La tragedia continua: 60 suicidi e le bufale sul sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2024 A Prato si è suicidato un ragazzo, ma dal sottosegretario Ostellari a Travaglio passa l’idea falsata delle carceri con numeri regolamentari rispetto a una realtà scioccante di trattamenti inumani e degradanti. Domenica scorsa, al carcere di Prato si è consumato il sessantesimo suicidio dall’inizio dell’anno. “Solo 27 anni, italiano, alcune condanne definitive con fine pena nel 2032, si è impiccato ieri sera nella sua cella della Casa Circondariale di Prato. Subito soccorso e condotto in ospedale, è spirato poco dopo. Si tratta del 60esimo suicidio di un detenuto nel corso dell’anno, cui vanno aggiunti 6 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Una carneficina mai vista in precedenza”, ha dichiarato Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia penitenziaria. E tutto ciò avviene mentre il sottosegretario alla Giustizia, con delega ai detenuti, Andrea Ostellari, sostiene che le carceri sono regolamentari e non c’è sovraffollamento. Stessa bufala ripresa da Marco Travaglio, direttore de Il Fatto, che reitera la cosa, visto che ha già scritto negli anni passati che il sovraffollamento è virtuale, sostenendo addirittura che esistono ulteriori posti disponibili. Ma in fondo non è una novità, visto che non ne azzecca una. Dal sistema penitenziario fino ai processi sulle stragi di mafia. Sono 14.500 i detenuti in più rispetto ai posti disponibili e, nel solo 2023, sono stati ben 4.731 i reclusi nei confronti dei quali la magistratura di sorveglianza ha dovuto riconoscere rimedi risarcitori per trattamento inumano e degradante. Altro che sovraffollamento inesistente. Risarcimenti, peraltro, la cui procedura viene attivata solo da chi è nelle condizioni di pagarsi un avvocato. Spieghiamo ancora una volta, il discorso dei parametri indicativi del sovraffollamento. Già nel 2019, Il Fatto denunciò l’inesistenza del sovraffollamento, visto che la capacità ricettiva - a differenza della capienza minima di 3 metri quadri di spazio vitale della Cedu - si baserebbe secondo il nostro parametro che prevede 9 metri quadri per ogni cella singola, cui ne vanno aggiunti 5 per ciascun detenuto in quelle multiple. Quindi l’Italia viene condannata a pesantissimi risarcimenti in base ai nostri parametri dei 9 metri quadri? Falso. Il detenuto viene risarcito in base ai parametri della Cedu, non i nostri. Quindi, una volta appurato questo dato, i fatti ci dicono che il sovraffollamento è un problema enorme visto che lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona - e non i nove metri quadrati sulla carta - è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano. Dati confermati dallo stesso Garante nazionale, in linea con quelli dell’ultimo dossier di Antigone: sovraffollamento medio del 130,6% (rapporto tra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili), con 50 istituti che sono di gran lunga al di sopra da San Vittore (224,38 %), Brescia Canton Mombello (209,34%), Foggia (195,65%), fino al cinquantesimo Teramo che è al 151,76. Per capire meglio, bisogna fare un esempio concreto. Prendiamo la sentenza della Cassazione n. 52819/16 che dà piena applicazione alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dal caso Torregiani e lo fa chiarendo il corretto calcolo dello spazio da destinare ai detenuti per non incorrere in una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Tutto è scaturito da una ordinanza del 2 ottobre 2014 del Tribunale di sorveglianza di Perugia che aveva respinto il reclamo (azione inibitoria e risarcitoria) di un detenuto che contestava le condizioni carcerarie provocate dal sovraffollamento. Per il Tribunale, nel calcolo dello spazio destinato al singolo occupante andava incluso il letto che non limita lo spazio vitale, mentre andavano esclusi dal computo della superficie unicamente altre strutture fisse come manufatti e mensole e lo spazio dedicato al bagno. Il criterio di misurazione deciso dal Tribunale aveva portato a escludere un trattamento disumano e degradante perché lo spazio minimo era tra i 3 e i 4 metri quadrati. In modo singolare, tra l’altro, il Tribunale effettuava una compensazione tra acqua calda (assente) e la doccia esterna con acqua calda. Una posizione bocciata dalla Cassazione che ha escluso ogni possibilità di compensazione e ha chiarito che nello spazio minimo vanno considerate tutte le strutture fisse incluso il letto che, quindi, sottrae lo spazio a disposizione del detenuto. Per le modalità di calcolo dello spazio minimo vitale concesso a un individuo posto in una cella collettiva, la Cassazione ha richiamato la prassi di Strasburgo. La posizione della Corte europea è chiara: al di sotto dei 3 metri quadrati si verifica in modo automatico una violazione dell’articolo 3 della Convenzione, senza possibilità di “compensazioni derivanti dalla bontà della residua offerta di servizi o di spazi esterni alla cella”. Tra l’altro, osserva la Suprema Corte, il letto deve essere considerato come “un ingombro idoneo a restringere” lo spazio vitale minimo all’interno della cella. Ed invero, - scrive la Cassazione - considerare “superficie utile quella occupata dal letto per finalità di riposo o di attività sedentaria che non soddisfano la primaria esigenza di movimento” non è conforme ai criteri delineati dalla Corte europea, con la conseguenza che non può rientrare nella nozione di spazio minimo individuale. Così, andavano detratti dalla superficie complessiva non solo il bagno e gli arredi ma anche lo spazio occupato dal letto. Pertanto, tenendo conto dell’interpretazione della Corte europea in base alla quale il giudice interno “ha l’obbligo di ritenere un dato integrativo del precetto”, sussiste una “forte presunzione di trattamento inumano e degradante, superabile solo attraverso l’esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo”. Di qui l’annullamento con rinvio per un nuovo calcolo dello spazio minimo. Di sentenze del genere, ce ne sono tante. Quindi siamo oggetti di pesanti condanne, ma in base alla violazione dei parametri minimi (la soglia di decenza) della Corte europea e non i nostri come Travaglio erroneamente pensa. Il problema è che basterebbe far applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 6 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Purtroppo non viene rispettato nemmeno quello e ci si affida proprio alla soglia minima che il più delle volte si conteggia assieme agli arredi che occupano lo spazio. Basterebbe vedere gli ultimi ricorsi dei detenuti del carcere milanese di San Vittore dove contestano di non avere i tre metri quadri a testa, e ricordiamo ancora una volta che parliamo della soglia minima. Come ha riportato Repubblica, l’azione legale, supportata dagli avvocati della Camera penale di Milano, si concentra su due fronti principali: il problema delle “celle chiuse” e le violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce trattamenti inumani e degradanti. L’avvocata Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano, ha dipinto un quadro desolante della realtà carceraria: “Non stiamo parlando di semplici statistiche. La verità è che i detenuti sono costretti a trascorrere dalle 18 alle 20 ore al giorno in celle anguste, in condizioni che sfidano ogni principio di dignità umana”. Cosa sta succedendo nelle carceri italiane di Luca Sofri ilpost.it, 30 luglio 2024 Da settimane i detenuti di diversi istituti, dal Piemonte alla Sicilia, protestano per il caldo insopportabile e il sovraffollamento delle celle. Nelle carceri italiane sono recluse molte più persone della loro capienza prevista, e il caldo degli ultimi giorni ha reso ancora meno vivibili le celle. Un po’ ovunque in Italia i detenuti protestano per il trattamento degradante a cui sono sottoposti. Sabato sera nel carcere La Dogaia di Prato, in Toscana, si è suicidato un uomo di 27 anni, il sessantesimo dall’inizio dell’anno. Nella notte tra venerdì e sabato nello stesso carcere una ventina di detenuti del reparto di media sicurezza aveva organizzato una protesta per denunciare le condizioni di detenzione. Nell’ultimo fine settimana in molte altre carceri ci sono state proteste per lo stesso motivo. Tra venerdì e sabato a Regina Coeli, a Roma, alcuni detenuti si sono rifiutati di entrare nelle celle a causa delle temperature eccessive: hanno bruciato dei materassi e rotto alcuni tavoli. Circa trenta detenuti sono stati poi trasferiti in altri istituti penitenziari. Domenica a Vibo Valentia, in Calabria, i detenuti hanno protestato perché per due giorni non ci sarebbe stata l’acqua potabile. A Velletri, nel Lazio, sono stati incendiati materassi e distrutte telecamere di sorveglianza: anche in questo caso la protesta è iniziata quando i detenuti si sono rifiutati di rientrare nelle celle. Lo stesso è successo a Biella, in Piemonte, e a Rieti, sempre nel Lazio. A Caltagirone, in Sicilia, alcuni detenuti sono saliti sui tetti dopo la morte di un compagno per cause naturali; a Terni 55 persone detenute hanno organizzato una protesta pacifica contro il sovraffollamento. La scorsa settimana c’erano state proteste a Trieste, dove i detenuti avevano lanciato per strada alcuni oggetti e avevano dato fuoco ad alcuni arredi, provocando un incendio spento in pochi minuti dalle guardie carcerarie. Nel primo pomeriggio di giovedì avevano protestato i detenuti nel carcere di Cuneo, in Piemonte, seguita alla protesta di 250 detenuti nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino. Mercoledì 10 luglio c’era stata una protesta anche nel carcere di Viterbo, in Lazio, iniziata dopo la morte di un detenuto di 32 anni, e giovedì 18 luglio ce n’era stata una simile al carcere di Sollicciano, a Firenze, cominciata a seguito del suicidio di un detenuto di vent’anni e alla quale avevano partecipato circa 80 detenuti. La maggior parte di loro, detenuta in sezioni dichiarate inagibili, era stata trasferita in altre carceri. L’associazione Antigone, che dal 1991 si occupa dei diritti dei detenuti, ha denunciato per l’ennesima volta il sovraffollamento, il caldo e in generale le pessime condizioni di reclusione, problemi segnalati ciclicamente negli ultimi anni. Lo ha fatto con un nuovo dossier che contiene diversi dati. Il livello di sovraffollamento nazionale, si legge, ha raggiunto il 130%, ma in 56 carceri italiane - un quarto del totale - è superiore al 150% con picchi di oltre 200%. Significa che 200 persone vivono in celle dove dovrebbero starcene 100. E anche nelle carceri dove il tasso di affollamento rientra nei limiti, quasi sempre il dato risulta falsato da spazi chiusi per via di lavori di manutenzione o semplicemente perché inagibili: sulla carta ci sono, in pratica no, con conseguenze sull’affollamento. Nelle 88 visite organizzate da Antigone nelle carceri italiane sono stati rilevati casi di acqua corrente mancante, muffa, infiltrazioni d’acqua nei muri, assenza di docce, finestre in plexiglass che impediscono il passaggio dell’aria, presenza di scarafaggi e cimici. Le condizioni penose affrontate ogni giorno dalle persone detenute sono state descritte in una lettera che i detenuti del carcere di Brescia hanno scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Si boccheggia in cella, e l’acqua che ci trasciniamo dietro dopo l’agognata doccia evaporando riempie d’umidità l’angusto luogo. L’aria satura d’umidità, sudore, miasmi, la puoi tagliare con un coltello. In verità farlo è impossibile, i coltelli sono di plastica riciclata. Il cesso è una vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell’acqua per farsi la doccia, che d’estate scotta dannatamente, e d’inverno è maledettamente fredda. A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti. In quindici è pressoché impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare, quindi facciamo a turno. Nei turni con noi si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce che non ne vogliono sapere di rispettare la fila”. Il presidente Mattarella ha definito queste condizioni “angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza” oltre che “indecorose per un paese civile”. Mattarella ha anche detto che il carcere non va trasformato in una palestra criminale. In un carcere sovraffollato, infatti, oltre a vivere male non vengono garantite attività lavorative e di reinserimento, perché gli operatori non riescono a lavorare come vorrebbero: anche se così viene meno lo scopo rieducativo della pena, affermato nell’articolo 27 della Costituzione. In Italia, non a caso, il tasso di recidiva è molto alto: secondo i dati più recenti (aggiornati alla fine del 2022) diffusi dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL, un organo consultivo del governo) è al 68,7%. Significa che più di 2 ex detenuti su 3, una volta in libertà, commettono di nuovo reati. È dimostrato che la percentuale di recidiva diminuisce drasticamente se le persone che escono dal carcere hanno avuto la possibilità di lavorare durante la detenzione: tra loro, solo il 2 per cento torna a commettere reati. Antigone ha chiesto al governo provvedimenti urgenti per ridurre il sovraffollamento e migliorare la qualità della vita delle persone nelle carceri, per esempio con l’aumento dei giorni della liberazione anticipata speciale: al momento le persone che hanno la cosiddetta buona condotta, cioè che mostrano un atteggiamento rispettoso delle regole di detenzione, hanno diritto a una riduzione di pena di 45 giorni ogni sei mesi. Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti aveva presentato una proposta di legge per aumentare i giorni detratti da 45 a 60 ogni sei mesi di detenzione. È l’unica proposta fatta fin qui che avrebbe davvero un effetto sul sovraffollamento, perché banalmente porterebbe alla liberazione di molte più persone: ma la scorsa settimana la discussione è stata rinviata su indicazione del governo, che ha convinto al rinvio anche Forza Italia, inizialmente favorevole all’aumento dei giorni della liberazione anticipata. Antigone ha anche chiesto la depenalizzazione di alcuni reati, la liberalizzazione delle telefonate, l’assunzione di personale di polizia e civile (in particolare educatori, psicologi, psichiatri, assistenti, sociali, mediatori culturali). Secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, il sovraffollamento è il frutto di come hanno agito i governi negli anni. “Le politiche a cui abbiamo assistito nei primi due anni di governo Meloni hanno avuto un ruolo nella crescita delle presenze in carcere con il considerevole aumento del numero di reati e un inasprimento delle pene”, ha detto Gonnella. “Il sistema penale viene utilizzato a scopo di ottenere consensi nel breve periodo”. Secondo i dati più recenti, ora nelle carceri italiane ci sono quasi 4.000 detenuti in più rispetto a un anno fa. Nelle carceri rivolte e suicidi. Ma il Governo non sa che fare di Marina Della Croce Il Manifesto, 30 luglio 2024 I Garanti territoriali dei detenuti chiedono un incontro a Nordio: “Situazione al collasso”. L’ultima l’hanno salvata domenica sera nel carcere di Genova Pontedecimo. La donna, 31 anni nata in Francia ma con cittadinanza della Bosnia-Erzegovina, aveva già legato la corda ricavata da un lenzuolo alle sbarre della finestra del bagno e se non fosse stato per il pronto intervento degli agenti penitenziari sarebbe stato l’ennesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno, il 61esimo dopo il giovane di 27 anni che sabato scorso si è tolto la vita alla Dogaia di Prato (il terzo in sette mesi nella casa circondariale toscana). Ora la detenuta è fuori pericolo ed è ricoverata nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Martino del capoluogo ligure. Suicidi, rivolte, proteste e gesti di autolesionismo, insieme una tensione sempre alta e aggravata dal caldo delle ultime settimane, continuano a segnare pesantemente l’estate delle carceri italiane. Una situazione che è ormai giunta “al collasso” denunciano i Garanti territoriali dei detenuti che ieri hanno chiesto un incontro al ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Siamo in piena emergenza umanitaria, sia sulle problematiche carcerarie degli adulti sia sul tema della giustizia minorile. È nostro dovere intervenire al più presto”. Da qui la richiesta dell’incontro “per poter discutere dello stato attuale delle nostre carceri”. Basterebbe leggere le cronache degli ultimi giorni per rendersi conto di come la situazione rischia di diventare esplosiva con le proteste che si susseguono da Nord a Sud del paese. Solo 24 ore fa è tornata la calma nel carcere di Terni dopo che alcuni detenuti si erano rifiutati di entrare nelle celle protestando contro il sovraffollamento e “il perdurare della carenza dell’assistenza sanitaria a fronte di patologie importanti e serie”. Ma proteste analoghe ci sono state a Velletri (180 detenuti in più rispetto alla capienza), Rieti, Rebibbia e Regina Coeli (1.130 detenuti a fronte di 600 posti disponibili) di Roma, Vibo Valentia e Biella. A Milano, invece, il Garante dei detenuti ha depositato in procura la lettera ricevuta da un recluso nel carcere di Opera in cui si denunciano presunte violazioni dei diritti umani nell’istituto di massima sicurezza. Del resto basta leggere l’analisi preparata dal Garante nazionale dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore per fugare ogni dubbio su come si è costretti a vivere in prigione. Dei 57 suicidi (al momento della relazione) che si sono avuti nel 2024, scrive il Garante, “risulta che 30 persone, pari al 52,6%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione. Di queste 7 entro i primi 15 giorni, 3 delle quali addirittura entro i primi 5 giorni dall’ingresso”. Senza dimenticare i sei agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Gli atti di autolesionismo registrati tra i detenuti fino a luglio sono stati invece 7.430 contro i 7.216 di tutto il 2023; 374 i ferimenti (365 nel 2023) tre le rivolte contro le due del 2023. E mancano ancora cinque mesi alla fine dell’anno. Inoltre su 61.134 detenuti (14.500 in più rispetto ai posti disponibili), 58 sono costretti a vivere in celle più piccoli di 3 metri quadrati, misura minima stabilita nel 2021 dalla Corte di cassazione per ogni detenuto nelle celle collettive. 14.118 si trovano in celle fra i 3 e i 4 metri quadrati e 46.387 in celle più grandi di 4 metri quadri. Se questa è la situazione, per quanto apprezzabile sia il gesto, appare davvero poco il conforto che potranno portare i 2.200 ventilatori regalati ieri dalla Cei a 31 carceri italiane. “Possibile che non è chiaro dalle parti di Palazzo Chigi - si chiedeva ieri Fabio Pagani, segretario ligure della Uilpa Polizia penitenziaria - che rischia di accadere molto di più e molto peggio di quanto successo nel marzo del 2020 quando, allo scoppiare della pandemia per Covid-19, vi furono pesantissime sommosse in decine di carceri e si contarono 13 morti?”. Un’emergenza alla quale il governo non sembra in grado di rispondere. Ieri il ministro Nordio ha ricordato di aver rafforzato l’organico di educatori, funzionari contabili, mediatori culturali, dirigenti penitenziari. Interventi insufficienti per le opposizioni. “Perché Meloni e Nordio non vogliono vedere la strage silenziosa che sta avvenendo nelle carceri? Tornino sulla terra e intervengano con urgenza”, ha chiesto il segretario di +Europa Riccardo Magi. Sulla stessa linea la dem Debora Serracchiani, per la quale “la situazione nelle carceri sta esplodendo e dal ministro Nordio ancora non abbiamo risposte concrete su come affrontare il problema. Il governo non può voltare la testa, deve intervenire con urgenza”. Forza Italia avvia monitoraggio delle carceri coi Radicali. Ma Tajani si smarca sull’amnistia di Gabriella Cerami La Repubblica, 30 luglio 2024 Il vicepremier in conferenza stampa con Maurizio Turco rilancia il rinnovo del contratto per la polizia penitenziaria. Sulle misure d’emergenza però garantisce “piena sintonia” con il governo. Non un intervento legislativo, ma visite nelle carceri per esaminare la situazione. Nel giorno in cui i suicidi in cella in meno di sette mesi raggiungono il tragico numero di sessanta, il segretario di Forza Italia Antonio Tajani in conferenza stampa con il partito Radicale di Maurizio Turco difende il decreto Carceri in discussione in Senato e rivendica la decisione di non aver più sostenuto la proposta di legge Giachetti che prevedeva uno sconto di pena di 60 giorni ogni sei mesi, al posto di 45, così da alleggerire gli istituti penitenziari sovraffollati. Per gli azzurri non è questa la soluzione e lanciano invece l’iniziativa “Estate in carcere”. Si tratta di “visite che hanno l’obiettivo di fare un esame della situazione. Vedremo i detenuti, i garanti dei detenuti, tutti gli operatori delle carceri. Ho già parlato - dice Tajani - con il ministro Paolo Zangrillo, perché occorre rinnovare il contratto collettivo relativo al personale della polizia penitenziaria”. Il documento siglato con Forza Italia è “un primo passo importante, ma ci muoviamo nella prospettiva che serviranno attività di approfondimento”, aggiunge Turco che chiede però che vi sia un’amnistia, “non se ne fanno da decenni, perfino nel periodo del fascismo vennero concesse”. Tajani si smarca immediatamente: “Siamo in perfetta sintonia con le parole di Carlo Nordio e con l’attività di governo. Noi non abbiamo mai parlato di amnistia, non l’abbiamo chiesta e non c’è nel documento, si tratta di una serie di iniziative che non riguardano l’attività legislativa, accendiamo i riflettori su una realtà, nessun intento polemico”. L’illustrazione di questa inedita iniziativa è di per sé complessa, malgrado il segretario azzurro dica che la collaborazione con i Radicali fa parte del progetto che dovrà portare il partito a raggiungere il 20%. Sta di fatto che sulle carceri, tema caro al partito di Turco, nelle ultime settimane i berlusconiani hanno compiuto diverse giravolte. Alla fine, le proposte di modifica che avrebbero in qualche modo permesso la liberazione anticipata sono state stralciate ed è rimasta solo quella che prevede misure alternative per i tossicodipendenti condivisa dal resto della maggioranza. Ma alla vigilia dell’incontro con la stampa organizzato da Tajani insieme ai Radicali, che appunto hanno una posizione più dura nei confronti del governo, il ministro della Giustizia Carlo Nordio è intervenuto per chiarire che “abbiamo fatto tanto e tanto abbiamo ancora da fare. L’attenzione e l’impegno di tutti noi sono massimi” e ricorda che sono state rafforzate le misure per il personale, quindi fa un lungo elenco delle assunzioni fatte e dei posti messi a bando. Quanto basta per far dire al leader di FI, che sulle carceri non vuole entrare in rotta con l’esecutivo né enfatizzare troppo la collaborazione con i Radicali: “Ci fa piacere che il nostro appello venga ascoltato anche dal massimo responsabile della Giustizia”. Alleanza verdi e sinistra chiede invece al governo di aprire a modifiche, quando martedì arriverà in Aula il decreto Carceri. “Oltre 14 mila detenuti in più rispetto alla capienza e, nel solo 2023, sono stati più di 4 mila i detenuti cui sono stati riconosciuti risarcimenti per trattamenti inumani e degradanti dalla magistratura di sorveglianza”, ricorda Ilaria Cucchi: “C’è ancora tempo e modo di cambiare il decreto, renderlo più umano. Chiedo alla maggioranza e al governo di non chiudere la porta alle richieste di miglioramento”. Il governo però ha già deciso che sul provvedimento sarà posta la fiducia. Tajani: “Legge Giachetti superflua, bastano i ritocchi al Dl Carcere proposti da noi forzisti” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 luglio 2024 “La proposta di legge Giachetti è arrivata in ritardo, c’erano alcune cose positive ma il lavoro fatto con gli emendamenti approvati di fatto risolvono il problema. Con il testo uscito dalla commissione Giustizia, con una trattativa che ci ha visto come protagonisti, diventa superfluo la pdl Giachetti”: con questa dichiarazione ieri il segretario di Forza Italia e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha confermato di non essere più una spina nel fianco nella maggioranza, dopo che per mesi il partito di Berlusconi aveva lasciato intendere che avrebbe potuto appoggiare la pdl del parlamentare di Italia Viva, elaborata insieme a Nessuno Tocchi Caino. L’occasione per il vice premier di ribadire il concetto è stata una conferenza stampa organizzata nella sede di Fi a Roma insieme al segretario e alla tesoriera del Partito Radicale, Maurizio Turco e Irene Testa, per lanciare un’estate di mobilitazione e visite negli istituti di pena in tutta Italia da parte di parlamentari, eurodeputati, consiglieri regionali, amministratori e militanti, per verificare le condizioni dei detenuti e confrontarsi con dirigenti, operatori, agenti di Polizia penitenziaria e magistrati di sorveglianza. Oltre alle visite, ci saranno incontri periodici - e un tavolo permanente di confronto - con i sindacati di Polizia penitenziaria e verrà istituita una sottocommissione nel dipartimento Giustizia di FI dedicata alle carceri. Questa, ha detto Tajani, “è un’iniziativa che Fi ha deciso di organizzare insieme al Partito Radicale italiano per affrontare l’emergenza carceri nel nostro Paese. Aumentano purtroppo i suicidi, è un tema che viene affrontato attentamente dal governo ed era uno dei punti importanti della mia relazione come candidato segretario di FI, quindi è parte integrante del nostro programma politico il fatto di intervenire sulla situazione carceraria allarmante nel nostro Paese”. Il governo, ha sottolineato il ministro degli Esteri, “sta cercando di mettervi rimedio ma non è facile, perché c’è un’edilizia carceraria che risale a decine anni fa, c’è una popolazione carceraria molto alta nel Paese e proprio perché gli edifici sono vecchi c’è una condizione di promiscuità e difficoltà che rende difficile il rispetto dei diritti del detenuto. Chi ha sbagliato è giusto che espii la propria colpa, ma non vogliamo che il carcere peggiori la situazione perché deve avere una funzione di rieducazione. Più la condizione è degradata e più è difficile che il carcere possa svolgere questa funzione”. Intanto è polemica in merito alle rassicurazioni di Nordio in tema di carcere: rafforzamento delle piante organiche e piano straordinario di investimenti. Per la vicepresidente dem del Senato, Anna Rossomando, “dai numeri sul personale forniti oggi (ieri, ndr) dal ministro Nordio si evince ancora una volta chiaramente come al governo manchi la capacità oltre che la volontà di comprendere la portata dell’emergenza rispetto alla situazione delle carceri italiane. Non si tratta di effettuare aggiustamenti, anche utili, sulle piante organiche attuali, ma di affrontare con misure immediate una situazione insostenibile. L’occasione è in Senato proprio in questi giorni con il Decreto carceri. In commissione governo e maggioranza irresponsabilmente hanno bocciato tutte le proposte emendative, ma c’è ancora l’aula dove gli emendamenti del Pd e di tutta l’opposizione” “possono dare un contributo”. Critica anche Alleanza Verdi e Sinistra, che ha parlato attraverso Devis Dori, capogruppo nella commissione Giustizia della Camera: “Esiste una emergenza terribile nelle carceri: i suicidi. Le persone detenute si uccidono perché non vedono una prospettiva, non hanno speranza, ma solo una sofferenza a cui non vedono soluzione. A questo fenomeno occorre dare una risposta immediata. Il ministro Nordio dá molti numeri e dati su quanto è stato fatto, ma ad una lettura complessiva della sua azione sfugge il rimedio possibile al male attuale”. Le parole del guardasigilli non sono piaciute neanche a Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa: “Abbiamo appreso di dichiarazioni stampa autoreferenziali e magnificanti del Ministro della Giustizia in cui si dispensano anche una serie di numeri, le quali confermano solo come e quanto a Via Arenula siano scollegati dalla realtà. Non una parola dal guardasigilli sui morti, le rivolte e le tensioni di questi giorni. Ancora una volta ci tocca citare Totò e dire al ministro che è la somma che fa il totale. I numeri che dispensa sono di gran lunga insufficienti e la Polizia penitenziaria effettivamente in servizio è sempre meno. Senza contare che li mette insieme a un piano straordinario per l’edilizia penitenziaria che, ove realizzato, e in proposito nutriamo non pochi dubbi, aumenterà ulteriormente il fabbisogno di risorse umane. È come se si pensasse di poter aprire nuovi ospedali riducendo il personale sanitario”. Carceri, Forza Italia rilancia: “Ma niente amnistie”. E Nordio annuncia un piano straordinario di Emilio Pucci Il Messaggero, 30 luglio 2024 Mentre Forza Italia e i Radicali annunciano in una conferenza stampa iniziative comuni per mantenere alta l’attenzione sulla situazione delle carceri, Carlo Nordio lancia un piano straordinario sugli istituti penitenziari. Prevedendo “un disegno coordinato di interventi per rinnovare - ha detto il ministro della Giustizia - il sistema dell’esecuzione penale, in modo da coniugare la certezza della pena con l’efficacia dei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti e garantire un impatto positivo sulla sicurezza e la coesione”. Un fronte, quello dei diritti e delle condizioni dei detenuti, su cui Forza Italia è tornata alla carica. Con una direttrice chiara: “Non abbiamo mai parlato di amnistia, non è nel programma di governo, non l’abbiamo chiesta. Il problema è fare in modo che vi sia un trattamento dignitoso per chi è detenuto e per i lavoratori nelle carceri”, sottolinea il leader azzurro Antonio Tajani. “Noi accendiamo i riflettori, non c’è un intento polemico. Siamo in perfetta sintonia con le iniziative del governo”. . A San Lorenzo in Lucina hanno preparato un documento contenente una serie di proposte per superare l’attuale emergenza, e messo in programma una serie di visite da effettuare in estate insieme ai Radicali nelle strutture. Previsti incontri con i direttori, i detenuti, gli operatori, i giudici di sorveglianza mentre il ministro della Pa Paolo Zangrillo accelererà i tempi per il rinnovo del contratto della polizia penitenziaria. La consapevolezza degli azzurri - all’incontro con i giornalisti, erano presenti tra gli altri Maurizio Turco e Irene Testa del partito Radicale e per FI anche il viceministro al dicastero di via Arenula Francesco Paolo Sisto - è che la situazione negli istituti penitenziari è allarmante. I garanti territoriali delle persone private della libertà personale hanno scritto una lettera a Nordio che incontreranno il 7 agosto: “Le carceri - l’appello - sono una polveriera a miccia corta, una desertificazione affettiva, sociale e Costituzionale. Una discarica sociale e uno ospizio dei poveri. Chiediamo che le 7.954 persone che hanno un residuo pena al di sotto di un anno siano i primi ad avere un beneficio”. Il ministro ha annunciato “massicce misure” unitamente “al piano straordinario per l’edilizia penitenziaria” e rimarcato il lavoro fatto per fronteggiare l’insufficienza delle attuali piante organiche. Sottolinea Nordio lanciando il nuovo piano: “Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Da qui la necessità di mettere l’emergenza suicidi in cima alla lista delle “priorità” dell’esecutivo. “Dal governo sono state rafforzate le misure per il personale”, l’incipit del Guardasigilli, “solo nel 2024 abbiamo stanziato 10,5 milioni di euro aggiuntivi più che triplicato il budget previsto in bilancio di euro 4,4 milioni, per uno stanziamento totale di euro 14,9 milioni”, la premessa. Dell’intero budget “9,5 milioni sono stati destinati per gli psicologi ed 1 milione per i mediatori culturali”, 7 milioni di euro finanziati per il reinserimento sociale dei detenuti che “hanno requisiti giuridici per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, ma non sono nelle condizioni socio economiche per avere un domicilio idoneo”, 5 milioni serviranno “per incrementare i posti disponibili nelle strutture residenziali per la riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti”. E ancora: nove per rafforzare “le opportunità di formazione professionale e di lavoro per i detenuti, con un aumento del budget di un milione per la formazione e di 8 milioni per il lavoro, in tal modo raddoppiando il budget di bilancio previsto per la formazione, che passa da 1.066.151 a 2.066.151 di euro”. Prosegue Nordio: “È aumentato di 8 milioni il previsto budget di bilancio di 128 milioni di euro per la retribuzione del lavoro intramurale dei detenuti”, sono stati stanziati “19 milioni di euro per gli sgravi fiscali e le agevolazioni alle imprese per incrementare il lavoro all’esterno” e ci sono 270 milioni di euro, cofinanziati dall’Unione Europea, per “l’inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale”. Il ragionamento è che il sistema era “abbandonato da decenni, adesso la visione è più limpida e consentirà di intervenire con misure adeguate e sistemiche”. L’opposizione intanto continua a chiedere che sia modificato il dl carceri. “Serve una risposta immediata”, la richiesta di Avs. “Il governo non volti la testa, la situazione sta esplodendo”, tuona il Pd. Estate infernale in cella. Nordio: “Abbiamo fatto tanto e tanto abbiamo ancora da fare” di Massimo Nesticò ansa.it, 30 luglio 2024 Suicidi: sabato il 57/o dell’anno, uno ogni tre giorni. Ma anche proteste, rivolte ed aggressioni al personale di polizia penitenziaria. È un’estate ad alta tensione nelle carceri italiane sovraffollate (circa 14mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari). L’opposizione attacca il governo. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, respinge tuttavia le critiche: “abbiamo fatto tanto e tanto abbiamo ancora da fare. L’attenzione e l’impegno di tutti noi sono massimi”, assicura, citando un piano di investimenti straordinario per migliorare le condizioni di esecuzione della pena. Nel 2024 il budget è più che triplicato, passando da 4,4 a 14,9 milioni di euro. A breve partirà poi il piano straordinario per l’edilizia penitenziaria. “Sin dall’inizio del nostro insediamento, il mondo penitenziario, nel suo complesso, è stato oggetto di altissima priorità”, aggiunge Nordio, annunciando incontri con il Garante nazionale per detenuti e visite mirate negli istituti. E domani arriverà in Aula al Senato il dl ‘Carcere sicuro’. In contemporanea con le dichiarazioni del ministro, Forza Italia e Radicali italiani hanno illustrato una serie di iniziative congiunte sul tema. “Organizzeremo - ha spiegato il vicepremier e segretario di Fi, Antonio Tajani - visite nelle carceri durante l’estate. Incontreremo detenuti, polizia e tutti gli operatori”. Tajani ha negato contrasti con il ministro della Giustizia ed ha preso le distanze dall’amnistia invocata dai Radicali. “La nostra - ha sottolineato - non è una scelta polemica, ma costruttiva, per raccogliere il maggior numero di dati e informazioni. Siamo in perfetta sintonia con le iniziative di Nordio e del governo. Vogliamo contribuire, senza interventi legislativi, a risolvere la questione carceraria, denunciata con grande forza dal presidente Mattarella”. E si muove anche la Chiesa, che ha donato 2.200 ventilatori per gli istituti penitenziari. “Talvolta, anche un semplice e lieve soffio d’aria può aiutare a vivere meglio il periodo di detenzione”, si legge nella lettera inviata dal segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, al capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. Intanto, la cronaca continua a segnalare episodi critici nelle carceri. In quello di Rieti in mattinata due agenti sono stati sequestrati da un detenuto e poi rilasciati. La scorsa notte, a Biella sette detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella. Ieri disordini nell’istituto di Velletri, con telecamere rotte dagli ospiti ed altri danneggiamenti prima dell’intervento della Penitenziaria con il rinforzo di Carabinieri e Polizia, per sedare il tentativo di rivolta. Anche a Terni un gruppo di detenuti si è rifiutato di rientrare in cella. Forze speciali sono intervenute per sedare la protesta: sette detenuti sono stati posti in isolamento prima di essere trasferiti in un’altra struttura. A Cuneo un padiglione è stato devastato. Capitolo suicidi: sabato scorso un 27enne italiano si è tolto la vita nella sua cella a Prato. Il giorno prima era stato un trentenne, anche lui italiano, ad impiccarsi a Rebibbia. Nordio, da parte sua, ha chiesto ai suoi uffici una ricognizione degli interventi messi in atto in questo anno e mezzo. E tutti i numeri sono positivi: gli educatori sono passati da 905 a 1.089; i mediatori culturali da 3 a 61; i dirigenti penitenziari da 226 a 260; dall’ottobre 2022 ad oggi sono stati immessi negli istituti 3.333 agenti assistenti di Polizia penitenziaria. Non ci sta Federico Gianassi (Pd). Da Nordio, osserva, “un goffo e fallimentare tentativo di auto-assoluzione. C’è poco da sbandierare numeri: quelli dei suicidi e del sovraffollamento parlano da soli e travolgono tutti gli altri”. Dà numeri anche la Conferenza nazionale dei Garanti dei detenuti, che ha chiesto ed ottenuto un incontro con il ministro il prossimo 7 agosto. Per il portavoce della Conferenza, Samuele Ciambriello, “le carceri sono una polveriera a miccia corta, una desertificazione affettiva, sociale e costituzionale. Una discarica sociale ed uno ospizio dei poveri. Chiediamo che le 7.954 persone che hanno un residuo pena al di sotto di un anno siano le prime ad avere un beneficio”. I Garanti: “I detenuti vivono un inferno, ma la politica ci ha fatto l’abitudine” di Angela Stella L’Unità, 30 luglio 2024 Intervista al portavoce Ciambriello: “Abbiamo bisogno di misure immediate anche temporanee. Ottomila reclusi con meno di un anno da scontare: liberateli subito!”. Il 7 agosto l’incontro con Nordio. Samuele Ciambriello, portavoce della conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, cosa ne pensa dei comunicati di Nordio di ieri sulle carceri? Faccio un ultimo appello al Ministro, al Governo e in particolare alla maggioranza. Abbiamo bisogno immediatamente di misure, anche temporanee, volte ad alleggerire la popolazione carceraria. Lo ribadiremo anche nell’incontro che una nostra delegazione avrà con il Ministro il prossimo 7 agosto. Le carceri sono un ospizio dei poveri, ma anche in questo momento una polveriera a miccia corta. La politica si è assuefatta all’inferno che stanno vivendo sia i detenuti che la polizia penitenziaria. Bisogna intervenire ora con gli investimenti per tutto il personale che gravita nelle carceri. Ho notato anche che nei comunicati manca il riferimento ai suicidi. Ma un suicidio ogni tre giorni merita attenzione qui e adesso. Noi non abbiamo bisogno di nuovi istituti penitenziari, di nuove sanzioni penali, di uno Stato securitario, ma di uno Stato sociale che tuteli i diritti e la dignità di tutti, compresi i detenuti. Però ci sono diversi finanziamenti. Nola: 1200 persone, un finanziamento di 45 milioni deliberato otto anni fa e ancora devono costruire il carcere. Poggioreale, 14 milioni per la ristrutturazione di 4 padiglioni. Da 10 anni, solo nel 2024 è partita la ricostruzione di un padiglione. Sono tempi lunghi e in politica sono i tempi delle terre promesse, delle promesse non mantenute. Tra le misure si parla della liberazione anticipata di Giachetti, dell’amnistia, di indulto... Io adesso vorrei una misura per liberare i 7.954 reclusi che hanno un residuo pena al di sotto di un anno e non hanno reati ostativi. Invece di snellire le uscite dal carcere, il decreto carceri fa tutto il contrario. Non lo dico io, lo hanno sottolineato i magistrati di sorveglianza che, criticando il provvedimento, hanno evidenziato come avranno più lavoro e la risposta alle istanze dei detenuti sarà più lenta. Per quanto riguarda amnistia e indulto: lo sconto di ulteriori 30 giorni si può fare subito, già nel decreto carceri, mentre le altre due misure potrebbero essere adottate a media scadenza per chi deve scontare meno di due anni di carcere. E poi vorrei ribadire che non sarebbero una resa dello Stato, sono previste dalla nostra Costituzione. E già applicate 14 volte. Ieri mattina Forza Italia ha fatto una conferenza stampa: Tajani ha detto che la pdl Giachetti non serve più... Bene le visite in carcere annunciate, ma per questo tipo di politica, tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare, qualche volta tra il dire e il fare ci vorrebbe il coraggio di andare oltre. Ha letto l’editoriale di Travaglio che dice che non c’è un problema di sovraffollamento in Italia? Questa veramente è un’offesa alla ragione e alla verità dei fatti e dei numeri. Travaglio dovrebbe sapere che 3.000 detenuti hanno fatto ricorso ai magistrati e i magistrati, non i garanti, hanno riconosciuto una situazione di trattamenti inumani e degradanti. Per questo i detenuti sono stati risarciti o hanno avuto una diminuzione della pena. Le parole di Travaglio sono davvero populismo mediatico. Ieri è stata la giornata più calda dell’estate. Come si vive questo inferno in carcere? Aumentato i tentativi di suicidio, perché il caldo soffocante diventa un fattore di stress significativo, insieme alla mancanza di sistemi di ventilazione, e alla circostanza scandalosa di prevedere l’ora d’aria dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15. In più la mancanza di spazi comuni adeguati e la struttura stessa delle celle possono accentuare il senso di claustrofobia, di isolamento. Per questo noi chiediamo che ci siano le celle aperte, che i blindi tutta la notte restano aperti, perché altrimenti è veramente stressante quello che c’è. In questo periodo, oltre a tutto questo, c’è la sospensione delle attività educative, scolastiche, ricreative, che privano i detenuti di importanti momenti di svago, di apprendimento, quindi aumenta il senso di noia e frustrazione. “In Italia si sconta una condanna illegale. Potrei riprendere lo sciopero della sete” di Luca Monticelli La Stampa, 30 luglio 2024 Rita Bernardini, Radicale storica e pannelliana “fino al midollo”, ora presidente di Nessuno tocchi Caino, nei mesi scorsi ha fatto 26 giorni di sciopero della fame e anche 30 ore di astinenza dal bere e dal mangiare per far calendarizzare e portare al voto in Parlamento la proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. “Attualmente non sono in sciopero della fame, però visti i tempi, se dovessi decidere di riprenderlo purtroppo sarebbe uno sciopero totale della fame e della sete. L’iniziativa nonviolenta di sciopero della sete - sottolinea - è veramente devastante, solo Marco Pannella riusciva a fare quasi una settimana, ma finiva all’ospedale a un passo dalla dialisi”. Bernardini attende la discussione sulla proposta Giachetti, che garantirebbe uno sconto di pena ogni sei mesi dai 45 giorni di oggi a 75 in forma retroattiva partendo dal 2020, e da 45 a 60 giorni per il futuro. “E l’unico modo per decongestionare le carceri”. Riprenderà lo sciopero totale della fame e della sete? “Ci sto riflettendo perché in un’iniziativa del genere contano non i giorni che passano, ma le ore e io non ho la possibilità di avere un medico che monitori costantemente il mio stato di salute visto che non sono una ragazzina e ho problemi cardiaci. E poi un’azione nonviolenta non deve mai avere il sapore del ricatto ma quello di un dialogo fermo con gli interlocutori istituzionali. Non mi sembra, al momento, che ci sia molta voglia di dialogare anche se sono in gioco diritti umani fondamentali”. Cosa ne pensa del decreto carceri di Nordio? “È perfettamente inutile ai fini di ridurre il sovraffollamento. Le nostre carceri sono fuorilegge, con un sovraffollamento medio del 130%, con punte del 220-230% come a San Vittore. Siamo arrivati a 14.500 presenze in più oltre la capienza e a 60 suicidi dall’inizio dell’anno. E lo Stato a commettere reati nei confronti delle persone detenute e di chi in carcere ci lavora. Questo deve essere chiaro”. Anche il ministro Nordio ha detto che in carcere ci sono parecchie persone che non ci dovrebbero essere… “Ma continuano ad esserci, perciò è fondamentale la legge sulla liberazione anticipata che abbiamo condiviso con Giachetti. Peraltro, già adesso i magistrati di sorveglianza riconoscono che i detenuti subiscono un trattamento inumano e degradante. Lo scorso anno in 4.700 si sono visti riconosciuto il diritto di “rimedio risarcitorio”, ovvero ogni 10 giorni di trattamento inumano il detenuto ha diritto a un giorno di liberazione anticipata”. Gli altri Paesi come intervengono? “Il Consiglio d’Europa dice che uno Stato deve prepararsi a intervenire quando la popolazione detenuta è al 90% della capienza, noi siamo al 130%. Da noi nessuno si preoccupa, io lo trovo incredibile. In Italia si sconta una pena illegale che nulla ha a che fare con la Costituzione. La strada è facilitare l’accesso alle misure alternative al carcere”. Carlo Renoldi, ex direttore Dap: “I suicidi in carcere? Quando si diventa invisibili” di Francesco Grignetti La Stampa, 30 luglio 2024 Si muore, dietro le sbarre. Si contano almeno 56 suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, a cui andrebbero sommati i due suicidi avvenuti nei Cpr, i centri per il rimpatrio. Ma tantissimi sono i tentati suicidi, sventati solo all’ultimo istante. E poi i casi di autolesionismo. E le liti, le risse, le aggressioni. Un clima umano invivibile, dove il caldo e il sovraffollamento di questa estate incidono moltissimo. E così denunciano molti Garanti territoriali per i diritti dei detenuti. Quella di Roma, Valentina Calderone, ha spiegato ieri che nel solo carcere di Regina Coeli il sovraffollamento è cresciuto del 180% in un anno. “Ma quando si dice sovraffollamento - dice Carlo Renoldi, magistrato di Cassazione, penultimo direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai tempi del governo Draghi - non si deve pensare solo e soltanto ai disagi materiali, che nessuno può negare. Sovraffollamento significa un’amministrazione sopraffatta dai numeri, dove non si riesce più a garantire nemmeno l’ordinario”. Trattandosi di carceri, significa che i detenuti passano tante più ore chiusi in cella, e ricevono solo silenzio alle loro istanze. Dice Renoldi, che qualche giorno fa ha tenuto un’audizione alla commissione Giustizia del Senato: “Certamente il suicidio è un fenomeno complesso, che non è il caso di banalizzare. Si può dire che il filo rosso che lega tante storie diverse è il senso di essere diventati invisibili agli occhi del mondo. E allora, tanto vale levare il disturbo. Possono essere mille le cause scatenanti. A volte, la decisione di un giudice che si reputa ingiusta. Altre volte, una moglie, che decide di interrompere ogni contatto. Con il tempo trascorso dentro, il mondo delle relazioni si disfa”. È stato notato che moltissimi suicidi arrivano quando la pena sta per finire. Sono detenuti che non sopportano l’arrivo della libertà, perché per essi significa tornare al punto di partenza. “Sì, ed è la conferma di quanto dicevo. Ci sono giovani che non riescono ad immaginare il ritorno dai genitori perché provano la vergogna di essere ancora tossicodipendenti. Quelli che non hanno più una famiglia dove tornare, perché i figli non ne vogliono più sapere. Chi non aveva un lavoro prima, a maggior ragione non ci spera più. Molti si sentono inadeguati”. Questo groppo alla gola del rientro nella società è ovviamente antico. “Infatti da direttore del Dap trovai una circolare sui cosiddetti “dimettendi”, coloro che sono sul punto di essere dimessi. Un passaggio notoriamente delicato. A maggior ragione andrebbero moltiplicati gli sforzi per la presa in carico. E invece, con i numeri che ci sono, tutto ciò diventa impossibile”. Renoldi, insomma, rifiuta ogni meccanicismo. Non c’è un algoritmo che dice tot sovraffollamento, tot suicidi. I meccanismi dell’animo umano sono più complicati. Ma questo non scagiona lo Stato dalle sue responsabilità. “Occorre un sistema di ascolto. Perché dietro ogni suicidio ci sono i segnali e vanno colti. È ovvio che se la tua domanda di parlare con l’educatore finisce in fondo perché ce ne sono altre cento prima, e così con il comandante delle guardie, con il direttore, o con il magistrato, se cioè il tuo grido di aiuto non viene nemmeno visto perché dall’altra parte il personale è sempre più stanco e carente, ecco che scatta la sensazione di essere solo un numero e non più una persona. Si sta male. Si perde la propria identità. E questo è l’effetto più drammatico del sovraffollamento”. Al Senato è in discussione il decreto Carceri del governo. Nessun premio in più per la buona condotta. Qualche miglioramento nelle procedure della magistratura di Sorveglianza. Sei telefonate al mese anziché quattro. Per Renoldi è davvero troppo poco perché le telefonate potrebbero aiutare a tenere quantomeno i fili dei rapporti familiari. “Il sistema penitenziario - ha spiegato nella sua audizione - si deve dotare di meccanismi di ascolto, per provare a intervenire. Ovviamente nella consapevolezza, che tutti dobbiamo avere, dell’estrema complessità di articolare risposte efficaci. Se la mia famiglia mi ha sostanzialmente abbandonato e io ho deciso di farla finita… gli interventi da realizzare sono di estrema complessità. Noi nell’agosto del 2022 facemmo una circolare che cercava di mettere in rete e attivare un’integrazione della risposta penitenziaria con quella dei servizi sul territorio. Che purtroppo in molte realtà manca del tutto”. La vergogna del Dap che multa il capo di un carcere per gli errori del Dap di Annarita Digiorgio Il Foglio, 30 luglio 2024 L’amministrazione penitenziaria ha trovato il responsabile di tutti i problemi delle carceri italiane: il direttore del carcere di Sollicciano. La soluzione è altrettanto semplice: multare la dottoressa Antonella Tuoni, mentre i detenuti cadono come birilli. L’amministrazione penitenziaria ha trovato il responsabile di tutti i problemi che insistono sulle carceri italiane: il direttore del carcere di Sollicciano. Ecco quindi la soluzione per risolvere sovraffollamento, degrado, caldo, assenza di cure, recidiva, e suicidi: multare la dottoressa Antonella Tuoni, e intimarle di bonificare il carcere fiorentino entro 90 giorni. A sue spese. Sembra una barzelletta di quelle che si tramandano di cella in cella, invece è successo veramente. Tre settimane fa nel carcere fiorentino si è tolto la vita un ragazzo di venti anni, che aveva denunciato le gravi carenze igienico sanitario nella sua cella, compresa la presenza di cimici e topi. In seguito a quell’episodio si è scatenata una rivolta da parte di centinaia di detenuti che da mesi denunciavano le condizioni non più sostenibili nel carcere di Sollicciano. Sono intervenute tutte le istituzioni, sindaco di Firenze, presidente di regione, sindacati, camere penali, associazioni, garanti dei detenuti, chiedendo un intervento immediato. Il Pd ha presentato un emendamento al dl infrastrutture per un intervento di ristrutturazione da 20 milioni: respinto. Un magistrato di sorveglianza il 10 luglio ha accolto il reclamo di un detenuto con un’ordinanza con cui ha imposto lavori di sanificazione entro 60 giorni riconoscendo che “a causa delle condizioni degradanti dell’istituto, è gravemente compromesso il diritto alla salute e a una detenzione rispettosa del senso di umanità e della propria dignità”. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria da Roma ha inviato gli ispettori. Che dopo il sopralluogo hanno scaricato tutta la responsabilità sul direttore del carcere, con una multa da 25 mila euro a sue spese. Aggiungendo che “le violazioni alle norme saranno comunicate alla procura di Firenze, con la conseguente apertura di una indagine”. Il Dap ha intimato alla dottoressa Tuoni di “bonificare gli ambienti di lavoro, in particolare le pareti e le scale delle sezioni detentive del reparto giudiziario intrise di tracce presumibilmente ematiche e non solo, ma anche per quanto riguarda la presenza di insetti, cimici, blatte”. Obbligandola entro 90 giorni “al ripristino dell’agibilità dei corridoi, delle celle, dei locali comuni e del locale destinato a colloqui telefonici, anneriti a seguito di incendi; il controllo dell’impianto elettrico rispetto alle gravi e diffuse infiltrazioni di umidità e muffe; l’installazione di impianti di aerazione e di ricircolo dell’aria nelle postazioni agenti dei reparti detentivi; l’incremento del numero degli addetti al primo soccorso e addetti antincendio per ogni turno di servizi”. Ma i lavori di straordinaria manutenzione non vengono appaltati dai direttori, che hanno un potere di spesa limitato e delegato. Il sindaco Sara Funaro, il garante dei detenuti, le associazioni, si sono schierati a difesa del direttore del penitenziario, che in ripetute lettere aveva segnalato che i lavori erano stati appaltati dal provveditorato nel 2020, ma erano fermi. Mentre il Dap scarica la colpa tutta su di lei, che certamente farà ricorso. E i suoi colleghi inizieranno a tutelarsi, o a scappare. Nel frattempo i detenuti muoiono come birilli in cella. Nelle celle da Nord a Sud ogni giorno una protesta. Paura per due agenti a Rieti di Alessandro D’Amato La Nazione, 30 luglio 2024 I poliziotti sequestrati per alcune ore: “Ha tentato anche di colpirli”. Genova, donna di 31 anni salvata in extremis dopo aver tentato di impiccarsi. Si è salvata per un attimo. Una detenuta nata in Francia ma di cittadinanza bosniaca di 31 anni ha tentato di impiccarsi nella sua cella nel carcere genovese di Pontedecimo intorno alle 21,30 di domenica sera. Ma per fortuna gli agenti l’hanno liberata in tempo dal cappio messo insieme con le lenzuola del letto e sono riusciti a praticarle con successo la manovra salvavita. Ora la ragazza è ricoverata all’ospedale San Martino. Sarebbe stata la sessantunesima vittima del 2024. Nella notte di ieri invece sette detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella nella casa circondariale di Biella. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uipa Polizia Penitenziaria, parla di “gravi disordini. Agenti liberi dal servizio, sono stati richiamati per cercare di dare manforte allo sparuto gruppo al lavoro, attese le voragini negli organici della polizia penitenziaria”. Tre giorni fa sempre a Biella un detenuto aveva appiccato un incendio nella sua cella. Anche qui a trarlo in salvo due agenti di servizio, poi rimasti intossicati e ricoverati in ospedale. “Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale; per questo sin dall’inizio del nostro insediamento, il mondo penitenziario, nel suo complesso, è stato oggetto di altissima priorità. Abbiamo fatto tanto e tanto abbiamo ancora da fare. L’attenzione e l’impegno di tutti noi sono massimi”, dice il ministro della Giustizia Carlo Nordio, assicurando che “dal governo sono state rafforzate le misure per il personale delle carceri”. Intanto l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali fa sapere che al 30 giugno scorso i dati ministeriali segnalavano la presenza di 23 madri in carcere e 26 figli al seguito. Nella sezione femminile di Milano-San Vittore ci sono 5 madri e 6 bambini sotto i tre anni. I penalisti segnalano che su tutto il territorio nazionale ci sono solo 5 Icam (Istituti a custodia attenuata per le detenute madri), che sono “strutture comunque chiuse e inidonee perciò alla corretta formazione e allo sviluppo del bambino”. Termina dopo un incontro con il garante dell’Umbria Giuseppe Caforio invece la protesta dei detenuti di Terni. Caforio fa sapere che sono intervenute anche le forze speciali e che sette detenuti posti in isolamento dovrebbero essere trasferiti altrove: “Qui la situazione è grave per la carenza di personale e per il numero di detenuti, arrivato oggi a 570, di cui almeno 150 con problemi psichici”. La senatrice di Avs Ilaria Cucchi chiede al governo di cambiare il decreto: “Oltre 14 mila detenuti in più rispetto alla capienza e, nel solo 2023, sono stati più di 4mila i detenuti cui sono stati riconosciuti risarcimenti per trattamenti inumani e degradanti”. Momenti di grande tensione, ieri mattina, nella casa circondariale ‘Nuovo complesso’ di Rieti, dove due agenti della Penitenziaria, secondo quanto denuncia il sindacato Sappe, sono stati di fatto sequestrati da un detenuto. Il detenuto “ha pure tentato di colpire, senza riuscirci, i due colleghi, poi rilasciati dopo una fondamentale opera di mediazione e convincimento da parte di altri poliziotti penitenziari giunti tempestivamente”. Il regalo della Cei ai detenuti: 2.200 ventilatori nelle prigioni italiane Avvenire, 30 luglio 2024 I primi 80 apparecchi sono stati consegnati a giugno dal cardinale Zuppi a Rebibbia. Monsignor Baturi: la Chiesa esprime così con un semplice gesto la sua vicinanza. Nell’estate rovente che si sta attraversando, un gesto di solidarietà verso i detenuti delle carceri italiane. La Chiesa infatti, come annunciato a metà giugno il cardinale Matteo Zuppi con la visita a Rebibbia a cui furono destinati 80 apparecchi, ha disposto la donazione di 2.200 ventilatori per gli Istituti penitenziari sparsi nel Paese. “Talvolta, anche un semplice e lieve soffio d’aria può aiutare a vivere meglio il periodo di detenzione - si legge nella lettera inviata dal segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi, al capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Russo -. La Chiesa desidera ricordare la propria vicinanza ai detenuti, ribadire che c’è vita oltre quelle sbarre e che loro sono nella condizione di poter sperare che un giorno, dopo il percorso riabilitativo, quelle porte possano riaprirsi”. Da qui l’iniziativa “Semi di tarassaco volano nell’aria”. “La Chiesa, come il tarassaco, fiorisce, si apre e - grazie al soffio dello Spirito - si scoprire presente oltre le sue stesse mura, anche tra i detenuti”, sottolinea ancora Baturi. La donazione di 2.200 ventilatori a 31 carceri da un capo all’altro della Penisola, “per aiutare i reclusi, soprattutto i più fragili della sezione ‘Infermeria’, ad affrontare il caldo estivo con un minor disagio”, viene realizzata dalla Cei in collaborazione con il Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica e l’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri. Le consegne sono state effettuate già da giugno. È stato il cardinale Matteo Zuppi a dare il via all’iniziativa il 12 giugno, consegnando 80 ventilatori alla Direzione della Casa Circondariale femminile di Rebibbia a Roma. “È la carezza di una madre che vi sta vicino”, ha affermato rivolgendosi alle detenute. Si tratta, ha aggiunto, di “un piccolo gesto, ma l’amore è nelle cose semplici. Le attenzioni le ritroviamo nelle buone parole, nell’ascolto paziente; altre volte in gesti grandi o piccoli, come questo”. Facendo riferimento al titolo del progetto, Zuppi ha sottolineato che “come i fiori del tarassaco, i soffioni, volano dappertutto, così l’affetto della Chiesa arriva in carcere, portando un po’ di sollievo”. “Un dono simbolico che dice l’attenzione per questa nostra comunità, dove si tocca con mano la povertà”, ha detto Nadia Fontana, direttrice della Casa circondariale, che ha espresso “gratitudine alla Conferenza Episcopale Italiana, ai cappellani, ai volontari che sempre, con spirito di carità, ci sostengono, senza pretendere nulla in cambio, facendoci sperimentare un conforto materiale e spirituale costanti”. Per i Rambo italiani c’è una direttrice ma nessun agente di Enrica Riera e Nello Trocchia I Domani, 30 luglio 2024 Il sottosegretario Andrea Delmastro ha annunciato la formazione di un nuovo corpo speciale per fronteggiare le rivolte in carcere e sedarle con le maniere forti. Sul modello dell’Eris francese, anche l’Italia avrà i suoi super poliziotti penitenziari. Per ora però c’è solo la dirigente. Non c’è solo il reintegro degli agenti sospesi per l’orrendo pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il governo per fronteggiare l’aumento delle rivolte ha pensato di istituire un nuovo corpo scelto sul modello francese. C’è solo un problema, i Rambo pensati dal sottosegretario, Andrea Delmastro Delle Vedove, e presentati in pompa magna, non hanno personale. “Con il Gio si vorrebbe mettere un elegante cappello, ma lasciando il corpo (di polizia penitenziaria) in mutande. Se non si stabilizza il sistema e non si mettono in legalità le carceri, viene meno il presupposto stesso del Gio, che dovrebbe essere chiamato per ripristinare proprio quella legalità che manca. Peraltro, è ancora solo sulla carta, devono ancora codificarsi i criteri di selezione del personale ed è ben lungi da realizzarsi concretamente. Una piccola fortuna questa, considerato che stando così le cose contribuirà solo a togliere ulteriori agenti alle carceri”, spiega Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa. Ma chi sono i rambo che sogna Delmastro? Si calano dal soffitto con una fune, si muovono in gruppo, provvisti di scudi, tenuta antisommossa e fumogeni, e in coppia immobilizzano l’obiettivo. Sono gli uomini dell’Eris francese, super agenti della penitenziaria chiamati a sedare le rivolte nelle carceri. Un video, pubblicato da La Provence, mostra come questi poliziotti - verso cui diversi sono stati i giudizi critici da parte dell’organismo europeo che si occupa di tutela dei diritti dei detenuti - si allenino nel corso della loro formazione. Laurent Ridel, direttore dell’amministrazione penitenziaria francese, ricorda che l’Eris, nato “nel 2003 per affrontare ammutinamenti ed evasioni”, garantisca la “sicurezza” all’interno dei penitenziari. Affascinato dal sistema d’intervento d’Oltralpe, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, nelle scorse settimane ha così annunciato l’arrivo dei super agenti anche in Italia. Si chiama Gio il nuovo gruppo di intervento operativo che, proprio su modello dell’Eris francese, presterà servizio negli istituti penitenziari del paese, gli stessi dove manca personale di polizia e i problemi, dal sovraffollamento fino alla mancanza di diritti, sono all’ordine del giorno. Delmastro, la costituzione dei Gio, l’ha poi annunciata in pompa magna: conferenza ufficiale, alla presenza, tra gli altri, della direttrice del neo gruppo, Linda De Maio. In pratica c’è un primo dirigente nominato, un capo degli agenti speciali della penitenziaria, ma mancano ancora i poliziotti che comporranno effettivamente questi nuclei d’azione, verso cui a sollevare dubbi e criticità sono stati, oltre alla Camera penale di Roma, persino i sindacati della polizia penitenziaria. I motivi delle perplessità? Il fatto, anzitutto, che i nuovi reparti, pronti a operare anche negli Istituti penali minorili, sottrarranno “risorse alla penitenziaria, già numericamente inadeguata”. Un’idea, quella del sottosegretario alla Giustizia, covata da tempo: Delmastro Delle Vedove, a giugno 2023, andò del resto in missione a Parigi. Qui l’incontro con Ridel e la visita alla base dell’Eris “per un utile scambio”, si legge in una nota, “di buone prassi”. I “Rambo” francesi inoltre, come emerge dal video de La Provence, svolgono una “formazione di dieci settimane di addestramento iniziale, molto impegnativa”; quelli italiani, invece, come sottolinea l’associazione degli avvocati romani, si cimenteranno in “una formazione di soli tre mesi”. In entrambi i casi, tuttavia, l’obiettivo sembrerebbe essere lo stesso: sorvegliare e punire. Turetta e Di Nardo, vittime di amore paterno e di gogna di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 30 luglio 2024 Due uomini travolti dalla tragedia dei figli assassini, costretti a una paternità sacrificale e a subire gli appetiti e il giudizio implacabile dell’opinione pubblica. Nicola Turetta come Francesco Di Nardo. Due padri colpiti da una tragedia, i quali si ritrovano ad avere tra le mani e nella propria vita un figlio o una figlia assassini e diventano a loro volta vittime del proprio amore incondizionato per coloro che hanno contribuito a far venire al mondo e che li conduce, forse loro malgrado, a una sorta di paternità sacrificale incompresa e dileggiata. Era successo oltre vent’anni fa a Francesco Di Nardo, un ingegnere di Novi Ligure, Piemonte ricco e tranquillo, che conduceva una vita di normalità in una villetta con la moglie e due figli, Erika di 16 anni e Gianluca di 11. Poi successe che la ragazzina fu presa da impazzimento, gelosia per il fratellino o chissà che altro, e con la complicità del fidanzatino coetaneo Omar sterminò la mamma e il piccolo Gianluca con 96 coltellate. Voleva uccidere anche il padre, ma questa era rimasta un’intenzione. Ma sarà proprio lui poi la salvezza della ragazza. Giorno dopo giorno è rimasto con la figlia assassina, non mancando mai una visita carceraria e chiedendosi sempre in che cosa lui stesso avesse sbagliato. È quello che oggi rimprovera lo psicanalista Paolo Crepet a Nicola Turetta, l’altro padre di assassino, e qui siamo nel Veneto, altra regione del nord super sviluppata e benestante. Se si parla di responsabilità, quella riguarda anche i genitori, certo. E forse, in quel primo incontro in carcere, dopo che Filippo era stato arrestato per aver ucciso, anche lui con un numero sterminato di coltellate, l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, ci si sarebbe aspettato che emergesse anche la responsabilità incolpevole dei genitori, insieme a quella del ragazzo assassino. E forse c’è stata, non sappiamo. Perché conosciamo solo, e forse è anche troppo nella sua sostanziale inutilità, quello che qualcuno senz’anima ha voluto fosse verbalizzato benché superfluo per l’inchiesta, e poi un altro senz’anima ha segnalato ai giornalisti e poi quelli, in particolare quelli senz’anima, hanno rotto le uova della compassione e hanno fatto la frittata della gogna. Che non si nega a nessuno, basta che sia altro da sé e dai propri cari. Poi quando ti capita, e magari sei un segretario di partito, strilli e diventi garantista. Nicola Turetta in quella breve frase consolatoria per il figlio davanti al quale provava imbarazzo angosciante perché, come sta dicendo oggi, “un po’ è tuo figlio e un po’ non lo riconosci più”, ha buttato fuori dal petto una serie di concetti raffazzonati e tutti sbagliati. La più tremenda è “hai avuto un momento di debolezza”. Perché non è vero e sono lì a dimostrarlo due anni di messaggini a Giulia, persecutori e assillanti fino alla patologia. Oltre alla programmazione e premeditazione, su cui è inutile insistere perché sarà oggetto di battaglia in aula, quando in settembre comincerà il processo. Ma si deve anche capire, Crepet ci perdonerà, che questi due genitori, dopo che la gran cassa mediatica era stata tutta a voce altissima e scritta con le maiuscole, tanto che Giulia è diventata un simbolo del femminicidio, un po’ come Tortora per la malagiustizia, si sono trovati davanti un ragazzino impaurito per l’enormità dei suoi gesti. E hanno cercato le parole per confortarlo. Non c’era l’assassino davanti a loro in quel momento, ma il loro bambino che avevano allevato a cresciuto. E hanno cercato di proteggerlo. Temevo per il suo suicidio, ha detto ieri suo padre in un’intervista al Corriere. E l’immagine di Giulia è rimasta inevitabilmente sfuocata, sullo sfondo. Certo, frase sbagliatissima, da darsi pugni sulla testa, come infatti Nicola sta facendo. Ma la sua è una responsabilità senza colpa. È padre, prima che genitore di assassino. Davanti a quel figlio che improvvisamente a causa dell’enormità dei suoi gesti è diventato una figura enorme, i genitori finiscono per sentirsi piccini. Infatti il padre annaspa, dice frasi apparentemente senza senso, o banalmente sbagliate. Non sei un mafioso, figlio mio. Sei un femminicida e come te ce ne sono tanti altri. Lo sforzo di riportare il figlio lungo binari di normalità, quella tremenda contro le donne, ma anche quella della laurea, della vita che riprende. Ha senso che questa persona perbene, che non era preparata a questa svolta della vita, che vuol proteggere dalla tragedia un altro figlio incolpevole, sia stata costretta a umiliarsi pubblicamente, a chiedere scusa, a inginocchiarsi sui ceci, a esibirsi in faticosi autodafé, davanti al più crudele dei tribunali del popolo? No, non ha senso alcuno. Chi sono io, per giudicare, ha detto una volta, all’inizio del suo pontificato, papa Francesco. Ecco, chi siamo noi? La parola “responsabilità”, se vale per Nicola Turetta, come già per Francesco Di Nardo, vale anche per tutti noi. E soprattutto per noi giornalisti, troppo spesso complici dei più schifosi tribunali di piazza. Una volta di più, nei giorni scorsi, come sempre. Abbassiamolo un po’, quel ditino sempre alzato. Conversazione tra Turetta padre e figlio sui giornali, tutti i dubbi degli avvocati di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 luglio 2024 L’Aiga “condanna fortemente quanto accaduto” mentre l’avvocato Antonio Gagliano (Cnf) si chiede: “Perché non rispettare almeno il sentimento paterno e materno?”. Le conversazioni tra Filippo Turetta e i suoi genitori sono finite su tutte le televisioni e su tutti i giornali, sollevando, da più parti, una serie di interrogativi. Quale esigenza di informazione è stata soddisfatta nel riportare il contenuto dei dialoghi tra il giovane accusato dell’omicidio di Giulia Cecchetin e i suoi genitori, disperati per quanto commesso dal figlio e consci del fatto che non lo rivedranno per molto tempo? Nessuna. Eppure, l’informazione spesso si deve nutrire di parole o gesti che dovrebbero essere relegati solo ad una cerchia ristrettissima di persone. Giovanna Ollà, penalista del Foro di Rimini, nonché consigliere segretario del Consiglio nazionale forense, invita alla cautela. “Questa volta - dice - il tema è veramente di un’evidenza palmare e deve essere affrontato seriamente. Non siamo in un contesto di intercettazioni e di valutazione dell’utilità o dell’utilizzabilità delle intercettazioni da un punto di vista endoprocedimentale. Occorre fare una riflessione sul fatto che certe conversazione siano state pubblicate. Il padre di Filippo Turetta è un soggetto terzo. Abbiamo assistito ad una vera e propria entrata a gamba tesa in un rapporto familiare, personale, intimo, che doveva rimanere tale”. Dalle aule giudiziarie al “tribunale dei social”. “Ora - aggiunge Ollà - si rimprovera al padre di Turetta di avere avuto una parola di umanità e di rassicurazione, peraltro palliativa. Ci troviamo di fronte ad un crimine efferato, ma abbiamo un altro imputato davanti ad una corte morale, il signor Turetta, accusato, forse anche addirittura di averlo generato. Noi non possiamo andare a indagare sul perché quest’uomo abbia pronunciato una parola di conforto verso il figlio. Cosa cambia nell’economia di un’indagine già fatta, completata e con una confessione? Vogliamo lapidare il padre di Filippo Turetta? Siamo seri”. L’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) esprime forti perplessità sulla vicenda e “nel pieno rispetto della vittima e del dolore dei suoi cari, condanna tuttavia fortemente quanto accaduto: si tratta, infatti, di dichiarazioni prive di rilevanza processuale e la loro pubblicazione sembra avere come unico obiettivo quello di alimentare ancor di più la “morbosità” di chi è ad essa avvezzo, rischiando di esporre ad un concreto rischio la sicurezza dei genitori di Turetta, in ragione di un fomentato odio che ha fatto seguito a detta pubblicazione”. L’Associazione italiana giovani avvocati si sofferma sul sempre più labile confine tra i fatti che vengono raccontati in televisione e sulla stampa e alcune distorsioni che ne conseguono. “Pur ribadendo ancora una volta la vivida e più ferma condanna di qualsivoglia violenza nei confronti delle donne - evidenzia il presidente nazionale dell’Aiga, Carlo Foglieni - quanto accaduto va oltre il diritto di cronaca e rientra appieno in quel disdicevole fenomeno del processo mediatico e della “spettacolarizzazione del dolore”. La diffusione delle intercettazioni del colloquio in carcere tra padre e figlio è, dunque, un fatto di una gravità inaudita che merita un necessario accertamento da parte delle competenti autorità”. L’avvocato Antonio Gagliano, componente del Consiglio nazionale forense, si pone delle domande per riflettere su quanto accaduto. “Turetta - afferma Gagliano - ha perpetrato uno dei più efferati delitti di questi anni. Non c’è dubbio, la mia condanna è ferma, univoca e non credo a mitigazioni per seminfermità o altro perché, in difetto di altri elementi, i sentimenti ossessivi di possesso verso un’altra persona non possono essere considerati patologia psichiatrica. Detto questo, però, mi chiedo: che necessità poteva esserci per intercettare e registrare il primo colloquio in carcere coi suoi genitori? Perché invadere la sfera intima di quei genitori, di un padre ed una madre, in preda alla disperazione eppure costretti a mostrarsi sereni, positivi, a dare speranze al loro figlio, feroce assassino, ma pur sempre figlio? Cosa, ai fini delle indagini poteva venir fuori da quel colloquio visto che Turetta aveva confessato di aver inferto le feroci coltellate? Perché non rispettare almeno il sentimento paterno e materno?”. Lo sputtanamento mediatico, rito feroce di una religione implacabile di Guido Vitiello Il Foglio, 30 luglio 2024 Recitare il tarantiniano “Ezechiele 25:17” ai responsabili giudiziari e giornalistici della rivelazione delle parole di Turetta padre sarebbe un bel contrappasso. Ezechiele 25:17: “E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno…”. Senz’altro ricorderete il passo biblico mezzo apocrifo che Samuel L. Jackson, in “Pulp fiction” di Quentin Tarantino, declama solennemente un istante prima di sparare a qualche malcapitato. Ebbene, reciterei volentieri lo pseudo-Ezechiele per impallinare metaforicamente i responsabili giudiziari, giornalistici e instagrammatici dello sputtanamento del padre di Filippo Turetta, specie per aver costretto il poveruomo a una umiliante seppur comprensibile (ha già abbastanza guai) contrizione pubblica. Mi sembrerebbe tutto sommato un buon contrappasso, considerato che tutti costoro amministrano per le greggi dei fedeli un rito feroce, di una religione tanto più implacabile quanto meno sa di esser tale. Matteo 12:36 (questa è vera): “Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio”. Ecco, i sacerdoti di questo rito permanente vivono in una contraffazione maligna del tempo messianico, un dies irae da social network in cui tutto ciò che è nascosto dev’essere rivelato e in cui nulla resterà invendicato - conversazioni private, diari, sfoghi, battute a mezza bocca, fuorionda, messaggini, fischiettamenti sotto la doccia, colloqui con gli avvocati e presto, chissà, intercettazioni in confessionale. E su ogni parola oziosa esercitano il loro truce, stolido, pedante, insulso letteralismo. Perché la lettera uccide, e loro non vogliono niente di meno che questo. Calabria. Linee guida per il mantenimento del legame familiare nelle carceri cosenzachannel.it, 30 luglio 2024 Luca Muglia, Garante regionale dei diritti dei detenuti, pubblica le Linee Guida per il mantenimento del legame familiare, garantendo diritti fondamentali e supporto alla genitorialità. L’adozione delle nuove Linee Guida per i diritti dei detenuti e dei loro figli minori segna un importante avanzamento nella tutela dei diritti umani all’interno del sistema penitenziario italiano. Queste raccomandazioni, promosse dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia, mirano a garantire il mantenimento del legame affettivo tra genitori detenuti e i loro figli, assicurando al contempo il rispetto delle garanzie procedurali nei procedimenti giudiziari che coinvolgono la responsabilità genitoriale. Le Linee Guida sono frutto di un intenso dialogo con diverse istituzioni e organizzazioni, tra cui la Magistratura minorile e di sorveglianza, gli Ordini degli Avvocati, l’Amministrazione penitenziaria, le associazioni forensi, e il Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale. Questo approccio collaborativo ha permesso di creare un documento che contempera le esigenze di tutela della persona detenuta con quelle dei figli minori, promuovendo il diritto alla bigenitorialità e l’adozione di percorsi di sostegno alla genitorialità. L’importanza della Bigenitorialità - Le Linee Guida enfatizzano l’importanza del diritto dei figli minori a mantenere un legame affettivo continuativo con il genitore detenuto. Questo principio si basa sulla convinzione che il legame con entrambi i genitori sia fondamentale per il corretto sviluppo emotivo e psicologico dei bambini. In particolare, si sottolinea che la detenzione di un genitore non dovrebbe di per sé determinare una limitazione o una perdita dei diritti genitoriali, se non strettamente necessario e giustificato. Garanzie Procedurali e Sostegno alla Genitorialità - Le Linee Guida propongono misure specifiche per garantire che le procedure legali relative alla responsabilità genitoriale tengano conto della situazione particolare dei detenuti. Questo include l’assicurazione che i detenuti abbiano accesso a rappresentanza legale adeguata e che le decisioni giudiziarie siano basate su valutazioni obiettive e non influenzate negativamente dallo stato di detenzione. Inoltre, si raccomanda la creazione di spazi idonei all’interno delle carceri per permettere incontri tra detenuti e figli in condizioni che rispettino la dignità e il diritto all’affettività. Questi spazi dovrebbero essere progettati per facilitare un’interazione positiva e naturale tra genitore e figlio, contribuendo così a mantenere e rafforzare il loro legame. Sentenza della Consulta e Implicazioni - Una recente sentenza della Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto delle persone detenute all’affettività e a colloqui riservati, sottolineando l’importanza della privacy e dell’idoneità dei luoghi di incontro. Questa sentenza è rilevante anche per gli incontri tra genitori detenuti e figli, specie se minori, e rappresenta un riconoscimento legale del diritto dei detenuti a mantenere relazioni familiari significative. Collaborazioni e Studi Multidisciplinari - Il Garante regionale, Luca Muglia, ha sottolineato come le Linee Guida siano il risultato di un processo di collaborazione con vari settori, inclusi studi scientifici sull’epigenetica in ambito penitenziario. Questa ricerca evidenzia come la qualità dell’interazione tra genitori e figli nei luoghi di detenzione possa influenzare significativamente il percorso rieducativo del detenuto e lo sviluppo della personalità dei minori coinvolti. Collaborazioni con esperti come i neuroscienziati Antonio Cerasa e Umberto Sabatini, e la docente dell’Università di Madrid Federica Coppola, hanno fornito un contributo fondamentale a questo lavoro. Prospettive Future - Le nuove Linee Guida rappresentano un passo importante verso un sistema penitenziario che rispetta la dignità umana e promuove il benessere sia dei detenuti che dei loro figli. Tuttavia, la loro attuazione richiederà un impegno continuo da parte di tutte le parti coinvolte, inclusi legislatori, amministratori penitenziari, e professionisti del diritto. L’obiettivo è costruire un ambiente in cui i diritti fondamentali siano rispettati e le relazioni familiari possano fiorire, anche in un contesto così difficile come quello carcerario. Prato. Detenuto si uccide in carcere. La protesta degli avvocati: “Allarme lanciato da tempo” di Laura Natoli La Nazione, 30 luglio 2024 La manifestazione della Camera penale di fronte al tribunale: “Necessario risvegliare la coscienza delle istituzioni”. Bugetti: “Nordio venga a vedere la situazione del carcere”. Una manifestazione, organizzata dalla Camera penale di Prato, per portare all’attenzione di tutti la situazione del carcere della Dogaia, e di tutte le carceri italiane, dopo l’ultima tragedia avvenuta sabato quando un detenuto, italiano di origine sinti di 27 anni, si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola nella sua cella. Inizialmente il presidio si doveva tenere di fronte alla Dogaia ma per motivi di ordine pubblico - il timore che all’interno del carcere potesse scoppiare un’altra rivolta - è stato chiesto agli avvocati di scegliere un altro posto. Gli avvocati si sono radunati dunque di fronte al tribunale. “Si tratta del 60esimo suicidio di questo 2024 e del quinto nel carcere di Prato - dicono dalla Camera penale - dopo che nei mesi scorsi avvocatura, personale di polizia penitenziaria, Uepe, insegnanti e personale medico avevano denunciato a gran voce le criticità del nostro penitenziario, che stanno rapidamente diventando insostenibili”. La manifestazione è stata organizzata sia “per rendere un ultimo saluto all’ennesima vita umana vittima (anche) della negligenza delle istituzioni sia per ‘risvegliarè le coscienze di tutti”. Secondo quanto ricostruito il giovane sinti doveva scontare una condanna fino al 2032. Aveva usufruito di un permesso ma non aveva fatto rientro al carcere tanto che era stato denunciato per evasione. Un episodio che aveva aggravato la sua posizione e che faceva sfumare la possibilità di poter accedere a nuovi permessi, almeno nel breve periodo. La vicenda ha toccato da vicino la città e le reazioni sono state tantissime. “Il carcere di Prato attualmente non ha un direttore titolare. Non ha un comandante titolare. Ha una gravissima carenza di organico di polizia penitenziaria e si trova in una condizione di sovraffollamento”, hanno scritto la sindaca Ilaria Bugetti e il presidente del consiglio comunale Lorenzo Tinagli in una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere un incontro urgente e invitarlo a verificare di persona la gravità della situazione “con l’obiettivo di adottare dei miglioramenti”. “In sette mesi - proseguono -, tre detenuti si sono tolti la vita, con una striscia di morte iniziata alla fine del 2023. Sono casi dolorosi che rappresentano solo la punta di una condizione alla quale detenuti, agenti di polizia penitenziaria, operatori sono costretti, e che più volte alla nostra istituzione hanno rappresentato la condizione di seria difficoltà”. “La morte del giovane detenuto - dice Marco Biagioni, segretario Pd Prato - è una tragedia annunciata. Secondo l’associazione Antigone ogni anno nella nostra casa circondariale si registrano 200 casi di autolesionismo. Sono numeri allarmanti che non possono lasciarci indifferenti ma devono spingerci ad agire con forza per dare piena attuazione all’articolo 27 della nostra Costituzione. La Dogaia, come noto, è cronicamente sotto organico, dal contesto sanitario a quello amministrativo, dal personale di polizia penitenziaria agli educatori. Investire nelle risorse umane all’interno del carcere, potenziando il numero di professionisti specializzati in ambito sociale, psicologico e sanitario, è fondamentale per migliorare la qualità dell’assistenza fornita ai detenuti ma anche le condizioni di lavoro di chi opera all’interno della struttura”, ha aggiunto Biagioni che, con una delegazione del Pd, ha partecipato al presidio della Camera penale. “Provo un dolore immenso perché una vita si è spezzata a causa della disperazione. Noi però siamo chiamati ad andare oltre il dolore, dobbiamo constatare il fallimento di una democrazia che ha nella carta costituzionale dei principi bellissimi, che però non riescono a trovare una concretezza”. È l’intervento del vescovo di Prato Giovanni Nerbini. “Questa situazione dovrebbe trovarci tutti coinvolti e impegnati - aggiunge Nerbini - è fondamentale offrire e strutturare servizi e percorsi che facciano sentire le persone accolte, sostenute e accompagnate verso un effettivo reinserimento”. Prato. La sindaca scrive al ministro Nordio: “Venga a vedere come si vive alla Dogaia” di Paolo Nencioni Il Tirreno, 30 luglio 2024 La morte del giovane detenuto è “una macchia indelebile per la nostra città”. Il giorno dopo, si muove la politica. “Il carcere di Prato attualmente non ha un direttore titolare. Non ha un comandante titolare. Ha una gravissima carenza di organico di polizia penitenziaria e si trova in una condizione di sovraffollamento”. Queste alcune frasi della lettera che la sindaca Ilaria Bugetti e il presidente del Consiglio comunale Lorenzo Tinagli hanno scritto al ministro della Giustizia Carlo Nordio in seguito al suicidio di un detenuto sabato scorso, 27 luglio, alla Dogaia, per chiedere un incontro urgente sul carcere pratese ed invitarlo a verificare di persona la gravità della situazione con l’obiettivo di adottare dei miglioramenti. Ecco il testo integrale della lettera: “Signor ministro, nella serata di sabato 27 luglio, il carcere di Prato è stato teatro del sessantesimo suicidio in un istituto di pena italiano (dall’inizio dell’anno, ndr). Sono numeri preoccupanti che rappresentano una situazione di emergenza purtroppo comune su tutto il territorio italiano. Una condizione che allontana l’obiettivo di un pieno raggiungimento dell’articolo 27 della Costituzione, laddove il carcere svolge sempre meno la funzione rieducativa della pena, come testimoniato dai numeri sul tasso di recidiva. La casa circondariale La Dogaia di Prato si è guadagnata un grave primato. Una macchia indelebile per la nostra città che crediamo meriti l’attenzione Sua e del ministero che dirige. In sette mesi, tre detenuti si sono tolti la vita, con una striscia di morte iniziata alla fine del 2023. Sono casi dolorosi che rappresentano solo la punta di una condizione alla quale detenuti, agenti di polizia penitenziaria, operatori sono costretti, e che più volte alla nostra istituzione hanno rappresentato la condizione di seria difficoltà. Il suo dicastero nel 2019, rispondendo a un’interrogazione a risposta scritta presentata dall’onorevole Roberto Giachetti, sottolineava quanto non si fossero verificati suicidi nel triennio precedente. Nota utile a rappresentarLe quanto la situazione sia drammaticamente cambiata. La casa circondariale La Dogaia di Prato è un istituto penitenziario complesso per tipologia di detenzione, per numero di detenuti, per una elevata percentuale di stranieri e per un elevato numero di detenuti con problemi psichiatrici. Il carcere di Prato attualmente non ha un direttore titolare. Non ha un comandante titolare. Ha una gravissima carenza di organico di polizia penitenziaria, soprattutto per quanto riguarda ispettori e sovrintendenti. Si trova in una condizione di sovraffollamento. Non è in grado di garantire una adeguata assistenza medica, nonostante l’incredibile sforzo del personale competente. Non è in condizione di seguire e sorvegliare adeguatamente i detenuti con problemi psichiatrici riconosciuti. Non ha mediatori culturali sufficienti a gestire un’alta percentuale di stranieri. Riceve, come rappresentato dai sindacati di polizia penitenziaria, un alto numero di detenuti trasferiti da altri istituti per ordine e sicurezza, aggravando la condizione di chi lavora o è costretto alla detenzione già pesante all’interno dell’istituto Siamo a richiederLe pertanto un incontro, invitandoLa eventualmente a visitare l’istituto, ad incontrare i sindacati di polizia penitenziaria, il personale che opera nel carcere, le associazioni di volontariato, la garante dei diritti dei detenuti e la Camera penale di Prato. A sentire il grido di allarme che quotidianamente la nostra istituzione riceve e che, di fronte all’ennesimo caso di suicidio, di fronte all’involuzione della Casa Circondariale La Dogaia, vuole trasmettere all’organismo competente. La nostra non vuole essere una richiesta pretestuosa, ma un sincero tentativo di migliorare la condizione del carcere della nostra città”. Milano. “Nel carcere di Opera ci sono pestaggi”. Le lettere-denuncia dei detenuti finiscono alla procura di Ilaria Carra, Rosario Di Raimondo La Repubblica, 30 luglio 2024 Il Garante Maisto: “Da due settimane ricevo varie missive da lì. Si parla di percosse e situazioni gravi, se sospetto un reato giro ai pm”. “Siamo sovraffollati, in condizioni che rasentano la disumanità”. La lettera dei reclusi del carcere bresciano di Canton Mombello, citata dal Presidente della Repubblica, non rimarrà un caso isolato. Su impulso del Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, sia in città, sia in altri istituti penitenziari della regione, i volontari si muovono per raccogliere firme e testimonianze della vita dietro le sbarre, con l’obiettivo di mandare questo racconto collettivo della galera a Sergio Mattarella. Ma le missive intanto arrivano anche in procura. Ai magistrati milanesi è stata inviata, tra le altre, la segnalazione di un uomo rinchiuso a Opera: “Ci trattano come animali. Ieri sera hanno picchiato uno in venti con manganelli e asta di ferro”, le sue parole. Maisto parla dell’iniziativa di raccogliere le voci di chi è dentro: “L’idea è di invitare tutti i detenuti a far conoscere al Presidente della Repubblica quali sono le condizioni di vita in cui si vive nelle carceri italiane. Si parte da un testo di base, quello di Brescia, che viene arricchito con le situazioni specifiche di ogni istituto”. A San Vittore, la struttura più sovraffollata d’Italia, al centro di centinaia di ricorsi in tribunale per detenzione inumana e degradante, si è già partiti. Ma non ci si fermerà qui. Nella casa circondariale, segnala il Garante, c’è per esempio un tema da approfondire: “Si stanno facendo i lavori per rifare il vecchio centro di osservazione neuropsichiatrica. Ma così hanno dovuto spostare i detenuti, ammassandoli in altre celle. Sovraffollamento su sovraffollamento. Questo non significa incapacità della direzione. Semmai, c’è un’inadeguatezza nella soluzione dei problemi da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Non si possono ridurre gli spazi perché si fanno i lavori senza trasferimenti in altri istituti. Non ci sono mai soluzioni per dare una vita più dignitosa ai detenuti”. Ora si apre un altro fronte, come dimostra la lettera di un detenuto di Opera arrivata tre giorni fa sulla scrivania di Maisto. È scritta a penna su un foglio a quadretti, è destinata a un’amica del recluso: “Qui la situazione è peggiorata. Violazione totale dei diritti umani. Ci trattano come animali. Non vedo cambiamenti. Ieri sera hanno picchiato uno in venti con manganelli e asta di ferro. Non avrei mai pensato né immaginato una cosa del genere. Vorrei fare dei reclami tramite Antigone. Da otto giorni non vedo un medico e sto molto male. Se va avanti così faccio sciopero della fame”. Non è la prima lettera che Maisto riceve da Opera. “Da un paio di settimane, ne arrivano un paio al giorno”. In genere, a scrivere sono parenti di detenuti che allegano i racconti delle persone rinchiuse. “Si parla di situazioni gravi, di pestaggi per atti di rimostranza, a volte basta anche la minima reazione di protesta individuale o collettiva. Ma c’è modo e modo di sedare e reprimere”. Da ex magistrato, il Garante segue quindi la strada già percorsa in passato quando si è avuta contezza delle violenze al minorile Beccaria: “Non avendo io gli strumenti giuridici, quando intravedo il fumus della notizia di reato investo delle questioni la procura”. Il carcere di Opera, a sud di Milano, come si legge sul sito del ministero della Giustizia ha una capienza di 918 detenuti ma ne ospita quasi 1.300. Anche questo istituto, seppur in percentuale minore rispetto ad altri, è dunque sovraffollato. Gli agenti di polizia penitenziaria effettivi sono 517, ma quelli previsti sarebbero addirittura 696, dicono i dati aggiornati al 31 maggio. Pescara. Protesta in carcere, i detenuti illustrano le criticità di Massimo Giuliano rete8.it, 30 luglio 2024 Protesta in carcere a Pescara, i detenuti illustrano le criticità: non usano mezze misure e descrivono una situazione di “bomba ad orologeria”. Protesta nel carcere di Pescara, nell’ambito delle mobilitazioni che si stanno registrando in tutta Italia. I detenuti, una volta nell’area passeggio comune, per circa tre ore, nel primo pomeriggio, si sono rifiutati di rientrare in cella, per manifestare contro la situazione che si sta registrando a livello nazionale e, in particolare, nella casa circondariale del capoluogo adriatico. L’emergenza è rientrata dopo l’arrivo di Gianmarco Cifaldi, professore universitario di criminologia e già Garante dei detenuti di Regione Abruzzo. Nel carcere di San Donato al momento ci sono 431 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 260 unità. I detenuti non usano mezze misure e descrivono una situazione di “bomba ad orologeria”. Cifaldi ha dapprima parlato con tutti i detenuti nel passeggio comune e poi si è confrontato con una delegazione, a condizione che tutti gli altri rientrassero in cella. L’esperto ha garantito ai presenti che avrebbe rappresentato il loro disagio direttamente agli organi di stampa. Numerose le criticità elencate dai detenuti e poi riferite da Cifaldi: ?detenuti psichiatrici che convivono con le sezioni e non sono assistiti dal punto di vista sanitario, una mancanza di assistenza a causa della quale spesso devono essere gli stessi detenuti a difendere gli agenti dai soggetti psichiatrici; sovraffollamento oltre ogni limite possibile (alcuni detenuti dormono nei corridoi); programmi per trattamento inesistenti; mancanza di lavoro; pochi turni per i colloqui; assenza di ogni forma di solidarietà da parte di associazioni di volontariato che entrano in carcere; caldo insopportabile oltre ogni limite; cucina non in grado di garantire una dignitosa distribuzione alimentare; mancanza, nell’ultimo periodo, di acqua per le docce, a causa dell’emergenza idrica. Roma. Il Partito Radicale denuncia in Procura il caso del piccolo “detenuto” a Rebibbia di Simona Giannetti Il Dubbio, 30 luglio 2024 Il Partito Radicale ha denunciato l’illegalità costituzionale della detenzione di Giacomo, in cella a 2 anni nel carcere di Rebibbia. A firma del segretario Maurizio Turco e della tesoriera Irene Testa, è stata inviata la denuncia alla Procura della Repubblica per i Minorenni di Roma, perché sia avviato un formale accertamento delle responsabilità per la violazione dei diritti di dignità, libertà e salute di Giacomo, anche avvisando il Garante dei detenuti nazionale e quello del Lazio della condizione inumana e degradante della “carcerizzazione” di Giacomo oltre che delle conseguenze sulla sua libertà, dignità umana e salute. Stessa segnalazione è stata indirizzata anche al Dap e alla Direzione regionale del Lazio per la tutela della Salute, considerato che come ha scritto l’Oms nel suo preambolo alla costituzione dell’Organizzazione (Conferenza Internazionale della Sanità, New York 19- 22 giugno 1946), salute non significa solo assenza di malattia, bensì prima ancora “una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente l’assenza di malattia o infermità”. Giacomo è chiuso in cella a Rebibbia, come si è letto su Repubblica, ha 2 anni e non pronuncia parole diverse da “apri e chiudi”, oltre a dare apparentemente segni di difficoltà nello sviluppo psico- fisico. Quale sarà stato il benessere fisico e mentale di Giacomo cresciuto in una prigione? L’art 32 della Costituzione tutela il suo diritto alla Salute e l’articolo 31 stabilisce che la Repubblica “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Sono principi fondamentali a cui si dovrebbe ispirare il legislatore, ma anche chi amministra la giustizia e il sistema penitenziario. Sono questi gli argomenti da cui ha preso le mosse la denuncia del Partito Radicale. Giacomo è di fatto un bambino di due anni in condizione di detenzione, cioè è un detenuto senza pena: vive dietro le sbarre di un blindo, che scandisce il suo spazio di libertà con aperture e chiusure grazie al gesto di una volontaria che lo accompagna per qualche ora al nido. Lo Stato, le istituzioni tutte, hanno abbandonato Giacomo e, come lui, tutti gli altri 20 bambini che al 31 dicembre 2023 (dal Rapporto di Antigone “Nodo alla gola”) erano dietro le sbarre con le loro madri in tutta Italia. L’articolo 3 della Convenzione EDU vieta la tortura o i trattamenti inumani o degradanti e dal canto suo la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del 1989 prevede che “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”. Per questo, l’articolo 147 del codice penale prevede il diritto di una madre al rinvio della pena, quando la prole sia in età inferiore ai 3 anni; rinvio che, essendo ispirato ad una misura umanitaria, non incontra limite neppure nelle ostatività. In teoria verrebbe in soccorso anche la normativa (legge 62/ 2011) sugli Icam - Istituti a custodia attenuata per le madri -, che sono strutture dotate di sistemi di sicurezza non invasivi, ovvero non riconoscibili dai bambini e pensate per ricreare una atmosfera il più possibile lontana dall’ambiente del carcere, senza sbarre, armi o uniformi -, destinati alle madri in detenzione con la prole fino ai 6 anni di età. Anche se a onor del vero, sebbene l’Icam nasceva come idea di un luogo lontano dal carcere, la maggior parte di queste strutture sorgono all’interno dello spazio dell’Istituto di pena, con la conseguenza che i bambini continuano a vivere la carcerizzazione. Se non bastasse che gli Icam sono pochissimi (Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Lauro e Torino) e che a questa assenza sopperiscono in alcune grandi città le “case famiglia protette” - edifici del tutto avulsi dal contesto carcerario oggi presenti solo a Milano e Roma - si pone un ulteriore tema, che è quello della totale assenza dei finanziamenti per sostenere queste realtà in numero e servizi: del resto che le riforme - o meglio le riformette - sul carcere siano quasi sempre a costo troppo vicino allo zero è una questione annosa e che fa il paio con il tentativo di fingere che i diritti dei detenuti fossero anche bambini senza pena non esistono. “Compatibilmente con esigenze cautelari non eccezionalmente rilevanti, il giudice può disporre presso gli Icam la custodia cautelare o l’espiazione della pena per le donne incinte o madri con prole sotto i sei anni, o per il padre quando la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata ad assisterla” - questo si legge sul sito del ministero della Giustizia. Considerato che il criterio debba essere l’” interesse preminente e superiore” del bambino, una volta per tutte la storia di Giacomo, oltre ad essere una spina nel fianco, potrebbe anche divenire l’occasione per il legislatore di avere il coraggio di non far soccombere il diritto del bambino alla pretesa punitiva, emergenziale e carcero-centrica dello Stato, che potrebbe rinunciare anche alle esigenze eccezionalmente rilevanti. Volterra (Pi). Garante dei detenuti, arriva la nomina: è l’avvocato Ezio Menzione La Nazione, 30 luglio 2024 L’avvocato Ezio Menzione di Pisa è stato nominato garante dei detenuti del carcere di Volterra, ricevendo i complimenti dalla Camera Penale di Pisa per il suo impegno e la sua esperienza. È l’avvocato Ezio Menzione di Pisa il neo garante dei detenuti del carcere di Volterra, a seguito del bando che è stato indetto dal Comune. Avvocato di fama e di grande esperienza, Menzione sarà il primo garante nella storia per i detenuti all’Interno della casa di reclusione situata nella Fortezza Medicea. Ecco i complimenti che giungono dal direttivo della Camera Penale di Pisa, con le parole espresse dal neo garante ai colleghi della stessa Camera Penale. “Ezio è stato appena nominato garante delle persone private della libertà personale per il Comune di Volterra, complimentandoci con lui per questo meritato risultato e per aver voluto affrontare questo gravoso impegno, alleghiamo per tutti voi le sue parole”. “Cari amici e colleghi della mia Camera Penale, ho saputo che il consiglio comunale di Volterra mi ha nominato garante per le persone private della libertà sul suo territorio: molto importante perché esso comprende la grande casa di reclusione e una delicatissima Rems. Insomma un impegno che certo sarà gravoso, ma spero significativo - scrive il neo garante ai colleghi della Camera Penale - Io, alla mia tenera età, mi ci getterò a capofitto, come è mio costume. Ma mi dà forza il pensare che posso contare sul vostro sostegno e la vostra amicizia. Ci ho contato quando si trattò di assumere la presidenza della camera penale; quando, ormai parecchi anni fa, fui chiamato a entrare in giunta, quando assunsi la co-responsabilità dell’osservatorio avvocati minacciati e in tanti altri casi: e l’aiuto, il consiglio e il sostegno non sono mai mancati Ora auguratemi buon lavoro, che ho bisogno del vostro caloroso augurio”. Bologna. Tra psicofarmaci, ferite e tablet la vita in carcere dei “cuori neri” minorenni di Enrico Caiano Corriere della Sera, 30 luglio 2024 La scrittrice Silvia Avallone, autrice del romanzo “Cuore nero” su una ragazzina finita in carcere da adolescente, è stata attiva come volontaria nell’istituto penale bolognese e lì ha presentato il suo libro: “Bisogna essere liberi nella testa o non lo si sarà mai, neanche fuori”. Lo hanno detto meglio di chiunque altro. D’altra parte, non si è giganti della letteratura a caso. Fedor Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Victor Hugo: “Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione”. Un secolo dopo, il simbolo della lotta per la libertà Nelson Mandela, una vita dietro le sbarre, ha chiuso il cerchio con una riflessione definitiva: “Un Paese non dovrebbe essere giudicato da come tratta i cittadini più in alto, ma quelli più in basso”. La scrittrice Silvia Avallone, oggi, quelle frasi le sottoscrive in blocco. O non avrebbe scritto Cuore nero, il suo ultimo romanzo per Rizzoli, scaturito dall’esperienza di volontaria nell’istituto penale per i minorenni di Bologna, sua città di adozione. Tra queste mura, che sono quelle di un convento quattrocentesco, ha ambientato le pagine carcerarie della storia di Emilia, la protagonista, e delle sue compagne di prigionia. Virando al femminile, con la licenza che è concessa alla letteratura, la realtà di un istituto di pena maschile. E proprio qui è tornata a presentare il suo lavoro ai ragazzi attualmente in cella, ormai quasi tutti diversi da quelli che lei ha seguito e a cui si è ispirata per le ragazze del libro, un successo editoriale fin dall’uscita nel gennaio scorso. Sotto le volte e i muri spessi che garantiscono una discreta protezione dall’afa bolognese, il direttore della struttura, Alfonso Paggiarino, nato come educatore, 42 anni di esperienza, alle soglie di un meritato pensionamento, per l’incontro con la scrittrice ha raccolto una ventina di giovani, quasi tutti stranieri. Molti di loro, tunisini, non capiscono l’italiano ma si fanno aiutare dai compagni che lo masticano e comunque sia si lasciano trascinare dall’energia contagiosa di Avallone, dalla gestualità potente che usa per spiegare con foga genuina quanto sia importante credere nella parola come strumento di emancipazione di sé stessi, come via d’uscita da prigioni non solo fisiche ma mentali. Molti ragazzi sono nordafricani, sbarcati senza i genitori Le frasi di Avallone echeggiano forti davanti a sguardi attenti e interrogativi (“Bisogna essere liberi nella testa o non lo si è neanche fuori”; “Siamo tante persone in una, e possiamo cambiare sempre”; “Per pensare ci vogliono le parole”). Ma quando si arriva alle domande sulla loro quotidianità, sulle loro speranze, le parole di rimando rotolano stentate, c’è disincanto, fatica. “Ci sentiamo soli e non ci aiutano” dice un ragazzo alle soglie dei 18 anni. Un altro, appena maggiorenne, apre uno squarcio che si preferirebbe non aver ascoltato: “Sono tutti razzisti qui. Anche in carcere non siamo tutti uguali”. Infine, la considerazione da brividi: “C’è solo corruzione attorno a me. Ho provato, ma non ci sono tante strade...”. I tunisini sono sempre di più. Qui e negli altri 16 istituti sparsi per l’Italia. Sono loro quei minori non accompagnati che approdano sulle nostre coste dopo viaggi dell’orrore. C’è un mediatore culturale che ne affianca qualcuno e traduce, altri si fanno aiutare da compagni di cella in Italia da più tempo. Ma se sono marocchini, alcuni preferiscono non chiedere il loro aiuto. C’è separazione tra i due gruppi nordafricani, mi è stato fatto notare. A un certo punto uno se ne esce con: “Qui facciamo conoscenze, non amicizie”. E improvvisamente tutto si fa molto chiaro. Il direttore Paggiarino racconta di ragazzi che usano i tablet e i telefoni appositi per fare videochiamate ai genitori: “Dai tempi del Covid è stata introdotta questa possibilità e il ministero della Giustizia l’ha mantenuta”. Spiega che al ritorno dal pranzo fa “un sacco di colloqui con loro, 4 o 5 al giorno chiedono di parlarmi”. Tanti, sul totale: sono in 46 dietro le sbarre, il numero massimo sarebbe 40. La nota dolente però riguarda gli agenti di polizia penitenziaria chiamati a sorvegliarli: due! Uno per piano. Certo, si attendono rinforzi: “Il dipartimento ora ci manderà un gruppo di agenti in missione per una settimana/dieci giorni”. Poi se ne andranno però. E allora ecco i palliativi. La divisione notturna tra piani: “I maggiorenni (nell’istituto minorile si può stare sino ai 25 anni e poi si passa al carcere normale; ndr) vanno a dormire al secondo piano, i minorenni stanno al primo. Prima succedeva magari che c’era il tunisino 15enne che voleva stare con il connazionale 23enne perché con gli italiani non si trovava... Ma non andava bene, ora è molto meglio”. Resta il sovraffollamento. Che è l’emergenza delle carceri “per adulti” e negli istituti di pena per minori lo sta diventando. A fine febbraio erano 532 gli under 25 reclusi. A fine 2023 erano 496 contro i 381 del 2022. Un’impennata del 30%, con un salto in su di un punto: in carcere stanno ora il 3,8% di minori e giovani in carico ai servizi della giustizia minorile, dice il rapporto di Antigone. Due anni fa erano il 2,8. Il decreto Caivano del 15 settembre scorso non è l’unica ragione del balzo in avanti (il numero di ingressi in cella nel 2023 è da record assoluto: 1.143) ma ci ha messo del suo. Il direttore dell’Ipm bolognese lo lascia intendere: “Varie leggi sono cambiate e potrebbe essere anche questo il motivo dell’affollamento negli istituti”. Più di così... Quel decreto ha infatti ampliato la possibilità del ricorso al carcere in fase cautelare e ha ridotto l’utilizzo dell’istituto di messa alla prova, uno dei vertici di eccellenza del codice di procedura penale minorile varato nel 1988 e che l’Europa ha sempre considerato all’avanguardia: indica come residuale il ricorso al carcere e si proietta su modelli educativi in grado di ricondurre con successo i giovani nella società, seguendo l’articolo 27 della nostra Carta, quello che recita “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (“Io quell’articolo lo rispetto tantissimo”, chiosa il direttore Paggiarino, “o lo si rispetta o lo si deve abolire. E non voglio parlare neanche di rieducazione ma di educazione”). Se si ascolta un’assistente sociale di lungo corso (l’anonimato è obbligatorio, per parlare con nome e cognome ci vogliono autorizzazioni del ministero dai tempi lunghissimi) si capisce che la rieducazione non è più in cima ai pensieri di chi legifera: “Si vuole dare subito una sanzione sperando nell’effetto di deterrenza della stessa. Ma chi lavora nelle carceri minorili sa che si va da un’altra parte rispetto all’effetto deterrenza per cambiare le cose. Il collocamento in comunità potrebbe essere uno strumento molto più praticato ma si sceglie la detenzione perché è più facile”. Un giudice minorile di grande esperienza è colpito dal fatto che il primo contatto “di questi ragazzi stranieri con una forma organizzata di Stato sia la più opprimente, non c’è mediazione”. Nel romanzo di Avallone la protagonista le cose le cambia, come direbbe l’assistente sociale di prima: in carcere si laurea. A Bologna in 5 ci sono riusciti, un motivo d’ orgoglio per il direttore. Come lo è la trattoria creata nel carcere proprio “per introdurre i ragazzi nel mondo del lavoro: si chiama Brigata del Pratello (in gergo bolognese è il carcere minorile e prende il nome dal quartiere; ndr), la cosa più bella che ho fatto in questa città”. Un ragazzo marocchino di 23 anni, seduto ad ascoltare la scrittrice che è stata una delle sue volontarie, è anche lui laureato. E ha cominciato proprio dagli studi dell’alberghiero di cui la trattoria è fiore all’occhiello: “Nelle carceri minorili siamo in pochi a riuscirci. Io ce l’ho fatta perché avevo una condanna lunga”, dice senza ironia, “per i tanti reati cumulati. Di solito tra i ragazzi prevalgono quelle brevi. Ho cercato di dare un senso alla mia carcerazione, di non buttare il mio tempo. Un’educatrice mi ha detto “perché non ci provi?”. Quella frase è stata come un seme. Che è fiorito. Dopo il diploma mi son detto che potevo tentare l’università. Con tanta forza di volontà ce l’ho fatta”. Ma non pensate sia un esempio per tutti i ragazzi “dentro”: “Lo sono per una minoranza. Qui i “valori” sono altri: denaro, successo, potere. E anche se seguendo quella strada hanno sbagliato e sono qui, dove è davvero dura, continuano a seguirla”. Quando parla di carcere “davvero duro”, viene in mente che spesso il modo per alleviarne l’impatto e per ovviare ai numeri ridicoli degli agenti penitenziari - sono loro a garantire spostamenti ed attività dentro il carcere - è la somministrazione di psicofarmaci. “Era così ma ora va un po’ meglio”, spiega il ragazzo. “Lo chiamano strumento di contenimento e viene usato per evitare che le persone si taglino o brucino la cella. Erano di moda Rivotril e Lyrica ma ora non ci sono più. A volte però gli stessi ragazzi chiedono i farmaci. Perché vogliono sballarsi, evadere mentalmente”. A sentire ancora il giudice minorile, la realtà non è proprio così rosea: a Bologna come al Beccaria, come in tutti gli altri Ipm: “La situazione non è cambiata. Anzi i dati ci dicono che il ricorso agli psicofarmaci è a livelli mai finora raggiunti”. Come continuano le rivolte, l’autolesionismo. Ma torniamo al bicchiere mezzo pieno, al 23enne laureatosi per e con l’aiuto della sua famiglia: “Mi amano tanto. Ho la fortuna di averla, una famiglia: altri non sono così fortunati”. Già. E viene la pelle d’oca a sentire il coro a mezza bocca che risponde alla domanda di Silvia: “Chi vi manca di più qui dentro?”. Marocchini, tunisini, italiani, tuttì lì vanno: una parola sola, con sincerità disarmante: “Mamma, ci manca la mamma”. Bologna. La seconda vita di Luigi. Il lavoro in cantiere fuori dalla Dozza: “Mi costruisco il futuro” di Massimo Selleri Il Resto del Carlino, 30 luglio 2024 La storia del detenuto in semilibertà ammesso al progetto esterno. L’impiego come carpentiere alla Amplia, che costruisce il Passante. “Mi sento come gli altri, nessuno mi giudica per il mio vissuto”. Dal lunedì al venerdì Luigi esce dal carcere della Dozza la mattina poi, a piedi, raggiunge il cantiere di Amplia di via Ferrarese. Resta lì fino al pomeriggio, quando compie il percorso inverso e torna in cella. Quelle otto ore di lavoro sono una luce in fondo al tunnel, la speranza che dopo aver pagato il suo debito con la giustizia, una nuova vita sia possibile. “Quando ti rendi conto di avere sbagliato - racconta Luigi - pensi solo a come non ripetere più il tuo errore. La mia condotta durante la detenzione e gli anni che ho già scontato possono creare la possibilità di trascorrere l’ultima parte della pena fuori dal carcere, ma non sapevo che cosa avrei fatto fuori dalla Dozza. Il mio timore era che fossi costretto a vivere nuovamente di espedienti”. La sua è una lunga condanna, relativa a un reato commesso nel 2011, ma adesso quello che conta è la voglia di dare una svolta definitiva alla propria vita. “Quando attraverso l’associazione Seconda Chance mi è stato chiesto di partecipare a questo lavoro non sapevo nulla di edilizia. Pensavo che questo fosse un ostacolo, ma ero molto motivato. Poteva essere l’occasione di riscatto che cercavo e lo è stata anche perché sono stato considerato un lavoratore come gli altri. Stessi diritti e stessi doveri dei miei colleghi senza trattamenti di favore, un contratto identico al loro e la pazienza che avrebbero avuto con chiunque nell’insegnarmi un lavoro che non avevo mai fatto. È quella partenza alla pari che ti consente di non ricadere più nei vecchi errori e di metterti alle spalle quelli del passato. All’inizio i miei colleghi credevano in me più di quanto io credessi in me stesso e anche questo essere visto come gli altri ha fatto la differenza”. Amplia Infrastructures è la società che si sta occupando della messa a terra delle opere contenute nel grande programma di ammodernamento della rete autostradale nell’ambito del Piano industriale di Autostrade per l’Italia e nello specifico a Bologna si sta occupando nella costruzione del ‘Passantè. “Nel nostro settore - a parlare è il direttore tecnico del cantiere, l’ingegnere Roberto Rutigliano - la selezione del personale non è un’operazione semplice. La motivazione è un fattore importante e il percorso proposto da Seconda Chance ci sembrava desse le giuste garanzie. L’esperienza che stiamo facendo con Luigi è la conferma che la nostra decisione di partecipare a questo progetto è stata corretta. Sicuramente lo scopo sociale è rilevante, ma quello che conta davvero è che noi cercavamo un carpentiere, che Luigi avesse la determinazione per imparare questa professione e che qualcuno ci abbia messo in contatto vista la sua situazione particolare. Si è inserito nel gruppo dei colleghi perché con loro condivide un lavoro e non ci sono stati trattamenti di favore ma tutto ha seguito il percorso classico che applichiamo a tutti i nostri dipendenti anche per quanto riguarda l’iter legato a un contratto di lavoro a tempo indeterminato”. Creata dalla giornalista Flavia Filippi del tg La7, l’associazione Seconda Chance porta occupazione dentro e fuori dalle carceri, presentando agli imprenditori la possibilità di fare impresa direttamente all’interno dei penitenziari diffondendo la legge Smuraglia che offre sgravi fiscali e contributivi a chi assuma, anche part time o a tempo determinato, detenuti che sono ammessi al lavoro esterno. Una formula che sulla falsariga del percorso che sta effettuando Luigi sta diventando sempre più efficace dato la stessa Amplia che ha chiesto 8 nuove posizioni lavorative per i cantieri di Genova, Bologna, Firenze e Napoli e sta valutando l’inserimento di personale amministrativo selezionando chi ha requisiti giuridici e professionali idonei tra la popolazione carceraria della Dozza. Milano. Il gelato? Ora rende libere: via ai corsi professionali per il futuro delle detenute di Ornella Sgroi Corriere della Sera, 30 luglio 2024 Il progetto nazionale “Si sostiene in carcere” è partito a Milano all’Icam, l’Istituto a custodia attenuata per le detenute madri. Coinvolte anche Genova e Vigevano. Immaginare un futuro dopo il carcere attraverso il gelato. È partito a Milano dall’Icam, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri di figli fino a sei anni di età, il progetto nazionale “Si sostiene in carcere”: un programma di corsi professionali di gelateria artigianale in sei tappe, rivolto in particolare alle sezioni femminili, che dopo Milano ha già toccato la casa circondariale Pontedecimo di Genova e il carcere di Vigevano, per tornare poi in ottobre nel capoluogo lombardo all’istituto di Bollate, quindi a Mantova, e concludersi in novembre a Bologna. A promuovere l’iniziativa è Soroptimist International d’Italia, con il sostegno di Fabbri 1905. All’origine del progetto, come si è detto, l’obiettivo di favorire il reinserimento nella società attraverso l’acquisizione di competenze concretamente spendibili sul mercato del lavoro, come appunto quelle in gelateria. Perché è proprio “lavoro” la parola-chiave: uno dei più recenti rapporti del Cnel conferma che solo il 2% dei detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale torna a commettere reati, contro una media che tocca il 70% tra gli altri. Nel caso delle donne poi il lavoro rappresenta un’ulteriore arma di emancipazione e “libertà” da condizioni di marginalità: una gabbia che come sappiamo prescinde dal carcere, ma che per chi in carcere è costretto a vivere rappresenta una prigione moltiplicata. Alla prima tappa del corso, che a Milano ha coinvolto la maestra gelatiera Rosa Pinasco, hanno partecipato cinque giovani mamme, tutte straniere, che durante le tre giornate di formazione hanno appreso i fondamenti teorici e pratici del mestiere ricevendo quindi un attestato finale. “Una esperienza molto forte. All’inizio le ragazze - ha spiegato l’insegnante - sono partite in maniera piuttosto scettica, poi tutto è cambiato perché hanno capito che qualcuno stava investendo su di loro e si sono scoperte capaci di realizzare qualcosa di concreto. Un’allieva in particolare mi ha colpito: è partita apparentemente disinteressata, poi man a mano che le lezioni progredivano si è mostrata sempre più coinvolta. Alla fine del corso non solo aveva imparato a memoria le ricette di dodici gusti, ma soprattutto era in grado di fare le proporzioni a mente meglio di me. Ha scoperto di avere un talento e questo ha cambiato radicalmente il suo modo di vedere le cose”. L’impegno in gelateria non si esaurisce con il corso: grazie alla macchina professionale donata dai due Club Soroptimist di Milano le detenute prepareranno d’ora in avanti il gelato per i loro bambini. Ma “il vero sogno - spiega Paola Pizzaferri, referente Soroptimist e coordinatrice del progetto nazionale - sarebbe quello di vendere il gelato a tutti i milanesi, realizzando all’Icam un piccolo punto vendita aperto al pubblico”. Ci proveranno nei prossimi mesi, sfruttando un protocollo già sottoscritto con il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Migranti. I naufragi fantasma sulle spalle dei familiari: il rapporto di Memoria Mediterranea di Marika Ikonomu Il Domani, 30 luglio 2024 Mem.Med. è una rete di supporto per le famiglie che hanno perso i propri cari nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare, attraversando il Mediterraneo, la rotta più letale al mondo. I parenti non sanno a chi rivolgersi e le gravi inadempienze a livello nazionale e internazionale negano il diritto alla verità e alla ricerca delle persone scomparse. C’è una parte della migrazione attraverso il Mediterraneo che non è visibile: i cosiddetti “naufragi fantasma” di cui non si sa nulla e “non si registra quasi alcun dato ufficiale”. È quanto emerge dal rapporto relativo al 2022 e 2023 dell’associazione Mem.Med, Memoria Mediterranea, una rete di supporto per le famiglie che hanno perso i propri cari nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. I naufragi fantasma dimostrano come la maggior parte delle persone che non riescono ad arrivare in Europa “è vittima di tragedie che neanche si conoscono” e per cui non è stata attivata nessuna procedura di ricerca effettiva. E quindi la storia di Anas Zouabi, il bambino partito dalla Tunisia con il padre e morto annegato a sei anni, raccontata da Domani, è una delle poche a essere stata ricostruita dalle autorità italiane. Molte altre persone rimangono senza nome o senza un corpo da poter seppellire. Sono 53.659 le persone migranti scomparse, disperse o decedute, lungo le rotte migratorie mondiali, in base ai dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Quasi la metà coinvolge chi attraversa il Mediterraneo, circa 26mila: di queste, 3.273 sono scomparse nel Mediterraneo occidentale, 2.266 nel Mediterraneo orientale e 20.430 nel Mediterraneo centrale, la rotta “più letale al mondo a causa delle politiche migratorie di confinamento che hanno legittimato respingimenti e violenze, e che hanno normalizzato la morte in frontiera di migliaia di persone”, denuncia il rapporto. Tra le persone che non sono mai state ritrovate, Hamdi Besbes. È stato risucchiato dalle acque di Lampedusa nel luglio 2020. Viaggiava su un peschereccio tunisino con altri pescatori, ma non è mai arrivato sulle coste dell’isola, al contrario dei membri dell’equipaggio dell’imbarcazione che sono stati arrestati. “Era un meccanico ed esperto nuotatore. Amava il mare e la sua passione erano le immersioni subacquee di cui era diventato esperto dopo molti corsi nelle acque di Monastir”, racconta Mem.Med. Quello di Besbes è un caso ancora aperto: nonostante i genitori siano venuti in Italia più volte, le indagini non hanno portato a scoprire elementi ulteriori. L’ostacolo principale, sottolinea Mem.Med., è stata la totale mancanza di collaborazione della Procura tunisina con quella italiana, oltre a tentativi di insabbiamento sul lato tunisino. Così, Mariam Diomande, originaria della Costa D’Avorio, è scomparsa insieme ai due figli, di 3 e 10 anni, a novembre 2022. Partita da Sfax, in Tunisia, si è imbarcata per l’Italia con altre persone di origine subsahariana. Non era la prima volta che tentava di attraversare il Mediterraneo, ma era stata riportata indietro dalla Guardia costiera tunisina. Le ultime tracce risalgono a poche ore prima della partenza, quando si è messa in contatto con la famiglia per poi prepararsi alla traversata. Non è ancora stato possibile, si legge nel rapporto, trovare una corrispondenza con i corpi di donne arrivati a Lampedusa nei giorni successivi al viaggio. Né lei né i suoi figli sono ancora stati ritrovati. Diomande e Besbes sono due delle decine di storie ricostruite nel rapporto dell’organizzazione, che mette in luce le “gravi inadempienze a livello nazionale e internazionale per ciò che concerne il diritto alla verità e alla ricerca delle persone scomparse”. La ricerca e l’identificazione - Alle richieste di aiuto, alle segnalazioni di scomparse e denunce delle famiglie spesso non viene dato seguito con effettive operazioni di ricerca. Chi ha contattato l’associazione - si legge nel rapporto - ha dichiarato di non sapere a chi rivolgersi, oppure di non aver ottenuto nessun tipo di aiuto dalle autorità nazionali e internazionali. E infatti la maggior parte dei corpi delle persone migranti morte in questi anni “non è mai stata recuperata né identificata”, denuncia Mem.Med. Salme che spesso, se sono estratte dal mare, vengono sepolte in tombe anonime, rimangono senza nome e per questo sono contraddistinte da numeri. Una pratica che viola principi internazionali, rileva l’associazione, che impongono accertamenti investigativi. Le autorità infatti sono tenute a chiarire le cause della morte, così come a redigere verbali con informazioni che ricostruiscano i fatti. Altre volte però lo stato di decomposizione dei corpi avanzato impedisce di svolgere i rilievi utili all’identificazione. Se il diritto internazionale umanitario prevede il trattamento dignitoso dei corpi, la ricerca e il recupero delle vittime, la restituzione dei resti alle famiglie e la sepoltura dei cadaveri, le norme rimangono spesso inapplicate e “le autorità nazionali sembrano impreparate a gestire la portata di queste tragedie”, scrive l’organizzazione. Manca inoltre cooperazione tra le autorità per rispondere alle richieste delle famiglie, che rimangono senza un sistema di intervento. Sono loro, le famiglie delle persone disperse, le prime vittime, costrette a subire la violenza delle politiche migratorie: non solo affrontano la perdita dei loro cari, ma si vedono negare il diritto di sapere che fine hanno fatto figli, figlie, fratelli, sorelle, nipoti. Non solo, non vengono rappresentati né ascoltati nel dibattito sulla gestione delle scomparse e delle morti, evidenzia il rapporto, e la distanza in termini geografici e linguistici rende complesse le procedure. Si vedono poi negare il diritto alla sofferenza psicosociale: “Un decesso - sottolinea Mem.Med. - può essere affrontato più facilmente attraverso l’elaborazione del lutto”, ma quando “si tratta di persone disperse esiste un’ambiguità nel lutto che non permette il superamento della perdita”. È il diritto internazionale a riconoscere le ricadute sul piano psico-fisico. Influiscono l’assenza di un sostegno da parte delle autorità e la difficoltà di accedere alla giustizia sul diritto alla salute e all’integrità psico-fisica dei familiari. Migranti. Reddito di cittadinanza: lo Stato ha truffato i cittadini stranieri bisognosi di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 30 luglio 2024 La sentenza. La Corte di giustizia europea ha bocciato la norma voluta dal governo “Conte Uno” che ha imposto ai cittadini stranieri il vincolo dei dieci anni di residenza per ottenere il “reddito di cittadinanza”. L’avvocato Alberto Guariso dell’Asgi: “Conte, Salvini, Di Maio crearono un requisito che non esiste in alcun paese d’Europa”. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha bocciato il vincolo di dieci anni di residenza imposti agli stranieri per accedere al “reddito cittadinanza”. Gli avvocati dell’Asgi si sono battuti in Europa e in molti tribunali italiani per cancellare questa ingiustizia. Ne parliamo con Alberto Guariso. Che cosa ha portato il governo “Conte Uno” a creare una norma incostituzionale e razzista e gli altri a mantenerla almeno fino a quando la Commissione Ue ha fatto partire una procedura di infrazione? L’esplicita intenzione di escludere i cittadini stranieri da questa prestazione. Non potendo, come era stato ipotizzato, creare un’esclusione secca dello straniero in quanto tale, Conte, Salvini e Di Maio introdussero un requisito che non esiste in alcun paese d’Europa, men che meno per una prestazione di contrasto alla povertà e per l’aiuto all’inserimento sociale. L’assurdità è che tutti sapevano che questa norma non avrebbe retto, anche sulla base degli orientamenti della Corte di giustizia Ue, ma tutti l’hanno mantenuta fino al 2023. Ma allora perché l’hanno varata? Per escludere la maggioranza dei cittadini stranieri che ovviamente non hanno il requisito di residenza decennale. I dati dell’Inps dimostrano che gli stranieri che hanno avuto accesso al reddito non superano il 6%, mentre avrebbero dovuto essere molti di più, visto che secondo l’Istat una famiglia straniera ogni tre è in condizione di povertà assoluta. Nel frattempo sono state attivate migliaia di azioni di recupero nei confronti di chi aveva ottenuto il sussidio per assenza di controllo iniziale e poi è stato portato in tribunale. Ovviamente nessuno è in grado di restituire cifre che sono state utilizzate per la sopravvivenza. Queste sono richieste che possono rovinare l’esistenza. Quante persone, a sua conoscenza, hanno avuto la richiesta della restituzione delle somme? Impossibile calcolare coloro che non hanno fatto domanda, anche se bisognosi, perché privi dei requisiti. Quelli che l’hanno fatta e poi si sono visti colpiti da revoche e procedimenti civili e penali sono già loro un’enormità. Stando ai dati dell’Inps stiamo parlando di circa 70 mila revoche ogni anno. Abbiamo la conferma che la maggioranza di queste revoche sono per assenza del requisito decennale. Una vera truffa ai danni delle persone bisognose. Che poi venivano additate all’opinione pubblica come truffatori e “furbetti”… È paradossale ma è così. E ora è “certificato”. Era lo Stato che imponeva loro un requisito illegale. Ora cosa accadrà? Nei giudizi penali e civile il giudice dovrà disapplicare la norma che prevedeva il requisito. Le persone non dovranno più restituire e potranno ottenere anche la parte di sussidio fino al termine finale dei 18 mesi. L’assegno di inclusione che ha sostituito il “reddito di cittadinanza” prevede cinque anni di residenza per avere il sussidio. È giusto? No, se vale il principio affermato ora dalla Corte, anche il requisito di cinque anni dovrebbe cadere. Con la sentenza Ue i problemi sono risolti? No, la sentenza riguarda i titolari di permesso di lungo periodo. Ora ci sono altri due procedimenti pendenti: uno davanti alla Corte Europea che riguarda i titolari di protezione internazionale. L’altro davanti alla Corte Costituzionale, riguarda i cittadini europei, anche italiani. È molto probabile che anche gli questi procedimenti si concludano nello stesso modo e a quel punto tutta questa vicenda assurda sarà davvero finita, con gravi costi per chi ha subito questa ingiustizia, ma anche per la collettività. Medio Oriente. Israele vuole colpire Hezbollah, gli Stati Uniti provano a evitare la guerra con il Libano di Marta Serafini Corriere della Sera, 30 luglio 2024 Il premier Netanyahu è andato in visita nel villaggio druso della strage dove è stato contestato. Fonti vicine al premier riferiscono che Israele vuole colpire Hezbollah, ma non trascinare il Paese in una nuova guerra. Israele ribadisce: colpiremo. E l’Iran avverte: se il Libano sarà attaccato, ci saranno gravi conseguenze per lo Stato ebraico. Resta alta la tensione due giorni dopo che un razzo Falaq di fabbricazione iraniana è caduto nelle alture del Golan facendo strage di bambini mentre i Paesi europei, Italia compresa, chiedono ai loro cittadini di lasciare il Libano al più presto. La “risposta arriverà e sarà dura”, ribadisce il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in visita insieme al capo dello Shin Bet, Ronen Bar, sul campo da calcio nella città drusa di Majdal Shams ancora sconvolta per la morte di 12 minori, mentre parte della comunità urla contro il premier di andarsene e contesta il governo israeliano. In questo contesto di tensione internazionale e regionale è un portavoce del ministero degli Esteri di Teheran a rispondere in una nota: Israele “sarà responsabile delle conseguenze e delle reazioni impreviste a questi comportamenti stupidi”. Lo scenario evocato potrebbe essere lo stesso dell’attacco dell’Iran a Israele con oltre 300 tra missili e droni dopo il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco: un raid annunciato in modo che il nemico prepari le sue difese. E non è un caso che Hezbollah si stia già ritirando dalle sue postazioni nella Bekaa, in Libano, e in Siria, pur annunciando di essere pronto ad attacchi aerei. Nonostante lo scambio di fuoco e la retorica bellica, sia Israele che Hezbollah di recente hanno cercato una soluzione di de-escalation del conflitto. Non a caso funzionari israeliani intervistati dalla Reuters spiegano che Israele vuole colpire Hezbollah, ma non trascinare il Paese in una nuova guerra. Così se l’inviato statunitense Amos Hochstein e i funzionari francesi mantengono ogni canale aperto, prova a buttare acqua sul fuoco il premier ad interim del Libano, Najib Miqati, che ribadisce come “la soluzione risieda nel raggiungimento di un cessate il fuoco globale e nella piena attuazione della risoluzione 1.701 del Consiglio di sicurezza dell’Onu” che intima a Hezbollah di ripiegare a nord del fiume Litani. Ed è proprio su questo che punta la strategia distensiva di Washington per evitare l’escalation. “Siamo in trattative continue con le nostre controparti israeliane e libanesi e gli Stati Uniti continueranno a sostenere gli sforzi per raggiungere una soluzione diplomatica”, spiega il consigliere per la Sicurezza nazionale John Kirby. In questo scenario come da copione sale lo scambio di attacchi verbali tra Tel Aviv e Ankara dopo che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha evocato domenica in un incontro del suo partito la possibilità di entrare in Israele “proprio come nel Nagorno Karabakh e in Libia”. Il ministro degli Esteri dello Stato ebraico Israel Katz ha replicato avvertendo Erdogan che “sta seguendo la strada di Saddam Hussein e dovrebbe solo ricordare come è finita lì”. Il botta e risposta è continuato anche ieri con la dichiarazione del ministero degli Esteri turco che ha scritto sui social: “Proprio come il genocida Hitler ha incontrato la sua fine, così lo farà il genocida Netanyahu”. Scambi di accuse già visti tra Israele e la Turchia ma che aumentano di intensità. Nella Striscia di Gaza, peggiorano di giorno in giorno le condizioni dei civili. Il ministero della Salute controllato da Hamas ha dichiarato un’epidemia di poliomielite nell’enclave stretta d’assedio, mentre il bilancio dei morti si è aggravato, superando i 39.300. Hamas ha accusato ancora una volta Netanyahu di temporeggiare su un possibile accordo di cessate il fuoco nel tentativo di avanzare nuove condizioni. Accuse rispedite al mittente dall’ufficio del premier israeliano: “Israele non ha cambiato né aggiunto alcuna condizione nello schema. Al contrario, fino a questo momento Hamas è quello che ha chiesto 29 modifiche e non ha risposto allo schema originale”. Medio Oriente. Arrestati nove soldati nella prigione degli orrori. L’ultradestra la assalta di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 luglio 2024 L’arresto di nove soldati israeliani impiegati nel centro di detenzione di Sde Teiman ha provocato una bufera. Alle dichiarazioni di fuoco dell’ultradestra è seguito un vero e proprio assalto alla base militare trasformata in una prigione in stile Guantanamo per migliaia di palestinesi arrestati a Gaza. Quel carcere è un buco nero, dicono inchieste della stampa locale e internazionale e le denunce degli ex detenuti e di fonti mediche israeliane: i prigionieri - tra i 3mila e i 5mila - sono legati mani e piedi per settimane, se non mesi, lasciati sotto il sole del deserto, costretti a defecare nei pannolini e ad alimentarsi con le cannucce, privati di condizioni igieniche minime (le pochissime docce concesse non possono durare più di un minuto). A molti, ha rivelato un medico israeliano, sono stati amputati gli arti a causa delle catene. La stessa Corte suprema israeliana era intervenuta poche settimane fa chiedendone la chiusura. Ieri gli arresti di singoli soldati (seppure la situazione sia strutturale) dell’unità “Force 100” sono scattati per un caso specifico: gli abusi su un palestinese, poi ricoverato in ospedale per le ferite riportate al basso ventre che non gli permettono più di camminare. A operare gli arresti è stata la polizia militare che di fronte ha trovato resistenza: alcuni soldati hanno usato spray al peperoncino contro i colleghi, mentre i “ricercati” si sono barricati nella struttura. Fuori, l’ultradestra si mobilitava: se i due ministri Smotrich e Ben Gvir hanno preso le difese dei nove “combattenti eroi”, così li hanno definiti, decine di manifestanti (tra loro riservisti e parlamentari, di cui uno, Zvi Succot, è il braccio destro di Smotrich) hanno preso d’assalto Sde Teiman riuscendo a entrare nel cortile. La polizia ha impiegato un po’ di tempo per farli uscire tutti. Intanto sui social i video girati alle riunioni delle commissioni della Knesset mostrano parlamentari di centrodestra e ultradestra dirsi assolutamente concordi con le torture più feroci verso sospetti membri di Hamas. Il partito laburista, al contrario, ha chiesto un’indagine di ampio respiro sull’intera unità Force 100 e su chi occultamente la gestirebbe, chiaro riferimento al ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir. Dall’altra parte della barriera di separazione, a Gaza, si continua a morire. Ieri il bilancio degli uccisi accertati è salito a 39.360 dal 7 ottobre, a cui si aggiungono circa 10mila dispersi. Con il prosieguo delle operazioni terrestri e aeree israeliane, soprattutto nel sud e nel centro di Gaza, alla popolazione non restano rifugi: lo ha ribadito ieri l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) secondo cui a oggi gli ordini di evacuazione israeliani riguardano l’86% del territorio, lasciandone appena un 14% libero dall’ordine di andarsene per ragioni di sicurezza. Accade così che nel centro, con l’accerchiamento e il bombardamento a tappeto dei campi profughi di Bureij e Nuseirat, la popolazione si ammassi a Deir al Balah. O quella di Khan Younis e Rafah nel piccolissimo lembo di terra che è al-Mawasi. Intanto nulla si muove sul fronte negoziale. Secondo una fonte israeliana citata da Channel 12, Tel Aviv ha incluso “cambiamenti fondamentali” all’accordo con Hamas, tra cui il meccanismo di rientro degli sfollati nel nord di Gaza e il mantenimento della presenza israeliana al confine con l’Egitto. Hamas - citando l’incontro romano tra Cia e Mossad - risponde accusando il premier Netanyahu di aggiungere condizioni per far deragliare il negoziato. È di ieri la notizia, ora sotto indagine, della distruzione delle più grandi cisterne d’acqua di Rafah, fatte saltare in aria dalla 401esima brigata. “La distruzione della riserva d’acqua di Tal al-Sultan in onore dello Shabbat”, scrive un soldato israeliano a commento del video che ha poi pubblicato online. Quella riserva forniva 3mila metri cubi di acqua al giorno agli sfollati di Rafah. Qatar 2022, ancora in carcere l’addetto ai media che denunciò lo sfruttamento dei migranti di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 luglio 2024 I Mondiali di calcio del Qatar sono terminati un anno e mezzo fa, ma c’è ancora un problema irrisolto: i mancati risarcimenti per lo sfruttamento del lavoro migrante. Un tema che si riproporrà anche per il campionato del 2034: unica candidata, l’Arabia Saudita. Di questione aperta però ce n’è anche un’altra: la detenzione di Abdullah Ibhais, un giordano padre di due figli che lavorava nel settore comunicazione del comitato organizzatore, finito nei guai proprio dopo che aveva denunciato le condizioni di lavoro equiparabili a schiavitù moderna dei lavoratori migranti impegnati nella costruzione degli stadi e delle infrastrutture sportive, logistiche e commerciali. Nell’agosto 2019 un gran numero di lavoratori migranti intraprese uno sciopero per chiedere gli stipendi cui avevano diritto e che non avevano mai ricevuto. Ibhais informò il comitato organizzatore che diversi di loro erano impegnati nella costruzione degli stadi che, tre anni dopo, avrebbero ospitato le partite del Mondiale di calcio. Suggerì, per un tema di reputazione oltre che di giustizia, che si riconoscesse la situazione e si rimediasse. La risposta ricevuta fu per lui del tutto inaspettata: il comitato organizzatore denunciò Ibhais alla polizia sostenendo che fosse coinvolto in un giro di tangenti per mettere in pericolo la sicurezza dello stato. Per quella ragione, nel novembre 2019 venne arrestato. Uscì dal carcere un mese dopo, dietro pagamento di una cauzione. Nell’aprile 2021 Ibhais è stato condannato a cinque anni di carcere, ridotti a tre nel processo d’appello, celebrato nel novembre dello stesso anno. Nel settembre 2021 il detenuto si è rivolto alla Fifa attraverso la sezione del suo portale riservata ai whistleblower. Due mesi dopo, la Fifa ha risposto che “ogni persona merita un processo equo” e che avrebbe “continuato a seguire da vicino il caso”. Poi più nulla. Amnesty International, FairSquare e Human Rights Watch si stanno occupando di questa storia sin dall’inizio. A loro si è aggiunto il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie che, in una decisione ufficiale di 13 pagine adottata a maggio, ha concluso che: non c’era alcuna base giuridica per la detenzione di Ibhais; la privazione della sua libertà era derivata esclusivamente dall’esercizio dei suoi diritti umani; c’erano state molteplici violazioni del diritto a un processo equo, tra cui il rifiuto di prendere in considerazione le denunce dell’imputato di essere stato costretto ad autoincriminarsi, il diniego dell’assistenza legale e, infine, il diniego del diritto ad accedere alle prove a suo carico. Come da prassi, il Gruppo di lavoro ha dato al governo del Qatar due mesi di tempo per replicare. Non avendo ricevuto alcuna risposta, ha reso noto il documento, sollecitando le autorità qatarine a “scarcerare il signor Ibhais e garantirgli il diritto a un risarcimento e ad altre forme di riparazione, secondo quanto previsto dal diritto internazionale”. La fine della pena di Ibhais è prevista a ottobre ma, poiché il tribunale ha imposto anche la pena accessoria di una multa di 150.000 rial (pari a oltre 40.000 euro), se egli non fosse in grado di pagarla potrebbe rimanere in carcere fino ad aprile del 2025. *Portavoce di Amnesty International Italia