L’abisso delle carceri come settanta anni fa di Donatella Stasio La Stampa, 4 luglio 2024 C’è una storia paradigmatica dell’abisso in cui può precipitare il carcere al di là delle leggi, quando il clima politico volge lo sguardo a un passato mai passato del tutto, che rigurgita nonostante l’argine della Costituzione. È una storia dell’altro secolo ma di straordinaria attualità di fronte al macabro balletto del governo sull’emergenza carcere (emergenza vera, non fasulla come altre ad uso e consumo propagandistico): primo passo, moltiplicare i reati e le pene per uomini e donne, giovani e vecchi, italiani e stranieri, madri e figli, fuori e dentro il muro di cinta; secondo passo, riempire le patrie galere di poveri, malati psichiatrici e tossicodipendenti per sottrarli alla vista dei liberi e alle responsabilità di un welfare assente; terzo passo, “gonfiarsi le gote” - direbbe Filippo Turati - con parole come ordine e sicurezza per sedare proteste o dissensi, chiudendo gli occhi su pestaggi e torture; quarto passo, far “marcire in galera” chi è condannato, senza sconti, premi, nulla, altrimenti che pena è; quinto, definire “resa dello Stato” ogni misura strutturale che liberi il carcere da chi non dovrebbe starci, o poterebbe già uscirne; e per finire, la piroetta del decreto salvifico, inadeguato tanto quanto un governo incapace di capire che 49 suicidi di detenuti e 5 di poliziotti in soli sei mesi sono già una “resa dello Stato”. Purtroppo, anche se Forza Italia riuscirà davvero a sfilarsi da questa danza macabra, il carcere rimarrà illegale, almeno finché il governo non imparerà che, in una democrazia degna di questo nome, non si aspetta il precipizio per essere “costretti” a dire, e soprattutto a fare (forse), “qualcosa di costituzionale”. “Marcire in galera” era regola aurea del ventennio fascista, sperimentata da tanti costituenti, come detenuti politici. Molti finirono nel carcere di Santo Stefano, l’isolotto al largo di Ventotene dove i Borboni avevano costruito “l’ergastolo” e dove, dal 1952 al 1960 si svolge la storia che voglio raccontarvi. L’ergastolo di Santo Stefano era così chiamato per le modalità con cui veniva scontata la pena, senza speranza e senza rispetto per la dignità dei reclusi, trattati come bestie. Centinaia di uomini “dimentichi del mondo e dimenticati dal mondo” scrive nelle sue Ricordanze Luigi Settembrini, anche lui “sepolto vivo” a Santo Stefano insieme a centinaia di patrioti, poi di anarchici come il regicida Gaetano Bresci, di eroi della resistenza come Sandro Pertini e Umberto Terracini, successivamente confinati a Ventotene con il padre dell’Europa Altiero Spinelli. Nel 1952 - la Costituzione era già in vigore ma la Corte costituzionale non era ancora operativa - arrivò un direttore diverso dagli altri, Eugenio Perucatti, e trasformò quella “tomba dei vivi” in un carcere modello, dove i detenuti trascorrevano gran parte del tempo all’aperto, lavorando per il carcere e per la piccola comunità di Santo Stefano. Nell’isola arrivarono strade, acqua, luce, scuola, radio, un campo di calcio e persino il cinema. I detenuti erano finalmente rispettati come persone. Uno di loro faceva da baby sitter al figlio piccolo del direttore, che crebbe educato dagli ergastolani e che su quegli anni ha scritto un libro (leggetelo). Perucatti riformò il carcere a cominciare dalla relazione tra guardie e detenuti, chiamandoli alla responsabilizzazione. Quando arrivò, i rapporti erano pessimi. Era ancora in vigore il regolamento fascista e la sua rigida applicazione provocava rivolte e violenze; per sedarle, invece di mandare gli agenti migliori, il ministero mandava i peggiori, squadrette feroci nella repressione, ma più aumentavano le rappresaglie, più aumentavano violenze e suicidi. Cambiare sembrava impossibile. E invece, il carcere cambiò. Cambiò grazie a un progetto che, per l’epoca, era “criminale”, perché violava tutte le norme fasciste in vigore, salvo l’articolo 27 della Costituzione che sancisce il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e la funzione rieducativa della pena. All’epoca, però, quella norma non era considerata immediatamente applicabile, ma programmatica. Una distinzione eliminata solo nel 1956 con la prima sentenza della Consulta, che così aprì la strada alla bonifica delle norme fasciste sopravvissute alla Costituzione. Perucatti fu un precursore di quella sentenza, e di molte altre. Rischiò, ma non ebbe paura. Oggi il quadro è rovesciato: le leggi e i regolamenti sono cambiati grazie alla Costituzione, e basterebbe applicarli per avere un carcere come quello di Perucatti, eppure la realtà è fuorilegge. L’illegalità produce emergenza e l’emergenza illegalità: le buone norme vengono sospese e trovano spazio misure emergenziali. I risultati? Aumentano il sovraffollamento, le rivolte e i pestaggi, aumentano i suicidi, l’insicurezza dentro e fuori le carceri, la recidiva, peggiora la vita dei detenuti e dei poliziotti. Perucatti “vide” tutto questo e imboccò tenacemente la strada della Costituzione e della responsabilità, ottenendo risultati eccezionali, al contrario dell’Amministrazione penitenziaria che, dopo l’iniziale appoggio, nel 1960 assecondò il clima politico dell’epoca e lo cacciò, senza mai più recuperare un modello di carcere rispettoso della persona. Fu questo rispetto che, fra l’altro, indusse Perucatti a violare il regolamento fascista anche per tutelare l’affettività dei detenuti (anticipando di nuovo la Consulta, rimasta a tutt’oggi inascoltata): chiamò “piazza della redenzione” lo spazio per accogliere le famiglie dei reclusi e, per non spezzare i loro legami affettivi, vi fece costruire dagli ergastolani, su progetto di uno di loro, una foresteria dove potessero stare in libertà e con il massimo dell’intimità. Ebbene, un bel giorno tutto questo fu distrutto. Tra la fine del 1959 e i primi mesi del 1960, l’Italia attraversava un periodo politico difficile che sfociò in un governo democristiano, il governo Tambroni, con l’appoggio determinante della destra, il Movimento sociale italiano. Il Paese sembrava rivolto al passato, ai valori del ventennio fascista, ordine e disciplina, e non c’era spazio per cambiamenti all’insegna della Costituzione. Un giornale conservatore pubblicò un articolo pesantissimo intitolato “Santo Stefano, il dolce ergastolo”, in cui il progetto Perucatti veniva definito una “villeggiatura” per i detenuti, proprio come il regime fascista chiamava il confino dei detenuti politici, e come oggi sentiamo dire - di fronte a qualche esperimento di carcere rispettoso dei diritti - da chi sostiene che la pena è “certa” solo se si marcisce in galera. Il ministero mandò un’ispezione per verificare la violazione, da parte del direttore, del regolamento (sempre quello fascista) e in un attimo i passi avanti furono azzerati. Ogni resistenza fu inutile. In quel clima politico, il modello Perucatti diventò ingombrante e fu distrutto con ogni scusa e mezzo (facendo persino evadere dei detenuti). Perucatti fu lasciato solo e poi trasferito. Il carcere di Santo Stefano tornò ad essere la “tomba dei vivi” e fu chiuso nel 1975, l’anno della riforma penitenziaria, purtroppo rimasta in gran parte sulla carta come i successivi regolamenti. Non è una storia a lieto fine. Ma la morale è chiara: in mancanza di una solida “mentalità costituzionale”, i diritti e la democrazia precipitano nell’abisso, dentro e fuori il carcere. Zero “sconti”, impatto minimo: ecco il Dl Carcere di Franco Insardà Il Dubbio, 4 luglio 2024 Nessun innalzamento delle detrazioni di pena, il governo si limita ad attribuire ai pm il calcolo dei benefici. I detenuti sono 61.510 a fronte di 47.003 posti regolarmente disponibili, rispetto alla capienza regolamentare di 51.209, con 4.206 posti in meno per l’inagibilità di diverse camere di pernottamento e in alcuni casi di intere sezioni. Situazione che fa schizzare l’indice di sovraffollamento del carcere di San Vittore, per esempio, al 224,02%, con un tasso nazionale, comunque drammatico, del 130,86%. Con una situazione simile, il decreto carcere varato ieri dal governo appare come un palliativo. Il provvedimento prevede assunzioni di dirigenti penitenziari e personale polizia penitenziaria; semplificazione e velocizzazione delle procedure per l’accesso alla liberazione anticipata ordinaria (già vigente da anni); aumento delle telefonate per i detenuti; creazione di un albo delle comunità in cui dirottare chi è a fine pena. Il guardasigilli Carlo Nordio si è affrettato a chiarire: “Non ho mai voluto, né userò mai, la parola svuotacarceri, impropria e anche diseducativa”. Secondo il ministro, il provvedimento “si può definire di umanizzazione carceraria: sappiamo quali sono le emergenze, tra cui i suicidi in carcere o la situazione dei minori. Domani (oggi, ndr) alla Camera va in discussione il cosiddetto ddl Nordio che riguarda tra l’altro intercettazioni, carcerazione preventiva e certezza della pena”. Il titolare della Giustizia ha spiegato che “le misure più importanti riguardano la liberazione anticipata: è una specie di patto che facciamo col detenuto”. Nelle intenzioni del governo la principale misura per ridurre il numero dei detenuti dovrebbe essere appunto quella di un accesso teoricamente più agevole alla liberazione anticipata ordinaria, con la semplificazione e la velocizzazione delle procedure per i magistrati di sorveglianza. La differenza sta nel fatto che, mentre fino a ieri il detenuto presentava istanza per avere il calcolo e il riconoscimento dello sconto di pena (45 giorni ogni 6 mesi), con la nuova norma è il pm, nell’ordine di esecuzione, a indicare due possibili “fine pena”, calcolando anche quello risultante dalle detrazioni in caso di buona condotta (per “rafforzare il patto rieducativo col detenuto”, consapevole che in caso di buona condotta ha accesso al beneficio); il magistrato di sorveglianza a propria volta calcola d’ufficio la liberazione anticipata su istanza del detenuto purché il calcolo faccia accedere ad altri benefici. Si ridurrebbe così il numero delle istanze irrilevanti al fine dell’ottenimento di benefici, ritenute responsabili di intasare il lavoro dei giudici di sorveglianza. Parliamo comunque della liberazione anticipata ordinaria concessa al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. Cosa ben diversa dalla liberazione anticipata speciale di 75 giorni ogni sei mesi, prevista dalla proposta di legge Giachetti-Bernardini, in discussione alla Camera, ma che rischia di finire su un binario morto, e anche dall’aumento a 60 (anziché 45) ogni sei mesi per la liberazione anticipata ordinaria, indicato sempre nel testo del deputato di Italia Viva e della presidente di Nessuno tocchi Caino. A febbraio di quest’anno, la stessa Bernardini, interloquendo con via Arenula, aveva proposto una soluzione simile a quella adottata dal decreto per snellire le procedure per la concessione della liberazione anticipata ordinaria. Peccato che l’idea sia stata recepita con 5 mesi di ritardo, durante i quali i suicidi in cella si sono contati a decine. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, della Lega, parla di grosso risultato: “Nessuno sconto di pena, nessuno svuota carceri, ma un impegno a snellire la burocrazia, facilitare il lavoro dei Tribunali di Sorveglianza, aumentare gli agenti di Polizia penitenziaria, combattere la piaga dei suicidi e assicurare programmi di recupero basati sul lavoro, anche presso comunità riconosciute e sicure”. Il decreto prevede la possibilità di accedere alle misure penali di comunità attraverso l’ingresso in strutture residenziali idonee all’accoglienza e alla riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti o con disagio psichico. Ma anche questa misura rischia di produrre pochi effetti. Si punta a ridurre il numero dei detenuti anche con la definizione degli “accordi con gli Stati di provenienza dei reclusi stranieri”. Nordio ha ricordato anche che nel testo “c’è uno slittamento di un anno dell’entrata in vigore del Tribunale per i minorenni e le famiglie”. Mentre quello delle madri detenute è “discorso molto complesso”. Non usa mezzi termini per giudicare negativamente il provvedimento Enrico Costa di Azione, che su X scrive: “Il decreto “carcere sicuro” è un titolo senza contenuti, non cambierà nulla, proseguirà l’incivile sovraffollamento, non cesserà la tragica catena di suicidi, la funzione rieducativa della pena resterà nulla”. Sospende, invece, il giudizio il senatore Ivan Scalfarotto, capogruppo di Italia Viva in commissione Giustizia: “Esamineremo il testo del decreto con la massima attenzione in sede di conversione in Parlamento ma continueremo soprattutto a vigilare sulla sua efficacia in termini di miglioramento delle drammatiche condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane”. Posizione condivisa anche da Gennarino De Fazio, segretario generale di UilPa Polizia Penitenziaria, secondo il quale il governo “cura le metastasi con l’aspirina, perché alcune delle misure contenute nel decreto- legge apporteranno minimi benefici, altre saranno pressoché ininfluenti”. Per quanto riguarda il sovraffollamento, secondo De Fazio, “da una primissima valutazione del provvedimento, riteniamo che le modifiche all’iter per la concessione della liberazione anticipata, pur muovendo verso una possibile semplificazione, non produrranno benefici sufficientemente incisivi, soprattutto in relazione agli attuali indici di sovraffollamento”. “Insignificanti e di là da venire - per il sindacalista - poi, le assunzioni previste nel Corpo di polizia penitenziaria (500 alla fine del 2025 e 500 alla fine del 2026). Pessima, inoltre, l’apertura alla preposizione agli uffici dirigenziali non generali di magistrati, avvocati dello Stato e altre figure esterne”. Carceri sovraffollate e “brutali”: col decreto Nordio nulla cambia di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 luglio 2024 Nessuno sconto di pena speciale e spostamento in strutture private di minori e tossicodipendenti. Il ministro illustra il testo del Cdm. “Vogliamo facilitare il trasferimento della detenzione dalla brutalità dell’istituto penitenziario alla comunità di accoglienza, fermo restando che è un regime detentivo”. Tutto come previsto: nel decreto legge fino a ieri chiamato “svuota-carceri” - per confondere i distratti - e ora ribattezzato dal governo “carcere sicuro”, approvato ieri dal Consiglio dei ministri dopo settimane di attesa e presentato dal Guardasigilli Carlo Nordio in conferenza stampa a Palazzo Chigi, non è stato aggiunto nulla di significativo ai pochi provvedimenti già noti che l’esecutivo Meloni aveva annunciato e sbandierato. Di necessario e urgente ha davvero poco, se non evidentemente l’impellenza di avviare un processo di privatizzazione dell’esecuzione della pena. Perché, come ha ammesso lo stesso ministro di Giustizia, non è un decreto per contrastare il sovraffollamento penitenziario giunto nella zona rossa della Corte europea dei diritti umani (130,86% in media, con punte di 224% a San Vittore), né l’ondata record di suicidi in cella (47 dall’inizio dell’anno, contro i 34 dello stesso periodo del 2023 e i 33 dell’anno precedente). Il provvedimento si muove piuttosto in “un’ottica di umanizzazione del sistema penitenziario” - dice il ministro ma non c’è da scommetterci - mentre per diminuire la popolazione carceraria, e ripristinare la legalità costituzionale, Nordio rimanda invece alla necessità di “incidere sulla carcerazione preventiva” e di “portare a compimento gli accordi con Stati esteri in modo da far scontare ai detenuti stranieri la pena nei loro Paesi d’origine”. Secondo il Guardasigilli si potrebbe così alleggerire di quasi la metà la popolazione carceraria straniera (“tra i 5 e i 10 mila detenuti che potrebbero esser trasferiti sui 20mila stranieri totali”). Salvo imprimere però un’accelerazione al trasferimento di minori e tossicodipendenti in comunità di accoglienza private dove far scontare la pena: “Vogliamo facilitare il trasferimento della detenzione dalla brutalità dell’istituto penitenziario - ha detto proprio così Nordio - alla comunità di accoglienza”. Comunità che dovranno essere inserite in un albo ad hoc e che sono state più volte ringraziate dal ministro “per la loro disponibilità”. Nei 16 articoli che compongono il decreto legge, di rilevante ci sono le assunzioni di mille agenti e lo scorrimento delle graduatorie per favorire l’insediamento di una manciata (22 vicecommissari e 48 vice ispettori) di dirigenti di polizia penitenziaria; l’aumento del numero di telefonate (da 4 a 6 al mese) concesse ai reclusi “per contribuire a rendere la situazione meno disagevole psicologicamente”, e una “semplificazione delle procedure” per ottenere più agevolmente e con tempi certi lo sconto di pena attualmente previsto - senza modifiche - dalla legge per i detenuti non soggetti a regime speciale che abbiamo dimostrato buona condotta. “In materia di liberazione anticipata non vi sono indulgenze gratuite, non vi sono sconti automatici o lineari di pena - ha precisato il ministro - Si tratta di rendere molto più rapida e certa quella che è la procedura verso la quale la liberazione anticipata che è già prevista dalla legge e che non sarà toccata nei termini è invece praticamente posta in esecuzione. Significa che attraverso una semplificazione e di chiarimenti di quella che è la procedura attuale, che sarà sempre affidata al giudice di sorveglianza, noi renderemo molto chiaro anche allo stesso detenuto quello che è il procedimento, il percorso e i termini per poter godere della liberazione anticipata, che è già prevista dalla legge”. L’articolo 10 del decreto riguarda invece il codice penale, con una nuova norma sul “peculato di distrazione” che, spiega il titolare di via Arenula, colma il vuoto lasciato dalla cancellazione del reato di abuso d’ufficio. Mentre aumentano le restrizioni per i detenuti sottoposti a regime carcerario 41 bis con l’esclusione dai programmi di giustizia riparativa. Infine Nordio ha annunciato, “in via di licenziamento”, un disegno di legge sulle occupazioni abusive di case, “fermo restando - ha ammesso - che onestamente non ne vedrei il bisogno: dovrebbe essere la magistratura a provvedere, gli strumenti per far sloggiare una persona entrata, con violenza, nel domicilio altrui, esistono già. Poi - ha aggiunto - è vero che non tutte le situazioni sono uguali”. Misure alternative, telefonate, agenti: col decreto carceri non arriva la svolta di Gabriella Cerami La Repubblica, 4 luglio 2024 Non è lo svuota carceri, anche perché è un termine che il ministro della Giustizia Carlo Nordio non vuol sentire: “Non ho mai voluto usare né mai userò questa parola impropria e diseducativa”. E malgrado il sovraffollamento degli istituti penitenziari, nel decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri, vengono solo velocizzate le procedure per la concessione della liberazione anticipata o di misure alternative, sulla base delle leggi già in vigore. Piuttosto, nel testo dal titolo “Carcere sicuro” viene inserita una norma che nulla ha a che vedere con il provvedimento. Nell’ultimo articolo si parla infatti dell’abuso d’ufficio, alla vigilia dell’arrivo nell’Aula della Camera del disegno di legge che ne prevede l’abolizione. Alla luce anche di una moral suasion del Quirinale, per colmare un vulnus legislativo, viene introdotto dunque un nuovo articolo del codice penale che disciplina “l’indebita destinazione di denaro o cose mobili”, quindi il peculato per distrazione, reato che coinvolge un pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che utilizza denaro o altro per fini diversi rispetto a quelli previsti dalla legge. Ed è punibile dai sei mesi ai tre anni. Il Guardasigilli prova a derubricare la decisione parlando di “piccola norma, anticipata un anno fa. Conoscevamo il problema relativo all’abolizione del reato di abuso di ufficio che avrebbe potuto, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, lasciare un vuoto di tutela per quanto riguardava questa fattispecie”. In realtà, la mancata modifica avrebbe potuto portare a una procedura d’infrazione dell’Unione europea verso l’Italia. Tuttavia anche sul sovraffollamento delle carceri l’Italia è attenzionata, come risulta dai report del Consiglio europeo, e il testo invece non contiene misure capaci di alleggerire le celle, dove oggi si trovano 61.547 detenuti a fronte di una capienza di 51.241. Il provvedimento prevede l’istituzione di un albo contenente le comunità che potranno accogliere alcune tipologie di reclusi. Coloro che hanno un residuo di pena basso, i tossicodipendenti e i condannati per determinati reati potranno scontare così la parte finale della loro detenzione. Le misure alternative potranno essere decise non più in via provvisoria, ma definitivamente e più rapidamente dal magistrato di sorveglianza, senza passare per il tribunale collegiale. Lo sconto di pena per buona condotta resta di 45 giorni ogni sei mesi. Invece il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, con il suo disegno di legge in calendario alla Camera il 17 luglio, chiede che i giorni di liberazione anticipata passino da 45 a sessanta o addirittura a 75 ogni sei mesi. E su questa proposta era arrivato anche il consenso di Forza Italia. Comunque sia, per Nordio, “il decreto legge è frutto di una visione orientata sull’umanizzazione carceraria”. E sottolinea, quasi rivolto al parlamentare radicale: “Non vi sono indulgenze gratuite. Renderemo molto chiaro al detenuto il percorso ed i termini per godere della liberazione anticipata”. Aumenta inoltre il numero di telefonate per chi è ristretto, da 4 a 6 al mese, ed è prevista l’assunzione di mille agenti insieme all’incremento del numero di dirigenti penitenziari. Una cifra contenuta rispetto alle reali esigenze. Insomma, lo spirito del decreto non sembra essere quello di risolvere il problema delle carceri che scoppiano. Per Nordio sarà l’abolizione dell’abuso d’ufficio ad “avere un impatto sul numero dei reclusi” a cui si aggiungono gli accordi con gli Stati esteri per il trasferimento dei detenuti stranieri. La questione è nei fatti rimandata. Se le celle scoppiano la responsabilità è del governo di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 4 luglio 2024 Il sovraffollamento carcerario non è una calamità naturale. È l’esito di scelte politiche repressive e illiberali. Nordio presentando il decreto legge in materia penitenziaria ha detto che non è colpa del governo se le carceri si riempiono di detenuti. Non è vero. Il sovraffollamento è il prodotto di politiche proibizioniste e repressive che vanno a colpire i più vulnerabili. Un sovraffollamento che andrà a crescere se mai dovesse essere approvato un altro provvedimento del governo che prevede in sequenza: carcere per chi protesta con il proprio corpo; carcere per chi disobbedisce alle leggi; carcere per gli occupanti di case; carcere per chi scarica materiale esplosivo dal web; carcere per le donne detenute in stato di gravidanza o con un bimbo molto piccolo; tanto carcere per chi protesta in galera con manifestazioni nonviolente di resistenza passiva. È questo, in sintesi, il contenuto del pacchetto sicurezza voluto dal governo che l’Osce ha definito un rischio per lo Stato di diritto. È in discussione alla camera dei deputati, e se dovesse essere approvato senza modifiche, ci farà tornare indietro di cento anni, ossia ai tempi di Rocco e Mussolini. Nelle scorse ore il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema di un nuovo decreto legge che prevede, tra l’altro, misure urgenti in materia penitenziaria. Il ministro Nordio lo ha definito un provvedimento di umanizzazione carceraria. Esso si innerva in un momento in cui il sistema carcerario sta implodendo tra sovraffollamento (circa 15mila persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare), suicidi (49 dall’inizio del 2024), tensioni (date dalla inopinata idea, per la verità non nata in questa legislatura, di far trascorrere la giornata ai detenuti chiusi nelle loro celle, piccole e strapiene), eventi drammatici, violenze, nuovi pericolosi e costosissimi cantieri albanesi (dove ben 85 poliziotti penitenziari italiani andranno a lavorare per dare seguito ai progetti di deportazione dei migranti). Le misure prese possiamo definirle decisive? Sono in controtendenza rispetto al pacchetto sicurezza, ma non cambieranno minimamente la direzione tragica del sistema penitenziario, essendo afflitte da minimalismo. In sintesi, il governo si limita a istituire presso il ministero della giustizia un elenco delle strutture residenziali dove poter mandare in detenzione domiciliare quei detenuti senza casa che non hanno risorse per provvedere al proprio sostentamento; interviene sulla procedura per poter fruire degli sconti di pena della liberazione anticipata prevista dal 1975 anticipando i tempi della concessione; assume un migliaio di nuovi poliziotti e qualche dirigente ma nel frattempo ne invia una parte in Albania; aumenta da quattro a sei le telefonate mensili (cosa, per altri versi, già possibile a legislazione vigente). Umanizzazione l’ha definita il ministro Nordio. Bella parola che, però, avrebbe richiesto ben altri provvedimenti, quali ad esempio: il ritiro del pacchetto sicurezza in discussione alla camera; l’aumento significativo dei giorni di liberazione anticipata; la concessione di telefonate quotidiane; la dotazione di tutte le celle di ventilatori o aria condizionata e frigoriferi; il ritorno dal sistema a celle chiuse a quello a celle aperte durante il giorno; la modernizzazione della vita penitenziaria attraverso la possibilità di collegarsi alla rete; l’assunzione di almeno mille operatori sociali; l’incentivazione della presenza del volontariato nelle carceri; la moltiplicazione di psichiatri, etno-psichiatri e medici; la possibilità di far trascorrere la notte ai semiliberi fuori dal carcere. Ma soprattutto sarebbe stato necessario un passo indietro nel proibizionismo sulle droghe e il divieto di far entrare in galera persone se non c’è posto. Tutte cose che si spera divengano patrimonio delle forze di opposizione. In passato non è stato sempre così. Prima del pacchetto sicurezza Nordio-Piantedosi c’è stato quello Salvini e prima ancora quello Minniti-Orlando. Ci vuole un cambio di paradigma che riparta dagli articoli 13 e 27 della Costituzione. Invece il governo sarebbe disposto a incarcerare anche Ghandi. Altro che umanizzazione. *Presidente dell’Associazione Antigone Le carceri scoppiano perché il governo ha aumentato pene e reati. Il dl Nordio non inciderà di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2024 Il governo ha emanato un decreto che dovrebbe alleggerire le carceri che scoppiano. Ma perché le carceri scoppiano? Nel rapporto di metà anno che Antigone presenterà nei prossimi giorni abbiamo stilato un elenco dei nuovi reati e degli aumenti di pena per i vecchi introdotti dall’insediamento dell’attuale governo a oggi. Ecco perché le carceri scoppiano: l’elenco occupa pagine e pagine e copre le aree più disparate della convivenza civile. Le carceri scoppieranno molto di più quando sarà votato il disegno di legge governativo n. 1660 che prevede ulteriori nuovi reati e aumenti di pene. Tra i primi, il reato di rivolta penitenziaria, che si configura anche di fronte alla resistenza passiva a un ordine di qualsiasi tipo (dunque non per forza legittimo). Un detenuto che non vuole uscire dalla cella o che rifiuta il cibo, senza far del male a nessuno, è passibile di condanna fino a otto anni ulteriori di carcere. I pochi spazi di libertà che residuano a chi si trova in un carcere sono polverizzati da una norma tirannica e ricattatoria. Che inevitabilmente di fronte a vessazioni piccole o grandi subite - fino alle violenze che finalmente negli ultimi anni cominciavano ad arrivare nelle aule dei tribunali - metterà la persona detenuta nella soggezione di non denunciare. Mentre con una mano il governo fa tutto questo, con l’altra emana un decreto recante misure urgenti in materia penitenziaria. Misure decisamente timide, che non incideranno minimamente sul sovraffollamento e sul miglioramento della qualità della vita in carcere. Nessuno ‘svuotacarceri’, come anche questa volta in troppi si sono affrettati a titolare. Oggi i detenuti sono 61.500 per 51.200 posti regolamentari e varie migliaia in meno di posti effettivi. Dall’inizio dell’anno si sono uccisi 49 detenuti. Il decreto legge del governo che, speriamo non si trasformi durante la discussione parlamentare nell’ennesimo traino per le peggiori proposte repressive, non ha nulla a che fare con l’obiettivo della deflazione carceraria. Per ottenere quel risultato bisognerebbe agire su altre leve, ad esempio modificando l’impianto proibizionista e punitivo della legge sulle droghe o incidendo sul carattere selettivo del nostro sistema penale, inclemente con i poveri e i più vulnerabili, a partire dagli stranieri. Infine, il ministro Nordio ha anticipato l’assunzione di almeno 1.000 agenti di polizia penitenziaria. Peccato che 85 andranno in Albania per custodire i migranti nel più tragico e costoso esempio di colonizzazione penitenziaria. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Minorenni pigiati in cella, non è “colpa” degli stranieri di Simona Musco Il Dubbio, 4 luglio 2024 Le presenze sono ormai il doppio di quelle previste: è il Dl Caivano l’origine del caos. Altro che colpa dei minori stranieri: se gli istituti penali minorili esplodono è per “merito” del decreto Caivano. Che ha reso possibile far finire negli Ipm anche ragazzini colpevoli di aver rubato una bicicletta, trasformando gli istituti in depositi di minorenni pronti a scoppiare. Ad essere convinto che il sovraffollamento sia colpa “dell’enorme aumento” di minori stranieri non accompagnati è il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un’affermazione che si scontra contro le dichiarazioni del partito di Giorgia Meloni - recentissima quella secondo cui “grazie al governo sbarchi diminuiti del 60 per cento” - ma anche con le fotografie che arrivano dai singoli Ipm. Come quello di Treviso, giusto per fare un esempio, il più in difficoltà per sovraffollamento, con 23 presenze su 12 posti disponibili. E in questo caso, solo due delle persone presenti sono straniere. L’istituto, dunque, sta per scoppiare, tanto da render quasi necessaria la sua chiusura, fino al ritorno ad una situazione normale. Una soluzione, quest’ultima, non del tutto peregrina, stando a quanto emerge dagli ambienti vicini all’Ipm. L’aumento dei minori in carcere, statistiche alla mano, è scattato successivamente all’approvazione del decreto Caivano, come spiegato davanti alla Commissione Bicamerale per i minori da Antonio Sangermano, a capo del dipartimento per la Giustizia minorile del ministero. “Dall’entrata in vigore del decreto Caivano, relativamente a ingressi e presenza media giornaliera, il numero è obiettivamente cresciuto, non può e non deve essere negato”, ha sottolineato, aggiungendo solo secondariamente che i dati “vanno connessi anche ad altri fattori causali, come l’aggravarsi delle devianze minorili e l’enorme aumento di stranieri minori non accompagnati”. Il decreto ha, infatti, “abbassato i limiti edittali della richiesta di misure cautelari custodiali nel collocamento in comunità” e “aumentato le fattispecie che consentono l’arresto sempre facoltativo in flagranza. Il combinato disposto di questi elementi, unito all’eliminazione del termine di un mese per l’aggravamento della violazione della misura cautelare del collocamento in comunità, con conseguente collocamento della presenza negli Istituti penali per minorenni, ha oggettivamente prodotto un possibile incremento degli ingressi e delle presenze in Ipm”, aveva chiarito Sangermano. La pressione sugli istituti minorili è, dunque, innegabile. E a Treviso, le stanze che prima ospitavano una sola persona, stando a quanto emerge, sono state attrezzate con due letti, mentre nelle stanze per tre persone se ne ospitano cinque. E alcuni ragazzi, come in altri Ipm sovraffollati, dormono con il materasso a terra per materiale assenza di letti. Una situazione nota ai vertici della giustizia minorile, consapevoli delle ristrettezze di spazio, che si traducono in condizioni igieniche non appropriate. Il tutto senza che ci siano misure per lo “svuotamento”: Il decreto Caivano, infatti, non ha previsto un meccanismo in uscita. I minori stranieri, in questo caso, non c’entrano e sono gli stessi addetti ai lavori del circondario a confermarlo: nelle province di Padova, Verona, Udine e Trieste sono infatti aumentati i reati di rissa, i tentati omicidi e anche le aggressioni in famiglia, sintomi di un disagio giovanile ormai slatentizzato e del tutto italianissimo. E molto spesso, le condizioni inumane in carcere si traducono in violenza, come dimostrato dalle tristissime vicende del carcere Beccaria di Milano. Proprio dopo quelle vicende, il direttore dell’Ipm di Treviso Girolamo Monaco aveva scritto una bellissima lettera all’Huffington Post. “Io non posso nascondere che la violenza fisica, psicologica, relazionale e gestionale degli individui dentro le strutture (la violenza di chi sta dalla parte del giusto e la violenza di chi sta dalla parte del torto) è normalizzata dai vuoti di presenza, di compagnia, sostegno, indirizzo, supporto e guida (tutto quello che è il vero senso del potere: la violenza è quindi, secondo la mia trentennale esperienza dentro le carceri minorili, un “vuoto del potere” quando “non guarda” i suoi uomini, quando “non guarda” i suoi utenti) - scriveva Monaco -. Conosco bene la natura perversa della violenza delle strutture per restare io in silenzio. Conosco il valore e il travaglio di tutti i colleghi che, come me, di fronte alle quotidiane difficoltà, emergenze e contraddizioni, si impegnano per umanizzare i luoghi della detenzione, che sono specchio della nostra epoca, dell’attuale società, delle nostre paure e debolezze. Io avanzo quindi per me stesso, per i miei collaboratori, per i miei colleghi, ed anche ai miei superiori, la coraggiosa ed umile riflessione che pone l’atto del “guardare” come fondamento di ogni responsabilità relativa alla sicurezza sociale, al controllo comportamentale, alla rieducazione e reinserimento dei condannati”. L’unico antidoto alla violenza, dunque, è la presenza degli operatori, la presenza di figure educative, in luoghi umani, luoghi che sia davvero rieducativi. La scelta che Monaco ha fatto in concreto, mantenendo la scuola aperta e garantendo ai giovani attività, rese ora quasi impossibili dal sovraffollamento. Servono personale e spazi, una magistratura più presente e, soprattutto, misure alternative, cancellando quella lentezza burocratica che rende quasi impossibile uscire dagli istituti e tornare in società. Carceri fatiscenti, pochi agenti, eterno sovraffollamento: così nasce l’emergenza suicidi di Giuliano Foschini La Repubblica, 4 luglio 2024 Giuseppe Spolzino, 21 anni. Francesco Fiandaca, 38 anni. Ali Soufiane, 19 anni. Giuseppe Santolieri, 74 anni. I nomi di questi uomini non vi diranno nulla, probabilmente. Eppure lo Stato ha contribuito a farli morire: erano sotto la custodia collettiva, in carcere, quando nei giorni scorsi sono morti. Suicidati. Giuseppe, Francesco, Ali, sono soltanto gli ultimi dei 52 suicidi che dall’inizio dell’anno si sono registrati nelle carceri del nostro Paese. Cinquantasei se si aggiungono anche i quattro agenti della Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita, vittime anche loro delle nostre galere. Sono più di otto al mese, due ogni settimana, una strage senza precedenti: al primo luglio dello scorso anno (quando i morti suicidi in carcere furono 71), erano 33 le persone che in galera si erano tolte la vita. Stesso numero del 2022, anno nerissimo quando le persone che si ammazzarono dietro le sbarre furono addirittura 85. Ma che sta succedendo? Come è possibile che le nostre carceri siano diventate “una polveriera senza controllo” come gli stessi agenti penitenziari denunciano ormai da mesi? Non è un caso, “e d’altronde nulla succede per caso nelle carceri”, ragiona un vecchio agente della Penitenziaria. Repubblica già ad aprile scorso aveva denunciato come le politiche sull’amministrazione penitenziaria si stavano dimostrando un fallimento. Tre i motivi principali. Il primo, il sovraffollamento: a fronte di poco meno di cinquantamila posti disponibili, ci sono quattordicimila in più, denuncia il segretario della UilPa, il sindacato degli agenti, Gennarino De Fazio.”14.500 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, oltre 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, gravissime carenze nell’assistenza sanitaria, strutture fatiscenti, disorganizzazione imperante”, dice senza cercare scorciatoie. Ma perché le carceri scoppiano? Perché da un lato il Governo ha inasprito pene per i reati di strada e reso più difficile l’accesso ad alcune misure alternative, a partire dall’affidamento in prova ritenuto “il nulla” dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Non sono stati inoltre coperti i buchi in organico dei tribunali di sorveglianza. E dall’altro lato non è stato fatto alcun tipo di investimento nelle infrastrutture come pure dalla destra chiedevano e avevano promesso. Il risultato è “la pericolosa disorganizzazione” di cui parla De Fazio: per dire, appena qualche mese fa ci fu il caso clamoroso di un detenuto che aveva contemporaneamente tre telefoni cellulari, intercettati da altrettante forze di Polizia. Un tema, quello degli smartphone nelle galere, denunciato con forza dai procuratori antimafia che non riesce incredibilmente a trovare una soluzione. Ma d’altronde le promesse non mantenute sono un marchio di fabbrica, sulle carceri: il sottosegretario Andrea Delmastro, nel mentre utilizzava per fini politici segreti istruttori raccolti nell’esercizio delle sue funzioni (questo per lo meno è quello di cui lo accusa la procura di Roma e per cui dovrà essere processato), aveva annunciato l’entrata in vigore di nuovi protocolli per la polizia penitenziaria. Peccato che a oggi nessun agente è stato formato e tutto questo esiste soltanto sulla carta. Eppure nella propaganda governativa le carceri sono raccontate in maniera completamente diversa. Emblematica è la storia di Chico Forti, l’assassino (che però si è sempre dichiarato innocente) fatto rientrare dagli Stati Uniti. Dopo la photo opportunity con la presidente Giorgia Meloni arrivata ad accoglierlo al suo arrivo dagli States, il detenuto ha detto ai microfoni della Rai: “Tra il carcere di Miami e quello di Verona c’è una differenza enorme. Quello di Miami è basato sulla punizione ed è un luogo dove sei continuamente umiliato, mentre qui ho conosciuto valori umani come i rapporti e il rispetto, che non ritrovavo da 24 anni. Mi hanno trattato come un re”. Poche ore dopo gli è stato concesso di uscire dal carcere per andare a trovare la madre. “Una possibilità che purtroppo viene negata ogni giorno a centinaia di detenuti”, hanno denunciato le associazioni. Forti, il “re”, è nel carcere di Verona dove tra dicembre e febbraio ci sono stati cinque suicidi in meno di tre mesi. Celle da vergogna, tra record di suicidi e sovraffollamento di Filippo Facci Il Giornale, 4 luglio 2024 Il caso Salis ci ha fatto indignare del sistema ungherese: noi siamo peggio. La mancanza di un decreto sulle carceri non era la causa dei suicidi, e l’approvazione di un decreto sulle carceri non ne impedirà di nuovi. Il punto è che del tema carceri importa mediamente pochissimo perché accedervi è tema da forcaioli mentre l’uscirne è tema da garantisti, e ciò che sta in mezzo (le carceri fisiche, materiali) in genere importa solo ai Radicali e ai politici che ci sono stati dentro. Poi sì, sono come i bagni per i ristoranti, danno un’idea delle cucine e del grado di civiltà di una democrazia: ma se dentro si ammazza troppa gente (rischiamo il record dal Dopoguerra) qualcosa occorre fare. Il 2022 è stato l’anno record (85 suicidi) con brutte altalene (70 del 2023, già 50 nel 2024) anche se il cinismo non ha mai fine e il vostro bisnonno potrebbe ricordarvi che solo nell’aprile 1945, in Germania, si suicidarono 3800 uomini liberi. Ma in Italia, ogni anno, si suicidano mediamente anche sette poliziotti penitenziari. Le carceri sono 190 e sono suddivise in case circondariali (custodia cautelare e detenuti in attesa di giudizio) e case di reclusione (pene esecutive, definitive) più le case di lavoro e le colonie agricole; poi c’è un circuito apposito per il regime di 41 bis, riservato a 11 sezioni ad alta sorveglianza all’interno di altri penitenziari. Il problema numero 1 è il sovraffollamento: sono rinchiusi più di diecimila detenuti oltre la capienza regolamentare anche se in mezzo secolo sono stati adottati più di trenta provvedimenti di clemenza tipo amnistia o indulto; gli ultimi due sono al 2006 (uscirono in 25mila) e al 2013 (altri diecimila). Il sovraffollamento non è mai omogeneo: la più affollata spesso è la Puglia seguita dalla Lombardia, con record assoluti (oltre il doppio della capienza) in città come Taranto, Brescia e Como. Queste cose in media non le sa nessuno, anche se gli italiani (parte di essi) di recente hanno scoperto una smodata passione per le cattive condizioni delle carceri ungheresi. Alcuni mesi fa questo giornale scrisse che il sovraffollamento italiano del 119 per cento rispetto alla capienza prevista (con un aumento del 3,8 per cento rispetto all’anno prima) è uno status da carcerato in attesa di giudizio condiviso col 26,6 per cento dei detenuti: forse sbagliammo per difetto, perché il dato ufficiale del 2 giugno scorso parla di un sovraffollamento del 130,59 per cento con un totale di 61.468 detenuti. E in Ungheria? È del 102 per cento, secondo l’ong finlandese Hhc. Il 40 per cento dei nostri penitenziari è stato costruito prima del 1900 (o al massimo prima del 1950) ed è senza acqua calda nel 45,4 per cento dei casi e senza doccia nel 56,7 per cento. C’è stata una condanna al nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) nel 2009 e nel 2013, mentre nel 2022 la stessa Cedu ci condannò per i “trattamenti inumani” inferti a un detenuto di Rebibbia che restò senza cure nonostante fosse un grave caso psichiatrico. Il ministro Carlo Nordio sta lavorando a misure alternative (ne parliamo in altro articolo) ma molti si chiederanno in quanti utilizzino il braccialetto elettronico giacché circa il 14 per cento dei detenuti è agli arresti domiciliari. Il problema è che i braccialetti mediamente non ci sono: se in Italia ne risultano attivi circa 5600 è difficile che se ne usino di più, per esempio per i tanti indagati che sono ancora in attesa di giudizio (solo 26 hanno il beneficio del braccialetto, e non sono quindi agli arresti preventivi) anche perché ci sono reati considerati, diciamo così, più mediaticamente sorvegliati come quelli previsti dalla legge 69 del 2019 (il cosiddetto Codice rosso) che occupano più di mille braccialetti per controllare gli stalker o presunti tali. Tra i temi regolarmente omessi c’è anche una diretta responsabilità della magistratura nel sovraffollamento: dal 1989 il vecchio carcere preventivo avrebbe dovuto essere sostituito con l’attuale “custodia cautelare” ma con Mani pulite non ebbe certo a calare, anzi, e questo per tutte le categorie sociali. Non c’è stato un raffreddamento dei bollori giustizialisti: nel 2018 le misure cautelari in carcere sono state 31.970 e sono diminuite fino al 2021, arrivando a così a 24.126, ma ora si assiste a un rialzo: 24.654 nel 2022 e 24.746 nel 2023. A decidere le misure cautelari sono per i tre quarti delle volte i gip (giudici delle indagini preliminari) e questo conferma che durante le indagini il carcere fa la parte del leone anche mediaticamente: se poi l’imputato era innocente d’accordo, e che sarà mai? Mauro Palma: “Sulle carceri Nordio sbaglia. Serve un investimento sulle relazioni affettive” di Liana Milella La Repubblica, 4 luglio 2024 Intervista all’ex Garante dei detenuti: “Non è vero che il sovraffollamento è legato agli stranieri. Il decreto ignora la tensione che si vive negli istituti”. Mauro Palma, ex garante dei detenuti, il decreto Nordio è un’altra occasione persa? “La cautela sugli eventuali effetti è doverosa. Ma ho sentito il Guardasigilli Nordio dire che l’aumento dei detenuti è dovuto alla grande presenza degli stranieri e alla custodia cautelare. Lui sbaglia e lo dico sulla base dei dati ufficiali del suo stesso ministero”. Perché? “La percentuale degli stranieri è in calo, anche negli ultimi mesi. In passato raggiunse il 37%, ora siamo al 31,2%. Idem per la custodia cautelare, calata di un punto quest’anno”. Questi numeri avrebbero dovuto suggerire altre scelte a Nordio? “I numeri servono per fare i provvedimenti. Snellire le pratiche per la liberazione anticipata è nei fatti di poco conto, soprattutto per persone che già ne hanno avuto diritto. Ben diverso sarebbe stato aumentare i giorni”. Per leghisti e meloniani è una svuota-carceri... “Non è affatto così. Avrebbe permesso una pausa per ragionare su provvedimenti a medio termine certamente necessari. Anche quelli che il ministro ipotizza, come l’affido alle comunità, non sono d’immediata applicazione e quindi non hanno alcun effetto sulla drammaticità attuale”. E che succederà coi prossimi suicidi? “Quelli dei detenuti e anche del personale. Non interpretarli come la vera resa dello Stato significa considerare la detenzione come un mondo intrinsecamente disperato. Invece c’è bisogno di dare prospettiva a chi è detenuto e a chi gli lavora accanto. E non aiuta certo diminuire il periodo della formazione dei giovani agenti, che invece hanno bisogno di sentirsi parte di un progetto di supporto, controllo e recupero”. Dica la verità, quanto è deluso dal decreto che è stato annunciato? “La delusione maggiore sta nella distanza tra il testo e la tensione che si vive oggi negli istituti. Ci sarebbe bisogno di un grande investimento sulle relazioni affettive, aumentando di molto la comunicazione tra i detenuti e i propri cari, non è roba di sole due telefonate in più al mese”. Quelle 4 che diventano 6. Una miseria... “Per farne di più ci vuole la richiesta caso per caso al direttore. Siamo alla burocratizzazione perfino degli affetti. Eppure quest’anno si è aperto con la speranza data dalla Consulta sull’importanza di poter mantenere i legami affettivi”. Già, la vittoria del giudice di sorveglianza Fabio Gianfilippi del tutto ignorata, e perfino derisa da questa maggioranza di destra... “Mi auguro che non sia così. Ma di sicuro non mi risultano passi avanti per attuarla se non aver creato una commissione. Ma istituirla suona come rinviare il problema”. Giachetti: “Il decreto carceri non fa nulla per l’emergenza suicidi, temo ciò che può succedere tra luglio e agosto” di Liana Milella La Repubblica, 4 luglio 2024 Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, che ha fatto lo sciopero della fame con Rita Bernardini: “La mia proposta per la liberazione anticipata non è un indulto. Nordio scarica il peso sui magistrati”. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, adesso lei, con Rita Bernardini di ‘Nessuno tocchi Caino’, dopo gli scioperi della fame e della sete, potete dire addio alla liberazione anticipata speciale… “La mia proposta sarebbe stata l’unico strumento disponibile per affrontare subito l’emergenza. Tutto il resto, su cui peraltro non sono affatto d’accordo, riguarda i grandi temi e il piano fisiologico strutturale. Ma qui noi abbiamo a che fare con un’emergenza, cioè 55 suicidi in sei mesi”. Ma non sono 49? “A cui si aggiungono gli agenti morti. Ma quella ufficiale è solo la punta iceberg, perché ci sono stati ben 800 tentativi di suicidio evitati solo grazie all’intervento della polizia penitenziaria, nonché migliaia di casi di autolesionismo. Quindi il contesto è molto, ma molto più pesante. E nessun punto del decreto incide davvero per bloccare la strage che si sta consumando”. Come giudica le iniziative di Nordio? “È come buttare la palla in calcio d’angolo. Quando giurò da Guardasigilli disse che le carceri sarebbero state la sua priorità. Sono passati due anni. Nell’ultimo mese ha annunciato il decreto per quattro volte. Il risultato è sostanzialmente zero”. Il decreto doveva andare a fine mese. L’hanno anticipato per paura che potesse passare la sua proposta sulla liberazione anticipata dopo l’apertura del forzista Pietro Pittalis? “Immagino di sì, ma siamo nel campo delle ipotesi. Tutto il dibattito nasce drogato e all’insegna dell’imbroglio perché quando si grida all’indulto e allo svuota-carceri pare quasi che si stia facendo una norma nuova. Ma è falso. La mia legge interviene su una già esistente: 45 giorni di sconto ogni sei mesi per chi si comporta. Questa è la Gozzini del 1986, che partiva da 20 giorni e che io porto a 60. Non mi sto inventando nulla”. Nordio non la vuole... “Lui, che parla di sconfitta dello Stato, dev’essere coerente. Perché se i giorni sono già 45 e diventano 60, cioè 15 giorni in più, questa non è una sconfitta. Dirlo è solo una presa in giro. In compenso ogni giorno fanno un decreto con nuovi reati, come quello per Cutro. Nordio cita spesso i tossicodipendenti detenuti, ma se è coerente deve abolire la Fini-Giovanardi”. Il ministro parla molto, ma è andato solo una volta a Torino dopo tre suicidi... “Che vada in carcere m’interessa poco, il problema è che non sta facendo nulla di concreto e per giunta sta per bocciare l’unica proposta che c’è sulle carceri. La mia. Perché tanto loro lasciano che il lavoro sporco lo facciano i giudici”. In che senso? “Dopo la sentenza della Cedu, dal 2018 al 2023, i detenuti che hanno avuto il risarcimento dai magistrati di sorveglianza, un giorno in più per ogni dieci scontati in condizioni degradanti, sono stati 24.301, di cui 4.731 solo l’anno scorso”. Questo Nordio non l’ha mai detto... “Non lo dicono perché lo fanno fare ai giudici. Il dovere dello Stato è garantire le misure necessarie. Invece loro non eliminano la Gozzini, con i soli 45 giorni di sconto, ma buttano la palla sui magistrati”. Il ministro considera un bonus passare da 4 a 6 telefonate al mese. Una presa in giro? “Lui raccoglie solo un’esigenza esplosa con il Covid, quando non c’erano i colloqui, ma mettere in un decreto una norma del genere, facendo credere che incida su sovraffollamento, lascia basiti. Siamo partiti con le caserme, ma qualcuno gli ha spiegato che servono anni, e poi non bastano gli agenti della penitenziaria. Lui deve assumere gli psicologici, quelli sì che servono”. Invece inventa l’albo delle comunità... “In linea teorica ci starebbe, ma non si decide oggi, e domani va in vigore. Ci vorranno tempo e organizzazione, è come far finta che si fa qualcosa ma poi non si sta facendo. Può essere giusto, ma non è una risposta”. Non lo è certo per i suicidi... “A regime potrebbe funzionare sul sovraffollamento, ma non è subito attuativa. Luglio e agosto saranno dei mesi infernali, e io sono terrorizzato per quello che può succedere”. Le “Comunità educanti con i carcerati” dell’Apg23 per reinserire i detenuti nella società di Luca Luccitelli interris.it, 4 luglio 2024 Giorgio Pieri, responsabile dei Cec dell’Apg23, commenta i contenuti del decreto-legge sulle carceri approvato dal Governo. “È istituito presso il Ministero della Giustizia un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale di coloro che hanno i requisiti per accedere alle misure penali di comunità”. È il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ad illustrare, al termine del Consiglio dei Ministri, i contenuti del decreto-legge sulle carceri approvato ieri sera. Annunciato nelle scorse settimane, il provvedimento era stato denominato “svuota-carceri” per rispondere all’annoso problema del sovraffollamento delle carceri italiane. La conferenza stampa - “Uno degli elementi più importanti di questa riforma riguarda le pene alternative che hanno il fine di umanizzare di più il sistema carcerario. - ha dichiarato il Ministro Nordio in conferenza stampa - L’art. 9 del decreto riguarda la possibilità di accedere alle misure penali di comunità attraverso l’ingresso in strutture residenziali idonee all’accoglienza mediante servizio di riqualificazione professionale alla riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti o con disagio psichico. Vogliamo facilitare il trasferimento dei minori e dei tossicodipendenti dalla detenzione in carcere alle comunità”. Una novità assoluta riguarda l’introduzione di un albo delle comunità riconosciute presso il Ministero della Giustizia. “È un passo molto importante che ci porta avanti nell’umanizzazione della pena, nella rieducazione del detenuto e nel reinserimento sociale. - ha continuato Nordio - Nonché ad un rimedio al sovraffollamento carcerario. Vorrei ringraziare queste comunità che si sono offerte e che sono registrate in un elenco presso il ministero di Giustizia. Siamo certi che per alcuni tipi di reati sia essenziale, per la loro rieducazione, l’attività in comunità”. L’intervista - Interris.it ha chiesto un parere a Giorgio Pieri, responsabile dei Cec della Comunità di don Benzi. La Papa Giovanni XXIII gestisce sette Comunità educanti con i carcerati (Cec), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle cooperative dell’associazione. La prima casa è stata aperta nel 2004. Ad oggi sono presenti 241 tra detenuti ed ex detenuti. Negli ultimi 10 anni sono state accolte 1.865 persone. Per chi esce dal carcere la tendenza a commettere di nuovo dei reati, la cosiddetta recidiva, è il 75% dei casi. Invece nelle comunità i casi di recidiva sono appena il 15%. Giorgio Pieri, come valuta questo provvedimento del governo? “Siamo soddisfatti della scelta del governo che ha adottato il decreto carcere in cui riconoscono le comunità come luoghi di espiazione della pena. Si tratta di una proposta che abbiamo portato al governo attraverso alcuni incontri in cui ci hanno ascoltato e, per la prima volta, ci siamo sentiti dire: “non siete voi a chiedere aiuto ma siamo noi a chiedere aiuto a voi”. Hanno riconosciuto le comunità come una possibile soluzione all’espiazione della pena da parte dei condannati che oggi avviene in condizioni di sovraffollamento che non è più compatibile con la dignità umana”. Il governo ha accolto le vostre proposte? “Questo governo ha ascoltato le comunità ed il mondo del terzo settore ed ha inteso la grande opportunità che esse offrono. Noi avevamo anche proposto incentivi alla scelta dei percorsi educativi, per esempio rispetto all’ottenimento del permesso di soggiorno oppure avere più giorni di libertà anticipata rispetto a chi fa il carcere”. Cosa vi caratterizza? “Il nostro è un vero percorso rieducativo. I detenuti inseriti nel nostro programma devono guardare sia le ferite che hanno provocato per i delitti commessi, sia le proprie ferite che li hanno portati a delinquere. Il percorso educativo vero è quello che fa andare a ritroso nel proprio passato per capire le ragioni che hanno portato alla devianza. A volte possono essere violenze subite, povertà, problemi di relazione con i genitori. Tutto questo per guardare avanti, per una vita nuova”. Fate una selezione dei detenuti? “Chi entra in queste realtà deve farlo su base volontaria, deve scegliere di svolgere percorsi educativi. Un detenuto deve dire: “Voglio essere aiutato a rimuovere in me gli atteggiamenti delinquenziali”. Questa possibilità va data a tutti, tuttavia nella nostra esperienza incontriamo tanti detenuti che non la scelgono perché si tratta di percorsi impegnativi. Chi non la sceglie deve rimanere in carcere”. Che garanzie si offrono alle vittime che hanno subito le azioni delittuose di chi è in carcere? “Alle vittime ed alla società intera dobbiamo garantire l’abbattimento della recidiva, la tendenza a commettere di nuovo dei reati. Oggi, su dieci persone che entrano in carcere noi sappiamo che sette di quelle ci torneranno entro tre anni dall’uscita. Solo con la rieducazione si interrompe quel circolo vizioso che porta le persone ad uscire dal carcere per poi tornarci”. E nelle vostre comunità qual è la recidiva? “Nelle comunità educanti ogni dieci persone che entrano solo una torna in carcere. Nove tornano alla vita. Questo è il motivo per cui non possiamo più procrastinare questa scelta”. Lo Stato dovrebbe sostenere costi aggiuntivi per l’inserimento nelle comunità? “Un detenuto in carcere oggi costa circa 150 euro mentre nelle comunità costerebbe meno della metà. Per questo chiediamo che venga riconosciuto una retta per le accoglienze nelle comunità capaci di svolgere percorsi educativi. Le comunità sono molto più efficaci”. Il ministro ha ricordato che in passato indulgenze incondizionate o gratuite come amnistie e indulti hanno portato ad un aumento delle recidive. Cosa risponde? “Dare a un carcerato la possibilità della rieducazione è un atto di clemenza vero. Non è come l’indulto, ma qualcosa di più bello e profondo che nel tempo darà i suoi frutti”. L’impegno della Cei nelle carceri italiane e la storia di don Gambelli di Paolo Foschini Corriere della Sera, 4 luglio 2024 Duemila ventilatori in 80 istituti con l’8 per mille. Don Gambelli, cappellano e ora arcivescovo: “Più aperti all’esterno, servono coraggio e fantasia. Non è solo per dare una mano concreta, dice, a sopportare il caldo in sé: che già fuori è ogni estate peggio, figuriamoci in carcere. “Ma poi c’è anche un fatto simbolico - spiega - perché in un ventilatore c’è comunque l’idea dell’aria. Che in carcere manca sempre, poiché è l’assenza stessa della libertà a essere soffocante. Così questo dono è anche un segno”. Gherardo Gambelli è da pochi giorni arcivescovo di Firenze, dopo essere stato nell’ultimo anno cappellano del carcere di Sollicciano e, prima ancora, nelle prigioni di Mongo in Congo e di N’Djamena in Ciad. E questa è la sua riflessione sull’impegno della Chiesa per i detenuti e sull’atto solidale che la Cei ha appena realizzato in trenta istituti penitenziari italiani: la donazione di duemila ventilatori nell’ambito di un progetto battezzato “Semi di tarassaco volano nell’aria” coordinato dall’Ispettorato Generale dei cappellani delle carceri con i fondi dell’8 per mille e appunto col supporto della presidenza della Conferenza episcopale. I primi ottanta li ha consegnati personalmente il cardinale Matteo Maria Zuppi alla casa circondariale di Rebibbia il 12 giugno scorso. Qual è il senso? “Beh, in primo luogo c’è un proposito di aiuto concreto che si affianca all’impegno di vicinanza spirituale e umana svolto nelle carceri dai cappellani, cosi come da tantissimi volontari. Ma come dicevo c’è anche il segno di una volontà che sul carcere si apra una finestra, sia per chi sta dentro sia perché il mondo esterno comprenda l’importanza di entrarci a sua volta. Visitare i carcerati è opera di misericordia ma è anche un punto di contatto. Che può accendere in loro il desiderio di rispetto della legge e negli altri il rispetto per loro”. Oggi sono 61mila, diecimila oltre la capienza… “Il sovraffollamento è un dato drammatico. Ma io non dimenticherei la carenza sul fronte opposto: pochi agenti, pochissimi educatori, mancanza di formazione per affrontare quelle che certo sono difficoltà ma che vorrei chiamare le sfide di una realtà sempre più complessa. Risultato: sofferenza e frustrazione non solo tra i detenuti ma tra chi sarebbe chiamato a occuparsi di loro”. Che serve, risorse a parte? “Creatività, immaginazione, coraggio. Esempio: in un contesto con persone straniere e nazionalità in crescita costante sarebbe indispensabile come minimo una maggiore conoscenza dell’arabo. Delle lingue in genere. Più mediatori culturali. È dalla conoscenza che parte tutto. Il contrario produce ghettizzazione. Ed è sempre un danno”. Ha esperienze diverse? “A Firenze abbiamo una collaborazione consolidata con l’imam Hamdan Al Zeqri, un amico da molto tempo. Proporre iniziative di ascolto reciproco e di condivisione fa cadere tante barriere. Non è la soluzione, da sola non basta. Ma è il punto di partenza”. Mai così tanti suicidi: 44 al 20 giugno, già dieci in più rispetto all’anno scorso… “La globalizzazione dell’indifferenza, come la chiama papa Francesco, in carcere è moltiplicata. Il cappellano di Bologna l’ha sintetizzata con le parole di un detenuto che in realtà potrebbero dire in migliaia: nessuno mi chiede come sto”. C’è stata la riforma sulla giustizia riparativa. “E meno male. Ma mi sembra ancora poco praticata. La giustizia vendicativa purtroppo è più facile. Anche perché corrisponde all’imbarbarimento delle relazioni che vediamo fuori. Anche in politica il modello è lo scontro e non il confronto, l’avversario come nemico da eliminare”. Il coraggio di cui parlava per cosa andrebbe usato? “Per portare a chi sta in carcere due cose: bellezza e lavoro. Il potere educativo della bellezza è la strada che conduce le persone a confrontarsi con il giudizio della propria coscienza, che supera il valore di qualsiasi giustizia punitiva. E il lavoro è la porta necessaria per il reinserimento”. Oggi vede segnali di attenzione su questi punti da parte della società? “Nella società in genere purtroppo ne vedo pochi. Ma da parte dei giovani molti. Saranno gli ambienti che conosco io. Ma nei giovani, sì, questa attenzione la vedo. La speranza del mondo sta in loro, anche per chi è in carcere”. Ddl Sicurezza, maggioranza in tilt: Forza Italia attacca gli alleati di Giacomo Puletti Il Dubbio, 4 luglio 2024 Scontro sugli “emendamenti spot” che non sono stati ritirati dopo le Europee: “Detenute madri? La nostra linea è chiara”, dicono gli azzurri. “Forza Italia è più interessata a discutere di detenute madri e di bambini piuttosto che a fare polemica”. È meta pomeriggio quando, dopo la ripresa dell’esame in commissione congiunte Affari costituzionali e Giustizia della Camera del ddl Sicurezza, dagli azzurri arriva una dura nota che fa riferimento a quanto avvenuto martedì, con la lite tra forzisti e leghisti e l’astensione dei primi sull’emendamento del Carroccio che introduceva la facoltà per i giudici, e dunque non più l’obbligo, di indirizzare le detenute incinta o con figli fino a un anno verso gli Icam e non in carcere. “La posizione, annunciata in commissione, è chiara e ferma - scrivono Paolo Barelli, Tommaso Calderone, Pietro Pittalis e Paolo Emilio Russo, deputati di Forza Italia componenti delle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati - Riteniamo adeguata la normativa vigente e per questa ragione ieri non abbiamo votato contro gli emendamenti che proponevano di sopprimere l’articolo 12 del ddl Sicurezza, quello che elimina la sospensione automatica della pena per le detenute con figli da zero ad un anno. In Aula, con spirito costruttivo, proporremo alla maggioranza una nostra mediazione: un emendamento che mantenga la sospensione obbligatoria delle pene per le detenute con figli fino ad un anno di età”. Non solo. “Come annunciato chiaramente nel corso della seduta, siamo invece contrari ad indebolire la normativa vigente ed è per questo che abbiamo contribuito, con i nostri numeri determinanti, a respingere gli emendamenti dell’opposizione che andavano in tal senso, come avevamo già fatto in occasione dell’esame della proposta di legge sulle detenute madri in commissione Giustizia”, concludono gli azzurri. Una posizione che martedì è stata duramente contestata dalla Lega, ma che fuori dalle righe viene spiegata in vena polemica dagli stessi forzisti. “Il ddl sicurezza parte da un’era geologica fa, poi è stato modificato a maggio in vista delle Europee”, riferiscono fonti parlamentari. Dalle quali emerge il dito contro Fd’I e Lega che hanno fatto fallire l’accordo di governo inserendo nel testo quelli che vengono definiti “emendamenti spot”, alcuni dei quali “perfino incostituzionali”. Dopo le Europee tutto sarebbe dovuto tornare come prima, ma il mantenimento in essere da parte di meloniani e leghisti di quegli emendamenti ha dato il via al patatrac di martedì. Cioè alla volontà, da parte leghista, di prevedere “la facoltà” e non l’obbligo di trasferimento negli Icam per le detenute madri, giudicato “un passo indietro di civiltà” dalle stesse fonti azzurre. Ma nella polemica interna alla maggioranza si inseriscono anche le opposizioni, con Avs e Iv che attaccano Fi. “Almeno speriamo che si vergognino di questo voltafaccia che qualifica Forza Italia come “il sor tentenna” del Parlamento”, accusa il capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra in commissione Affari costituzionali alla Camera Filiberto Zaratti, che accusa Forza Italia di essersi “riallineata alle posizioni di maggioranza, dopo aver espresso dissenso”. Stesso concetto espresso dalla renziana Maria Elena Boschi, secondo la quale i forzisti “hanno votato contro proposte da loro sostenute nella scorsa legislatura”. Accuse rispedite prontamente al mittente dai forzisti, i quali spiegano che “il voltafaccia non esiste perché oggi non abbiamo votato una controproposta dell’opposizione che non potevamo condividere visto che introduceva una legge diversa dalla nostra proposta”. Sull’altro fronte, quello della maternità surrogata come reato universale, è arrivato il sì della Commissione Giustizia del Senato, che ha dato mandato alla relatrice di FdI, Susanna Campione, a riferire in Aula. “L’Italia si conferma una nazione all’avanguardia sul fronte dei diritti, contro le nuove forme di sfruttamento delle donne e dell’infanzia”, ha commentato la ministra della Famiglia Eugenia Roccella. Martedì era invece arrivata la bocciatura dell’emendamento della Lega, presentato dal capogruppo Massimiliano Romeo, che prevedeva una ulteriore stretta con il carcere fino a 10 anni e una multa fino a due milioni di euro. L’emendamento aveva avuto da parte del governo l’invito al ritiro, e messo ai voti hanno votato a favore solo i due senatori leghisti, contrari oltre alle opposizioni gli altri senatori di maggioranza. Zanettin (Fi): “Donne incinte in cella? Non possono essere i bambini a pagare” di Giovanni M. Jacobazzi L’Unità, 4 luglio 2024 Forza Italia (che voterà a favore della legge Giachetti sulla liberazione anticipata) si astiene sul carcere per le madri detenute. “Noi garantisti” seguiamo la Costituzione”. “Il nostro faro è sempre la Costituzione e la pena, come recita appunto l’articolo 27, deve avere una finalità rieducativa e non afflittiva”, afferma il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a Palazzo Madama, commentando la decisione dei suoi colleghi alla Camera di non partecipare questa settimana al voto sugli emendamenti al ddl sicurezza nella parte riguardante le detenute madri e che renderebbe facoltativo il rinvio della pena per le donne incinte o con prole fino ad un anno. Senatore Zanettin, condivide la scelta di “smarcarsi” dalla maggioranza? Come ha detto il collega Paolo Emilio Russo alla Camera, non possono essere i bambini a farne le spese. Sono perfettamente d’accordo sulla necessità che sia mantenuto, per le madri con bambini fino ad un anno, l’obbligo di differimento della pena o l’obbligo di scontarla in un istituto protetto. Bisogna scongiurare che anche un solo bambino sia costretto a crescere dietro le sbarre di un carcere per colpe della madre. Nella maggioranza, però, ci sono sensibilità alquanto differenti a tal proposito e proprio su questo punto si preannuncia un dibattito acceso in Aula... Guardi, noi di Forza Italia siamo l’anima garantista del centrodestra e lo rivendichiamo. Su questo aspetto non devono esserci dubbi. Mi fa piacere ricordare che sono stato l’unico parlamentare della coalizione di governo che ha partecipato alla maratona oratoria organizzata la scorsa primavera a Roma dalle Camere penali per denunciare l’emergenza delle carceri. L’iniziativa, “Non c’è più tempo”, era stata accompagnata anche da una giornata di astensione dalle udienze. La situazione delle carceri da allora è drammaticamente peggiorata. Quasi 50 detenuti si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Purtroppo. Dobbiamo evitare a tutti i costi che il 2024 passi alla storia come l’anno record dei suicidi nelle carceri. Speriamo in misure urgenti. Il detenuto deve essere trattato con umanità. Che provvedimenti ipotizza? Sicuramente è necessario un aumento delle telefonate. Un provvedimento da fare subito, come ai tempi del Covid. E poi un ragionamento complessivo sulla detenzione. Analizzando le statistiche dei suicidi, ad esempio, è emerso che molti di essi avvengono a pochi giorni dalla libertà. L’incognita del “dopo” determinerebbe una angoscia difficile da superare. Da dove iniziare? È fondamentale abbassare la pressione sul carcere con degli interventi strutturali: più formazione e lavoro, minore affollamento, trasferimento in strutture dedicate di tutte quelle persone che in galera non avrebbero mai dovuto entrarci, a partire dai tossicodipendenti e dai malati psichiatrici. Ci dimentichiamo spesso che fra i reclusi ci sono tantissime persone affette da problemi psichiatrici. Un elemento che sta trasformando le carceri nei nuovi manicomi. Secondo gli ultimi dati disponibili circa il 15 per cento della popolazione carceraria è affetta da turbe psichiche che rendono incompatibile la loro detenzione. È favorevole alla proposta Giachetti sulla liberazione anticipata? Sulla questione si esprimerà il gruppo di Forza Italia alla Camera che ha il testo all’Ordine del giorno. Ho visto che sono favorevoli. Cittadini e difensori espulsi ancora dai processi, pure nei giudizi in Cassazione di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 4 luglio 2024 L’oralità è l’essenza del rito penale. Con questa affermazione chi scrive concludeva una riflessione pubblicata su queste pagine e relativa alla deriva cartolare per il contraddittorio in appello. La riforma Cartabia promuoveva - analogamente a quanto già previsto per il giudizio in Cassazione dal Dl 18 del 2020 (convertito nella legge 27 del 2020) e poi dal cosiddetto Dl Ristori 2 (il n. 137 del 2020, convertito nella legge 176 dello stesso anno) - un contenimento del contraddittorio in appello mediante l’art. 23 del Dl 149/ 2020 (il cosiddetto “Ristori bis”) che, ai commi da 1 a 6, contemplava una serie di disposizioni per la trattazione dei giudizi penali di secondo grado, la “cartolarizzazione” del processo, appunto. Se già allora erano state espresse perplessità sul binomio impugnazioni/cartolarità, l’approvazione da parte del governo, il 24 giugno scorso, del decreto Infrastrutture, riguardante anche la giustizia penale, lascia ancora più perplessi. Facciamo chiarezza. Il decreto, per ciò che concerne il processo, interviene sugli articoli 610 (“Atti preliminari”) e 611 (“Procedimento”) del nostro codice di rito. Obiettivo: rendere il giudizio penale in Cassazione - a loro dire - più efficiente. A partire dal 1° luglio 2024 il ricorso presentato alla Suprema corte, una volta superato il primo vaglio sull’ammissibilità, viene deciso in camera di consiglio, senza, dunque, la presenza né del procuratore generale né della difesa, fatto salvo il disposto dell’articolo 611 cpp. L’articolo 610 viene modificato al suo comma 5, la cui formulazione attuale prevede che, almeno 30 giorni prima dell’udienza, la cancelleria dà avviso al pg e ai difensori, indicando “se il ricorso sarà deciso a seguito di udienza pubblica ovvero in camera di consiglio”. La norma viene modificata sostituendo questa ultima parte con le seguenti parole: “che il ricorso sarà deciso in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, salvo il disposto dell’articolo 611”. Ne discende che il ricorso in Cassazione verrà deciso, di regola, in camera di consiglio e senza le parti (non più in udienza), salvo quanto previsto dal 611 cpp. Dopo questo periodo, il medesimo comma 5 viene integrato con un’ulteriore previsione, ai sensi della quale ‘ nei procedimenti da trattare con le forme previste dall’articolo 127 (Procedimento in camera di consiglio con presenza delle parti) il termine è ridotto ad almeno venti giorni prima dell’udienza’. Laddove, quindi, il ricorso viene trattato in camera di consiglio con comparizione delle parti, il termine è ridotto ad almeno venti giorni prima dell’udienza. Contestualmente a tale modifica, il comma 1- quinquies dell’articolo 611 cpp viene soppresso. L’art. 611 cpp, a seguire, viene integrato al suo comma 1, mediante la previsione per cui, nei procedimenti da trattare in camera di consiglio con comparizione delle parti ‘ i termini per presentare motivi nuovi e memorie sono ridotti a dieci giorni e per presentare memorie di replica a tre giorni’. Ne deriva che è modificato anche il primo periodo del comma 1- ter dell’articolo per quanto concerne le richieste di trattazione in pubblica udienza o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti. Il primo periodo viene sostituito dalla previsione secondo cui le predette richieste ‘ sono irrevocabili e sono presentate alla cancelleria dal procuratore generale o dal difensore abilitato a norma dell’articolo 613 c. p. p. entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell’udienza ovvero di quindici giorni liberi prima dell’udienza nei procedimenti da trattare con le forme previste dall’articolo 127’. La domanda che sorge spontanea, a fronte di tutto quanto fin qui ricordato, è se questa ennesima chiusura, quasi ermetica, del procedimento apporti effettivamente una miglioria al nostro sistema: pare rivelarsi l’ennesima lacunosa e nebulosa riforma del sistema giudiziario, riforma che erode un ulteriore pezzo di territorio al cittadino non avvezzo al meccanismo e in secondo luogo all’Avvocato, il quale viene privato della possibilità di esercitare appieno la sua funzione. Una deriva troppo pericolosa che alimenta il senso di frustrazione in chi vive le aule di giustizia. *Avvocato, Direttore Ispeg “Le indagini possono distruggere le persone”. Pinelli sferza il Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 luglio 2024 Le parole del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli, al plenum: “La fase delle indagini è ormai centrale nel processo. È vero che il giudice c’è, ma arriva quando il profilo reputazionale, professionale e personale dell’indagato è compromesso. Il giudice a Berlino arriva quando ormai le vite sono distrutte”. “Dobbiamo ricordarci che la fase delle indagini preliminari è la fase ormai centrale del nostro processo penale. C’è poco da dire che poi ci sarà un giudice. È vero che il giudice c’è, ma questi arriverà quando il profilo reputazionale, professionale e personale dell’indagato sarà ormai completamente compromesso. Il giudice a Berlino arriva quando ormai le vite sono distrutte. Non considerare la centralità delle indagini significa raccontare una modalità di concreto esercizio del processo penale in modo diverso rispetto alla realtà”. Con queste parole il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli, è intervenuto ieri al plenum del Consiglio, criticando i contenuti della nuova circolare sull’organizzazione delle procure predisposta dai membri togati. Il provvedimento alla fine è stato approvato dal Csm a maggioranza, con sei voti contrari (i laici indicati dal centrodestra) e un astenuto (il laico Michele Papa, indicato dal M5s). Pinelli non ha partecipato al voto, dopo aver sottolineato come la circolare si concentri quasi unicamente sul rapporto tra procuratore capo e sostituti, dimenticandosi appunto della rilevanza assunta ormai dalle indagini. Come già spiegato su queste pagine nei giorni scorsi, la circolare messa a punto dai togati presenta una serie di disposizioni volte a ridurre nei fatti i poteri dei dirigenti delle procure. Il testo, per esempio, stabilisce che “il procuratore della Repubblica definisce in via generale i princìpi e i criteri per lo svolgimento delle attività dell’ufficio”, ma anche che questo potere “deve essere esercitato a valle di uno specifico momento partecipativo”, rappresentato dalle riunioni con i magistrati, “tenendo conto delle indicazioni emerse in tali sedi”. “La circolare si caratterizza per una sorta di prospettiva di riunione permanente degli uffici di procura, che a mio avviso non è in linea con le necessità di efficienza e di snellezza delle procedure decisionali proprie della modernità”, ha ammonito Pinelli, che ha rintracciato nella circolare “un intento limitativo dei poteri dei procuratori, che sono visti con sfiducia e diffidenza anziché come valore aggiunto”. Per il vicepresidente del Csm, il testo finisce per non tenere in adeguata considerazione “la prospettiva della valorizzazione della maturazione delle competenze e delle capacità professionalità dei procuratori”. Un tema di non poco conto in un ambito in cui i magistrati “dispongono del potere straordinario di incidere sulla libertà dei cittadini”: “Non basta la vittoria del concorso pubblico per valutare autonomamente un quadro probatorio. Bisogna fare molta esperienza, è troppo grande il potere che si ha nelle proprie mani”, ha evidenziato Pinelli, riferendosi anche alla sua lunga carriera da avvocato penalista. Forti “preoccupazioni” sul contenuto della circolare sono state espresse anche da Felice Giuffrè, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Catania, eletto membro laico in quota FdI. Per Giuffrè, infatti, il testo si basa su una prospettiva di “orizzontalità dell’organizzazione degli uffici requirenti” che “non risponde al modello costituzionale”. Anche il consigliere Papa ha rintracciato alla base della circolare “l’adesione a un quadro ideologico di riferimento che finisce per disegnare un mondo che si vorrebbe che fosse così, attraverso regole macchinose che comportano la cogestione dell’ufficio della procura”. “La circolare rischia di depotenziare concretamente il ruolo dei procuratori”, ha affermato anche la laica Claudia Eccher, sottolineando “il rischio di una deresponsabilizzazione dei dirigenti, perché questo spazio partecipativo allargato rischia di degradare il ruolo del capo della procura a mero coordinatore delle istanze dei colleghi”. Inoltre Eccher, come Pinelli, ha richiamato l’attenzione sulla “possibile esondazione della circolare rispetto a quanto previsto dalla riforma Cartabia”. Le critiche dei membri laici non hanno però scalfito la volontà dei togati, che si pone in continuità con una tendenza culturale presente nella magistratura (e abbracciata dal Csm) che da decenni punta a cancellare ogni forma di gerarchia nelle procure, trasformandole in una sorta di assemblee di autogestione. Come se una procura fosse un liceo occupato. Caos al Csm, Pinelli “rinnega” Mattarella e il Consiglio lo “sfiducia” di Simona Musco Il Dubbio, 4 luglio 2024 Per il vice presidente la circolare non si inserirebbe nel quadro costituzionale, nonostante l’ok del capo dello Stato. E cita Napolitano. Fabio Pinelli sconfessa il Capo dello Stato Sergio Mattarella e il Consiglio, di fatto, sfiducia il vicepresidente. È caos a Palazzo Bachelet, dove la discussione sulla circolare sugli uffici requirenti - passata con il voto contrario dei consiglieri laici di centrodestra Felice Giuffrè, Claudia Eccher, Isabella Bertolini, Enrico Aimi e il 5S Michele Papa, l’astensione di Ernesto Carbone di Iv e l’assenza di Rosanna Natoli - si trasforma, di fatto, in una resa dei conti. Un clima infuocato, nel quale Pinelli, con un lungo intervento, ha messo in discussione (senza mai nominarlo) il giudizio di Mattarella sulla circolare, appoggiandosi alle dichiarazioni di un altro Presidente, Giorgio Napolitano. La circolare, di fatto, promuove un lavoro corale della procura, con un ridimensionamento - almeno nelle intenzioni - del ruolo di procuratore monarca. Un tentativo, tra le altre cose, di rispondere alla prossima riforma sulla separazione delle carriere e, pertanto, respinto dal centrodestra e da Pinelli, che dopo il voto (e senza possibilità di replica) si è lanciato in un’invettiva contro la circolare. Il tutto nonostante l’ok di Sergio Mattarella, che nella scorsa seduta di plenum aveva dato, con una lettera, il proprio assenso alla circolare, coerente, aveva spiegato, con la riforma Cartabia. “Nutro serie perplessità sull’effetto salvifico delle norme, siano esse di rango primario o di rango secondario. Quello che conta più di ogni previsione formale sono i comportamenti, il mio auspicio e anche la mia convinzione è che i pubblici ministeri italiani sappiano esprimere la loro funzione quotidiana nel senso più istituzionale e rispetto dei diritti dei cittadini”, ha scritto Pinelli. Una speranza alla quale però il numero due del Csm non sembra affidarsi più di tanto, bocciando la scelta di varare una “riunione permanente” tra pm e procuratore per la gestione degli uffici. A dare fastidio, stando al suo testo, è il tentativo di limitare il potere dei procuratori, “visti con sfiducia e diffidenza anziché come valore aggiunto”, per la loro esperienza non paragonabile a quella dei giovani pm presenti negli uffici. “Maturità e competenze professionali - ha aggiunto Pinelli - tanto più importanti in un contesto che ha visto, nei fatti, un progressivo e continuo spostamento del centro del procedimento verso la fase delle indagini preliminari, che è una fase “monologante” in cui ormai si concentrano tutti i rischi di compromissione della vita personale, reputazionale e professionale del cittadino - e in genere del destinatario del servizio-giustizia - rispetto ai quali il dibattimento ormai non offre che una tardiva e spesso insufficiente garanzia. Pensare poi che ci sia un giudice a Berlino non vale più: si arriva a Berlino stritolati dal processo mediatico e irrecuperabile diventa il danno reputazionale subito”. Peccato che tale fase sia monopolizzata proprio dai procuratori, diventati, in alcuni casi, veri e proprio showman capaci di personalizzare ogni inchiesta. Il nodo arriva dopo, quando Pinelli ricorda che i procuratori vengono “selezionati” proprio dal Csm, per “merito” e “capacità direttive”. Una forma di controllo che si concretizza anche nella possibilità di utilizzare strumenti per punirli da ogni “devianza” (anche se avviene molto poco). Ma non solo: per Pinelli la circolare porrebbe “perplessità in relazione al suo funzionale inserimento nel quadro dettato dalla Costituzione letto alla luce delle già indicate esigenze della modernità giuridica - e manifesta una “esuberanza” regolativa che nuoce alla stessa tecnica di formulazione della normazione secondaria”, con buona pace del parere di Mattarella. Che non sembra essere il riferimento di Pinelli, dal momento che il vicepresidente cita una comunicazione del Capo dello Stato del 2014 (riferendosi a dire il vero alla dichiarazione di Napolitano del 2009, pronunciata proprio davanti al Csm), secondo cui ““le garanzie di autonomia e indipendenza “interna” del pubblico ministero riguardano l’ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato”, proprio perché l’azione deve essere impersonalmente ricondotta all’Ufficio. Le scelte della presente circolare, dunque, non possono ritenersi costituzionalmente imposte”. Pinelli torna poi un’affermazione che aveva già fatto discutere a inizio anno, quando si era affannato a smentire ogni critica nei confronti di Mattarella: il possibile ruolo improprio del Csm, trasformato in terza Camera, “dilatando a dismisura i propri spazi di intervento con eccessi regolativi dei poteri del procuratore della Repubblica, titolare dell’azione, che mettono a serio rischio il rispetto del principio di effettività, imponendogli una mole di adempimenti e prescrizioni, cui oltre tutto non corrisponde un analogo dettaglio dei doveri dei sostituti”. Ferma la reazione dei togati e di Romboli: “Non possiamo tacere il nostro fermo dissenso rispetto al metodo e al contenuto di affermazioni che si sono di fatto risolte in un atto di delegittimazione del ruolo del pubblico ministero e di generalizzata sfiducia nel lavoro degli uffici di Procura e, quindi, della magistratura tutta - ha letto in aula il togato Antonello Cosentino -. Rappresentazione che non solo non trova alcun riscontro nell’assetto istituzionale ma che è ancora più grave perché offerta da chi riveste il ruolo di vicepresidente dell’organo di governo autonomo della magistratura”. Ora, si vocifera tra i corridoi di Palazzo Bachelet, “ci aspettiamo una reazione di Mattarella”. Pene sostitutive, sì alla richiesta tramite l’ufficio matricola della Casa circondariale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2024 La Cassazione ha affrontato il tema della sostituzione della pena detentiva breve sia dal punto di vista del riconoscimento del beneficio nei processi pendenti al 30 dicembre 2022 sia sul consenso dell’imputato. La Cassazione penale con due decisioni contemporanee ha affrontato il tema delle pene sostitutive in ordine ai tempi della loro applicazione e ai modi di presentazione della richiesta. La pena sostitutiva di quella breve detentiva, come previsto dalla Riforma Cartabia, può essere chiesta anche nei procedimenti già in corso al momento dell’entrata in vigore della novella. Ma perché la richiesta sia da considerarsi ammissibile, se presentata per la prima volta in sede di appello, è necessario che la sentenza di primo grado risulti pronunciata prima del 30 dicembre 2022. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 25862/2024 - ha perciò respinto il ricorso con cui si lamentava che la decisione di secondo grado avesse respinto la richiesta di sostituzione, proprio in quanto promossa solo nel giudizio di appello. Infatti, secondo l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte la richiesta era inammissibile perché poteva esser utilmente promossa nel giudizio pendente in corso, che era appunto quello di primo grado nel caso concreto risolto. E ciò vale a prescindere dalla circostanza di quale fase avesse raggiunto il giudizio di primo grado che, nel caso concreto, pacificamente non si era ancora concluso con l’emissione della decisione. In effetti, se la domanda fosse stata già avanzata in primo grado e fosse stata respinta, tale diniego poteva essere impugnato utilmente dinanzi al giudice di secondo grado attraverso uno specifico motivo di appello. Con altra decisione - la n. 25931/2024 - la stessa Cassazione penale ha annullato con rinvio la sentenza del giudice di secondo grado che aveva ritenuto inammissibile la richiesta di applicazione della pena sostitutiva pecuniaria all’imputato, che l’aveva fatta pervenire tramite Pec inviata dall’Ufficio matricole della Casa circondariale dove egli era ristretto. Inoltre, il giudice aveva rafforzato il proprio diniego facendo rilevare l’assenza dell’imputato e del suo difensore all’udienza fissata ad hoc per statuire proprio sulla possibilità di applicazione di una pena sostitutiva. Da tale assenza, infatti, il giudice aveva dedotto l’implicita rinuncia a fruire della sostituzione. La Cassazione risponde positivamente ai rilievi del condannato ricorrente affermando in primis che la sua richiesta inoltrata tramite l’Ufficio matricole integrava la necessaria sostanza dell’atto “personalissimo” che deve essere posto alla base della decisione sulla sostituzione della pena. Infatti, di regola la pena sostitutiva non può essere applicata senza il consenso espresso dell’imputato, in quanto egli se ne assume tutti gli oneri compresi quelli di rispettarne le prescrizioni e le eventuali conseguenze in caso di violazioni delle stesse. La decisione di legittimità chiarisce, invece, che nessun dubbio è coltivabile sulla validità del consenso così espresso dal luogo di detenzione. Inoltre la Pec era stata inviata dal ricorrente non solo all’Ufficio del giudice, ma anche al proprio difensore. Infine, specificata la piena efficacia della richiesta di sostituzione inoltrata dal ricorrente, la Cassazione ha ritenuto non doverosamente chiarito da parte della Corte di appello il motivo del diniego. Perché se fosse stata la ritenuta inapplicabilità della sanzione pecuniaria espressamente richiesta, il giudice avrebbe comunque dovuto vagliare la possibilità di sostituzione con altra pena sostitutiva. Pavia. Giovane detenuto in fin di vita dopo tentato suicidio a Torre del Gallo radiogold.it, 4 luglio 2024 Un altro dramma si è consumato all’interno del carcere di Torre del Gallo di Pavia. Un detenuto di 19 anni ha tentato di togliersi la vita impiccandosi con un lenzuolo nella sua cella della sezione 8, quella dell’osservazione isolati. Il giovane, di origini straniere, si trova ora ricoverato in gravissime condizioni nel reparto di rianimazione del San Matteo. Si tratta del terzo episodio dall’inizio dell’anno: a marzo era stato trovato senza vita nella sua cella Jordan Tinti, il trapper 26enne, mentre a Pasqua un altro detenuto di 42 anni si era tolto la vita. Dal 2021, nel carcere di Pavia, si sono verificati ben undici suicidi. Il giovane, che si trovava da solo in cella, ha messo in atto il suo gesto in pochissimi istanti. Un agente di polizia penitenziaria, durante il giro di controllo, ha notato quanto stava accadendo e ha lanciato l’allarme. Il detenuto è stato soccorso dal personale medico del carcere e dai medici del 118, che lo hanno intubato e trasportato in ospedale in condizioni disperate. Sull’episodio è stata aperta un’indagine interna per chiarire la dinamica dei fatti e, soprattutto, il contesto in cui il giovane ha tentato il suicidio. Il ragazzo, a quanto pare, aveva già mostrato segni di disagio psicologico, ma non è chiaro se fosse sottoposto a terapia o a che tipo di trattamento seguisse. L’episodio riaccende i riflettori sulle condizioni del carcere di Torre del Gallo, già al centro di polemiche per il sovraffollamento e la carenza di personale. Nonostante il miglioramento della situazione sanitaria, con 16 medici, 6 psicologi e 16 infermieri, il carcere soffre di una grave mancanza di agenti di polizia penitenziaria: a Torre del Gallo mancano ben 66 unità. Torino. Maratona oratoria contro i suicidi in carcere. “Dalle leggi antidroga situazione esplosiva” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 4 luglio 2024 Gli avvocati, le associazioni per i detenuti, i sindacati delle guardie uniti nell’allarme: “Così la prigione diventa Università del crimine”. Di fronte al sovraffollamento delle carceri, e al dramma dei suicidi, “è importante che tutti noi spingiamo per un provvedimento che metta fuori più persone possibili”: lo ha detto dal palco di Torino Susanna Ronconi, 72 anni, ex appartenente alle Brigate Rosse e Prima Linea (fatti per i quali ha già scontato la pena), alla maratona oratoria promossa dalle Camere penali “per fermare i suicidi in carcere”. Oggi Ronconi è attivista e impegnata in associazioni che si occupano di carcere (Sbarre di Zucchero) e nel Forum droghe, con il gruppo Abele. “Se già si iniziassero ad abbassare le pene per i reati minori di spaccio sarebbe una cosa: perché bisogna andare in carcere se si coltivano tre piantine di marijuana? - si chiede -. E bisogna legalizzare le droghe leggere, cosa che stanno facendo pure gli Stati Uniti, che erano i paladini della lotta alla droga”. E ancora: “Occorre riflettere sull’Impatto penale e penitenziario della legge 309 del 1990”, quella sulla droga: “Nel 2023 sul totale degli ingressi in carcere, il 27 per cento erano persone in attesa di giudizio per fatti di droga e correlati; soprattutto per l’articolo 73 in cui c’è anche il piccolo spaccio di strada”. Morale, di Ronconi: “Le nostre carceri sono piene di piccoli spacciatori, pesci piccoli. Togliendo chi è detenuto per reati minori non avremmo il sovraffollamento e potremmo avere un utilizzo dei posti, tra l’80 e il 90 per cento”. Ma, avverte Ronconi: “Facciamo anche attenzione a quello che sta accadendo, perché tra le proposte circola quella di Delmastro, di mettere queste persone in comunità chiuse, tipo San Patrignano. E per me è allarmante: un po’ perché una pena alternativa non deve essere detentiva, è un po’ perché non vorrei fosse una prima forma di privatizzazione del carcere”. La maratona è iniziata poco prima di mezzogiorno in piazza Arbarello, in centro, con il titolo “Non c’è più tempo”, organizzata dalla Camera penale Vittorio Chiusano - nell’ambito dell’iniziativa dell’Unione Camere penali - per “fermare i suicidi in carcere” e per “dare voce a tutti coloro che non possono parlare”. “Rischiamo di chiudere il 2024 come un anno particolarmente tragico”, ha ricordato Bruno Mellano, Garante regionale delle persone private delle libertà, rammentando i 40 tentativi di suicidi nelle 13 carceri del Piemonte e i cinque suicidi fin qui avvenuti, tanti quanti in tutto il 2023. “È ormai intollerabile - ha detto - guardare le statistiche e non fare nulla”. Citando poi l’intervento di Sergio Mattarella, che aveva richiamato l’attenzione sui suicidi in carcere e sul sovraffollamento delle carceri. La maratona era stata aperta dall’avvocato Davide Mosso, dell’osservatorio carceri dell’Unione camere penali, insieme al segretario della Camera penale Vittorio Chiusano, l’avvocato Giuseppe Fissore. La garante comunale delle persone private della libertà, Monica Gallo, ha invece posto l’attenzione sulla carenza di personale all’interno del carcere torinese Lorusso e Cutugno, sottolineando come l’allarme fosse stato dato anche in occasione della visita del ministro della Giustizia Carlo Nordio l’estate scorsa, quando c’erano stati due suicidi di donne in un giorno. Non sta meglio l’Istituto di pena per i minori, “dove ci sono 55 ragazzi, di fronte a una capienza di 46”. Intervenuto anche l’avvocato Claudio Strata, segretario del consiglio dell’Ordine degli avvocati, che qualche mese fa aveva tenuto una riunione all’interno del carcere delle Vallette: “Siamo rimasti sconvolti dalle condizioni e dalla situazione in cui sono costretti i detenuti, a partire anche solo dalle dimensioni di alcune celle”. “Un provvedimento di clemenza può essere un primo passo”, ha continuato, riferendosi a eventuali provvedimenti di amnistia e indulto. E ancora: “Il detenuto va tutelato e protetto, a prescindere dal reato per il quale è stato condannato”. L’avvocato Giulia Bocassi, dell’Unione Camere penali: “Sappiamo che il pensiero del Governo è diametralmente opposto al nostro, per questo siamo usciti dai convegni e andati in piazza”. E anche per questo “abbiamo proposto questa staffetta di maratone, di fronte al totale disinteresse della politica”. L’avvocato Lorenzo Trucco, presidente associazione studi giuridici sull’immigrazione: “In Italia la percentuale di suicidi è superiore rispetto agli altri Paesi e i detenuti che si tolgono la vita spesso sono condannati a pene lievi”. Ha poi ricordato “la gravità della detenzione nei Cpr, senza aver commesso alcun reato”. Ha parlato anche un agente della penitenziaria (iscritto al sindaco dell’Osapp), che non era riuscito a salvare un detenuto, nonostante, da ex della Croce rossa conoscesse le tecniche di rianimazione: “I problemi sono il sovraffollamento e la mancanza di personale, in certi momenti non riesci a seguire un detenuto invece di un altro”. Grido di allarme anche dal collega Gerry Romano, delegato sindacale Osapp: “Il nostro lavoro è drammatico. Vi sfido: fate 24 ore con me alla Lorusso e Cutugno. Per 40 anni ci hanno raccontato solo balle. Il carcere così com’è non rieduca, è una fogna, è da abbattere, pieno di blatte, topi, uno schifo. La polizia penitenziaria ha bisogno di aiuto: ci sono 1500 detenuti a fronte di una capienza di 1000. Stiamo valutando di incatenarci ai cancelli per protesta. Lasciamo perdere le visite con tappeti rossi e le piante. E poi c’è il problema dei suicidi, ma la verità è che le persone malate non devono stare in carcere. Il carcere non rieduca, ormai è un’università del crimine”. Bolzano. Rieducazione dei detenuti, bocciata la mozione di Elena Mancini salto.bz, 4 luglio 2024 Il consigliere Repetto (Pd) propone di delegare alla Provincia funzioni amministrative per reinserimento sociale e lavorativo in carcere, ma la maggioranza respinge. La rieducazione dei detenuti rimane ferma dov’è. Nella mattinata di ieri (3 luglio) il consigliere del Partito Democratico Sandro Repetto ha presentato la mozione dal titolo Competenza educatori penitenziari, con la quale chiedeva una modifica dello Statuto per delegare alla Provincia alcune funzioni amministrative riguardanti le attività di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti nel territorio della Provincia. Nell’esporre la proposta Repetto ha fatto riferimento ad una serie di statistiche sulla detenzione che mostrano come l’Italia e l’Alto Adige siano fanalino di coda per quanto riguarda la rieducazione del condannato. Uno dei fattori più rilevanti citati da Repetto è il problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, che affligge anche la nostra Provincia. “A fronte di 88 posti in capienza, nella Casa Circondariale di Bolzano sono reclusi 120 detenuti” afferma Repetto, che prosegue: “C’è stato un radicale sottodimensionamento del numero effettivo di educatori: ce ne sono 2 su un totale di 8 previsti dal DAP. In pianta organica sono previsti circa 80 agenti di Polizia penitenziaria, contro i 55 in servizio che devono svolgere anche attività amministrativa”. Per questi motivi il consigliere Pd chiede un accordo con il Governo centrale per modificare l’articolo 4-bis dello Statuto, aumentando la delega della Provincia su una materia che al momento è statale. Nel presentare la proposta, il consigliere ha fatto presente che ogni anno ci sono nelle carceri italiane, in media, 57 suicidi, il cui numero diminuisce se viene promossa la finalità rieducativa del carcere. La proposta è stata accolta con favore dai consiglieri del Team K Alex Ploner e Franz Ploner, che ha commentato: “L’attuale recidiva del 70% potrebbe essere ridotta al 2%”. Favorevole anche il consigliere del gruppo verde Zeno Oberkofler, che ha posto il focus sul numero di suicidi non solo tra i detenuti ma anche tra chi lavora in carcere. L’altro lato delle opposizioni del Consiglio provinciale ha invece fortemente criticato la proposta di Repetto. Il consigliere della Süd-Tiroler Freiheit Sven Knoll ha parlato di “idee romantiche” di chi ha proposto la mozione. “La situazione del carcere è davvero insostenibile, questo è vero, ed è lí che si deve intervenire, non certo promuovendo con i soldi della Provincia progetti di integrazione per persone che non faranno mai parte della società”, ha concluso Knoll, annunciando l’astensione della STF alla votazione. L’ultima parola è stata quella dell’assessora alla coesione sociale, famiglia e volontariato Rosmarie Pamer. L’assessora ha chiarito che che su quattro funzionari giuridico-pedagogici, attualmente tre dipendenti sono distaccati dal carcere di Trento e il posto di segreteria non è occupato. “Secondo la normativa vigente, il reinserimento sociale dei detenuti in provincia è assicurato da azione integrata di Provincia e Stato; c’è anche una delibera della Giunta (1923/2010) in questo senso, ed è stato istituito un gruppo di coordinamento tecnico per la formazione e il reinserimento sociale dei detenuti che si riunisce regolarmente per pianificare le attività nel carcere”. Il problema secondo Pamer è che la mozione presentata da Repetto obbligherebbe a trasferire competenze alla Provincia, compresa la messa a disposizione del personale necessario, l’acquisto di beni necessari e la relativa manutenzione. Per questo la volontà da parte del governo provinciale di respingere la proposta, ma lasciando aperta la porta alla possibilità di eventuali accordi con gestori di servizi sociali e organizzazioni del terzo settore. “Mi preoccupa che non si capisca quanto sia fondamentale il reinserimento nella società di queste persone, anche di una sola”, ha replicato Repetto criticando le affermazioni di chi ritiene queste persone “delinquenti nati” da un lato, e dall’altro si richiama alla religione cristiana, dimenticando il messaggio “gli ultimi saranno i primi”. Messa in votazione, la mozione è stata respinta con 10 sì, 18 no e 7 astensioni. Bergamo. “In carcere e fuori, così aiuto i detenuti a riprendere la strada” di Alessandra Loche L’Eco di Bergamo, 4 luglio 2024 Ex infermiere al “Papa Giovanni”, con la moglie collabora con la Casa circondariale e l’Ufficio esecuzione penale esterna. Fausto ha 62 anni, è in pensione e fino a due anni fa faceva l’infermiere per l’Asst Papa Giovanni, prima in reparto e poi al Pronto soccorso con esperienze anche di elisoccorso e all’interno della centrale operativa. Vive a Villa di Serio con la moglie e un figlio, le altre figlie sono ormai sposate. Il volontariato ha sempre permeato la sua vita familiare: l’impegno da ragazzo in oratorio, proseguito poi insieme alla moglie anche in età adulta, e poi nell’accoglienza di minori in affidamento. “Mi sono reso conto che è giusto che un detenuto paghi per quello che ha fatto, ma la vita detentiva non è così semplice. Togliere la libertà ad una persona è un gesto che ha un certo peso: lo abbiamo provato tutti durante il Covid, ed eravamo nelle nostre case... Non scuso i detenuti, ma vivono una realtà drammatica. Non è un concetto semplice da comprendere se non vivi il carcere dal suo interno” “Una famiglia allargata” - “Siamo una famiglia allargata: abbiamo accolto cinque affidi di minori nel corso della nostra vita, il primo 29 anni fa, e alcuni di questi sono rimasti legati a noi ancora oggi”. Nella sua vita professionale Fausto ha incontrato anche l’esperienza della detenzione: tramite la convenzione medico-infermieristica stipulata tra gli allora Ospedali Riuniti e la Casa Circondariale di Bergamo, nel 1994 è entrato nel Carcere come infermiere per un anno e mezzo. “È stata una delle esperienze lavorative che mi ha fatto maturare maggiormente, un’esperienza molto bella”, racconta. “Mi sono reso conto che è giusto che un detenuto paghi per quello che ha fatto, ma la vita detentiva non è così semplice. Togliere la libertà ad una persona è un gesto che ha un certo peso: lo abbiamo provato tutti durante il Covid, ed eravamo nelle nostre case... Non scuso i detenuti, ma vivono una realtà drammatica. Non è un concetto semplice da comprendere se non vivi il carcere dal suo interno”. Così, quando due anni fa è andato in pensione, è stato quasi naturale tornare ad impegnarsi in un ambito che lo aveva colpito molto ed è diventato volontario sui temi della giustizia. Il gancio della moglie - A fare da gancio la moglie, che condivide con lui un’attenzione particolare al volontariato. “Da sette anni mia moglie era volontaria alla Mensa della stazione e in quel contesto aveva conosciuto l’opportunità di diventare volontaria anche all’interno della Casa Circondariale. Ha iniziato lei e poi mi sono avvicinato anche io: inizialmente ho dato la mia disponibilità, grazie all’Articolo 17 Legge 354/75 (Partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa), per eseguire dei trasporti in accompagnamento dei detenuti. Poi mi è stato proposto di collaborare con l’Ufficio locale di esecuzione penale esterna (Ulepe) per affiancare le persone in misure alternative alla detenzione e aiutarle a reinserirsi nella società”. La prima esperienza di affiancamento alle misure alternative Fausto l’ha vissuta proprio con sua moglie: l’Ufficio ha chiesto loro di affiancare una famiglia con due persone in esecuzione pensale esterna. Il loro compito era stare vicino a questa famiglia, cercando di capire se avessero avuto bisogno di qualcosa. Affiancamenti - “Abbiamo proposto alla mamma di venire con noi alla mensa della stazione, anche accompagnandola nel tragitto. Li abbiamo aiutati anche nella gestione di alcune pratiche burocratiche e nel supporto ai bambini piccoli. Non ci hanno mai chiesto nulla, e ogni volta che andavamo da loro il papà ci ringraziava sempre con una cassetta di verdura del suo orto. Un’esperienza arricchente, con loro ci sentiamo con regolarità ancora oggi”. A questa sono seguite altre tre esperienze di affiancamento, talvolta brevi in altri casi molto intense. Esperienze che funzionano bene quando le persone sottoposte al provvedimento comprendono che Fausto può essere per loro una risorsa e un aiuto. “Il volontariato dovrebbe davvero essere di tutti, chi un po’ di più chi di meno e ciascuno per le cose che gli piacciono. Credo che ci sia tanta gente che fa del bene, ci sono tante forme di volontariato” Volontariato per tutti - “Personalmente credo di non fare nulla di particolare, penso che siano cose che avrebbe fatto chiunque. Quando mi dicono “Hai fatto cinque affidi”, rispondo che fare un affido non è meno importante di fare il piedibus - conclude Fausto -. Pensate ad un papà che fa il piedibus e passa a prendere un bambino, lasciando a casa la mamma con l’altro figlio piccolo: che servizio gigante fa! O ancora conosco un signore che ogni sera va in casa di riposo a dare da mangiare agli anziani. Questi sono i santi di oggi. Il volontariato dovrebbe davvero essere di tutti, chi un po’ di più chi di meno e ciascuno per le cose che gli piacciono. Credo che ci sia tanta gente che fa del bene, ci sono tante forme di volontariato”. Mattarella e il “fermo no” all’“autorità senza limiti” della maggioranza di Marzio Breda Corriere della Sera, 4 luglio 2024 Il discorso del presidente della Repubblica a Trieste, nella giornata inaugurale della Settimana Sociale dei Cattolici: “Il principio “un uomo un voto” non sia distorto. Una democrazia “della maggioranza” sarebbe una insanabile contraddizione”. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con S.E.R. Card. Matteo Maria Zuppi e il Presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia Massimiliano Fedriga alla cerimonia di apertura della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia, oggi 3 luglio 2024. “Battersi affinché non ci possano essere “analfabeti di democrazia” è una causa primaria, nobile, che ci riguarda tutti”. È il presidente della Repubblica a lanciare questa esortazione, che cade in una fase nella quale il funzionamento delle democrazie è in difficoltà e a volte “persino in affanno”, per nuove criticità e per vecchie e sbagliate soluzioni riproposte oggi. Accade, spiega, in quelle “democrazie imperfette” dove si ha una modesta presenza alle urne oppure “dove il principio “un uomo un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori”. Riferimento non casuale. Perché il termine “marchingegno”, associato alla parola “rappresentatività”, riassume certe scorciatoie che hanno portato a varie forme di “libertà vulnerate”. Così, Mattarella si tiene in bilico tra passato (vedi la legge Acerbo con cui nel 1924 fu spalancata la porta al fascismo) e presente, citando en passant le “democrazie illiberali” (così l’ungherese Orbán definisce il regime del proprio Paese) o “depotenziate e affievolite”. Una riflessione, la sua, che non sembra abusivo riferire anche al futuro dell’Italia. Con l’avvertimento preventivo, ma non necessariamente polemico, andando per esempio alla legge elettorale che si renderà necessaria a margine del premierato, a non esagerare giocando su soglie spropositate del premio di maggioranza. Un altolà che, del resto, era già stato pronunciato nel 2014 con una sentenza ad hoc della Corte costituzionale di cui il presidente era all’epoca membro. E qui chiama a soccorso un giudizio del filosofo del dubbio e del dialogo Norberto Bobbio “quando ammonisce a non ricorrere a semplificazioni di sistema in nome del “dovere di governare”. Perché “una democrazia “della maggioranza” sarebbe un’insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà”. In breve: una forma-Stato con le opacità di una quasi-dittatura. Suona densa di preoccupati intenti pedagogici la lectio del presidente alla cinquantesima Settimana sociale dei Cattolici convocata a Trieste. I temi del dibattito vanno dal concetto stesso di democrazia alla partecipazione attiva dei cittadini, dal senso del limite di chi detiene il potere all’interpretazione autentica della Carta costituzionale. Questioni che Mattarella unisce mettendo a confronto le esperienze e i grandi maestri, per lo più laici, in cui tutto si tiene. Beninteso, purché sia in funzione della libertà e non delle sue limitazioni, come da più parti si pretenderebbe di declinare quella democrazia che “le dittature del Novecento hanno identificato come un nemico da battere” (ricordate la demoplutocrazia mussoliniana?), mentre gli uomini liberi “ne hanno fatto una bandiera”. Chiarificatore, per lui, è sempre Bobbio, il quale ricordava come le “condizioni minime della democrazia sono esigenti”. E contemplano: “Generalità e uguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possono violare i diritti delle minoranze e impedire che possano diventare, a loro volta, maggioranze”. Ovvio, comunque, che, per lui, “è la pratica della democrazia a renderla viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere”. Ed ecco le domande fondamentali, in questi tempi di involuzione dell’intero Occidente. “Ci si può accontentare che una democrazia sia imperfetta o a “bassa intensità”? Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamentè’, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della cosa pubblica? Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori?”. Sono i problemi che si pongono molti e ai quali il capo dello Stato replica con un preambolo: bisogna stare attenti a “non commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare”, evocando - senza dirlo - lo spirito di fazione per cui gli anglosassoni qualificano noi italiani come malati di hyperpartisanship. Presupposto di ogni sforzo, sottolinea Mattarella, “elaborare una visione del bene comune in cui si intreccino - perché tra loro inscindibili - libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa”. Analisi che lo porta a mutuare le parole definitive pronunciate nel 1945 dal giurista Egidio Tosato: ““Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo, può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e più oppressiva che non la volontà di un principe”. Un fermo no all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice”. La battaglia sui diritti (e il fine vita) ora lacera il Comitato di bioetica di Francesca Spasiano Il Dubbio, 4 luglio 2024 La battaglia sui diritti si trasferisce all’ombra di Palazzo Chigi. E precisamente nel Comitato nazionale per la bioetica (Cnb), organo della Presidenza del consiglio dei ministri. Il suo ruolo è consultivo: il governo lo nomina e lo interpella sulle questioni più spinose che intrecciano il dibattito politico. E mai prima d’ora con una puntualità tale da “liquidare” questioni di particolare rilevanza. Come è successo con il caso di Alfredo Cospito nel 2023, quando al comitato si era rivolto il guardasigilli Carlo Nordio. E anche ora, con il suicidio assistito. Tant’è che il malumore espresso a più riprese dalla fronda “dissidente” interna al comitato si fa ad ogni snodo vera e propria insofferenza. L’unità di misura la dà l’ultimo scontro che si è consumato sul tema del fine vita, che al momento impegna almeno un paio di tribunali e soprattutto la Corte Costituzionale. Il nodo riguarda l’interpretazione del “trattamento di sostegno vitale”, uno dei quattro requisiti per accedere al suicidio assistito stabiliti dalla stessa Consulta con la sentenza 242 del 2019 (Cappato/ Dj Fabo). Prima di chiarire dove sta l’inghippo che tormenta l’etica e la giurisprudenza occorre prima mettere insieme le date e valutare il tempismo “sospetto” denunciato anche dall’Associazione Coscioni. Questa settimana il Cnb ha pubblicato un parere che offre una interpretazione particolarmente “restrittiva” di cosa bisogna intendere per sostegno vitale, sbarrando potenzialmente la strada ad alcuni malati che vorrebbero intraprendere un percorso di fine vita in Italia ma che ne restano esclusi perché non dipendono da “macchinari”: questi, si legge nel documento del Cnb, devono “costituire una vera e propria sostituzione delle funzioni vitali”, la cui sospensione “comporti la morte del paziente in tempi molto brevi”. Il parere è stato richiesto il 3 novembre 2023 dal comitato etico territoriale dell’Umbria, gli organi locali direttamente coinvolti nei processi di valutazione attribuiti al servizio sanitario. Ed è stato approvato a larga maggioranza nella seduta plenaria del 20 giugno, dopo un lungo travaglio. L’approdo unico a cui si puntava non è stato raggiunto. Al contrario: a fronte dei 24 voti favorevoli, in 4 hanno votato contro, altri 3 componenti non hanno partecipato al voto e uno si è astenuto. Una piccola ma convinta opposizione che ha deciso di produrre un parere di minoranza che va in direzione opposta, mettendo al centro la volontà del malato: a firmarla sono 7 componenti, più 4 nomi che vi hanno aderito pur non avendo diritto al voto. Tra questi Lorenzo D’avack, oggi membro e già presidente del precedente Cnb, secondo il quale nell’attuale composizione “non c’è alcun pluralismo ed anche la possibilità di esprimere un’opinione di minoranza, come nel caso del parere sui Trattamenti di sostegno vitale, rappresenta un’eccezione faticosa”. La visione laica che ha ispirato alcuni pareri sarebbe del tutto “schiacciata” da quella di orientamento cattolico. Con le dovute differenze, all’interno della stessa componente cattolica di oggi e di ieri. Tanto è vero che il parere di minoranza non inventa nulla: si rifà a quello già espresso nel 2019, secondo il quale il sostegno vitale va considerato un requisito “eventuale”. Ciò che cambia, oggi, è il governo e il contesto. “Riteniamo che la pubblicazione di una riposta del Cnb su questo argomento nelle more di una nuova, imminente sentenza della Corte Costituzionale sul tema, sia inopportuna”, si legge nel documento dei sette. E qui torniamo alla data, che dicevamo essere rilevante: appena un giorno prima della Plenaria, il 19 giugno, alla Consulta si era tenuta l’udienza sul caso di Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto in Svizzera nel 2022. Una vicenda che riporta l’intera questione nelle mani dei giudici, chiamati nuovamente ad esprimersi sul suicidio assistito. La gip di Firenze, infatti, ha chiesto il vaglio di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), così come modificato dalla sentenza 242, nella parte in cui subordina la non punibilità dei soggetti coinvolti al requisito del sostegno vitale. Che secondo una certa lettura, tra cui quella della minoranza del Cnb, rischia di risultare “discriminatorio”. Lo stesso copione si è ripetuto a Milano, dove la gip ha sollevato la questione di legittimità. Entrambi i procedimenti coinvolgono Marco Cappato, che rischia dai 5 ai 12 anni di carcere per l’aiuto fornito. Secondo il collegio difensivo per “sostegno vitale” bisogna intendere anche l’assistenza costante, senza la quale alcuni malati non potrebbero sopravvivere. Per l’Avvocatura dello Stato, e dunque per il governo, è il contrario: oppure si finirà per liberalizzare il diritto a morire. Visioni opposte, insomma, che si riflettono dal campo etico alla politica. E viceversa. Il tutto nel silenzio del legislatore sul tema, al quale dovrà supplire la Consulta. La sentenza che (forse) metterà un punto alla questione è attesa a giorni. Intanto, il Cnb lavora all’altro tema caro alla maggioranza: la maternità surrogata. Migranti. Storia di Mohamed Dihani, difensore dei diritti umani saharawi che l’Italia non protegge di Marika Ikonomu Il Domani, 4 luglio 2024 L’attivista ha fatto ricorso contro il rigetto non motivato della protezione internazionale: la decisione è attesa in autunno. Dopo anni di torture e detenzione arbitraria da parte delle autorità marocchine, Dihani è riuscito a raggiungere l’Italia, che però considera il Marocco un paese di origine sicuro. Mohamed Dihani, attivista di origine saharawi, è uscito dal tribunale civile di Roma alla fine dell’udienza sorridendo, di fronte alle decine di persone che hanno deciso di sostenerlo nel suo lungo e complesso percorso per ottenere la protezione internazionale. “Sento di avere la protezione internazionale grazie a tutte le persone e le organizzazioni come Amnesty International e A Buon Diritto che mi dimostrano la loro vicinanza”, dice. Non è ancora chiaro quale sarà l’esito del suo ricorso contro il rigetto della Commissione territoriale, che probabilmente arriverà in autunno. Intanto però sui cartelli gialli di Amnesty, tenuti tra le mani da amici e amiche, si legge che il Marocco non è un paese sicuro. Il paese è stato infatti aggiunto nella lista del ministero degli Esteri dei paesi sicuri. Provenire da uno stato inserito in quell’elenco significa avere meno garanzie, un iter più rapido e dover provare perché quel paese, nel caso specifico, non è da considerarsi sicuro. Dihani è attivista, giornalista e difensore dei diritti umani, ed è stato vittima dall’età di 9 anni di plurimi atti di persecuzione per motivi politici da parte delle autorità marocchine. È stato fermato per la prima volta mentre partecipava a una manifestazione pacifica per l’autodeterminazione del popolo saharawi, che dal 1975 vive in parte nei campi profughi in Algeria e in parte nella regione del Sahara occidentale, occupata dal Marocco, paese che esercita da decenni una violenta repressione. Trattamenti inumani, tortura, detenzioni arbitrarie da parte delle autorità marocchine, sono alcune delle violazioni rilevate da diversi rapporti di organismi internazionali. Così anche le violenze subite da Dihani sono state oggetto di numerosi report di organizzazioni, tra cui Amnesty International, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate. Grazie alle pressioni dello Human Rights Council dell’Onu, che ha qualificato la sua detenzione come arbitraria, è stato poi liberato. Per cinque anni, dal 2010 al 2015, è stato vittima di sparizione forzata e detenzione arbitraria e ingiustamente condannato dalla Corte d’Appello di Rabat, in Marocco, con l’accusa di terrorismo. Clausola sicurezza - È arrivato in Italia con l’aiuto di Amnesty e, dopo due anni dalla richiesta di protezione internazionale, ha ricevuto un rigetto da parte della Commissione territoriale, la stessa che durante il colloquio individuale aveva detto di essere a conoscenza delle torture subite in Marocco e aveva disposto un accertamento medico legale, che ha confermato le violenze subite. “Nel momento della decisione, sia le torture sia l’accertamento sono spariti da ogni forma di valutazione, come se non fossero mai avvenute”, spiega uno degli avvocati di Dihani, Andrea Dini Modigliani. La decisione non è stata motivata nel merito ma l’attivista è stato ritenuto dal ministero dell’Interno una persona “pericolosa per la sicurezza dello stato”, senza fornire alcun fondamento. “Le commissioni sono emanazione del ministero dell’Interno”, prosegue Dini Modigliani, “ma dovrebbero essere organi che effettuano valutazioni obiettive e imparziali e, nel caso di Mohamed Dihani, non è successo”. “La provenienza da un cosiddetto paese sicuro ha consentito alla Commissione di ricorrere alla clausola che consente di non motivare il provvedimento di rigetto e di limitarsi ad affermare che il richiedente asilo non ha allegato elementi in grado di superare la presunzione di sicurezza. Questa clausola viene però usata in modo evidentemente strumentale e in modo da eludere l’obbligo di motivazione, come nel caso di Mohamed Dihani, che ha la “fortuna” di essere documentato in modo eccezionale, grazie ai rapporti di grandi organizzazioni internazionali che hanno seguito il suo caso, rapporti ignorati dalla Commissione”, spiega l’avvocata Cleo Maria Feoli. È emerso inoltre, spiega Feoli, che le informazioni alla base della decisione provengono da un paese terzo, il Marocco, che “non solo è uno stato autoritario, ma è anche l’agente persecutore” dell’attivista. Come già raccontato, le valutazioni dell’amministrazione sono spesso altamente discrezionali in questa materia. Una discrezionalità che però rischia di minare il diritto di difesa di un richiedente protezione internazionale: se la persona non sa quali fonti o documenti giustificano il rigetto, è complicato riuscire a difendersi. Per gli avvocati è evidente “che la Commissione non operi in modo imparziale”. Sono fiduciosi nell’operato del tribunale di Roma, ma è l’unico grado di giudizio, dopo l’abolizione dell’appello con il decreto Minniti. Segnalazione illegittima - L’attivista ha poi scoperto una segnalazione all’interno della banca dati Sis II, il sistema di informazione Schengen di seconda generazione che raccoglie dati sulla tutela della sicurezza pubblica. Il tribunale di Roma, ordinando l’ingresso di Dihani sul territorio nazionale si era già espresso incidentalmente sulla illegittimità della segnalazione. “Il fatto che la commissione non si sia espressa al riguardo suggerisce che non si è confrontata con questa pronuncia del tribunale, tradendo principi come quello del buon andamento dell’amministrazione”, sottolinea Feoli. L’illegittimità della segnalazione è stata ribadita da una sentenza successiva dello stesso Tribunale che ha riconosciuto il diritto dell’attivista di accedere ai documenti a fondamento della segnalazione e la sua successiva cancellazione. L’avvocatura dello Stato ha però impugnato la decisione e si attende il verdetto della Cassazione. Il protrarsi della decisione per Dihani è motivo di angoscia, racconta a Domani: “Non mi sento più sicuro nemmeno in Italia, soprattutto di fronte alle strette di mani tra i vertici delle istituzioni italiane e alti rappresentanti dello stato marocchino”. Il paese, considerato dall’Italia sicuro, sta facendo la stessa cosa con altri attivisti saharawi in diversi stati europei, conclude Dihani. “La storia di Mohamed dimostra che il Marocco è un paese autoritario, con carceri segrete, e non può essere considerato sicuro”, evidenzia Dini Modigliani. E indica la direzione in cui l’Unione europea sta andando, con la recente approvazione del patto sulle migrazioni, aggiunge Feoli: “Abbiamo una lista di paesi sicuri, sempre in aumento, e quindi un potenziale uso discrezionale di questa clausola. Cosa succederà quando l’esternalizzazione delle frontiere sarà anche fisica, in Albania ad esempio? Mohamed è un caso documentato, cosa succederà a chi invece non ha questa “fortuna”?”. Migranti. Mille morti al mese: la rotta atlantica è una mattanza di Luca Attanasio Il Domani, 4 luglio 2024 Gli accordi dell’Ue con Libia e Tunisia hanno spinto i migranti verso l’Atlantico per raggiungere le Canarie. Un percorso molto più pericoloso di quello nel Mediterraneo. Secondo il rapporto pubblicato di recente da Caminando Fronteras, un collettivo fondato nel 2002 da attivisti dei diritti umani provenienti da diverse parti della frontiera occidentale euro-africana che lavora per difendere i diritti delle persone e delle comunità migranti, più di 5.000 persone sono morte nei primi cinque mesi di quest’anno nel tentativo di raggiungere la Spagna via mare durante le traversate dell’oceano Atlantico dall’Africa occidentale e nordoccidentale alle isole Canarie. Un bilancio spaventoso di più di 1.000 migranti morti al mese che squarcia per l’ennesima volta il velo dell’ipocrisia delle politiche migratorie dei leader europei, che da una parte sbandierano successi nel contenimento dei flussi, dall’altra stringono accordi con autocrati o con stati noti per i loro metodi segregazionisti e violenti che costringono i migranti a cambiare rotta e optare per viaggi sempre più pericolosi. Spostamento - L’Unione europea e gli Stati membri dell’Ue, come sottolinea il report, per cercare di diminuire la migrazione lungo determinate rotte, stanno sempre più convintamente puntando su una collaborazione con paesi terzi noti per violazioni dei diritti. La strategia ha avuto come primo risultato non la riduzione dei flussi migratori verso l’Europa (che, vale sempre la pena ricordare, presentano percentuali sempre molto basse e decisamente inferiori a quelle riferite a migrazioni intrafricane), ma semplicemente lo spostamento verso altri punti di partenza e arrivo operato dai migranti al fine di evitare passaggi in paesi in cui la vita, a causa della violenza di regime, è molto a rischio. Negli ultimi due anni, dopo aver flirtato e firmato memorandum con paesi come la Turchia di Erdogan o con uno stato non-stato come la Libia, l’Ue, capofila l’Italia, ha puntato tutto sulla Tunisia del despota Saied. Segnalatosi, una volta salito al potere nell’ottobre del 2019, per una serie di misure draconiane e antidemocratiche che hanno portato all’esautoramento delle istituzioni politiche, il presidente tunisino ha fatto parlare di sé nei mesi scorsi per le sue dichiarazioni marcatamente razzistiche seguite da vere e proprie ondate di odio xenofobo in tutto il paese, e per le deportazioni in massa di migliaia di migranti subsahariani verso il deserto: evidentemente un profilo ideale con cui fare accordi per l’Ue. “Quando una rotta viene chiusa”, ha dichiarato a The New Humanitarian lo studioso di fenomeni migratori, scrittore e attivista Sani Ladan, “se ne apre un’altra. C’è stato un tempo in cui i migranti si rivolgevano a rotte marittime che prevedevano passaggi in Tunisia o Libia, ma molti hanno preferito dirigersi verso la Mauritania e il Senegal e tentare la fortuna nella traversata atlantica”. I grandi rischi che si corrono arrivando in Tunisia, addirittura per alcuni considerati maggiori di quelli in Libia, hanno causato uno spostamento verso occidente e portato migliaia di migranti a concepire viaggi molto più lunghi e infinitamente più pericolosi in aperto Atlantico rispetto a quelli che si corrono nel Mediterraneo, meno esteso e meno esposto alle correnti. Il Marocco - Di recente, ai paesi maghrebini a cui la Ue chiede di fare il lavoro sporco, si è aggiunto il Marocco. A seguito dell’incidente del 2022 in cui 23 migranti e richiedenti asilo in gran parte sudanesi sono stati uccisi mentre la folla marciava contro la barriera di confine di Melilla, il Marocco ha stretto ancora di più le maglie delle politiche migratorie, con il sostegno dell’Ue e della Spagna. I nuovi hub di partenza dei barconi che sostituiscono Tripoli o Tunisi o Sfax, quindi, sono il Senegal o la Mauritania. Quest’ultima, secondo i dati a disposizione di Caminando Fronteras, ha superato il Senegal come principale punto di imbarco e, di conseguenza, come inizio di viaggi della morte: da gennaio ad aprile 2024, sono stati 3.600 i decessi registrati. Nel complesso l’incremento delle morti è stato di quasi il 700 per cento nei primi cinque mesi del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023. “Non possiamo normalizzare queste cifre”, sembra gridare Helena Maleno, coordinatrice dello studio di Caminando Fronteras, “ed è per questo che dobbiamo pretendere che i diversi paesi antepongano il dovere dei protocolli di salvataggio in mare e la difesa del diritto alla vita alle misure di controllo dell’immigrazione. Non è così complicato, basta non lasciare che le persone muoiano alle frontiere e fornire tutti i mezzi per salvare le vite delle persone a rischio”. Cannabis light tra sequestri e assoluzioni, i produttori trattati come narcos di Claudio Laugeri La Stampa, 4 luglio 2024 Un settore da 3 mila aziende, 15 mila operatori e 500 milioni di fatturato. Le storie dei produttori: “Costretti a lavorare tra mille intoppi, siamo pronti ad acquistare i kit per i test rapidi”. “Buongiorno, siamo della Guardia di Finanza. C’è questo pacco per lei”. Dentro la scatola con i sigilli violati c’era un “campione” di qualche decina di grammi di infiorescenze di “canapa sativa”, la base per il confezionamento di prodotti nella categoria conosciuta da tutti come “cannabis light”, per via del basso contenuto di principio attivo (il Thc). Quando l’imprenditore si è trovato davanti i finanzieri ha sgranato gli occhi per il doppio stupore: per il pacco ritrovato (il corriere non si era più fatto sentire) e per la consegna del tutto particolare. Ci hanno pensato i militari a svelare l’arcano: i cani antidroga avevano fiutato il plico, loro lo hanno aperto e hanno controllato la merce. Il principio attivo era bassissimo, per la Guardia di Finanza era tutto regolare. E per evitare di causare un danno, hanno fatto la consegna di persona. “Chapeau”, in un Paese dove un ufficio pubblico non parla con quello della porta accanto. Anche perché, sovente le lingue sono diverse. Ed eccoci sbarcati nella Babele della “cannabis light”, prodotto che diventa legale o illegale a seconda delle convinzioni ideologiche, o anche soltanto di quanto forze dell’ordine e magistratura decidono di tirare l’elastico dell’interpretazione delle norme. A qualche maligno potrebbe sembrare che la “cannabis light” sia soltanto un pretesto per uno scontro ideologico di portata ben diversa: i sostenitori (soprattutto a sinistra) della liberalizzazione della “cannabis” contro i detrattori della sostanza. Un settore animato da 3 mila aziende, con 15 mila operatori e 500 milioni di fatturato. E soprattutto, non esistono “caporalato” e lavoratori “in nero”, per un effetto combinato di approccio etico e rischio elevatissimo legato ai tanti controlli: chi non è titolare di imprese o partite Iva ha il contratto del settore agricolo. Proviamo a fare chiarezza. In cima alla torre c’è il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale europea il 26 ottobre 2012, che all’articolo 38 disciplina la politica comune per agricoltura e pesca. Il provvedimento è legato al Trattato di Roma del 1957 sulla Fondazione della Comunità economica europea, ridefinito e applicato nell’ambito dell’Unione. A proposito dell’agricoltura, inserisce in una tabella tutte le coltivazioni di riferimento, compresi “semi, frutti oleosi; semi e sementi e frutti diversi; piante industriali e medicinali; paglie e foraggi”. Nessun riferimento specifico alla canapa a basso Thc (l’altra è già fuorilegge), ma nemmeno viene esclusa. Anche perché, le piante possono essere utilizzate per estrarre fibre destinate a tessuti o come componenti di materiali edili. La normativa arriva un paio d’anni dopo il tentativo della Francia di vietare le coltivazioni di canapa, frenato da una sentenza della Corte di Giustizia europea del 28 gennaio 2010: “La valutazione del rischio che lo Stato membro deve effettuare ha ad oggetto la stima del grado di probabilità degli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’impiego di prodotti vietati e della gravità di tali effetti potenziali”. Il vento francese, però, soffia oltre le Alpi e nel 2014 il governo italiano approva un decreto che modifica la normativa del 1990 in materia di droga, proprio puntando alla “cannabis”: viene messa fuorilegge in qualsiasi forma, dalle foglie, alle inflorescenze, all’olio, alla resina, senza riferimenti al Thc. Una sola eccezione: “la canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali” diversi da quelli illeciti già disciplinati. Partita chiusa, sembrerebbe. Ma non è così. Nel 2016, l’Italia approva la legge 242 in materia in pieno stile “gattopardo”. Dice, ma non dice, dispone, ma non predispone, offre una lettura cangiante che attira i più audaci e desiderosi di fare business, ma divide anche la giurisprudenza chiamata in causa dagli stessi imprenditori davanti a denunce e sequestri. Complice la scomparsa nella stesura definitiva del valore-soglia di Thc per definire l’illegalità della pianta. L’unico accenno sull’argomento è a tutela del coltivatore, che potrebbe ritrovarsi con piante dal Thc tra lo 0,2 e lo 0,6 pur avendo agito nella totale buona fede. Nella prima eventualità, accade nulla; nella seconda, merce sequestrata e distrutta, ma nessun procedimento penale. Sia chiaro, è difficile pensare che un trafficante sano di mente pensasse di sfruttare la coltivazione legale come “cavallo di Troia” per far passare per buona anche qualche piantagione illegale: sotto il profilo criminale, l’idea di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine con un’attività “borderline” non appare geniale. E allora? La canapa è fuorilegge in ogni sua forma? Forse no, perché fatta (male) la legge, gli orientamenti della giurisprudenza si moltiplicano. La Cassazione - In un pronunciamento del 2007 proprio in materia di “cannabis”, le Sezioni Unite della Cassazione avevano stabilito: “È indispensabile che il giudice di merito verifichi l’idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante”. E per maggiore chiarezza, la Cassazione argomenta: “Ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo (Thc, ndr) contenuto nella sostanza, bensì l’idoneità a produrre un effetto drogante”. E qui, spunta il sorriso sulla bocca dei produttori di “cannabis light”. Già, perché è possibile discutere se a un Thc alto possa corrispondere un “effetto drogante” punito dalla legge, ma a un Thc basso non potrà mai corrispondere un “effetto drogante”. Ma per stabilire tutto questo, serve un processo. Le storie - Stefano (nome di fantasia) ha 38 anni. Ha studiato psicologia a Roma, dove vive. Nel 2017, decide di intraprendere l’attività di coltivatore di “canapa light”. “Ho subito otto controlli in quattro anni e due volte sono pure finito a processo per traffico di droga. Sempre assolto”, racconta. La volta che se l’è vista peggio è stata “nel 2018, la Polstrada è arrivata all’ora di pranzo nel magazzino dove essiccavo la canapa. C’era un forte odore, lo sentivano dalla strada. In pochi minuti, sono arrivate venti pattuglie. Mi hanno tenuto lì fino all’una di notte, poi in cella di sicurezza, fino al mattino dopo. Mi hanno fotosegnalato, preso le impronte. Il mattino dopo mi hanno rilasciato. Però, il verbale su quella sera è sparito. Se n’è accorto anche il capo dell’antidroga di Roma, che ha fatto un altro controllo due anni dopo in seguito alla spedizione di un pacco”. L’odore non lascia spazio a dubbi. Per gli uomini, figuriamoci per i cani antidroga. “Ma non tutti si comportano nello stesso modo - aggiunge Stefano -. Una volta sono venuti i carabinieri del Nas e gli ispettori dell’Aifa (Agenzia del farmaco, ndr). Hanno preso i campioni, ci hanno lasciato lavorare senza problemi. Due mesi dopo ci hanno mandato via Pec i risultati, era tutto in regola”. In un controllo, però, la merce è rimasta sotto sequestro per “tre mesi. Erano 300 chili di materiale, abbiamo buttato via tutto”. Anche se la sentenza è stata di assoluzione. Ma lui lavora ancora, collegato a “altre quattro aziende. In tutto, fatturiamo 8 milioni di euro, l’anno scorso 7 milioni e 200 mila”. E questo dà l’idea di quale partita sia in gioco. Ancora: “L’Italia è tra i pochi Paesi europei dove è possibile coltivare in campo aperto, il clima è favorevole. Siamo i leader del mercato per questo”. Ma la legge non è uguale per tutti. Paola, 42 anni, nel 2019 decide di abbandonare la cartolibreria di famiglia e di aprire una piccola coltivazione di canapa. “Qui, il clima è ottimo per le florescenze. Ma la coltivazione per fare fibre tessili o per l’edilizia non funzionerebbe, ci sono costi troppo alti di trasporto, racconta. Un anno di lavoro, buoni risultati. Nel 2020, la produzione viene spostata “in altri due Comuni. Come avevamo fatto l’anno prima, abbiamo avvisato i carabinieri di quelle zone, anche se non eravamo obbligati a farlo”. I magazzini, però, erano rimasti nel paese di partenza, a pochi passi dalla caserma dei carabinieri. Risultato: i militari arrivano e sequestrano sette quintali di merce in fase di essiccazione e denunciano Paola per traffico di droga. Il valore all’ingrosso è di 200 euro al chilo, il valore è di 140 mila euro. “Mi sono guadagnata il soprannome di “Paola Escobar”, scherza. Adesso. Ma in quei giorni, non aveva tanti motivi per sorridere. “Avevano calcolato un valore di 6 milioni, come se fosse marijuana”. Alla fine, arriva l’assoluzione, ma soltanto per mancanza del fattore soggettivo. “Secondo i giudici di Oristano, è illegale staccare i fiori dalla pianta, ma hanno capito che non avevo la volontà di commettere un reato. Però, ora non potrei più fare quell’attività, definita illegale in quella forma”. Giudici e investigatori - L’orientamento dei giudici di Oristano è condiviso anche da quelli di Nuoro, ma non a Sassari dove l’imprenditore si è visto arrivare a casa la Guardia di Finanza con il pacchetto di canapa. Nel marzo 2021, la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari aveva addirittura inviato una direttiva alle forze dell’ordine e ai colleghi magistrati richiamando “il quadro normativo composito e apparentemente contraddittorio” in materia di canapa e invitando a seguire l’indicazione delle Sezioni unite della Cassazione, laddove qualificano “la cannabis quale sostanza stupefacente, in ogni sua varietà”. Tradotto: andate e sequestrate. Nessun accenno alla parte della sentenza dove gli ermellini parlano di “effetto drogante”. Forse, questo “effetto tunnel” è legato alla situazione particolare della Sardegna, dove negli ultimi anni si sono moltiplicate le coltivazioni di marijuana. Un’attività sempre esistita, ma incrementata quando la ‘ndrangheta ha deciso di concentrare i propri business sulla cocaina, a parità di peso ben più redditizia. Investigatori e magistratura sono preoccupati che la Sardegna possa diventare (se già non lo è) leader nel mercato illegale di marijuana. Poi, ci sono le insinuazioni dei maligni: sradicare le coltivazioni di “cannabis light” consentirebbe di individuare con maggiore facilità le piantagioni illegali. Tesi che trasformerebbe la Babele simbolo dell’incomunicabilità nel set di un film di Ridolini. Le soluzioni - Per riportare l’ordine nella Babele della “cannabis light” basterebbe una legge. Chiara. O è legale o non lo è. Punto. “Per accertare all’istante la percentuale di Thc esiste un test rapido dell’Università di Zurigo - spiega Mattia Cusani, presidente dell’associazione italiana di produttori di canapa sativa -. Immaginando che lo Stato non abbia le risorse per acquistare questi test, possiamo farlo noi. Non abbiamo problemi a dimostrare la nostra correttezza. È nel nostro interesse un controllo rapido”. In tutto questo, c’è qualcuno che incassa senza rischi: il Fisco. Già, perché i coltivatori di “cannabis light” si sono premurati di sapere come potevano essere in regola nei versamenti e hanno chiesto lumi all’Agenzia delle Entrate. Ottenuta la risposta, hanno ottemperato. La torre di Babele è servita.