Le carceri italiane scoppiano: 10mila i detenuti in più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2024 A fronte di circa 51mila posti - inclusi quelli inagibili - sono otre 61mila le persone recluse. L’ultimo dato sulla situazione carceraria italiana, aggiornato al 30 giugno 2024, dipinge un quadro allarmante del sovraffollamento nelle strutture penitenziarie del paese. Con una popolazione carceraria di 61.480 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 51.234 posti (ai quali però va sottratto un numero consistente di celle inagibili), il sistema penitenziario italiano si trova a gestire un eccesso di oltre 10.000 reclusi, pari a circa il 20 per cento in più rispetto alla sua capacità effettiva. Le carceri, con 49 suicidi in soli sei mesi dall’inizio dell’anno, stanno attraversando la crisi più profonda della loro storia recente. Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria (Spp), ha elaborato un dossier che fotografa una situazione allarmante che sta mettendo a dura prova detenuti e personale carcerario. Nei primi sei mesi dell’anno, le carceri italiane hanno registrato un numero senza precedenti di 51 suicidi (Di Giacomo inserisce anche coloro che sono morti “sniffando” il butano del fornelletto) tra i detenuti, con un’età media di soli 38 anni. Più della metà di questi, 28 per l’esattezza, erano cittadini stranieri. La Campania emerge come la regione più colpita, con gli istituti di Napoli Poggioreale e Genova Marassi che condividono il triste primato di tre suicidi ciascuno. Ma la disperazione non risparmia nemmeno chi dovrebbe garantire la sicurezza: cinque agenti di polizia penitenziaria hanno posto fine alla propria vita dall’inizio dell’anno, un dato che sottolinea come la crisi pervada tutti i livelli del sistema carcerario. Il quadro si fa ancora più cupo se si considerano i tentativi di suicidio, balzati a quota 1200, con un aumento del 25 per cento rispetto all’anno precedente. La violenza dilaga: le aggressioni al personale sono cresciute del 40 per cento, raggiungendo i 1241 casi. Anche le manifestazioni di protesta collettiva, i ferimenti e le colluttazioni hanno subito incrementi significativi. Il sovraffollamento cronico continua a essere una piaga: con 61.480 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 47.067 posti (nel report, il segretario del Spp ha sottratto le celle inagibili), le carceri italiane ospitano il 31 per cento di reclusi in più rispetto alla loro capacità. Tra questi, quasi un terzo sono stranieri e oltre 2.600 sono donne. La situazione dei minori detenuti è particolarmente preoccupante: 555 giovani, di cui 18 ragazze, sono reclusi nei 17 istituti di pena minorili. Solo il 6 per cento di loro sta scontando una pena definitiva, mentre la stragrande maggioranza è in attesa di giudizio o ha una posizione giuridica mista. Non meno drammatica è la condizione delle 23 madri detenute, costrette a crescere 26 bambini dietro le sbarre, in un ambiente che difficilmente può definirsi adatto allo sviluppo di un minore. Il dossier evidenzia anche un preoccupante aumento del contrabbando all’interno delle carceri. Il numero di telefoni cellulari sequestrati è salito a 2200, mentre gli oggetti atti ad offendere rinvenuti sono più che raddoppiati, passando da 290 a 700. Anche il traffico di droga è in crescita, con 17 chili sequestrati contro gli 11 dell’anno precedente. A complicare ulteriormente il quadro vi è una carenza di organico della polizia penitenziaria che supera le 11.000 unità. Questo deficit di personale rende ancora più difficile la gestione quotidiana degli istituti e il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Di fronte a questi dati allarmanti, è evidente che il sistema carcerario italiano necessiti di interventi urgenti e strutturali. La situazione attuale non solo viola i diritti fondamentali dei detenuti, ma compromette anche la funzione rieducativa della pena, pilastro del nostro sistema giuridico. Decreto “svuota-carceri” oggi in Cdm, ecco cosa prevede di Francesco Grignetti La Stampa, 3 luglio 2024 Cambiano le condizioni dei premi, gli sconti di pena per i detenuti e altre misure per limitare il problema del sovraffollamento. Pene alternative per i detenuti per reati minori, affidamento in comunità per tossicodipendenti, e possibilità di far rientrare i detenuti stranieri nei paesi d’origine. Sono queste le misure cui lavora il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in una estate rovente nelle carceri, con 61.480 detenuti e per 51.234 posti regolamentari, secondo il dato aggiornato al 30 giugno, e il record di suicidi da inizio anno, praticamente uno ogni due giorni. Un pacchetto atteso in Cdm nei giorni scorsi, ma mai approdato. Ora il Guardasigilli rilancia: “Sono certo che andrà entro la fine del mese al Consiglio dei ministri. Non sarà sicuramente uno svuota-carceri nel senso di aprire le porte per alleggerire la popolazione carceraria, che pure costituisce un problema”. Quanto ai contenuti, spiega Nordio, “dobbiamo lavorare molto sulle comunità sia per i detenuti per reati minori sia per i tossicodipendenti che molto spesso sono più malati che criminali. Poi quella di far scontare la pena agli stranieri nei loro Paesi di provenienza. Noi abbiamo quasi 20mila reclusi stranieri. Se riuscissimo anche solo per la metà a concludere accordi con i Paesi di origine per far scontare lì le pene, avremmo già quasi risolto il problema”. Molta attenzione è posta sulle presenze nelle carceri per minori: “una situazione del tutto nuova ed emergenziale. La capacità carceraria del nostro Paese - ha osservato Nordio - è sempre stata costruita e ideata tenendo conto di una minoranza molto notevole di detenuti minori. Poi improvvisamente ci siamo trovati di fronte quasi a un’invasione di minorenni che vengono soprattutto da altri paesi”. Secondo i dati aggiornati al 15 giugno, sono 555 in totale i minori e giovani adulti negli istituti penali per minorenni, 266 sono di origine straniera. Il Pd incalza il ministro: “Gli ultimi annunci - per la responsabile Giustizia della segreteria Debora Serracchiani - confermano che non cambierà niente, restiamo alle chiacchiere e pure col garantismo siamo a zero: il sovraffollamento nelle carceri potrà aumentare, continuerà nel disinteresse la sciagura dei suicidi di detenuti e poliziotti penitenziari”. Italia Viva chiede al ministro una informativa urgente: “Oggi si raggiunge quota 54 di suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, l’ultimo oggi un ragazzo di 21 anni nel carcere di Paola, 5 quelli del personale di polizia penitenziaria”. Nel frattempo, il 17 luglio tornerà in Aula alla Camera la proposta di legge in quota opposizioni di Roberto Giachetti per la “Liberazione anticipata speciale”, e che prevede 75 o almeno 60 giorni di sconto di pena ogni sei mesi - anziché gli attuali 45 - con il via libera del magistrato di sorveglianza per chi ha dimostrato una buona condotta e un serio ravvedimento. Una proposta che vede contrario il guardasigilli. “Quello dello sconto di pena è un problema di cui si è discusso e io personalmente non sono d’accordo”, ha ribadito Nordio: “Sono sempre una sorta di sconfitta dello Stato se lo sconto di pena significa non un atto di generosità ma un atto di resa di fronte a una situazione che giudico tollerabile”. Nordio: “C’è un’invasione di detenuti minori stranieri” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2024 Il magistrato Sangermano spiega in Parlamento: “Aumentati dopo il dl Caivano”. Il ministro a un evento a Milano: “Impreparati e sorpresi dall’aumento esponenziale di minori detenuti. Si sarebbe dovuto prevedere dei precedenti governi”. Meno di 24 ore dopo il capo del Dipartimento per la Giustizia minorile del ministero spiega in audizione parlamentare: “Ingressi negli Istituti minorili aumentati dall’entrata in vigore del Decreto legge Caivano”. Dice Carlo Nordio che i nostri istituti penali minorili stanno subendo “un’invasione” (il virgolettato è del ministro) di ragazzi, provenienti soprattutto da altri Paesi. Una dichiarazione pronunciata dal guardasigilli lunedì 1 luglio, durante un evento organizzato a Palazzo Lombardia, a Milano. “Noi abbiamo già da sempre il problema del sovraffollamento delle carceri, una situazione che si è sedimentata negli anni ed è difficile risolvere in pochissimo tempo anche se abbiamo una strategia”, ha sostenuto Nordio. Poi ha aggiunto: “Questa situazione delle carceri per persone maggiorenni è addirittura esasperata per quanto riguarda i minorenni. C’è stato un aumento esponenziale di ospiti detenuti e questo ci ha colti impreparati, se non proprio sorpresi”. E ancora l’inquilino di via Arenula ha ripetuto: “La capacità carceraria del nostro Paese è sempre stata costruita e ideata tenendo conto di una minoranza molto notevole di detenuti minori. Poi improvvisamente ci siamo trovati di fronte quasi a un’invasione di minorenni che vengono soprattutto da altri Paesi”. Secondo Nordio: “Si sarebbe dovuto prevedere negli anni passati questo aumento quasi esponenziale, parlo anche dei precedenti governi”. L’audizione di Sangermano - Come avrebbero dovuto fare i governi precedenti a prevedere l’aumento di detenuti minorenni non è dato sapere. Anche perché l’aumento dei minori in carcere è scattato successivamente all’approvazione del decreto Caivano, una delle misure maggiormente rivendicate dal governo di Giorgia Meloni. A spiegarlo, davanti la Commissione Bicamerale per i minori, non è stato un esponente dell’opposizione ma Antonio Sangermano, a capo del dipartimento per la Giustizia minorile del ministero. “L’attuale condizione di sovraffollamento del comparto carcerario minorile è anche conseguenza anche dell’aumento di minori stranieri, ma non solo”, ha detto il magistrato, prima di fornire i numeri delle presenze negli istituti, in evidente crescita negli ultimi mesi. “Nel 2021 abbiamo avuto 835 ingressi, 1.051 nel 2022, 1.142 nel 2023 e nel 2024, fino al 15 giugno, 586. Dall’entrata in vigore del decreto Caivano, relativamente a ingressi e presenza media giornaliera, il numero è obiettivamente cresciuto, non può e non deve essere negato”, ha ammesso il magistrato. Spiegando che i dati “vanno connessi anche ad altri fattori causali, come l’aggravarsi delle devianze minorili e l’enorme aumento di stranieri minori non accompagnati”. “Il decreto aumenta strumenti, non numeri” - Sangermano ha spiegato in che modo il decreto Caivano ha influito sull’aumento delle presenze negli istituti minorili. “Come è noto la legge ha abbassato i limiti edittali della richiesta di misure cautelari custodiali nel collocamento in comunità, ha aumentato le fattispecie che consentono l’arresto sempre facoltativo in flagranza. Il combinato disposto di questi elementi, unito all’eliminazione del termine di un mese per l’aggravamento della violazione della misura cautelare del collocamento in comunità, con conseguente collocamento della presenza negli Istituti penali per minorenni, ha oggettivamente prodotto un possibile incremento degli ingressi e delle presenze in Ipm”. Poi, rispondendo alle domande dei parlamentari, il capo del dipartimento per la Giustizia minorile di via Arenula ci ha poi tenuto a difendere la norma voluta dal governo. “Il decreto Caivano è una risposta di indirizzo politico alla realtà effettuale. Non ho detto che il decreto ha aumentato i numeri, ho detto che la legge ha implementato gli strumenti a disposizione della magistratura minorile, che facendone uso evidentemente corrisponde ad un’esigenza obiettiva che nasce nella realtà. Non c’è una pregiudizialità sul tema”. Insomma i detenuti minorenni aumentano perché i magistrati ne decidono l’arresto. E lo possono fare grazie a norme come il decreto Caivano. Cosa prevede la legge Caivano - Ma in che modo sono aumentati i minori detenuti dopo l’approvazione del decreto Caivano? La norma approvata dall’esecutivo nel settembre scorso ha abbassato da 9 a 6 anni la soglia della pena che consente di applicare la misura della custodia cautelare. In più ha inasprito le sanzioni per lo spaccio di lieve entità (innalzate rispettivamente da sei mesi ad un anno e da quattro a cinque anni di reclusione) con l’arresto in flagranza del minore: in questo modo sono aumentati i casi di carcerazione preventiva per i ragazzi tra i 14 e i 17 anni. Quindi l’aumento dei minori detenuti non solo era atteso, ma poteva essere ampiamente previsto. E non dai “precedenti governi” citati da Nordio, ma da quello attuale. D’altra parte era stato proprio il guardasigilli a presentare il decreto Caivano in conferenza stampa: “Abbiamo allineato la responsabilità del minore a quella dell’adulto”, diceva il ministro, illustrando la norma che prevedeva una misura cautelare in carcere per i minori anche nel caso di pericolo di fuga. Oggi Nordio sostiene di essere “sorpreso” dal boom di minori detenuti. Secondo il ministro per risolvere l’emergenza carceraria minorile serva “la differenziazione della pena e soprattutto la concezione della pena che sia non solo rieducativa e preventiva, ma che sia nuova in quanto si passa da una concezione carcerocentrica a una concezione diversa, che sia nello stesso tempo sanzionatoria ed efficace nel recupero del detenuto”. I numeri - Ma quanti sono oggi i minorenni in carcere? Ed è vero che sono soprattutto stranieri? “Da questa mattina siamo a quota 544 detenuti negli istituti minorili, che invece al 15 giugno scorso erano 555. L’enorme aumento in Italia di minori stranieri non accompagnati si è correlativamente riversato in gran parte nel circuito penale minorile in forza ed in conseguenza delle ipotesi di reati ascritte a questi minori”, ha detto Sangermano alla commissione. A livello di età il magistrato ha aggiunto che “il numero complessivo nazionale dei detenuti minorenni negli istituti penali minorili è pari a 346 unità mentre i detenuti giovani adulti sono 209. I detenuti italiani sono 289 mentre gli stranieri (provenienti soprattutto da Tunisia, Marocco ed Egitto) sono 266, con una percentuale del 48%, è un dato che pone problemi di convivenza interculturale oggettivi. I detenuti stranieri minorenni sono 175, quelli italiani 171. L’organico di polizia penitenziaria assegnato agli istituti penali minorili è di 928 unità, a fronte di 820 unità attuali, per una scopertura di agenti pari a 108 unità. Altre unità sono in arrivo”. Il capo del dipartimento per la Giustizia minorile minorile ha poi spiegato che “le comunità sono una delle soluzioni alle criticità del sistema perché l’Ipm non può diventare una discarica sociale, in cui si riversano anche sono portatori di disturbi comportamentali e dipendenza da sostanze stupefacenti, dediti all’assunzione di sostanze stupefacenti, un uso smodato di farmaci ad alto impatto psichico mescolate all’alcol”. E ancora il magistrato ha aggiunto: “C’è cronica insufficienza di comunità socioeducative ad alta densità sanitaria e ritardi tra l’ordinanza applicativa e la collocazione in comunità, con l’effetto che questi ragazzi vagano per strade pericolosi per se stessi e gli altri”. Comunità minorili penali: serve l’alleanza con il Terzo settore di Antonietta Nembri vita.it, 3 luglio 2024 “Oltre le sbarre, la vera libertà”, questo il titolo scelto per l’incontro che Fondazione Asilo Mariuccia ha promosso a Milano e che ha visto l’intervento del ministro Carlo Nordio. Un’occasione per la presidente di Fam Emanuela Baio, di lanciare una nuova iniziativa: “Un Porto Nuovo”, ovvero la realizzazione di due comunità nella storica sede di Porto Valtravaglia in grado di accogliere una novantina di ragazzi in un percorso formativo. “Un obbligo etico”. Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio ha definito la sua presenza al convegno, promosso da Fondazione Asilo Mariuccia - Fam dedicato alla giustizia minorile che si è tenuto nella sede di Regione Lombardia. “Oltre le sbarre, la vera libertà - - Comunità minorili penali per un’integrazione reale e inclusiva”, il titolo scelto per l’incontro è quasi un programma di azione quando si parla di giustizia minorile. All’evento milanese con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sono intervenuti il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, quello dell’ordine degli Avvocati di Milano Antonino La Lumia e poi ancora, tra gli altri don Gino Rigoldi, Comunità Nuova, don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria, Giulio Gallera, presidente della Commissione Speciale Pnrr della Regione e l’assessore regionale alla Famiglia Elena Lucchini. Servono comunità - Nell’occasione il presidente Fontana e l’assessore Lucchini hanno ricordato lo stanziamento regionale di 2,5 milioni di euro per l’attivazione sul territorio lombardo di nuove comunità educative e sociosanitarie per minori e giovani con disagio psichico e/o disturbi da uso di sostanze. Si tratta di unità sperimentali e innovative dedicate a ragazzi con provvedimenti della magistratura o in uscita dal percorso detentivo. Sia Fontana sia Lucchini hanno sottolineato l’importanza della collaborazione con il Terzo settore per la reale messa a terra di interventi in questo settore. Sinergie e risorse umane - “La situazione della delinquenza minorile è, al giorno d’oggi, difficile e precaria perché in continuo mutamento: scontare una pena non significa solo carcere” ha richiamato nel suo intervento il ministro Nordio, invitando a uscire da un visione “carcerocentrica” soprattutto nel campo della giustizia minorile. “Cosa fare per ottemperare a questa problematica? Occorrono strutture adeguate, risorse umane specializzate in grado di fornire assistenza e supporto psicologico ai detenuti, compresi i minori, ma anche sinergia con gli Enti locali, il Terzo settore, gli organi della magistratura, attività di reinserimento e di riqualificazione personale attraverso sport e lavoro. Questa è la direzione da seguire e che vogliamo intraprendere”, ha sottolineato ancora Nordio. Che nel richiamare l’importanza dello sport e del lavoro ha anche aggiunto che la gran parte dei giovani è recuperabile e va recuperata, ma “da soli non ce la possiamo fare se non con l’operatività efficace di volontariato e Terzo settore” Un “Porto Nuovo” a Porto Valtravaglia - E del privato sociale, di quel mondo del Terzo settore fa parte Fondazione Asilo Mariuccia, una realtà storica milanese che “in prima persona si occupa di minori che hanno incrociato la giustizia. Noi questi ragazzi, questi minori stranieri non accompagnati li ospitiamo. Sono giovani che devono sentire uno Stato amico”, ha ricordato Emanuela Baio, presidente della Fondazione che ha presentato a Fondazione Cariplo l’ambizioso progetto chiamato “Un Porto Nuovo”. Si tratta di un investimento di 2,8 milioni di euro per la realizzazione di due comunità penali minorili e laboratori pratico formativi per i ragazzi, nella storica sede di Porto Valtravaglia nel varesotto. Un investimento che consentirà, attraverso un’importante operazione di ristrutturazione edilizia, di accogliere in tutto 90 giovani tra residenziali e centro diurno, così da reinserirli nel lavoro e socialmente. “Le Comunità Minorili Penali rappresentano la vera àncora di salvezza per tutti quei ragazzi minorenni che hanno incontrato, loro malgrado, problemi con la giustizia. I dati in nostro possesso ci dicono che i minori che escono dalle comunità, rispetto a coloro che rimangono nella classica struttura carceraria, riducono drasticamente la loro propensione a commettere nuovi reati. Il nostro obiettivo, attraverso questo ambizioso progetto è quello di mettere a disposizione la nostra esperienza operando per un graduale ed efficace reinserimento sociale e soprattutto lavorativo di questi giovani” ha dichiarato Baio. La presidente ha poi aggiunto: “Asilo Mariuccia è pronta, quello di cui abbiamo bisogno è un supporto convinto e concreto da parte delle Istituzioni, in particolare del ministero della Giustizia. Si sente parlare molto di inclusione, ma per includere è necessario fare sistema, lavorare insieme, promuovere una nuova speranza di vita e di futuro per una generazione che ha bisogno di credere in un presente e soprattutto in un futuro decisamente migliore”. Ragazzi da recuperare - Baio ha sottolineato come attraverso la creazione di comunità si possa stringere un patto di civiltà “per dimostrare che il nostro Paese è capace di recuperare questi ragazzi” e ha citato l’esempio di un Msna di origine marocchina, Momo, oggi un imprenditore e cittadino italiano che ha appreso il mestiere nella comunità di Porto Valtravaglia della Fondazione Asilo Mariuccia. “Sono tanti i Momo che possiamo recuperare”, ha concluso Baio invitando il ministro Nordio a Porto Valtravaglia. Investire su risorse umane, competenze e spazi comunitari per il recupero dei giovani detenuti di Camilla Curcio Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2024 Occorre un restyling delle comunità, valorizzare gli educatori e puntare su iter formativi e professionali che aiutino i minori reclusi a ritrovare un posto nella società e a riappropriarsi del futuro. La rieducazione dei giovani detenuti (che nel 2024, stando ai dati di associazione Antigone, hanno superato quota 500 e confermato l’allerta sovraffollamento anche negli istituti penali per minorenni) passa dalla collaborazione di adulti educati e consapevoli, dal valore della dimensione comunitaria e da percorsi formativi e professionali che li aiutino a riappropriarsi del futuro. È questo il leit motif che ha accomunato gli interventi della tavola rotonda che si è tenuta martedì 1° luglio a Palazzo Lombardia a Milano, Oltre le sbarre, la vera libertà, organizzata dalla Fondazione Asilo Mariuccia Milano e dalla Regione. Puntare su comunità dinamiche e formazione scolastica - “È necessario che gli adulti vadano a scuola di relazioni”. Chiaro e conciso l’invito di Don Gino Rigoldi, per oltre cinquant’anni cappellano dell’istituto penale per minorenni Beccaria che, ribadendo il valore dell’approccio umano nel percorso di accompagnamento dei ragazzi verso una nuova vita, ha messo sul tavolo due proposte ambiziose: pensare a un nuovo modello di comunità ed estendere l’articolo 21 anche alla formazione scolastica. “Le comunità, oggi, hanno sempre meno posti e sono destinate ad averne sempre meno perché, quando i ragazzi diventano maggiorenni, se non trovano una famiglia pronta ad accoglierli, tendono a rimanere lì”, ha spiegato Don Rigoldi. “Bisognerebbe, quindi, sviluppare anche in Italia quello che in Francia o in Spagna è il modello delle maisons des jeunes, comunità di 20 o 30 giovani di diversa appartenenza e origine, allegre, sorridenti e animate dalla cultura”. Quanto, invece, alla seconda suggestione, ampliare la norma ed estenderla anche alla formazione scolastica potrebbe diventare una spinta importante al reinserimento in società. “Si potrebbero creare centri diurni ad hoc: di giorno escono a fare lezione, proprio come fa chi lavora e, una volta finito, ritornano in carcere - ha aggiunto -. Questo li farebbe diventare, in qualche modo, autonomi prima del rilascio e li integrerebbe negli spazi della società”. Nuovi modelli e più riconoscimenti agli educatori - Una visione a cui sembra allinearsi anche Don Claudio Burgio, cappellano in carica all’Istituto Beccaria. Che, nel tornare sul ruolo delle comunità di accoglienza, ha insistito sulla necessità di rinnovarne il modello, spesso anacronistico. “Abbiamo a che fare con una generazione interrotta, che non riesce a declinarsi in una progettualità di vita - ha chiosato -. Occorre aggiornare i metodi, non possiamo usare quelli di trent’anni fa. E soprattutto aprirsi al confronto”. Facendo leva, ad esempio, sulla musica. “Per provare a capire questi giovani e arginare l’emergenza educativa, può essere utile partire dai testi delle canzoni trap e rap che tanto ascoltano. La violenza dei testi non è giustificabile ma serve a poco censurarli, perché così non si annullano le logiche che li portano a imboccare percorsi deviati”. La figura dell’adulto ritorna, anche qui, in tutta la sua necessità. Soprattutto nei panni degli educatori, ormai sempre meno. Anche a causa di riconoscimenti economici scarni e poco equi, al netto delle difficoltà della professione. “Non servono solo persone preparate ma resilienti, capaci di umanità e in grado di crescere con i ragazzi, instaurando un rapporto che non sia solo normativo”. Un profilo che, per Don Burgio, può ritrovarsi anche in molti detenuti in semilibertà, a cui bisognerebbe aprire le porte del sistema educativo carcerario. Anche senza un titolo accademico e valorizzandone l’esperienza personale e umana. Il valore dell’educazione preventiva - Investire sugli spazi d’azione e sulle competenze di chi lavora a contatto con detenuti minorenni resta, sicuramente, una delle priorità con cui le istituzioni devono interfacciarsi. Ad esempio, pensando “a un piano europeo di risorse da utilizzare per formare il personale e potenziare l’impianto comunitario”, come suggerito da Giulio Gallera, presidente della commissione speciale Pnrr della Regione Lombardia. Eppure, l’educazione preventiva non va sottovalutata. “La rieducazione è complessa se, a monte, non c’è l’educazione ma è un percorso che può portare, oltre a un’integrazione sociale e una potenziale riduzione della recidiva, anche a migliorare il rapporto con la famiglia - ha concluso Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano -. Intervenire prima del reato è fondamentale, soprattutto nell’era degli illeciti virtuali, che spesso non sono percepiti in tutta la loro gravità”. Una strada da percorrere, secondo Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, “sensibilizzando i genitori a un controllo positivo”, non demandando alla scuola oneri che per natura non le competono ed evitando di entrare in un circolo vizioso di delega “che rischia, inevitabilmente, di trasformarsi, in deresponsabilizzazione”. Allarme suicidi, il sindacalista De Fazio a Nordio: “Vada lui all’estero e noi ci prendiamo un altro ministro” di Liana Milella La Repubblica, 3 luglio 2024 Il segretario generale della Uilpa ritiene del tutto inadeguate le misure del Guardasigilli sul carcere e insiste sulla “liberazione anticipata speciale” di Giachetti e Bernardini. Un suicidio al giorno nelle carceri. Che lei Gennarino De Fazio, segretario del sindacato Uilpa della Polizia penitenziaria, documenta drammaticamente ogni volta. Siamo a 48? “È un compito molto ingrato purtroppo. In realtà siamo già a 49 suicidi, senza considerare i casi dubbi”. Che vuol dire casi dubbi? “Ci sono delle morti di cui non viene definita con certezza la causa, per esempio quelle avvenute dopo aver inalato del gas in cella dalle bombolette da campeggio che viene a volte sniffato a scopo allucinogeno”. Siamo di fronte a un numero di suicidi che non ha precedenti a metà dell’anno... “È proprio così. Continuando con questo trend verrà abbattuto ogni record negativo sul drammatico fronte dei suicidi. Ma soprattutto, complessivamente, è la peggiore crisi del sistema penitenziario degli ultimi trent’anni”. Si suicidano anche gli agenti. Perché? “Purtroppo è proprio così. Sono già 5 gli appartenenti al corpo che si sono tolti la vita quest’anno. Le cause possono essere molte, ma noi siamo convinti che sia proprio la crisi gravissima del sistema penitenziario, in contesti di sofferenza atroce, con turni massacranti, ad incidere in modo determinante. Basti pensare che oggi, rispetto al fabbisogno reale, mancano 18mila unità”. Nordio ribadisce il suo no alla “liberazione anticipata speciale” proposta da Roberto Giachetti di Iv e Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino. Sta sbagliando? “Noi pensiamo proprio di sì. Anche perché non propone efficaci e credibili soluzioni alternative. Lui ipotizza un decreto legge, a fine luglio, che lei ha battezzato decreto Ghost. Perché? “Sembra proprio un decreto fantasma di cui si parla da tanto tempo, ma non sono noti i contenuti e il varo viene continuamente rinviato. Forse il Guardasigilli non si rende conto, né vuole prendere atto, della drammatica emergenza”. Nel frattempo però Nordio si propone quale autore di una rubrica su Churchill… “Di primo acchito mi verrebbe da dire che non resta che rimpiangere proprio Churchill. E poi visto che sempre lui ipotizza di rimandare nei Paesi d’origine i detenuti stranieri per scontare la pena gli proporrei uno scambio, vada lui all’estero e noi ci prendiamo un altro al suo posto”. Nordio parla delle cooperative esterne per i residui di pena e di rendere più rapida la liberazione affidandola al pm. Perché ha torto? “Se la situazione non fosse drammatica sarebbero comunque misure che mi fanno sorridere. Intanto se anche funzionassero i risultati si vedrebbero tra molto tempo. E ricordo che in carcere si muore alla media di 11 persone al mese. Sulle cooperative dovremmo saperne di più, ma il sospetto è che si tenda verso la privatizzazione di una parte dell’esecuzione penale. Quanto al ruolo del pm sulla liberazione sembra esautorare la magistratura di sorveglianza dalle proprie competenze, affidando così una parte della gestione del trattamento penitenziario alle procure quando basterebbe potenziare proprio i giudici di sorveglianza del tutto trascurati invece nel Pnrr”. Citando il suo ddl sull’abuso d’ufficio, il Guardasigilli e il suo sottosegretario leghista Ostellari “vendono” meno detenuti con l’interrogatorio del pm prima dell’arresto e il parere dei tre giudici sulla custodia cautelare. Misure effettive o fuffa? “Per ora sono ancora misure sulla carta. I cui effetti, anche in questo caso, si vedrebbero nella migliore delle ipotesi tra molto tempo anche perché i tre gip sono comunque previsti tra due anni”. Anche M5S dice no a portare da 45 a 60 i giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi, misura avversata dalla Lega e in parte anche da FdI. È un errore? “Lo è perché a oggi è l’unica misura deflattiva immediatamente attivabile, a fronte delle proposte del ministro che sono scarsamente attuabili, e che comunque richiederebbero tempo. L’ho detto con chiarezza quando sono stato ascoltato dalla commissione Giustizia della Camera. Inoltre la liberazione sarebbe un ulteriore incentivo per favorire l’adesione dei condannati ai programmi di trattamento, riducendo le tensioni penitenziarie. Il detenuto è spinto a comportarsi bene perché altrimenti perderebbe gli attuali 45 giorni o i futuri 60 giorni”. I “nemici” della liberazione sostengono che con questa misura uscirebbero anche mafiosi, terroristi e autori di reati gravi. Ipotizzando addirittura l’uscita di 23mila detenuti. È vero? “Secondo i nostri calcoli assolutamente no. Perché la misura già esiste, se ne amplia solo la portata. Non è uno sconto automatico, ma sottoposto al vaglio del giudice che deve verificare il comportamento del condannato. Oltretutto basterebbe escludere i reati gravi, come del resto è sempre avvenuto per l’indulto e per l’amnistia”. Nonostante lo sciopero della fame e della sete di Rita Bernardini e l’apertura di Forza Italia con Pietro Pittalis vede indifferenza sul problema? “Sì, molta. E dico anche che in buona parte è dovuta al fatto che il pessimo stato delle prigioni non è attribuibile solo all’esecutivo in carica, ma anche a tutte le maggioranze di governo che si sono succedute alla guida del Paese negli ultimi 25 anni. Li considero tutti responsabili”. Ddl Sicurezza, Fi non partecipa al voto sulle madri detenute di Francesco Curridori Il Giornale, 3 luglio 2024 Bocciato l’emendamento delle opposizioni che proponeva di eliminare l’obbligo di differimento della pena per le madri incinte. Non passa nemmeno l’inasprimento delle pene per la maternità surrogata chiesto dalla Lega: contrari FI e FdI. Non passa, con 21 voti contrari e 18 favorevoli, l’emendamento abrogativo delle opposizioni sulle madri detenute. In commissione Affari Costituzionali, durante il voto sul dl sicurezza, FdI e Lega hanno respinto l’emendamento del centrosinistra che si proponeva di eliminare l’obbligo di differimento della pena per le madri incinte. Resta, dunque, la norma che rende facoltativo il rinvio della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore a un anno e prevede che queste scontino la pena in un istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Una decisione non condivisa da Forza Italia che, per bocca del suo capogruppo in commissione, Paolo Emilio Russo, ha annunciato che non avrebbe partecipato al voto. “Comprendiamo le ragioni per cui la maggioranza ha inteso intervenire: anche noi siamo persuasi che sia necessario creare le condizioni per cui la gravidanza non venga utilizzata strumentalmente - e cinicamente - come espediente per evitare il carcere, per assicurare impunità a delinquenti abituali”, ha spiegato l’esponente azzurro. Russo ritiene che i neonati non debbano essere colpiti per gli errori delle madri e, una volta che il provvedimento approderà in Aula, chiederà che venga mantenuto “l’obbligo di differimento della pena o l’obbligo di scontarla in un istituto protetto per le madri con figli tra 0 e 12 mesi” così da evitare che i neonati crescano “dentro a un istituto carcerario non attrezzato per accoglierli”. Russo, inoltre, spiega: “Marchiamo dunque il nostro dissenso rispetto a una parte di questo singolo articolo senza rompere il vincolo (e la lealtà) di coalizione, astenendoci dal voto”. E, infine, chiarisce che gli emendamenti dell’opposizione non sono condivisibili “perché ripropongono soluzioni che evidentemente non hanno funzionato”. La bocciatura degli emendamenti soppressivi provoca la levata di scudi delle opposizioni. “Abbiano il coraggio di fermare questo assurdo provvedimento. Si tratta di una spaccatura gravissima, non si può far finta di nulla”, tuonano i capigruppo di Alleanza Verdi Sinistra in Commissione Affari costituzionali e Giustizia Filiberto Zaratti e Devis Dori. I due esponenti di Avs enfatizzano la non partecipazione al voto degli azzurri e attaccano la maggioranza che “si accanisce inutilmente contro donne e neonati in quelle condizioni”. Zaratti, nel corso della discussione, ha poi attaccato duramente la leghista Matone, rea di aver fatto “un intervento razzista” perché rivolto contro una specifica etnia, quella rom. “Confermo parola per parola il mio intervento, a un fenomeno specifico va dato una risposta specifica, e il mio intervento era a favore di donne e minori sfruttati e oppressi, piaccia o non piaccia. I processi a cui faccio riferimento sono processi per riduzione in schiavitù, sono altri che devono scusarsi, non io”, è la replica della leghista Simonetta Matone in commissione al termine della discussione sul Ddl Sicurezza. Molto duro anche l’intervento della renziana Maria Elena Boschi che accusa: “La prima presidente del consiglio donna vuole passare alla storia per aver previsto il carcere per donne incinta o con un figlio di meno di un anno. Una vergogna”. Le fa eco la democratica Michela Di Biase che attacca: “È gravissimo, siamo davanti ad una violazione dello stato di diritto. Per la prima volta nella storia della Repubblica viene scritta una legge contro un’etnia, con un chiaro obiettivo di bieca propaganda politica”. Nel corso della seduta, infine, FdI e Forza Italia, insieme alle opposizioni, hanno respinto l’emendamento della Lega che prevedeva fino a 10 anni di carcere e sanzioni fino a 2 milioni di euro per il “reato universale” di maternità surrogata. Carriere separate, ancora stallo sull’iter dei lavori di Simona Musco Il Dubbio, 3 luglio 2024 FdI e Lega vogliono che a lavorare sulla riforma siano le Commissioni riunite, ma il confronto con il presidente della Affari costituzionali Pagano è ancora aperto. “Riflessioni in corso”. I giochi sull’iter che seguirà la discussione sulla separazione delle carriere sono ancora aperti. Sul piatto due diverse opzioni: un’analisi congiunta delle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera o il lavoro di solo quest’ultima, con un turn over di deputati che arriveranno direttamente dalla Commissione Giustizia per dare il proprio contributo. Quest’ultima opzione è quella offerta da Nazario Pagano, l’azzurro presidente della Commissione Affari costituzionali, convinto che abbinando le due commissioni il rischio sarebbe quello di dilatare troppo i tempi, aumentando il numero dei votanti. Meglio, dunque, optare per sostituzioni ad hoc, mirate alla trattazione di uno specifico provvedimento, che ciascun gruppo può operare tra i propri deputati schierati nelle diverse commissioni. La soluzione, però, non convince tutti i partiti di maggioranza. A partire da quello della premier Giorgia Meloni, più propenso ad affrontare la questione unendo le forze. La Lega, dal canto suo, aveva già manifestato apertamente la propria preferenza per un ragionamento allargato alle due Commissioni, come chiarito dalla capogruppo Giustizia del Carroccio Ingrid Bisa. E il coro è ingrossato dall’energica voce di Enrico Costa, il più agguerrito nell’indicare come unica strada possibile quella delle Commissioni riunite. Anche perché la riforma della separazione delle carriere, che già era stata avviata con le proposte di matrice parlamentare, è tornata al punto di partenza solo per la decisione del governo di scriverla personalmente, annullando tutto il lavoro che era stato fatto dalle Commissioni. “Pagano è persona che stimo ed è giusto che tema i ritardi - aveva infatti commentato Costa -. Vogliamo parlare dei ritardi prodotti finora sul tema, con sole 14 sedute in 18 mesi dedicate alla separazione delle carriere? Si è interrotta la discussione sulle proposte in esame, perché il governo non voleva che si andasse avanti. Se ritardi ci sono stati si sono generati tutti quando la commissione Giustizia non toccava palla”. La questione sarà affrontata nel corso della riunione dell’Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi, che era stato convocato per ieri. Ma mentre scriviamo, sono ancora in corso i lavori sul ddl in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario, che hanno dilatato i tempi di discussione. La decisione è ancora tutta da prendere, dunque, mentre i rappresentanti dei partiti rimangono cauti nell’esternare apertamente la propria posizione. Work in progress, mentre all’ordine del giorno c’è anche da ragionare su come far convivere la trattazione di due provvedimenti bandiera di questo governo: oltre alla separazione delle carriere, infatti, la Commissione Affari costituzionali della Camera dovrà affrontare anche un altro ddl costituzionale, quello sul premierato. Secondo le previsioni, ci sarà una “staffetta” tra i due provvedimenti, con due settimane al mese dedicate a entrambi i ddl. Una formula, secondo il presidente Pagano, “adeguata per consentire a entrambe le riforme il necessario approfondimento e per portarle in Aula in tempi ragionevoli”. Il vero tasto dolente rimane, dunque, la separazione. “Non si riduca la questione ad un profilo personalistico”, aveva spiegato Costa al Dubbio, “il punto non è consentire ad uno o più deputati di andare in commissione, ma di fare in modo che la commissione Giustizia sia protagonista su un provvedimento che riguarda appunto il sistema giustizia”. Sebbene si tratti di una riforma costituzionale, infatti, il tema riguarda principalmente il mondo della giustizia. E saranno diversi gli esperti di tale settore - tra magistrati, docenti di diritto ed esponenti dell’Anm - che verranno ascoltati. “Il presidente Pagano propone la sostituzione? - aveva aggiunto Costa - Non risolve il tema, e oltretutto comporta delle conseguenze. Primo: significa che per inserire un membro della seconda commissione nella prima, quest’ultima deve fare a meno di un proprio commissario, che deve rinunciare. Secondo: se vengono convocate contemporaneamente entrambe le commissioni, Giustizia e Affari costituzionali, per quale si opta? Diventerebbe un gioco di incroci difficilissimo. E comunque l’aspetto più importante rimane un altro: non si vuole capire che questa è una materia che ha risvolti sia sul piano costituzionale che in materia di giustizia. Non si può tralasciare una commissione dalla valutazione del provvedimento. Inoltre non mi pare che altri provvedimenti, come decreti o disegni di legge sicurezza, siano stati rallentati dalla gestione congiunta delle commissioni. Se poi c’è una questione di primogenitura, allora ce lo si dica chiaramente. Però, torno a ripetere: la questione è di buon senso. La commissione Giustizia, con le sue attribuzioni, con il suo lavoro, non si può pretermettere: il tema non riguarda la composizione delle persone ma le attribuzioni e le funzioni della stessa. Da un lavoro di integrazione delle due verrebbe fuori un buon testo”. Il problema non si porrà al Senato, dove l’omologo di Pagano, Alberto Balboni, di Fratelli d’Italia, ha dato per scontato il lavoro delle due Commissioni riunite. Un ragionamento condiviso da quella che sarà l’altra presidente coinvolta, la leghista Giulia Bongiorno, alla guida della Commissione giustizia di Palazzo Madama. Test psicoattitudinali, le toghe non ci stanno: “Ce la vediamo noi” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 3 luglio 2024 La crociata dei magistrati contro le nuove previsioni sulle valutazioni: “I rimedi ci sono già”. I test psicoattitudinali per accedere in magistratura continuano ad essere in queste settimane oggetto di accesso dibattito fra le toghe. Il dlgs numero 44 del 28 marzo scorso ha stabilito che terminata la valutazione degli elaborati i candidati “sostengono i test psicoattitudinali individuati dal Csm nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria”. L’insufficienza nel colloquio psico attitudinale è motivata con la sola formula “non idoneo”. La nuova previsione, la cui entrata in vigore sarà a partire dal 2026, si propone lo scopo di verificare non le abilità cognitive dell’aspirante ma la precondizione dell’equilibrio. Tralasciano l’evidente sperequazione rispetto le magistrature speciali dove non sono stati previsti, l’asso nella manica di coloro che avversano i test rimane sempre, anche dopo quarant’anni, il richiamo alla Loggia P2 di Licio Gelli. Essendo contenuti, al pari della separazione delle carriere, nelle 13 pagine del Piano di rinascita democratica, chiunque li proponga è automaticamente “accusato” di voler asservire la magistratura al potere esecutivo. Un articolo apparso questa settimana su Questione Giustizia, a firma del giudice di Siena Simone Spina, a parte l’immancabile richiamo massonico, punta invece a smontare in radice l’utilità dei test, rispondendo indirettamente a coloro che, ad iniziare dal ministro Carlo Nordio, affermano che vengono fatti senza problemi dal personale delle Forze armate e dei Corpi di polizia. “Trattandosi di impieghi che implicano l’esercizio di compiti operativi connotati da un’intrinseca pericolosità per la salute e sicurezza individuale e collettiva (come o l’uso di armi ed esplosivi)”, scrive Spina, “l’idoneità psico-attitudinale contribuisce a garantire la salute e sicurezza così del lavoratore stesso come della collettività intera. Nulla di tutto ciò riguarda le qualità professionali che, in conformità ai principi costituzionali in materia di giurisdizione, devono informare l’ufficio di magistrato e che mai potranno essere accertate, vagliate o verificate tramite valutazioni psico-attitudinali”, sottolinea il magistrato, elencandole: “Rigore intellettuale e stile morale nella pratica giudiziaria, competenza tecnica e capacità di giudizio, equilibrio e senso di umanità, disposizione all’ascolto di tutte le opposte ragioni, impegno a non lasciarsi condizionare da finalità esterne ed estranee alla ricerca del vero, onestà intellettuale che deve precludere il preventivo interesse al raggiungimento di una determinata verità, indipendenza di giudizio, disinteresse personale per i concreti interessi presenti in una causa e assenza di preconcetti nell’esame e nella valutazione critica delle prove, nonché degli argomenti pertinenti alla qualificazione giuridica dei fatti ritenuti provati”. Queste ultime qualità non sono e non potranno essere oggetto di “accertamenti di tipo psico-attitudinale”, corrispondendo ad “un insieme di canoni deontologici e di etica professionale elaborati grazie al dibattito associativo interno alla magistratura e, tutti, nel complesso necessari affinché possa garantirsi quella specifica “sicurezza” fornita dallo Stato di diritto ed espressa dalla fiducia dei cittadini nella giustizia e nella magistratura”. Una tesi quaesta, comunque, quanto mai corporativa e facilmente attaccabile dalla lettura delle cronache. Tanto per fare un esempio, il pm che nasconde le prove che scagionano il suo imputato e chiede di mandarlo in prigione pur sapendolo innocente, nonostante ciò sia acclarato da una sentenza peraltro passata in giudicato, continua tranquillamente a fare il pm come se nulla fosse. Sul punto la togata Bernadette Nicotra, ex presidente della Commissione che al Csm si occupa della valutazione di professionalità, ricorda però che già esistono gli strumenti per accertare l’equilibrio del magistrato. Il primo step è rappresentato dal tirocinio, inizialmente di 18 mesi ora ridotto a 12, durante il quale si evidenzia la sussistenza delle doti di impegno, correttezza, equilibrio, indipendenza e imparzialità. E poi le valutazioni di professionalità con cadenza quadriennale e per 7 volte, a partire dall’ingresso in magistratura. “L’attuale sistema - ricorda Nicotra - è da sempre improntato ad una verifica costante e continua delle doti di equilibrio e correttezza del magistrato. I controlli e le verifiche circa la sussistenza dell’idoneità psico-attitudinale del magistrato già esistono e non si avverte la necessità di introdurne di nuovi come una prova di tipo psicologico, la cui affidabilità risulta dubbia”. Per la togata, “come in tutti gli ordini professionali anche nella magistratura ci sono figure inidonee al ruolo di grande responsabilità che ricoprono ma, a fronte di certe situazioni patologiche o di abuso nell’esercizio delle funzioni il rimedio non è il ricorso a esperti esaminatori”. La vera riforma, conclude Nicotra, deve essere “culturale” e tendere alla “costruzione di un modello di magistrato ancorato alla Costituzione che si distingue solo per funzioni che radica la sua autonomia e indipendenza da ogni altro potere soltanto nella soggezione alla legge”. È nella legge che il magistrato trova la sua legittimazione il quale non solo deve essere indipendente, imparziale e equilibrato ma anche “apparire tale”. In altre parole, il “magistrato deve sottrarsi alle spinte ideologiche e tutelare il valore supremo dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge”. Dei test, si può essere certi, si parlerà ancora a lungo. “La politica non sopporta il controllo della magistratura. Ma la nostra Costituzione non va cambiata” di Emilio Carelli L’Espresso, 3 luglio 2024 Separazione delle carriere, sorteggio per il Csm, controllo politico. Il presidente dell’Anm Santalucia boccia il disegno di legge costituzionale. E a Nordio dice: tiepido con i reati dei colletti bianchi. Presidente Giuseppe Santalucia, la sua contrarietà e quella dell’Associazione nazionale magistrati che lei guida alla separazione delle carriere non arriva adesso. Il no al disegno di legge costituzionale parte da lontano. Di questa opportunità si discute da anni ma la vostra opposizione è netta. Perché? “Intanto per una osservazione semplice: il nostro impianto costituzionale ha accompagnato la Repubblica dal ‘48 in poi e ha dato ottima prova di sé per quanto attiene all’assetto della giurisdizione e all’equilibrio con gli altri poteri dello Stato. Ricordo agli innovatori di oggi che grazie a questo impianto costituzionale la magistratura ha saputo svolgere in pieno il suo compito in momenti tragici nella storia della Repubblica, dall’emergenza terrorismo, alla mafia. E lo ha fatto con questo assetto, tenendo alto il livello della tutela delle garanzie individuali”. Lei ritiene che questa sia l’opinione anche della maggioranza dei magistrati giudicanti che pur vedrebbero potenziato il ruolo di garanti dei diritti del cittadino? “Siamo assolutamente compatti perché si tratta di un evidente abbassamento del livello di autonomia e indipendenza di tutto l’ordine giudiziario. La Costituzione oggi prevede un Consiglio superiore a prevalenza numerica dei cosiddetti togati; dentro l’Alta Corte disciplinare non sarà così! Con la riforma, il momento della verifica disciplinare vedrà i magistrati sia giudicanti sia inquirenti in minoranza”. Crede che l’attuale governo e l’attuale ministro della Giustizia siano in qualche modo mossi da una volontà di rivalsa nei confronti della magistratura. Che ci sia una volontà quasi punitiva? “Non riguarda solo la nostra classe politica. È un po’ una linea di tendenza che attraversa molte democrazie occidentali. Nella mia relazione al congresso di Palermo ho citato Israele ma anche Stati dell’Unione europea come la Polonia. C’è una certa insofferenza verso un controllo penetrante di legalità. Ed è questa la ragione per cui l’Unione europea sta tenendo molto alta l’attenzione e la vigilanza sulle riforme in tema di giustizia in molti Paesi”. Da tempo, in Italia, il rapporto tra magistratura e politica sembra perennemente conflittuale. Cosa determina questa distanza? “Da Mani pulite in poi il controllo di legalità senza ambiti di impunità per nessuno è stato vissuto come una invadenza del potere giudiziario nei confronti della politica. Ma non è tagliando le unghie ai giudici che la politica si riappropria del primato che le spetta. Qualcuno vorrebbe chiudere quella stagione immaginando di riportare i giudici nei loro confini. E questo è scritto nelle relazioni illustrative di alcuni disegni di legge costituzionali sulla separazione delle carriere, quelli di provenienza parlamentare. È un grossissimo equivoco che comporterà uno squilibrio tra i poteri dello Stato”. Lei ritiene possibile che la terzietà, che è caratteristica esclusiva del giudice e non del pm, possa davvero esistere all’interno di un sistema in cui giudici e pubblici ministeri condividono la stessa carriera, i medesimi organismi associativi e il medesimo concorso? Non sarebbe favorevole a un percorso di formazione comune all’esito del quale poi ciascuno decide qual è la sua professione? “Dal ‘97 in poi si è investito sulle scuole di specializzazione per le professioni legali e sono fallite non per colpa dei magistrati ma per una certa insipienza nella costruzione di quell’esperienza. Quanto alla terzietà dei giudici, se si intende perseguirla con la separazione delle carriere, perché nessuno ha mai pensato finora di sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale? Sarebbe come dire che fino a oggi abbiamo vissuto con giudici che non hanno una delle caratteristiche essenziali della giurisdizione ovvero la terzietà. Che si ha dentro il processo e non necessariamente costruendo due consigli superiori diversi e due concorsi separati diversi. Si tratta di un artificio retorico, quello che fa leva sulla terzietà dei giudici, per alterare un equilibrio che finora ha consentito al nostro Paese di avere un alto tasso di democrazia”. Pensa che il concorso per l’accesso in magistratura come è strutturato oggi sia ancora valido o che vadano modificati le modalità, i criteri di arruolamento? E se sì, in quali termini? “Il concorso è stato modificato più volte nel tempo e finora ha dato buona prova di sé perché ha consentito di mettere insieme il rigore selettivo che è fondamentale per l’assunzione dei magistrati e garanzie di anonimato della prova e quindi impossibilità di manipolazione dei risultati, e questo al di là di qualche piccolo incidente avvenuto nel passato, veramente residuale e comunque subito neutralizzato. Si può migliorare la prova, ma la legge Cartabia da ultimo è intervenuta proprio sulle prove scritte per definire meglio contenuto, struttura e finalità. Io credo che grandi modifiche sul concorso non se ne debbano fare. Assolutamente sbagliata l’ultimissima di inserire i test psicoattitudinali in quel momento”. I cittadini, secondo lei, hanno fiducia in chi li deve giudicare e nel sistema giustizia nel suo complesso? “Hanno fiducia nonostante le campagne denigratorie che sistematicamente vengono svolte. Da quando si è avuta notizia dell’inchiesta della Procura genovese sul governatore della Liguria leggo di pesanti accuse ai magistrati e di pm eversivi, toni e parole che turbano me, che sono del mestiere. Nonostante questa campagna denigratoria, credo che i cittadini sappiano formarsi idee e opinioni in maniera assolutamente coerente con i fatti”. Uno degli argomenti ricorrenti per il no alla separazione delle carriere è il rischio che il pm possa diventare dipendente dal potere esecutivo. Però il disegno di legge e i promotori lo escludono. Lei lo ritiene un pericolo reale? “Sui pubblici ministeri c’è questa forte preoccupazione. Nell’immediato, questa riforma accrescerà il potere dei pubblici ministeri perché nel loro Consiglio superiore della Magistratura avranno i due terzi di rappresentanza. Un paradosso che creerà un eccesso di autoreferenzialità nella gestione delle carriere e quindi uno squilibrio. Per porvi rimedio, l’unico modo che le democrazie occidentali conoscono è il controllo della politica sui pm e sull’azione penale”. La scelta dei componenti togati per sorteggio nei due Csm e nell’Alta Corte è davvero, secondo lei, l’elemento più ritorsivo nei confronti della magistratura? “Molti politologi ci vedono addirittura uno strumento di recupero della democrazia diretta ma il sorteggio viene proposto da una parte politica, l’attuale maggioranza, che è assolutamente avversa rispetto a tutti quei tentativi di recupero della democrazia diretta. Lo inserisce solo per i magistrati e per che cosa? Per deprimere la loro presenza all’interno del Consiglio superiore della Magistratura. Non c’è altra spiegazione perché all’interno di un organo assembleare dove i titoli di legittimazione devono essere uguali, si diversificano i modi di composizione: i politici saranno eletti e i magistrati sorteggiati”. Tuttavia, ai mali della giustizia bisognerebbe porre rimedio, in che modo secondo l’Anm? “Questa non è una riforma della giustizia, è una riforma della magistratura, una cosa totalmente diversa. Questa riforma si disinteressa totalmente del servizio e guarda al momento del potere, alla relazione con il potere esecutivo e il potere legislativo. Ci sarebbe molto bisogno invece, più che di riforme, di un ministro della Giustizia molto più attento alla gestione delle risorse. Ogni mese rappresentiamo le inadeguatezze dell’intervento ministeriale. Per esempio, all’istituzione del Tribunale della persona, dei minori e della famiglia mancano 120 giorni, nell’assoluta carenza di risorse e di strumenti di programmazione da parte del ministero. Il pericolo è un inceppamento della giustizia in uno dei terreni più fragili, quello della tutela dei diritti dei minori. Sul versante della telematizzazione dei processi scontiamo inadeguatezze storiche che non vengono assolutamente recuperate. E sono questi i temi con cui guardare alla giustizia in termini di servizio; ma c’è grande distrazione del ministro. Il legislatore di oggi sta costruendo un diritto penale più tenero nei confronti dei pubblici poteri e molto, molto più arcigno nei confronti di fasce deboli e marginali della società”. Lei è favorevole o contrario alla discrezionalità dell’azione penale? “Sono contrario per le ragioni espresse più volte dalla Corte costituzionale. Un’azione discrezionale introdurrebbe principi di diseguaglianza governati discrezionalmente dalla politica. L’azione penale può essere in mano ai pubblici ministeri fino a quando sarà obbligatoria. La ritengo una riforma sbagliata ma se la si vuol fare, che la si faccia chiaramente e si apra un dibattito su questo”. Le carceri scoppiano, è favorevole a un ampliamento della liberazione anticipata e dei provvedimenti di clemenza quali amnistia e indulto? “Il sovraffollamento è un dato emergenziale e qualche misura va adottata. Non abbiamo avuto l’ardire di suggerire uno o più interventi. Si possono fare alcune cose per ridurre il sovraffollamento senza introdurre surrettiziamente meccanismi di indulgenza. Una liberazione anticipata retroattiva, per esempio, ma si tratta di scelte della politica. Non credo, ma qui parlo a titolo personale, che in questo momento parlare di amnistia e indulto sia realistico. Però se la situazione delle carceri è quella che tutti sappiamo con 45 suicidi da inizio anno, io credo che anche su quel tipo di intervento bisognerebbe avviare una riflessione”. “Contro Nicoletta Dosio è accanimento”, gli attivisti scrivono a Mattarella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2024 Lettera aperta al capo dello Stato per il trattamento riservato all’attivista no Tav ai domiciliari: il giorno della morte di suo marito, gli agenti si sono presentati in casa per notificarle una diffida. Una coalizione di attivisti, intellettuali e organizzazioni della società civile ha inviato una lettera aperta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, esprimendo profonda preoccupazione per il trattamento riservato all’attivista ambientale Nicoletta Dosio. La missiva, firmata da numerose personalità e gruppi, tra cui la Rete di Madri antifasciste, denuncia quello che viene definito un “inaccettabile livello di accanimento” nei confronti di Dosio. Al centro della lettera c’è un episodio particolarmente controverso: il giorno stesso della morte del marito di Nicoletta Dosio, Silvano Giai, le forze dell’ordine si sarebbero presentate a casa dell’attivista, sottoposta agli arresti domiciliari, per notificarle una “diffida”. Questo atto, secondo i firmatari, sarebbe stato motivato da una presunta mancata risposta di Dosio a un controllo avvenuto alle 2 di notte alcuni giorni prima. La lettera descrive in dettaglio come, in un momento di profondo lutto personale, Dosio si sia trovata a dover affrontare quella che viene percepita come un’intrusione ingiustificata. I firmatari riportano che l’attivista avrebbe chiesto rispetto per la sua privacy, considerando le circostanze, e si sarebbe rifiutata di firmare la notifica, ritenendola immotivata. La coalizione esprime particolare sdegno per il fatto che questo episodio sia avvenuto in un contesto già di per sé drammatico: Dosio era stata posta agli arresti domiciliari il 27 maggio, privando così lei e la sua comunità della possibilità di un ultimo saluto al marito malato terminale. La lettera solleva anche questioni pratiche riguardo alla gestione degli arresti domiciliari di Dosio. I firmatari si chiedono come l’attivista possa continuare a rispettare le restrizioni imposte senza poter contare sull’aiuto di altre persone, soprattutto ora che il marito, che necessitava di cure, è venuto a mancare. I sostenitori di Dosio vedono in questa situazione un esempio di quello che definiscono “accanimento giudiziario sproporzionato”. Sottolineano che l’unico “reato” dell’attivista è stato il suo convinto dissenso contro il progetto dell’Alta velocità in Val Susa, una battaglia che, affermano, è stata portata avanti senza arrecare danni a persone. La lettera ricorda anche le motivazioni ambientali alla base dell’attivismo di Dosio. I firmatari citano l’inquinamento di acqua, terra e aria causato dai cantieri del Tav, inclusa la recente scoperta di alte concentrazioni di Pfas (sostanze chimiche altamente inquinanti) nei comuni della Val Susa. Questo contesto, affermano, rende ancora più urgente la necessità di porre fine a quello che definiscono “accanimento giudiziario” non solo nei confronti di Dosio, ma di tutti gli attivisti ambientali. Tra i firmatari della lettera figurano nomi noti dell’attivismo, della cultura e dell’accademia italiana. Si annoverano, tra gli altri, il fumettista Zerocalcare, padre Alex Zanotelli, ex professori universitari come Amedeo Cottino e Angelo Tartaglia, l’ex magistrato Livio Pepino, registi come Daniele Gaglianone e numerosi giornalisti e scrittori. La lista dei firmatari include anche diverse organizzazioni e comitati, tra cui il Centro studi Sereno Regis di Torino, l’Osservatorio repressione, il Comitato Piazza Carlo Giuliani Odv e diverse sezioni dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). La lettera si conclude con un appello diretto al Presidente Mattarella, ricordando la sua nota sensibilità e attenzione per i diritti umani fondamentali. I firmatari esprimono fiducia nell’ascolto del Presidente, sperando in un suo intervento sulla questione. Questa lettera aperta rappresenta un importante momento di mobilitazione della società civile italiana su temi che intrecciano diritti civili, attivismo ambientale e sistema giudiziario. La vicenda di Nicoletta Dosio viene presentata non solo come un caso individuale, ma come emblematica di questioni più ampie riguardanti il diritto al dissenso e la protezione dell’ambiente in Italia. Omicidio stradale, la revoca della patente va motivata per pericolosità del responsabile di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2024 Al di là delle ipotesi aggravate di guida in stato di ebbrezza o sotto influenza di droghe la sanzione accessoria più grave della sospensione non si applica automaticamente, ma è scelta affidata al giudice. Il giudice che condanna l’imputato per omicidio stradale non aggravato non è tenuto ad applicare automaticamente la revoca della patente di guida. E se l’applica deve fornire adeguata motivazione sul perché ritiene che l’imputato costituisca un pericolo “anche futuro” per la sicurezza della circolazione stradale. Infatti, chi commette uno dei reati stradali contemplati dall’articolo 222 del Codice della strada, ma non ulteriormente aggravati dall’assunzione di alcol o droghe, può soggiacere alla sanzione amministrativa accessoria tanto della sospensione quanto della revoca della patente di guida. La scelta si fonda su un accertamento di fatto e su un giudizio prognostico affidato al decidente. L’esistenza dell’opzione tra una o l’altra sanzione amministrativa è stata affermata dalla Corte costituzionale che ha ritenuto legittimo l’automatismo della revoca solo nei casi in cui il reato stradale sia stato commesso in stato di ebbrezza in base ad alti parametri di alcol assunto o sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 25780/2024 - ha perciò accolto il ricorso dell’automobilista condannato per omicidio stradale dove contestava la statuizione della revoca della patente in quanto non motivata. Infatti, trattandosi di ipotesi non aggravata dalle due condizioni di alterazione psicofisica suesposte, la scelta di applicazione della sanzione amministrativa più grave è frutto di valutazione del giudice affidata alla sua discrezionalità che, in quanto tale, va riportata in sentenza al fine di conoscere i motivi che hanno condotto alla scelta operata. Nel caso concreto era stata riconosciuta esistente anche la colpa concorrente della vittima e ciò aveva portato a stabilire una pena ridotta. Il che rende ancor più stringente il dovere del giudice di motivare sulla sussistenza del presupposto della pericolosità anche futura che il condannato potrebbe esprimere nell’ambito della circolazione stradale, al fine di dare legittima giustificazione alla sua statuizione di revoca della patente. Guida senza patente depenalizzata per chi ha una misura di prevenzione (non collegata) di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2024 Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 116 depositata ieri, con riguardo all’ipotesi in cui la sospensione o revoca dell’abilitazione non sia conseguenza della misura stessa ma sia frutto di una violazione del codice della strada. Dopo la depenalizzazione della guida senza patente, viola il principio di offensività la perdurante integrazione del reato unicamente per chi si metta al volante senza abilitazione mentre è sottoposto ad una misura di prevenzione, se la patente gli è stata tolta per una violazione del codice della strada e dunque non ha alcuna attinenza con la misura personale. La Corte costituzionale (sentenza n. 116 depositata ieri) ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 73 cod. antimafia nella parte in cui prevede come reato la condotta di colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, ma senza che per tale ragione gli sia stata revocata la patente di guida, si ponga alla guida di un veicolo dopo che il titolo abilitativo gli sia stato revocato o sospeso a causa di precedenti violazioni di disposizioni del codice della strada. Da oggi dunque anche la persona sottoposta a misura di prevenzione, al pari di ogni altra, qualora si metta alla guida senza la patente, perché revocata o sospesa per precedenti violazioni del codice della strada, ne risponde come illecito amministrativo e non più come reato col conseguente concreto rischio di finire in carcere (arresto da sei mesi a tre anni). La questione è stata sollevata dal Tribunale di Nuoro nell’ambito di un giudizio instaurato nei confronti di una persona destinataria, in via definitiva, dalla misura di prevenzione dell’avviso orale semplice (articolo 3, comma 4, cod. antimafia) imputata del reato di cui all’articolo 73 cod. antimafia, per aver guidato una autovettura senza patente, in quanto in precedenza, sospesa con provvedimento prefettizio per guida in stato di ebbrezza. Ricordiamo che soltanto due anni fa la Corte costituzionale aveva già scrutinato il medesimo articolo del codice antimafia giudicando però la questione non fondata perché diversa era la fattispecie. In particolare, la sentenza n. 211 del 2022 ha affermato che non è riconducibile a una responsabilità “per il modo di essere dell’autore” l’incriminazione, prevista dall’articolo 73 cod. antimafia, della condotta di guida in mancanza del titolo abilitativo, allorquando il prevenuto non abbia la patente per non averla mai richiesta o, pur avendola richiesta, gli sia stata negata, oppure gli sia stata revocata in ragione della applicazione della misura di prevenzione. Si tratta cioè di una ipotesi in cui la mancanza del titolo abilitativo è conseguenza - in via generale e automatica (articolo 120, comma 1, cod. strada) oppure per effetto della valutazione prefettizia del caso concreto (articolo 120, comma 2, cod. strada) - della applicazione di misure di prevenzione, cui il legislatore, per finalità di tutela dell’ordine pubblico, riconnette limitazioni al conseguimento della patente di guida. Tornando al caso concreto, la Consulta ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione dell’articolo 25 Cost., affermando che la disposizione censurata, incriminando colui che, sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, guidi senza patente in quanto revocata o sospesa, anche nei casi in cui la revoca o la sospensione del titolo abilitativo alla guida conseguano non già all’applicazione della misura di prevenzione, ma alla precedente violazione di disposizioni del codice della strada (nel caso di specie, di quella sui limiti di tasso alcolemico del conducente), non è compatibile con il principio di offensività dopo che, in generale, il reato di guida senza patente, o con patente sospesa o revocata, è stato depenalizzato e trasformato in illecito amministrativo . La Corte ha sottolineato che la previsione di una fattispecie penale che abbia, come presupposto, una qualità della persona che non si riflette su una maggiore pericolosità o dannosità condotta, dà luogo ad una inammissibile responsabilità penale cosiddetta d’autore. Nella sentenza si è altresì evidenziato che alcuna giustificazione, anche sotto il profilo del principio di uguaglianza, può ascriversi a un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello stabilito dal legislatore per tutti gli altri soggetti, per i quali la medesima condotta rileva non già come reato, ma quale illecito amministrativo (salvo il caso della recidiva nel biennio). In conclusione, per effetto della riduzione dell’ambito applicativo della fattispecie penale, conseguente alla dichiarazione di illegittimità, si riespande quella prevista dal codice della strada (articolo 116, comma 15) per la guida senza patente, o con patente sospesa o revocata con conseguente applicazione dell’ordinaria sanzione amministrativa. La Consulta ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 73 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede come reato la condotta di colui che - sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, ma senza che per tale ragione gli sia stata revocata la patente di guida - si ponga alla guida di un veicolo dopo che il titolo abilitativo gli sia stato revocato o sospeso a causa di precedenti violazioni di disposizioni del codice della strada. Veneto. Detenzione fuori dalle carceri. Gli assistenti sociali: “Manca il personale che li segua” di Endrius Salvalaggio quotidianosanita.it, 3 luglio 2024 L’esecuzione penale esterna è in crescita. In Veneto rappresenta tre volte il numero delle persone detenute (rispettivamente 9.029 e 2.617 al 30 aprile 2024). Questo comporta meno recidiva e costi più bassi, ma un maggiore impiego della figura dell’assistente sociale. Zambello (Ordine assistenti sociali Veneto): “Il lavoro degli assistenti sociali in Veneto è aumentato in modo esponenziale, ma non il numero di assistenti sociali impiegati. È ora di rafforzare il servizio sociale”. Aumentano le pene detentive in forma alternativa fuori dalle carceri con il conseguente maggiore impiego della figura dell’assistente sociale. In Veneto, ultimo dato disponibile 30 aprile 2024, i condannati ammessi a regimi esterni al carcere risultano essere il triplo di quelli detenuti. Un risultato importante, dal momento che l’esecuzione penale esterna produce minore recidiva e taglia i costi per la collettività. “Queste misure, applicate sulla base di progetti individualizzati con programmi di recupero e inserimento sociale, sono predisposte, sostenute e monitorate dagli assistenti sociali - spiega Mirella Zambello, presidente dell’Ordine degli assistenti sociali del Veneto - e sono da anni in notevole crescita, in particolare nell’ambito penale adulto. La riforma Cartabia dell’ottobre 2022 ha rafforzato e modificato delle misure sostitutive delle pene brevi. Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento giustizia minorile e di comunità forniti, in Italia, al 30 aprile 2024, erano 138.627 persone in carico agli Uffici esecuzione penale esterna per gli adulti, di cui 27.517 in messa alla prova e 29.648 in affidamento in prova al servizio sociale e, in Veneto, la situazione è anche migliore. Al 30 aprile 2024 i soggetti in carico agli Uffici per l’esecuzione penale esterna erano 9.029, mentre quelli in carcere, al 31 marzo 2024, erano 2617”. Per quanto riguarda l’Ufficio di servizio sociale per i minorenni, secondo i dati pubblicati dal Dipartimento giustizia minorile e di comunità, al 15 maggio 2024, i minori e i maggiorenni con reati commessi in minore età in carico a questo Ufficio erano 14.308, di cui con messa alla prova 2998, a fronte di 554 minorenni detenuti nella stessa data. Un numero in forte aumento - riportano i dati forniti - rispetto alla fine del 2022, quando erano 381. La crescita è dovuta da diversi fattori, ma molto si deve all’aumento delle misure di custodia cautelare per effetto del cosiddetto decreto legge Caivano del settembre 2023. In Veneto, i minori e i maggiorenni con reati commessi in minore età in carico all’Ufficio servizio sociale per i minorenni di Venezia fino al 15 maggio erano 675 mentre quelli in carcere presso l’Istituto penale minorile di Treviso, riservato ai soli maschi, erano 17. È la stessa Mirella Zambello a chiedere alle istituzioni venete che vengano potenziati il numero delle figure degli assistenti sociali: “Sono professionisti sempre più utilizzati mentre il numero assoluto scarseggia. È arrivata l’ora di rafforzare il servizio sociale”. Livorno. Detenuto tenta il suicidio, è in coma. Il Garante: “Alle Sughere manca la dignità” di Stefano Taglione Il Tirreno, 3 luglio 2024 Il trentacinquenne è ricoverato in rianimazione in gravissime condizioni (ieri sera è stata dichiarata la morte cerebrale). Il Garante Marco Solimano: “Le condizioni del carcere amplificano ogni problema”. Ha tentato il suicidio in cella e sarebbe riuscito nel suo intento se non fosse stato scoperto e salvato dagli agenti della polizia penitenziaria. Tragedia nella notte fra lunedì primo e martedì 2 luglio alle Sughere, con un trentacinquenne livornese detenuto da un mese in regime di custodia cautelare ricoverato in gravissime condizioni in rianimazione. Un dramma, l’ennesimo, che interessa le carceri italiane. Dove le persone che si sono tolte la vita, “dall’inizio dell’anno sono state ben 49, un numero altissimo rispetto al totale della popolazione privata della libertà, il 20% in più rispetto alla media nazionale dei suicidi”, spiega il garante comunale dei detenuti, Marco Solimano, che appena ha ricevuto la notizia di quanto accaduto si è recato nel penitenziario di via delle Macchie. “Ho sempre pensato - le sue parole - che il progetto suicidario sia personale e misterioso, ma ci sono condizioni che possiamo definire concause quali sicuramente un carcere affollato, in cui il rispetto, il decoro e la dignità delle persone vengono messe in discussione da luoghi che definire indecenti, come quelli delle Sughere, è dire poco. Poi c’è il sovraffollamento. In questo scenario tutto si amplifica e assume le dimensioni di un dramma”. Solimano spiega come “una persona, ogni due giorni e mezzo - prosegue - si toglie la vita nelle carceri italiane nell’indifferenza dell’opinione pubblica e della politica. Non leggo umanità o riflessioni su queste vite spezzate mentre sono affidate allo Stato. Io penso che vadano immediatamente messi in atto una serie di provvedimenti legislativi che abbiano un effetto di decongestionamento dei penitenziari, bisogna ricreare le condizioni per orizzonti nuovi e diversi, non bisogna perdere la speranza e dare strumenti alle persone più fragili. Così non si può andare avanti, è una situazione intollerabile. La vivo come un dolore personale: non ci si può abituare al fatto che un uomo solo, immerso e circondato da solitudine, si tolga la vita, è una cosa ripugnante”. Criticità che con l’arrivo dell’estate, secondo Solimano, peggioreranno. Sia perché ci saranno meno agenti penitenziari al lavoro, per via delle ferie stagionali, sia perché “vengono sospese tutte le attività esterne per la rieducazione”. “Serve aumentare gli spazi, incrementare i luoghi di vivibilità e la partecipazione a percorsi per la rieducazione - continua - ora abbiamo di fronte uno dei periodi più delicati: in virtù delle ferie del personale si bloccano tutte le attività, qualcosa di non gestibile, è una criticità patologica quella dei penitenziari del nostro Paese”. Anche a Livorno, come in tutta Italia, c’è stata la protesta degli avvocati sulle probitive condizioni di vita dei detenuti, con la maratona oratoria nei giorni scorsi in piazza Grande e lo sciopero dei penalisti annunciato per i prossimi giorni anche nel nostro tribunale. “Non dobbiamo sottovalutare - conclude Solimano - tutti gli episodi di autolesionismo in cella che non vengono nemmeno registrati. È frutto di un grave malessere: fra le mura dei penitenziari c’è una situazione di totale inciviltà, sulla quale bisogna intervenire al più presto perché le persone che vengono private della libertà hanno gli stessi diritti di tutte le altre”. Firenze. I detenuti scrivono alla procura: “Cimici e insetti nelle celle, non possiamo fare la doccia” di Stefano Brogioni La Nazione, 3 luglio 2024 L’esposto di cinquanta “definitivi” dell’ottava sezione del carcere di Sollicciano dopo le proteste per la mancanza dell’acqua: “Disinfestazioni tardive e inefficaci, salute a rischio”. Un esposto alla procura dai contenuti choc, firmato da una cinquantina di detenuti, per denunciare le condizioni del carcere di Sollicciano. Dalle cimici che infestano le celle fino al cronico problema della mancanza di acqua: dopo le tensioni dello scorso fine settimana, i ‘definitivi’ dell’ottava sezione pretendono che si sappia come vivono là dentro. E chiedono alla direzione del carcere la restituzione delle quote di mantenimento. Al primo punto della lettera dei detenuti, ci sono cimici e insetti. Presenti, secondo i ristretti, a causa della “situazione di deterioramento delle strutture e l’accumulo di rifiuti”. “La denuncia presso le strutture sanitarie fa in modo di attivare il protocollo di disinfestazione, che avviene dopo oltre due mesi - si legge -. Nel frattempo il detenuto convive con insetti che si nutrono del suo sangue, arrivando spesso a non poter dormire”. E anche quando la disinfestazione viene effettuata “è eseguita in modo precario e poco efficace”, perché, dicono i detenuti, viene fatta senza spostare i mobili e senza riverniciare gli ambienti: “dopo alcune settimane gli insetti sono nuovamente presenti”. “Nessuna prevenzione e tanto meno nessuna cura per alleviare il prurito e curare i pinzi sul corpo”, si legge ancora nella lettera-esposto. “Tali insetti si cibano di sangue umano, per tale motivo potrebbero essere veicolo di trasmissione di malattie infettive tra detenuti. Per questo motivo il carcere effettua vaccini (quasi obbligatori) per tubercolosi ed epatite, malattie quasi inesistenti all’esterno della struttura”. La questione acqua. La situazione più critica è proprio nell’ottava sezione, “la più distante dalle vasche di deposito dell’acqua e quella più in alto”. In ragione dell’ubicazione della sezione, negli orari di maggior uso, i rubinetti restano asciutti. “Per questo non possiamo fare docce, pulire gli ambienti, garantire l’igiene dentro le celle”. Le docce “sono in condizioni inaccettabili, piene di muffa, incrostazioni e servizi malfunzionanti” e la tubatura “è vecchia e marcia”, “le perdite sono all’ordine del giorno, nei giorni di pioggia in alcune celle piove, le muffe sono sempre più presenti e anche loro veicolo di trasmissione di malattie”. I ristretti scrivono anche che “il vitto è scarso e di qualità infima”, che l’assistenza sanitaria “è insufficiente, non prende mai in carico problemi fisici reali, spesso anche gravi, si cura tutto con brufen e tachipirina e si abusa di ansiolitici, sonniferi e tutti i farmaci atti a calmare l’umore del carcerato”. Infine, l’ascensore: “Non funziona ormai da tempi immemori. Vitto, spesa e qualsiasi materiali vengono portati per quattro piani”. Se il grado di civiltà di una Nazione si misura dalle condizioni delle proprie carceri, come recita una frase troppo ripetuta e poco praticata, da queste parti stiamo tornando ai tempi di Voltaire. Salerno. Detenuto morto in carcere nel 2017: “Medici di guardia non colpevoli” di Viviana De Vita Il Mattino, 3 luglio 2024 Secondo la procura di Salerno non c’è attinenza tra la morte dell’uomo e il mancato ricovero in ospedale. Nessun responsabile per la morte di Alessandro Landi, il 36enne salernitano deceduto tra il Natale e il Santo Stefano del 2017 nel penitenziario cittadino. Questa, almeno, la tesi del pubblico ministero che, ieri, all’esito del processo di primo grado davanti al giudice Diograzia, ha chiesto l’assoluzione per i due medici di guardia del carcere Gaia Busato, 33 anni di Battipaglia e Nicola Campitiello 33 anni di Pagani che, assistiti dagli avvocati Tullio Toriello e Alfonso Maiese, rispondono di omicidio colposo per non aver disposto il ricovero in ospedale del giovane benzinaio di Matierno “pur in presenza - scrisse il pm nell’avviso di conclusione delle indagini - di una sintomatologia anche pregressa, quale dolore toracico intenso e persistente e costrizione mandibolare, indicativa di una possibile cardiopatia”. A parere della Procura non è dimostrabile che un tempestivo ricovero ospedaliero avrebbe potuto evitare il decesso del detenuto. Roma. Penalisti in piazza con la cella di Cnf e Dubbio per dire basta ai suicidi Il Dubbio, 3 luglio 2024 A Roma l’iniziativa della Camera penale sull’emergenza carcere: giovedì la maratona oratoria con una cella aperta ai cittadini che vorranno sperimentare la detenzione. La maratona oratoria avviata dall’Unione delle Camere penali italiane giunge finalmente anche a Roma. Giovedì, dalle ore 18.00 alle ore 24.00, in via del Pigneto, fronte civico 24, i penalisti romani saranno presenti per ribadire “l’urgenza improcrastinabile di un intervento del governo per interrompere la tragedia dei suicidi nelle nostre carceri”. La scelta del luogo risponde all’esigenza di “sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema che ci è caro e che merita di essere adeguatamente affrontato e risolto”. Per l’occasione, verrà montata in piazza una cella a grandezza naturale per consentire - a chi vorrà - di provare sulla propria pelle l’esperienza claustrofobica del vivere in uno spazio asfittico e disadorno. “Saremo tra la gente e con la gente per denunciare l’intollerabile fenomeno dei suicidi in carcere e le inaccettabili condizioni dei detenuti - si legge in una nota diffusa dalla Camera penale -. Sarà un momento di parola e di condivisione, per raccogliere attorno alla comunità dei reclusi la sensibilità delle persone comuni. Apriremo le porte del carcere, un luogo spesso dimenticato all’interno del quale troppe vite vengono umiliate, consumate, vilipese, spente, senza alcun concreto approdo ad una speranza di riabilitazione”. Chi vorrà parlare avrà libertà comunicando a maratonaoratoriacpr@gmail.com l’orario preferito, così da poter predisporre una scaletta degli interventi. Questa iniziativa è stata realizzata ed è stata resa possibile grazie alla sensibilità del presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, “che ha gentilmente concesso l’utilizzo del simulacro di cella e dal prezioso contributo del quotidiano Il Dubbio, del Comune di Roma che ha concesso lo spazio pubblico utile alla manifestazione, da Radio Radicale che seguirà gli interventi e soprattutto dall’impegno dei soci e dei componenti del Consiglio direttivo”. Padova. Polo universitario in carcere: il sostegno economico della Fondazione Cariparo unipd.it, 3 luglio 2024 All’impegno dell’Università di Padova per la formazione dei detenuti grazie all’istituzione ormai ventennale del Polo universitario in carcere, si unisce il sostegno economico della Fondazione Cariparo che - come già avvenuto negli anni passati - stanzia un finanziamento di 45.000 euro a copertura delle spese relative al materiale per lo studio e altri eventuali supporti per chi avesse necessità. È nel dicembre 2003 che l’Università degli studi di Padova sottoscrive con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia un protocollo d’intesa volto a portare la formazione universitaria in ambito carcerario, promuovendo un’offerta formativa dedicata alle persone in regime di detenzione nell’intero territorio del Triveneto. Il progetto coinvolge tutti gli istituti di pena per adulti di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Per la sua collocazione territoriale, l’istituto penale “Due Palazzi” di Padova, unica casa di reclusione del Veneto, viene individuata e quindi eletta quale sede principale delle attività accademiche tenute in carcere. Nel 2013, il progetto, ormai già consolidato in ambiente locale, si arricchisce grazie alla sottoscrizione della Dichiarazione d’intenti che riconosce all’Università di Padova il ruolo di capofila nella condivisione di esperienze di formazione analoghe presenti in tutto il territorio nazionale. Dal 2003 al 2018 è stata coinvolta nell’iniziativa anche l’associazione Gruppo operatori carcerari volontari, che ha gestito alcune attività occupandosi, tra le altre cose, dei tutoraggi, dell’acquisto dei libri e delle strumentazioni informatiche. “Grazie al sostegno della Fondazione Cariparo possiamo accompagnare i nostri studenti garantendo loro il materiale necessario per tutto il percorso di studio - commenta la prof. Francesca Vianello, delegata dell’Università di Padova al Progetto Università in carcere -. L’attenzione del territorio al Progetto Università in carcere è un incentivo anche dal punto di vista sociale. Sapere che qualcuno all’esterno ti sostiene e crede in te responsabilizza e dà fiducia. Quest’anno sono circa 50 gli studenti in regime di detenzione iscritti a un corso di laurea, cui se ne aggiungono altri 5 in esecuzione penale esterna”. “Portare l’Università in carcere, permettendo ai detenuti di studiare e di laurearsi - afferma Gilberto Muraro, presidente della Fondazione Cariparo - significa offrire un’occasione preziosa di sviluppo umano, che dà loro l’opportunità di utilizzare in modo proficuo il proprio tempo, ponendo le basi per un percorso di integrazione al termine del periodo di detenzione. Sono queste le principali ragioni che portano la Fondazione a sostenere il Polo universitario in carcere, un intervento che risponde pienamente a una delle linee strategiche che orientano la nostra attività filantropica: l’inclusione sociale”. Droghe, la strategia per ridurre il danno di Vanessa Roghi La Repubblica, 3 luglio 2024 Il policonsumo è la modalità più diffusa tra gli adolescenti. I Serd perdono sempre più personale. Secondo la Destra il consumo di sostanze stupefacenti è sempre stato responsabilità della Sinistra. Quando nel 1970 iniziarono ad uscire i primi casi di “feste con droga” diversi quotidiani intrapresero campagne contro i “capelloni maoisti” più pericolosi, a loro dire, della criminalità organizzata. Dai festini all’insegna di slogan rivoluzionari, agli anarchici in sexyfumerie, il catalogo dei luoghi comuni sul tema sarebbe infinito. Purtroppo, però, non è un catalogo storico ma un modo di raccontare le cose che prospera ancora oggi. Lo dimostra, per ultimo, l’intervento del sottosegretario Alfredo Mantovano che, a margine della presentazione della Relazione annuale sulle tossicodipendenze, ha detto: “il cambio di passo ci sarà quando un po’ tutti riterremo di mettere da parte quei pregiudizi ideologici post-sessantottini secondo cui tutto sommato tutto si può fare”. Pregiudizi ideologici post-sessantottini. Perché non ci avevamo pensato prima? Come se non fossero cinquant’anni ormai che l’ideologia del sorvegliare e punire si è dimostrata ampiamente insufficiente. Ancora ragioniamo in termini di “droga” = educazione permissiva e war on drugs, che si continua a proporre come unico strumento per risolvere quella che si definisce una “pandemia di dipendenze”. Uno strumento che ha fallito ovunque sia nel combattere il narcotraffico che nel proteggere i soggetti più fragili. Per capire come il tema sia molto più complesso e non riducibile al binomio proibizione punizione è utile leggere il Libro bianco sulle droghe giunto alla sua quindicesima edizione e scaricabile gratuitamente. Quello che mette in rilievo è come l’unica conseguenza visibile di queste strategie, per molti aspetti bipartisan, sia stato negli anni l’aumento spaventoso delle persone che entrano in carcere o che dal carcere passano. La repressione dell’uso colpisce persone che usano cannabis (76%), seguono cocaina (16,7%) e eroina (3,7%) e le altre sostanze. Dal 1990 oltre un milione di persone sono state segnalate per uso di cannabis. Oltre un quarto dei detenuti, quasi il doppio della media UE (18%) è in carcere per droghe. E non stiamo parlando di Pablo Escobar. Una situazione che rischia di essere fortemente aggravata dal decreto Caivano. Guardiamo bene questi dati: il 38,1% di coloro che entrano in carcere risulta “tossicodipendente”, un dato che dopo i due anni di pandemia ha ripreso ad aumentare (+ 18,4% rispetto al 2021). Alzi la mano chi conosce qualcuno con problemi di dipendenza uscito dal carcere in forma. Anche l’aumento delle misure alternative al carcere in questa prospettiva rischia di vanificare il lavoro delle Comunità perché finisce per essere una punizione, spesso inefficace se parallelamente non si interviene, e non lo si fa mai, su quello che sta fuori. Cosa accade quando si torna a casa se la casa non c’è? Chi è malato, chi ha problemi psichiatrici, Hiv, chi in carcere prova a suicidarsi, entra e esce da strutture ospedaliere che fanno quello che possono per tamponare la carenza strutturale. Invece di parlare di Sessantotto, di genitori permissivi, bisognerebbe ragionare sul fatto che il narcotraffico è fiorente nonostante l’aumento delle operazioni antidroga, le sostanze illecite hanno costi sempre più bassi e quelle lecite, i farmaci, sono sempre più a portata di mano. Tra i giovanissimi, osserva un comunicato degli operatori dei Serd, “il policonsumo è ormai la modalità di assunzione più diffusa”. I Serd sono sempre più intasati e i Servizi di riduzione del danno sotto attacco. La riduzione del danno è un servizio essenziale di assistenza e non l’esito di una politica “rinunciataria” che ha fallito. Ma fallito in che senso? Prima le persone morivano per strada: la riduzione del danno, i servizi pubblici territoriali sono l’unico sistema per consentire alle persone di arrivarci vive. Sono lo strumento operativo di un principio costituzionale, il diritto alla salute, che riguarda tutti, anche i “drogati”. Nel 2023, i Serd hanno assistito in totale 132.200 persone con problemi di abuso di sostanze illegali. I nuovi utenti sono 17.243. Il numero degli operatori continua invece a scendere, arrivando a 6.082 dai 6.213 dell’anno precedente. Andate a vedere cosa accade oggi in quei paesi dove i servizi pubblici non esistono o vengono ridotti a erogatori di farmaci alternativi. Poi parliamone seriamente, per una volta, se è possibile. Il Governo e il suo loop tossico sulle droghe di Susanna Ronconi Il Manifesto, 3 luglio 2024 Nell’ordine: 2003. Il Consiglio dei Ministri della Ue, indica agli stati membri di adottare politiche di Riduzione del Danno (RdD). 2007. La Commissione europea conferma la RdD come approccio di salute pubblica e la include nelle Strategia comunitaria. 2017. Italia, la RdD entra nei LEA, Livelli Essenziali di Assistenza 2021. Strategia europea sulle droghe 2021-2025, Priorità n.7: Riduzione dei rischi e dei danni e altre misure per tutelare e sostenere le persone che usano droghe. 2023. Human Rights Council (HRC), “Si raccomanda agli Stati di includere e finanziare interventi di RdD e di sostenere le richieste e i servizi di RdD promossi dalle comunità”. 2024. Esperti Onu sui diritti umani, Raccomandazione: “L’Onu e gli stati membri devono passare dall’approccio punitivo alle politiche di RdD”. 2024. Special Rapporteur Onu sul diritto alla salute, “La RdD è determinante per la realizzazione del diritto alla salute. Gli stati devono assicurare che i servizi di RdD siano disponibili, accessibili, accettabili e di qualità”. 2024. Commission on Narcotic Drugs (CND) Risoluzione 67/4, l’Onu adotta formalmente la RdD come approccio strategico. L’Italia sottoscrive la Risoluzione. Questo - ma molto altro prima e ancora - è il mondo, questa è l’Europa. Questo invece è il governo italiano, con le parole del sottosegretario Mantovano nella Relazione annuale sulle droghe: “La denuncia del fallimento di politiche rinunciatarie, riassumibili nella formula della riduzione del danno”. Ciò che nel mondo è la prospettiva, promettente e necessaria, non solo per i servizi, ma più strategicamente per le politiche sulle droghe, qui è ‘rinunciataria’ e fallimentare. Il governo è dentro un impresentabile loop ideologico. Afferma senza evidenze un fallimento che non c’è, mentre al contrario c’è una responsabilità politica proprio del mancato sostegno alla RdD, al suo perenne boicottaggio, al fatto che si fa in una minoranza di città e regioni, con una copertura ridicola rispetto al fabbisogno. Lo dice la stessa Relazione, quando include i servizi di RdD chiamandoli ‘prevenzione’ (che RdD non si può nemmeno dire) e li segnala come “meno diffusi e con una copertura del bisogno espresso mediamente inferiore e variabile da regione a regione”. Non dice che laddove la si pratica la RdD funziona, come in tutto il mondo funziona. Non c’è evidenza, non c’è consesso scientifico o politico che tengano: il governo deve affermare che la sola via è quella dell’astinenza, il vecchio ‘mondo senza droghe’ superato dalla stessa Onu che l’aveva creato. Superato dagli stessi Usa, che dopo 300mila e più morti per overdose dovuti alla mancanza di politiche efficaci, hanno dovuto adottare razionalità e umanità. Adottare l’approccio e la pratica della RdD. Mantovano, quando ricorda “il richiamo a un’azione comune realmente efficace nelle più qualificate sedi internazionali, in primis l’Ufficio dell’Onu a Vienna”, dovrebbe ricordare… in primis a se stesso quella Risoluzione, siglata dall’Italia, che afferma la RdD come necessaria. E anche dovrebbe spiegare come potrebbe mai portare avanti il tanto sbandierato piano sul fentanyl - l’oppioide sintetico che a dire il vero in Italia ancora poco si è visto - “piano coordinato di intervento, già operativo e con primi significativi risultati (?)”, senza un robusto investimento nella RdD: senza drug checking per dire a chi usa se il fentanyl c’è, nelle loro dosi; senza distribuzione capillare di naloxone contro l’overdose; senza stanze del consumo dove usare in modo protetto; senza corsi di educazione all’uso sicuro; senza interventi di strada, di bassa soglia e nei contesti del divertimento. Forse con uno spot che dice “Il fentanyl fa male. Non usarlo. Garanzia di efficacia, altro che politiche rinunciatarie! Un miliardo buttato: l’assurdità dei Centri per migranti in Albania di Innocenzo Cipolletta Il Domani, 3 luglio 2024 Ora che è finita la campagna elettorale, sarebbe utile che qualcuno spieghi agli italiani a cosa serve costruire in Albania due Centri di detenzione degli immigrati, uno a Shengjin per l’identificazione e uno a Gjader per i rimpatri. L’idea di costruire questi due centri per trasportare e rinchiudere un migliaio di aspiranti rifugiati arrivati in Italia non reggerebbe a un’analisi costi-benefici, sia economici che politici. Spendere quasi un miliardo di euro per fare in Albania quello che dovremmo fare in Italia non sembra avere alcun senso per il nostro Paese, ma neppure per l’Albania. L’Italia ha già altri centri per l’identificazione e per la permanenza in attesa del rimpatrio, che sono in forte degrado e che sono insufficienti per gli arrivi di immigrati. Logica avrebbe voluto che fossero adeguati attraverso alcuni investimenti, e presumibilmente il costo sarebbe stato minore. Inoltre, questi investimenti sarebbero rimasti in Italia, sia con riferimento ai lavori di costruzione che con riferimento al possesso patrimoniale. Invece perderemo parte non trascurabile di tale spesa, a cui vanno aggiunte le spese per trasferimento di personale italiano in terra d’Albania. Tali spese saranno ben superiori a quelle che si sarebbero sostenute in patria. Infatti, il personale trasferito in Albania dovrà percepire una remunerazione superiore a quella che avrebbe avuto in Italia, a causa della residenza in terra straniera. Inoltre, il personale che non verrà trasferito ma che dovrà comunque raggiungere l’Albania per specifiche funzioni (magistrati, avvocati, eventuali testimoni e quant’altre persone saranno necessarie alle funzioni di identificazione ed eventuale rimpatrio) dovrà sostenere costi rilevanti che non potranno che ricadere sullo Stato italiano. Ne beneficeranno le linee di comunicazione tra Italia e Albania, nonché i molti gestori di servizi - trasporto, alberghi, ristorazione - che faranno da supporto a questo turismo giudiziario per immigrati. Non v’è dubbio, quindi, che i costi di questa iniziativa saranno esorbitanti se raffrontati a quelli che sarebbero stati se si fosse mantenuto in Italia la gestione dei pochi immigrati che saranno trasferiti in Albania: e anche il costo del trasferimento va tenuto in debito conto. Questo trasferimento di sovranità non riduce di nulla il fenomeno dell’immigrazione nel nostro paese. Benché parcheggiati in Albania, gli immigrati resteranno a tutti gli effetti immigrati in Italia. Se dovessero fuggire dai nuovi recinti, e se dovessero uscire dall’Albania per entrare in qualche altro paese europeo, verrebbero rispediti in Italia, paese di primo arrivo. Questo migliaio di immigrati costosi, dopo un certo numero di mesi, se non saranno accettati come rifugiati, dovranno essere riportati in Italia da qualche parte in attesa di un improbabile rimpatrio, con altri costi e senza alcun beneficio per il nostro Paese. Qualcuno si illude che gli immigrati possano essere scoraggiati dal rischio di essere collocati in Albania. E perché mai dovrebbero essere scoraggiati? Dopo aver sofferto le pene di viaggi lunghi, pericolosi e aver sopportato tante angherie, la prospettiva di arrivare in Albania in un centro di nuova costruzione non sembra un reale deterrente, dato che anche l’Albania è Europa e da lì si può cercare di andare altrove o comunque di essere ricollocati in Italia. Appare evidente a tutti che non c’è alcuna convenienza per il nostro paese nel fare questi centri in Albania. Ma anche per l’Albania non si vede quale sia la convenienza. Certamente l’Albania finirà per avere qualche costruzione gratuita e qualche milione di euro di guadagni per alcuni dei propri cittadini, ma il tutto sembra molto esiguo a fronte della cessione di sovranità territoriale derivante dall’affidare a un paese straniero un piccolo lembo del proprio territorio dove collocare persone non gradite all’Italia. Pensare male - Dal punto di vista di politica interna, di dignità del paese e di politica internazionale, l’Albania ha tutto da perdere a essere considerata territorio di scarico per soggetti indesiderati. Il presidente dell’Albania ha detto che la ragione sta nella generosità del paese in segno di amicizia nei confronti del nostro paese. Sarà sicuramente così. Ma certo questo non potrà impedire a qualcuno di pensare male, dato che, come ebbe a dire Giulio Andreotti, a pensare male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca. Si poteva fare diversamente? Sicuramente. Innanzi tutto, si potevano migliorare e potenziare i centri in Italia, se proprio si voleva insistere nell’idea di rinchiudere gli immigrati irregolari. Ma più proficuamente si sarebbe potuto investire questo miliardo di euro in accoglienza: istruzione, professionalità e abitazioni. Inserire nella nostra società un numero crescente di immigrati dando loro la possibilità di un lavoro e di un’abitazione aumenta la capacità di crescita del paese e riduce il grado di insicurezza dei cittadini che vedono nell’immigrato un lavoratore e non un clandestino che si deve arrangiare per sopravvivere. Rendere regolari gli irregolari è la strada per superare molti dei problemi dell’immigrazione, piuttosto che deportarli in un altro paese per poche settimane. Migranti. Davanti ai naufraghi gli Stati non hanno diritti, ma solo doveri di Gianfranco Schiavone L’Unità, 3 luglio 2024 Il tribunale di Roma ha condannato il comandante della nave Asso Ventinove e il governo italiano per il respingimento in Libia di un gruppo di naufraghi nel 2018. Un verdetto importante perché spiega che nell’area di ricerca e soccorso (Sar) gli Stati non hanno diritti, ma solo obblighi e responsabilità. La diciottesima sezione civile del Tribunale di Roma con sentenza del 26 giugno 2024 (causa condotta dagli avvocati Fachile, Saltalamacchia, Leo, Crescini, Cecchini, Guariso) ha condannato il comandante della nave Asso29, nonché il Governo italiano, per il respingimento verso la Libia di un gruppo di naufraghi avvenuto a inizio luglio 2018. Si tratta di una sentenza di particolare importanza per la chiarezza e precisione con cui il giudice Corrado Bile ricostruisce e interpreta il quadro del diritto internazionale pertinente. I naufraghi erano stati inizialmente soccorsi dalla motovedetta libica “Zwara”, in un’operazione di salvataggio attivata dalla nave della Marina Militare Italiana “Duilio” la quale aveva effettuato l’iniziale avvistamento del gommone in difficoltà, segnalando l’evento alle autorità libiche competenti in relazione all’area SAR (ricerca e soccorso) nel quale era avvenuto il naufragio. Successivamente al recupero dei migranti, anche la nave libica “Zwara” era però rimasta in avaria ed era stata soccorsa dalla nave “Asso29”, battente bandiera italiana la quale era stata a tal fine contattata dalla base di Tripoli della Marina Militare italiana. La Asso29 provvedeva ad effettuare l’operazione di recupero dei passeggeri a bordo della motovedetta libica nonché di traino della “Zwara” verso Tripoli dove giungeva il 2 luglio 2018. Un quadro fattuale dunque complesso dal quale emerge con evidenza il ruolo predominante delle autorità italiane nel coordinare le operazioni e nel determinare nella Libia e non nell’Italia il POS (place of safety - luogo sicuro) dove effettuare lo sbarco. In Libia i ricorrenti furono subito arrestati e condotti nei centri di detenzione libici dove furono sottoposti a inaudite violenze e trattamenti inumani e degradanti accertati in giudizio. E’ opinione tanto diffusa quanto infondata che nella propria area SAR lo Stato coinvolto eserciti una sorta di incondizionato diritto a decidere della sorte dei naufraghi. Come osserva invece con chiarezza il Tribunale civile di Roma “la specificità dell’ambiente marittimo non può precludere il rispetto dei diritti umani. Infatti, a differenza delle acque interne, del mare territoriale, della zona contigua, della zona economica esclusiva e della piattaforma continentale, la zona SAR non è una zona marina all’interno della quale lo Stato costiero di riferimento esercita la propria sovranità o la propria giurisdizione esclusiva. Dall’individuazione di tale area discendono per lo Stato solo obblighi e responsabilità e non anche l’esercizio di diritti”. Va richiamato in particolare quanto disposto nell’allegato alla Convenzione SAR del 27 aprile 1979 laddove prevede che “le Parti provvedono affinché vengano prese le disposizioni necessarie al fine di fornire alle persone in pericolo in mare al largo delle loro coste i servizi di ricerca e di salvataggio richiesti.” (2.1.1) e che “qualora esse vengano informate che una persona è in pericolo in mare, in una zona in cui una Parte assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le autorità responsabili di detta Parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile.” (2.1.9) Dove dunque deve concludersi il soccorso? Le “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare” adottate dal’IMO (International Maritime Organization) nel maggio 2004 hanno chiarito che per “luogo sicuro” in cui le operazioni di salvataggio possono dirsi concluse deve intendersi il luogo in cui la sicurezza dei sopravvissuti, ovvero la loro vita, non è più minacciata e i diritti fondamentali, tra cui quello di chiedere asilo, possono essere garantiti. Nell’esercizio del coordinamento delle attività di soccorso le autorità italiane erano vincolate tanto al rispetto del diritto internazionale in materia di ricerca e soccorso in mare quanto al pieno rispetto delle normative internazionali e dell’Unione Europea in materia di asilo, e pertanto al divieto assoluto di respingimento sancito sia dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (art. 33) che dalla Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo. Diritto applicabile anche in caso di azioni condotte in alto mare, cioè al di fuori dunque del territorio nel quale lo Stato esercita la propria sovranità in quanto, come sancito dalla Sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia del 23 febbraio 2012 della CEDU (Corte Europea per i Diritti dell’Uomo) le azioni degli Stati contraenti “compiute o produttive di effetti fuori del territorio di questi possono costituire esercizio da parte degli stessi della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione”. Né dunque la nave commerciale della S.p.A. Augusta Offshore, né le diverse amministrazioni centrali dello Stato coinvolte (la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della difesa, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti) avrebbero potuto, ognuno in relazione alle proprie responsabilità, porre in essere azioni di respingimento dei naufraghi verso la Libia e sono state dunque condannate in solido dal Tribunale civile di Roma al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore dei cittadini stranieri ingiustamente respinti in Libia. L’interpretazione ermeneutica fornita dal Tribunale di Roma relativamente all’interpretazione delle normative internazionali sul soccorso in mare e alla loro connessione con le fonti di diritto internazionale e di diritto dell’Unione Europea poste a protezione dei diritti fondamentali assume valore, e dunque applicazione, oltre al caso della Libia anche in tutte le situazioni nelle quali vi sono fondati motivi di ritenere che dei naufraghi siano condotti in un posto non sicuro dove sono esposti a violazioni gravissime dei loro diritti fondamentali. Se sulla situazione della Libia sono unanimi le valutazioni da parte di tutti gli studiosi, delle associazioni e delle agenzie internazionali, la situazione nella quale è rapidamente sprofondato un altro Paese dell’area, ovvero la Tunisia, risulta estremamente preoccupante. Già nell’importante Rapporto di Human Rights Watch (HRW) del luglio 2023 si evidenziava come “la polizia, l’esercito e la guardia nazionale tunisina, compresa la guardia costiera, hanno commesso gravi abusi contro i migranti dell’Africa nera, i rifugiati e i richiedenti asilo. Gli abusi documentati includono percosse, uso eccessivo della forza, alcuni casi di tortura, arresti e detenzioni arbitrarie, espulsioni collettive, azioni pericolose in mare, sgomberi forzati e furti di denaro e beni”. Pertanto, osservava l’organizzazione, “la Tunisia non è né un luogo sicuro per lo sbarco di cittadini di Paesi terzi intercettati o salvati in mare, né un Paese terzo sicuro per il trasferimento dei richiedenti asilo. (…) L’UE dovrebbe sospendere i finanziamenti per il controllo della migrazione alle forze di sicurezza e fissare dei parametri di riferimento sui diritti umani per un ulteriore sostegno”. Nel corso dell’ultimo anno la situazione è progressivamente peggiorata in Tunisia in conseguenza dello sfaldamento complessivo dello stato di diritto, e la violenza verso gli stranieri, specie se subsahariani, si è fatta sistematica. Tra i fatti più drammatici vanno segnalati quelli accaduti in seguito allo sgombero, avvenuto il 3 maggio 2024, di circa 500 migranti accampati davanti alle sedi di UNHCR e OIM a Tunisi; molti di essi sono stati condotti forzatamente in Algeria, mentre altri sono stati abbandonati vicino al confine con l’Algeria senza cibo né acqua, lontano da luoghi abitati. Alcuni rifugiati, con l’appoggio di ASGI hanno presentato un ricorso di urgenza al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite; il Comitato è intervenuto chiedendo alla Tunisia di fornire loro l’assistenza necessaria, compresa quella medica e di non procedere ad espulsioni finché il caso è all’esame del Comitato, nonché di prevenire qualsiasi minaccia, atto di violenza o rappresaglia a cui potrebbero essere esposti in seguito alla presentazione della richiesta al Comitato. Incurante della decisione del Comitato, i ricorrenti, compresi i minori, sono stati arrestati e detenuti per circa una settimana e processati per ingresso irregolare nel paese. Secondo ASGI alcuni di loro, al termine del processo, sono stati deportati in Algeria. Appena pochi giorni fa, il 19 giugno scorso, con una comunicazione inviata all’IMO la Tunisia ha ufficializzato la propria area SAR, altresì dai confini estremamente estesi. La strategia posta in essere dalla Tunisia con il supporto del Governo italiano in carica mi sembra quella di voler imporre nella realtà un significato della nozione di area SAR che nulla ha a che fare con il diritto internazionale: da obbligo dello Stato di creare un sistema efficiente di ricerca e soccorso, a rivendicazione dell’esistenza di una sorta di “diritto di cattura” dei naufraghi. Ogni intervento di soccorso diretto posto in essere da navi private, nonché ogni azione di coordinamento dei soccorsi attuato da parte delle autorità statali italiane (o maltesi) per essere conforme al diritto internazionale e dell’Unione Europea sulla tutela dei diritti fondamentali al cui rispetto gli Stati europei sono vincolati deve tenere conto della reale situazione di grave insicurezza e violenza verso gli stranieri in atto in Tunisia e che ne fa un luogo non sicuro per i naufraghi. Export di armi, così l’Italia rifornisce i Paesi in guerra in deroga alla legge di Futura d’Aprile Il Domani, 3 luglio 2024 La legge 185 del 1990 vieta l’export, l’import e il transito di materiale bellico verso Paesi in guerra o in cui ci sono gravi violazioni dei diritti umani. Eppure, il nostro paese è tra i primi esportatori in Qatar, Egitto, Kuwait, Turchia e Israele. A sostegno dell’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa, l’Italia sta per approvare il nono pacchetto di aiuti. Si tratta di donazioni, che derogano alla legge attraverso il passaggio dalle Camere, ma una relazione dice tutt’altro: Kiev ha acquistato armi da aziende nostrane per 417 milioni. Il governo Meloni, intanto, vuole modificare le norme. L’Italia è uno dei paesi europei che fin dal primo momento ha sostenuto militarmente l’Ucraina tramite l’invio di armi. Il governo guidato da Mario Draghi ha approvato i primi cinque pacchetti di aiuti, mentre quelli successivi hanno avuto il via libera dall’esecutivo di Giorgia Meloni. La quantità e il tipo di armi cedute dall’Italia all’Ucraina è tuttora sconosciuto: Draghi ha secretato il contenuto dei pacchetti per questioni di sicurezza e il governo attuale ha adottato le stesse restrizioni. Secondo indiscrezioni, però, sarebbero stati inviati dispositivi di protezione come elmetti e giubbotti, munizioni di vario calibro, sistemi anticarro e antiaerei, come gli Stinger, mortai, lanciarazzi Milan, mitragliatrici leggere e pesanti, mezzi Lince, artiglieria trainata e semoventi Pzh2000 e i missili. In collaborazione con la Francia, l’Italia ha anche inviato all’Ucraina una batteria Samp-T, un sistema di difesa anti-missilistico realizzato dal consorzio italo-francese Eurosam, di cui fanno parte Mbda e Thales. Da mesi si attende il nono pacchetto di aiuti, ma le elezioni europee ne hanno ritardato l’approvazione. Il contenuto sarà ancora una volta secretato, ma l’urgenza per Kiev resta quella di ottenere nuovi sistemi di difesa aerea per contrastare gli attacchi russi. Negli ultimi mesi, intanto, diversi paesi occidentali schieratisi al fianco dell’Ucraina hanno cambiato la propria posizione sull’impiego delle armi cedute a Kiev, acconsentendo al loro utilizzo anche per attacchi contro il territorio russo. Uno dei limiti imposti inizialmente prevedeva proprio l’impiego di materiale bellico ceduto solo per compiere operazioni contro le truppe e le infrastrutture militari russe presenti in Ucraina. Non tutti i paesi però hanno espresso il loro consenso: l’Italia è ancora contraria e ha anche ribadito di non voler inviare i propri soldati sul terreno di battaglia. Proposta quest’ultima più volte avanzata dalla Francia. La legge 185/90 - Ma come fa l’Italia a inviare armi a un paese in guerra? La legge 185/90 vieta l’export, l’import e il transito di materiale bellico verso paesi: in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite (diritto di autotutela di uno stato Onu in caso di aggressione); la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione; sottoposti a embargo totale o parziale da parte delle Nazioni Unite o dell’Unione europea; in cui ci sono gravi violazioni dei diritti umani, accertate però dalle Nazioni Unite, dall’Ue o dal Consiglio d’Europa. L’Ucraina dunque non potrebbe ricevere armi dall’Italia, ma l’articolo 6 della normativa stabilisce che l’invio di materiale bellico verso uno Stato in guerra è possibile dietro approvazione di entrambe le Camere. Un’approvazione che i governi succedutisi dal 2022 a oggi hanno sempre ottenuto, nonostante i malumori per la mancanza di trasparenza sul contenuto degli aiuti. Il decreto legge n. 14 del 2022 ha poi stabilito “le modalità di cessioni di armamenti e di equipaggiamenti militari da parte dell’Italia al governo ucraino” aggiungendo che “non ne prevede di diverse”. L’Italia quindi non potrebbe vendere armi all’Ucraina, ma la “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo delle esportazioni, importazioni e transito dei materiali di armamento” relativa al 2023 dice tutt’altro. L’Ucraina ha acquistato dalle aziende italiane armi per un valore di 417 milioni di euro, la maggior parte dei quali spesi in munizioni di vario calibro e sistemi di difesa. Kiev è balzata così al secondo posto tra i paesi importatori di materiale bellico italiano, superando nettamente i 3,8 milioni di acquisti dell’anno precedente. La notizia della vendita di armi all’Ucraina, data in anteprima da L’Espresso, ha spinto il deputato del Movimento 5 Stelle Marco Pellegrini a presentare un’interrogazione parlamentare al ministro della Difesa, Guido Crosetto, per capire su quali basi siano state concesse le autorizzazioni all’export. Il ministro ha risposto che Kiev sta esercitando il diritto all’autodifesa previsto dall’articolo 51 della Carta Onu, pertanto la fornitura di armi non è vietata dalla legge 185. Per Pellegrini, però, il Parlamento aveva perimetrato in maniera precisa la cessione delle armi, senza essersi mai espresso sulla loro vendita e senza nemmeno esserne stato informato. Inoltre viene da chiedersi a cosa sia servito ricorrere a una delega contenuta nella legge 185/90 per cedere in forma gratuita del materiale bellico quando la stessa norma - a detto di Crosetto - non vieta nemmeno la vendita di armi all’Ucraina. L’export - D’altronde l’esportazione verso paesi coinvolti in guerre o in cui si violano i diritti umani sono la norma in Italia. Nell’ultimo decennio le vendite verso governi autoritari e situati nell’area del Medio Oriente sono state quasi sempre superiori rispetto a quelle verso paesi dell’Unione europea o facenti parte della Nato. Come riportato nel report pubblicato nel 2024 dall’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Sipri), nel quinquennio 2019-2023 al primo posto tra gli importatori di armi italiane troviamo il Qatar (27 per cento), poi l’Egitto (21 per cento) e al terzo il Kuwait (13 per cento). L’Italia è anche il secondo esportatore in Turchia e il terzo in Israele. Il 71 per cento delle esportazioni italiane si è diretto quindi in Medioriente. Solo una volta l’Italia, con il governo Conte II, ha bloccato l’autorizzazione a nuove esportazioni di bombe prodotte dalla RWM verso gli Emirati e l’Arabia Saudita, dopo che un’inchiesta giornalistica aveva rivelato come queste armi venissero usate contro i civili in Yemen. Il divieto, imposto nel 2019, è stato revocato nel 2023 dal governo Meloni. Sempre secondo il Sipri, nello stesso periodo di tempo Roma si è piazzata al sesto posto al mondo come esportatore di sistemi di armamento, dopo Stati Uniti, Francia e Russia, con un aumento dell’export dell’86 per cento nel solo 2023. Le modifiche alla legge - Nonostante i limiti imposti dalla legge siano alla fine dei conti ben pochi, il governo Meloni sta portando avanti da inizio anno un processo di modifica della 185/90. Secondo il testo già approvato dal Senato, l’Ufficio tecnico che rilascia le autorizzazioni all’export sarà sostituito dal Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa, presieduto dal presidente del Consiglio e composto dai ministri degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dell’Interno, della Difesa, dell’Economia e delle Finanze e del Made in Italy. In questo modo le decisioni avranno un carattere prettamente politico. Inoltre, verranno ulteriormente limitate le informazioni contenute nella relazione inviata ogni anno alle Camere e utilizzata anche dalla società civile per controllare l’operato del governo, mentre viene abrogato l’obbligo di riferire in Parlamento sule attività degli istituti di credito coinvolte nelle operazioni di export e import di armi. Quella discesa agli inferi dei soldati ucraini e russi. Ecco il report dell’orrore di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 3 luglio 2024 Una “discesa nell’inferno”. Con questa espressione il giornale francese Le Monde ha descritto in un reportage pubblicato due giorni fa l’esperienza dei soldati ucraini detenuti in Russia. Una “discesa nell’inferno” per ritornare alla vita che ha riguardato 165 militari di Kyiv liberati tra maggio e la fine di giugno. Non solo la possibilità di riabbracciare i propri cari e commilitoni, ma anche l’occasione per far conoscere l’atroce realtà dei prigionieri di guerra, sottoposti a mille umiliazioni e, soprattutto, a varie forme di tortura vietate, prima di tutto, dalla Convenzione di Ginevra del 1949. Traumi che, uniti allo stress provocato dalla vita in trincea, difficilmente potranno essere cancellati. Il ricorso alla tortura nel teatro di guerra ucraino non è, purtroppo, una novità, come ha rilevato la Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite in Ucraina. L’organismo dell’Onu ha raccolto una serie di testimonianze che offrono un quadro chiaro sulla costante violazione dei diritti umani. Dall’inizio dell’aggressione militare russa ai danni dell’Ucraina, nel febbraio 2022, la Missione di monitoraggio ha intervistato più di 600 detenuti civili ucraini e prigionieri di guerra. I militari ucraini sono stati interpellati a seguito delle ultime due operazioni di scambio con gli omologhi russi. Hanno parlato esplicitamente di torture realizzate con brutali percosse, attraverso l’imposizione di posizioni prolungate, scosse elettriche sui genitali e con l’uso di cani inferociti. La tortura è stata applicata anche ad interi gruppi di prigionieri. In una struttura militare in territorio russo i militari ucraini sono stati costretti a camminare tra file di guardie che li picchiavano con manganelli o li tramortivano con il taser. Ad altri è stato imposto di svolgere esercizi fisici estenuanti. Tra le umiliazioni inflitte il dover memorizzare e cantare canzoni patriottiche russe durante tutta la giornata. Molti prigionieri di guerra non hanno ricevuto cibo e sono stati privati di cure mediche adeguate per periodi prolungati. Per non parlare delle scarse condizioni igieniche, causa di perdite significative di peso e di malattie della pelle. Sui trattamenti inumani e degradanti che hanno interessato i prigionieri di guerra ucraini si è espressa Danielle Bell, responsabile della Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni unite in Ucraina. “Il diritto umanitario internazionale - ha affermato - riflette valori fondamentali, che, persino in mezzo all’orrore della guerra, mirano a preservare la nostra umanità. La protezione e il trattamento umano dei prigionieri nelle mani delle parti belligeranti sono centrali per realizzare tali valori”. La missione Onu ha studiato pure i casi di prigionieri di guerra russi catturati dagli ucraini. Sono state raccolte quasi 400 testimonianze di soldati di Mosca internati. Sono state denunciate torture durante il trasferimento nei luoghi di detenzione. I militari russi catturati hanno parlato di “gravi percosse, anche con mazze di legno, nonché scosse elettriche su diverse parti del corpo”. “La tortura - ha aggiunto Danielle Bell - è un grave crimine, proibito dal diritto internazionale e mai giustificato in nessuna circostanza. La Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, celebrata lo scorso 26 giugno, è stata un’occasione per invitare tutti gli Stati a sradicare le condizioni e le circostanze che favoriscono questa pratica atroce e a chiamare a risponderne i responsabili”. La guerra in Ucraina sta avendo, come noto, pesanti ripercussione sui civili. La raccolta delle prove sulle uccisioni di uomini inermi, donne, anziani e bambini vede impegnate le autorità ucraine con l’ausilio di team specialistici. Uno sforzo riconosciuto dall’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite, che ha garantito ogni supporto utile. Dall’inizio dell’invasione russa del 24 febbraio 2022, fino ad oggi, le autorità ucraine hanno documentato 128.498 crimini di guerra; sono state uccise dalle forze armate russe 12.353 persone tra civili e soldati “fuori combattimento”. Morris Tidball-Binz, relatore speciale delle Nazioni unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, dopo una aver visitato diverse città dell’Ucraina, compresa la capitale, ha sottolineato gli sforzi per assicurare alla giustizia i responsabili dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità. Ha inoltre invitato la Federazione Russa a “rispettare pienamente i propri obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario e a cessare immediatamente le uccisioni illegali di civili e soldati ucraini “fuori combattimento”. Turchia. Contro i rifugiati siriani è l’ora dei pogrom di Murat Cinar Il Manifesto, 3 luglio 2024 Mentre il rapporto tra Ankara e Damasco continua a restare precario, nelle strade della Turchia si assiste a veri e propri pogrom e in Siria cresce la rabbia. La sera del 30 giugno, nella roccaforte dei partiti fondamentalisti a Kayseri, si diffonde la voce di un caso di molestia sessuale commessa da un cittadino siriano contro una minorenne. In pochi minuti le strade si riempiono di manifestanti e sui social si diffonde il video del caso, insieme a una campagna di linciaggio e odio. Fino alle 2 di mattina vengono presi d’assalto i negozi dei siriani e capovolte le loro macchine. Per le strade della città si sentono slogan fondamentalisti e razzisti, ma anche quelli che chiedono le dimissioni del Presidente della Repubblica. Timido l’intervento della polizia che, quando si tratta di una manifestazione politica, non esita a sparare i candelotti ad altezza uomo e a pestare duramente le persone. Il giorno dopo, a Kayseri, emergono le immagini del pogrom. La prefettura annuncia che la minorenne è stata presa in protezione e che il colpevole è stato arrestato. Tuttavia, la rabbia non si ferma e nella notte del primo luglio il pogrom si diffonde in altre città. A Hatay, Istanbul, Adana, Urfa e Bursa migliaia di persone distruggono i negozi dei siriani, entrano nelle case e li picchiano, bruciano le macchine e accoltellano due cittadini siriani. Durante le proteste razziste si vedono bastoni di ferro, coltelli e pietre nelle mani delle persone. “Sono deluso e profondamente triste. Questi momenti di linciaggio ormai sono ordinari. In questo paese il razzismo viene legittimato e i colpevoli vengono difesi” afferma Emir Monajed, cittadino siriano che vive e lavora in Turchia come rifugiato. “Ormai è un problema anche parlare arabo in pubblico. Dopo questi episodi, i bambini siriani avranno paura di uscire di casa e le donne e gli uomini faranno fatica a girare liberamente per le strade”. Così Monajed illustra la paura che provano ormai milioni di siriani che vivono in Turchia. Secondo i dati ufficiali della Direzione della Gestione dell’Immigrazione del Ministero degli Affari Interni, nel 2023 risultavano registrati 3.115.536 cittadini siriani in Turchia. Invece, secondo alcuni partiti d’opposizione che portano avanti una politica razzista e xenofoba, il numero è molto più alto e i siriani devono essere rimpatriati. Dopo l’inizio nel 2011 della guerra per procura ancora in corso in Siria, è iniziata una forte ondata di fughe verso la Turchia. Successivamente, nel 2016, gli interventi militari di Ankara nel nord del Paese hanno scatenato uno spostamento forzato di persone, sempre verso la Turchia. Oggi, dopo 13 anni di ostilità, guerra, scontri e invasioni, Ankara e Damasco stanno discutendo della possibilità di ripristinare i rapporti. Il 26 giugno, il Presidente siriano Bashar al-Assad e, il giorno dopo, il Presidente della Repubblica di Turchia Recep Tayyip Erdogan hanno lanciato dei messaggi positivi. Tuttavia, le condizioni che entrambe le parti avanzano da tempo per ripristinare i rapporti sono difficilmente realizzabili. Damasco chiede ad Ankara di ritirare le sue truppe e chiudere i rapporti con le bande fondamentaliste, definite “terroristiche” dal governo siriano. Ankara, invece, vuole creare una zona cuscinetto nel nord della Siria, specificando che la richiesta è legata alla sua sicurezza nazionale, perché si sente minacciata dalle Unità di Difesa Popolare Ypg/J presenti nella zona, e chiede a Damasco di collaborare per lo smantellamento di queste formazioni. Dietro le richieste di Damasco c’è l’obiettivo di riprendere in mano il controllo del nord con le modalità che preferisce. Richiesta respinta da Ankara, che vuole mantenere la sua presenza e assicurarsi che, se dovesse ritirarsi, non ci sarà nessuna minaccia per la Turchia nella zona e che sarà possibile rimpatriare gradualmente i siriani presenti in Turchia. Per ora, il ripristino dei rapporti non sembra facile, dato che le aspettative di entrambi i governi sono molto alte e la situazione in Siria è molto complicata. Mentre in Turchia si assiste ai pogrom nelle strade, in Siria vengono presi di mira gli obiettivi turchi. A Afrin, Azez, Mare, Cerablus e El Rai le persone hanno bruciato le bandiere turche, preso a sassate i tir turchi, rapito alcuni autisti e accerchiato i palazzi delle prefetture dove lavorano i governatori turchi. Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, tra i manifestanti c’erano persone semplici che protestavano in solidarietà con i loro concittadini presenti in Turchia, ma anche chi protestava contro l’eventuale accordo tra Erdogan e Assad. In questo secondo gruppo ci sono diverse bande armate fondamentaliste d’opposizione, appartenenti all’Esercito libero siriano, sostenute in vari modi da Ankara per anni e che ora si sentono tradite e abbandonate. Infatti, tra questi gruppi e la polizia ci sono stati degli scontri in cui sono morte quattro persone. Il ministero della Difesa turco ha già annunciato la spedizione di un nuovo gruppo di soldati per sostenere quelli già presenti sul campo. In tutto questo quadro, della vita di quei milioni di cittadini siriani sia in Turchia sia in Siria non sembra che qualcuno si preoccupi. “C’è un continuo lavoro di disinformazione contro i siriani e in generale gli arabi per alimentare l’odio e il razzismo in Turchia. L’odio contro i rifugiati è molto diffuso”. Emir Monajed illustra così la vita quotidiana dei cittadini siriani in Turchia. E aggiunge: “Io continuerò a lottare e lavorare per una convivenza priva di odio, provocazione e razzismo. Abbiamo bisogno di difendere tutte le persone vittime di discriminazione e esclusione”.