Ascolto e “cella aperta” mi hanno “salvato la vita”. All’attenzione del Capo del DAP, Giovanni Russo a cura di Marino Occhipinti* Ristretti Orizzonti, 31 luglio 2024 Cinque minuti per suicidarsi purtroppo si trovano facilmente, per questo racconto cos’ho vissuto quando mi è stata revocata la liberazione condizionale, che per me ha significato il ritorno alla pena dell’ergastolo, e come l’ascolto attento degli operatori e la collocazione in una “cella aperta” mi abbiano davvero “salvato la vita”. Come redazione di Ristretti Orizzonti abbiamo recentemente “incontrato” online alcuni Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale. Il prof. Samuele Ciambriello, Garante della Regione Campania, ci ha chiesto quali azioni riterremmo utili, noi detenuti, per prevenire i suicidi in carcere. Nella mia mente hanno iniziato a farsi largo un sacco di risposte: dal sovraffollamento alla mancanza di lavoro, dalle carenze della sanità alla necessità di colloqui affettivi e così via. Un elenco molto lungo, con motivazioni tutte valide, ma poi ho provato a fare sintesi, e prima di rispondere mi sono chiesto cosa avesse realmente funzionato, a mio parere e nel mio caso, un paio di anni fa quando ho fatto rientro in carcere. Ho quindi “fatto memoria” e il lungo elenco si è essenzialmente ridotto a due principali componenti: Ascolto e sezioni aperte. L’Ascolto mi ha permesso di superare il periodo più critico della carcerazione È certo prezioso sempre l’Ascolto del volontariato, ma è fondamentale l’Ascolto degli operatori istituzionali. Per provare a rendere meglio l’idea racconto quindi per sommi capi cos’ho vissuto quando mi è stata revocata la liberazione condizionale, che per me ha significato il ritorno alla pena dell’ergastolo. All’origine di tutto, l’incapacità di gestire non tanto la mia vita lavorativa all’esterno, che funzionava benissimo, quanto i sentimenti, una difficile vita di relazione, un rapporto affettivo che è degenerato e ha fatto venir fuori la mia aggressività, con cui ancora non avevo fatto i conti. Il senso di prostrazione e la sensazione di fallimento totale sono stati fortissimi, forse peggiori di quel che avevo sperimentato all’inizio della carcerazione, risalente a circa 28 anni prima. Ero veramente disperato, ricordo che quando mi avevano convocato in Questura per comunicarmi la revoca del beneficio mi ero sentito male, l’aria sembrava non voler più entrare né uscire dai polmoni, avevo dovuto farmi accompagnare in bagno per vomitare, e, reduce da un brutto infarto che mi aveva colpito qualche mese prima, temevo seriamente di non farcela. Una volta arrivato in questa struttura, per prima cosa venni appoggiato per qualche ora in una delle celle della cosiddetta accettazione. Ricordo che camminavo continuamente, tre metri avanti e tre metri indietro, ripetendo ininterrottamente, ad alta voce, “è finito tutto, è finito tutto, è finito tutto…”. Non riuscivo a fermarmi, e recitare quella frase mi dava la sensazione che probabilmente non solo la mia libertà, ma anche la mia stessa esistenza, erano arrivate al termine. Riuscii a smettere soltanto quando venni chiamato nell’ufficio dell’educatrice, presente la psicologa e successivamente, a conferma che le mie condizioni non erano delle migliori, anche lo psichiatra. Col senno del poi devo ammettere che furono molto professionali: mi fecero parlare molto, e soprattutto Ascoltarono tanto. Piangevo a dirotto, ero disperato e agitato, così lo psichiatra mi portò un bicchierino di plastica con 40 gocce di EN, che a suo dire mi avrebbero aiutato a stare più tranquillo per un paio di giorni. Pensavo continuamente ai miei familiari (“meno male che il babbo e la mamma sono già morti, almeno si sono risparmiati questo ennesimo dolore”), ai miei fratelli e alle mie figlie, ai pochi amici e ai colleghi di lavoro, e mi sentivo così male che non volevo assolutamente avere a che fare con nessuno; perciò chiesi di essere messo in isolamento, ma un assistente capo della polizia penitenziaria mi spiegò che non potevano lasciarmi da solo. Compresi il perché poco dopo: per scongiurare che potessi suicidarmi mi era stata applicata la Grandissima Sorveglianza, e cioè un “protocollo” ben preciso che prevede più azioni. Oltre a un controllo più assiduo da parte degli agenti (che a mio parere sarebbe servito a poco, cinque minuti per suicidarsi si trovano facilmente), per me fu sicuramente essenziale la successiva azione di Ascolto da parte dell’educatrice e della psicologa. Non so se nei miei confronti ci fu “un occhio di riguardo” per il fatto che in questo carcere avevo già scontato tanti anni, ma mi chiamavano spesso, mi chiedevano come andava, mi facevano parlare, e la loro attenzione mi permise di superare il periodo più critico, circa due mesi in cui il mio stomaco accettò pochissimo cibo, e la mia mente non fece sicuramente grandi progressi né tanto meno progetti di alcun tipo. A un certo punto educatrice e psicologa mi proposero di impostare e seguire un percorso utile a individuare cosa non avesse funzionato, e cioè i motivi per i quali mi era stata revocata la liberazione condizionale, al fine di individuare i punti e gli elementi sui quali poi lavorare, e in quel momento mi resi chiaramente conto che qualcuno si stava occupando di me, e che sulla mia persona c’erano comunque e ancora dei progetti, “indipendentemente da quel che era successo e nonostante tutto”. Quell’Ascolto, quell’attenzione e quella progettazione vinsero il mio senso di solitudine e di disperazione, e riaccesero inaspettatamente la fiammella della Speranza senza la quale (e questo vale per tutti gli esseri umani) oggi non sarei qui. Che cosa rappresenta una sezione aperta? “E mo’ dove ti mettiamo?”, mi domandò e si chiese quell’assistente capo, con una voce e uno sguardo preoccupati. “Assiste’, se proprio l’isolamento non è possibile, perché non mi mette al Quinto blocco, dove sono già stato per una dozzina d’anni prima di uscire in misura alternativa, nel 2012? Magari conosco ancora qualcuno”. “Ma quella è una sezione per i lavoranti… fammi fare una telefonata”. Col carrello contenente il materasso in gommapiuma, un cuscino, le lenzuola, un secchio e due scodelle arrivai così al Quinto, e nonostante non conoscessi più nessuno trovai almeno il sollievo della sezione aperta. Mi chiedo per quale motivo già da parecchi anni le celle vengano elegantemente definite “stanze di pernottamento”, e cioè un locale dove si dovrebbe rimanere soltanto per dormire, quando invece, nelle cosiddette sezioni chiuse, si è sempre nella propria cella, dalla quale si può uscire soltanto per andare all’aria, in saletta, a telefonare oppure in doccia (non liberamente ma secondo degli orari prestabiliti). Nella sezione aperta avevo almeno la possibilità di abituarmi nuovamente alla detenzione con delle modalità… dunque, può sembrare ironico ma non è questa la mia intenzione… sì, con delle modalità più leggere. Infatti, nella sezione aperta l’agente del piano apre tutti i cancelli alle 7.30, e salvo alcuni passaggi necessari alla “conta”, ripassa soltanto per la successiva chiusura delle 19.30. Si tratta comunque di 12 ore di galera, ma nel frattempo si ha la possibilità di andare in doccia, a telefonare o in saletta quando si vuole, senza bisogno di chiamare l’agente magari impegnato in altre incombenze. Anziché dover per forza rimanere nella propria stanza con il proprio “concellino”, si può decidere di fare due passi nel corridoio, o di andare nella cella di qualche altro compagno anche soltanto per fare due chiacchiere con una persona diversa o per un caffè. In fin dei conti, si potrebbe obiettare, non sono altro che piccole cose, dei dettagli che non cambiano sicuramente la sostanza degli anni che devi fare in carcere, ed è vero, ma altrettanto vero è che una sezione aperta rappresenta anche una non trascurabile iniezione di fiducia che ti viene concessa, e un tacito patto di responsabilità con l’amministrazione penitenziaria. Spesso siamo proprio noi detenuti, infatti, a smussare le intemperanze per fare in modo che la sezione stia il più tranquilla possibile, “altrimenti finisce che ci chiudono”. Personalmente penso che la sezione aperta permetta una maggiore socialità, una migliore interazione, penso che riduca il disagio, la rabbia e i conflitti, ed è sicuramente utile a stanare le persone che stanno più male, che non hanno molta capacità di chiedere aiuto. Penso che le sezioni aperte siano anche un antidoto alla depressione e alle brutte intenzioni: qualche tempo fa, quando ancora i suicidi nelle carceri erano “soltanto” 44, una statistica del Garante nazionale dei detenuti ha reso noto che 39 di questi suicidi - e cioè l’89 per cento - erano avvenuti nelle sezioni chiuse, e soltanto 5 nelle sezioni aperte. *Redazione di Ristretti Orizzonti Inferno carceri, a Rieti un altro suicidio: è il n. 61 di Marina Della Croce Il Manifesto, 31 luglio 2024 A morire è stato un giovane di 25 anni in isolamento. Oggi in aula al Senato il dl carceri. Le opposizioni: “Provvedimento inutile”. Di carcere si continua morire. Dopo il ragazzo di 27 anni che sabato scorso si è tolto la vita nella casa circondariale di Prato, ieri un altro giovane, di 25 anni e in attesa di giudizio, si è impiccato nella cella d’isolamento del carcere di Rieti dove era stato rinchiuso dopo che, con altri detenuti, si era rifiutato di rientrare in cella per protestare contro il sovraffollamento. Per le statistiche si tratta del 61esimo suicidio dall’inizio dell’anno, numero che però restituisce solo in parte il dramma che decine di migliaia di detenuti vivono nelle carceri italiane. “Io il conto non lo tengo più: sono comunque troppi e (quasi) ogni giorno uno di più”, è il commento sconsolato del Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia. “Ogni caso è un caso a sé, ma tutti insieme - continua Anastasia - sono l’indice della crisi di un sistema che non riesce a garantire i principi costituzionali di umanità nella detenzione e di sostegno al reinserimento sociale dei condannati”. Intanto oggi, dopo il voto di ieri in commissione Giustizia al quale non hanno partecipato per protesta le opposizioni, arriva in aula al Senato il decreto carceri. Il voto è previsto per giovedì, con il governo che quasi sicuramente chiederà la fiducia. Due giorni fa il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha ricordato di aver rafforzato l’organico nelle carceri per quanto riguarda educatori, funzionari contabili e mediatori culturali, un intervento che però non incide sulle cause più gravi della crisi che riguardano il sovraffollamento, con 14.500 detenuti i più rispetto ai posti disponibili, e la mancanza di almeno 18.000 agenti di polizia penitenziaria rispetto alle necessità dell’organico. Di conseguenza le carceri si sono ormai trasformate in luoghi infernali sia per chi vi deve scontare una pena, che per chi ci lavora. E le alte temperature di queste settimane non fanno altro che rendere ancora più difficile la situazione. Ecco quindi che risse, gesti di autolesionismo, proteste, quando non scoppiano vere e proprie rivolte, sono ormai all’ordine del giorno. Nel carcere di Rieti dove ieri mattina si è registrato l’ultimo suicidio, 400 detenuti si erano autogestiti per due giorni e due notti prima di mettere fine alla protesta. E ancora ieri a Cuneo tre detenuti sono rimasti intossicati da un incendio seguito ad alcuni disordine scoppiati nella prima sezione dell’istituto. Tra i primi a chiedere un intervento del governo ci sono i sindacati: “Il ministro Nordio dovrebbe dire cosa intende fare di concreto per fermare la pena di morte di fatto e casuale che viene costantemente inflitta nel nostro paese”, ha detto ieri ad esempio il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio. Un primo passo potrebbe essere la scarcerazione dei quasi 8 mila detenuti che hanno un residuo di pena inferiore a un anno. È quanto previsto da una proposta di legge presentata da +Europa mentre gli avvocati di Roma in una lettera hanno chiesto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di intervenire sollecitando la politica per mettere fine a “una situazione intollerabile, indegna di un paese civile”. Intanto governo e maggioranza si preparano a licenziare il decreto carceri. La commissione Giustizia del Senato ha votato il mandato ai relatori permettendo così al testo di arrivare oggi nell’aula di palazzo Madama. Le opposizioni non hanno partecipato al voto per protesta contro l’interno provvedimento e riservandosi di ripresentare tutti gli emendamenti in fase di discussione. Non dovrebbero esserci sorprese sulla decisione da parte del governo di chiedere la fiducia nel voto finale previsto per domani. “È l’ennesimo provvedimento del governo su cui si riversano le tensioni interne della maggioranza sul parlamento”, ha commentato la vicepresidente dei senatori dem Beatrice Lorenzin. “Questo decreto non affronta i problemi strutturali delle carceri italiane: personale, infrastrutture e sovraffollamento - ha proseguito Lorenzin -. Siamo molto lontani dal risolvere la grande questione della salute della popolazione carceraria, così come di chi in carcere non dovrebbe stare in quanto soggetto con patologie psichiatriche”. Silvia Albano: “Serve un atto di clemenza, ma bisogna muoversi ora” di Mario Di Vito Il Manifesto, 31 luglio 2024 Intervista alla presidente di Magistratura democratica: “La situazione è gravissima, ma i detenuti non sono un elettorato di riferimento. Nordio diceva di essere a favore del diritto penale minimo, ma in tutta evidenza non è così: ha abolito l’abuso d’ufficio, ma il governo continua a criminalizzare il dissenso”. “La situazione è talmente grave che deve essere affrontata subito, immediatamente”. Silvia Albano, giudice al tribunale di Roma e presidente di Magistratura democratica esordisce così parlando di carcere. L’emergenza, del resto, è conclamata: il numero dei suicidi tra i detenuti è spaventoso (61), le rivolte si susseguono a ritmo quotidiano, il numero di atti di autolesionismo non si riesce nemmeno a calcolare, i garanti dei detenuti un giorno sì e l’altro pure fanno presente che così proprio non è possibile andare avanti. Albano, la questione carceraria è decisamente esplosa... Direi di sì, per questo bisogna muoversi adesso per ridurre la popolazione carceraria. Bisognerebbe applicare subito il ddl Giachetti, o qualcosa di simile che aumenti i giorni di liberazione anticipata. Ci vorrebbe molto poco e consentirebbe di alleviare la situazione effettuando dei semplici ricalcoli. Sarebbe anche necessario varare un provvedimento di clemenza: sono tanti anni che non si fanno amnistie e indulti e c’è un altissimo numero di detenuti con residui di pena molto esigui. Un’altra cosa ancora che si potrebbe fare sarebbe la creazione di convenzioni con il terzo settore per concedere i domiciliari a chi ne avrebbe diritto ma non ha una casa dove andare. Dalle parti del governo parlano spesso della costruzione di nuove carceri… E va bene, ma si tratta di un provvedimento molto di là da venire. Mettere mano all’edilizia non risolve la situazione nell’immediato, è evidente. Poi, certo, sarebbe necessario avere carceri più vivibili, con più spazi di socialità, più spazi per lavorare, ambienti che favoriscano la piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, in cui si dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Oggi le carceri italiane sono luoghi fatiscenti e questo non è tollerabile per un paese civile. Sarebbe inoltre importante puntare di più sulle pene alternative: qualche potenziamento in questo senso è arrivato con la riforma Cartabia, ma la verità è che non esiste una vera e propria rete intorno al carcere che consenta di andare fino in fondo. Purtroppo spesso non ci sono vere e proprie alternative alla prigione. In ogni caso, vorrei ribadire che servono provvedimenti in grado di funzionare sin da subito. Il problema riguarda anche gli agenti della polizia penitenziaria, dall’inizio dell’anno si sono verificati tra loro sei suicidi... Diminuire la popolazione carceraria aiuterebbe anche gli agenti. Negli istituti di pena le condizioni di lavoro sono di fatto inesigibili: c’è poco personale e le strutture sono a dir poco problematiche. Negli ultimi anni però sono stati creati tanti nuovi reati. Che vuol dire più gente in carcere. Stiamo andando nella direzione opposta alla diminuzione della popolazione carceraria? È vero che aumentano i reati perché vengono create nuove fattispecie. Dirò di più, sono state anche aumentate le pene per fatti di lieve entità, come per la detenzione di sostanze stupefacenti. Chiaro che così gli ingressi in carcere aumentano. Peraltro parliamo di persone spesso in condizioni di marginalità. Prendiamo, per fare un altro esempio, il cosiddetto decreto Caivano: invece di affrontare il problema e provare a ricostruire il tessuto sociale, si pensa di risolvere ogni cosa attraverso la sanzione penale. Ma così non si risolve nulla. Carlo Nordio si è insediato al ministero della Giustizia nell’autunno del 2022 definendosi come un alfiere del garantismo… Nordio diceva anche di essere a favore del diritto penale minimo, ma in tutta evidenza non è così. Da quel punto di vista si è limitato ad abolire l’abuso d’ufficio, cioè un reato che di solito subiscono i cittadini inermi da parte di chi detiene il potere. E allo stesso tempo fa parte di un governo che più volte ha dimostrato di voler colpire ogni dissenso: pensiamo alla norma sull’imbrattamento, a quella sulle rivolte nelle carceri e nei Cpr o a quella sulle proteste fatta pensando ai movimenti contro il ponte sullo Stretto di Messina o i treni ad alta velocità… Gli appelli a rendere meno disumana la situazione carceraria sono tanti e arrivano anche da ambienti come quelli dei radicali o dei cattolici. Persino da Forza Italia. Perché secondo lei questo governo sembra non voler ascoltare nulla in questo senso? Mi pare che non ci sia sensibilità verso chi è detenuto. Probabilmente non si tratta dell’elettorato di riferimento del governo. Poi si evidenzia anche una concezione autoritaria dello stato, della pena e del diritto: basta leggere le dichiarazioni di alcuni ministri per accorgersene. Forza Italia sembrava volesse appoggiare la proposta di Giachetti sulla liberazione anticipata, ma poi ha lasciato prevalere gli equilibri politici della maggioranza alla condizione di chi in carcere ci muore o subisce trattamenti inumani e degradanti. Il giudice Alfonso Sabella: “Non servono nuove carceri, ma carceri nuove” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2024 “Sinceramente non ho mai capito perché in questo paese, da almeno 40 anni a questa parte, manchi un progetto di riforma carceraria, così come manca un progetto sulla giustizia, visto che ogni ministro che è arrivato ha fatto riformine a macchia di leopardo sempre nell’interesse di una determinata parte o di un determinato gruppo ideologico. Non si possono affrontare settorialmente i problemi facendo un’amnistia o un indulto, perché il problema non è dato dalla costruzione di nuove carceri o dalle misure alternative alla detenzione”. Sono le parole pronunciate ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, su Radio Cusano Campus, da Alfonso Sabella, giudice del tribunale di Roma, a proposito dell’emergenza carceraria, sulla quale espone la sua passata esperienza personale di capo ispettivo al Dap (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria - Polizia Penitenziaria) del Ministero della giustizia. “Abbiamo visto che se i detenuti vengono trattati bene, come nel carcere di Bollate, si ha una diminuzione media della recidiva dall’80% al 20%: questo significa che nelle carceri dove sono stati fatti determinati tipi di investimenti e dove i detenuti vengono trattati in un certo modo, solo il 20% di quei detenuti ritornano a delinquere, una volta usciti dal carcere. Nelle altre carceri abbiamo l’80%. Lo Stato, quindi, ha tutto l’interesse ad avere tassi di recidiva più bassi perché abbassando i tassi di recidiva si abbassano notevolmente i costi per il contrasto del crimine e i costi sociali che il crimine determina. Ma tutto questo pare che non venga compreso”. Riguardo all’aumento dei suicidi nel periodo estivo, il magistrato osserva: “Quest’anno c’è stato più caldo e ne sono morti di più, in questo periodo l’aumento dei suicidi è fisiologico. Abbiamo sempre riscontrato che nel periodo estivo il tasso dei suicidi aumenta notevolmente sia per il caldo, sia l’intollerabilità della permanenza al chiuso in quelle celle microscopiche. Ci dimentichiamo molto spesso che abbiamo a che fare con esseri umani. Al caldo - continua - si aggiunge anche il fatto che nel periodo estivo non c’è la scuola, non ci sono svaghi, non c’è niente che tu possa fare di diverso dal restare chiuso 24 ore su 24 all’interno di una cella. Non si è mai posto un rimedio alla mancanza di attività ricreative nelle carceri durante il periodo estivo, eppure non costerebbe un granché”. Sabella, tuttavia, spiega che il vero problema non è dato dalle dimensioni della cella: “Da studi che ho fatto quando mi occupavo di edilizia penitenziaria, ho realizzato che l’Italia è nel mondo il Paese che ha il miglior rapporto metro cubo di costruzione penitenziaria a detenuto. Un detenuto italiano, infatti, ha circa 6 metri cubi a disposizione, un detenuto olandese ne ha 2 al massimo. Il problema però non è lo spazio a disposizione, ma la qualità di quegli spazi e il modo in cui sono utilizzati dai detenuti. Se un detenuto - spiega - deve mangiare e usare il bagno nello stesso posto, come accade in moltissime carceri italiane, gli stiamo dando un pessimo servizio, lo stiamo trattando come una bestia. Noi dobbiamo migliorare la qualità della detenzione. Perché la struttura non dev’essere climatizzata, maledizione? Non avete idea delle lotte che ho dovuto condurre per introdurre i frigoriferi”. Il magistrato, infine, cita Luigi Pagano, ex direttore del carcere di San Vittore per 15 anni: “Non servono nuove carceri, ma carceri nuove. Ma questo principio non è stato mai ascoltato perché gli interessi sono diversi. Le ragioni per cui si continuano a mantenere i detenuti in queste condizioni sono tante, riguardano tanti aspetti di categoria, molte tutele di piccoli privilegi e alcune idee di carattere politico generale. Preferisco sinceramente non dirle, perché se le dicessi mi massacrerebbero più di quanto mi massacrano - conclude - Ho tutta la stima possibile e inimmaginabile per il personale della polizia penitenziaria che svolge un lavoro complicatissimo. Ma l’Italia ha il miglior rapporto in Europa anche tra polizia penitenziaria e detenuti: in Italia il rapporto è 2 agenti di polizia per 3 detenuti, mentre in Spagna, Francia e altri paesi è 1 su 3. Alla luce di questi numeri si capisce che qualcosa non funziona in questo meccanismo. Se andiamo ad analizzare questi numeri, forse le soluzioni le troviamo ma preferiamo mantenere certi tipi di situazioni. Perché mantenere certi tipi di situazioni nelle carceri italiane è una scelta di molti”. Valentina Calderone: “Suicidi, sovraffollamento, violenze… il carcere va abolito” di Debora Bionda forensicnews.it, 31 luglio 2024 Le condizioni di vita nei penitenziari sono sempre più problematiche. Suicidi e violenze sono all’ordine de giorno. Il sovraffollamento rende la vita in carcere ancora più critica. Che fare? Sono ormai 60 i suicidi nelle carceri italiane da inizio anno. Strutture fatiscenti, violenze, condizioni igieniche precarie rendono la detenzione invivibile ed ecco che i carcerati arrivano a compiere gesti estremi. E poi c’è il grande tema del sovraffollamento. Secondo un rapporto di Antigone, al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Nel dettaglio, il livello di sovraffollamento nazionale ha raggiunto il 130% e in 56 carceri italiane è superiore al 150% con picchi di oltre 200%. Se per i detenuti la situazione è drammatica, non stanno meglio gli agenti della polizia penitenziaria. Si stima che alla polizia penitenziaria manchino rispetto al reale fabbisogno oltre 18 mila unità. Questa situazione porta a controlli inadeguati, a turni massacranti, a una gestione dei carcerati sempre più difficile. Un lavoro logorante che non fa altro che incidere sulla salute psicofisica del personale penitenziario. Anche qui le morti non mancano: sono infatti 6 le guardie che si sono tolte la vita finora nel 2024. Che sta succedendo? Come è possibile che un luogo che dovrebbe riabilitare finisca per diventare un girone infernale da cui uscire a tutti i costi, anche morendo? Ne abbiamo parlato con Valentina Calderone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale e co-autrice del libro “Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini” (Chiarelettere). Nel volume si spiega come in tutti i Paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo i carcerati: solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra. In Italia questa percentuale sale alI’82% perché nel nostro Paese chi ruba in un supermercato si in carcere accanto a chi ha commesso un delitto. Il titolo “Abolire il carcere” sembra quasi una provocazione. È realmente fattibile? No, non è una provocazione. Tendiamo a dare per scontato che istituzioni che esistono da tempo, siamo sempre esistite e esisteranno per sempre. Ovviamente non è così, nel senso che il carcere non è sempre esistito. Il nostro Paese è uno dei più grandi esempi di abolizionismo nel mondo. Siamo infatti gli unici ad aver abolito i manicomi e anche quella era un’istituzione che veniva percepita come intoccabile, non modificabile. Quando parlo di abolire il carcere, mi riferisco al tendere all’abolizionismo nel lungo periodo. Ci sono molte cose che possono essere fatte nel frattempo. Per come la vedo io è un atto di rispetto verso un principio di realtà: ci dobbiamo occupare delle persone che stanno oggi in carcere, sono affidate a noi e dobbiamo fare i conti con il fatto che le condizioni di vita là dentro sono devastanti. Dobbiamo provare tutti gli strumenti possibili per farne sempre più a meno. Questo vuole dire essere abolizionisti. E si inizia pensando a come svuotare le carceri a come evitare di rivolgerci sempre a questo strumento, sperimentando delle alternative. Quali potrebbero essere le alternative al carcere? Ci sono già degli strumenti alternativi normati. Pensiamo per esempio alle persone con dipendenze per cui la legge prevede l’inserimento in una comunità terapeutica per la salute mentale. Questo ragionamento è ancora più importante nel momento in cui ci rendiamo conto di qual è effettivamente la composizione della popolazione detenuta. Circa il 33% della popolazione in carcere è composto da stranieri, il cui ingresso all’interno del circuito del penale deriva da politiche migratorie che non consentono loro di avere una vita regolare. L’odissea per ottenere il permesso di soggiorno li condanna alla marginalità, all’invisibilità, al vivere per strada che può portare a situazioni di rilevanza penale. Molte persone sono recluse per reati minori, come il piccolo spaccio di stupefacenti. Recentemente ho incontrato un ragazzino all’interno del minorile di Roma Casal del Marmo in carcere perché è stato trovato con mezzo grammo di hashish. Ha senso la sua reclusione? Ecco, in un’ottica di abolizionismo, dobbiamo procedere con la riduzione dell’impianto dei reati all’interno del nostro Paese. Del resto, reato è quel che decidiamo che lo sia, il codice penale non è scritto sulla pietra, può essere modifico. Per questo, fermo restando che le strutture sono sicuramente importanti, l’accesso alle misure alternative lo sono altrettanto per categorie di persone condannate per reati minori, non pericolosi socialmente. Spesso poi, nel caso di stranieri e minori, le condanne sono legate a situazioni di marginalità su cui si potrebbe intervenire con presidi territoriali e assistenza, al fine di prevenire che si arrivi a compiere atti di rilevanza penale. Il sovraffollamento è oggi un aspetto particolarmente critico che complica una situazione già problematica. In quali condizioni si trovano a vivere i detenuti in Italia? Le condizioni nelle carceri sono terribili, soprattutto nei mesi estivi. Ovviamente ci sono istituti in cui le condizioni sono migliori e altri peggiori, ma in linea generale la situazione è molto complessa. L’estate è uno dei momenti più critici per quanto riguarda gli atti autolesivi e i suicidi, proprio perché la mancanza di contatto col mondo esterno e il sovraffollamento accentua la sofferenza. Si pensi che a Regina Coeli c’è un sovraffollamento di circa il 180%, le celle vengono chiuse tra le 18 e le 18:30 e riaperte il giorno dopo alle 08:30-9. I detenuti passano una quantità considerevole di ore all’interno della stanza, con finestre sbarrate che schermano la luce e sono di ferro per cui diventano roventi sotto al sole. Caldo, muffa, insetti, spesso poi non funzionano gli scarichi, i rubinetti perdono acqua, non è possibile fare attività fisica. A volte non è possibile mettere un ventilatore all’interno della stanza perché l’impianto elettrico non regge. Tutte cose che rendono veramente intollerabile la permanenza in cella. A maggior ragione se in una stanza pensata per due sono rinchiuse cinque persone. Il 2022 è stato un anno da record sul fronte dei suicidi in carcere con 85 suicidi accertati, ma anche nel 2023 e nel 2024 i numeri continuano a essere importanti. Da cosa è causata questa emergenza e cosa si potrebbe fare per arginarla? Stiamo veramente assistendo a una strage. Spesso i suicidi capitano in periodi specifici: appena entrati e, paradossalmente, poco prima della fine della pena, per la paura di uscire e tornare in una realtà degradata. E questo è un fallimento dell’istituzione carcere. Abbiamo sottratto alla vita libera una persona per farle fare un percorso riabilitativo, se si suicida a due mesi dal fine pena dobbiamo avere il coraggio che l’intero sistema ha fallito. Cosa si può fare per arginare il problema dei suicidi? Intanto sicuramente rendere condizioni dignitose di vita all’interno degli istituti. Cosa complicata da fare senza abbassare i numeri all’interno delle carceri. Abbiamo migliaia di persone con tre anni al fine pena, si potrebbe iniziare con il concedere sconti di pena e amnistie che oggi vengono sempre meno usati ma sono provvedimenti previsti all’interno della nostra Costituzione. Liberarli non rappresenta la resa dello Stato. La vera sconfitta dello Stato è assistere a queste morti senza fare nulla perché quelle persone sono state affidate al sistema carcerario che dovrebbe farsene carico e prendersene cura, invece sono trattate in modo disumano. E qui si arriva a un altro grosso tema che è la violenza nelle carceri perché spesso chi dovrebbe garantire l’ordine diventa l’aguzzino dei detenuti. Com’è possibile che ciò avvenga? Mancano controlli? Manca formazione? Non c’è un adeguato supporto per chi svolge questo lavoro? I fattori siano tanti e proprio per questo il carcere, secondo me, è scarsamente riformabile. Si tratta di un luogo di violenza endemica. Si parla sempre e anche giustamente della massima manifestazione della violenza che quella fisica, soprattutto dopo che abbiamo introdotto il reato di tortura nel nostro codice penale, ma esiste una forma di violenza derivante dal potere di uomini che possono disporre della vita di altri uomini che stanno dietro a delle sbarre, che è altrettanto pesante. Ogni richiesta deve passare da un’autorizzazione, creando così il contesto affinché si verifichino rapporti di forza e angherie. In più c’è un tema di sottodimensionamento del personale del carcere che pesa sulla salute di chi fa questo mestiere e infatti ci sono suicidi anche fra le guardie carcerarie. Gli agenti sono in numero irrisorio rispetto al numero dei detenuti che sono chiamati a vigilare, tanto che ci sono poliziotti che fanno turni da 24 ore. C’è chi fraintende il ruolo, chi non ha gli strumenti per farlo al meglio. Sicuramente non aiuta il decreto Carceri che accorcia ulteriore la formazione degli agenti. Tutte queste problematiche si sommano e che fanno sì che accadano episodi di violenza. In queste condizioni in che modo è possibile pensare di garantire il funzionamento del sistema carcerario? Si stima che il 68,7 % dei detenuti torni a delinquere. Un livello di recidive così alto è un’ulteriore prova del fatto che le carceri non funzionano? Sì e aggiungo che il sistema carcerario ci costa circa 3 miliardi l’anno, se la percentuale di successo è solo del 30% allora dobbiamo dirci che è un sistema fallimentare. Dobbiamo prendere atto che le persone vanno trattate in maniera diversa. Anche se volessimo fare un ragionamento puramente economico, dovremmo comunque deciderci ad avere un altro approccio perché questo non funziona. Perché ignoriamo i suicidi in carcere di Massimo Lensi Il Domani, 31 luglio 2024 In carcere manca tutto. Nell’istituzione totale dedicata a curare chi la legge viola, manca anzitutto il rispetto della legge. Un paradosso repressivo e disciplinare ma fino a un certo punto. Molte attenzioni si concentrano, infatti, sulle condizioni di vita dei reclusi e la fatiscenza degli edifici. Una sorta di fatale Bolero accompagna le modeste attenzioni. Si usano sempre parole adeguate: disumanità, condizioni di vita degradanti. Un altro recluso si è impiccato alla Dogaia, il carcere di Prato. C’era stata una rivolta in quel carcere. Normalmente una rivolta si accende a causa di un suicidio in carcere. Questa volta è accaduto l’opposto. Il giovane detenuto si è tolto la vita alla conclusione dei tafferugli. Un’anomalia. Gli eroi son tutti giovani e belli, ma non in carcere. Addirittura, in questa occasione, è stato modificato lo spazio semantico della parola “rivolta”. Il principale ostacolo è nel campo della società dei liberi, alla quale non importa sapere come si vive, o sopravvive, nei nostri istituti penitenziari. È importante per essa appropriarsi di una sicurezza di natura ontologica: è in corso una guerra al crimine. In guerra si muore, si cade in battaglia o nelle retrovie. In guerra il suicidio è condizione di liberazione. Si potrebbe rispondere che non c’è bisogno di fare la guerra per vincere. Si perde comunque. Il limite a questa teoria del diritto in chiave guerresca è abbastanza chiaro. La somma del diritto penale di tradizione liberale (che comunque accetta la clemenza di stato) con l’innovazione del populismo penale ha prodotto un blocco teorico insensibile a tutto, ai provvedimenti di demenza e ai miglioramenti delle condizioni di vita dei reclusi e di chi in carcere lavora, come gli agenti di polizia penitenziaria, sottoposti entrambi a un evidente stress suicidario. Cito l’esperienza dei Cls, i Critical Legal Studies, dell’università di Harvard. Il movimento dei Cls sostiene che il diritto, ben lungi dall’essere razionale, coerente e giusto, come lo rappresenta il pensiero liberale (di cui il ministro Nordio è un alto rappresentante), è arbitrario, incoerente e profondamente ingiusto. Attraverso il metodo del “trashing” (letteralmente “setacciamento dei rifiuti”) si può smascherare il messaggio racchiuso nel discorso giuridico. La regola del diritto è espressione dell’individualismo mentre lo “standard”, la decisione concretamente condizionata, si radica nella comunità e nei valori condivisi rendendo possibile la mediazione tra individualismo e altruismo. Sostiene Robert Gordon, uno dei maggiori esponenti dei Cls: “Il “diritto” è semplicemente uno dei molti sistemi di significato che la gente costruisce per far fronte ad uno dei più minacciosi aspetti dell’esistenza sociale: il pericolo posto dalle altre persone la cui cooperazione ci è indispensabile, ma che possono ucciderci o ridurci in schiavitù” (in Storie critiche del diritto, 1992). “Dov’è, che fa?”, opposizione, agenti, associazioni contro il nuovo Garante dei detenuti, troppo docile con Meloni di Federica Olivo huffingtonpost.it, 31 luglio 2024 Il collegio guidato da Felice Maurizio D’Ettore è considerato troppo vicino al governo. Il suo atteggiamento cozza con il grande attivismo dei Garanti territoriali, che il 7 agosto vedranno Nordio. Verini (Pd): “Concezione burocratica del ruolo”. Le associazioni: “Stanno distruggendo l’istituzione”. Gli agenti: “Nessun rapporto”. “E il Garante nazionale dei detenuti dov’è? Che fa?”. Mentre il dramma dei suicidi in carcere e delle condizioni indecenti dei penitenziari emerge con prepotenza e non incontra risposte adeguate, un interrogativo serpeggia tanto in Parlamento quanto tra addetti ai lavori e associazioni. C’è un certo malcontento, che assume picchi più o meno alti a seconda di chi parla, nei confronti del nuovo collegio del Garante nazionale dei detenuti. A Felice Maurizio D’Ettore - civilista, ex parlamentare, prima berlusconiano, poi totiano, infine meloniano - e ai suoi colleghi Irma Conti e Mario Serio si contesta in alcuni casi l’assenza, in altri un’interpretazione troppo burocratica del ruolo, in altri ancora un’eccessiva accondiscendenza nei confronti dei provvedimenti del governo. Al punto che un tiepidissimo dubbio - scritto in giuridichese spinto - espresso dal Garante sul ddl sicurezza era stato salutato con sorpresa, perché considerato un gesto inusuale. Ma andiamo per gradi. E partiamo dalla politica. D’Ettore è subentrato a Mauro Palma a novembre 2023 e il suo ruolo è diventato operativo nei mesi scorsi. Prima della nomina governativa non è stato consentito alle commissioni parlamentari competenti di audirlo. E già questa era stata considerata una forte sgrammaticatura. In Parlamento, in ogni caso, il Garate si è visto solo una volta, quando, tra lo sgomento delle opposizioni, ha teso la mano al governo e bocciato la liberazione anticipata speciale proposta da Roberto Giachetti, considerandola “un rimedio “sintomatico”, transitorio e di carattere contingente”. Definendola, ancora, “mostra i limiti della sua efficacia” perché dopo qualche anno le carceri comunque si riempiono di nuovo. Un’opinione legittima, che però a molti è parsa stonata rispetto al ruolo del Garante: che sarebbe quello di tutelare i detenuti. Tanto più in un momento così drammatico. Aveva fatto indispettire non poco, poi, i senatori del Pd il fatto che nessuno dei tre componenti del collegio si fosse presentato all’audizione sul decreto carceri. In quell’occasione è stata mandata solo una relazione. Per inciso, senza nessuna nota critica nei confronti del provvedimento del governo che li aveva nominati. Perché la chiave è questa: “Questo Garante - ci dice una fonte parlamentare che conosce bene il carcere - è poco incline a dire o fare cose che possano disturbare il governo”. A metà giugno era stato il dem Walter Verini a porre un faro sulla situazione. Il senatore del Pd ribadisce ad HuffPost: “In tutta questa tragedia emergono due dati. La prima è l’irresponsabilità del governo, la seconda è la concezione burocratica del ruolo che interpreta l’ufficio del Garante nazionale. Non è un attacco personale, ma non posso non rilevare la differenza tra il lavoro burocratico del Garante nazionale e la trincea in cui sono i Garanti territoriali”. A far deflagrare il caso - con Devis Dori di Avs che nota che “del garante nazionale non si sente da un po’ la voce” - è stata l’iniziativa dei Garanti locali dei detenuti. Capitanati da Samuele Ciambriello, che si occupa dei reclusi campani, hanno fatto una conferenza stampa al Senato, proposto la liberazione immediata di circa 8mila detenuti che hanno un residuo di pena di meno di un anno e condannati per reati non gravissimi e il 7 agosto vedranno il ministro. E il Garante nazionale? “Visto l’andazzo l’hanno bypassato”, insinua qualche detrattore. Più morbido Ciambriello, che ad HuffPost spiega: “Siamo due istituzioni differenti e seguiamo canali differenti, ma i primi ad avere le notizie sui casi critici siamo noi sul territorio”. Qualche Garante locale, però, non riesce a tratternersi dal farci notare che con la gestione precedente i rapporti con Roma erano più intensi. Anche gli operatori che in carcere lavorano o fanno volontariato hanno iniziato a percepire un distacco, che si è trasformato spesso nell’assenza di rapporti. “L’impressione - ci dice un esponente di una nota associazione che si occupa dei detenuti - è che siccome cancellare l’istituzione del Garante era troppo e quindi hanno pensato di distruggerla. Ormai lavoriamo come se un garante non ci fosse”. L’opinione è condivisa anche da chi si occupa di migranti. Il Garante, infatti, ha competenza anche sui centri di permanenza per il rimpatrio: “Non ha detto una parola sui Cpr in Albania”, è uno dei rilievi che viene condiviso con HuffPost. Gli addetti ai lavori ricordano, in particolare, il caso delle proteste al Cpr di Trapani: “C’era stata una rivolta, la struttura era in parte inagibile, erano stati fatti dei trasferimenti (tra i trasferiti c’era anche Ousmane Sylla, giovane che poi si è suicidato, e il Garante se ne è uscito con un misero comunicato di poche righe”. Il tema non sono solo le esternazioni pubbliche - comunque importanti, perché in un momento del genere i detenuti hanno bisogno di vicinanza da parte delle istituzioni - ma è anche l’attività. Sia chiaro: il collegio non si è rinchiuso nelle sue stanze dorate. Qualche visita è stata fatta, anche se qualcuno lamenta il fatto che più che con i detenuti parlino con la dirigenza, la relazione al Parlamento arriverà. In ritardo - a quanto risulta ad HuffPost, a settembre - ma arriverà. Qualche report, poi, viene stilato. Quello sui suicidi in carcere, ad esempio: “Però prendono acriticamente i numeri del Dap. Così non serve”, ci dice un agente penitenziario. I sindacati di Polizia penitenziaria, a proposito, sono stati incontrati dal nuovo Garante, ma la relazione non è idilliaca: “Noi saremo anche i garanti degli agenti, ma con Palma avevamo rapporti, con questi nuovi non abbiamo nulla da dire”, è il commento senza mezzi termini di uno di loro. Subito dopo l’insediamente del collegio, a scagliarsi contro la nuova formazione era stato Gennarino De Fazio, della Uilpa Polizia penitenziaria, perché aveva notato un’anomalia che lo aveva portato a definire il nuovo ufficio “Garante che non rispetta le garanzie”. Cosa era successo? Quattro agenti penitenziari erano stati tolti dal carcere e infilati nello staff del nuovo Garante. Secondo quanto riferito da De Fazio l’assunzione era avvenuta “senza l’esperimento di alcuna procedura di selezione atta a offrire assicurazioni di efficienza, efficacia, imparzialità e trasparenza”. Il bilancio, insomma, al momento non è dei più rosei, ma questo ufficio sta lavorando da pochi mesi e, se vorrà, avrà certamente tempo per dimostrare che i suoi detrattori si sono sbagliati. L’impressione su cui, però, tutti gli addetti ai lavori concordano è che il formalismo, la burocrazia e l’attenzione a non irritare il governo stiano prevalendo sugli altri aspetti delle attività di un’istituzione chiamata a tutela degli ultimi tra gli ultimi. Che deve essere un punto di riferimento per chi sta in prigione. No alle micro-carceri private di Nordio di Caterina Pozzi* Il Manifesto, 31 luglio 2024 Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) ha espresso forte preoccupazione per il decreto cosiddetto “svuota-carceri”. Lo abbiamo fatto con un documento, sia per l’impostazione del provvedimento, sia per alcuni punti specifici contenuti nel testo. Il Cnca ha esperienza diretta di cosa significhi accogliere persone in misura alternativa alla detenzione: nell’ultima rilevazione quasi 400 persone erano ospitate a questo titolo nelle comunità terapeutiche residenziali della rete. La strada maestra per affrontare il problema del sovraffollamento in carcere è quella di ridurre gli ingressi nelle strutture detentive e limitarne i tempi. Un risultato che si raggiunge con una decisa azione di depenalizzazione e di ricorso esteso alle misure alternative alla detenzione. Non è più tollerabile che tensioni e problemi sociali vengano affrontati creando nuovi reati, aumentando le pene e limitando il ricorso alle misure alternative, come anche questo governo sta facendo fin dalla sua costituzione. Allarma l’art. 8 del decreto, in cui è prevista l’istituzione presso il ministero della Giustizia di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale delle persone detenute adulte. Queste strutture dovrebbero garantire servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti residenti, compresi quelli con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico. Ci domandiamo a quali tipologie di strutture si stia facendo riferimento. Per le persone con problematiche di dipendenza o di salute mentale sono previsti, infatti, servizi specifici nella rete del Sistema sanitario nazionale pubblico, e quando questi servizi sono offerti da “comunità” a gestione privata sono previsti processi di accreditamento delle stesse che prevedono requisiti strutturali e di personale dettati da normative regionali. È a queste comunità che il decreto si riferisce o si vogliono creare nuove strutture, fuori dal sistema attuale di accreditamento, riservate solo a persone inserite nel circuito penale e con un numero di ospiti ben superiore a quello delle strutture oggi esistenti? Sarebbero delle micro carceri private per le persone “tossicodipendenti” e/o con problemi psichiatrici: una soluzione inaccettabile. Una soluzione che non affronta poi i principali problemi per l’accesso in comunità dal carcere: le lungaggini burocratiche derivanti dalle difficoltà di funzionamento degli organi della giustizia e la mancanza di fondi. Andrebbero semplificate e velocizzate le procedure (i tempi di attesa per una camera di consiglio possono arrivare a 12 mesi) e andrebbe consentito l’ingresso anche per coloro che sono in attesa di giudizio. In alcune zone del paese poi, le comunità si trovano con capacità di intervento non sfruttate per le limitazioni degli invii da parte del sistema sanitario regionale, che non ha fondi per coprire le rette. Sarebbe opportuno sostenere anche altre soluzioni come le diverse forme di housing sociale che numerose organizzazioni del CNCA stanno sperimentando in tutta Italia. È infine paradigmatico come il decreto Nordio preveda un aumento degli agenti penitenziari ma non stabilisca nulla per l’endemica mancanza di personale dedicato alle aree educative trattamentali degli istituti di pena. Così, sempre più spesso, le persone ristrette arrivano a fine pena senza che sia stata redatta la Relazione necessaria per la richiesta al magistrato di sorveglianza delle misure di esecuzione penale esterna. Piuttosto che cercare scorciatoie, spesso senza fondi, si deve quindi investire urgentemente su queste professionalità e rendere efficaci le procedure ordinarie per garantire che le carceri e la pena siano realmente rispettose dei principi costituzionali. *Presidente del Cnca I bimbi e il diritto (negato) al legame affettivo con il genitore detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 luglio 2024 Il Garante regionale dei diritti delle persone detenute della Calabria, l’avvocato Luca Muglia, ha pubblicato innovative linee guida riguardanti i procedimenti di limitazione della responsabilità genitoriale per le persone ristrette in carcere e il diritto dei figli minori a mantenere un legame affettivo continuativo con il genitore detenuto. Questo documento, frutto di un’ampia consultazione con numerose istituzioni e organizzazioni, mira a bilanciare le esigenze di tutela dei detenuti nell’esercizio delle loro funzioni genitoriali con la necessità di proteggere i diritti dei minori, in particolare il loro diritto alla bigenitorialità. Le linee guida, elaborate sotto forma di Raccomandazioni, sono il risultato di un’estesa collaborazione. Muglia ha coinvolto la magistratura minorile e di sorveglianza, gli Ordini degli Avvocati, l’Ordine regionale degli Assistenti sociali, il Centro Giustizia Minorile, l’Uiepe, l’Amministrazione penitenziaria, le associazioni forensi rappresentative, l’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali e la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università IE di Madrid. Ha inoltre collaborato con i Garanti calabresi dei diritti delle persone detenute, il portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali Samuele Ciambriello e il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Una specifica interazione sui contenuti è stata effettuata con Antonio Marziale, Garante per l’Infanzia e l’adolescenza della Regione Calabria. Per quanto riguarda i procedimenti di limitazione della responsabilità genitoriale, le linee guida sottolineano l’importanza di garantire ai detenuti un processo equo e rispettoso dei loro diritti. Si raccomanda di concedere un tempo adeguato tra la notifica dell’avvio del procedimento e la prima udienza, permettendo al detenuto di consultare un legale. Viene inoltre evidenziato il diritto del detenuto di partecipare alle udienze, sia di persona che in videoconferenza, e di essere informato sulla possibilità di accedere al patrocinio a spese dello Stato. Un aspetto particolarmente innovativo riguarda le indagini socio-familiari. Le linee guida raccomandano che queste non si limitino al periodo precedente alla detenzione, ma si estendano anche al periodo di reclusione, fornendo così un quadro più completo e attuale della situazione del genitore detenuto. Si pone inoltre un forte accento sulla necessità di una collaborazione efficace tra le varie istituzioni coinvolte, come l’autorità giudiziaria, il servizio sociale e l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna. Per gli incontri tra genitori detenuti e figli, si raccomanda che questi avvengano in orari compatibili con gli impegni scolastici dei minori e in luoghi adeguatamente attrezzati all’interno degli istituti penitenziari. Il Garante Muglia ha evidenziato come la recente sentenza della Corte Costituzionale sul diritto all’affettività e a colloqui riservati per i detenuti sia applicabile anche a questi incontri, sottolineando l’importanza della privacy e dell’idoneità dei luoghi. Le linee guida pongono anche l’accento sull’importanza di garantire l’accesso a percorsi di sostegno alla genitorialità per i detenuti, riconoscendo che il ruolo genitoriale non cessa con la detenzione. Infine, Muglia ha sottolineato l’importanza degli studi scientifici sull’epigenetica in materia penitenziaria, evidenziando come la qualità dell’interazione genitori- figli nei luoghi di detenzione possa influenzare significativamente sia l’iter rieducativo del detenuto che lo sviluppo dei minori coinvolti. A questo proposito, l’Ufficio del garante ha avviato una collaborazione con i neuroscienziati calabresi Antonio Cerasa e Umberto Sabatini, e con la docente Federica Coppola dell’Università di Madrid. “Lo sguardo multidisciplinare”, ha concluso Muglia, “è in grado di mostrare, in maniera molto efficace, quanto sia nocivo e devastante il carcere attuale”. Queste linee guida rappresentano quindi non solo un significativo passo avanti nella promozione dei diritti dei detenuti e dei loro figli in Calabria, ma anche un’opportunità per una riflessione più ampia e scientificamente fondata sull’impatto della detenzione sulle relazioni familiari e sul benessere dei minori coinvolti. Decreto Carcere, l’ok in commissione al Senato: oggi si va in Aula, c’è lo scudo della fiducia di Valentina Stella Il Dubbio, 31 luglio 2024 Via libera ieri pomeriggio della commissione Giustizia al Senato al dl Carceri, con il conferimento del mandato per l’aula ai relatori, la presidente della 2a di Palazzo Madama Giulia Bongiorno (Lega) e il senatore Sergio Rastrelli (Fratelli d’Italia). Il dl Carceri è ancora in prima lettura al Senato e va convertito in legge entro il 2 settembre. Oggi arriverà nell’aula di Palazzo Madama ma è probabile che l’Esecutivo ponga la questione di fiducia che verrebbe votata nella giornata di domani. Le opposizioni (Pd, Iv, M5s e Avs), presenti con i soli capigruppo di Commissione, non hanno partecipato al voto in segno di protesta per l’impianto dell’intero provvedimento e si sono riservate di ripresentare la quasi totalità degli emendamenti, respinti in commissione, in sede di discussione in Aula. Gli altri componenti di minoranza della commissione hanno disertato la seduta. “Ci voleva un po’ di coraggio per affrontare di petto la situazione di emergenza che c’è nelle carceri. Coraggio perché parlare di detenuti e carceri non porta voti. Loro hanno mostrato scarso coraggio. Anzi, anche un po’ di vigliaccheria” : questo il duro commento del capogruppo del Pd in commissione Giustizia del Senato Alfredo Bazoli. A lui si è aggiunto la senatrice Ada Lopreiato, capogruppo M5s in commissione Giustizia: “Per questo voto sul mandato al relatore le opposizioni sono presenti solo con i capigruppo e solamente per ribadire tutto il nostro sconcerto per come la maggioranza e il governo hanno condotto i lavori su questo decreto carceri. Il governo ci ha presentato un provvedimento sostanzialmente vuoto, inutile per affrontare una situazione tanto critica come quella degli istituti penitenziari. A quel punto il ruolo delle forze politiche parlamentari è quello di proporre modifiche e integrazioni, cosa che abbiamo fatto ma lì si è iniziato male perché ci è stato concesso poco tempo. Ancora peggiore il prosieguo dei lavori: il governo ha riscritto il suo testo vuoto e lì il centrodestra ha chiuso ogni spazio per le ulteriori proposte delle opposizioni e dato parere contrario a ogni emendamento delle minoranze”. Critico anche il capogruppo di Italia Viva in Commissione, Ivan Scalfarotto: “Dopo aver fatto questo decreto che non fa nulla per il sovraffollamento, con 61 suicidi dall’inizio dell’anno, FI annuncia ora che andrà a visitare le carceri? Forse avrebbe dovuto andarci prima di fare questo decreto. Questo - ha aggiunto - è un decreto che non risolve nulla, che lascia così com’è la situazione nelle carceri e questo è intollerabile in particolare in questi giorni con questo caldo”. Il riferimento è al fatto che stamattina alle 10, il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani, visiterà il carcere di Paliano, in provincia di Frosinone. È il primo appuntamento di “Estate in carcere”, una serie di visite negli istituti di pena, organizzato insieme al Partito radicale, in tutta Italia da parte di parlamentari, eurodeputati, consiglieri regionali, amministratori e militanti, per verificare le condizioni dei detenuti e confrontarsi con dirigenti, operatori, agenti di Polizia penitenziaria e magistrati di sorveglianza. A rivendicare invece l’utilità e l’importanza del provvedimento il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari: “Dopo anni di chiacchiere finalmente una riforma strutturale del sistema carceri. Più lavoro, più misure alternative per chi se le merita, no a sconti di pena indiscriminati che offendono le vittime e non assolvono ad alcuna funzione rieducativa”. Intanto però ieri c’è stato il 61esimo suicidio in carcere. “Si è impiccato stamattina (ieri, ndr) nella sua cella del reparto isolamento della Casa Circondariale di Rieti, dov’era stato condotto a seguito di alcuni disordini avvenuti ieri, il 61esimo detenuto suicida in quelle che ormai sono vere e proprie carceri della morte. A nulla sono valsi i soccorsi. A questi decessi bisogna poi aggiungere i 6 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita”. Lo ha reso noto Gennarino De Fazio, segretario Generale della UilPa Polizia penitenziaria. “Io il conto non lo tengo più: sono comunque troppi e (quasi) ogni giorno uno di più. Oggi (ieri, ndr) nel carcere di Rieti si è tolto la vita un ragazzo di venticinque anni, in attesa di giudizio, in isolamento. Ogni caso è un caso a sé, ma tutti insieme sono l’indice della crisi di un sistema che non riesce a garantire i principi costituzionali di umanità nella detenzione e di sostegno al reinserimento sociale dei condannati”: questo il commento amaro del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Ddl Sicurezza, di corsa verso l’approvazione di Luciana Cimino Il Manifesto, 31 luglio 2024 La volontà della maggioranza di chiudere i provvedimenti più discussi prima dello stop estivo ha dato un’accelerazione anche al ddl Sicurezza. Il centro destra vuole concludere l’esame nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera per garantire l’approdo in Aula nella prossima settimana. Il provvedimento, a quanto sembra, conterrà anche la stretta sulla cannabis light proposta dal governo con un emendamento. Ma in discussione c’è anche la proposta della Lega sulla castrazione chimica per gli stupratori e quella che prevede l’introduzione del reato di “integralismo islamico” con il carcere fino a 6 anni. Ci saranno inoltre la norma ribattezzata anti-Ghandi che prevede il carcere fino a un mese per chi blocca una strada o una ferrovia con l’aggravante del reato di resistenza a pubblico ufficiale nel caso in cui la protesta punti a impedire la realizzazione di un’opera pubblica, la norma anti No Ponte e Tav. Attesa infine la proposta del governo sulle bodycam alle forze di polizia oggetto di emendamenti sia della Lega che del Pd. Una prova di forza che non è piaciuta all’opposizione: “Il ddl contiene norme sbagliate e pericolose, la maggioranza dovrebbe fermarsi, non accelerare” dicono i dem. Anche il Movimento 5 Stelle fa appello al centrodestra “per scongiurare accelerazioni arbitrarie, ci opporremo ad ogni forma di compressione degli spazi di dibattito”. Mentre il capogruppo in commissione Affari Costituzionali di Avs, Filiberto Zaratti insiste sui i contenuti del provvedimento “che oscillano tra il razzismo e la fobia securitaria”. Ma tensioni si registrano anche all’interno della maggioranza con Forza Italia irritata per la questione delle detenute madri. Gli azzurri hanno annunciato che presenteranno per l’Aula emendamenti per il ripristino della misura. Sciascia, la galera e le giraffe di Riccardo De Vito Il Manifesto, 31 luglio 2024 Mentre la contabilità della morte in carcere arriva a quota 61 e un decreto interviene d’urgenza, senza neppure nominare il sovraffollamento e soltanto per complicare le procedure per la concessione dei famosi giorni di liberazione anticipata, si torna a discutere della proposta di legge Sciascia-Tortora. Di cosa si tratta è presto detto: il nucleo dell’iniziativa prevede che i magistrati ordinari in tirocinio svolgano un periodo non inferiore a quindici giorni di esperienza formativa in carcere, comprensivo di pernottamento in casa circondariale o di reclusione. Solo d’acchito il tema può sembrare eccentrico rispetto all’emergenza. A un’analisi più attenta, al contrario, costringe a porsi una domanda essenziale: conosciamo davvero il carcere? Sappiamo come funziona e come possiamo migliorarlo? Lo sanno i giudici? Il senso della proposta di legge, sviluppata da un’idea che Leonardo Sciascia lanciò sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 - un mese e qualche giorno dopo l’arresto di Enzo Tortora - è quello di aumentare il bagaglio di conoscenza diretta dell’esperienza detentiva da parte dei magistrati. Siamo chiari: è comprensibile che quasi tutti i settori della magistratura l’abbiano presa male, invocando un malcelato intento punitivo e un senso di sfiducia nei confronti dell’autorità giudiziaria. Quindici giorni, in effetti, sono tanti e la proposta del pernottamento rischia di essere controproducente: vero che il carcere la notte è diverso dal giorno, ma la presenza di un osservatore qualificato e prestigioso - un magistrato in tirocinio non viene ignorato, prima di tutto dall’amministrazione - rischia di modificare la realtà osservata, soprattutto quando quest’ultima è adusa a imbellettarsi quando sente gli occhi addosso. Tuttavia, la proposta di legge pone sul tavolo una verità necessaria: solo trascorrendo tempo dentro il carcere se ne possono capire i meccanismi, non basta una visita, per quanto bene organizzata. Immergersi per un lasso di tempo ampio nel penitenziario - sono forse sufficienti i tre giorni a cui pensava Sciascia, magari prevedendo una presenza in ore serali- significa comprendere tutto quello che viene prima e dopo i messaggi normativi veicolati dall’ordinamento penitenziario e dai provvedimenti giudiziari. Sono quel prima e quel dopo che costruiscono la vera realtà del carcere: burocrazia meccanica, capovolgimento dell’ordine delle fonti del diritto (una circolare vale più della Costituzione), relazioni tra custodi e custoditi e tra custoditi stessi, isolamento dalla società. È solo vivendo il carcere che si può imparare a leggerlo, è solo conoscendo questi dispositivi informali, che sono la roccia madre dell’esperienza detentiva, che si può capire e riflettere sulla latente resistenza dell’istituzione totale a ogni intervento dall’esterno, che sia in materia di metri quadri, di ore d’aria odi affettività. La perdurante inattuazione della sentenza della Corte costituzionale in materia di sessualità è un esempio di questa sottrazione al messaggio normativo, di questa lotta tra il riconoscimento dei diritti e la pretesa di autonormazione da parte dell’istituzione carceraria. A volte, nella rincorsa tra diritti e organizzazione della vita detentiva, sembra di assistere a una gara simile a quella che, in natura, le piante di acacia ingaggiano con le giraffe, ghiotte delle loro foglie. Gli arbusti hanno imparato a tutelarsi dalla fame degli animali: dapprima la crescita di spine, ma le giraffe hanno sviluppato lingue sottili e dure; poi c’è l’emissione di una sostanza velenosa che, oltre a rendere indigesta la foglia attaccata, avverte le altre piante circostanti, ma le giraffe hanno imparato a mangiare veloci e sopravento. E così via. Questa lotta, comprensibile in natura, è ingiustificabile nelle realtà sociali, soprattutto quelle più estreme. Una migliore conoscenza della realtà penitenziaria dunque, potrebbe favorire una minor astrattezza cognitiva del magistrato e una riduzione della pretesa di isolamento e separatezza dell’istituzione totale. Una convergenza tra amministrazione, politica e giurisdizione indispensabile a un reale miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Proposta paradossale: qualche giorno di carcere obbligatorio per i magistrati tirocinanti di Guido Vitiello Il Foglio, 31 luglio 2024 È il contenuto della proposta di legge Sciascia-Tortora. Da firmare e rifirmare mille volte, anche se poggia su un fondamento contraddittorio: che il carcere possa in fin dei conti rendere migliore chicchessia. Nei giorni più infami del nostro sistema carcerario, mentre sale il conteggio dei suicidi e Rita Bernardini valuta uno sciopero totale della fame e della sete, mi domando a che punto sia la proposta di legge Sciascia-Tortora, di cui fui a maggio uno dei primi firmatari. Non perché mi illuda che possa essere approvata, beninteso: solo perché mi sembra utile parlarne. La proposta prevede per i magistrati in tirocinio l’obbligo di passare quindici giorni in carcere. A rigore, la legge è composta da un dodicesimo di Tortora (che nel libro “Cara Italia ti scrivo” proponeva sei mesi di prigione per i futuri magistrati) e dal quintuplo di Sciascia, che in un articolo sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 (poi raccolto in “A futura memoria”) si accontentava di tre giorni in galera. La ratio, per entrambi, era la stessa: così un magistrato ci penserà due volte prima di spiccare un mandato di cattura o stilare una sentenza. Rifirmerei mille volte la proposta di legge, anche se mi sembra poggiare su un fondamento contraddittorio: che il carcere possa in fin dei conti rendere migliore chicchessia, foss’anche un tirocinante. La cosa buffa è che questo paradosso mi è balenato mentre cercavo la fonte del passo di Sciascia, sfogliando gli atti di un seminario dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, “Giustizia come ossessione” (La Vita Felice, 2005). Mentre ne setacciavo le pagine, infatti, gli occhi mi sono caduti su quest’altra frase: “La pena rieducativa è un ossimoro, come dire ghiaccio bollente o gelido fuoco”. La firma era di Carlo Nordio. Lazio. Allarme carceri: a Rieti un altro suicidio in isolamento, proteste in diversi istituti di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 31 luglio 2024 Gli avvocati a Mattarella: “Autorizzare le uscite”. Il detenuto, di 25 anni, era stato coinvolto nelle recenti proteste. Altre manifestazioni di protesta a Regina Coeli, Rebibbia, Velletri e a Frosinone. Oggi l’incontro fra sindacati della Penitenziaria e vertici del Dap. Rivolta dei detenuti scoppiata in mattinata e proseguita per ore nella Casa Circondariale di Regina Coeli, a Roma. All’origine dei disordini ci sarebbe una perquisizione da parte della Polizia Penitenziaria come racconta fuori dal carcere di Trastevere un detenuto che ha il permesso di uscire per fare pulizie nei dintorni. “Stamattina le guardie hanno fatto una perquisizione e hanno trovato un sacco di roba: droga, grappa, telefonini, ferri di finestre e letti spaccati”, racconta l’uomo. “Quando hanno trovato questa roba qui, (i detenuti ndr) hanno fatto il casino. Stavano aggredendo le nostre guardie che non ce la facevano e ne hanno chiamate altre. Io da fuori ho sentito solo le urla, poi sono entrato per pranzo e ho visto tutto allagato e spaccato”. Aveva preso parte ai disordini di qualche giorno fa nel carcere di Rieti e per questo motivo era stato ristretto in isolamento. Ma poche ore dopo si è tolto la vita, impiccandosi in cella. È un ragazzo di 25 anni, in attesa di giudizio, l’ultimo detenuto suicida dietro le sbarre. Sono otto nel Lazio, 61 in Italia dall’inizio del 2024. Nei penitenziari della Regione la situazione rimane molto tesa. Ci sono state proteste a Regina Coeli, Rebibbia, Velletri, Frosinone e appunto Rieti. In molti casi i reclusi si sono rifiutati di far rientro nelle loro celle dall’ora d’aria in segno di protesta. Fra i motivi del malcontento, sfociato in episodi di violenza e danneggiamenti, il sovraffollamento e le precarie condizioni di detenzione. Alle quali si aggiungono anche le prese di posizione dei sindacati della polizia penitenziaria. “Condizioni disumane di sovraffollamento” - Gli avvocati romani, con il presidente dell’Ordine di Roma Paolo Nesta, hanno scritto al capo dello Stato Sergio Mattarella per sottolineare “le drammatiche condizioni delle persone private della libertà personale ristrette nei 14 istituti penitenziari del Lazio. Noi avvocati siamo diretti testimoni di questa intollerabile situazione di illegalità diffusa che costringe i detenuti a resistere in condizioni disumane di sovraffollamento e spesso in assenza di servizi minimi e indispensabili: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nesta ha chiesto al Presidente Mattarella di “sensibilizzare le forze politiche sull’urgenza di introdurre quelle norme necessarie per fermare questa drammatica emergenza, incompatibile con uno stato di diritto quale è il nostro. È incomprensibile l’ennesimo rinvio in Parlamento della proposta di liberazione anticipata speciale, in assenza di alcuna altra soluzione contro il sovraffollamento”. Quasi 1.500 detenuti in più reclusi in 14 istituti nel Lazio - Un grido d’allarme lanciato ancora una volta anche dal Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa per il quale i suicidi “sono l’indice della crisi di un sistema che non riesce a garantire i principi costituzionali di umanità nella detenzione e di sostegno al reinserimento sociale dei condannati”. Oggi il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Russo ha convocato le sigle sindacali degli agenti per fare il punto su quello che sta accadendo nel Lazio e in Italia, dove lo scenario sembra peggiorare giorno dopo giorno. Fra queste la Fns Cisl, il Sappe e l’Uilpa. Il sovraffollamento nel Lazio è di 1.498 detenuti (6.779 reclusi su 5.281 posti disponibili) con una carenza di 930 operatori della Penitenziaria. Una dozzina gli episodi di violenza, con occupazioni e incendi dolosi, a Rieti anche un breve sequestro di due agenti da parte di un detenuto e a Velletri l’irruzione delle forze dell’ordine dopo il fallimento delle trattative fra i rivoltosi e i vertici dell’istituto penitenziario. Firenze. I Radicali a Sollicciano: “È una tortura di Stato, denunciamo il ministro” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 31 luglio 2024 Clamorosa iniziativa dei Radicali che denunciano il ministro Nordio, per “tortura” a Sollicciano. Oggi un minuto di silenzio in Rettorato a Firenze per l’emergenza carceri. “Andrò al comando dei carabinieri per denunciare il ministro della Giustizia Carlo Nordio, affinché siano accertate le sue responsabilità penali per il reato di tortura”. Sono le parole del tesoriere dei Radicali italiani, Filippo Blengino, al termine della visita di ieri pomeriggio al carcere di Sollicciano. “È un carcere che non rispetta lo stato di diritto e la Costituzione - ha detto - È una struttura illegale con un sovraffollamento importante, con scarsa igiene, con detenuti che raccontano di volersi togliere la vita e che presentano gambe divorate dagli insetti”. Blengino, che ha visitato il penitenziario insieme al presidente del comitato nazionale dei Radicali, Matteo Giusti, e a Ramon Rosi della direzione nazionale, ha espresso la solidarietà alla direttrice di Sollicciano Antonella Tuoni - sanzionata nei giorni scorsi dal Dap - visto che “lei non ha responsabilità, semmai la responsabilità è del Dap e del ministero”, che effettuano “una tortura di Stato nei confronti dei reclusi”. Secondo Blengino, “il carcere di Sollicciano non è in grado di reinserire e rieducare le persone, è uno dei penitenziari peggiori d’Italia”, dove dentro “fa caldissimo e mancano i ventilatori in molte celle” e dove “dal reparto psichiatrico si sentono sbattere porte in continuazione”, si tratta di un carcere che “è l’emblema del fallimento dello stato di diritto”. Anche un pezzo di città si mobilita per le condizioni del carcere. Per oggi è previsto un minuto di silenzio all’Università di Firenze, voluto dalla rettrice Alessandra Petrucci. Il momento del silenzio sarà alle 9, nell’aula magna del Rettorato in piazza San Marco. Si tratta, è stato spiegato dall’Università, di “un segno di partecipazione simbolica che vuole richiamare l’attenzione sulla situazione di emergenza nelle carceri italiane, nuovamente riportata con forza agli occhi di tutti a seguito del suicidio di un giovane detenuto presso la casa circondariale della Dogaia di Prato, dove ha sede il Polo penitenziario universitario dell’Ateneo”. La rettrice ha commentato: “Accanto a quel giovane ci sono tanti altri giovani che non possono essere lasciati soli, ma vanno accompagnati in percorsi di rieducazione dove lo studio gioca un ruolo fondamentale. Quanto sta avvenendo nelle carceri (suicidi, rivolte, aggressioni) richiede la nostra attenzione e il nostro impegno. A nome della comunità universitaria dell’Ateneo fiorentino faccio urgente appello al ministro, al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria perché si intervenga per migliorare le condizioni dei detenuti attraverso percorsi formativi volti al reinserimento sociale, nonché per supportare il personale e tutti coloro che si impegnano quotidianamente nell’amministrazione dei luoghi di pena”. Ed è sempre in programma per oggi l’Audit della Asl per approfondire il suicidio di Fedi, il detenuto tunisino di appena venti anni che si è tolto la vita a Sollicciano lo scorso 4 luglio e la cui salma rientrerà oggi in Tunisia. Roma. Emergenza carceri, gli avvocati scrivono a Mattarella: “Liberazione anticipata subito” Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2024 Il Presidente del Coa Nesta: “Intervenga per sensibilizzare le forze politiche su questa intollerabile situazione di illegalità che costringe i detenuti in condizioni disumane di sovraffollamento”. Emergenza carceri, gli Avvocati romani scrivono al Capo dello Stato per lanciare un grido d’allarme e chiedere un suo intervento diretto affinché stimoli la politica ad intervenire di fronte ad una situazione intollerabile, indegna di un paese civile. I 61 detenuti suicidi dall’inizio dell’anno, le migliaia di atti di autolesionismo, le decine di rivolte, il sovraffollamento con 14 mila reclusi in più rispetto alla capienza degli istituti di pena, rimandano la fotografia di una situazione disastrosa che non può più essere ignorata. “Illustrissimo Signor Presidente della Repubblica - scrive il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma Paolo Nesta - l’Avvocatura romana, da me rappresentata, vive con particolare sofferenza le drammatiche condizioni delle persone private della libertà personale ristrette nelle carceri italiane e in particolare nei 14 istituti penitenziari della Regione Lazio. Noi Avvocati siamo diretti testimoni di questa intollerabile situazione di illegalità diffusa nelle carceri che costringe i detenuti a resistere in condizioni disumane di sovraffollamento e spesso in assenza di servizi minimi e indispensabili”. “Le pene - prosegue la lettera del Presidente del COA Roma - come in maniera cristallina afferma l’articolo 27 della nostra Costituzione, non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Al contrario, purtroppo, oggi siamo costretti ad assistere inermi al grido di dolore che si leva dalle persone detenute e, come ha già autorevolmente detto Lei solo qualche giorno addietro, non c’è bisogno di spendere grandi parole di principio per ricordare le decine di suicidi di detenuti in poco più di sei mesi in quest’anno”. “A nome del Consiglio dell’Ordine da me presieduto e di tutta l’Avvocatura romana ci affidiamo a Lei affinché intervenga per sensibilizzare le forze politiche sull’urgenza di introdurre quelle norme necessarie per fermare questa drammatica emergenza, incompatibile con uno Stato di Diritto quale è il Nostro. Il tempo oramai è scaduto e lo dimostrano i suicidi dei detenuti che ad oggi sono 61 da inizio anno: l’ultimo è di un giovane che a soli 30 anni pochi giorni fa si è tolto la vita nel carcere di Rebibbia. È incomprensibile l’ennesimo rinvio in Parlamento della proposta di liberazione anticipata speciale, in assenza di alcuna altra soluzione contro il sovraffollamento”. “Il carcere disumano e che toglie la speranza ai detenuti non realizza la finalità di reinserimento sociale sancita dalla nostra Costituzione - conclude la sua lettera il Presidente Nesta - al contrario aumenta la recidiva e fa diventare gli istituti penitenziari una fucina di criminalità, perché nessuna restrizione in condizioni disumane rende un uomo migliore. La profonda stima e l’affetto che Ella gode nel nostro ceto rassicura tutti noi del Suo impegno anche in questi giorni feriali, notoriamente i più difficili per le persone private della libertà personale, anche perché sono quelli nei quali si riduce drasticamente il riscontro giudiziario alle istanze individuali, rendendo così ancora più dura la vita dietro le sbarre”. Milano. I detenuti a Opera denunciano pestaggi: “Ci trattano come animali”. La Procura apre un’inchiesta Corriere della Sera, 31 luglio 2024 Il fascicolo, al momento senza indagati, dopo alcune segnalazioni. La lettera di un detenuto a un’amica: “Ieri sera hanno picchiato uno in venti con manganelli e asta di ferro”. La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta, al momento senza titolo di reato e senza indagati, su presunti pestaggi da parte di agenti della polizia penitenziaria nei confronti di detenuti nel carcere di Opera, denunciati dagli stessi carcerati in una lettera anonima e in una stringata segnalazione. Il Procuratore Marcello Viola ha assegnato il fascicolo alle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena, titolari dell’indagine con al centro torture e maltrattamenti su alcuni minorenni in cella al Beccaria, dopo che il Garante per i diritti dei detenuti, Francesco Maisto, gli ha “girato” la missiva scritta a mano e una denuncia di 10 righe con anche il nome della vittima. Nella lettera scritta da un detenuto a un’amica, e in prima battuta finita sul tavolo di Maisto, si denuncia una “violazione totale dei diritti umani. Ci trattano come animali. Non vedo cambiamenti. Ieri sera hanno picchiato uno in venti con manganelli e asta di ferro. Non avrei mai pensato né immaginato una cosa del genere. Vorrei fare dei reclami tramite Antigone. Da otto giorni non vedo un medico e sto molto male. Se va avanti così faccio lo sciopero della fame”. Oltre a questa e alla segnalazione di poche righe su presunte aggressioni, da quanto è stato riferito, ce ne sarebbero altre che dovrebbero arrivare in Procura. Paliano (Fr). Il Ministro Tajani in visita al carcere frosinonetoday.it, 31 luglio 2024 Un’estate di mobilitazione e visite negli istituti di pena in tutta Italia da parte di parlamentari, eurodeputati, consiglieri regionali, amministratori e militanti, per verificare le condizioni dei detenuti e confrontarsi con dirigenti, operatori, agenti di Polizia penitenziaria e magistrati di sorveglianza. Si chiama “Estate in carcere”, ed è la joint venture politica tra Forza Italia e il Partito radicale italiano presentata stamattina dal segretario di Fi e ministro degli Esteri, Antonio Tajani e dal segretario del Partito Radicale, Maurizio Turco, nella sede di Forza Italia di via in Lucina, a Roma. Oltre alle visite, al via mercoledì mattina quando Tajani sarà prima al carcere di Paliano e poi nella Comunità ‘In dialogo’ di Trivigliano, in provincia di Frosinone, ci saranno incontri periodici - e un tavolo permanente di confronto - con i sindacati di Polizia penitenziaria e verrà istituita una sotto commissione nel dipartimento Giustizia di Forza Italia dedicata alle carceri. Inoltre, Fi solleciterà il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, per un veloce rinnovo del contratto collettivo nazionale della Polizia penitenziaria, già in fase avanzata, che prevede 94 milioni di euro per la rivalutazione degli stipendi degli agenti con effetti su pensioni, straordinari e indennità. Questa, ha detto Tajani, “è un’iniziativa che Fi ha deciso di organizzare insieme al Partito radicale italiano per affrontare l’emergenza carceri nel nostro Paese. Aumentano purtroppo i suicidi, l’ultimo ieri a Prato, è un tema che viene affrontato attentamente dal Governo ed era uno dei punti importanti della mia relazione come candidato segretario di Forza Italia, quindi è parte integrante del nostro programma politico il fatto di intervenire sulla situazione carceraria allarmante nel nostro Paese”. Il Governo, ha sottolineato il ministro degli Esteri, “sta cercando di mettervi rimedio ma non è facile, perché c’è un’edilizia carceraria che risale a decine anni fa, c’è una popolazione carceraria molto alta nel Paese e proprio perché gli edifici sono vecchi c’è una condizione di promiscuità e difficoltà che rende difficile il rispetto dei diritti del detenuto. Chi ha sbagliato è giusto che espii la propria colpa, ma non vogliamo che il carcere peggiori la situazione perché deve avere una funzione di rieducazione. Più la condizione è degradata e più è difficile che il carcere possa svolgere questa funzione”. Un altro problema, ha proseguito Tajani, “riguarda la Polizia penitenziaria, che tra le forze dell’ordine è quella con la maggiore percentuale suicidi: dobbiamo porci il tema dei numeri del Corpo e del rinnovo del contratto. Per questo abbiamo anche deciso di sollecitare il ministro Zangrillo perché acceleri i tempi del rinnovo del contratto collettivo, che è già in fase avanzata, e abbiamo trovato grande disponibilità da parte sua”. Durante l’iniziativa, ha aggiunto il ministro ricordando “il valoroso magistrato Rocco Chinnici e tutti i caduti delle forze dell’ordine per mano della mafia”, verranno organizzate “visite nelle carceri con deputati, parlamentari europei e consiglieri regionali, incontreremo detenuti, agenti, direttori, garanti e giudici di sorveglianza. Io visiterò la Comunità In dialogo a Trivigliano in provincia di Frosinone mercoledì mattina dopo aver visitato il carcere di Paliano, dove si punta molto al recupero della persona”. Lodi. “Scarcerato” da un mese perché malato ma resta in cella: non si trova un posto per curarlo di Carlo Catena Il Cittadino, 31 luglio 2024 Il caso di un 49enne lodigiano con gravi problemi psichiatrici, l’avvocato è pronto a fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il pm e il gip del tribunale di Lodi hanno ordinato a inizio luglio di liberare dal carcere di Cremona e di curare in una comunità ad alta intensità di cure psichiatriche un 49enne che è attualmente indagato per rapina e stalking in famiglia, ma Regione Lombardia, a quasi un mese di distanza dal provvedimento della magistratura, non ha ancora trovato un posto libero in una delle apposite comunità. E l’uomo è costretto a rimanere nell’infermeria del carcere, assieme ad altri detenuti colpiti anche da mali incurabili, che vengono disturbati di suoi stati di agitazione. E, anche a detta dei responsabili sanitari della struttura, non fa che peggiorare dal punto di vita mentale, anche perché è alla sua prima esperienza detentiva. L’avvocato Federica Liparoti di Milano, che assiste il 49enne, lancia un appello e spera che dove non è ancora arrivata la burocrazia possa arrivare almeno la politica: “Sono circa 200 in tutta Italia le persone giudicate o sotto indagine che si trovano in queste condizioni, cioè di essere ritenuti non penalmente perseguibili per vizio di mente ma sottoposti a una misura di sicurezza per pericolosità sociale. Non parliamo quindi di grandi numeri cui fare fronte. Basterebbe investire più risorse, per personale e strutture. Nella situazione attuale il mio assistito, che peraltro è ancora in attesa di giudizio, non si vede riconosciuto un percorso di reinserimento e soprattutto di cura, ma è esposto a un continuo pericolo per sé e per gli altri. E so per esperienza che non si può mi parlare di persone “perdute”, perché ho visto che in casi simili i percorsi di cura hanno funzionato. La magistratura lodigiana è stata tempestiva, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria chiede a Regione Lombardia, responsabile per il sistema sanitario, di trovare un posto, ma la disponibilità ad accogliere, sorvegliare e curare con gli specialisti più adeguato quest’uomo ancora non arriva”. Se continueranno a non arrivare risposte, l’avvocato Liparoti solleverà il caso alla Corte europea per i diritti dell’uomo, che già in passato aveva sanzionato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri. Un’emergenza evidenziata in questi mesi a diversi livelli, politici e istituzionali, con il risvolto dell’emergenza dei suicidi dietro le sbarre e con tanto di scioperi degli avvocati penalisti che nella pur piccola Lodi avevano raggiunto un’adesione dell’80 per cento. Prato. “Celle senza docce e temperature roventi. Il periodo è difficile” di Laura Natoli La Nazione, 31 luglio 2024 L’intervento del sindacalista della Cgil Nolè dopo l’ennesima tragedia “In estate il carcere diventa un forno, mancano le scuole e le prospettive di lavoro. Il sistema è completamente fallito”. “Celle con temperature roventi e senza le docce, nonostante una direttiva del 2000 disponesse di adeguarle. Là dentro le difficoltà sono tantissime, non solo per i detenuti ma anche per il personale che ci lavora”. Donato Nolè, coordinatore nazionale Fp Cgil per la polizia penitenziaria, a lungo in forze alla Dogaia, interviene nel dibattito sollevato dopo l’ultimo episodio tragico avvenuto all’interno della casa circondariale di Prato: un giovane detenuto, 27 anni, di origini sinti, si è tolto la vita sabato sera impiccandosi nella cella con le lenzuola. Era il detenuto numero 60 che, a livello nazionale, si è tolto la vita dall’inizio dell’anno dentro a un carcere. Un triste primato che ieri è stato subito superato dal suicidio numero 61, avvenuto a Rieti. “Siamo arrivati a un livello di crisi altissimo - aggiunge Nolè - in tutte le carceri italiane, bisogna che qualcuno se ne renda conto. Come polizia penitenziaria siamo allo stremo”. In merito alla Dogaia, Nolè spiega che si tratta di un carcere di “difficile gestione” in quanto è una struttura complessa formata da circuiti differenti che richiedono attenzioni e trattamenti diversificati. “Non ci sono problemi di blatte o degrado come è stato riscontrato a Sollicciano - dice ancora il sindacalista - il carcere di Prato è molto più pulito. Ci sono altre tipologie di problemi: è un blocco di cemento armato, senza aria condizionata, in questo periodo diventa un forno. Se si fosse dato attuazione alle disposizioni del 2000, almeno i detenuti avrebbero ora la possibilità di farsi la doccia e le ore d’aria sono limitate. In questa stagione i problemi aumentano”. Nolè parla della mancanza, in estate, delle scuole che almeno diventano un momento di “socialità” per i detenuti, anche “per quelli a cui la scuola non interessa” e della mancanza di prospettive, ad esempio, di un lavoro o dell’inserimento in una professione. Le difficoltà sono tante per il personale di polizia penitenziaria: prima fra tutte l’assenza di un direttore titolare e di un comandante titolare, “posti che non interessano più a nessuno, soprattutto quello di comandante che non offre neppure possibilità di carriera”. “Sollicciano ha solo la media sicurezza e un piccolo circuito per i detenuti con problemi psichici. Prato è uno dei carceri più complessi ed è quello che è stato più maltrattato. Ha retto finché non è andato al collasso. Ogni settimana ci sono dieci assegnazioni per ordine e sicurezza da tutta la Toscana. Non ci sono risposte, non ci sono le capacità per portare a eventuale condanna chi organizza rivolte. Servirebbe una strategia diversa per queste persone violente. Resta un senso di impunità che favorisce certi comportamenti”. Secondo il sindacalista, i problemi si elevano in maniera esponenziale anche con i nuovi decreti. “L’ultimo ha aumentato il numero di telefonate per detenuto - spiega - Abbiamo 4 linee per 600 detenuti. Vanno accompagnati, vanno controllati. Non ci sono le risorse per fare una cosa del genere. Le cose prima si fanno e poi si annunciano. Questo crea disagio ai detenuti, li fa arrabbiare”. “Il sistema è fallito. Non c’è più il sistema carcere - conclude -. Il personale di polizia penitenziaria è stremato. Non si riesce a pianificare una serie di interventi. Siamo abbandonati”. Cuneo. Due giorni di tensione e rivolte: “Carceri come polveriere”. Cosa succede al Cerialdo? di Matteo Borgetto La Stampa, 31 luglio 2024 Due giorni di tensioni, rivolte e danneggiamenti al carcere di Cerialdo, dove nella tarda mattinata di ieri i detenuti della prima e quarta sezione hanno distrutto le telecamere di videosorveglianza ed i vetri dei box degli agenti di polizia penitenziaria, devastato le suppellettili e appiccato anche il fuoco. A denunciarlo i sindacati Osapp, Uilpa e Sappe. La protesta sarebbe legata alla mancata autorizzazione su alcune telefonate. “Si sarebbero sentite anche esplosioni - ha spiegato Gennarino De Fazio, segretario generale dell’Uilpa - forse dovute allo scoppio di bombolette da campeggio utilizzate per preparare pasti e vivande. I rivoltosi hanno vandalizzato gli ambienti comuni”. I disordini sono proseguiti per diverse ore: richiamati gli agenti cuneesi liberi dal servizio, è stato necessario attendere rinforzi dei colleghi da altre carceri del Piemonte. Nessuno scontro, né feriti, dopo ore di trattative la situazione è rientrata, “ma la prima sezione detentiva sarebbe diventata inagibile” dicono i sindacati e dopo l’intervento dei vigili del fuoco, 5 detenuti sono stati trasferiti. Già lunedì pomeriggio, nel padiglione Gesso, numerosi detenuti di origine araba si erano contrapposti a italiani e albanesi, pare per il controllo del traffico interno di sostanze illecite e cellulari. “Dopo un’aggressione sulle scale comuni, alcuni reclusi della 2ª sezione sono riusciti a impossessarsi dell’ascensore - dice Leonardo Beneduci, segretario generale Osapp - tentando di salire nella quarta sezione per vendicarsi. Molti detenuti rifiutavano di rientrare in cella e sostavano nei corridoi, allestiti con tavoli e sedie. Grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria e alle sirene dell’allarme generale, la situazione si è placata”. “Le sezioni detentive del padiglione Gesso, inaugurato nel 2011 sono attualmente distrutte - aggiunge Beneduci -: soffitto scoperchiato, centraline automatiche dei cancelli rotti, citofoni elettronici sradicati, piastrelle rotte, muri sporchi e sgretolati, tali da dover dichiarare l’inagibilità”. E conclude: “Da tempo chiediamo al Presidente della Repubblica e alla premier Meloni di dichiarare lo stato di emergenza delle carceri e commissariare il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I vertici devono intervenire con la massima urgenza prima che si verifichino ulteriori violenze tra detenuti, salvaguardando l’incolumità dei poliziotti in servizio”. “Le carceri sono polveriere, le deflagrazioni frequentissime con la polizia inerme e prima vittima del sistema- aggiunge De Fazio - L’apparato rischia di esplodere definitivamente, lasciare macerie e morti. Servono misure emergenziali a effetto tangibile e immediato, non le fantasie del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e le chiacchiere del Governo”. Il segretario generale Sappe, Donato Capece: “Il personale è sempre meno e allo stremo, lavora più di 12 ore al giorno, stiamo vivendo un’estate di fuoco nelle carceri. Necessari provvedimenti immediati, concreti, risolutivi: espulsioni detenuti stranieri, invio tossicodipendenti e psichiatrici in comunità di recupero”. Bergamo. Sospeso il cappellano del carcere. La raccolta firme dei detenuti per farlo tornare di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 31 luglio 2024 Don Luciano portava all’esterno le lettere dei carcerati: le regole violate “a fin di bene”. “Alla cortese attenzione del direttore di codesto istituto; noi tutti detenuti della casa circondariale chiediamo che don Luciano torni tra noi”. Invece, don Luciano Tengattini è stato revocato dal ruolo di cappellano del carcere intitolato al suo predecessore, quel don Fausto Resmini di cui ha colmato il vuoto dopo la drammatica morte per Covid a marzo 2020. E, allo stato, nessuno sa se si tratti di una decisione definitiva o se ci sia margine per un reinserimento, come chiesto dagli ospiti di via Gleno in una lettera scritta in stampatello, su un foglio a quadretti accompagnato dalle firme di ciascuno, suddivise per sezione e numero di cella. In pochissimi non hanno aderito. Proprio lettere scritte da detenuti sono al centro della vicenda, delicata perché intreccia questioni normative, ovviamente prioritarie all’interno di un penitenziario, a ragioni più organizzative e umane, di rapporti costruiti con fatica giorno dopo giorno. Il 19 luglio, mentre stava per accedere alla casa circondariale, a don Tengattini, 58 anni, di Paratico, la polizia penitenziaria ha chiesto di mostrare cosa avesse con sé. Si è scoperto così che stava introducendo tre lettere affidategli da un paio di detenuti. Ha poi spiegato che si era semplicemente prestato ad affrancare i francobolli e aggiungere i codici di avviamento postale, tanto che le missive sono state restituite agli autori. Ma le norme del carcere vietano di portare all’esterno e riportare dentro, senza autorizzazione, lettere o altri oggetti. Perciò, la direttrice Antonina D’Onofrio, subentrata a inizio anno a Teresa Mazzotta, ha deciso per una sospensione o revoca. Non è dato sapere precisamente di cosa si tratti. D’Onofrio, che in queste settimane è assente per un periodo di vacanza, ieri era irraggiungibile anche telefonicamente. Né parla il diretto interessato, al cui silenzio si somma quello dell’altro cappellano, don Dario Acquaroli, mentre il vescovo Francesco Beschi, che sarebbe stato informato giusto prima della partenza per Cuba, sta rientrando in queste ore e non ha ancora avuto modo di occuparsi della cosa. Fatto sta che il cappellano non può più prestare servizio, anche se il suo intento era chiaramente buono. E a molti è tornato in mente don Fausto e il suo tribolare fino all’ultimo per non lasciare mai solo nessuno. Carcere di Bergamo, sospeso il cappellano. La raccolta firme dei detenuti Nel loro appello, i detenuti ricordano l’aiuto morale ma anche economico ricevuto da don Luciano, il sostegno nel riconciliarsi “con le proprie famiglie e i propri figli” e il conforto “che troviamo in lui nel momento del bisogno”. Valentina Lanfranchi, che ogni giorno, domeniche comprese, nella sua veste di garante dei detenuti fa ingresso in via Gleno, ieri ha incontrato due di loro, per altre ragioni, ma anche a lei hanno raccontato della raccolta firme. Ne parlano con familiari, avvocati, volontari. “Non conosco le ragioni che hanno portato al provvedimento - afferma Lanfranchi - ma per me don Luciano è un cappellano molto presente, apprezzato e vicino ai detenuti. L’ho visto quindici giorni fa all’ultima messa e spero si tratti di una sospensione temporanea. Lui, come don Dario, sono i pilastri della vita democratica del carcere”. Sulla stessa linea Gino Gelmi di Carcere e Territorio: “Quella di don Luciano - dice Gelmi - è una figura assolutamente positiva, non capiamo un provvedimento così duro a fronte di una motivazione che non appare così grave. Il suo sbaglio è frutto di un eccesso di disponibilità”. Tutto questo, calato in una realtà durissima. In base al recente dossier dell’associazione Antigone, al 30 giugno le persone in via Gleno erano 575. Con 319 posti regolari, significa un tasso di sovraffollamento superiore al 180% (nel 2023 era 164%), che cozza con la carenza di personale nella polizia penitenziaria e piaghe come quelle della dipendenza da droghe e del disagio psichiatrico, diffuse tra moltissimi detenuti. Da inizio anno, inoltre, a livello nazionale sono state introdotte restrizioni sulla possibilità di uscire dalle celle. Incombe il decreto legislativo del Governo, “ma è inutile e dannoso varare leggi se non si prevedono risorse”, nota Gelmi. L’avvocato Enrico Pelillo, presidente della Camera penale “Roberto Burini”, tocca il tema dei suicidi. Rimini. Con Rete Donna Aps: “Il fuori si costruisce dentro” chiamamicitta.it, 31 luglio 2024 Avviato il progetto dell’Associazione che entra nelle carceri per incontrare il disagio e condividerlo insieme a chi lo vive. “Il fuori si costruisce dentro” è un progetto dell’associazione ReteDonna Aps di Rimini, finanziato e sostenuto dal Comune di Rimini nell’ambito dei Piani di zona 2023/2024 - tavolo inclusione, grazie al quale l’associazione ha avuto la grande opportunità di entrare nelle carceri per incontrare il disagio e condividerlo assieme a chi lo vive. Il progetto si realizza grazie ad una rete di collaborazioni costituita da Ufficio U.E.P.E. Di Rimini e ufficio di direzione della casa circondariale Le Casetti di Rimini. “Considerando il dettato Costituzionale - in particolare l’articolo 27 della Costituzione, ove si legge: ‘Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’ - si legge nella nota. Concepiamo, e vogliamo sensibilizzare a concepire, l’esperienza della carcerazione come un passaggio che abbia davvero la finalità di “rieducare” ad una socialità sana e compiuta tutte le persone che la vivono. In base alla nostra esperienza e formazione riteniamo che quello che le persone sentono e percepiscono al loro interno - a sua volta risultato del contesto di socializzazione in cui sono cresciute e hanno vissuto - condiziona e guida, inevitabilmente, le scelte che esse fanno quotidianamente. Da qui la nostra proposta ai detenuti e/o agli ex detenuti di porre l’accento sul proprio mondo interiore - fatto di emozioni, ascolto del sé corporeo, dialogo interno, immaginazione, memoria, valori - per rileggerlo, decostruirlo e ricostruirlo come percorso di consapevolezza di sé, dei propri errori e limiti, ma anche capacità di comprendere il contesto originario in cui la persona si è formata per trasformarsi. A nostro avviso il “Dentro” inteso come interiorità delle persone si coniuga necessariamente con il Fuori rappresentato dalla vita sociale fuori e all’interno del carcere; una vita che può essere giocata, per quanto possa essere complicato, in maniera diversa, più autentica, guidata da valori che possono essere condivisi con gli altri. L’ingrediente fondamentale del nostro intervento è nella costruzione della relazione con persone private della loro libertà sociale - viene sottolineato nella nota - affinché esse vivano l’esperienza dell’essere in presenza di persone disposte ad ascoltare senza giudizio e a condividere la sofferenza, gravata dal senso di sconfitta personale, per riscoprire insieme la dimensione e l’importanza della socialità. L’obiettivo del nostro lavoro è quello di accompagnare le persone a raggiungere una visione più ampia e differenziata della realtà sociale in cui vivono, capace di consentire di cogliere, nonostante le difficoltà che si possono incontrare nella vita sociale, le opportunità che la Società stessa offre. Si dovrebbe puntare a coniugare il senso di realtà con le proprie aspirazioni e desideri in modo da non percepirsi più solo come una vittima, ma persona capace di dare spazio alla propria autenticità in grado di compiere libere scelte. Questo è il lavoro che ReteDonna sta portando avanti con i detenuti a fine pena dentro al carcere e in un gruppo che si incontra puntualmente da gennaio scorso nella sede dell’associazione stessa. L’occasione è gradita per ringraziare e in particolare per aver autorizzato la nostra presenza all’interno dell’Istituto Penitenziario, la dottoressa Palma Mercurio e la dottoressa Laura Ungaro e tutte ma proprio tutte le persone che si occupano della qualità della realtà del dentro e fuori dal carcere” - conclude la nota. Milano. Detenuti ed ex detenuti in scena con “Extravagare. Rituale di reincanto” di Alberto Lazzari radiolombardia.it, 31 luglio 2024 La compagnia Opera Liquida, fondata dalla regista Ivana Trettel, composta da detenuti ed ex detenuti attori del carcere di Opera, domenica 4 agosto alle ore 21,00 porta sul palco del Castello Sforzesco “Extravagare. Rituale di reincanto”, in collaborazione con la Direzione della Casa di Reclusione Milano Opera, nell’ambito di Milano è Viva - Estate al Castello 2024 del Comune di Milano. Lo spettacolo, scritto da Ivana Trettel ed Alex Sanchez, è una storia poetica e intensa che approfondisce la civiltà della Grande Madre, società non belligerante, in perfetta parità tra i generi, dedita alla ricerca di cultura e bellezza, per ribaltare con forza l’idea di un male insito nella natura umana. Un’installazione che prende vita sul palco è il fulcro della drammaturgia scenica: ispirata all’opera “Grande oggetto pneumatico a dimensione variabile” realizzata a Milano nel 1959 a firma del Gruppo T, nasce dalla collaborazione straordinaria della compagnia con l’artista cinetico Giovanni Anceschi, Compasso d’oro alla carriera 2022, tra i fondatori del Gruppo T. Il “Grande oggetto pneumatico”, che traccia le nuove strade da percorrere, è inserito nelle scenografie di Marina Conti e Ivana Trettel realizzate dai detenuti scenografi. Come nelle precedenti produzioni di Opera Liquida, in questo nuovo progetto sono quindi mescolati linguaggi provenienti da discipline diverse. Nella narrazione della preistorica civiltà, lo spettacolo incontra le danze antiche, in particolare Orissi e Kathakali, che contaminano le partiture fisiche degli attori, restituendo una formalizzazione attenta e viva, grazie alla collaborazione con Mario Barzaghi del Teatro dell’Albero. I costumi, firmati dallo stilista di alta moda Salvatore Vignola, sono realizzati dai detenuti costumisti sotto l’attenta guida di Tommaso Massone. L’allestimento tecnico è a cura di Silvia Laureti con Mario Pinelli e i detenuti tecnici audio luci. Il brano finale dello spettacolo, prodotto all’interno del carcere, è di Brian Storm, detenuto producer. In scena Michel Alvarez, Alessandro Arisio, Alessandro Bazzana, Sohaib Bouimadaghen, Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Babacar Casse, Eleonora Cicconi, Vittorio Mantovani, Nicolae Stoleru. La cura del progetto è affidata a Nicoletta Prevost. “Interrogandoci sull’esistenza dell’umanità, sulle sue vuote e devastanti dinamiche e approfondendo le riflessioni di Aryun Appadurai, di Byung-Chul Han sulla deresponsabilizzazione e la deritualizzazione, abbiamo inaspettatamente incontrato - racconta Ivana Trettel, che firma regia e drammaturgia dello spettacolo - la società della Grande Madre: dimostrazione che l’essere umano ha vissuto per 20.000 anni in armonia con il cosmo. Per mano ci hanno accompagnato Marija Gimbutas, Raine Eisler, Giuditta Pellegrini. E mentre aumentava lo stupore e la gioia per questo affascinante viaggio, un nuovo interrogativo ci ha invaso. Perché molte persone non ne sanno nulla? Perché non studiamo fin dall’infanzia questa straordinaria civiltà? Perché continuiamo a giustificare gli orrori del mondo affermando che è nella natura umana? Ecco, ci opponiamo a questa idea certi della possibilità di Extravagare, di trovare nuove strade, nuove prospettive, anche grazie ad un Rituale di reincanto. Questo l’augurio”. Opera Liquida, fondata e diretta da Ivana Trettel, lavora da dicembre 2008, in colleganza e assenza di giudizio, nella Casa di Reclusione Milano Opera con l’obiettivo della messa in scena di spettacoli originali su temi di rilevanza sociale. Trasforma la faticosità della società liquida, dalle riflessioni di Zygmunt Bauman, in un respiro inaspettato: là dove le mura e i cancelli delineano i confini e le barriere, la liquidità di un’opera assume una caratteristica di assoluta libertà. La creatività è duttile, non conosce frontiere, non si ferma davanti a serrature. Il liquido le attraversa. Dal 2018 fa parte della rete nazionale “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza” promossa da Acri con il contributo di Fondazione Cariplo e altre dieci fondazioni di origine bancaria. Recluso: una chiusura che priva della libertà e un allarme inascoltato di Paolo Fallai Corriere della Sera, 31 luglio 2024 Una storia antica e un presente drammatico: il sovraffollamento fuori controllo e la piaga dei suicidi. C’è molto da scoprire dietro a questa parola, usata oramai quasi sempre per indicare un detenuto nelle carceri o galere. La semplicità apparente. Recluso è un participio passato del verbo recludere (chiudere). Quindi vuol dire semplicemente “rinchiuso”. Ma come ci fa notare il dizionario di Tullio De Mauro quel verbo recludere attestato in italiano nella prima metà XIV secolo ci arriva dal latino recl?d?re che vuol dire “chiudere di nuovo”, perché composto del prefisso re- con valore iterativo e claud?re “chiudere”. Quindi recluso è qualcuno che viene chiuso nuovamente? La lezione latina. Tutto nasce da una fertile radice latina, clau - a cui dobbiamo oltre al verbo claudere, la chiave (clavis) e il chiodo (clavus). Ma anche la clausura (principalmente per le religiose che decidevano di isolarsi in convento) e il chiostro che ci arriva dal claustrum, chiusura che sbarrava l’ingresso. Tutti elementi che indicano una esclusione (sì, anche questa deriva da excludere, chiudere fuori). Per non parlare della claustrofobia, la paura dei luoghi chiusi, della clausola (che dalla chiusura in uno scritto è passata per estensione a indicarne una speciale condizione), l’enclave (che da “chiuso a chiave” è passato a indicare un terreno anche piccolo all’interno di uno stato diverso), o il conclave (che indica la riunione dei cardinali per eleggere il Papa e nasce nel 1268 a Viterbo quando i 17 cardinali chiamati a eleggere il successore di Clemente IV non riuscirono per mille giorni a mettersi d’accordo: furono così “chiusi a chiave” cum clavem, e gli fu razionato il cibo. Alla fine nel 1271 elessero Papa Gregorio X. Collegamenti e sorelle. Nell’aprile 2020, per il sito unaparolaalgiorno.it Salvatore Congiu ha analizzato questo fiorire di collegamenti. Dopo essersi soffermato sul rapporto con la parola tedesca Klausur, che significa “esame scritto” - “perfettamente coerente, persino ovvia nel suo incarnare la natura esclusiva (ex claudere, chiudere fuori) delle prove d’esame scritte, svolte di norma in aule inaccessibili ai profani e sotto il rigido controllo di una commissione esaminatrice” - Congiu esamina “clavicola e caviglia: anche se per vie diverse, entrambe derivano da clavicula (diminutivo di clavis, quindi ‘piccola chiave’); ma il loro legame con la chiave, più che nella forma, sta nella funzione di collegamento che svolgono - la clavicola tra sterno e scapola, la caviglia tra gamba e piede. Un tempo, infatti, in anatomia chiave valeva ‘giuntura, articolazionè”. Torniamo alla reclusione. Fare una storia della reclusione è molto difficile, perché da sempre gli uomini hanno fatto prigionieri e li hanno privati della libertà. Il concetto di reclusione come luogo dove espiare la violazione di una legge è molto recente. In realtà fino a pochi secoli fa per i reati più gravi la norma era la pena di morte e la prigionia era riservata ai debitori. È solo nel 1700 che si cominciano a creare le moderne “case di correzione” (Clemente XI inaugura la prima a Roma nel 1704), ma è con la rivoluzione industriale che dagli Stati uniti all’Europa si costruiscono i penitenziari dove i reclusi, oltre all’isolamento, sono condannati ai lavori forzati. Oggi in Italia. Nel nostro Paese esistono 190 istituti tra case circondariali (che dovrebbero essere destinate ai detenuti in attesa di giudizio) e case di reclusione (per scontare le pene definitive) con una capienza ufficiale (e molto contestata) di 51.234 posti e una presenza effettiva che sfiora le 61500 unità. “4.000 detenuti in più in solo 12 mesi, il livello di sovraffollamento raggiunto nelle carceri italiane è ormai ai livelli di guardia”. A dirlo è Antigone, associazione che dal 1991 si occupa del sistema Penitenziario e penale italiano nel suo ultimo dossier. Il tasso di affollamento è mediamente del 130,4% (al netto dei posti conteggiati dal Ministero della Giustizia ma non realmente disponibili). In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia, il tasso di affollamento è superiore al 150% con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia “Canton Mombello”. Questo significa che ci sono 200 persone detenute laddove ce ne dovrebbero essere 100. Per capire la gravità della situazione si pensi ad una scuola o un ospedale dove ci siano il doppio degli studenti o dei pazienti che le strutture sono in grado di seguire. Il sovraffollamento non risparmia neanche gli istituti penali per minorenni (IPM), che per la prima volta registrano questa problematica. La piaga dei suicidi. Il 2024 si sta caratterizzando anche come l’anno dell’emergenza suicidi. Le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario sono state 58 a luglio 2024. Di questo passo - denuncia il dossier di Antigone - sarà superato il primato negativo registrato nel 2022, quando a fine anno le persone che si suicidarono in carcere furono 85. L’allarme di Mattarella. Durante il tradizionale scambio di auguri con i giornalisti prima della pausa estiva, il Presidente della Repubblica, si è soffermato sull’allarmante situazione nelle carceri, ricordando le decine di suicidi, in poco più dei sei mesi, quest’anno. “Condivido con voi - ha detto Sergio Mattarella - una lettera che ho ricevuto da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Migranti. Richiedenti asilo in gabbia, il Governo ci riprova di Giansandro Merli Il Manifesto, 31 luglio 2024 Lavori in corso per una nuova struttura a Porto Empedocle. Stavolta sarà competente il tribunale di Palermo invece di quello catanese. Amnesty lancia l’allarme: “A Samos, in Grecia, il futuro della detenzione Ue”. Il governo Meloni ci riprova a Porto Empedocle. È qui che vuole detenere i richiedenti asilo, almeno quelli provenienti dai cosiddetti “paesi sicuri”. Ai quali si possono applicare le procedure accelerate di frontiera: un iter più rapido della domanda di protezione, perché con meno garanzie e diritti, che secondo il decreto Cutro dovrebbe svolgersi dietro le sbarre. Il primo tentativo di introdurre questa nuova forma di privazione della libertà personale, che anticipa il dettato del Patto europeo su migrazione e asilo, risale allo scorso anno. In quell’occasione andò a sbattere contro 19 ordinanze del tribunale di Catania relative al centro di Modica-Pozzallo, in provincia di Ragusa. Disapplicarono la norma nazionale ritenendola in contrasto con quella comunitaria. Ad aprire le danze delle non convalide dei trattenimenti fu la giudice Iolanda Apostolico, alla fine del settembre 2023. Le sue decisioni mandarono su tutte le furie l’esecutivo e contro di lei partì una campagna denigratoria. Eppure quando a gennaio la vicenda è finita davanti alle Sezioni unite della Cassazione, in seguito ai ricorsi del Viminale, i massimi giudici italiani hanno scelto di passare la palla alla Corte di giustizia dell’Ue chiedendo di verificare la legittimità della garanzia finanziaria che i richiedenti asilo dovrebbero versare per evitare la detenzione. A marzo il tribunale di Lussemburgo ha deciso che non c’erano ragioni per trattare il caso come urgente. La decisione, dunque, non sarebbe arrivata prima di un anno e mezzo o due, rischiando di paralizzare la strategia governativa in Sicilia e soprattutto in Albania, dove i trattenimenti si baseranno sulla stessa norma. Così a giugno il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è intervenuto con un altro decreto per modificare la fideiussione e provare a smarcare l’ostacolo della Corte Ue: ora è previsto un importo variabile da 2.500 a 5mila euro (originariamente era fisso sulla cifra più alta) e una valutazione giurisdizionale caso per caso. Vedremo se sarà sufficiente per archiviare le perplessità della magistratura italiana. Sui centri in Albania - la cui apertura è programmata per il 10 agosto, tanto che ieri il sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano ha detto: “stanno per diventare operativi” - è competente il tribunale di Roma, dove ai giudici della sezione specializzata hanno precettato le ferie agostane. Su quello in Sicilia, invece, le decisioni non toccheranno più a Catania ma a Palermo: Porto Empedocle è in provincia di Agrigento ma in quel tribunale non c’è una sezione immigrazione. Lo spostamento 160 chilometri più a est della struttura di detenzione dei richiedenti asilo ha poco di casuale. Il Viminale vorrebbe partire a strettissimo giro ma la notizia sembra sia stata comunicata tardi al tribunale del capoluogo di Regione, che non si è potuto organizzare per far fronte a un simile impegno nel mese centrale dell’estate. Così i casi rischierebbero di finire davanti ai magistrati delle altre sezioni che vengono “prestati” per le emergenze, con esiti incerti. Strada facendo si capirà quali priorità prevarranno nel dettare le tempistiche. Intanto ieri Amnesty International ha acceso i riflettori su un altro Centro di detenzione in cui i richiedenti asilo sono privati sistematicamente della libertà personale: quello di Samos, isola greca situata a due chilometri dalle coste turche. È stato aperto nel 2021 dopo l’incendio del campo profughi di Moria, nella vicina Lesbo, grazie a una parte dei 276 milioni stanziati dalla Commissione Ue per garantire, almeno nelle promesse, migliori condizioni in diversi centri multi-uso. A Samos, invece, sono state registrate pericolose situazioni di sovraffollamento. Soprattutto tra giugno 2023 e gennaio 2024, riporta il report dell’ong, quando con l’aumento degli arrivi sono state recluse fino a 4.850 persone a fronte di una capienza di meno della metà. Recentemente è stata portata a 3.650 posti ma senza incrementare gli alloggi. “Un incubo distopico: un campo altamente sorvegliato, privo dei servizi più basilari”, denuncia Amnesty. Al suo interno le persone dovrebbero restare massimo 25 giorni, come previsto dalle procedure accelerate di frontiera, ma a volte il limite viene superato e comunque il trattenimento è disposto “senza considerare le circostanze individuali, in violazione del diritto e degli standard internazionali, che stabiliscono che la detenzione a fini esclusivamente migratori è consentita solo in circostanze eccezionali”. Per Deprose Muchena, direttore della divisione Impatto sui diritti umani di Amnesty International, Samos rappresenta “una finestra sul futuro del Patto Ue su migrazione e asilo”. Il pacchetto di norme che rivoluzionerà l’architettura delle politiche migratorie comunitarie è stato approvato alla fine della scorsa legislatura e ha avviato la trasformazione dell’”Europa-fortezza” in “Europa-prigione”. Un percorso che Ursula von der Leyen, alla vigilia del voto per la sua rielezione a presidente della Commissione, ha annunciato con una lettera di voler continuare. Obiettivo: rassicurare le destre estreme. Migranti. Una cartolina per Maysoon Majidi di Concita De Gregorio La Repubblica, 31 luglio 2024 Seguo ogni giorno dai canali social di Luigi Manconi e dell’associazione A buon diritto l’incredibile vicenda di Maysoon Majidi e Marjan Kamali, due giovani donne iraniane arrivate in Italia nel 2003, in fuga dalla repubblica islamica in quanto attiviste del movimento “Donna vita libertà” esploso dopo la morte di Masha Amini, uccisa per aver indossato male lo hijab. Una, Marjan Kamali, si trova agli arresti domiciliari mentre l’altra, Maysoon Majidi, è reclusa in carcere a Reggio Calabria. Non sta bene, pesa 38 chili. Le è stata di recente rifiutata una visita psicologica. Non vedo tappeti rossi e abbracci istituzionali, non vedo apprensione di Stato né sento una parola, da parte del governo e della presidente del Consiglio. Diversamente da quel che è accaduto con Chico Forti, condannato per omicidio. Le due giovani donne sono accusate di essere scafiste, in attesa di giudizio: due persone che viaggiavano con loro nella stessa barca con cui sono arrivate a Crotone le hanno accusate. Hanno poi ritrattato, quando i familiari di Maysoon e la stampa hanno chiesto ulteriori spiegazioni, ma la loro prima versione - poi modificata - è bastata a farla chiudere in prigione. Majidi è un’attivista per i diritti delle donne, artista e regista, perseguitata dal regime iraniano da cui è fuggita, considerata nemica politica. Quando è arrivata a Crotone credeva di essere in salvo. L’hanno incarcerata prima a Castrovillari poi a Reggio Calabria, dove si trova tuttora. L’altro ieri è stato il suo ventottesimo compleanno. Ieri Manconi ha pubblicato sui suoi social una cartolina disegnata da Mauro Biani che ritrae il suo volto e scrive “salviamola dagli ayatollah e dai nostri errori”. “Si è ribellata, inseguita, fuggita. Arrivata in Italia è stata arrestata”. L’invito è a scriverle, raggiungerla con lettere e telegrammi perché sappia di non essere sola. Perché senta che fuori da quelle mura c’è chi si ricorda di lei. Copio qui l’indirizzo. Maysoon Majidi, c/o casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, via del Carcere nuovo 15, 89133, Reggio Calabria. Si può anche inviare allo stesso recapito un telegramma, chiamando il numero 067797777. Io l’ho appena fatto. Migranti. Sono ripresi gli sbarchi: cinque morti al giorno nel cimitero del Mediterraneo di Alessia Candito La Repubblica, 31 luglio 2024 Con buona pace degli annunci del governo di Meloni, che ha giustificato la nuova stretta su accoglienza e soccorsi per contrastare le morti in mare, violenze, violazioni dei diritti umani, intercettazioni, naufragi rimangono cronaca quotidiana. Novecento diciotto morti accertate lungo la rotta del Mediterraneo centrale da gennaio a oggi, 1095 se si calcolano anche le direttrici est e ovest, 5 persone al giorno che muoiono tentando la traversata, 62 bambini che adulti non lo diventeranno mai, più di 38mila naufraghi respinti in Libia o Tunisia, in un nuovo girone infernale di detenzioni arbitrarie, torture a scopo di estorsione, deportazioni nel deserto, stupri. Al largo di lettini e ombrelloni, di aperitivi al tramonto e djset in spiaggia continua a esserci un cimitero. Con buona pace degli annunci del governo di Giorgia Meloni, che ha giustificato la nuova stretta su accoglienza e soccorsi in nome della “lotta ai trafficanti lungo tutto l’orbe terracqueo” per contrastare le morti in mare, nel Mediterraneo violenze, violazioni dei diritti umani, intercettazioni, naufragi rimangono cronaca quotidiana. E se gli arrivi sono diminuiti quasi del 70 per cento, lo stesso non è successo per morti e violenze. Lo racconta chi arriva, più di 400 negli ultimi giorni sono stati soccorsi nei pressi di Lampedusa. “Molti - dice Francesca di Mediterranean Hope, il programma migranti della Federazione italiana chiese evangeliche - sono tunisini, iniziano a vedersi anche algerini e marocchini”. Cocci di Nordafrica trasformato in gendarme d’Europa, a dispetto delle denunce di agenzie internazionali come Amnesty International, che nel suo ultimo rapporto punta il dito contro la Tunisia dove, con le presidenziali alle porte, arresti e violenze contro gli oppositori politici, come contro i migranti subsahariani deportati nel deserto o venduti ai libici, sono aumentate. “Indifferenti al diritto internazionale - ha tuonato la segretaria generale di Amnesty Agnès Callamard - l’Ue e i suoi Stati membri hanno vergognosamente concesso una patina di legittimità alla repressione di questo governo in nome dell’esternalizzazione delle frontiere e dell’antiterrorismo”. Ishtar, nome di fantasia che lui stesso ha scelto quando ha raccontato la sua storia ai soccorritori di Humanity1, è una delle vittime. È partito dal Burkina Faso, ha attraversato il deserto fino ad arrivare in Tunisia per tentare la traversata. “Il motore non era abbastanza potente, non avevamo carburante. La Guardia Costiera ci ha trovati e siamo stati deportati in Libia, in un centro di detenzione. Lì siamo stati torturati e minacciati. Abbiamo dovuto pagare tremila dinari per ottenere la liberazione”. E ripiombare in un quotidiano di violenza, schiavitù, minacce, sfruttamento. “Attraversare il mare è l’unico modo per sopravvivere”. Ne erano certi anche i 156 che Sea Watch ha dovuto accompagnare fino a La Spezia prima di poterli far sbarcare. “Si fosse trattato di cittadini bianchi europei, le autorità avrebbero fatto di tutto per garantire loro il diritto a un porto vicino, senza inutili viaggi a nord”. Ma la strategia dei porti lontani, insieme all’obbligo ad un unico soccorso, è stata una delle prime armi del governo per mettere le ganasce alla flotta civile, allontanarla dall’area operativa, moltiplicare i costi di ogni missione, svuotare il Mediterraneo. Nel mare senza soccorritori e testimoni, repressione e morti aumentano. E non di tutti i naufragi si ha notizia. Di alcuni si sa solo perché un corpo affiora in mezzo alle onde. Tredici li ha individuati a inizio giugno Sea Bird, l’aereo di Sea Watch che continua a volare a dispetto dell’ordinanza con cui Enac che ha tentato di lasciarlo a terra a colpi di multe. “Questo è il risultato delle politiche dell’Italia e dell’Ue, che non solo portano all’aumento di morti e naufragi, ma puntano a far crescere i respingimenti - dice Luca Marelli di Sea Watch - Di recente è stata istituita la Sar tunisina, con cui l’Italia cerca di riprodurre quello che è stato fatto in Libia: istituzionalizzare un’area in cui le motovedette possano intercettare le persone e riportarle nel Paese da cui stavano fuggendo. Una violazione palese del diritto internazionale”. Solo nell’ultimo mese Sea Bird ne ha documentate tredici. In un caso, la Guardia costiera libica è persino salita a bordo di un mercantile che aveva soccorso dei naufraghi, bastonati pur di costringerli a salire sulla loro motovedetta. “Questo dimostra un elemento fondamentale delle politiche dell’Ue e dell’Italia: senza la violenza non sarebbero applicabili”. Ne fanno le spese anche le navi ong, più volte attaccate da uomini armati, o minacciate durante i soccorsi. Ma soprattutto è prezzo che paga chi cerca nel mare una via per salvarsi. “Ormai difficilmente soccorriamo persone che stiano affrontando per la prima volta la traversata. La maggior parte - dice Juan Matias Gil di Medici senza frontiere - hanno alle spalle cinque o sei tentativi”.E sempre di più, sono ragazzini che viaggiano da soli. Nel 2023, il 75 per cento dei minori hanno affrontato la traversata senza un adulto accanto. Alì, salvato nei mesi scorsi da Ocean Viking, ha appena 8 anni. Partito dal Mali, ha attraversato il deserto fino ad arrivare in Libia. “Dormivo per strada, spesso mi picchiavano perché sono nero”. L’essere così piccolo non lo ha salvato dalla detenzione nel lager di Ain Zara. Solo grazie alla pietà di due adulti è riuscito a scappare e salire su un gommone sgonfio. E solo dopo essere stato soccorso, ha scoperto cosa voglia dire essere un bambino, passare il tempo a disegnare. Migranti. “Ingenuamente avevo immaginato la tortura come una pratica lontana da me nel tempo e nello spazio” di Stefania Pagliazzo La Repubblica, 31 luglio 2024 Mi chiedono spesso, soprattutto colleghi, come faccio a mettere insieme il mio lavoro di psicoterapeuta con il mio attivismo politico. Io rispondo sempre: “Ma come fate voi a non farlo?”. Da più di dieci anni mi occupo di clinica, cura e accoglienza di migranti in transito, più o meno, forzato dalla Sicilia. Utilizzo le parole “transito forzato dalla Sicilia” perché solitamente siamo abituati a pensare che sia la partenza dai Paesi di origine ad essere forzata ma, nella maggior parte dei casi, lo è anche l’approdo. Un numero notevole delle persone ascoltate in questi anni sulle navi di salvataggio, negli hotspot, nei centri di accoglienza, nelle carceri vorrebbero essere solo di “passaggio” dall’Italia e dalla Sicilia ma sono costretti per lunghi periodi a sostare da “noi” sospesi, a causa delle normative vigenti, invece di poter continuare il proprio progetto migratorio liberamente. Se queste persone potessero scegliere di farlo raggiungerebbero volentieri i loro parenti, i loro amici e i loro sogni in altre città europee e, forse, oltre. All’inizio di questo mio viaggio come operatrice umanitaria non avrei mai pensato che avrei dovuto imparare come ci si prende cura di persone con esiti di tortura; di donne, uomini e bambini portatori di ferite che riguardano l’anima ed il corpo, lacerazioni visibili e invisibili, spesso indelebili. Ingenuamente avevo immaginato la tortura come una pratica lontana da me nel tempo e nello spazio; ho scoperto, mio malgrado, che la tortura è pratica usuale a poche miglia da casa mia. Di fronte a me ne ho toccato i segni e ne ho ascoltato le urla. Ho imparato come ci si prende cura dei sintomi da trauma estremo; quali sono le evidenze cliniche e quali i diversi percorsi terapeutici da intraprendere per chi ha attraversato l’inferno del Sahara, i Centri di detenzione in Libia, la traversata troppo spesso mortale del Mediterraneo Centrale. Ho imparato presto che aggiornare e mettere in pratica le sole competenze cliniche non sarebbe bastato a guarire queste persone. Ho avuto chiaro che la loro qualità di vita, fisica e psicologica, non sarebbe migliorata se avessi lavorato, solo, sulle mie competenze come terapeuta. Ho imparato che queste persone avevano bisogno per stare meglio che io mi occupassi anche di “politica” e che questo impegno doveva andare oltre le stanze degli ambulatori degli hotspot e dei centri di accoglienza, oltre le mura degli uffici delle carceri, oltre le terapie psicoterapiche e farmacologiche. Per prima cosa ho capito che fare “politica” significava avere occhi e orecchie nuove per guardare i fenomeni, ascoltare le storie e produrre cura. Esiste un termine magrebino Ghorba apparentemente intraducibile in italiano. Esso ha un significato molto ampio: descrive il sentimento di estraneità nell’essere stranieri e lontani dalla propria terra. È un sentimento per noi difficile da comprendere, è quella sensazione di malinconia, lontananza, non appartenenza che si prova lontano dalle proprie radici, dalla propria casa, dalla propria famiglia, dal proprio cibo, dai propri odori e colori. Partire è di per sé un evento traumatico, soprattutto lo è per chi fugge da guerre, ingiustizie, povertà, cambiamenti climatici, carestie, sopraffazione dei diritti minimi, matrimoni forzati e per chi ricerca un futuro dignitoso mancato e sogni spezzati. Fare “politica” oltre le stanze di psicoterapia ha significato non dare più nulla per scontato, soprattutto i diritti fondamentali. Se non mi fossi interessata alla tutela dei diritti di queste persone non le avrei aiutate a stare meglio. E allora ho pensato che toccava partire dalla tutela del diritto inalienabile: il diritto alla vita. Bisognava salpare e andare a salvare in mare queste persone come ha fatto dal 2018 la nostra Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans. Bisognava urlare con i fatti che la vita di ogni essere vivente è importante. Ogni singola vita. E che da lì doveva passare ogni forma di cura. Il terapeuta che fa “politica” sa che nessuno può guarire in una società malata. E prima di tutto sa che bisogna imparare a prendersi cura di essa e dei sintomi che essa manifesta. I sintomi di questa società malata per chi migra sono la chiusura delle frontiere; le norme che ne ostacolano il soccorso; le loro catture e deportazioni in terra e in mare; la detenzione nei CPR di persone che non hanno commesso nessun reato; la falsa battaglia che da anni viene portata avanti nei confronti dei presunti scafisti che non è altro che la costruzione di capri espiatori che ad ogni sbarco devono essere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e che devono venire sacrificati per portare avanti la propaganda in materia di immigrazione e di presunta sicurezza, come lo sono le due giovani donne iraniane Maysoon Majidi e Marjan Jamali; la mancanza di lavoro sicuro e dignitoso e la morte di braccianti in nero come Daouda Diane o di Satnam Singh; la difficoltà ad avere documenti regolari e libertà di movimento; la criminalizzazione delle ONG e di chi si occupa di salvataggio in mare. Ne consegue che prendersi cura per un terapeuta significa attivarsi in politica per curarla questa società, a volte, disobbedendo e divergendo e, a volte, cercando di inserirsi in contesti che possano aiutare a modificarla dall’interno dei ruoli istituzionali. Non possiamo più essere terapeuti che si comportano come i colonizzatori che cercano di imprimere l’uguaglianza sul piano della cultura e della cura. Urge una rivoluzione culturale della cura che introduca la dimensione della differenza in ogni ambito del vivere. Carla Lonzi scriveva: L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone. Il mondo dell’uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell’unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove il terrorismo getta le armi e la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita. È davvero materia così lontana la psicoterapia dalla politica? Dobbiamo salvare i ragazzini dal mondo di Walter Veltroni Corriere della Sera, 31 luglio 2024 Le guerre, la violenza diffusa, le stragi dimenticate. I giovani a pagano il prezzo più alto, spesso nell’indifferenza. Il mondo uccide i ragazzini. E spesso i bambini sono uccisi da ragazzini. Due bestemmie, due atrocità delle quali ogni giorno si legge, ma spesso con la stessa fretta distratta e blasfema con la quale ci si intromette, perdendo tempo, nella vita privata di un influencer o di una diva alla moda. Le guerre, in primo luogo, si accaniscono contro i bambini. Contro quelli che giocano a palla, come i dodici ragazzi colpiti nel villaggio druso dalla bomba di Hezbollah, come i quaranta uccisi da Hamas nel kibbutz di Kfar Aza. O come le quindicimila creature palestinesi sterminate dai bombardamenti israeliani su Gaza. Un vero crimine. I bambini non sono terroristi, non devono pagare per le colpe di chi semina sangue. Ma la guerra è orrendamente uguale, sempre e dappertutto. I russi hanno ucciso, secondo i dati Unicef, 2109 minori in Ucraina. E nessuno misura il dolore dei più piccoli, anche quando sopravvivono, il senso di incertezza e di paura che si semina nelle loro vite quando la casa è bombardata, il cibo manca, il padre è al fronte, i genitori sono stati uccisi o feriti. Non esiste questa contabilità, la contabilità della disperazione e della solitudine infantile. Fermare le guerre, fermarle subito, dovrebbe essere l’imperativo delle cancellerie e delle coscienze civili. Le une e le altre sono, salvo magnifiche eccezioni, lente, distratte, assenti. Ma c’è un’altra guerra che si combatte contro i bambini, ogni giorno. È la guerra della violenza diffusa, delle armi levate contro chi non può difendersi. Ciò che è accaduto a Southport, vicino a Liverpool, l’altro ieri è spaventoso. Un ragazzo di diciassette anni, con il volto travisato da una mascherina antiCovid, è entrato in un campo estivo dove si trovavano delle bambine piccole che stavano giocando e ascoltando musica. Le ha accoltellate con ferocia. Tre sono morte, sei sono gravemente ferite. E anche qui nessuno pensa a quelli che non hanno avuto la lama nella carne, ma saranno segnati da quella esperienza, per tutta la vita. Un ragazzino ha ucciso dei bambini. Non sappiamo perché, ma non possiamo più stupirci. Negli Usa succede sempre più spesso. Da quando è iniziato questo nuovo, violento, millennio, nelle scuole americane ci sono stati 131 bambini uccisi e 197 feriti per le incursioni dei mass shooter, quasi sempre ragazzi anche loro. Sparano nelle loro scuole, dove magari hanno subito la violenza del bullismo. Sparano sui bambini che avrebbero voluto essere, sulla attesa di una vita serena che loro ritengono di non aver avuto. Sparano per uscire dal grigio di esistenze che si considerano inutili se non sono illuminate dai fragili e futili flash della popolarità mediatica. Sparano per passare alla storia, senza sapere che non accadrà, perché presto un’altra strage, più feroce, derubricherà il loro gesto e lo svuoterà di rilevanza. Ragazzi infelici uccidono bambini che potrebbero essere felici. Qui siamo arrivati, e non ce ne rendiamo conto. La società cattiva, competitiva, egocentrata, genera solitudine e infelicità e finisce con lo scatenare, come forma di reazione, quella del rancore, dell’odio, della violenza. Il nemico è in casa e non lo vediamo. In Gran Bretagna non circolano armi con la stessa dissennata facilità con cui, senza che democratici o repubblicani siano riusciti a intervenire, sono diffuse nelle case americane. Eppure ora le bande giovanili usano il coltello, l’anno scorso in Inghilterra ci sono stati 11.426 attacchi lama in pugno, e spesso proprio l’arma bianca è quella favorita dalle bande giovanili per regolare i propri conti. Se non si vuole e non si riesce a fermare le guerre degli altri, almeno si cerchi di capire quale maremoto di solitudine, di ansia e di frustrazione, nel tempo dei social, stia attraversando le nuove generazioni e produca la nostra, di guerra quotidiana. Invece il mantra dei potenti è che, in fondo, i bambini e gli adolescenti non votano. Dunque che soffrano e convivano con la violenza e la paura, senza disturbare. I bambini morti a Liverpool, nella città in cui i Beatles cantavano “All together now”, parlano della società opulenta e greve, solitaria e rancorosa che in fondo è generata dalla perdita collettiva di speranza. I dati demografici ci dicono che le società tendono a invecchiare e le culle a svuotarsi. Le società contemporanee e le loro legislazioni in materia di procreazione sono fatte di divieti, di impedimenti, di ostacoli. È difficile far nascere una vita, così come è difficile scegliere di rispettare il dolore di un malato terminale. La vita, all’inizio e alla fine della sua parabola, è sequestrata da chi ha avuto la fortuna di venire al mondo e non prevede, a breve, di andarsene. Se non si vuol far nascere nuove bambine nuovi bambini, condannando la società al suo impoverimento, almeno si salvaguardi la vita e la sicurezza di quei bambini che ce l’hanno fatta a esserci. È una questione non di più divise davanti alle scuole, ma di una sicurezza sociale che nasca da scelte e programmi coraggiosi. E questi siano ispirati da forti e riconoscibili valori. Parola che oggi suona lontana e misteriosa, mentre risuonano le grida di bambini inseguiti da un ragazzino. Un ragazzino con un coltello in mano. Che li vuole uccidere perché, come disse per spiegare il suo gesto un accoltellatore di ragazzi a Torino, il loro torto, il loro unico torto, è quello di “essere felici”. Elsa Morante, nel titolo del suo libro, immaginava il mondo salvato dai ragazzini. Ora, invece, dobbiamo salvare i ragazzini dal mondo. Medio Oriente. Cosa racconta di Israele lo scandalo sulle torture a Sde Teiman di Micol Flammini Il Foglio, 31 luglio 2024 Detenuti palestinesi abusati in un carcere nel Negev, un’indagine da parte di Tsahal, le proteste degli estremisti per proteggere i soldati arrestati e scagliarsi contro l’inchiesta. A maggio un soldato israeliano aveva mandato delle foto alla Cnn per mostrare come venivano trattati i detenuti a Sde Teiman, una base militare a Beit Lid, nel deserto del Negev, riconvertita a centro di detenzione dopo il 7 ottobre. Il soldato aveva detto che le immagini che vedeva durante la sua giornata, torture, pestaggi e umiliazioni, lo tormentavano. Dopo la Cnn, arrivò il New York Times e Tsahal, l’esercito israeliano, aveva continuato a sostenere la “condotta corretta” dei suoi soldati all’interno di Sde Teiman. Nel frattempo però Tsahal aveva deciso di avviare un’indagine interna e lunedì ha annunciato l’arresto di otto soldati della base dopo il ricovero di un detenuto palestinese che riportava gravi segni di abusi. A Sde Teiman sono incarcerati circa cinquecento uomini accusati di terrorismo, per meno della metà si tratta di accuse senza prove, soltanto sospetti, altri invece sono membri di Hamas e del Jihad islamico. Tutti sono stati portati a Sde Teiman, che è molto vicino alla Striscia di Gaza, e la base si è trasformata in un centro di detenzione. Dopo l’annuncio degli arresti, alcuni soldati si sono barricati nel carcere, hanno rilasciato dei messaggi dicendo agli israeliani di ribellarsi e frotte di contestatori sono accorse nel Negev e hanno cercato di fare irruzione, tra loro c’erano anche alcuni politici di estrema destra, appartenenti alle fazioni del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Le guardie hanno fatto fatica a resistere, hanno chiesto l’intervento della polizia, ma sul posto sono arrivati pochi agenti, meno rispetto ai rinforzi richiesti. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha chiesto al premier Benjamin Netanyahu di appurare che non sia stato Ben-Gvir a lesinare i rinforzi, il ministro estremista aveva detto che la polizia militare che arrestava “i nostri migliori soldati” era uno spettacolo vergognoso e il suo partito Otzma Yehudit, Potere ebraico, aveva annunciato che i suoi membri si sarebbero uniti alle proteste. Davanti ai cancelli di Sde Teiman c’era un paese contro un altro, e Netanyahu è rimasto in mezzo: ha condannato le proteste ma non ha parlato dell’inchiesta. Tsahal ritiene che sia il momento di fare chiarezza su quello che accade nella base, che alcuni media hanno ribattezzato la Abu Ghraib israeliana facendo riferimento allo scandalo del 2003 sul carcere gestito dall’esercito americano in Iraq, l’estrema destra israeliana pensa invece che qualsiasi metodo sia giusto contro i terroristi e i soldati devono essere inattaccabili. L’inchiesta è partita anche per la pressione da parte della comunità internazionale, per dimostrare che Israele è pronto a investigare da solo sui crimini dei propri ufficiali: dimostrando di avere una giustizia efficiente, può evitare le corti internazionali. L’inchiesta di Tsahal su Sde Teiman rappresenta però anche due visioni del mondo, della guerra e del futuro del paese molto diverse, inconciliabili, pronte a scontrarsi anche con la violenza. Da una parte c’è Gallant, dall’altra Ben-Gvir, figure opposte bizzarramente strette nello stesso governo. Quello interno è l’ottavo fronte di Israele, che deve sopravvivere ai suoi pericolosi estremismi politici che sabotano la sua democrazia e la sua sicurezza mentre combatte contro Hamas, e le varie milizie finanziate dall’Iran nei paesi che circondano lo stato ebraico.