intento originario, e comunque non parliamo di un provvedimento immediato per la riduzione concreta del sovraffollamento e del numero dei suicidi in carcere. Il decreto evidenzia una visione limitata e inadeguata della crisi carceraria. Concentrandosi quasi esclusivamente sull’assunzione di personale di polizia, trascura altri aspetti cruciali come il potenziamento delle figure professionali dedicate al reinserimento sociale: educatori, mediatori, assistenti sociali, medici, psichiatri. Questa scelta rischia di trasformare le carceri in meri luoghi di contenimento, perdendo di vista l’obiettivo costituzionale della rieducazione. Le misure proposte, afflitte da “minimalismo” come sottolinea Gonnella di Antigone o come una “metastasi curata con un’aspirina” come dice il sindacalista De Fazio della Uilpa, non sono all’altezza della gravità della situazione. Con 52 suicidi dall’inizio dell’anno e tassi di affollamento elevatissimi, era lecito aspettarsi interventi più coraggiosi e incisivi. Un approccio che non solo non risolverà i problemi esistenti, ma rischia di aggravarli, compromettendo ulteriormente la dignità dei detenuti e le condizioni di lavoro del personale penitenziario. Di fatto, non emerge nessun provvedimento immediato per la riduzione concreta del sovraffollamento e del numero dei suicidi in carcere, ma alcune norme tecniche di buoni propositi, da attuare nel tempo. E non è nemmeno detto che si concretizzeranno. Carceri, tre suicidi in 24 ore. Ogni tre giorni una persona si toglie la vita di Thomas Usan La Stampa, 5 luglio 2024 Nel 2024 ci sono stati 54 suicidi nelle carceri italiane: uno ogni tre giorni e mezzo. Tre suicidi in nemmeno 24 ore. Il 4 luglio è stata una giornata nera per le carceri italiane. Tutti e tre under 35. Il primo a Livorno, 35 anni, padre di tre figli. Ha perso la vita in ospedale, dopo aver tentato il suicidio la notte tra l’1 e il 2 luglio. Il secondo a Firenze, nel carcere di Sollicciano, un 20enne. Un altro suicida. I detenuti si sono rivoltati dando fuoco ai materassi in due sezioni. Il terzo morto a Pavia, anche lui 20 anni. Gli ultimi tre si aggiungono al conteggio, macabro, di 54 suicidi nelle carceri italiane nel 2024: uno ogni tre giorni e mezzo. “Una situazione destinata a peggiorare” commenta il segretario di S.pp (sindacato di polizia penitenziaria) Aldo Di Giacomo. Le condizioni delle carceri italiane - Al 31 marzo 2024 nelle carceri italiane erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Il sovraffollamento, quindi, è ancora una problematica centrale. Ma la situazione è in peggioramento secondo i dati Antigone. Dalla fine del 2019 al termine del 2020, a causa delle misure adottate durante la pandemia, le presenze in carcere erano calate di 7.405 unità. Ma sono subito tornate a crescere. Prima lentamente, con un aumento delle presenze di 770 unità nel 2021, a cui però è seguita una crescita di 2.062 nel 2022 e addirittura di 3.970 nel 2023. Nell’ultimo anno l’aumento delle presenze è stato in media di 331 unità al mese. E quindi il sovraffollamento a livello nazionale cresce, attestandosi al 119,3%. “Un tasso di crescita allarmante, che se dovesse venire confermato anche nel 2024 ci porterebbe oltre le 65 mila presenze entro la fine dell’anno” denuncia nel proprio report annuale Antigone. Ma anche i servizi nei penitenziari preoccupano. In sei istituti visitati dall’associazione, in 99 non c’erano spazi esclusivamente dedicati alla scuola e in ben 30 non c’erano luoghi per le lavorazioni. Quasi in tutte le carceri era presente una biblioteca, ma solo in 54 era utilizzabile anche come sala di lettura. In 29 istituti mancava un’area verde per colloqui nei mesi estivi. Se invece si risale ai dati del 2023. Su 76 carceri prese in considerazioni da alcuni membri di Antigone. Nel 10,5% degli istituti non tutte le celle erano riscaldate e il 53,9% erano sprovviste di una doccia. Per quanto riguarda gli spazi comuni, nel 25% delle carceri non era presente una palestra (o non era funzionante), mentre nel 22,4% non era presente nemmeno un campo sportivo. E questo sarebbe un decreto per umanizzare il carcere? di Stefano Anastasìa L’Unità, 5 luglio 2024 Un decreto tardivo e insufficiente. Annunciato per la prima volta dal Ministro Nordio quasi un anno fa, quando nel carcere di Torino morirono due donne, una al termine di un lungo ed estenuante sciopero della fame, l’altra per un deliberato atto suicidario, il decreto-legge “in materia penitenziaria” e altro, varato mercoledì in Consiglio dei ministri, non affronta il problema del sovraffollamento e della tragica scia di suicidi che si porta dietro. C’è voluto più di un anno a ripristinare la normativa anti-Covid che consentiva telefonate in deroga alle 4-5 al mese previste dall’ordinamento, che ora diventeranno ordinariamente sei. Un cambiamento quasi impercettibile, se non fosse per quella facoltà espressamente riconosciuta alle direzioni degli istituti di concederne altre per mantenere e rafforzare le relazioni familiari. E dalle misure anti-Covid è ripresa anche l’idea di affidare alla Cassa delle ammende il finanziamento della collocazione in strutture di accoglienza delle persone indigenti e prive di un domicilio che possano accedere alle misure penali di comunità. Sarà istituito un albo di enti accreditati presso la direzione generale dell’esecuzione penale esterna che dovrebbe facilitare la decisione del giudice di consentire l’esecuzione penale esterna a persone senza reddito e dimora. Nulla che non fosse già ora possibile, come è stato possibile durante il Covid, ma evidentemente si spera che l’accreditamento da parte del Ministero della giustizia possa rassicurare i giudici sul buon esito della misura. Vedremo … Nulla da dire sulle necessarie assunzioni di personale dirigenziale e di polizia, anche se si consente un’ulteriore riduzione della formazione iniziale degli agenti di polizia, che d’ora in poi potrà essere di soli quattro mesi. Pura propaganda, invece, il divieto di accesso ai programmi di giustizia riparativa per i detenuti in 41bis: evidentemente qualcuno al Ministero o in maggioranza non ha ancora capito in cosa consiste il regime speciale antimafia … Insomma, qualche sciocchezza e qualche piccola cosa ragionevole, di segno molto diverso dal ddl sicurezza, apertamente illiberale e reazionario, in questi giorni in discussione alla Camera. Ma se questi sono i primi passi verso l’umanizzazione del carcere di cui ha parlato il Ministro Nordio in conferenza stampa, troppi sono quelli ancora da fare. Il problema di questo decreto, infatti, non è tanto quel che c’è, quanto quel che manca. Sul punto fondamentale, che costituisce la ragione principale di necessità e urgenza di un decreto-legge sul carcere oggi, il sovraffollamento e le morti per disperazione, il provvedimento governativo non dice praticamente nulla, limitandosi a sollevare i magistrati di sorveglianza dalla valutazione periodica dei requisiti per il riconoscimento della liberazione anticipata, che viene posposta a fine pena, come di fatto già accade, con mille problemi per la ricostruzione del percorso detentivo di ogni singolo detenuto. Sì, certo, il condannato conoscerà sin dall’inizio della sua pena di quanto potrà essere ridotta in virtù della sua attiva partecipazione “all’opera di rieducazione”, ma comunque il magistrato di sorveglianza dovrà avvalorare quella premonizione e, se è difficile prevedere l’efficacia semplificatoria della nuova procedura, certo neanche un giorno in meno di pena ne verrà ai detenuti. Perché il punto è esattamente questo: questo non è un decreto “svuota-carceri”, come si affannano a ripetere fieramente tutti gli esponenti della maggioranza, mentre quello che servirebbe è esattamente svuotare le carceri: dei condannati a pene ridicole, che impediscono qualsiasi trattamento penitenziario che non sia la mera custodia, e dei condannati a fine pena, che potrebbero essere accompagnati in un reinserimento sociale anticipato. Erano 15.849 i detenuti con un residuo pena inferiore a due anni al 31 dicembre dello scorso anno (tra qualche giorno sapremo il dato più recente), mentre i detenuti in eccesso sui posti regolamentari effettivamente disponibili al 30 giugno di quest’anno erano 13.902. Con un provvedimento di amnistia e di indulto di soli due anni (per reati puniti con una pena massima di due anni e per condannati con un residuo pena inferiore a due anni), come d’incanto non ci sarebbe più sovraffollamento, il personale sarebbe in grado di gestire gli istituti penitenziari senza gli affanni di oggi e il governo potrebbe persino mettere in opera le sue idee di riforma del sistema penitenziario, quali che esse siano. Così, invece, i detenuti vivono in condizioni indegne, il personale non riesce a seguirli, e le frustrazioni degli uni e degli altri si manifestano nella rabbia e nella disperazione della violenza contro gli altri e contro se stessi. La prossima settimana, alla Camera, arriva in votazione l’aumento dello sconto di pena per buona condotta proposto dall’on. Giachetti: sarà il primo banco di prova, se non di un ulteriore piccolo passo in direzione della umanizzazione del carcere, almeno della comprensione di quale sia il problema e l’urgenza di fronte a cui siamo. Il decreto che non svuota le carceri ma che contribuirà a riempirle di Adriano Sofri Il Foglio, 5 luglio 2024 Il decreto, ha detto Carlo Nordio, punta solo a umanizzare il trattamento dei detenuti. E a riempire le patrie galere non sarebbe il governo, ma i magistrati. Intanto nelle celle, però, non si arresta il fenomeno dei suicidi. Uno che è stato in galera, quando è a piede libero, finisce per somigliare agli altri. A volte è addirittura meno tatuato. Qualcosa gli resta, nei sogni, o l’abitudine a camminare avanti e indietro nelle sale d’aspetto invece di star seduto. Ma succede anche a lui di fottersene. Di dirsi che tanto lo sa, che non cambia niente, tutt’al più fa più schifo oggi di ieri, e domani di oggi. Però mercoledì ho sentito un telegiornale annunciare l’approvazione del decreto “Svuotacarceri”, e sono trasalito. Lo chiamano addirittura così, il governo, i telegiornali? Non soltanto i forcaioli dall’anima e la lingua di sbirro? Il decreto non svuota carceri, e per qualche codicillo contribuirà a rimpinzarle. Ieri mattina Flavia Fratello per “Stampa e regime” ha dedicato alla cosa una rassegna esauriente e vibrante. Allora ho sentito che il ministro Nordio, Dio lo perdoni, aveva chiesto ai giornalisti di evitare di chiamare così il provvedimento, che non svuota niente e nessuno ma si limita a “umanizzare” il trattamento dei detenuti: hai detto niente. In una cronaca ho letto che il ministro ha dichiarato: “Renderemo molto chiari ai detenuti i termini per godere della liberazione anticipata”. C’era stato un problema di comunicazione, dunque. Il ministro ha anche avvertito che a riempire le carceri non è il governo ma i magistrati. I quali però applicano le leggi che fa il parlamento e piuttosto, in sua accanita vece, il governo. Ma è vero che la divisione del lavoro fra chi infligge la pena e chi la fa eseguire è lo schermo dietro il quale si ripulisce il doppio lavoro sporco. Per il giudice c’è solo la pena - una cifra, un numero di anni - e non la persona. Per l’esecutore non c’è né la persona né il numero. Però le telefonate permesse passeranno da quattro a sei: un passo notevole nel paese in cui si è solennemente messa all’ordine del giorno la questione della mutilazione sentimentale e genitale dei corpi reclusi e di quelli dei loro cari. C’è l’altra questione seccante, dei suicidi. 49 finora, diceva il telegiornale, 51, il giornale di ieri. Sui suicidi in carcere non si è fatta abbastanza chiarezza. Com’è noto, la gente che si toglie la vita in una cella lo fa piuttosto indipendentemente dall’età e dalla lunghezza della pena da scontare, anzi non di rado è giovane e di condanne brevi, quando non è ancora in attesa di giudizio. I suicidi di galera rientrano solo in due categorie concorrenti, a seconda del punto di vista dell’osservatore. Se l’osservatore è un garantista, o banalmente una persona dotata di un qualche senso dell’umanità, il suicidio carcerario gli parrà una versione appena ipocrita della pena di morte. E i gestori del sistema penitenziario, e dell’intero sistema di giustizia, e dell’intera macchina sociale, correi in solido di omicidio volontario. Se l’osservatore è un intransigente e rigoroso fedele del primato della legge e della sicurezza, il suicidio carcerario, tanto più quando è così aggravato dall’andamento epidemico, gli parrà una forma di evasione di massa, di evasione maligna e vile, perché non più perseguibile se non dal vilipendio di cadavere, sottrazione del colpevole al castigo. Un torto alla società, una cattiveria. Peggiore della fuga con le lenzuola annodate, la fuga col nodo alla gola. Una terza opinione, più banale e mediocre come tutte le inclinazioni al quieto vivere, può suggerire che i suicidi siano, non certo la soluzione, ma un aiuto alla riduzione della sovrappopolazione carceraria. Un contributo al passaggio dal sovraffollamento all’affollamento - la sognata normalizzazione. C’è un argomento d’appendice per chi consideri l’esasperante condizione carceraria, che ha la capacità paradossale di peggiorare costantemente restando sempre uguale a se stessa. E’ quello che, con il più sincero rispetto, chiamerò il sovraffollamento degli addetti ai lavori. Sul sistema penale campa, per usare una parola grossolana, un universo colossale che comprende forze dell’ordine, impresari edilizi, giudici, giuristi, avvocati, cancellieri, periti, funzionari, impiegati, sottosegretari, carcerieri e dipendenti di ogni rango e grado, fornitori, trasportatori, medici, infermieri, psichiatri, psicologi, sociologi, docenti, cronisti, infiltrati, spie, delatori, eccetera, e inoltre assistenti, educatori, insegnanti, rieducatori, volontari, commentatori, scrittori, editori, religiosi… Rispetto ai tempi in cui i muraglioni delle galere non lasciavano davvero passare gli sguardi, c’è da registrare un progresso fenomenale. Ieri i giornali erano pieni di articoli, cronache, inchieste, prediche. Un sovraffollamento che tira l’altro. Il difficile compromesso di Carlo Nordio sulle carceri di Luca Sofri ilpost.it, 5 luglio 2024 Per preparare il testo del decreto sul sovraffollamento carcerario il ministro della Giustizia ha dovuto fare i conti con le resistenze di Lega e Fratelli d’Italia: e intanto in parlamento si discute una proposta più efficace. Mercoledì il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge presentato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e che tenta di far fronte al sovraffollamento nelle carceri. Il provvedimento era atteso da tempo per porre un qualche rimedio alle pessime condizioni delle persone detenute, tra le quali ci sono stati almeno 47 suicidi solamente nei primi sei mesi del 2024, ma ha avuto una genesi tribolata. Nordio aveva annunciato già a fine marzo un intervento in tal senso, e poi aveva dovuto fare i conti con l’opposizione di Lega e Fratelli d’Italia a qualsiasi ipotesi che consentisse la scarcerazione agevolata o anticipata. Nel frattempo Nordio aveva vagheggiato soluzioni alternative: la costruzione di nuove strutture, il riutilizzo di caserme dismesse per decongestionare gli istituti penitenziari sovraffollati, sveltire le procedure burocratiche con altri Stati per fare in modo che i detenuti stranieri potessero scontare la pena nel loro paese d’origine. Tutte ipotesi di cui si parla da anni, ma che sono dispendiose e di difficile realizzazione: e infatti, dopo varie discussioni, nessuna di queste è stata inserita nel testo finale del decreto approvato mercoledì. Il lungo stallo aveva peraltro generato polemiche politiche e un rischio di cortocircuito parlamentare. Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, ex esponente dei Radicali e da sempre molto impegnato a favore dei diritti dei detenuti, aveva fatto in modo, anche grazie a un prolungato sciopero della fame, di far discutere una sua proposta di legge che ridurrebbe efficacemente la permanenza in carcere dei detenuti con buona condotta, e quindi il sovraffollamento. Lega e Fratelli d’Italia avevano prima preso tempo. Poi, di fronte all’aumento dei suicidi in carcere di questi mesi, Forza Italia aveva annunciato di essere a favore della proposta di Giachetti - che potrebbe essere discussa e votata alla Camera il prossimo 17 luglio - e allora si è diffuso un certo imbarazzo: la maggioranza rischiava infatti di spaccarsi su una proposta dell’opposizione, una proposta che peraltro avrebbe reso evidente l’inerzia del governo. Perciò Nordio, d’accordo con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è intervenuto. Il testo del decreto-legge approvato dal Consiglio dei ministri mercoledì non è ancora noto nella sua interezza. Lo si conosce, oltre che dalle bozze non ufficiali che sono circolate, attraverso la sintesi che ne ha fatto il governo in un suo comunicato e attraverso la spiegazione che ne ha dato Nordio in conferenza stampa. Al di là dell’assunzione di mille nuovi agenti di polizia penitenziaria, che è prevista dal decreto ma non avverrà nel breve periodo, il decreto interviene sul problema del sovraffollamento carcerario con due misure. La prima consiste in una semplificazione delle procedure necessarie a concedere alla persona detenuta degli sconti di pena e la liberazione anticipata. Le persone che sono in carcere ma che hanno una cosiddetta buona condotta, cioè mostrano un atteggiamento rispettoso delle regole e una effettiva volontà di riscattarsi, hanno diritto a una riduzione di pena di 45 giorni ogni sei mesi. Nordio ha detto che queste agevolazioni saranno ancora decise dal giudice di sorveglianza, ma verrà anche introdotto un procedimento per cui al detenuto verrà spiegato subito, in maniera più chiara di quanto non avvenga oggi, quali sono gli sconti che potrà avere nel corso della sua permanenza in carcere. Nelle intenzioni del governo, in questo modo si farebbe da incentivo per la buona condotta, e aumenterebbero così il numero di persone rilasciate prima della scadenza originariamente stabilita. Un altro articolo del decreto introduce maggiori possibilità di accedere alle misure penali di comunità: sarà dunque agevolato il percorso che consente alle persone detenute con tossicodipendenze o con disagi psichici di scontare una parte significativa della loro pena in strutture residenziali che offrono percorsi di riabilitazione e riqualificazione professionale. Infine, per introdurre quello che Nordio ha definito un “piccolo aiuto psicologico”, verranno aumentate le possibilità di telefonate tra i detenuti (tranne quelli in regimi detentivi speciali) e i loro famigliari: si passerà da quattro a sei telefonate al mese consentite. Le norme introdotte sono il frutto di un compromesso complicato tra Nordio e i suoi sottosegretari, come di fatto il ministro stesso ha riconosciuto durante la conferenza stampa. Nordio ci ha tenuto a ribadire più volte che il decreto non è, come era stato definito nei giorni precedenti, uno “svuota carceri”, e che non ci sono “sconti lineari e automatici” di pena né “indulgenze gratuite”. E del resto in questi giorni sia il sottosegretario leghista Andrea Ostellari, sia quello di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro Delle Vedove, hanno più volte rinnovato le loro prese di posizione contro qualsiasi ipotesi che andasse in questa direzione. I parlamentari di Forza Italia hanno invece mostrato una reazione piuttosto tiepida, e alcuni di loro esprimono in maniera anonima una certa insoddisfazione: l’impressione tra loro è che il decreto non sia particolarmente coraggioso, né molto efficace nel risolvere in maniera concreta il problema del sovraffollamento delle carceri. L’emergenza del sovraffollamento, ormai, non è più un’emergenza ed è diventato un dato strutturale da anni. Secondo le informazioni diffuse dallo stesso ministero della Giustizia, il 31 maggio scorso risultavano presenti 61.547 detenuti nelle 189 carceri italiane, che però hanno una capienza di 51.241 posti: ci sono dunque almeno 10mila posti in meno, il che significa celle con troppi letti, spazi personali ridotti, possibilità di svolgere attività ricreative o formative compromesse, e in definitiva una condizione di vita pessima e degradante. Peraltro i posti effettivi sono meno di quelli formalmente registrati: 4.175 sono infatti inagibili, per via di lavori di ristrutturazione in corso o per la chiusura di alcuni padiglioni negli istituti penitenziari più vecchi. Per cui i posti mancanti, secondo il ministero, sono in effetti 14.471. Per ogni 100 posti disponibili nelle carceri, ci sono 131 detenuti. Ma se questa è la media, la situazione è particolarmente grave negli istituti più affollati: in 96 carceri sulle 189 totali, infatti, le presenze sono superiori al 130 per cento dei posti, e in alcuni casi si arriva al 229 per cento. Solo in 44 istituti ci sono tassi di occupazione non superiori al 100 per cento. I suicidi in carcere sono stati 61 nel 2020, 58 nel 2021, 84 nel 2022, 71 nel 2023. E sono 47 nella prima metà del 2024, con un dato aggiornato alla fine di giugno, cioè prima dell’inizio dei mesi estivi che sono tradizionalmente quelli più pesanti per le condizioni di vita in carcere, a causa del caldo. A fronte di questi numeri, Roberto Giachetti ha fatto in modo che la commissione Giustizia della Camera avviasse la discussione di una sua proposta di legge presentata nel novembre del 2022. Dopo quattro settimane di sciopero della fame, fatto insieme all’attivista radicale Rita Bernardini insieme alla quale aveva elaborato la proposta, Giachetti ha infine ottenuto che la proposta venisse inserita nel calendario dell’aula nella quota di iniziative riservate all’opposizione. Il 24 giugno scorso la Camera ha iniziato l’esame del provvedimento, su cui il voto finale è previsto per il 17 luglio. A differenza del decreto-legge di Nordio, la proposta di Giachetti introduce norme che avrebbero effetti immediati nel ridurre il numero dei detenuti. Il testo infatti prevede tra l’altro di aumentare da 45 a 60 giorni la riduzione di pena per ogni sei mesi, e con effetto retroattivo (l’ipotesi avanzata da Giachetti, e su cui sta trovando una convergenza in parlamento abbastanza trasversale, è di far iniziare l’effetto retroattivo dal 2020, a partire cioè dalla diffusione della pandemia da coronavirus). Verrebbe dunque ricalcolata, al ribasso, la durata della pena di migliaia di detenuti che potrebbero così ottenere una scarcerazione anticipata, e sgravare il sistema carcerario. Il vicepresidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis, di Forza Italia, ha annunciato negli scorsi giorni la disponibilità del suo partito a sostenere questa proposta, che ha il favore anche di Partito Democratico e di Alleanza Verdi e Sinistra. Si sono dichiarati ostili invece i deputati del Movimento 5 Stelle, da sempre su posizioni più dure in materia di giustizia, più in linea per certi aspetti con quelle di Lega e Fratelli d’Italia. La proposta di Giachetti avrebbe dunque scarse possibilità di successo in un’eventuale votazione alla Camera, proprio per questa convergenza tra grillini e destra, ma l’esito potrebbe comunque essere incerto e soprattutto la maggioranza si dividerebbe al suo interno, generando qualche imbarazzo al governo. Anche per questo i deputati di Lega e Fratelli d’Italia stanno valutando di chiedere un rinvio della discussione e della votazione della proposta di legge di Giachetti, facendo leva sul fatto che il governo è appena intervenuto sulla materia con un provvedimento d’urgenza, il decreto-legge di Nordio appunto, che dovrà ora essere approvato da entrambe le camere entro sessanta giorni. Ostellari: “Non svuotiamo le carceri, le cambiamo con meno burocrazia e più agenti” di Matteo Lorenzi La Verità, 5 luglio 2024 Il sottosegretario alla Giustizia dopo l’approvazione del dl sul sistema penitenziario: “Nessuno sconto di pena, rendiamo effettivi quelli che già ci sono. Settemila detenuti possono andare in comunità: stipuleremo accordi”. “Da una parte c’era la proposta Giachetti, sostenuta dall’opposizione: aumentare gli sconti di pena per svuotare le carceri, senza far lavorare i detenuti. Il governo, invece, ha scelto il buonsenso: mettere chi sbaglia davanti alle proprie responsabilità, senza premi, ma assicurando a chi lo merita la possibilità di imparare un mestiere e riabilitarsi”. Con queste parole il sottosegretario alla Giustizia in quota Lega, Andrea Ostellari, ha commentato il nuovo decreto carceri varato dal governo. Una misura che, come spiega il sottosegretario, non contempla alcuno nuovo sconto di pena. Della situazione riguardante le carceri italiane ne abbiamo parlato spesso, in questi mesi, in relazione alla vicenda di Ilaria Salis. Su che cosa interviene il nuovo decreto approvato dal Consiglio dei ministri? “Il governo ha ereditato una situazione complicata sotto molteplici profili. Per troppi anni, per esempio, il tema delle assunzioni non è mai stato affrontato. Mi riferisco alla polizia penitenziaria, ma non solo: ci sono anche funzionari pedagogici, direttori, comandanti di istituto. Avevamo realtà prive del vertice di comando, una cosa inaccettabile. Ci stiamo muovendo per invertire una rotta che avrebbe portato il Paese al fallimento del sistema dell’esecuzione penale e in questo provvedimento non facciamo altro che confermare la nostra intenzione, innanzitutto con nuove e straordinarie assunzioni per quanto riguarda il corpo di polizia penitenziaria”. Quante saranno di preciso? “Mille come dotazione straordinaria per quanto riguarda gli agenti, più una serie di interventi che mirano a dare una soluzione anche a coloro che ricoprono un ruolo di dirigenza all’interno del corpo. Quello su cui, però, tutti si aspettavano risposte e su cui ci siamo concentrati, è la questione del carcere e dei detenuti. Penso, in particolare, ai temi della liberazione anticipata e dell’esecuzione esterna. Lo abbiamo voluto fare, però, con un messaggio chiaro: no agli sconti di pena, che sono solo un palliativo”. Qual è la differenza rispetto al sistema precedente? “Oggi, quando un soggetto è condannato in via definitiva, viene emesso un ordine di esecuzione in cui compare l’anno in cui si concluderà ufficialmente la pena. Con il nostro provvedimento, invece, nell’ordine di esecuzione ci sarà sia il termine ufficiale, sia la scadenza ridotta - secondo gli sconti già in vigore - in caso di buona condotta. Questa pena inferiore diventerà effettiva se il detenuto parteciperà a un serio percorso rieducativo. L’altro aspetto su cui incide la riforma sono i tempi. Oggi il tribunale, ogni semestre di pena maturata, deve valutare la liberazione anticipata, circa 45 giorni ogni sei mesi. Questo lavoro implica un numero di circa 220.000 fascicoli ogni anno. Con il nuovo procedimento, invece, la decisione sarà presa sempre dal magistrato ma solo quando viene richiesto, cioè quando, ad esempio, viene fatta istanza per ottenere un permesso premio o una misura alternativa. Se, invece, uno non chiede nulla rimane in carcere e, 90 giorni prima della scadenza già oggetto di detrazione, il magistrato di sorveglianza deciderà se concedere o no questa misura. In questo modo la valutazione diventa più facile, senza perdite di tempo e senza la produzione di fascicoli complessi, che sono una problematica per gli uffici e per il personale degli istituti. Si immagini 61.000 detenuti più altri 130.000 in esecuzione esterna ogni sei mesi. La nostra è un’operazione di snellimento della burocrazia che, di fatto, rende solo più effettivo ciò che oggi già c’è”. Che impatto avrà questa nuova procedura sui detenuti?”se è vero che il 98% di chi partecipa ad attività formative e lavorative poi non delinque più, si capisce perché la strada giusta non siano gli sconti. In passato gli svuota carceri hanno sì tamponato il problema del sovraffollamento, ma hanno scaricato sulla comunità esterna soggetti che, avendo trascorso la detenzione guardando il soffitto, senza imparare nulla, si sono ritrovate a commettere gli stessi reati, rientrando poi nel sistema detentivo con maggiori restrizioni per l’aggravante della recidiva. La nostra misura, invece, rende giustizia agli stessi detenuti, i quali sapranno che comportarsi bene, imparare un mestiere e formarsi non è solo un beneficio intimo, ma qualcosa che conduce a una via d’uscita diversa”. Secondo lei questa misura avrà un impatto anche sul sovraffollamento? Potranno uscire più persone? “Le persone che potranno uscire dal carcere domani sono quelle che potevano uscire anche ieri. Noi abbiamo solo semplificato la procedura, oltre a fare un ulteriore investimento sulle comunità esterne. Queste potranno accogliere soggetti che già oggi potrebbero uscire a scontare la pena (subito almeno 7.000 detenuti), ma che non vedono una risposta positiva alla loro istanza perché magari manca un domicilio idoneo. Attenzione: noi non diamo le case a chi non le ha, ma impegniamo i detenuti in un percorso di vera rieducazione presso strutture in grado di offrire formazione e attività di lavoro, per garantire ai reclusi che vengono così responsabilizzati - un recupero effettivo, reale, dignitoso. Quindi sì, questa è una misura anche per combattere il sovraffollamento, ma non è una misura tampone”. Quanto tempo servirà affinché questa riforma vada a regime? “Direi un po’ di mesi perché, dal punto di vista tecnico, devono prendere forma tutte le strutture già attivate. Mi riferisco agli uffici ma anche alle comunità, già esistenti sul nostro territorio, che vorranno partecipare a queste procedure garantendo gli aspetti di cui parlavo prima. In passato ci sono stati provvedimenti simili che, però, hanno offerto soltanto il domicilio, con il risultato che i soggetti coinvolti non imparavano nulla. Quindi la novità è questa nuova visione, peraltro presente nei principi della nostra Costituzione”. In conclusione, crede che le nuove assunzioni possano aiutare anche sul fronte dei suicidi? “Sicuramente sì, ma la risposta del governo a questo problema è più ampia. Elencare solamente il numero totale di suicidi è un’operazione che non rende dignità a quelle persone, perché ogni suicidio ha una storia a sé e non è detto che dietro ci sia solamente il tema del sovraffollamento. La questione è molto più delicata e comprende molti aspetti, per questo abbiamo stanziato 5 milioni per figure come psicologi ed altri funzionari pedagogici”. Paola Severino: “L’emergenza carcere è una priorità, bisogna combattere la recidiva” di Irene Famà La Stampa, 5 luglio 2024 L’ex ministra della Giustizia: “La paura di uscire senza una prospettiva è un dramma. I suicidi sono frutto di abbandono e lontananza dalla famiglia. Serve attenzione nei trasferimenti”. “L’emergenza carceri è da affrontare nell’immediato. Con piccoli passi concreti: combattere il senso di isolamento e abbandono del detenuto, pensare ad attività che consentano un reale inserimento in società. Combattere la recidiva, che è la causa più profonda del sovraffollamento, dev’essere la priorità”. L’ex ministra della Giustizia Paola Severino offre un’ampia riflessione sulla situazione carceraria. Una realtà che come rappresentante delle istituzioni, come avvocata, come presidente della fondazione Severino Onlus che si occupa di legalità, conosce bene. Il 2024, con 47 suicidi in carcere nei primi sei mesi, rischia di detenere un triste primato. Come mai? “I picchi di suicidi in carcere purtroppo sono ricorrenti”. Fragilità? Senso di isolamento? “Una delle prime cause è il senso di abbandono, la lontananza dalla famiglia. A Torino incontrai un detenuto che aveva cercato di impiccarsi. Sa cosa mi disse?”. Cosa? “Che volevano trasferirlo in un altro carcere. Lontano dai suoi affetti. Per questo penso sia importante curare la distribuzione dei detenuti in modo che siano vicini alle famiglie”. Nelle carceri, denunciano i garanti, manca la minima attenzione alla dignità umana. Affermazione esagerata? “Chiunque di noi, messo al chiuso per 24 ore senza alternativa di pensiero e azione, arriverebbe a pensare al suicidio. Magari non lo metterebbe in atto, ma ci penserebbe. Per questo bisogna agire su più fronti. A partire da lavori e attività pensate per il reinserimento sociale e per consentire di vivere la detenzione in maniera meno drammatica”. Molti detenuti, una volta tornati in libertà, non hanno né una casa né un lavoro. Quali prospettive una volta scontata la pena? “La paura di uscire dal carcere senza una prospettiva futura è un dramma. E il detenuto che esce dal carcere senza aver affrontato un percorso rieducativo inevitabilmente tornerà a delinquere. Con un danno enorme per la collettività. Vorrei fare un esempio concreto”. Prego. “Un detenuto a Regina Coeli mi disse che, una volta libero, l’unico modo che aveva trovato per mantenere la figlia era tornare a fare il rapinatore. Una frase semplice che racchiude un enorme fallimento sociale”. Secondo i dati, la mancanza del lavoro post carcerario è la causa principale della recidiva. Come risolverla? “Proponendo attività che consentano di imparare un mestiere”. Per questo servono spazi e personale, che al momento mancano... “Per creare spazi occorre tempo. Ma mentre si pensa a come risolvere la questione strutturale, bisogna affrontare la situazione emergenziale. Con il contributo delle istituzioni carcerarie e del volontariato”. Pensa a un impegno anche delle imprese? “Certamente. In Italia ci sono diversi settori nei quali manca il personale. Mancano camerieri di sala nei ristoranti, mancano operai specializzati nella costruzione dei ponteggi. Se alle imprese che assumono ex detenuti venissero riconosciuti sgravi fiscali, si creerebbe un circolo virtuoso”. Il ministro Nordio ha parlato di un decreto “per umanizzare il carcere”. Le proposte di questo Governo seguono la strada giusta? “La via mi sembra corretta. Di certo è l’unica da adottare in una situazione di emergenza, mentre si affronta in una prospettiva più ampia, ma che richiede tempo, il grande tema dell’edilizia carceraria. L’umanizzazione del carcere può avvenire in varie forme, ad esempio rendendo i detenuti consapevoli dei loro diritti e delle loro opportunità”. Tramite interpreti? Educatori? “Certamente si. Per questo portiamo anche gli studenti dell’Università Luiss a curare uno sportello di counseling per dare risposta alle domande dei detenuti”. I problemi delle carceri sono tanti e intrecciati tra loro. Da cosa partire? “La vera soluzione del problema sta nel dare al carcere una struttura educativa che eviti la recidiva. Solo così si combatterà efficacemente il sovraffollamento, garantendo però ai cittadini maggiore sicurezza”. Molti detenuti soffrono di fragilità psichiche o di dipendenze. Non dovrebbero essere in comunità? “I centri sono pochi e con posti limitati”. Da un lato si denuncia il sovraffollamento, dall’altro si spalancano le porte del carcere con maggiore facilità. Non è un controsenso? “Questo problema riguarda soprattutto i minorenni. In questo caso è il tema dello spaccio ad essere prevalente. E se di certo non si può lasciare libero uno spacciatore, anche se minore, non si può nemmeno pensare che il carcere sia la soluzione. Anche in questo caso, la chiave sono le attività lavorative”. Anche tra i minori il tasso di recidiva è molto alto... “È vero, ed ecco che torniamo a parlare del sovraffollamento. I ragazzi hanno tutta la vita davanti. Ma se la loro vita è continuare a delinquere, allora le carceri saranno sempre sovraffollate. E non basterà costruirne di nuove”. Il Consiglio d’Europa boccia (di nuovo) le carceri italiane di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 luglio 2024 Il sistema carcerario italiano resta tra i peggiori in Europa in termini di sovraffollamento, suicidi fra i detenuti e carcerazione preventiva. A confermarlo è l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, Space I, pubblicato pochi giorni fa, proprio mentre in Italia si discuteva di quali misure adottare per far fronte all’emergenza carceraria. Ieri il numero dei detenuti che da inizio anno si sono tolti la vita è balzato a 52, un record storico. Il rapporto, aggiornato al 31 gennaio 2023, dipinge per l’Italia un quadro peggiore di quello ungherese, paese su cui, in virtù del caso Salis, si sono concentrate ultimamente tante attenzioni. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è del 109 per cento, con 56.127 detenuti per 51.403 posti. In verità, oggi sappiamo che la situazione è persino peggiorata: il numero di detenuti è arrivato a 61.480, a fronte di 47 mila posti effettivamente disponibili (a causa della chiusura di diverse sezioni). Tutto ciò fa schizzare il tasso di sovraffollamento al 130 per cento. In Ungheria il tasso è del 111,5 per cento. Il rapporto del Consiglio d’Europa segnala poi che il 27,6 per cento dei detenuti, quasi uno su tre, si trova in carcere pur essendo ancora in attesa di giudizio (in Ungheria è il 24,5 per cento). Ma il dato più significativo, e anche drammatico, riguarda i suicidi. Il rapporto infatti ci ricorda che nel 2022 in Italia si sono suicidati 84 detenuti, per un tasso di 15 suicidi ogni 10 mila detenuti, contro il 3,5 in Ungheria. Tradotto: in Italia i detenuti si uccidono quattro volte di più che in Ungheria. Ovviamente su altri fronti il rapporto del Consiglio d’Europa segnala criticità maggiori in Ungheria rispetto all’Italia, ad esempio sul tasso di incarcerazione rispetto alla popolazione complessiva. I dati che abbiamo citato, però, non lasciano spazio a dubbi e confermano tutta l’arretratezza del sistema penitenziario italiano. Una situazione che sta purtroppo producendo effetti soprattutto sul numero di suicidi in carcere, che sta raggiungendo cifre senza precedenti. Solo ieri è giunta notizia della morte di tre detenuti. Due di questi avevano tentato il suicidio nei giorni scorsi, uno nel carcere di Livorno, l’altro a Pavia. Un altro detenuto di 20 anni si è ucciso nel carcere di Firenze. Il numero di detenuti che si sono tolti la vita da inizio anno è così arrivato a 52, anche se il peggio sembra dover ancora venire. Luglio e agosto sono infatti i mesi più difficili per i detenuti a causa del forte caldo e della carenza di volontari. Il governo non sembra pienamente consapevole della gravità dell’emergenza vissuta dal sistema carcerario. Lo conferma il decreto adottato mercoledì, che non prevede alcuna misura capace di produrre effetti immediati per ridurre il sovraffollamento nelle carceri, ma solo interventi che avranno bisogno di diversi mesi per essere attuati. Sorprende, a dire il vero, anche il silenzio di parte dell’opposizione. Un nome su tutti, il più simbolico: Ilaria Salis. “Se dovessi essere eletta sicuramente mi occuperò di diritti umani dei detenuti in Europa e in Italia”, dichiarò l’attivista antifascista durante la campagna elettorale per le europee. Ora che è stata eletta, Salis, diventata celebre proprio per il disumano trattamento subìto nelle carceri ungheresi e candidata sull’onda di una (inaspettata) scoperta dell’importanza dei diritti dei detenuti da parte del mondo progressista, non dice una parola. Nulla sui 51 esseri umani che hanno deciso di togliersi la vita nelle carceri italiane, il più delle volte impiccandosi con un lenzuolo o inalando gas dai fornellini. Sono settimane che il dibattito politico è segnato dal tema dell’emergenza carceri e dei suicidi, ma Salis incredibilmente non parla. E chissà se è proprio il suo essere diventata eroina anti Orbán a impedirle di intervenire. Come confermato dal rapporto del Consiglio d’Europa, la campagna nata attorno a Salis si è basata su una grande ipocrisia di fondo, e cioè che l’Italia potesse dare lezioni a qualcuno (come l’Ungheria) sul trattamento inumano dei detenuti. Non è così, e prendere posizione per condannare la vergognosa situazione delle carceri italiane, che sono persino peggiori di quelle ungheresi, costituirebbe per Salis una clamorosa smentita di tutta la retorica che l’ha portata a Strasburgo. Il diritto di sentirsi padre anche dietro le sbarre di Luciano Moia Avvenire, 5 luglio 2024 Una sentenza della Consulta di qualche giorno fa ha stabilito che non può essere vietata la telefonata ai figli minori neppure ai mafiosi. Difesa della responsabilità e speranza di riscatto. Maternità e paternità sono condizioni irrevocabili. Una storia d’amore tra un uomo e una donna può finire, il legame tra genitori e figli no. Può essere intenso e profondo, oppure contrastato e difficile. Ma è indissolubile e definitivo, anche nelle situazioni più estreme. Anche quando uno dei genitori sceglie di allontanarsi dalla famiglia per vivere con un nuovo partner. Oppure è costretto a stare lontano perché, per esempio, viene riconosciuto colpevole di un reato che prevede un periodo più o meno lungo di reclusione. L’esercizio della genitorialità da parte delle persone carcerate, forzatamente limitato, non può mai essere cancellato, almeno in linea di principio. Esistono certamente situazioni di cui lo stile di vita criminale rischia di contagiare in modo così grave la crescita dei figli da rendere indispensabili interventi di protezione e di tutela, compresi nei casi estremi l’allontanamento dei minori dalle famiglie di origine. Quando però i genitori carcerati manifestano la volontà sincera di continuare, per quanto possibile, a mantenere vivi i rapporti con i figli minori, anche solo attraverso il telefono, l’amministrazione carceraria è tenuta a fare il possibile per non recidere questo legame. L’ha detto la Corte costituzionale in una sentenza di qualche settimana fa, passata un po’ sotto silenzio, che valuta “irragionevole un regime più restrittivo a carico di condannati per reati di criminalità organizzata che abbiano accesso a benefici penitenziari”. I giudici hanno ricordato che chi è condannato per uno dei reati elencati nel primo comma dell’articolo 4-bis, i cosiddetti “reati ostativi” - solitamente previsti per terrorismo internazionale, grave eversione contro l’ordine democratico, mafia - viene escluso dai cosiddetti benefici penitenziari che prevedono anche la possibilità di telefonare ai familiari una volta al giorno o in altre circostanze urgenti valutate caso per caso dalla direzione carceraria. Ma, al di là di questi aspetti tecnici, ci sembra giusto qui cogliere lo spunto sancito dalla Consulta, secondo cui il ruolo di genitore va salvaguardato, per quanto possibile, anche nei confronti di chi - come nel caso in questione - sta scontando una grave condanna per reati mafiosi. Sempre che abbia dimostrato in modo chiaro la volontà di interrompere i collegamenti con l’organizzazione criminale. Quella persona, ci dice in sostanza la Consulta, ha il diritto-dovere di continuare a sentirsi padre, anche soltanto telefonando ai figli minori, e dev’essere messa nella condizione di trovare un pur minima possibilità per non annullare completamente la sua figura genitoriale. Difficile, certamente, ma è una fiammella che va tenuta accesa, una speranza collegata anche ai percorsi di recupero e di riabilitazione della persona che certamente ha sbagliato ma che ora, magari grazie anche all’impegno di continuare ad essere minimamente significativo agli occhi dei figli, attende il momento della telefonata per dare corpo alla sua volontà di riscatto. Parlare di genitorialità fragile, precaria, difficile può in questi casi essere quasi un eufemismo, ma è giusto ricordare che esistono anche genitori come questi. Uomini - e donne - che, malgrado portino nel cuore il peso di errori gravissimi, non smettono di sperare che il futuro dei figli possa essere migliore del loro. È un pensiero che ci sentiamo di rivolgere in questi giorni a tutti i genitori, a tutte le mamme e a tutti i papà che, dopo il terribile omicidio di Pescara, si sentono sotto accusa, inadeguati, a rischio fallimento. Se c’è chi, anche dietro le sbarre di un carcere, non vuole abdicare al suo quasi impossibile ruolo di “padre a distanza”, sentendosi comunque vicino ai figli grazie al telefono, allora possiamo farcela anche noi che ai figli non siamo mai lontani eppure, in troppe situazioni, non riusciamo a far loro sentire l’unica vicinanza che conta, quella del cuore. Addio abuso d’ufficio, vince Nordio. Ma c’è un nuovo reato di Simona Musco Il Dubbio, 5 luglio 2024 Le opposizioni contro il ministro: torna il peculato per distrazione, ma colpirà solo i sindaci. Il ministero smentisce: “Sono cose completamente diverse...”. Abuso d’ufficio cancellato e traffico di influenze depotenziato. Con 170 sì e 77 no, la Camera ha approvato in via definitiva l’articolo 1 del ddl Nordio, la norma che abolisce l’articolo 323 del codice penale e riduce l’ambito di applicazione del 346 bis, dopo l’ok del Senato. Il voto sul ddl terminerà martedì pomeriggio. Nel frattempo, però, il governo porta a casa come risultato una delle promesse elettorali più trasversali, capace di mettere d’accordo sindaci di destra e sindaci di sinistra. Prima del voto, le opposizioni avevano tentato di rimandare in Commissione l’articolo 1, su richiesta del deputato dem Federico Gianassi, secondo cui “l’abrogazione dell’abuso d’ufficio lascerebbe sacche di impunità nel nostro Paese, perché renderebbe non più penalmente rilevante l’abuso di potere del pubblico funzionario per procurare un vantaggio ingiusto a sé o ad altri o per discriminare un cittadino”. Osservazioni alle quali il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva sempre risposto “dicendo che il nostro sistema dei reati contro la pubblica amministrazione ha un armamentario enorme, inscalfibile, e che non c’era bisogno di alcuna modificazione”. Ma nel dl Carceri, afferma il deputato, sarebbe stato previsto “in fretta e furia” un nuovo reato “che almeno riduce la portata di quell’abrogazione”. Da qui una richiesta urgente di informativa al ministro, respinta assieme a quella che chiedeva il ritorno in Commissione. A suscitare perplessità anche in chi - come il deputato di Azione Enrico Costa - è favorevole alla cancellazione dell’abuso d’ufficio è l’articolo sulla “indebita destinazione di denaro o di cose mobili”, considerato dalle opposizioni un modo per aggirare il rischio di incorrere in procedure di infrazione e salvare il “peculato per distrazione”. La fattispecie, inserita all’articolo 314-bis del codice, prevede che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina a un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. “Forse - ha commentato il dem Andrea Orlando - ci potrebbe aiutare il ministro a capire perché è stato introdotto questo nuovo reato. Per dare un segnale all’opinione pubblica, per compensare il fatto che cancellate l’abuso d’ufficio? Perché qualcuno in Europa vi ha fatto notare che così è troppo debole il contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione? O perché, semplicemente, non vi eravate accorti di un vuoto rispetto a ciò che ha detto, in più occasioni, il ministro nel corso di questi mesi. Cosa è successo questa settimana che vi ha fatto decidere di intervenire e utilizzare la decretazione d’urgenza? Ecco, questa è la domanda alla quale non ha risposto praticamente nessuno. Noi avremo un ordinamento nel quale non c’è tutela penale contro l’abuso di potere, ma c’è contro i rave”. Accuse rispedite al mittente da Nordio, secondo cui “il peculato per distrazione è un’ipotesi completamente diversa” rispetto all’abuso di ufficio, ha detto parlando con i cronisti in Transatlantico. “È diverso il bene protetto - ha aggiunto -. Qui si parla di distrazione, il che significa veicolare le risorse che hai a disposizione verso una destinazione che non è quella fisiologica. Quindi, non ha niente a che vedere con l’abuso di atti di ufficio che prescindeva dalla distrazione. Il bene protetto e la struttura del reato sono completamente diversi dall’abuso d’ufficio. Quando abbiamo presentato l’anno scorso il disegno di legge, avevamo già detto che avremmo provveduto in altra sede a colmare eventuali mancanze di coordinamento con altre norme penali, ma ripeto, questo non ha niente a che vedere con l’abuso di ufficio”. Un concetto ribadito in aula anche dal viceministro Francesco Paolo Sisto: “Si tratta di una fattispecie che non ha nulla a che vedere con quelle che sono in discussione in questo provvedimento”, ha sottolineato, così come fatto dalla relatrice di FdI Carolina Varchi. Ma le “rassicurazioni” non hanno convinto le opposizioni: il peculato per distrazione, ha commentato Devis Dori di Avs, è “una sorta di abuso d’ufficio soft. Evidentemente, presumo vi sia stato anche un intervento da parte del Presidente Mattarella, chiedendo al ministro Nordio di colmare quel vuoto normativo, che ci avrebbe posto in una posizione completamente diversa rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Unione europea”. Anche perché la questione, ha aggiunto Orlando, è che il nuovo reato “rimette una spada di Damocle sulla testa degli amministratori, ma non la rimette sulle altre categorie interessate dalla fattispecie dell’abuso d’ufficio: i magistrati, le Forze di polizia, i medici e i professori universitari. Se queste erano le categorie che volevate tutelare, ce lo potevate dire tranquillamente. Mi chiedo se il gioco valeva la candela: abolire la tutela penale rispetto all’abuso di potere per creare una zona franca di categorie che, non avendo spesso i loro comportamenti illegittimi contenuto patrimoniale, non avranno nessun tipo di deterrenza e nessun tipo di controllo”. Critico l’ex procuratore antimafia e deputato M5S Federico Cafiero de Raho. “Nella mia lunga esperienza di magistrato ho verificato come sia falsa la retorica della necessità di abolire il reato di abuso d’ufficio per superare la paura della firma. Al contrario, ho visto come i sindaci desiderino l’esistenza di una norma che sanzioni la violazione della buona amministrazione e dell’imparzialità”. Inoltre, verrebbe a mancare “un presidio per la difesa dei cittadini. State legittimando l’esercizio del potere senza il rispetto delle regole”. Cosa succede con la cancellazione dell’abuso d’ufficio e con l’introduzione del peculato per distrazione? di Liana Milella La Repubblica, 5 luglio 2024 Con il giurista Gian Luigi Gatta analisi a 360 gradi delle ragioni che hanno portato il Quirinale a consigliare vivamente al governo di mantenere in vita una parte del reato che sta per essere cancellato per evitare i fulmini della Ue. Dal 15 giugno 2023 il Guardasigilli Carlo Nordio vuole abolire il reato di abuso d’ufficio. Che significa? Vuol dire cancellare l’articolo 323 del codice Rocco del 1930, modificato già cinque volte da allora, l’ultima nel 2020, con riduzioni progressive, e che rappresenta - come ci dice il giurista di Milano Gian Luigi Gatta che ha seguito con Repubblica tutta la vicenda - “una figura centrale per combattere i reati contro la pubblica amministrazione”. Si perde il primo gradino contro la corruzione, visto che la Camera lo ha appena cancellato? Gatta è certo: “Peccato. Perché questo reato era necessario per punire abusi di potere commessi dai pubblici funzionari senza pretendere una tangente, e quindi fuori dai casi più gravi di corruzione, che però avrebbero meritato di restare reato”. Quali potrebbero essere tuttora i casi? Rimarranno scoperti quelli in cui un funzionario pubblico procura a sé o ad altri, come prevedeva l’abuso d’ufficio, “un ingiusto vantaggio” violando la legge, oppure perché non si astiene pur trovandosi in pieno conflitto d’interessi, o addirittura perché danneggia il cittadino vittima di un sopruso. Fatti puniti fino a oggi col carcere da uno a quattro anni. Salteranno dei processi? Qui Gatta non ha dubbi tant’è che da un anno lo dice in tutte le audizioni parlamentari. “Sicuramente cadranno, a meno che il giudice non ritenga di riqualificare il fatto contestando un reato differente”. Il pubblico funzionario rischia un altro reato più grave? Questo pericolo c’è già oggi. Per esempio, a seconda dei casi, può essere contestato il peculato (condanna fino a 10 anni e sei mesi), l’omissione d’atti d’ufficio, la turbativa d’asta oltre ai reati di falso in atto pubblico. Cadranno le condanne passate? Anche qui Gatta lo dice da tempo e cita i dati del casellario giudiziale di via Arenula aggiornati al 2022 che parlano di oltre 3.600 condanne dal 1997 ormai passare in giudicato. Per tutte potrà essere chiesta la revoca. Il giudice può concederla, salvo che non individui un reato, magari più grave. “Com’è scritto nell’articolo 2 del codice penale, al comma 2, e all’articolo 673 del codice di procedura penale” puntualizza Gatta. E se per caso il soggetto si trovasse in carcere che succede? Tranchant Gatta: “Dovrà essere scarcerato subito”. Nordio dice che nessuna condanna sarà cancellata... Forse il Guardasigilli dimentica che proprio il codice penale dice che “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Quindi via pure le pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici. E l’essere un recidivo in caso di altri reati. Allora, perché adesso nel decreto carceri Nordio ha previsto una nuova norma che disciplina “l’indebita destinazione di denaro o cose mobili” che assomiglia molto al soppresso abuso d’ufficio? Da docente di diritto penale Gatta è netto: “Tutti i giuristi sanno che dagli anni Novanta in poi la Cassazione riconduce all’abuso d’ufficio il cosiddetto peculato per distrazione, che si verifica quando una somma di denaro o un bene pubblico viene utilizzato dal soggetto in modo improprio, cioè per finalità differenti da quelle per le quali era stata prevista”. Ma Nordio adesso, alla Camera, ha detto che la nuova norma “non ha assolutamente rilevanza con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio” perché “il bene protetto e la struttura del reato sono completamente diversi”. All’esame il Guardasigilli sarebbe promosso o bocciato? Purtroppo, come abbiamo visto, sono gli stessi giudici a sostenere che il peculato per distrazione, cioè il reato che proprio lui ha introdotto, viene già punito come un abuso d’ufficio. E ci sono fiumi di sentenze in proposito, che i tecnici della presidenza del Consiglio e del ministero della Giustizia hanno già citato espressamente nella relazione illustrativa del decreto Draghi del 2022. Numero progressivo 156. Oggetto: attuazione della direttiva Ue 2017/1371 sulla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari della Ue, nota come direttiva Pif. Il vice ministro Sisto, con Federico Fornaro del Pd che solleva dubbi su un “rischio logico procedurale” cancellando l’abuso a fronte della nuova norma, è ancora più liquidatorio e dice: “Le posso assicurare che è un rischio che non esiste assolutamente. Si tratta di una fattispecie che non ha nulla a che vedere con quelle che sono in discussione in questo provvedimento”. Vero o falso? Falso. Perché la giurisprudenza della Cassazione dice che il peculato per distrazione è punito come abuso d’ufficio. Il governo invece, come dice Gatta, “con una mano abolisce l’abuso d’ufficio, ma con l’altra crea un reato autonomo che di fatto punisce una parte degli stessi comportamenti”. Nordio non aveva garantito all’Europa che ci sono già nel codice penale 17 reati per coprire la soppressione dell’abuso d’ufficio? Sì, lo ha detto molte volte, ma evidentemente non è così. Da dove nasce allora l’urgenza della nuova norma? È frutto di un’indicazione del Quirinale che ha segnalato l’evidente anomalia, in vista del voto definitivo sull’abuso d’ufficio, che avrebbe potuto portare a una procedura d’infrazione della Ue verso l’Italia che il decreto Draghi voleva evitare. Del resto la presidente della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno ha sempre ripetuto da un anno, a ogni intervista, che sarebbe stato necessario rivedere il parterre dei reati di corruzione perché la soppressione dell’abuso determinava una lacuna. Se passa prima il decreto legge carceri con dentro il peculato che cosa succede? Il peculato per distrazione continua a essere punito, le sentenze definitive sono salve, e i giudici dovranno lavorare di più nei processi in corso per ricalcolare la pena visto che il nuovo reato di Nordio è punito meno dell’abuso d’ufficio. Da Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, arriva l’ennesimo coup de théatre su “X”: “Il governo ha inserito in un decreto sul carcere una norma penale che introduce il peculato per distrazione, mentre contemporaneamente lo abroga nel ddl Nordio. Chissà cosa ne pensa chi vigila sull’omogeneità dei decreti e sulla loro necessità e urgenza. Ps: presenteremo un soppressivo”... Prima osservazione: Costa, da sempre nemico dell’abuso d’ufficio, suo il volumetto su oltre 150 casi di sindaci “vittime” dei giudici, conferma in pieno che con una mano il governo cancella l’abuso e con l’altro ne mantiene in vita una parte. Dopo aver ricostruito la complessa storia del decreto, frutto di una mediazione ad alto livello, pare proprio del tutto improbabile che questo emendamento soppressivo annunciato da Costa possa avere fortuna. “Notizie, non gossip: basta trojan onnivori” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 5 luglio 2024 L’altolà del Garante della Privacy Pasquale Stanzione, che nella relazione annuale dell’Autorità presentata in Parlamento invita a rafforzare le garanzie sulle intercettazioni e pone un freno allo show mediatico. Prima di gridare al “bavaglio” per ogni norma che lambisce l’informazione bisognerebbe tenere a mente una cosa: il diritto di cronaca non ha niente a che fare con il “gossip”. A tracciare la linea è il Garante della privacy Pasquale Stanzione, che nell’ultima relazione annuale dell’Autorità ha lanciato un preciso monito sul trattamento dei dati giudiziari. La cui divulgazione può ledere, e non poco, la dignità della persona: soprattutto se privi di reale interesse pubblico. “La sfida della democrazia è, infatti, proprio nel coniugare la “pietra angolare” del diritto di (e all’) informazione con la dignità personale (di cui la protezione dei dati è peculiare espressione): tanto più in un ordinamento, come il nostro, dalla vocazione intrinsecamente personalista”, dice Stanzione. Che nell’ampio documento presentato mercoledì in Parlamento dedica un intero capitolo alla giustizia e all’uso delle intercettazioni fissando un limite invalicabile: la tutela delle garanzie e della persona. Il ddl governativo di riforma della disciplina in materia di intercettazioni “rafforza sensibilmente, le garanzie di riservatezza dei terzi e, per altro verso, circoscrive l’ambito circolatorio dei contenuti captati, a tutela della privacy di tutti i soggetti (parti e terzi) le cui conversazioni siano acquisite. Se si limita la pubblicabilità delle intercettazioni ai soli contenuti riprodotti dal giudice in propri provvedimenti, si circoscrive notevolmente il novero dei dati suscettibili di circolazione al di fuori del giudizio, ammettendola soltanto per le informazioni rilevanti a fini processuali”, spiega Stanzione. “Queste modifiche - sottolinea - sottendono, ovviamente, un bilanciamento tra privacy e diritto di e all’informazione, la cui definizione è riservata alla discrezionalità del legislatore. Ciò che si può auspicare - anche rispetto alla delega legislativa sul divieto di pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia in fase di indagini - è che si contenga la tendenza a scambiare l’interesse sociale della notizia con il gossip”. Il riferimento è alla legge del parlamentare di Azione Enrico Costa, che impone ai giornalisti di riportare il contenuto dell’ordinanza per sintesi: la cosiddetta “legge bavaglio”. Ma nell’ambito delle attività svolte nel 2023, il Garante dà conto anche del “contributo significativo” fornito in sede consultiva, in termini di pareri e audizioni, al processo ordinario telematico e alla costituzione delle infrastrutture digitali per le intercettazioni. Ricordando le nuove disposizioni introdotte dal decreto Intercettazioni (dl 105), che rientrano nel “più ampio disegno di revisione della disciplina delle intercettazioni - in parte ancora in itinere - volto a rafforzare (ulteriormente rispetto a quanto disposto dalle riforme del 2017 e del 2019 e in linea con le indicazioni del Garante) le garanzie in favore dei terzi, indirettamente intercettati”. Ovvero la riforma Nordio. Il primo passo in questa direzione, il dl 105, prevede in particolare un argine alla pesca a strascico: cioè, alla facoltà di utilizzare le informazioni raccolte attraverso le intercettazioni condotte per un determinato reato al fine di cercarne altri. Un metodo a cui fa esplicitamente riferimento il Garante, secondo il quale “si dovrebbero rafforzare ulteriormente le garanzie per le intercettazioni mediante captatore, la cui applicazione sta mostrando tutti i limiti della delega, alla tecnica, di uno strumento potenzialmente “onnivoro” quale il trojan, tanto più se utilizzato “a strascico”“. Il richiamo al rafforzamento delle tutele ricorre nell’intera relazione, nei passaggi relativi alla digitalizzazione della giustizia e al rapporto tra privacy e diritto di cronaca. Anche per ciò che riguarda il diritto all’oblio e la gestione dei motori di ricerca. In questi casi a indicare la rotta è la Corte di giustizia dell’Unione europea, il cui orientamento è condiviso anche dal legislatore italiano “che, tramite recenti riforme dell’ordinamento giudiziario penale, ha indicato, quale via di elezione, quella di minimizzare il trattamento di dati giudiziari al fine di evitare che un utilizzo improprio di questi possa dare vita a fenomeni di spettacolarizzazione che in qualche modo anticipino o influenzino il corso degli accertamenti di competenza della magistratura”. Insomma: basta processo mediatico, dice il Garante. Che con parole chiarissime spazza via il diritto alla gogna. E pone un limite all’eccessiva esposizione di tutti i soggetti coinvolti, comprese le vittime. D’altronde gli altolà non sono mancati, nell’ultimo anno: l’Autorità è intervenuta a più riprese per spezzare la catena di morbosità alimentata dai media su alcuni fatti di cronaca. Come è successo la scorsa estate, quando sono state divulgate le generalità della ragazza di Palermo che aveva denunciato uno stupro di gruppo. “Intercettazioni: il diritto di cronaca non può schiacciare quelli della persona” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 luglio 2024 Parla Salvatore Sica, giurista dell’Informazione: “A mio parere L’approccio del Garante della privacy è corretto: il “servizio all’Uomo” è il limite insormontabile anche per lo sviluppo digitale”. Tutelare i diritti veramente fondativi della libertà personale e sociale. È uno dei principali obiettivi perseguiti dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, presieduta da Pasquale Stanzione. Tanti i temi emersi in occasione della presentazione della relazione annuale del Garante della privacy, due giorni fa alla Camera, valutati positivamente da Salvatore Sica, avvocato, ordinario di Diritto pubblico nell’università di Salerno e giurista dell’informazione. “Sta prendendo piede - dice al Dubbio il professor Sica - un processo che vale la pena prendere molto in considerazione. Si sta andando dalla stagione del “tecno-entusiasmo” aprioristico verso la determinazione di limiti sorretti da scelte valoriali: rete, Intelligenza artificiale e quanto ancora ci riserverà l’innovazione sono serventi rispetto alla persona umana e tali devono restare. Sembra poco o banale, ma è un passo avanti straordinario per chi, fino a poco tempo fa, sostenendo queste tesi, era accusato di liberticidio o neo-luddismo”. Professor Sica, la relazione del Garante della privacy ha illustrato i diversi fronti sui quali è stata impegnata l’Autorità in un anno caratterizzato da interventi in ambiti fortemente innovativi. Le persone devono essere sempre al centro di ogni intervento, a partire da quelli legislativi, per preservarle anche da alcuni attacchi e tutelarne la dignità. Cosa ne pensa? La relazione 2023 del Garante della privacy è ricca di spunti di interesse sociale, culturale e politico. Vorrei partire dal titolo: “Una protezione dei dati per un’innovazione antropocentrica”. La cifra del contributo del Garante, infatti, è proprio la centralità della persona e delle sue prerogative e, con particolare riguardo all’Intelligenza artificiale, l’indispensabile ed inevitabile controllo umano sulla tecnologia. L’approccio, molto corretto, a mio avviso, non è di ostacolo all’innovazione tecnologica, che, del resto, sarebbe impresa vana, ma di riaffermazione dei valori basilari non negoziabili rispetto ai quali anche il progresso delle possibilità tecnologiche deve fermarsi. In altre parole, il “servizio all’Uomo” è il limite insormontabile anche per gli sviluppatori tecnologici. Molto efficace il richiamo alle parole di Papa Francesco, che invita a temperare l’algocrazia con l’algoretica. Non sono mancati neppure dei riferimenti che hanno segnato la storia dell’umanità... Bellissimo il riferimento all’uso dell’AI nelle strategie belliche, che il Garante segnala come “momento Oppenheimer”. Effettuare un bombardamento preceduto dall’analisi algoritmica, che, tuttavia, contempla il margine di errore, è assimilabile all’introduzione dell’atomica, nella misura in cui la “variabile umana” è un fattore di calcolo e non un discrimine morale. Così come è già attuale il tema che la manipolazione algoritmica dell’informazione diventa il terreno di una nuova guerra fredda, questa volta planetaria. Il Garante ha fatto un’analisi settoriale, che tra l’altro, rende conto degli interventi dell’Autorità per la protezione dei dati personali nello scorso anno. Il paragrafo dedicato alla giustizia e al digitale è caratterizzato da alcuni passaggi significativi. Ci sono motivi di preoccupazione per quanto riguarda il versante giudiziario? La telematizzazione del processo impone l’innalzamento delle misure di protezione dei dati raccolti, soprattutto perché i dati giudiziari, con le loro molteplici implicazioni, sono a tutti gli effetti, “dati supersensibili”. Nello stesso ambito il Garante sottolinea, con coraggio, i guasti che possono derivare dall’uso “a strascico” del trojan. Del pari segnala che le prerogative dei soggetti captati o intercettati devono prevalere sulla divulgazione, soprattutto quando essa non è strumentale all’informazione, ma alimenta forme di gossip o speculazione politica. La proposta è dunque nel senso della pubblicabilità dei soli contenuti riprodotti dal giudice nei propri provvedimenti, purché pertinenti a soggetti coinvolti direttamente nel processo. I dati sanitari richiedono una maggiore tutela? Rappresentano un versante scoperto che richiede una adeguata e uniforme copertura normativa? Sui dati sanitari il Garante ha pronunziato parole decisive: non si può confondere la biologia con la biografia, nel senso che la raccolta di dati sanitari non deve condurre alla categorizzazione delle persone, che finiscono per essere identificate non come tali ma in base alle loro patologie o caratteristiche biologiche. Sul punto sono stati richiamati gli opportuni interventi sul cosiddetto oblio oncologico. Molto chiaro anche il senso delle osservazioni sull’introduzione del fascicolo sanitario elettronico, messo sotto osservazione soprattutto per la sua attuazione nelle diverse regioni. Il valore chiave è l’uniformità del trattamento, non sono ammissibili “vie regionali” all’applicazione della disciplina, perché la salute non tollera disparità di trattamento in base al luogo di residenza. Sempre più spesso la rete è utilizzata per alimentare l’odio, che prende forma in diversi modi, e crea una prateria in cui gli odiatori seriali possono muoversi liberamente. C’è da preoccuparsi? Reputo fondamentale il richiamo ad alcuni casi di “abuso della rete e dei social”. Si pensi ad Asia, la ragazza insultata in rete perché malata. A tal riguardo il Garante ha segnalato il fenomeno della violenza digitale, causa ed effetto, in un circolo perverso, della “micro-celebrità” che assicura il web, con un doppio gravissimo rischio: l’offesa alle persone e lo sdoppiamento della personalità, reale e virtuale, con prevalenza della seconda. Alla fine, le regole sulle Procure sono approvate a maggioranza di Simona Musco Il Dubbio, 5 luglio 2024 La novità più importante deriva direttamente dalla riforma Cartabia, con la scelta di estendere alle procure il procedimento tabellare previsto prima solo per gli uffici giudicanti e che dovrà essere approvato dal Csm. Passa a maggioranza la nuova circolare sulle procure, con sei voti contrari (i laici del centrodestra più il consigliere Michele Papa del M5s), e un astenuto, a seguito delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia. Come ampiamente anticipato dal Dubbio, la circolare mette in atto un tentativo di omogeneizzazione della giurisdizione, “imponendo” uno stretto dialogo tra procura, Tribunali e avvocatura, proprio mentre la politica tenta di portare a casa la separazione delle carriere. La novità più importante deriva direttamente dalla riforma Cartabia, con la scelta di estendere alle procure il procedimento tabellare previsto prima solo per gli uffici giudicanti e che dovrà essere approvato dal Csm. L’articolo più atteso è però quello relativo al ruolo del procuratore, diventato con la riforma del 2006 un vero monarca, andando a incrinare quanto sancito dalla Costituzione, secondo la quale i magistrati si differenziano solo per funzioni. Il documento tenta di “smorzare” a valle il potere del procuratore, con “uno specifico momento partecipativo, rappresentato dalle apposite riunioni con gli aggiunti, i magistrati di ogni singolo gruppo o dell’ufficio e dai contributi del servizio studi, nonché tenendo conto delle indicazioni emerse in tali sedi di confronto”. Per il procuratore generale Luigi Salvato, “questa circolare può essere un punto di partenza” ed ha auspicato che in futuro “possa essere migliorata”, paragonando la figura del procuratore Capo a quella di un direttore d’orchestra che deve far suonare tutti gli strumenti. “La circolare è innovativa anche dove stimola - ha detto il primo presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano - i magistrati del pubblico ministero a fornire il loro apporto propositivo per la migliore organizzazione dell’ufficio al fine di rendere ai cittadini un servizio di giustizia più meditato. Un auspicio infine - ha aggiunto - quello di un pubblico ministero che interpreti al pari del giudice la sua attività come servizio e che non usi il processo come impropria forma di celebrazione della propria personalità o di costruzione di percorsi destinati ad ulteriori sviluppi professionali al di fuori della magistratura ma un pm che sia, invece, sempre più consapevole che è arte di una trama articolata di relazione tra i diversi protagonisti della giurisdizione nell’interesse esclusivo dei cittadini”. Per la togata di Mi Bernadette Nicotra, secondo cui la circolare inserisce il sostituto procuratore in “un’ottica di riequilibrio delle dinamiche relazionali, a garanzia sicuramente di una maggiore indipendenza interna del singolo sostituto”. Concetti non condivisi dal laico Papa, che ha definito il sistema descritto come “tolemaico” e contrario al modello cogestionale che ispira la circolare e che è incompatibile, a suo dire, con il principio di responsabilità che è coessenziale al modello accusatorio del procedimento penale. Per l’indipendente Andrea Mirenda, “ferme la bontà e l’irrinunciabilità del metodo “partecipato”, è proprio il carattere minuzioso e penetrante delle circolari sugli uffici giudicanti e requirenti la miglior prova dell’inconsistenza teorica dell’attitudine direttiva e della bontà, invece, della rotazione (o quantomeno dell’anzianità senza demerito) per individuare il coordinatore (perché l’idea stessa di capo o di dirigente è contro la Costituzione che vuole il magistrato soggetto solo alla legge)”. Così tutti i pm parteciperanno all’organizzazione dell’ufficio di Marco Bisogni* Il Dubbio, 5 luglio 2024 L’impostazione della nuova circolare propone un superamento della contrapposizione tra potestà decisoria del dirigente e autonomia del sostituto, nella prospettiva di una gestione dell’ufficio che si apra al contributo di tutti i magistrati. Il Csm è arrivato alla chiusura di un intenso ciclo di lavori, guidati dalla settima commissione, diretti alla riscrittura delle norme di organizzazione degli uffici di procura al fine di adeguarle alle riforme introdotte con la cosiddetta riforma Cartabia. La riforma ha ricondotto i progetti organizzativi delle procure entro i binari della tabellarizzazione (ovvero in un’organizzazione rigorosa già prevista per i tribunali al fine di garantire il principio del cosiddetto giudice naturale), restituendo al Consiglio il compito di approvare le disposizioni organizzative degli uffici, in esito alla verifica della loro conformità alla normativa primaria e secondaria. La nuova circolare, nel suo primo articolo, rivendica l’importanza dell’unicità della giurisdizione evidenziando la peculiarità del ruolo della pubblica accusa, parte pubblica distinta per fini e funzioni dalla parte privata: in quest’ottica devono essere letti i richiami alla necessaria completezza delle indagini e alla ricerca degli elementi a favore dell’indagato, specifico dovere del pubblico ministero a garanzia del cittadino. La riforma consacra poi il progetto organizzativo come documento fondamentale della organizzazione delle procure, ne individua l’ossatura essenziale e affida al Csm l’individuazione dei principi che presiedono le più rilevanti misure organizzative. I lavori preparatori sono stati condotti dal Csm con un metodo partecipato e innovativo, dando spazio al contributo di tutti i magistrati interessati al dibattito. Si sono svolte innanzi alla settima commissione diverse giornate di audizioni (che hanno coinvolto più di duecento magistrati) e sono stati raccolti numerosi contributi scritti. Il confronto ha riguardato le tematiche più significative in materia di organizzazione, anche in relazione ai delicati equilibri dei rapporti interni all’ufficio tra procuratore e sostituti. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, l’impostazione della nuova circolare propone un superamento della contrapposizione tra potestà decisoria del dirigente e autonomia del sostituto, nella prospettiva di una gestione dell’ufficio che si apra al contributo di tutti i magistrati: il testo approvato ha, infatti, valorizzato l’apporto professionale di ciascuno al buon andamento dell’ufficio. La partecipazione attiva - In tal senso la circolare - nel mantenere le prerogative che la legge attribuisce al procuratore - ha arricchito il procedimento di adozione delle misure organizzative con la necessaria partecipazione attiva dei sostituti attraverso la previsione di riunioni tra i magistrati nelle diverse fasi di individuazione, attuazione e modifica dei principi generali per lo svolgimento dell’attività dell’ufficio. È stato poi ulteriormente tipizzato il procedimento di revoca dell’assegnazione dei procedimenti imponendo al dirigente la preventiva individuazione dei criteri generali cui attenersi e una stringente motivazione dell’eventuale provvedimento di revoca (sul quale il Csm si riserva la possibilità di operare rilievi che vengono inseriti nel fascicolo del procuratore). Significativa appare l’introduzione di un articolo dedicato specificamente al sostituto, in riscontro alle richieste emerse nel corso delle audizioni. La nuova disciplina individua i principi guida dell’attività del singolo pm nell’ambito dell’organizzazione dell’ufficio (leale collaborazione, circolarità delle informazioni e partecipazione), ma ne rivendica le garanzie previste dalla Costituzione per tutti i magistrati che si differenziano tra loro soltanto per le funzioni svolte. La circolare, inoltre, in coerenza con le recenti riforme del processo penale, che hanno rimarcato la funzione “giurisdizionale” del pubblico ministero ha introdotto tra i principi che guidano l’organizzazione della procura il “rispetto di standard probatori ispirati al criterio della ragionevole previsione di condanna”. Il plenum è giunto all’approvazione della circolare con il voto favorevole di tutti i componenti togati e quello contrario dei laici di centro destra che nei loro interventi hanno, tra l’altro, evocato la necessità di giungere alla separazione delle carriere, sovrapponendo in questo modo il giudizio sulla circolare con un mero auspicio riformatore. Hanno poi stigmatizzato il rischio che i nuovi momenti di confronto previsti possano risolversi in un’illegittima compressione dei poteri del procuratore confondendo, tuttavia, la partecipazione dei magistrati all’indirizzo dell’ufficio con l’attività di coordinamento riservato al dirigente. *Consigliere togato del Csm 41-bis e diritto alla sessualità al vaglio della Corte di Strasburgo saccuccipartners.com, 5 luglio 2024 Con provvedimento del 7 giugno 2024, pubblicato il 24 giugno 2024, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato il via all’esame in contraddittorio del ricorso presentato nell’aprile del 2022 dall’Avv. Prof. Andrea Saccucci, dall’Avv. Giulia Borgna e dall’Avv. Valentina Cafaro dello Studio S&P, insieme all’Avv. Lorenzo Tardella, nell’interesse di un detenuto sottoposto al regime differenziato ex art. 41-bis o.p., per lamentare la violazione dell’art. 8 CEDU in relazione al diniego da parte delle autorità statali della richiesta del ricorrente di sottoscrivere un abbonamento a riviste per soli adulti, non incluse nell’elenco delle pubblicazioni acquistabili mediante il sopravvitto. Il ricorso trae origine dai seguenti fatti. Nel 2019, la Direzione dell’istituto penitenziario respingeva la richiesta del ricorrente di poter acquistare in abbonamento alcune riviste per soli adulti. Il diniego veniva poi confermato in sede di reclamo dal Magistrato di Sorveglianza, il quale riteneva, da un lato, che vi fosse il rischio che attraverso le riviste venissero veicolati messaggi criptici provenienti dall’esterno e, dall’altro lato, che l’acquisto delle riviste non fosse “essenziale per la sfera sessuale del detenuto”. Tuttavia, il Tribunale di Sorveglianza accoglieva l’impugnazione proposta dal ricorrente, rilevando come la sua richiesta afferisse all’esercizio di un diritto fondamentale della persona la cui compressione non poteva ritenersi giustificata dalla finalità di tutela dell’ordine interno e della sicurezza esterna. Infatti, l’ordinamento prevede dei meccanismi di controllo preventivo in grado di scongiurare il pericolo che i detenuti sottoposti al regime 41-bis possano essere raggiunti da messaggi provenienti dall’esterno ed occultati all’interno di giornali e riviste. Pertanto, il Tribunale ordinava all’amministrazione penitenziaria di consentire al ricorrente di acquistare le riviste per soli adulti, a condizione che le stesse fossero preventivamente sottoposte a visto di controllo e che l’acquisto avvenisse a spese del detenuto. Tale provvedimento veniva impugnato da parte del Ministero della Giustizia dinanzi alla Corte di Cassazione, che accoglieva il ricorso. Secondo il giudice di legittimità, il divieto opposto al ricorrente non comportava la negazione del diritto alla sessualità del detenuto, ma incideva sulle modalità di esplicazione di tale diritto, che “restano affidate alle scelte discrezionali dell’Amministrazione penitenziaria, in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne, che, ove non manifestamente irragionevoli, ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto, non sono sindacabili in sede giudiziaria”. Dinanzi alla Corte europea, il ricorrente ha sostenuto che l’ingerenza dello Stato italiano nel suo diritto alla sessualità - che rappresenta un’importante componente della “vita privata” protetta dall’art. 8 CEDU - non fosse “necessaria in una società democratica” in ragione del fatto che la limitazione imposta dall’amministrazione penitenziaria aveva portata puramente afflittiva e risultava del tutto sproporzionata ed incongruente rispetto al fine di interesse generale asseritamente perseguito. Disponendo la comunicazione del ricorso al Governo italiano ai sensi dell’art. 54 § 2 b) del Regolamento, la Corte europea ha evidentemente ritenuto che le censure agitate dal ricorrente meritino un approfondimento nel merito ed è ha formulato all’indirizzo delle parti la seguente domanda sulla quale dovrà vertere il contraddittorio: “Vi è stata una violazione del diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata, in contrasto con l’articolo 8 della Convenzione, a causa del rifiuto di consentire al ricorrente di abbonarsi a riviste pornografiche a proprie spese? In particolare, è stato raggiunto un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti coinvolti nel caso di specie?” Il caso di specie è emblematico dell’attenzione che la Corte europea riserva all’esame della compatibilità convenzionale delle restrizioni applicate ai detenuti sottoposti al cd. carcere duro. Pur avendo ritenuto che l’applicazione del regime differenziato non costituisca, di per sé, una violazione dei diritti convenzionalmente garantiti, la Corte ha infatti costantemente ribadito che, ai fini della compatibilità con il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU, è necessario che le singole limitazioni scaturenti dall’applicazione del regime 41-bis siano rispettose dei requisiti di legalità, scopo legittimo e proporzionalità prescritti dall’art. 8 § 2 CEDU. Firenze. Come si vive (e si muore) nel carcere di Sollicciano di David Allegranti La Nazione, 5 luglio 2024 Topi, cimici, muffa. Il grido inascoltato del detenuto di 20 anni, poi il suicidio. In esclusiva il documento con cui il giovane recluso aveva denunciato alle autorità e alla magistratura le condizioni “detentive inumane e degradanti” del penitenziario alle porte di Firenze. Aveva 20 anni il giovane detenuto che si è tolto la vita nel carcere di Sollicciano, ieri. Classe 2004. Era arrivato in Italia con un permesso di soggiorno da minorenne non accompagnato. Era entrato in carcere nel 2022. L’associazione “L’altro diritto” lo aveva aiutato a presentare un reclamo giurisdizionale ex articolo 35 bis per lamentare le gravi condizioni del carcere di Sollicciano. Uno di quei reclami che dovrebbero essere gestiti con rapidità, perché servono a denunciare una condizione di vita intollerabile. “Quello che rende tutto più grave - ci dice il filosofo del diritto Emilio Santoro - è che il ragazzo che si è suicidato a Sollicciano era uno di quelli che abbiamo aiutato a fare il reclamo per condizioni detentive inumane e degradanti a febbraio e sul reclamo c’è stata udienza solo il 22 maggio ma senza esserci una decisione, a quanto sappiamo”. Ma in che condizioni viveva il giovane detenuto nel carcere fiorentino? Nel reclamo ex 35 bis presentato dal ristretto a febbraio di quest’anno c’era scritto tutto. Dalla muffa ai topi alle cimici. Sollicciano non si fa mancare niente. La muffa - “Le pareti della cella, in particolare in quella vicino al letto, presentano macchie visibili di umidità e di muffa. Tali formazioni funginee sono causate dalle frequenti infiltrazioni d’acqua che, in caso di precipitazioni atmosferiche, aumentano considerevolmente. I detenuti in generale e il reclamante in particolare sono costretti a pulire essi stessi la muffa con la candeggina, ma il problema si presenta in maniera talmente endemica che da soli non riescono a risolverlo in maniera strutturale. Peraltro, l’Amministrazione Penitenziaria fornisce ai detenuti, in maniera del tutto insufficiente, i prodotti per la detersione dell’ambiente solo una volta al mese, costringendoli ad acquistare personalmente i prodotti per risolvere il problema della presenza di infiltrazioni e di muffa. Del resto, la IX sezione è ancora chiusa, almeno per metà, da un mese e mezzo per queste stesse problematiche ed è noto come la muffa si propaghi nelle zone limitrofe con estrema facilità”. La presenza di infiltrazioni di acqua e di muffa è “resa ancor più grave se si considera che l’impianto di riscaldamento spesso non è funzionante, anche a causa del costante sovraffollamento nel quale il carcere di Sollicciano versa. Anche quando l’impianto termo-idraulico è funzionante la cella è fredda. Il reclamante è, perciò costretto a vivere in un ambiente insalubre freddo ed umido, con gravi conseguenze sulla sua salute”. L’acqua calda non c’è - L’acqua calda non è mai presente in cella, scriveva il giovane detenuto: “Di conseguenza, il reclamante è costretto a lavarsi giornalmente con acqua gelata e a lavare i piatti - peraltro nel medesimo lavandino adibito all’igiene personale - nelle medesime condizioni. Egli, in ragione della costante umidità e della mancanza di aereazione in cella è costretto a tenere la finestrina del bagno costantemente aperta col risultato che sia l’igiene personale che delle stoviglie deve essere effettuata con l’acqua gelida e con la finestrina aperta, anche l’inverno, per evitare che la muffa e l’umidità si propaghino ancora di più di quanto non sia già in atto”. I topi - “Nella sezione e nella cella del ricorrente ci sono i topi: di recente, il reclamante è riuscito a catturarne uno, che ha poi mostrato agli agenti e al personale medico. In data 6.11.2023 egli, tramite accesso diretto al colloquio psicologico-clinico, si è presentato con una bottiglia all’interno della quale si trovava un ratto catturato nella cella. La situazione da novembre ad ora non è affatto migliorata poiché continua a rilevare la presenza di topi anche nei corridoi e in cucina - dove egli lavora”. Le cimici - “Oltre ai topi il reclamante lamenta la presenza di cimici che in passato lo hanno morso procurandogli delle lesioni. Quest’ultime si annidano, in generale in tutto il carcere, nei materassi, nei tessuti, dentro le crepe delle pareti e negli anfratti degli arredi e provocano lesioni cutanee da morso, chiazze rosse sulla pelle, prurito e gonfiore. È capitato che vedesse le cimici camminare sul soffitto, anche al reparto giudiziario, e che si dovesse svegliare anche in piena notte per girare il materasso - peraltro di spugna e fine - e igienizzare tutto. Questo, con tutta ovvietà, ha disturbato il sonno del reclamante essendo per lui impossibile riposarsi nelle ore notturne con grave detrimento della sua salute psico-fisica. La situazione è ancor più grave considerato che le lenzuola non vengono cambiate e lavate con la frequenza necessaria a garantire un livello dignitoso di pulizia e igiene. Esse vengono fornite 1 volta al mese e, quindi, si trova costretto a chiedere alla famiglia di mandare lenzuola pulite e igienizzate”. I piccioni - “La cucina, dove il reclamante lavora, presenta gravi carenze igieniche e strutturali: è infestata dai piccioni e dai topi. Questi ultimi si nascondono sotto i mobili e gli stipetti della cucina e i lavoranti trovano spesso tracce di cibo rosicchiato dagli stessi; inoltre, sotto il profilo strutturale, casca l’intonaco dal soffitto pieno di muffa con costante pericolo di contaminazione del cibo”. Nessuna risposta dopo i reclami - Il reclamo contiene anche altri dettagli, ma quello che avete appena letto dovrebbe essere sufficiente. Il giovane detenuto aveva provato a chiedere alla magistratura di sorveglianza di ordinare all’amministrazione penitenziaria il ripristino delle minime condizioni accettabili di vita all’interno del carcere. D’altronde, la situazione che il giovane ristretto descriveva era incompatibile con il rispetto della dignità e dei diritti delle persone detenute, e dunque con l’articolo 3 della CEDU. In Italia, dice Santoro, “se c’è il rischio che una persona indiziata commetta un reato il magistrato si deve muovere entro 48 ore, se un detenuto dice sono in condizioni inumane si può prendere 4 mesi”. Inoltre, ci sono ordinanze che risalgono a Natale in cui la magistratura di sorveglianza “ha dichiarato che l’intero carcere è un luogo in cui l’esecuzione della pena è inumana degradante e per 7 mesi l’amministrazione penitenziaria non ha fatto niente. Credo che la rivolta dei detenuti dopo il suicidio sia l’indice che a forza di tirare la corda si è spezzata. La morte del ragazzo e quello che sta succedendo è chiaramente colpa della amministrazione penitenziaria. I detenuti sono da mesi in una situazione inumana e degradante, dichiarata da ordinanze della magistratura e il Dap non ha fatto niente. Hanno provato a percorre le vie legali dei reclami e dopo oltre 4 mesi non hanno avuto risposte; vedono uno di loro, un ragazzo fragile, crollare e suicidarsi. Vorrei che la gente provasse a mettersi nei loro panni prima di giudicare la reazione. Se vengono chiamati i pompieri per un pericolo e i pompieri non vengono, e poi vedo il mio vicino morire, avrò diritto di arrabbiarmi?”. Firenze. Roghi e urla per la rivolta dei detenuti dopo un altro suicidio: “Noi come animali” di Valentina Marotta e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 5 luglio 2024 Il giovane si è tolto la vita dopo aver bloccato la serratura della cella. Il vescovo Gambelli: una situazione inaccettabile. Si è chiuso nella cella, ha ostruito la serratura con pezzi plastica, forse per rallentare i soccorsi, e si è tolto la vita. Aveva solo 20 anni e doveva scontare una pena per reati contro il patrimonio, il detenuto tunisino che si è impiccato ieri a Sollicciano, con le lenzuola. Poi la morte del ragazzo con il viso da bambino è stato il detonatore della protesta che covava da settimana per le condizioni di vita per nulla dignitose, legate alla mancanza di acqua e all’invasione delle cimici. I cori, uno striscione sulle sbarre (“Noi come animali”) e le fiamme appiccate. Due le sezioni della giudiziaria coinvolte e una quarantina di detenuti (su 560) poi raddoppiati. Un recluso visto sul tetto è poi svanito. Fuori la polizia e carabinieri i vigili del fuoco intervenuti dopo l’allerta lanciato a Questura e Prefettura. Solo intorno alle 20, i vigili del fuoco sono riusciti a domare le fiamme. Fedez, il ragazzo tunisino dall’animo inquieto era arrivato in Italia quando era ancora minorenne nascosto in un camion per attraversare le frontiere. Forse aveva affrontato il viaggio anche per raggiungere un fratello ospite di una comunità di accoglienza. Accolto in una comunità per minori stranieri non accompagnati, aveva messo a segno alcuni furti ed era finito nel carcere minorile. La scarcerazione appena maggiorenne e il sopraggiungere di una nuova condanna per una rapina con estorsione: stava scontando la pena a Sollicciano da cui sarebbe uscito nel novembre 2025. Aveva firmato un reclamo per le condizioni inumane e degradanti nel carcere. Ieri ha chiuso la porta alle sue spalle intorno alle 15,30. E l’ha fatta finita, mentre il suo compagno di cella era in parlatorio. Gli agenti della penitenziaria sono andati a cercarlo. Ma la porta non si apriva. Poi l’intervento dei medici: i tentativi di rianimazione sono andati avanti per 45 minuti. Ma per Fedez non c’è stato più nulla da fare. I detenuti avevano chiesto e ottenuto di poterlo vedere per l’ultima volta e pregare per lui. Poi ogni saluto è saltato: è partita la protesta dalle altre sezioni. “Grande dolore per la giovane vita spezzata oggi a Sollicciano - ha detto la sindaca Sara Funaro - Da tempo denunciamo le drammatiche condizioni del carcere: è necessario intervenire su una situazione che non può più essere ignorata dal governo. Il sistema è al collasso e il contesto in cui versa Sollicciano è estremamente problematico”. È amareggiato l’arcivescovo di Firenze Monsignor Gherardo Gambelli: “Mentre preghiamo per il ragazzo di soli 20 anni e rivolgiamo un pensiero alla sua famiglia, non possiamo continuare ad accettare che tante persone disperate si tolgano la vita in carcere. Queste morti confermano le condizioni insostenibili di tanti penitenziari italiani, criticità che da tempo vengono denunciate e che ho verificato personalmente come cappellano. Ancora una volta rivolgiamo un accorato appello a tutti coloro che hanno il potere di fare qualcosa perché in carcere vengano rispettati i diritti umani e la dignità delle persone e ai detenuti che scontano una pena non sia tolta la speranza della redenzione”. Anche il garante comunale dei detenuti Eros Cruccolini punta il dito sul sistema carcerario: “Ci sono i soliti problemi strutturali a Sollicciano”. Poi attacca il nuovo governativo varato nelle ultime ore: “Il decreto non fa niente di sostanziale per decongestionare il carcere. Non solo, prevede l’aumento delle telefonate ogni mese da 4 a 6, praticamente niente”. Parole simili da don Vincenzo Russo, responsabile della pastorale per il carcere della diocesi: “È questo il prodotto della nostra giustizia? A Sollicciano i lavori per cui il ministero ha stanziato milioni non sono mai terminati e le condizioni della struttura sono fatiscenti da troppi anni”. Intorno alle 22 la situazione nel carcere era ancora molto tesa. È stato fatto uscire tutto il personale sanitario e sono rientrati in servizio tutti gli agenti penitenziari, anche chi era in ferie, in vista di una nottata ad alta tensione. Firenze. Gli ultimi giorni di Fedez e il gesto tragico che ha scatenato la rivolta in carcere di Paolo Nencioni Il Tirreno, 5 luglio 2024 Fedez era arrivato in Italia nove anni fa, ancora minore: tra un paio di mesi doveva andare in comunità. Le letture della serie dei romanzi di “Narnia”, le lezioni, i corsi, grazie ai volontari e agli educatori della struttura. E poi - da quel poco che trapela in una giornata drammatica - quella pena definitiva, ma anche la comunità nel suo futuro prossimo, tra un paio di mesi, a quanto pare. Una vita sicuramente non semplice per il ventenne, originario della Tunisia, che nella giornata di ieri, 4 luglio, si è tolto la vita in una cella del carcere fiorentino di Sollicciano. Un fatto drammatico - e una vicenda molto delicata - che ha innescato la rivolta dei detenuti della struttura; una cinquantina di loro, tra l’altro, proprio nei giorni scorsi, con una lettera, aveva fatto un esposto sulle condizioni del carcere fiorentino. Nel pomeriggio del 4 luglio la tragedia, con il giovane ventenne che si è tolto la vita. Era arrivato in Italia, dalla Tunisia, nove anni fa. Da quanto emerge sarebbe arrivato in Italia con lo “status” di minore straniero non accompagnato. Poi - siamo nel 2022 - il giovane finisce in carcere, a Firenze: rapina ed estorsione le accuse, con la pena che diventerà definitiva. Le letture, i corsi e la tragedia - Chi lo conosceva parla di un giovane che nella struttura - in attesa della comunità, in programma tra un paio di mesi, a quanto sembra, come detto - fino a giovedì 4 luglio non aveva manifestato problematiche. Frequentava dei corsi, seguito dagli educatori e dai volontari, come detto, amava le letture di “Narnia”, dei romanzi fantasy: un giovane molto sorridente e con la famiglia che sarebbe stata “presente”. E proprio nei giorni scorsi al giovane sarebbe arrivato anche un pacco dalla Tunisia da parte della famiglia. Nella giornata odierna, tuttavia, il ventenne avrebbe manifestato dei problemi e, a quanto sembra, sarebbe stato visitato anche da un medico. Poi nel pomeriggio la tragedia. Livorno. Morto il detenuto di 35 anni gravissimo dopo il tentato suicidio in carcere di Paolo Nencioni Il Tirreno, 5 luglio 2024 Il giovane non ce l’ha fatta. È la cinquantunesima persona dall’inizio dell’anno che si è tolta la vita in un penitenziario italiano. L’uomo, livornese, era recluso da un mese e in attesa di giudizio. All’indomani del suo ricovero in ospedale, il Garante dei detenuti di Livorno Marco Solimano, aveva chiesto interventi urgenti per migliorare le condizioni di vita all’interno del penitenziario labronico, già al centro delle polemiche per l’evasione del trentaseienne campano Umberto Reazione, che aveva scavalcato il muro di cinta dell’alta sicurezza, poi rintracciato dopo 24 ore su un treno per Roma Tiburtina. È la cinquantunesima persona dall’inizio dell’anno che si è tolta la vita in un penitenziario italiano, un’emergenza senza fine. Comunicato stampa Polpen-Uil 44 anni, origini catanesi, arrestato il 24 maggio scorso per presunti maltrattamenti in famiglia e in attesa di primo giudizio, nella sera del 1° luglio era stato trovato impiccato con un laccio ricavato da pezzi di stoffa nella sua cella della Casa Circondariale di Livorno. Immediatamente soccorso dall’agente in servizio, quest’ultimo impiegato contemporaneamente nel lavoro di tre operatori, e condotto presso l’ospedale cittadino, era apparso sin da subito in condizioni disperate. Oggi si è spento. Si tratta del 52esimo ristretto dall’inizio dell’anno suicidatosi in carceri dove la pena di morte è inflitta di fatto e, random, senza criterio. A questi decessi, vanno aggiunti i 5 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che nel 2024 si sono altresì tolti la vita”. Lo afferma Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria. “Numeri di vite spezzate che sono abnormi, assurdi, indegni per un paese che voglia definirsi civile e che dovrebbero indurre a iniziative legislative concrete e ad effetto immediato, mentre stiamo vivendo un’epidemia d’indifferenza senza precedenti, tanto che ieri è stato varato dal Governo un decreto insignificante. Sono 14.500 i detenuti in più oltre ai posti disponibili e la Polizia penitenziaria, cui mancano almeno 18mila unità, costretta a turnazioni massacranti nella disorganizzazione imperante, non riesce ad adempiere come dovrebbe alle proprie funzioni. Ancora peggio per ciò che concerne l’assistenza sanitaria e psichiatrica”, aggiunge il Segretario della UILPA PP. “Noi continuiamo a pensare che vadano decretate misure emergenziali in grado di deflazionare con celerità e seriamente il sovraffollamento detentivo, potenziare subito il Corpo di polizia penitenziaria, garantire l’assistenza sanitaria e avviare riforme complessive e strutturali. Non c’è più tempo”, conclude De Fazio. Pavia. Si impicca in cella, detenuto di 19 anni muore in ospedale di Enrico Spaccini fanpage.it, 5 luglio 2024 Si chiamava Yousef Hamga, il ragazzo di origine egiziana deceduto il 4 luglio al San Matteo. Lo scorso venerdì 28 giugno si trovava nella sezione ottava della casa circondariale di Torre del Gallo quando ha usato un lenzuolo nel tentativo di togliersi la vita. Nonostante l’area del carcere sia una delle più sorvegliate, il 19enne sarebbe stato notato solo da un agente della penitenziaria che stava facendo un giro di controllo. Pare che Hamga avesse manifestato ormai da tempo sintomi di disagio psicologico, ma non è ancora chiaro se stesse o meno seguendo una terapia. Lanciato l’allarme, il personale medico della casa circondariale lo ha soccorso, trovandolo in condizioni disperate. Trasportato d’urgenza al Policlinico San Matteo di Pavia, Hamga è rimasto ricoverato nel reparto di Rianimazione per alcuni giorni, fino al decesso. Come ricordato dai sindacati, Hamga è il 50esimo detenuto che si è tolto la vita nelle carceri italiane da inizio anno. Restano preoccupanti i numeri di Pavia, dove dal 2012 a oggi si sono suicidate 12 persone, tre solo quest’anno. Lo scorso 12 marzo è stato trovato impiccato nella sua cella Jordan Tinti, il trapper 26enne conosciuto come Jordan Jeffrey Baby. Ad aprile si è tolto la vita Ahmed Fathy Ehaddad, pochi giorni prima dell’udienza davanti al gup. Sulla morte di Yousef Hamga è stata avviata un’indagine interna al carcere. Bari. “Trasferito per essere curato, ora rischio la vita insieme ai miei compagni di cella” di Andrea Aversa L’Unità, 5 luglio 2024 Condizioni disumane e degradanti, strutture fatiscenti, diritto alla salute non garantito, una magistratura di sorveglianza poco presente e la mancanza di risorse: la testimonianza e la denuncia di un essere umano lasciato marcire dietro le sbarre (e non è il solo, come lui ce ne sono migliaia). Trasferito nel carcere di Bari a causa delle sue patologie, Antonio ha scritto una lettera alla moglie Elisabetta, inviata alla nostra redazione grazie all’associazione Sbarre di Zucchero. Quattro pagine scritte in stampatello, parole chiare e nette che hanno testimoniato l’inferno al quale il detenuto e i suoi compagni sono stati condannati. Perché nel penitenziario pugliese il diritto alla salute che dovrebbe essere garantito per Costituzione, è latitante. Il diritto (negato) alla salute in carcere - Ha scritto Antonio: “Vi è un centro Sai con soli 25 posti. Una struttura non a norma e danneggiata da un incendio. Si è scoperto che tale area non aveva il sistema anti incendio e nessuna uscita di emergenza. Per non parlare dell’impianto elettrico non a norma”. Nonostante l’arrivo a Bari per ricevere cure adeguate, “le uniche visite ‘specialistiche’, mai approfondite, fatte all’interno del carcere sono quelle di base. Le altre necessitano di una trasferta in ospedale e questo allunga di molto i tempi per i controlli”. La testimonianza di Antonio, detenuto malato presso il carcere di Bari - Il motivo? L’assenza degli agenti della Polizia Penitenziaria, corpo dello Stato da anni sottodimensionato: di conseguenza è difficile trovare poliziotti per queste uscite, uomini che dovrebbero scortare e piantonare il detenuto-paziente, lasciando scoperto l’organico all’interno del carcere. Inoltre, nel penitenziario di Bari, non vi sono i pulsanti di emergenza, ovvero manca la possibilità per un detenuto di fare una chiamata urgente dalle celle. Così se qualcuno, già in condizioni di salute precarie, ha un malore improvviso, potrà tranquillamente rischiare di morire dietro le sbarre. L’inferno delle carceri - Tema sul quale si è pronunciata anche la magistratura di Sorveglianza che ha ‘ordinato’ all’amministrazione del carcere di installare tali sistemi di sicurezza. Gli stessi pm che però, hanno accolto il parere del personale sanitario, secondo cui - oltre che garantire cure e assistenza adeguati ai detenuti - questi ultimi sarebbero efficacemente piantonati. Ma, ha scritto Antonio: “Mi chiedo, visto il numero di detenuti ed agenti presenti, se si sente male una persona o più di un recluso, su quei piani dove c’è un solo poliziotto per due piani, senza l’ausilio di segnalatori acustici, come sarebbe possibile salvarli?”. L’indifferenza della politica - Dunque, tra violenze, torture, sovraffollamento e soprattutto suicidi, l’intera comunità penitenziaria sta continuando a vivere - nell’indifferenza totale della politica e delle istituzioni - un vero e proprio inferno in terra. Esseri umani trattati in modo degradante ai quali non è manco concesso il diritto costituzionale alla salute. Antonio è, purtroppo, uno dei tanti. Anzi, dei tantissimi. Ai quali l’ultimo provvedimento del governo prodotto dal ministro dell’(in)giustizia Carlo Nordio, non ha dato alcuna risposta e nessuna soluzione. Roma. Rivolta nel Cpr di Ponte Galeria dopo il tentato suicidio di un detenuto di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 5 luglio 2024 Serata drammatica nel Centro di permanenza per il rimpatrio sulla via Portuense. Il giovane extracomunitario salvato dal personale di vigilanza. Poi le proteste di alcune decine di persone e l’intervento delle forze dell’ordine. Un detenuto tenta il suicidio nel Cpr di Ponte Galeria e gli altri extracomunitari organizzano una protesta nel Centro di permanenza per il rimpatrio incendiando materassi nelle camerate. Una serata di tensione in via Portuense con l’intervento di poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa che hanno anche lanciato lacrimogeni per interrompere le proteste, che stavano provocando danni alle strutture. Tafferugli e danni nell’edificio - L’allarme è scattato alle 21 circa quando alcuni addetti alla vigilanza del centro hanno soccorso il ragazzo che stava cercando di togliersi la vita. Il ragazzo è stato salvato e accompagnato in infermeria per accertamenti. Ignoti al momento i motivi che lo avevano spinto al gesto estremo. Poco dopo però alcune decine di detenuti in attesa che la loro posizione venga definita sul territorio nazionale o meno, con la successiva espulsione, hanno dato vita a tafferugli nella struttura, bruciando - come è successo più volte in passato - gli arredi dei locali a loro destinati. Indagini per identificare gli organizzatori della protesta - Una situazione ad alta tensione, già vissuta all’interno del Cpr romano, al centro in passato di episodi analoghi, con detenuti sui tetti e roghi appiccati nei reparti, che è andata avanti per circa un’ora, interrotta dall’intervento di poliziotti e carabinieri che hanno ripreso il controllo di quella parte dell’edificio. Non ci sarebbero stati feriti mentre sono in corso indagini per identificare i responsabili di quanto accaduto e capire se ci sia un collegamento con le motivazioni del tentato suicidio del ragazzo. Pavia. Recuperare i jeans insieme alle persone. Il progetto Lavgon di Paolo Morelli Corriere della Sera, 5 luglio 2024 A Filo Libero è il logo dei prodotti fatti in carcere con il riciclo. Si possono unire la dimensione di sostenibilità ambientale con le iniziative di carattere sociale? Naturalmente sì. Questa volta, a rispondere, è Lavinia Vicenzi, torinese, che gestisce il laboratorio Lavgon in via Galliari con il quale ha da poco avviato una raccolta di jeans usati. I vestiti saranno riconvertiti in nuovi oggetti grazie al lavoro della sartoria sociale creata all’interno della Casa Circondariale di Pavia. Il progetto si chiama A Filo Libero e nasce per lavorare sull’upcycling, il riutilizzo di materiali ancora sani all’interno del mondo produttivo, che invece li vorrebbe trasformare in rifiuti. “Lavgon nasce come moda etica e sostenibile e uno dei nostri capisaldi è la sostenibilità sociale - spiega Lavinia Vicenzi -. Siamo entrati in carcere nel 2020, su invito della Garante delle persone detenute della provincia di Pavia, per impiantare a titolo volontario una prima sartoria”. Il lavoro iniziale, visto il periodo, era la produzione di mascherine destinate alla struttura. Poi, Vicenzi è diventata un punto di riferimento sia per la Casa Circondariale sia per le persone detenute, perché le occasioni di formazione sono cresciute. “L’anno scorso - racconta - con un gruppo particolarmente motivato ho fatto volontariato finalizzato alla creazione di un’impresa sociale. Stiamo raccogliendo fondi (a breve partirà un crowdfunding dedicato su Produzioni dal basso, ndr). Ora ci sono sei persone impiegate, tutte detenute, ed è iniziato un lavoro su cartamodelli da uomo. Il “filo” conduttore del progetto è il denim, tessuto con il quale sono fatti i jeans e che, a differenza di altri materiali, non si deteriora facilmente se di buona qualità. “Sul denim - spiega Vicenzi - vale la pena fare upcycling, perché spesso sui vestiti cedono le cuciture ma il tessuto è ancora buono. La nostra sartoria si basa sui principi fondanti dell’agenda 2030 dell’ambito tessile e manufatturiero: circolarità, riuso e sostenibilità”. Quella in corso, che al momento non ha una data di conclusione, è la prima raccolta di jeans fatta da Lavgon. Lo scorso settembre, intanto, è nato il logo di A Filo Libero e ad aprile è stato lanciato un negozio online, perché i tessuti recuperati vengono trasformati in borse, astucci o cappelli, ma anche gli scarti della lavorazione vengono riutilizzati. “Li usiamo in tessitura - aggiunge Vicenzi - per creare tessuti con il telaio manuale. Quindi possiamo creare tappeti, portaoggetti e persino borsoni da mare e da viaggio. Ho portato anche la tecnica della serigrafia manuale e abbiamo realizzato delle tovagliette all’americana e dei runner da tavolo, stiamo vendendo molto bene (c’è l’appoggio della bottega pavese Il Girasole di Travacò, ndr). Vedo che la gente è molto contenta di sostenere un’attività all’interno del carcere, mentre le persone che ci lavorano hanno capito che quando usciranno dovranno fare un lavoro”. Oltre a Lavgon di via Galliari 25, i jeans non più utilizzati si possono consegnare anche da Verdessenza in via San Pio V 20, oltre che al Girasole di Travacò a Pavia. Migranti. “L’abuso della detenzione nei Cpr è uno strumento punitivo che priva le persone della libertà e della dignità” La Repubblica, 5 luglio 2024 La denuncia di Amnesty International: la legislazione e la prassi italiana non sono in linea con gli obblighi internazionali e violano i diritti di asilo e di accesso alla giustizia. In Italia i migranti e i richiedenti asilo vengono illegalmente privati della libertà in Centri di detenzione che non rispettano gli standard internazionali. La detenzione dovrebbe essere eccezionale e costituire una misura di ultima istanza, sottolinea l’organizzazione. Tuttavia nei centri italiani sono trattenute persone con gravi problemi di salute mentale; persone che vorrebbero fare richiesta di asilo a causa dell’orientamento sessuale o dell’attivismo politico ma provenienti da Paesi che il governo ha arbitrariamente designato come “sicuri”; persone in fuga dalla violenza di genere o dallo sfruttamento lavorativo. Le decisioni del governo Meloni. Nel 2023 il governo italiano ha adottato nuove iniziative che aumentano il ricorso alla detenzione legata alla migrazione, tra cui: piani per la costruzione di nuovi centri di reclusione, l’allungamento del tempo massimo di detenzione per il rimpatrio a 18 mesi e l’applicazione di “procedure di frontiera” con conseguente detenzione automatica delle persone sul territorio sulla base della loro nazionalità, in contraddizione con il diritto internazionale che richiede una valutazione individuale. Amnesty International ha visitato due centri di detenzione, Ponte Galeria, nel Lazio, e Pian del Lago, in Sicilia, nell’aprile 2024. In entrambi sono detenute persone provenienti da Tunisia, Iran, Georgia, Marocco, Perù, Egitto, Gambia e Cina, tra gli altri. Prevale la logica punitiva. L’organizzazione ha riscontrato che le condizioni all’interno dei centri non sono in linea con le leggi e con gli standard internazionali. La detenzione amministrativa legata alla migrazione, infatti, non dovrebbe avere carattere punitivo e non dovrebbe imporre condizioni simili al carcere. Cosa che non avviene in Italia dove invece le strutture sono spoglie, inadeguate dal punto di vista sanitario e della sicurezza e dove vengono imposte misure di comportamento estremamente restrittive. Le regole all’interno dei centri. Le persone non possono circolare liberamente nemmeno all’interno delle strutture: ogni spostamento deve essere autorizzato e scortato dalle forze dell’ordine. I letti consistono in materassi di schiuma poggiati sul cemento. I bagni sono in pessime condizioni e talvolta privi di porte. Gli interruttori della luce vengono accesi e spenti dalle guardie e le finestre sono chiuse ermeticamente. Gli smartphone personali sono vietati. Peggio delle carceri. Le persone sono costrette a trascorrere il tempo in spazi recintati, in condizioni per molti aspetti peggiori di quelle del carcere perché viene negata loro anche una minima autonomia. Non vengono organizzate né proposte attività e questo, combinato con la mancanza di informazioni certe sul futuro, porta a enormi danni psicologici tra i migranti detenuti. Migranti. Lamin e i suoi compagni: “Con la scuola di pizzaioli ci regaliamo un futuro” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 5 luglio 2024 Tredici minori stranieri non accompagnati a scuola dal maestro pizzaiolo Alfredo Bianchi ad Arcola (La Spezia) grazie al progetto “Impasta il domani” sostenuto da Con I Bambini e Fondazione Carispezia. Farina, olio, lievito, sale e acqua. Cinque ingredienti e tanta passione: così nasce la pizza. Lo spiega bene Alfredo Bianchi, maestro pizzaiolo, ai suoi tredici allievi - tutti stranieri minori non accompagnati - a scuola da lui per il corso “Impasta il domani” proposto dall’Istituto ligure di formazione cooperativa e realizzato con il sostegno di Con I Bambini nel suo locale, Fretta e furia, ad Arcola (Sp). “Mettere le mani in pasta e poi vedere nascere un prodotto che viene subito utilizzato, lievita, viene condito, messo nel forno, dà loro una grande soddisfazione. Il mio obiettivo - aggiunge - è preparare nuove leve, trasmettere loro la mia passione, far capire che la pizza nasce anche con tanta passione e tanta forza interiore”. Questi giovanissimi “danno tanto - conclude Bianchi - e hanno voglia di imparare, entrano nel laboratorio con gli occhi che brillano”. A fine corso, avranno un attestato di competenze facilmente da accompagnare al curriculum e spendibile nel mondo del lavoro. Lamin, 18 anni da compiere, è originario del Gambia e chiarisce che è “importantissimo per me frequentare questa scuola, perché senza il lavoro non c’è futuro”. Un corso di 120 ore - “Quando sono entrato nel mondo del lavoro ero giovane e disorientato, ma ho avuto la fortuna - ricorda il piazzaiolo Bianchi con emozione - di incontrare un bravo maestro che mi ha trasmesso la passione per quello che, poi, sarebbe diventato il mestiere della mia vita”. Da due anni nel suo locale ha aperto una scuola per pizzaioli, amatoriali o professionisti: insegnare è nel suo dna. Il corso sostenuto da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e al cofinanziamento di Fondazione Carispezia, è di 120 ore in tutto tra la pratica in laboratorio e la teoria in aula didattica. E i 13 adolescenti, tra i 16 e i 18 anni, sono ospiti del Centro di Accoglienza “La Cittadella della Pace” e della comunità educativa per minori “La Casa sulla Roccia”, entrambe comunità di accoglienza di Caritas diocesana La Spezia-Sarzana-Brugnato. Medio Oriente. “Ho visto Sde Teiman, non è solo un carcere ma la nostra vendetta” di Michele Giorgio Il Manifesto, 5 luglio 2024 Parla un medico israeliano entrato nella base-prigione di Israele nel Neghev, in cui i palestinesi sono ammanettati al letto per mesi. Torture, abusi e violenze di ogni genere a danno di centinaia di detenuti palestinesi di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre, anche quelli gravemente feriti e ammalati. Di quanto accade nel centro di detenzione di Sde Teiman, la Abu Ghraib di Israele, nei pressi di Bersheeva nel Neghev, si parla da mesi. Solo qualche settimana fa, grazie alla denuncia dei media internazionali e alla petizione presentata alla Corte suprema dall’Associazione israeliana per i diritti umani, le autorità hanno deciso di trasferire gran parte dei palestinesi tenuti prigionieri a Sde Teiman. Ne rimangono altri duecento e le loro condizioni non sono migliorate. Abbiamo raccolto la testimonianza del dottor F.K. che ha visitato Sde Teiman. Ci ha chiesto di non rivelare la sua identità. Quante volte sei stato a Sde Teiman? Solo una. Sono un chirurgo e mi hanno chiamato a proposito di un detenuto palestinese in gravi condizioni che pochi giorni prima era stato ricoverato nell’ospedale pubblico in cui lavoro. Stava molto male e volevano un parere. Quella persona avrebbe dovuto rimanere ricoverato nella struttura ospedaliera e non essere rimandato subito a Sde Teiman. So di prigionieri (palestinesi) che dopo essere stati operati negli ospedali non sono stati tenuti in terapia intensiva o in osservazione, ma portati subito nei centri di detenzione e nelle prigioni in condizioni instabili. Cos’è Sde Teiman? Fondamentalmente è un’enorme base militare con un’area di detenzione divisa in due parti. Una è una sorta di ospedale da campo, dove sono stato io. Nell’altra ci sono le tende con i prigionieri di Gaza. Tutto appare molto precario. All’ingresso sono ammassati i materiali sanitari. Gli ammalati si trovano sotto una tensostruttura, uno scheletro di metallo coperto da un tendone. Quindi sono esposti alle condizioni esterne, con temperature che di notte scendono notevolmente. Sono stato accolto da un medico e due infermiere e mi è stato subito chiesto di non fare il mio nome con nessuno e di non fare il nome di altri; pertanto, si lavora sotto uno stretto animato. Poi mi hanno fatto indossare un camice e una mascherina. Ho trovato due file di pazienti, in totale una quindicina, forse venti. Ho notato subito che erano tutti legati, mano e gamba separatamente, ai bordi del letto. Erano bendati, quasi nudi e con il pannolone. Costretti a rimanere a letto, sempre sdraiati sulla schiena, non vanno in bagno o non vengono portati ai bagni. Cosa ti hanno detto i medici che lavorano lì? Quelli con cui ho interagito, anche nei giorni seguenti su Whatsapp, non sono chirurghi o da terapia intensiva. Non sanno come intervenire su pazienti che, forse non tutti ma sicuramente la maggior parte, sono feriti da arma da fuoco, al torace e all’addome. Fondamentalmente i medici di Sde Teiman devono essere guidati da specialisti, ecco perché mi hanno chiesto di visitare anche altri pazienti, oltre a quello per cui ero stato convocato. I detenuti hanno cercato di comunicare con te? No. C’era sempre un soldato con me che parlava arabo e mi faceva da traduttore. Le mie domande erano chiaramente limitate ad aspetti di carattere medico. Ma non credo che avrebbero voluto parlarmi, in quel momento io rappresentavo la parte nemica. Alcuni dei palestinesi liberati dopo mesi di detenzione a Sde Teiman, tornati a Gaza hanno denunciato di essere stati torturati e di non aver ricevuto cure adeguate. L’ultimo in ordine di tempo è stato il direttore dello Shifa Hospital di Gaza city, Mohammed Abu Salmiya. I centri per i diritti umani, anche israeliani, hanno fatto altrettanto. Puoi confermare queste accuse? Non sono stato testimone diretto di violenze o di torture sui pazienti. Però, come medico e come persona, penso che se un essere umano resta per giorni in un posto, esposto all’ambiente esterno spesso molto freddo di notte, non può muoversi perché è ammanettato al letto e bendato, non capisce la lingua che si parla intorno a lui, ebbene questa per me è una forma di tortura. Senza dimenticare che un medico ha un codice etico e professionale al quale è vincolato. Qui invece abbiamo il ministero della sanità e l’esercito che impongono che i pazienti siano bendati 24 ore su 24. Siamo di fronte a forme di tortura, anche psicologiche. Quindi la denuncia di Abu Salmiya è credibile? La ritengo verosimile. A mio avviso per comprendere il caso di Sde Teiman il discorso va allargato alla società israeliana e all’atteggiamento di certi medici in Israele nei quali scatta una sorta di meccanismo di difesa, come lo chiamo io, con il quale giustificano certe cose che dal mio punto di vista non sono distanti dalla violenza e che vengono perpetrate in un contesto di terapia. Faccio l’esempio di un palestinese ferito portato al mio ospedale nei giorni successivi al 7 ottobre. Su di lui è stata eseguita una procedura estremamente dolorosa, una incisione e un drenaggio, senza aver ottenuto da lui un consenso informato, senza l’uso di anestesia adeguata, senza neppure un analgesico locale. Quello è stato uno dei momenti in cui ho capito che noi facciamo cose del genere (sui palestinesi) sebbene la legge le definisca forme di violenza fisica. Se non procedi con le terapie antidolorifiche previste, allora è vendetta. C’è un problema grosso nella società israeliana. Il palestinese, soprattutto il palestinese di Gaza, è completamente disumanizzato. E fargli determinate cose è considerato lecito. Tornando alla tua visita a Sde Teiman, cosa ti dicevano i medici che lavorano stabilmente nel centro di detenzione? Sono in una situazione particolare. Ho colto un senso di frustrazione in loro che, forse, vorrebbero curare i detenuti in maniera più adeguata. Ma conta il contesto. Lì siamo in una tenda nel deserto, con pazienti legati e ammanettati, non hai strumenti se non quelli per fare una lastra, un elettrocardiogramma o qualche esame del sangue. Quando hai dei feriti da arma da fuoco uno degli esami più importanti è la Tac, se hanno infezioni allora hai bisogno di un laboratorio di microbiologia. Tutte queste cose non le hanno a Sde Teiman. Anche se i pazienti non sono stabili gli esami più urgenti sono richiesti con ritardo. L’utilizzo della medicina come forma di violenza e di vendetta che deve farci riflettere. Non puoi tenerli in vita all’unico scopo di permettere che siano interrogati. A distanza di tempo, cosa ti viene da pensare della tua visita a Sde Teiman? Che è tutto così surreale. È uno dei paradossi del vivere qui. Sde Teiman non è come una infermeria da campo dell’esercito americano sperduta nel deserto dell’Afghanistan, non è un posto che si raggiunge dopo ore ed ore di viaggio del deserto. Io ho viaggiato in auto per una quarantina di minuti, ho anche avuto modo di mangiare uno spuntino ad una stazione di servizio, e in questo poco tempo sono giunto in un posto che è scollegato e fuori dal mondo, in cui non si pratica una medicina adeguata e moderna perché i pazienti sono di Gaza, e che è abbastanza vicino al mio ospedale in cui invece si pratica una medicina avanzata. Tutto questo, pensi, non ha nessun senso. Poi ci rifletti su e capisci che ha un senso perché rientra in un quadro in cui il ministro della salute proclama che gli ospedali pubblici non cureranno mai i “terroristi di Gaza”, in cui è evidente che c’è una volontà di compiere una vendetta. Quel breve viaggio dal mio ospedale a Sde Teiman mi ha detto tanto della nostra società. Medio Oriente. A Sde Teiman stupri, sevizie e silenzio. “Mai visto niente del genere” di Baker Zoubi Il Manifesto, 5 luglio 2024 Un articolo della testata +972 che riporta la testimonianza dell’avvocato Khaled Mahajneh: era stato contattato da una rete tv per cercare un giornalista detenuto nel “campo della morte”. “La situazione lì è più orribile di qualsiasi cosa abbiamo sentito su Abu Ghraib e Guantanamo”. È così che Khaled Mahajneh descrive il centro di detenzione di Sde Teiman in qualità di primo avvocato a visitare la struttura. Più di 4.000 palestinesi arrestati da Israele a Gaza sono stati detenuti presso la base militare nel Naqab/Negev dal 7 ottobre; alcuni di loro sono stati successivamente rilasciati, ma la maggior parte rimane in detenzione. Mahajneh, cittadino palestinese di Israele, è stato inizialmente contattato da Al Araby tv, che cercava informazioni su Muhammad Arab, un giornalista della rete arrestato a marzo mentre copriva l’assedio israeliano dell’ospedale Al-Shifa a Gaza City. “Ho contattato il centro di controllo dell’esercito israeliano e, dopo aver fornito loro una foto e una carta d’identità del detenuto, oltre al mio documento ufficiale di procura, mi è stato comunicato che era detenuto a Sde Teiman e che poteva essere visitato”. Quando Mahajneh è arrivato alla base il 19 giugno, gli è stato richiesto di lasciare l’auto lontano dal sito, dove una jeep dell’esercito era in attesa per trasportarlo all’interno. “Una cosa del genere non mi era mai capitata in nessuna visita che avevo fatto in precedenza a una prigione”, dice a +972. Hanno guidato per circa 10 minuti attraverso la struttura, una vasta rete di roulotte, prima di arrivare a un grande magazzino, che conteneva una roulotte sorvegliata da soldati mascherati. “Hanno ripetuto che la visita sarebbe stata limitata a 45 minuti, e qualsiasi azione che potesse danneggiare la sicurezza dello stato, del campo o dei soldati avrebbe portato alla sua immediata cessazione. Ancora non capisco cosa intendessero”, afferma Mahajneh. I soldati hanno trascinato fuori il giornalista detenuto con le braccia e le gambe legate, mentre Mahajneh rimaneva dietro una barriera. Dopo che i soldati gli hanno rimosso la benda, Arab si è sfregato gli occhi per cinque minuti, non più abituato alla luce intensa. “Dove sono?” è stata la prima domanda che ha fatto a Mahajneh. La maggior parte dei palestinesi a Sde Teiman non sa nemmeno dove si trova; con almeno 35 detenuti morti in circostanze sconosciute dall’inizio della guerra, molti lo chiamano semplicemente “il campo della morte”. “Ho visitato detenuti politici e di sicurezza e prigionieri nelle carceri israeliane per anni, anche dopo il 7 ottobre”, osserva Mahajneh. “So che le condizioni di detenzione sono diventate molto più dure e che i prigionieri vengono maltrattati quotidianamente. Ma Sde Teiman è diversa da qualsiasi cosa abbia mai visto o sentito prima”. Mahajneh racconta che Arab era quasi irriconoscibile dopo 100 giorni nella struttura di detenzione; il suo viso, i capelli e il colore della pelle erano cambiati, ed era coperto di sporco e di escrementi di piccioni. Il giornalista non riceveva nuovi vestiti da quasi due mesi, e gli era stato permesso di cambiare i pantaloni per la prima volta quel giorno a causa della visita dell’avvocato. A detta di Arab, i detenuti vengono continuamente bendati e legati con le mani dietro la schiena, costretti a dormire rannicchiati sul pavimento. Le loro manette di ferro vengono rimosse solo durante una doccia settimanale di un minuto. “Ma i prigionieri hanno iniziato a rifiutare di fare la doccia perché non hanno orologi, e superare il minuto assegnato li espone a punizioni severe, fra cui venire lasciati all’esterno per ore sotto il sole o la pioggia”, dice Mahajneh. Le condizioni di salute di tutti i detenuti, nota l’avvocato, si sono deteriorate a causa della scarsità della loro dieta quotidiana: una piccola quantità di labaneh e un pezzo di cetriolo o pomodoro. Soffrono anche di grave stitichezza, e per ogni 100 prigionieri viene fornito solo un rotolo di carta igienica al giorno”. Ai detenuti è proibito parlare tra loro, anche se più di 100 persone vengono tenute in un magazzino, alcuni di loro anziani e minori, dichiara Mahajneh. “Non è permesso loro pregare o persino leggere il Corano”. Arab ha anche testimoniato al suo avvocato che le guardie israeliane hanno violentato sei prigionieri con un bastone davanti agli altri detenuti per aver violato degli ordini. “Quando ha parlato di stupri, gli ho chiesto, ‘Muhammad, sei un giornalista, sei sicuro di questo?’” ricorda l’avvocato. “Ha risposto che l’ha visto con i suoi occhi e che ciò che mi stava raccontando era solo una piccola parte di ciò che sta accadendo lì”. Diversi media, tra cui Cnn e New York Times, hanno riportato casi di stupro e violenza sessuale a Sde Teiman. In un video circolato sui social, un prigioniero palestinese recentemente rilasciato dal campo di detenzione ha detto di aver assistito personalmente a molteplici stupri e a casi in cui i soldati israeliani hanno fatto in modo che i cani violentassero i prigionieri. Solo nell’ultimo mese, secondo Arab, diversi prigionieri sono stati uccisi durante interrogatori violenti. Altri detenuti feriti a Gaza sono stati costretti all’amputazione di arti o alla rimozione di proiettili dai loro corpi senza anestesia, e sono stati curati da studenti di infermieristica. Le squadre di difesa legale e le organizzazioni per i diritti umani sono state in gran parte incapaci di contrastare queste gravi violazioni dei diritti dei prigionieri a Sde Teiman, e alla maggior parte di loro è persino vietato visitare la struttura, per evitare un maggiore controllo. “Dopo dure critiche, l’ufficio del Procuratore dello Stato ha detto che il centro di detenzione sarebbe stato chiuso, ma non è successo nulla”, dice Mahajneh. “Anche i tribunali sono pieni di odio e razzismo contro il popolo di Gaza”. La maggior parte dei prigionieri, nota l’avvocato, non è formalmente accusata di appartenere a nessuna organizzazione o di aver preso parte a attività militari; lo stesso Arab non sa ancora perché è stato detenuto o quando potrebbe essere rilasciato. Da quando è arrivato a Sde Teiman, i soldati delle unità speciali dell’esercito israeliano lo hanno interrogato due volte. Dopo il primo interrogatorio, gli è stato comunicato che la sua detenzione era stata prolungata a tempo indeterminato, sulla base del “sospetto di affiliazione a un’organizzazione la cui identità non gli è stata rivelata”. Negli ultimi mesi, diversi media internazionali hanno pubblicato testimonianze di prigionieri rilasciati e di medici che hanno lavorato a Sde Teiman. Per il medico israeliano Yoel Donchin, che ha parlato con il New York Times, non era chiaro perché i soldati israeliani tenessero in stato di prigionia molte delle persone che ha curato, ed era “molto improbabile” che alcune di loro”“fossero combattenti” a causa di malattie fisiche preesistenti o disabilità. Il Times ha anche riportato che i medici della struttura erano stati istruiti di non scrivere i loro nomi sui documenti ufficiali, e di non rivolgersi l’un l’altro per nome in presenza dei pazienti, per paura di essere successivamente identificati e accusati di crimini di guerra presso la Corte penale internazionale. “Li hanno spogliati di tutto ciò che assomiglia all’umanità” ha detto alla Cnn un testimone che ha lavorato come medico presso l’ospedale improvvisato della struttura. “Le percosse non erano inflitte per raccogliere informazioni, ma per vendetta”, ha detto un altro testimone. “Era una punizione per ciò che avevano fatto il 7 ottobre e per il comportamento nel campo”. La visita a Sde Teiman ha suscitato in Mahajneh profonda frustrazione e rabbia, ma soprattutto orrore. “Faccio questo lavoro da 15 anni. Non mi sarei mai aspettato di sentire parlare di stupri o umiliazioni di questo tipo. E tutto questo non per interrogarli, dato che la maggior parte dei prigionieri viene interrogata solo dopo molti giorni di detenzione, ma come atto di vendetta. Vendicarsi di chi? Sono tutti cittadini, giovani, adulti e bambini. Non ci sono membri di Hamas a Sde Teiman perché sono nelle mani dello Shabas (Servizio carcerario israeliano)”. Nella sua risposta alle domande per questo articolo, l’esercito israeliano ha dichiarato: “L’Idf respinge le accuse di maltrattamenti sistematici dei detenuti, comprese violenze o torture. Se necessario, vengono aperte indagini della polizia militare quando vi è il sospetto di comportamenti anomali che lo giustificano”. L’esercito ha negato i racconti di Arab e Mahajneh e ha insistito che ai detenuti vengono forniti abiti e coperte sufficienti, cibo e acqua (“tre pasti al giorno”), accesso a toilette e docce (“tra 7 e 10 minuti”) e altre comodità. L’esercito ha anche aggiunto: “Dall’inizio della guerra, ci sono stati decessi di detenuti, inclusi detenuti che sono arrivati feriti dal campo di battaglia o in condizioni mediche problematiche. Ogni morte viene indagata dalla polizia militare. Al termine delle indagini, i risultati vengono inoltrati all’ufficio dell’Avvocato generale militare”. Mahajneh ha trasmesso un messaggio chiaro da Sde Teiman: “Muhammad Arab e gli altri prigionieri nel centro fanno appello alla comunità e i tribunali internazionali perché agiscano per salvarli. È inconcepibile che tutto il mondo parli degli ostaggi israeliani, e nessuno parli dei prigionieri palestinesi”. Mahajneh non sa cosa sia successo al giornalista dopo la sua breve visita di 45 minuti. “L’hanno attaccato? L’hanno ucciso? Ci penso continuamente”. Medio Oriente. Il Libano è il Paese con più rifugiati nel mondo. Ed è sull’orlo di una nuova guerra di Claudia Cavaliere L’Espresso, 5 luglio 2024 Nei campi lungo il confine con Israele ci sono migliaia di persone scappate dalla propria casa che arrivano soprattutto da Siria e Palestina. Vivono in condizioni precarie. Che con l’intensificarsi del conflitto a Gaza peggiorano di giorno in giorno. Quando Israele dopo nove mesi ha fatto sapere che avrebbe potuto cambiare le regole della guerra, Hezbollah aveva pubblicato un lungo video in cui si vedevano immagini aeree del porto della città di Haifa - a una trentina di chilometri dal confine con il Libano e la terza più grande del Paese - assieme alla dimostrazione della capacità di penetrare le difese aeree del vicino. L’incertezza di quello che sarà il futuro del Medio Oriente si scrive anche lungo il confine meridionale del Libano, la cui complessità è scritta in decenni di contrasti, conflitti e sopravvivenza. Hussein al-Ali ha vent’anni, è siriano e vive assieme ai genitori in una tenda allestita nella Valle della Bekaa, il territorio fertile a trenta chilometri a Est di Beirut, vicino al confine tra il Libano e la Siria. Con la sua famiglia è arrivato nel 2013, due anni dopo che le proteste della primavera araba a Damasco si sono trasformate in una feroce guerra. Lui è anche una delle persone che sono state costrette con la forza a lasciare il Libano mentre cresce un sentimento anti-siriano che prende sempre più forza tra le preoccupazioni sulla sicurezza e l’impatto economico sulla classe operaia libanese: la mattina di un sabato della scorsa primavera è stato fermato dall’esercito che lo ha accompagnato ad Al Masnaa, duecento metri oltre il confine, con un invito a non ritornare. “Abbiamo perso i nostri documenti assieme al nostro Paese. Quando sono stato deportato perché non sono in regola, mi hanno mandato da un giudice che mi ha dato un foglio in cui si diceva che ero obbligato a prestare servizio militare entro quindici giorni dal mio ingresso nel Paese. Da lì ho camminato per quattro giorni verso quello che era il mio villaggio vicino ad Aleppo. Ci sono dovuto andare perché era il punto in cui dei trafficanti mi avrebbero preso e riportato indietro, ma non ho potuto, tra tutti quelli che ho attraversato, capire con certezza quale fosse il mio: tutte le nostre case sono state distrutte, dove c’era la nostra, ora ci sono macerie”, racconta. Se gli viene domandato se ha mai pensato di tornare in Siria risponde che non saprebbe per fare cosa: non c’è sicurezza, non c’è vita, non c’è lavoro, non c’è cibo, non c’è neppure un rifugio a cui tornare. Dopo tredici anni di crisi, i bisogni umanitari per i siriani sono sempre più significativi: circa sette milioni di cittadini rimangono sfollati nel loro Paese, mentre oltre 5,5 milioni sono rifugiati nei cinque confinanti. Secondo le stime del governo, il Libano ne ospita da solo almeno 1,5 milioni su una popolazione totale di oltre 5 milioni, fatto che lo rende il posto con la maggiore popolazione di rifugiati pro capite nel mondo e facendo di quella siriana una crisi libanese. Pensare al Libano come crocevia di popoli è nella sua storia: i maroniti che lasciarono la Siria, i curdi che abbandonarono la Turchia, gli ebrei scappati dall’Egitto, gli armeni per salvarsi dal genocidio, poi i palestinesi, per ultimi i siriani. “Nella filosofia di chi per primo negli anni Venti aveva cominciato a pensare a quello che sarebbe diventato il Libano, c’era la visione che lo vedeva come il rifugio delle minoranze, il luogo dove avrebbero potuto sentirsi al sicuro. È parte della sua identità e certamente ha creato la sua apertura, la sua diversità”, spiega Paul Salem, senior scholar ed ex presidente e amministratore delegato del Middle East Institute. Il Libano è il Paese in cui il sistema politico si fonda su un’unica al mondo e matematica divisione delle cariche su base religiosa e dove dalla Costituzione vengono riconosciute diciotto confessioni, la cui spartizione in seggi fu decisa da un censimento degli anni Trenta, quando i cristiani erano la maggioranza. Quando nel 1948 furono aperte le porte ai palestinesi costretti ad abbandonare le proprie case, le persone si stabilirono nel Paese e poi nei campi profughi allestiti per loro, come quello di Shatila, nella capitale Beirut. Vive ancora lì Mohammad, in quella che fu la casa di suo nonno scappato dal villaggio di al-Khalisa - oggi Kiryat Shmona - durante la prima Nakba, che di fronte alle immagini trasmesse dai ricordi familiari della Palestina dice: “Sono le mie persone che stanno venendo uccise, non solo ora, ma negli ultimi settantacinque anni. Penso che la libertà venga con un prezzo, con il sangue e che non arriverà con pacifici negoziati perché non è mai successo prima. Giusto sarebbe che l’occupazione delle nostre terre terminasse, le hanno prese con la forza e solo con la forza le riavremo indietro. Questa terra non avrebbe dovuto essere promessa a nessun altro, perché era nostra”. Quegli anni non furono facili e poi seguì la guerra civile che ancora oggi si vede per le strade di Beirut. Anche nel 2011 con il conflitto in Siria, il Libano ha aperto le sue porte, ma già dall’inizio il governo aveva deciso che non sarebbe stato istituito ufficialmente nessun campo profughi né che sarebbe stato riconosciuto loro lo status di rifugiato: solo una serie di insediamenti informali per non ripetere quello che era accaduto sessant’anni prima. Nel mentre il Paese è stato investito da una delle peggiori crisi economiche mai registrate, poi l’esplosione al porto di Beirut, la mancanza dei beni primari, l’inflazione a tre cifre, la svalutazione della moneta. “La questione importante per il Libano è che i profughi ci sono e che sono lì da tanto tempo e chissà per quanto. La quasi disperata scelta libanese di provare a riportare molti di loro in Siria non è una strada percorribile, perché lì le condizioni non sono tali da poter riaccogliere nessuno: il Paese è in una situazione economica disastrosa, peggiore di quella del Libano, molti dei villaggi e delle città da cui provengono le persone non esistono più, il regime non li vuole davvero e può a malapena governare quelli che sono rimasti”, prosegue Salem. In uno stato in crisi come il Libano, i profughi rappresentano un peso - su infrastrutture, istruzione, acqua, sanità - ma nessuna delle sue maggiori difficoltà è stata causata da loro: la classe politica non è stata capace di organizzare il Paese, che continua ad affidarsi a un governo ad interim da due anni, in cui nel Parlamento non emerge nessuna maggioranza e dove è risultato impossibile dalla fine del 2022 eleggere un nuovo presidente della Repubblica. E se il Nord e il confine orientale sono stati fiaccati dalla questione siriana, la guerra nella Striscia di Gaza ha riacceso il confine tra il Sud del Libano e il Nord di Israele, dove sono stati quotidiani gli attacchi reciproci tra Hezbollah e lo Stato ebraico, minaccia di una guerra più ampia: dal lato libanese gli abitanti hanno volontariamente cominciato a lasciare le proprie case per fuggire dai colpi di Israele e dal fosforo bianco, così come evacuazioni sono state organizzate nelle città israeliane di frontiera. In Libano questo ha creato un’ondata di almeno 90.000 rifugiati interni che sono stati ricollocati in tutto il Paese. Nella municipalità di Tiro, città meridionale a sbocco sul mare, ne sono arrivati almeno 27.000 che ora vivono in appartamenti o rifugi e che hanno fatto delle classi di alcune scuole il loro nuovo alloggio. Nella seconda C della scuola “Hassan Farran” di Tiro c’è Aina con due dei suoi tre figli: accatastati su un lato della parete ci sono i banchi che ora sono armadi e pensili da cucina, sulla lavagna si vede il disegno di una casa, è la loro a Naqoura, che hanno abbandonato di fretta nella notte tra l’8 e il 9 ottobre nel ricordo della guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah. “La città non ha più spirito, è tutto finito. Seguiamo con preoccupazione quello che accade al confine e ogni volta che sentiamo di un attacco, ci chiediamo se a essere stato colpito è qualcuno che conosciamo. Intorno tutti vivono una vita normale, mentre la nostra si è capovolta e la cosa peggiore è che non ci è dato sapere quando e se sarà possibile ritornarci”.