Record di suicidi in carcere, ma Nordio latita. “Sì alla proposta Giachetti”, dice Pittalis (FI) di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 luglio 2024 Da inizio anno 49 detenuti si sono tolti la vita, ma il ministro della Giustizia sembra non vedere l’emergenza. Forza Italia apre alla proposta sulla liberazione anticipata speciale. Tensioni con gli alleati di governo. “Il sistema carcerario vive una situazione drammatica. Non possiamo fare finta che il problema del sovraffollamento non esista, così come quello dei suicidi fra i detenuti, che ormai hanno una frequenza incredibile. Tutte le soluzioni che in prospettiva possono migliorare il sistema vanno benissimo, però ci vuole anche una risposta nell’immediato. E la proposta avanzata da Giachetti, con alcuni interventi migliorativi, rappresenta una buona occasione”. Così, intervistato dal Foglio, Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, ribadisce la volontà di Forza Italia di affrontare l’emergenza carceraria con misure urgenti. Proprio ieri si è avuto l’ennesimo suicidio di un detenuto, nel carcere di Paola, in provincia di Cosenza. È il 49esimo da inizio anno, un record storico. Nell’ultima settimana si sono tolti la vita quattro detenuti: due si sono impiccati, due hanno inalato gas dalle bombolette per il fornello. E il peggio deve ancora venire. Nel 2022, quando l’Italia a fine anno registrò il record di 84 suicidi, 16 avvennero nel mese di agosto, quando il disagio per i detenuti peggiora ulteriormente, fra caldo asfissiante e carenza di personale. Il riferimento di Pittalis è alla proposta Giachetti sulla liberazione anticipata, che prevede un aumento della detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 45 a 60 o 75 giorni per ogni semestre di pena scontata. Un provvedimento non risolutivo, ma che farebbe uscire dal carcere qualche migliaio di detenuti. “Attendiamo la proposta del ministro Nordio, che sicuramente terrà conto del problema nella sua complessità, ma quello che importa oggi è trovare soluzioni nell’immediato per cercare di dare una risposta urgente a un problema urgente. La mia posizione è condivisa all’interno del partito, e Forza Italia a breve annuncerà la convocazione di una conferenza stampa per chiarire la sua posizione”, fa sapere Pittalis. Il richiamo al senso di responsabilità verso gli alleati da parte di Forza Italia rischia però di creare tensioni nella maggioranza e anche nel governo. Proprio ieri Nordio ha fatto sapere che il decreto sulle carceri “andrà entro fine mese al Consiglio dei ministri”. Come se non si fosse di fronte a un’emergenza che richiederebbe interventi immediati. Non solo, il Guardasigilli ha anche ribadito indirettamente la sua contrarietà alla proposta Giachetti: “Io personalmente non sono d’accordo sugli sconti di pena, che sono sempre una sorta di sconfitta dello stato se lo sconto di pena significa non un atto di generosità ma un atto di resa di fronte a una situazione che giudico tollerabile. Penso, invece, che si debba seguire la strada delle detenzioni alternative sia per i casi di reati minori sia per i tossicodipendenti: puntiamo moltissimo sulle comunità”. Ma lo stato la sua sconfitta sembra già averla raggiunta. Nelle carceri italiane attualmente ci sono 61.547 detenuti a fronte di 47 mila posti effettivi disponibili, per un sovraffollamento del 130 per cento. E un tasso di suicidi fra i detenuti mai registrato prima d’ora. Altro che Ungheria. La resa è nei fatti, tocca soltanto prenderne atto e agire con urgenza, come chiedono Italia viva con Giachetti e Forza Italia. Il ministro Nordio, invece, anziché misure immediate, propone di puntare sulle comunità (che però avrebbero bisogno di tempo per organizzarsi), sul “far scontare la pena agli stranieri nei loro paesi di provenienza” (un’altra via di non immediata attuazione, visto che necessiterebbe di accordi fra l’Italia e i vari paesi) e sul ricorso all’organo collegiale per l’emissione delle ordinanze di custodia cautelare in carcere (che però entrerebbero in funzione non prima di due anni). Insomma, Nordio e la struttura burocratica che lo assiste non sembrano aver colto la gravità dell’emergenza vissuta dal sistema carcerario. Nella maggioranza, invece, occorrerà vedere come l’apertura del partito di Tajani alla proposta sulla liberazione anticipata sarà accolta da Lega e Fratelli d’Italia. I due partiti temono che il provvedimento possa apparire come uno “svuota-carceri”. I più ostili alla proposta Giachetti sarebbero i leghisti, che con il sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, Andrea Ostellari, spingono per introdurre nel decreto l’istituzione di un albo nazionale delle comunità per lavoranti. All’interno del partito di Meloni è l’altro sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, a gestire la partita. La posizione nei confronti della proposta Giachetti non sarebbe di completa chiusura. Delmastro avrebbe chiesto di rinviare il confronto a dopo le elezioni europee, facendo capire che la proposta potrebbe essere accettata se controbilanciata dall’inserimento di alcune norme più dure nei confronti dei detenuti con cattiva condotta. Ora però FdI sembra temporeggiare, paralizzata dalla paura di essere accusata di svuotare le carceri. I morti dietro le sbarre, tuttavia, ricordano che il tempo delle decisioni è arrivato. Già 49 detenuti si sono tolti la vita. L’emergenza ora è politica di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 luglio 2024 L’ultimo suicidio è avvenuto nel carcere di Paola. Il governo promette il decreto entro fine luglio, ma le misure sembrano insufficienti. Ancora un suicidio dietro le sbarre. È avvenuto domenica scorsa al carcere di Paola, provincia di Cosenza. Aveva solo 21 anni da poco compiuti, originario della provincia di Salerno. Avrebbe finito di scontare la sua pena nel maggio del 2027, ma ha deciso di farla finita domenica sera verso le 22 impiccandosi nella doccia della sua cella. Come riferisce Gennarino De Fazio, Segretario generale della UilPa Polizia penitenziario, è il 49esimo detenuto che si toglie la vita dall’inizio dell’anno, cui vanno aggiunti 5 agenti che si sono altresì suicidati, l’ultimo in ordine di tempo questo pomeriggio a Favignana. A nulla sono valsi gli immediati soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari. Sovrintendente del Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa di Reclusione di Favignana. Da domenica mattina se n’erano perse le tracce, nel tardo pomeriggio è stato trovato impiccato in un bosco sull’isola, non lontano dal carcere. In un’estate segnata da un’emergenza carceraria senza precedenti, il governo italiano sembra navigare a vista, incapace di fornire risposte concrete a una situazione che si fa ogni giorno più drammatica. Mentre il contatore dei suicidi in cella segna già 49 vittime a metà anno - un record tragico che potrebbe superare ogni statistica precedente - la politica si divide su provvedimenti che appaiono sempre più tardivi e inadeguati. Il 17 luglio, la Camera dei Deputati si appresta a votare la proposta di legge Giachetti-Bernardini sulla “liberazione anticipata speciale”. Una misura che prevede l’aumento dei giorni di sconto di pena per buona condotta da 45 a 60 giorni ogni sei mesi. Un provvedimento che potrebbe offrire un immediato sollievo al sovraffollamento cronico che affligge le carceri italiane, dove oltre 14.500 detenuti vivono in condizioni al limite della dignità umana. La proposta, tuttavia, arriva in aula senza relatore, segno di un consenso politico ancora fragile. Mentre Forza Italia, per bocca del deputato Pietro Pittalis, ha annunciato il proprio sostegno all’iniziativa, altre forze di maggioranza come Fratelli d’Italia mantengono le loro riserve. Il Movimento 5 Stelle, dall’opposizione, non è intenzionato a offrire sponde, trincerato dietro posizioni probabilmente fuorviate da chi parla - a torto - di “indulto mascherato”. Nel frattempo, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, continua a promettere un decreto “entro fine luglio” per affrontare l’emergenza. Data confermata anche dal sottosegretario Andrea Ostellari e che, stando alle sue anticipazioni, si limiterebbe a istituire un albo delle comunità di accoglienza per i detenuti senza domicilio, a velocizzare le procedure per l’applicazione degli attuali sconti di pena e aumentare le telefonate. Misure che, seppur doverose, appaiono insufficienti di fronte alla gravità della situazione. Il “decreto ghost”, come lo ha sarcasticamente definito Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Penitenziaria, sembra più un miraggio che una realtà concreta. La sensazione diffusa è che il testo sia ancora tutto da scrivere, mentre il tempo stringe e le vite si spezzano dietro le sbarre. La politica italiana si trova così di fronte a un bivio: agire con decisione per alleviare una situazione insostenibile o continuare a temporeggiare, rischiando di incorrere in nuove condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Mentre il dibattito si trascina stancamente tra Camera e Senato, nelle carceri italiane si consuma una tragedia silenziosa. I 49 suicidi dall’inizio dell’anno non sono solo numeri, ma vite spezzate, famiglie distrutte, un fallimento collettivo del sistema penitenziario e della società tutta. A questo si aggiungono anche i suicidi degli agenti penitenziari stessi. L’urgenza di un intervento non può più essere ignorata. La proposta Giachetti-Bernardini, pur con i suoi limiti, rappresenta al momento l’unica risposta concreta sul tavolo. Il voto del 17 luglio potrebbe segnare un punto di svolta o l’ennesima occasione mancata. In questo scenario, il “decreto carceri” promesso dal governo per fine mese rischia di arrivare troppo tardi e di offrire troppo poco. La vita nelle carceri italiane non può attendere i tempi della burocrazia e dei compromessi politici. Ogni giorno di ritardo si traduce in sofferenze aggiuntive per detenuti e personale penitenziario, alimentando un circolo vizioso di degrado e disperazione che mina alle fondamenta lo Stato di diritto. La palla ora passa al Parlamento e al governo. La speranza è che la politica italiana sappia finalmente alzare lo sguardo oltre gli interessi di parte e affrontare con coraggio e determinazione una delle più gravi emergenze sociali del nostro tempo. Il conto alla rovescia è iniziato, e non c’è più tempo da perdere. Indulto e amnistia non siano un tabù, o saremo travolti da questa tragedia di Paola Balducci Il Dubbio, 2 luglio 2024 Il carcere produce più carcere. Si dovrebbe partire da questo assunto fondamentale per comprendere l’attuale situazione penitenziaria italiana, vittima di un sovraffollamento esasperato, di un’emergenza suicidi che non appare arrestarsi (siamo a quota 49 nei primi 6 mesi del nuovo anno) e della forte instabilità data dal “terremoto penitenziario” a cui continuiamo ad assistere. Il sovraffollamento carcerario riduce l’attenzione degli operatori ai singoli detenuti, che si ritrovano in condizioni di abbandono e di “ozio” forzato, non potendo disporre di concreti ed efficaci programmi rieducativi. Il rischio, che in verità si sta tramutando in realtà, è quello di avvitarsi in un circuito in cui i detenuti incorrono continuamente in nuove sanzioni e, a volte, in reati, che portano solo a far aumentare il periodo di detenzione. La situazione della realtà carceraria risulta ben evidente anche dai dati riguardanti la crescita progressiva dei numeri dell’esecuzione penale interna ed esterna: le uscite al fine di fruire di una misura alternativa alla detenzione, non riescono a far fronte alle numerosissime entrate. Eppure, secondo la legge, con le dovute eccezioni, per pene inferiori a 4 anni dovrebbe essere concesso di poter scontare la pena all’esterno. Tuttavia violazioni delle prescrizioni, carenza di domicili idonei, un numero troppo esiguo di uffici di esecuzione penale esterna, incapaci di seguire adeguatamente il percorso esterno di un condannato, mancanza di attività rieducative per coloro che scontano una pena superiore ai due anni, sono tutti elementi che non permettono al sistema dell’esecuzione penale di rispettare il dettato costituzionale che mira alla rieducazione del condannato. Un percorso rieducativo che dovrebbe permettere alla stessa Magistratura di Sorveglianza di conoscere personalmente il detenuto, consapevole che, a volte, una sanzione disciplinare non sia indice del fatto che non si possa essere idonei alla vita all’esterno. E poi vi è il tema della pericolosità sociale, della situazione degli autori di reato affetti da patologie psichiche, dello scarso numero di Rems presenti sul territorio, che porta le carceri a dover accogliere dei detenuti non in grado di gestire e di curare, che sentono lo sconforto dell’abbandono e della solitudine e che purtroppo molto spesso si abbandonano a gesti estremi. Ecco, allora, come risulta evidente che il mondo carcerario non possa essere ridotto a semplici dati numerici, a semplici statistiche. Il carcere è fatto di persone, di mondi che si incontrano e si scontrano, che devono aprirsi verso l’esterno, certamente seguendo le prescrizioni normative, ma provando anche ad immaginarne di nuove. In una situazione simile, infatti, si dovrebbe avere il coraggio di implementare riforme concrete, come fatto con le cause di non punibilità per particolare tenuità del fatto, la sospensione del processo con messa alla prova, le pene sostitutive delle pene detentive brevi, e affrontare senza timore anche temi spesso considerati scomodi, quali ad esempio l’amnistia e l’indulto. Non si dovrebbe incorrere nell’errore di considerarli come atti legislativi volti a far uscire in massa i detenuti dal carcere o provvedimenti di indiscriminata clemenza. In realtà, l’indulto potrebbe essere un provvedimento estremamente rapido per ridurre la popolazione carceraria, limitandolo ai reati meno gravi e affiancandolo a programmi di recupero sociale tramite lavori all’esterno. Non dunque un “liberi tutti”, come gli oppositori all’applicazione di tali istituti potrebbero obiettare, bensì dei provvedimenti calibrati, studiati, attentamente regolati, al fine di permettere al sistema carcerario italiano di svolgere la vera funzione che la Carta Costituzionale gli ha brillantemente attribuito: non unicamente di afflizione e pena, ma di rieducazione e recupero sociale, che in un contesto complicato come quello delle carceri italiane, sembra oramai essere perduto e compresso come gli 60.000 detenuti che lo popolano. Nordio: “Entro la fine del mese in Cdm misure contro il sovraffollamento delle carceri” di Francesco Grignetti La Stampa, 2 luglio 2024 Nordio: “Chiamarlo svuota-carceri è un po’ improprio, era previsto come sapete nel precedente Consiglio dei ministri e poi è stato arricchito di altri provvedimenti”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio a margine dell’inaugurazione della sede della Corte Centrale di Milano del Tribunale Unificato dei Brevetti è intervenuto sul problema del sovraffollamento degli istituti di pena: “Chiamarlo svuota carceri è un po’ improprio, era previsto come sapete nel precedente consiglio dei ministri e poi è stato arricchito di altri provvedimenti sempre migliorativi. Sono certo che andrà entro la fine del mese al consiglio dei ministri”. “L’alternativa che noi proponiamo - ha sottolineato - va in varie direzioni, prima di tutto consentire di scontare le pene per i reati minori e anche per i tossicodipendenti in strutture diverse da quelle carcerarie, soprattutto in comunità, questa è la nostra grande sfida”. “Dobbiamo lavorare molto - ha rimarcato il ministro - sulle comunità sia per i detenuti per reati minori sia per i tossicodipendenti che molto spesso sono più malati che criminali. Poi quella di far scontare la pena agli stranieri nei loro paesi di provenienza avremmo già risolto il problema. Noi abbiamo quasi 20mila reclusi stranieri, se riuscissimo anche solo per la metà a concludere accordi con i paesi di origine per far scontare lì le pene”. Da ultima “ma non ultima la carcerazione preventiva. Abbiamo circa il 20% di persone in attesa di giudizio e molte di queste alla fine statisticamente vengono assolte, quindi la loro carcerazione si rivela ingiustificata. Ecco il Dl Nordio, quello dove è compreso l’abuso d’ufficio, comprende anche una rivoluzione sull’ordinanza di custodia cautelare che sarà emessa da un organo collegiale previo interrogatorio di garanzia del deputato”. Quindi “limiterà molto la carcerazione preventiva e anche questo sarà un modo di alleggerimento. Naturalmente anche qui è illusorio pensare che possa accadere da un momento all’altro però - ha concluso - la via è stata tracciata e già da un po’ inizieremo a vedere i benefici”. Lo sconto di pena? “È un problema di cui si è discusso, io personalmente non sono d’accordo sullo sconto di pena che sono sempre una sorta di sconfitta dello stato, se lo sconto di pena significa non un atto di generosità, ma un atto di resa di fronte a una situazione che giudico tollerabile”. Nordio: “La pena non significa solo sbarre”. Sisto: “Dobbiamo decarcerizzare le sanzioni” di Errico Novi Il Dubbio, 2 luglio 2024 “La pena non significa affatto sempre e soltanto carcerazione, sbarre, catenacci e galera, va rimodulata secondo vari criteri e le persone che le devono subire”. Sono le parole pronunciate dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel corso del convegno “Oltre le sbarre la vera libertà. Comunità minorili penali per un’integrazione reale e inclusiva”, a Palazzo Lombardia a Milano. Per Nordio la funzione del diritto è quella di “non lasciare impunito il diritto e non condannare gli innocenti. Non tutti i rei e i reati sono uguali. Purtroppo abbiamo grandi criminali che sono sottoposti al regime del 41 bis su cui il governo non ha mai deflettuto e poi detenuti che più che essere criminali sono malati. In questa zona grigia che sta tra l’alfa e l’omega si colloca la situazione della cosiddetta delinquenza minorile, dannatamente difficile e precaria perché è in grande evoluzione”. Il ministro della Giustizia ha indicato anche quella che può essere la vera soluzione: “innanzitutto nella differenziazione della pena e soprattutto nella concezione della pena che sia non solo rieducativa e preventiva, ma che soprattutto sia nuova in quanto si passa da una concezione carcerocentrica a una concezione diversa, che sia nello stesso tempo sanzionatoria ed efficace nel recupero del detenuto”. Il ministro ha sottolineato che “la capacità carceraria del nostro Paese è sempre stata costruita e ideata tenendo conto di una minoranza molto notevole di detenuti minori. Poi improvvisamente ci siamo trovati di fronte quasi a un’invasione di minorenni che vengono soprattutto da altri paesi. Noi abbiamo già da sempre il problema del sovraffollamento delle carceri, una situazione che si è sedimentata negli anni ed è difficile risolvere in pochissimo tempo anche se abbiamo una strategia. Ma questa situazione delle carceri per persone maggiorenni è addirittura esasperata per quanto riguarda i minorenni. C’è stato un aumento esponenziale di “ospiti” detenuti”. Una situazione provocata, come denunciato da molti in primis la Garante dell’Infanzia, dale misure contenute nel decreto Caivano. A Nordio ha fatto eco il suo viceministro, Francesco Paolo Sisto, che a Omnibus, su La7 ha detto: “È evidente che nel nostro Paese esiste un problema carceri, e riguarda sia i maggiorenni che i minorenni. E sappiamo che esiste un problema di strutture, su cui occorre agire situazione per situazione. È un lavoro difficile, che ci vede impegnati quotidianamente. Altrettanto importanti sono le offerte rieducative. Il governo si adopera, con ogni sforzo, per favorire i “percorsi esterni”. Le pene alternative di recente conio, come l’esecuzione penale esterna e la giustizia riparativa, sono istituti che tendono a “decarcerizzare” la pena. Dobbiamo così passare da una pena carcerocentrica ad una pena umanocentrica, con un necessario cambio generale di mentalità. Per formazione culturale, siamo abituati a concepire la pena esclusivamente come detentiva o pecuniaria. Oggi non è e non deve essere più così”. Il vice ministro alla Giustizia Sisto ha aggiunto: “Stiamo procedendo con una massiccia politica assunzionale all’interno delle carceri. Sono in arrivo 2mila nuovi agenti nella Polizia penitenziaria. Un’altra criticità che intendiamo superare è quella della dirigenza “a scavalco”, allo scopo di evitare sovraccarichi di responsabilità che possono di per sé favorire scompensi”. Il bla-bla-bla del Governo davanti alla strage dei suicidi in cella di Angela Stella L’Unità, 2 luglio 2024 La questione carceraria è diventata come Giano bifronte: da un lato la faccia della realtà, dall’altro quello della fantascienza. La prima ci consegna quasi l’impossibilità ormai di tenere il conto dei suicidi in carcere. Il 30 giugno un giovane di Salerno si è impiccato nella doccia della sua cella nel carcere di Paola, in provincia di Cosenza. Avrebbe finito di scontare la sua pena a maggio 2027. Secondo il Dap sono ufficialmente 47 i reclusi che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita. Ma in verità sarebbero 49: due, seppur morti in ospedale, sarebbero deceduti comunque a seguito di atti di autolesionismo. Ieri Aldo di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria, ha annunciato il suicidio di due giorni fa di un poliziotto penitenziario a Favigliana. Sarebbero cinque in totale dall’inizio del 2024 gli agenti suicidatisi ma, come ci spiega sempre il Dap, il corpo di uno di loro è stato ritrovato quest’anno ma il suicidio risale al 2023. La situazione è comunque drammatica e con l’acuirsi delle temperature afose sarà sempre peggio. E il Governo che fa? I soliti annunci: “Chiamarlo svuota-carceri è un po’ improprio, era previsto come sapete nel precedente Cdm e poi è stato arricchito di altri provvedimenti sempre migliorativi. Sono certo che andrà entro la fine del mese al Cdm. Io personalmente non sono d’accordo sullo sconto di pena che è sempre una sorta di sconfitta dello stato, se lo sconto di pena significa non un atto di generosità, ma un atto di resa di fronte a una situazione che giudico tollerabile”: lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo a chi chiedeva un aggiornamento sull’atteso decreto legge dell’esecutivo e sulla pdl Giachetti. Lo aveva già anticipato negli ultimi giorni il sottosegretario Ostellari che sta seguendo il dossier. Di tutt’altro spirito appaiono le dichiarazioni del suo vice ministro Paolo Sisto: “Dobbiamo passare da una pena carcerocentrica ad una pena umanocentrica, con un necessario cambio generale di mentalità”. In linea con la posizione del membro forzista della Commissione giustizia della Camera, Pittalis, pronto a sostenere la pdl Giachetti elaborata insieme a Nessuno Tocchi Caino. Il decreto legge arriverà dunque quando l’attenzione dell’opinione pubblica sarà focalizzata già sui cruciverboni e i gialli sotto l’ombrellone: passerà in sordina, senza timore di scontentare una parte dell’elettorato che potrebbe criticarlo, solo perché un detenuto passerebbe da un carcere ad una comunità. Inoltre farlo arrivare in Cdm a fine mese significa vanificare tutto il mese di agosto e far rimanere solo settembre per la discussione in vista della conversione. E poi, mentre con la pdl Giachetti, che andrà in discussione in Aula della Camera il 17 luglio, si conoscono già i numeri dei detenuti che potrebbero uscire dal carcere, ossia circa 12mila, con il decreto di Via Arenula non si conoscerebbero ancora i dati esatti, perché mancherebbe un lavoro di raccordo con il Dap. Una mancanza notevole considerato che alcune carceri superano il 200% di sovraffollamento. Per la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani “Gli ultimi annunci del ministro Nordio confermano che non cambierà niente, restiamo alle chiacchiere e pure col garantismo siamo a zero”, mentre Faraone di IV ha inviato una lettera al presidente della Camera Lorenzo Fontana per chiedere una informativa urgente sui suicidi. Le proposte di Antigone per rendere la vita in cella meno difficile nel periodo critico dell’estate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 luglio 2024 L’associazione Antigone lancia un nuovo allarme sulla drammatica situazione dei 49 suicidi nelle carceri italiane, definendola una vera e propria emergenza nazionale. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione, sottolinea come il periodo estivo sia particolarmente critico per i detenuti, a causa della chiusura delle attività scolastiche e della riduzione delle iniziative di volontariato. Per affrontare questa emergenza, Antigone propone una serie di provvedimenti urgenti che potrebbero essere inseriti nel decreto carceri annunciato dal ministro della Giustizia Nordio. Innanzitutto, l’associazione chiede il ritiro del pacchetto sicurezza, che introdurrebbe nuove fattispecie di reato come la rivolta penitenziaria e prevedrebbe il carcere per donne in gravidanza o con bambini sotto l’anno di età. Tra le altre proposte, Antigone suggerisce di aumentare a 75 giorni la liberazione anticipata per semestre e di consentire telefonate quotidiane ai detenuti. Si chiede inoltre di migliorare le condizioni di vita nelle celle, installando ventilatori, aria condizionata e frigoriferi, e di tornare al sistema di celle aperte durante il giorno. L’associazione sottolinea l’importanza di modernizzare la vita penitenziaria, permettendo l’accesso controllato a internet, e di potenziare il personale con l’assunzione di mediatori culturali, educatori e assistenti sociali. Si propone anche di incrementare la presenza di volontari nei mesi estivi e di aumentare il numero di figure professionali come psichiatri, etno-psichiatri e medici. Antigone suggerisce inoltre di applicare misure alternative come premi attraverso consigli di disciplina allargati e di garantire uno spazio vitale adeguato per ogni detenuto. Infine, si propone di permettere ai semiliberi di trascorrere la notte fuori dal carcere. Queste proposte mirano a migliorare le condizioni di vita dei detenuti, riducendo l’isolamento e la disperazione che spesso portano a gesti estremi. Antigone sottolinea l’urgenza di questi interventi, specialmente in vista del periodo estivo, quando la solitudine e l’apatia nelle carceri raggiungono livelli critici. L’associazione ribadisce la necessità di un’azione immediata da parte del Governo e del Parlamento per affrontare questa emergenza e garantire condizioni di detenzione più umane e dignitose. Il pacchetto di proposte di Antigone rappresenta un tentativo concreto di rispondere a una situazione sempre più allarmante, cercando di bilanciare le esigenze di sicurezza con il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Accordo tra Ministero e Csv.net: misure alternative al carcere, le associazioni protagoniste di Paola D’Amico Corriere della Sera, 2 luglio 2024 Cresce il ruolo delle associazioni. L’intesa, sottoscritta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio con la presidente dei Centri di servizio per il volontariato, Chiara Tommasini, favorisce protocolli locali per la messa alla prova. Promuovere la sottoscrizione di convenzioni locali tra Centri di servizio per il volontariato (Csv), enti del terzo settore e tribunali, per ampliare e diversificare ulteriormente le opportunità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità ai fini della messa alla prova per adulti. È l’obiettivo del Protocollo nazionale firmato lo scorso 12 giugno dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dalla presidente di CSVnet, l’associazione nazionale dei 49 Centri di servizio per il volontariato, Chiara Tommasini. La messa alla prova (Map) è una forma di probation giudiziale che consiste nella sospensione del procedimento penale per reati di minore allarme sociale. In dieci anni dalla sua istituzione è diventata un volano importante per valorizzare un’Italia diversa, attiva e solidale: quella di migliaia di associazioni che aprono le porte a chi è alle prese con la giustizia anche se per reati minori. Con la sospensione del procedimento, l’imputato viene affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) per lo svolgimento di un programma di trattamento che prevede come attività obbligatoria e gratuita, l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività. Lavoro che può essere svolto presso istituzioni pubbliche, enti e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Anche per i minorenni con il provvedimento di messa alla prova il processo è sospeso e il minore è affidato ai Servizi della Giustizia Minorile che, in collaborazione con i Servizi degli Enti locali, svolgono nei suoi confronti attività di osservazione, sostegno e controllo. I dati della giustizia minorile - Secondo gli ultimi dati forniti dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, solo nel 2022 oltre 24mila persone hanno usufruito dei due istituti, impegnandosi, nell’87% dei casi, nel supporto in attività socio-assistenziali e sanitarie. La messa alla prova, infatti, prevede la sospensione del procedimento per l’imputato che ha la possibilità di evitare la condanna impegnandosi in opere a favore della collettività. Il lavoro di pubblica utilità (Lpu) coinvolge invece i condannati per reati minori e consente di scontare la pena svolgendo ore di lavoro non retribuito all’interno di strutture convenzionate con il ministero. Oltre agli Enti di terzo settore (Ets) diversi Csv in questi anni hanno esercitato un ruolo fondamentale di ponte tra gli Uffici di esecuzione penale esterna e le associazioni locali, disponibili ad accogliere persone interessate da queste misure alternative al carcere. Molti, infatti, hanno siglato specifici accordi con gli Uepe del proprio territorio di riferimento. Il ruolo e il coinvolgimento dei Csv - Ad essere al centro dell’accordo tra CSVnet e il Ministero ci sono proprio i Csv i quali, insieme agli enti e le associazioni che hanno volontari ad essi aderenti, possono favorire l’attivazione di nuove convenzioni con i tribunali ordinari per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, attraverso la mediazione e il supporto degli Uffici di esecuzione penale esterna-Uepe. Questo consentirà di affrontare meglio la crescente richiesta di ulteriori posti per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità in settori a forte impatto sociale. “Siamo molto soddisfatti di questo accordo, che rappresenta un passo importante verso il rafforzamento del ruolo delle associazioni del terzo settore nel sistema di giustizia di comunità”, spiega Chiara Tommasini, presidente CSVnet. “La messa alla prova e i lavori di pubblica utilità sono strumenti fondamentali per promuovere l’inclusione sociale e offrire una seconda opportunità a chi ha commesso reati minori. Il protocollo nazionale non amplia solo le opportunità di collaborazione tra i Centri di servizio per il volontariato e i tribunali, ma - aggiunge - riconosce anche l’impegno quotidiano delle associazioni nel sostenere chi si trova in situazioni difficili. Un passo importante, a cui siamo giunti anche grazie al protocollo siglato tempo fa con la Conferenza nazionale volontariato e giustizia e che, insieme al recente accordo siglato con Anci nazionale, testimonia l’impegno di tutto il sistema dei Csv per dare un maggiore protagonismo agli Ets, coinvolti grazie alla riforma normativa, non solo nel realizzare le politiche pubbliche, ma anche nel collaborare alla loro programmazione e progettazione”. Oggi alla Camera la “road map” sulla separazione delle carriere di Valentina Stella Il Dubbio, 2 luglio 2024 Si riunirà oggi o domani pomeriggio l’Ufficio di presidenza delle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera. Si riunirà oggi o domani pomeriggio l’Ufficio di presidenza delle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera, integrato dai rappresentati dei gruppi, che deciderà anche il calendario di discussione delle due grandi riforme costituzionali. La prima è sul premierato, la seconda prevede separazione carriere, sorteggio dei componenti dei due futuri Csm e Alta Corte. Come anticipato nei giorni precedenti su questo giornale, l’intenzione del presidente della prima commissione, l’azzurro Nazario Pagano, sarebbe quella di istituire una “staffetta”: due settimane al mese dedicate a entrambi i ddl. Secondo Pagano è questa “la formula adeguata per consentire a entrambe le riforme il necessario approfondimento e per portarle in Aula in tempi ragionevoli”. Il presidente della Affari costituzionalivuole evitare l’esame congiunto con la seconda commissione, come richiesto, invece, dal deputato di Azione Enrico Costa e dalla capogruppo Giustizia della Lega Ingrid Bisa. Pagano ritiene che si dilaterebbero troppo i tempi, aumentando il numero dei votanti, mentre la soluzione sarebbe quella di sostituzioni ad hoc, mirate alla trattazione di uno specifico provvedimento, che ciascun gruppo può operare tra i propri deputati schierati nelle diverse commissioni. Tuttavia il responsabile Giustizia di Azione non è affatto d’accordo: “Non si riduca la questione ad un profilo personalistico”, dice Costa, “il punto non è consentire ad uno o più deputati di andare in commissione, ma di fare in modo che la commissione Giustizia sia protagonista su un provvedimento che riguarda appunto il sistema giustizia. Il presidente Pagano propone la sostituzione? Non risolve il tema, e oltretutto comporta delle conseguenze. Primo: significa che per inserire un membro della seconda commissione nella prima, quest’ultima deve fare a meno di un proprio commissario, che deve rinunciare. Secondo: se vengono convocate contemporaneamente entrambe le commissioni, Giustizia e Affari costituzionali, per quale si opta? Diventerebbe un gioco di incroci difficilissimo. E comunque l’aspetto più importante rimane un altro: non si vuole capire che questa è una materia che ha risvolti sia sul piano costituzionale che in materia di giustizia. Non si può tralasciare una commissione dalla valutazione del provvedimento. Inoltre non mi pare che altri provvedimenti, come decreti o disegni di legge sicurezza, siano stati rallentati dalla gestione congiunta delle commissioni. Se poi c’è una questione di primogenitura, allora ce lo si dica chiaramente. Però, torno a ripetere: la questione è di buon senso. La commissione Giustizia, con le sue attribuzioni, con il suo lavoro, non si può pretermettere: il tema non riguarda la composizione delle persone ma le attribuzioni e le funzioni della stessa. Da un lavoro di integrazione delle due verrebbe fuori un buon testo”. Il parlamentare lancia poi una frecciatina: “Pagano è persona che stimo ed è giusto che tema i ritardi. Vogliamo parlare dei ritardi prodotti finora sul tema, con sole 14 sedute in 18 mesi dedicate alla separazione delle carriere? Si è interrotta la discussione sulle proposte in esame, perché il governo non voleva che si andasse avanti. Se ritardi ci sono stati si sono generati tutti quando la commissione Giustizia non toccava palla”. Nicola Gratteri: “Intercettare non è un costo, ma un ricavo per lo Stato” di Luca Sommi Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2024 Dalle intercettazioni alla credibilità della magistratura, dalla legalizzazione delle droghe alla separazione delle carriere, passando per lo stato di salute delle nostre forze dell’ordine, alle riforme della Giustizia e al rapporto con la politica, il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha risposto per oltre un’ora alle domande di Luca Sommi, che l’ha intervistato il 28 giugno a Parma nella rassegna “Dedalo”. La riassumiamo per argomenti. Credibilità della magistratura - Siamo al 36% di credibilità, un indice mai così basso. Il punto è che noi magistrati abbiamo fatto degli errori e, per sanare questi errori, non siamo riusciti ad intervenire in modo duro. Mi riferisco al caso Palamara. Col vecchio Csm, per avere la maggioranza, bastavano 13 voti. (…) Ma se Palamara era uno (…) mettiamo il caso in cui fosse stato in grado di convincere cinque, sei membri, ma per arrivare a 13 ce ne vuole. E allora: gli altri che hanno fatto? Hanno seguito Palamara? Oppure non era solo Palamara? Nel momento in cui c’erano (…) tutte quelle intercettazioni e tutti quei voti, io (…) avrei indotto tutti i componenti del Csm a dimettersi, a voltare pagina, e si andava a rivotare. Così l’opinione pubblica avrebbe detto: forse stanno facendo sul serio. Invece (…) la gente ha pensato: si stanno proteggendo, stanno cercando di mettere delle toppe (…) non siamo stati credibili. Quindi oggi c’è una magistratura debole, un’opinione pubblica distratta, e una politica forte che sta riuscendo a fare cose che vent’anni fa erano impensabili. I sindaci e la paura della firma - Se voi avete notato negli ultimi decenni (…) si muore più a casa, ammazzati da un marito, che non per strada ammazzati dalla mafia. (…) Non c’è più bisogno di ammazzare (…) c’è stato un forte abbassamento morale ed etico (…) soprattutto in Italia. Siamo più poveri, ma non siamo disposti a rinunciare a quello che facevamo dieci anni fa. E quindi (…) ci prostituiamo in cambio di 5 o 10mila euro. Mettiamo una firma dove non dobbiamo (…). Si dice che i sindaci non si candidano perché hanno paura della firma. Intanto, il sindaco non firma (…), il sindaco delibera (…) e poi, se fa l’atto falso, lo fa il funzionario dipendente dal sindaco, che è una cosa diversa. Diciamo che vogliamo avere mani libere senza controllo, perché io penso che se un sindaco ha dei dubbi sulla legittimità di un atto, prima di deliberare, intanto nella stanza affianco c’è il segretario comunale che è uno specialista in diritto amministrativo, poi, se ha ancora dei dubbi, può andare in Prefettura, dove c’è il prefetto (…). Addio polizia migliore del mondo - Non siamo più la migliore polizia al mondo, perché chi ci ha governato negli ultimi anni non ha investito in tecnologia, non ha investito in formazione, non investe in assunzioni. (…) Mancano 18mila uomini nella polizia penitenziaria, 9mila finanzieri, 20mila poliziotti e carabinieri. Il buco è enorme. Ma anche se noi avessimo la bacchetta magica e i soldi per assumere tutto questo personale, non risolveremmo comunque il problema perché oggi (…) c’è bisogno di personale specializzato (…) ingegneri informatici, hacker buoni per contrastare la punta avanzata delle mafie, che sono in grado, in 26 minuti, di fare 3 transazioni finanziarie su 3 banche in 3 continenti diversi. Di estrarre Bitcoin. Poi io mi ritrovo a sentire che i mafiosi non parlano al telefono e che le intercettazioni non servono, che bisogna tornare ai pedinamenti. (…) Ma io ho spiegato più volte (…) Io seduto sul divano di casa mia posso ordinare 2000 chili di cocaina (…) un bazooka, un omicidio, comprare il corpo di una persona: e allora chi mi devo pedinare? Quello che va a chiedere la mazzetta di 500€ al negozio più vicino? Il business delle intercettazioni - Parliamo di soldi. Si dice che per le intercettazioni ogni anno si spendono tra i 160 e i 180 milioni. Facciamo pure 200 milioni. Allora: in un solo giorno il mio ufficio ha sequestrato 280 milioni di Bitcoin che abbiamo trasformato in euro. E sono entrati subito nella cassa del ministero della Giustizia e quindi immediatamente fruibili, spendibili. Una sola operazione e ci siamo pagati le intercettazioni delle procure di tutta Italia per un anno e mezzo. Ieri abbiamo sequestrato in banconote 500 milioni. Quindi ieri ci siamo pagati tre anni di intercettazioni telefoniche. (…) A me pare che se il problema sono le intercettazioni, mi pare un investimento (…), il veicolo, il mezzo più economico per fare cassa, per fare soldi da parte dello Stato. Dice che i mafiosi non parlano al telefono. Certo, se io aspetto che il mafioso dica al telefono: ‘Senti cara, stasera non vengo a cena perché devo andare da Tizio’, è ovvio, questa telefonata non la sentirò mai. Però sentirò il mafioso che chiama il tecnico comunale e dice: ‘Ci vediamo al bar’. Questa per me, se faccio un’indagine per associazione di stampo mafioso. è una telefonata importantissima: capisco che devo lavorare sul tecnico (…). L’opposizione non fa nulla - Attenzione, perché molte volte qui l’opposizione su cose delicate e importanti, non protesta, non fa battaglie, si astiene. Attenzione, ma io vi voglio dire una cosa importante. Oggi non c’è indagine di mafia dove, nello stesso 416 bis, non ci siano pezzi di politica e pubblica amministrazione. Anche in indagini di droga. State attenti a questo passaggio: cosa sta dicendo la politica? Noi, per le indagini di mafia e terrorismo, le intercettazioni non le tocchiamo. (…) Devo fare un esempio. Mettiamo che questo sia un negozio di elettrodomestici. Oltre a vendere frigoriferi vendo anche cocaina. C’è una microspia sul bancone (…) entra un pubblico amministratore, (…), un politico, e compra 100 grammi di coca. Perché stasera c’è una festa in villa. (…) Poi però parlano anche di una corruzione (…) di truccare una gara (…). Sapete che queste intercettazioni non le posso usare perché l’intercettazione mi è stata autorizzata per l’indagine di droga? Siccome non parla di droga (…) non posso utilizzarla. Eppure sono i protagonisti che stanno parlando, che si stanno accordando per truccare quella gara. Vi rendete conto? Dopo mezz’ora entra nel negozio un tossico e ha una bottiglia di liquore in mano. E il gestore del negozio gli chiede: ‘Questa bottiglia dove l’hai presa?’. ‘L’ho rubata’. Voi sapete che io questa intercettazione la posso usare? (…) Perché è previsto l’arresto in flagranza. E allora io ho detto a tutti i politici che ho incontrato (…): se si vuole fare un articolato di legge, in un quarto d’ora ve lo scrivo io. Vi sembra normale che se rubo un liquore mi possono processare e se confesso la corruzione non si può procedere? E allora queste sono le riforme che servono, non quella che si sta approvando tra Camera e Senato, nel silenzio assordante di tutti. Sulla riforma del sequestro dei telefoni - Io oggi sequestro questo telefonino: il pm emette un decreto di sequestro del telefonino perché gli serve subito (…). Noi, appena sequestrato questo telefonino, facciamo una copia forense. Cosa vuol dire? Facciamo un clone del contenuto di questo telefonino originale. Lo mettiamo in una busta sigillata. E firmiamo tutti: la polizia giudiziaria, l’avvocato, l’indagato. Sulla copia il tecnico subito cerca di capire (…) tutto ciò che c’è là dentro. Si sta facendo una modifica normativa, dove anche un pezzo dell’opposizione si è astenuto, dove ora, per fare questo sequestro, devo fare una richiesta al gip. Il gip mediamente vi risponde dopo 4/5 cinque giorni, quindi io perdo 4/5 giorni importanti. Ma c’è un altro giochino. Se ha un amico che si trova in Vietnam, e ha l’ID del telefonino, glielo svuota: e quindi, se c’è una fuga di notizie, io apro il telefonino e non trovo nulla. Separazione delle carriere - Intanto dobbiamo dire che (…) ogni 100 magistrati soltanto lo 0,2 chiede di cambiare funzioni. Quindi è un problema che non esiste. Ma mettiamo il caso in cui domani decidessi di fare il giudice. Io lavoro a Napoli, per poter fare il giudice, il posto più vicino è la Regione Toscana, perché posso andare a fare il giudice in una sede di Corte d’Appello, diversa dalla mia, che non sia confinante. (…) Va bene, quindi è un non problema. Passiamo al discorso dell’autonomia (tra giudicanti e inquirenti, ndr). Intanto voi non avete idea di quante richieste di intercettazioni, o misure cautelari, i gip ci rigettano (…). Non c’è appiattimento dei giudici sui pm. C’è chi dice: così non corriamo il rischio di vedere il pm che va nell’auto del giudice. E quando è il giudice che va sull’auto dell’avvocato? (…) E quando io vedo a tavola, in un ristorante o sul lungomare, un giudice con un avvocato, come la mettiamo? Separiamo il tavolo? (…) Legalizzazione delle droghe - Io ho imparato una cosa: in politica e al Csm, mai dire mai. Però, se posso fare una scommessa, posso dire che questo governo non approverà mai la legalizzazione delle droghe. Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, è fortemente contrario (…) sin dai tempi in cui nessuno lo conosceva (…). Si dice: se noi legalizziamo le droghe leggere allontaniamo i giovani dalla criminalità organizzata. E io rispondo: ma se il disegno di legge dice che chiunque ha compiuto 18 anni può andare in farmacia con un certificato medico (…), ma voi sapete che ci sono bambini delle scuole medie che a 11 anni si fanno già le canne? E fino a 17 anni, 11 mesi e 29 giorni, dove le vanno a comprare? (…) Seconda cosa, dicono: legalizziamo le droghe leggere (così, ndr) le forze dell’ordine (possono dedicarsi, ndr) a cose più importanti (…). E allora io dico: chi controlla questa piazza e vende droga, non vende solo marijuana (…) venderà cocaina, eroina e droghe sintetiche. Quindi le forze dell’ordine continueranno a lavorare su quella piazza. Terza cosa: se legalizziamo le droghe leggere impoveriamo le mafie. Intanto (…) al mercato nero costa meno della metà. (…) Se per strada paghiamo 6€al grammo e in farmacia costa 15, capite che il tossico continuerà a comprarla a 6 € e non a 15? L’80 per cento dei tossicodipendenti sono cocainomani. La coca mediamente costa 80 € euro al grammo. E allora: se l’80 per cento dei tossicodipendenti è cocainomane, e paga la cocaina 80 € euro al grammo, mentre un grammo di marijuana costa 6, quanto sarebbe il mancato guadagno di chi vende marijuana, rispetto a chi vende coca? Parlare di impoverimento delle mafie mi sembra una esagerazione. A meno che non decidessimo di legalizzare la cocaina. E la signora ride. Però io vi dico che ci sono dei politici che sarebbero favorevoli. Ma c’è un problema: non c’è al mondo un paese dove si vende legalmente la coca. Immaginate una nave militare italiana che parte ogni mese e va a fare rifornimento. Con chi trattiamo? Con i terroristi che controllano il mercato. Ma c’è un’ultima cosa che voglio dire sulle droghe leggere: nella marijuana di oggi, il THC, il principio attivo, è molto forte (…). L’uso sistematico della marijuana porta a incidere sul sistema nervoso, portando all’aumento di malattie come la schizofrenia e riduce lo spessore della corteccia cerebrale dove risiede la memoria. Cassazione. Il rapporto di lavoro dei detenuti è “univoco e continuativo” di Luca Rampazzo genteeterritorio.it, 2 luglio 2024 Uno dei pilastri del sistema carcerario è il reinserimento del detenuto. Questo passa, anche, da attività lavorative svolte in carcere. Il lavoro consente di attenuare una vita già molto difficile e dà anche la possibilità di guadagnare qualcosa. O almeno dovrebbe. Già, perché lo Stato non perde le proprie “buone” abitudini e ogni tanto non paga. Vuoi per la mancanza di organizzazione, di fondi o per qualsiasi altro motivo. Al detenuto viene detto di attendere pazientemente. Il problema è che, fino alla scorsa settimana, se il detenuto pazientava troppo, lo Stato si rifiutava proprio di pagarlo. La prescrizione dei soldi dovuti per lavoro durante il carcere, sosteneva il Ministero della Giustizia, si iniziava a calcolare dalla fine del periodo (suddivisione del tempo carcerario) di riferimento. Questo perché, sosteneva lo Stato, ogni lavoro era un contratto separato. Va da sé che mentre sei in carcere magari i soldi, la voglia e la capacità di fare ricorso non ce l’hanno tutti. Quindi il Ministero risparmiava ogni anno milioni di euro. La scorsa settimana è cambiato tutto, come apprendiamo dallo Studio Legale Tavernese. “Con la sentenza della scorsa settimana, la Suprema Corte ha messo un punto fermo su una annosa vicenda: il diritto del detenuto ad essere pagato non si prescrive prima della scarcerazione. Una pronuncia molto importante, perché riconosce i diritti di migliaia di detenuti che il Ministero della Giustizia prova da decenni a non pagare. La storica sentenza della Corte di Cassazione, n. 17478 del 25 giugno 2024, che stabilisce che i crediti di lavoro dei carcerati non si prescrivono fintanto che sono detenuti. Il rapporto di lavoro dei detenuti è univoco e continuativo, indipendentemente dalle eventuali interruzioni intermedie, pertanto la prescrizione dei relativi crediti resta sospesa fino alla cessazione dello stato di detenzione. Questo il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte all’esito di un difficile contenzioso che ha visto, finalmente, prevalere il sacrosanto diritto dei detenuti al riconoscimento di tutto quanto spettante per il lavoro svolto alle dipendenze degli Istituti penitenziari. Una decisione fondamentale che consentirà ai carcerati di vedersi riconosciute, una volta per tutte, le retribuzioni effettivamente spettanti e che mette fine ad un’ingiustizia perpetuatasi per troppo tempo”. In sostanza: se hai lavorato puoi fare causa allo Stato per gli stipendi non pagati percepiti pure negli anni ‘80. Rivalutati e con gli interessi se sei uscito da meno tempo di quello previsto dalla prescrizione per i crediti di lavoro. Non è poco. Né come tempo né, soprattutto, come soldi. Nel grande deserto del sistema carcerario italiano, finalmente una buona notizia. Paola (Cs). Suicida in carcere a 21 anni, sarebbe dovuto uscire nel 2027 di Pasquale Sorrentino Il Mattino, 2 luglio 2024 Si chiamava Giuseppe Spolzino ed era originario di Sala Consilina: nella notte tra sabato e ieri ha deciso di togliersi la vita nel carcere di Paola, in Calabria, dove era rinchiuso. Secondo quanto emerso si è impiccato nella doccia della sua cella: sarebbe uscito nel 2027. “È il 49esimo detenuto che si toglie la vita dall’inizio dell’anno, cui vanno aggiunti 5 agenti che si sono altresì suicidati, l’ultimo domenica 30 giugno a Favignana. A nulla sono valsi gli immediati soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari”, ha detto Gennarino De Fazio. Sono 49 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno. Dopo il fine settimana nero di due settimane fa, l’ultimo in ordine di tempo è stato un ragazzo che aveva da poco compiuto 21 anni. Originario di Sala Consilina, in carcere per piccoli reati legati alle sostenze stupefacenti, avrebbe finito di scontare la sua pena nel maggio del 2027. Si è impiccato nella doccia della sua cella all’interno del carcere di Paola, in provincia di Cosenza. Quest’ultimo caso è quindi al centro dell’allarme dei sindacati: “Altro che risocializzazione, le carceri ormai sono luoghi di morte”. A peggiorare le condizioni di detenzione è il sovraffollamento delle carceri. Secondo i dati del Garante dei detenuti, la capienza è oltre il 130 per cento. Stando all’ultimo monitoraggio dell’associazione Antigone, al 31 maggio nel carcere di Paola (dove si è verificato l’ultimo suicidio) erano presenti 200 detenuti su una capienza di 181 posti disponibili. In totale la capienza massima in Italia è stata superata di oltre 14.500 detenuti. In questo contesto occorre ricordare che da nove anni è chiusa la casa circondariale di Sala Consilina e che il Tribunale di Lagonegro non un carcere di riferimento con trasferimenti - anche onerosi - in strutture detentive tra Salerno, Potenza, Foggia e appunto in Calabria. Per quanto concerne il carcere di Sala Consilina era il 2015 e i circa trenta detenuti ancora ospiti della struttura circondariale di Sala Consilina furono trasferiti in poche ore in seguito alla decisione del Ministero della Giustizia di chiudere, secondo il loro parere in modo definitivo, il carcere valdianese. Erano trascorsi soli tre anni dalla soppressione del Tribunale e della Procura di Sala Consilina e la serrata del carcere era stata una conseguenza “naturale” di quella decisione. A otto anni di distanza il carcere è nel degrado, un monumento - triste - all’abbandono. Per tentare di riaprirlo il Comune di Sala Consilina e l’Ordine degli avvocati di Sala Consilina e Lagonegro hanno presentato diversi ricorsi che, nonostante qualche successo iniziale, sono andati poi verso la conferma della chiusura. Così la struttura, una vecchia sede vescovile, edificato nell’anno 1809 e nel 1948 trasformato in carcere, è rimasta chiusa tra pesanti inferriate e circondata dal silenzio e dal vuoto. Milano. Nordio: “Mai così tanti detenuti nelle carceri minorili” di Donatella Negri rainews.it, 2 luglio 2024 Il Ministro della Giustizia chiede di ripensare pene e strutture. Il governatore Fontana: “Serve un nuovo modello per reinserire i giovani”. “Noi ci definiamo garantisti, nel senso che da un lato siamo attenti al principio di presunzione di innocenza e a limitare il più possibile la carcerazione preventiva e nello stesso tempo garantire la certezza della pena. La funzione del diritto è non lasciare impunito il reato e non condannare gli innocenti. La pena non significa affatto sempre e soltanto carcerazione, sbarre, catenacci e galera, va rimodulata secondo vari criteri e le persone che le devono subire”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio durante l’evento ‘Oltre le sbarre, la vera libertà’ al Palazzo Lombardia di Milano. Il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha ricordato che Regione Lombardia ha attivato un modello d’intervento innovativo per il reinserimento sociale dei minori e dei giovani adulti che commettono reati: “è in atto un grande sforzo con il ministero della Giustizia e con tutti i soggetti territoriali, pubblici e privati, per promuovere l’educazione alla legalità e percorsi di crescita sani e costruttivi - ha spiegato il governatore - In questo senso le comunità per minori svolgono un ruolo fondamentale che intendiamo supportare e implementare”. In base a un accordo tra Regione e ministero della Giustizia e al relativo stanziamento di 2,5 milioni di euro, saranno attivate sul territorio lombardo nuove comunità educative e sociosanitarie per minori e giovani con disagio psichico e/o disturbi da uso di sostanze. Si tratta di unità sperimentali e innovative dove l’aspetto educativo si integra con quello sanitario e sociosanitario, dedicate a ragazzi con provvedimenti della magistratura o in uscita dal percorso detentivo. L’accordo della Conferenza unificata del settembre 2022 prevedeva l’istituzione ‘di almeno tre strutture comunitarie sperimentali (bacino interregionale Nord, Centro e Sud Italia)’. La Lombardia, adesso, è la prima Regione in Italia a dare attuazione all’accordo. Roma. Caldo e sovraffollamento: il “grido d’aiuto” dei reclusi di Lucandrea Massaro romasette.it, 2 luglio 2024 A Regina Coeli 1.133 detenuti sui 628 previsti. Carenza di personale e spazi fatiscenti. Padre Boldrin: situazione molto pericolosa. La Garante Calderone: manca l’acqua in stanza, letti stipati. Con l’ultimo in ordine di tempo, a Caltanissetta, è salito a 45 il numero di detenuti che si è tolto la vita dall’inizio dell’anno. In tutto il 2023 erano stati 70, dopo il tragico 2022 dove il numero era stato di 85 suicidi dietro le sbarre. Quello che fa più impressione è che gli ultimi cinque si siano susseguiti in meno di una settimana e torna alla mente il XX Rapporto di Antigone presentato nelle scorse settimane, che denunciava una situazione sempre più insostenibile, dalle cause molteplici, a cominciare dal problema ormai strutturale del sovraffollamento. Nel Rapporto si legge che “gli istituti dove sono avvenuti il maggior numero di suicidi tra il 2023 e il 2024 sono le case circondariali di Roma Regina Coeli, di Terni, di Torino e di Verona. In ognuno dei quattro istituti si sono verificati cinque casi di suicidio”. E altri due nel 2024 a Regina Coeli, che tra carenza di personale e spazi fatiscenti è una delle situazioni più complesse tra le carceri, come ci conferma Sofia Antonelli, ricercatrice di Antigone, tra coloro che hanno visitato il penitenziario poco tempo fa. “I pochi spazi comuni sono stati trasformati in celle, e visto che il carcere è un edificio storico sottostà ai limiti della Sovrintendenza ai Beni culturali e non è possibile fare un vero riammodernamento per rendere gli ambienti più confortevoli”. Il carcere romano di Regina Coeli è infatti un ex convento riconvertito in casa circondariale. Purtroppo, è anche un luogo che sulla carta potrebbe accogliere 628 detenuti, ma in realtà ne ospita quasi il doppio, 1.133, rendendolo tra le carceri più affollate d’Italia, con tutti i disagi e gli aggravi di pena che questo comporta. “Il sovraffollamento non significa solo malessere delle persone, non significa solo insalubrità degli ambienti, ma anche tensioni crescenti, soprattutto in vista dell’estate che acuisce la sofferenza, con la carenza - come conseguenza - di personale in servizio commisurato alle esigenze”: a denunciarlo è Valentina Calderone, garante dei detenuti del Comune di Roma. Per far capire come la situazione sia davvero tesa, ecco anche la protesta dei reclusi nei giorni scorsi. Nella IV sezione, dopo i disordini di pochi giorni prima nella III. In un post sui social la garante Valentina Calderone si chiede: “Come si fa a obbligare le persone a dormire in quattro in spazi pensati per due, a non avere acqua corrente in stanza, a sopportare l’aria bollente che passa dalle finestre schermate dalle bocche di lupo? Come si fa a stipare letti nelle salette socialità, a non avere la certezza di poterti fare almeno una doccia al giorno?”. Domande che interrogano non soltanto le autorità ma anche la società intera. “Una esplosione di persone detenute fa sì che spesso non si riesca a garantire neanche lo svolgimento delle attività che faticosamente vengono organizzate”, spiega Calderone. “Non ci sono le forze di polizia in grado di gestire e garantire quelle attività, quindi noi possiamo inventarci qualsiasi tipo di progetto meraviglioso sul piano educativo, formativo, riabilitativo, ma senza abbassare la soglia delle persone, non è possibile mettere in pratica tutto questo perché poi tutto si blocca per mancanza di agenti”. Per far capire cosa voglia dire basti pensare a quanto dice a Roma Sette padre Lucio Boldrin, stimmatino, cappellano di Rebibbia Nuovo Complesso, che spiega come “da quattro anni qui la chiesa principale non è utilizzabile e quindi la Messa la dobbiamo celebrare nei reparti, ma per farla lì servono le guardie, quando queste non ci sono salta la celebrazione della Messa. Quella che viviamo è una situazione per me molto pericolosa - prosegue padre Lucio -. È così a Rebibbia, è così al carcere minorile di Casal di Marmo, è delicatissima la situazione a Regina Coeli, con un sovraffollamento indicibile, tenga presente che lì non hanno nemmeno l’area verde, è un vecchio convento adattato a carcere. Al di là dei suicidi che noi conteggiamo, poi ci sono i tentativi di suicidio, i gesti di autolesionismo, a centinaia. È un grido di aiuto!”. Rimini. I Radicali: “Il carcere vìola i più elementari diritti umani dei detenuti” riminitoday.it, 2 luglio 2024 “Il Garante Regionale si unisce nella necessità di coinvolgere i Parlamentari del territorio e invita ad una mozione che solleciti il superamento della condizione di trattamenti inumani e degradanti della prima sezione”. A lanciare l’allarme su quelli che vengono definiti “trattamenti inumani e degradanti” è Ivan Innocenti, del Consiglio Generale Partito Radicale, che punta il dito sul carcere riminese dei “Casetti” dove i detenuti “vivono una situazione intollerabile”. Prendendo spunto dall’ammonimento del Procuratore generale della Corte dei Conti, Pio Silvestri, Innocenti ricorda che il sindaco Jamil Sadegholvaad “è oggi impegnato a richiedere più forze dell’ordine ma nello stesso tempo il nostro territorio ospita un Carcere che viola i più elementari diritti umani dei detenuti. È necessario trattare questa situazione come emergenza da risolve quanto prima per la sicurezza della nostra comunità. Venerdì 28 giugno si è riunita la Commissione Consigliare 2° del Comune di Rimini con tema la Casa Circondariale. In quel giorno sono 48 le persone ristrette morte per suicidio nei Carceri italiani da inizio anno. Sono altresì 160 le persone ristrette in 118 posti regolamentari presenti nel Carcere Riminese. Sovraffollamento medio delle sezioni del 136%. Il Carcere riminese mostra luci e ombre. Gli interventi della Direttrice del Carcere Palma Mercurio e del Garante Regionale Roberto Cavallieri sono eloquenti”. “La Direttrice - aggiunge Innocenti - si sofferma sul problema legato alla stagione estiva. L’aumento di popolazione cittadina e i rinforzi nelle forze dell’ordine aumentano la pressione sul Carcere. Servono rinforzi per gestire le situazioni di tensione. Segnala comunque che i detenuti generalmente presentano un non alto indice di pericolosità sociale. I ristretti rappresentano la più grave forma di emarginazione sociale. Scolarità bassissima e famiglie rovinate alle spalle. In estate la situazione diventa allarmante. Segnala che il carcere in estate frigge dal caldo e che la situazione della Quinta Sezione è irresistibile. È prevista la ristrutturazione della Sezione Prima e degli spazi della Ex Sezione Sesta. Segnala che gli adempimenti in carico al Carcere e al Provveditorato di Bologna sono stati completati. I documenti per la gara sono al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Roma. Le previsioni di pubblicare la gara entro giugno sono state disattese. L’ammontare è di 2 milioni di euro. Invita a sollecitare i Parlamentari e Senatori del territorio ad interessarsi”. “Segnala - prosegue Innocenti - una situazione intollerabile riferita ai collegamenti tra Carcere e Città. La linea 16 di autobus funziona a singhiozzo. Serve intensificare numero delle corse e ampliare gli orari per necessità dei detenuti semiliberi che accedono al lavoro esterno, per i familiari che per i colloqui e per il personale penitenziario. La condizione di questa linea viene definita scandalosa. Denuncia che tutti i settori del carcere sono sotto organico. Propone un aumento di indennità di rischio per il personale trattamentale. Indica positivo il sostegno psicologico e i corsi di gruppo al personale molto utili. Il Garante Regionale si unisce nella necessità di coinvolgere i Parlamentari del territorio e invita ad una mozione che solleciti il superamento della condizione di trattamenti inumani e degradanti della prima sezione. Definisce il carcere di Rimini un Carcere Tranquillo. Sottolinea il ruolo del Municipio. Le persone detenute in Carcere fanno parte della città nella misura in cui li si vuole equiparare ai liberi cittadini. Definisce arcaica la presenza del lavoro nel Carcere riminese. Il solo con Ravenna che non vede aziende del territorio operare al suo interno. È molto grave che manchi una attività lavorativa. La presenza di lavoro allunga la speranza delle persone detenute. Fa un inciso sul ruolo dei Garanti e sottolinea la necessità di svolgere una forte attività sulla promozione dei diritti delle persone ristrette. Promuovere i diritti attraverso l’amministrazione che lo ha nominato. Occuparsi delle residenze, dei servizi, di come vengono spesi e investiti i fondi del Comune. Sottolinea che chi esce ha bisogno di accoglienza. Attraverso i dati del PRAP si rileva come Rimini non si distingua per essere tra le migliori amministrazioni in tema di residenza. Si discrimina lo straniero senza permesso di soggiorno e va rivista la presa in carico dei detenuti tossicodipendenti”. “Nel 2023 ci sono stati 65 casi di autolesionismo - ricorda Innocenti. - Il carcere dispera le persone. Si dovrebbero conoscere le singole ragioni di questi fenomeni per trarne azioni da mettere in campo. Informa che la Regione sta rendicontando i soldi del fidanzamento. Non tutti i fondi sono stati spesi. Vengono resi alla Cassa delle Ammende. È grave che non sia stato speso tutto per le necessità di questi disperati che hanno bisogno delle istituzioni. Il Garante Riminese interviene sostenendo che i detenuti chiedono di potere andare nella Sezione Prima. Preferiscono subire trattamenti inumi e degradanti e ottenere come risarcimento la riduzione del 10% dei giorni di detenzione. Il quadro che esce dalla commissione è quello di un carcere che attraverso la dirigenza e i diversi reparti cerca di gestire le necessità al meglio. I percorsi trattamentali, nonostante la scarsità di risorse, portano e risultati che si distinguono in regione. L’esempio è la presenza di semiliberi con lavoro all’esterno del carcere”. “Questi risultati sono possibili - conclude Innocenti - nonostante la situazione di degrado di alcune strutture interne che sono vergogna per una società civile, le gravi mancanze di risorse in tutti i reparti del carcere e il grave sovraffollato cronico. Il comune potrebbe intervenire in diversi modi mettendo a disposizione trasporto più efficiente e luoghi di residenza per le persone che ne possono usufruire. Le risorse si devono trovare e ci sono inutilizzate. Il presidente del Consigli Comunale Giulia Corazzi ha in carco la procedura per la nomina del Garante comunale, potrebbe occuparsi di sollecitare la relazione semestrale che manca da 15 mesi. È quantomai necessario trovare una occasione di incontro son i parlamentari del territorio: Andre Gnassi, Domenica Spinelli, Marco Croatti, Jacopo Morrone, Beatriz Colombo dando seguito all’impegno preso a marzo 2023”. Como. Reinserirsi attraverso il lavoro: quadri elettrici prodotti dai detenuti di Enrico Marletta La Provincia di Como, 2 luglio 2024 L’iniziativa di Intesa Sanpaolo con la cooperativa Ozanam e la MekTech di Giussano: “Un’attività professionalizzante per reinserirsi nella società. L’impresa in carcere in un progetto che ha l’obiettivo di favorire recupero e integrazione sociale attraverso il lavoro. L’iniziativa ha preso avvio al carcere del Bassone ed è promossa da Intesa Sanpaolo, primo gruppo bancario italiano posizionato ai vertici mondiali per impatto sociale e leader europeo nella finanza sostenibile, che ha concretizzato un input di don Gino Rigoldi, lo storico cappellano del Beccaria (oltre cinquant’anni di servizio nel carcere minorile milanese) e fondatore di Comunità Nuova. In particolare, la Direzione Sales & Marketing Imprese di Intesa Sanpaolo guidata da Anna Roscio, si è impegnata nel favorire l’incontro fra imprese e lavoratori formati presso il laboratorio realizzato all’interno del carcere. Modello virtuoso - Un modello virtuoso di collaborazione tra soggetti privati e pubblici nell’ottica del bene comune e che coinvolge oltre al gruppo bancario, alla Casa Circondariale e al Provveditorato regionale, il gruppo MekTech, quartier generale a Giussano, specializzato nella progettazione e costruzione di impianti e sistemi robotizzati, e la cooperativa Ozanam che favorisce l’inserimento nel mondo del lavoro di persone in difficoltà. Il programma consente a undici detenuti di specializzarsi nella realizzazione di quadri elettrici complessi commissionati da MekTech, offrendo una formazione tecnica per il rilascio di un attestato di partecipazione al corso per tecnico cablatore elettricista e un lavoro, contribuendo al loro percorso di riabilitazione sociale e di reinserimento nella vita professionale. Si tratta di una attività professionalizzante che consentirà il potenziale inserimento al lavoro una volta che il detenuto ha finito di scontare la propria pena. “Non c’è migliore leva per il reinserimento sociale del lavoro - ha detto Stefano Barrese, responsabile della Divisione Banca dei Territori - questo progetto è un germoglio, l’attesa è che diventi un albero. Le persone coinvolte hanno aderito con entusiasmo, l’obiettivo è far sì che la società li percepisca come un’opportunità e non come un peso”. Il progetto comasco è parte di un più ampio programma di impegno nel sociale per l’inclusione dei più fragili anche nel mondo del lavoro, per la riduzione delle disuguaglianze e contrasto alla povertà, che rappresentano i pilastri nel piano di impresa fortemente voluti dal Ceo Carlo Messina. L’iniziativa è stata resa possibile grazie al coinvolgimento di Intesa Sanpaolo per il Sociale, nell’ambito dell’area Chief Social Impact Officer guidata da Paolo Bonassi, la struttura dedicata al contrasto delle povertà e alla promozione dell’inclusione sociale che attraverso le collaborazioni avviate sul territorio tra soggetti diversi, realizza alleanze e partenariati tra settore profit e non profit, pubblico e privato. L’accordo - MekTech, l’azienda che ha sposato il progetto e che all’inaugurazione è stata rappresentata dall’ad Gaetano Sauli, si è impegnata ad acquistare nei prossimi anni i quadri elettrici realizzati dai detenuti e destinati agli impianti e ai sistemi robotizzati prodotti dall’azienda. Fondamentale la collaborazione con Ozanam, Cooperativa Sociale di Solidarietà di Saronno, ieri presente con il vicepresidente Edoardo Mazzucchelli che svolge il ruolo di “datore di lavoro” dei detenuti. Il carcere di Como ha coordinato la selezione dei detenuti, oltre ad aver provveduto alla ristrutturazione e messa a norma, con fondi ministeriali, dei locali adibiti ad attività ricreative e sportive nonché del laboratorio di circa 180 mq all’interno del carcere. Intesa Sanpaolo ha supportato la ristrutturazione e ha messo a disposizione l’attrezzatura e la strumentazione di lavoro. Nel laboratorio avverrà tutto il processo produttivo, dall’arrivo dei componenti fino alla realizzazione del prodotto confezionato dai nuovi tecnici. Roma. Una nuova speranza per i detenuti di Rebibbia: impareranno un lavoro grazie ad Ama romatoday.it, 2 luglio 2024 Firmato un protocollo d’intesa che coinvolge Città Metropolitana, Garante e dipartimento di amministrazione penitenziaria. Le persone private della libertà personale detenute negli istituti di pena di Roma e provincia potranno formarsi lavorativamente in Ama. È il risultato che si prefissa il protocollo d’intesa siglato tra Città Metropolitana, la Garante dei detenuti e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, firmato il 1° luglio in Campidoglio. L’obiettivo è quello di promuovere e sviluppare attività formative per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro delle persone private della libertà personale. E la prima azienda a partecipare è Ama, municipalizzata ambientale posseduta al 100% da Roma Capitale, presieduta da Bruno Manzi, ex capo di gabinetto di Roberto Gualtieri a Palazzo Valentini. In questo modo sarà possibile agevolare l’inserimento o reinserimento dei detenuti nel mercato del lavoro e prevenire eventuali comportamenti autolesivi o la reiterazione del reato. L’uso delle compostiere - Per riuscirci, l’ente metropolitano e il dipartimento hanno studiato un primo percorso di formazione in apprendistato rivolto ai detenuti di Rebibbia, che riceveranno una formazione ad hoc per utilizzare le “compostiere”, le macchine di trasformazione dei rifiuti organici in compost. Al termine del percorso formativo sarà rilasciata una qualifica professionale, indispensabile e necessaria nei diversi impianti dell’Ama. Un Polo Pubblico della Formazione - Inoltre, è stato costituito un Polo Pubblico della Formazione con cui Città Metropolitana e Roma Capitale intendono promuovere la realizzazione di progetti di formazione finalizzati alla stipula di contratti di lavoro in apprendistato, in collaborazione con il dipartimento di amministrazione penitenziaria e con Ama. I percorsi formativi avranno un sistema duale, basato sull’alternarsi di momenti formativi “in aula” e momenti di formazione pratica in “contesti lavorativi”, favorendo così politiche di transizione tra il mondo carcerario e il mondo del lavoro, prevedendo - per i detenuti inseriti nel programma e considerati idonei dal dipartimento - un’equa retribuzione per il lavoro svolto. Il Polo fa parte delle politiche sociali illustrate da Gualtieri a Papa Francesco durante la visita del Santo Padre in Campidoglio il 10 giugno, coerente con l’enciclica papale “Fratelli Tutti”. Gualtieri: “Diamo speranza solida di reinserimento” - “Un progetto bello e importante di formazione rivolto ai detenuti di Rebibbia - commenta il Sindaco -. Il piano, che abbiamo presentato a Papa Francesco in occasione della sua visita in Campidoglio, prevede una formazione a pieno titolo, sia teorica che pratica, in un ambito lavorativo molto richiesto, con l’obiettivo di garantire uno sbocco professionale. Dare dignità e formazione alle persone private dalla libertà significa dar loro una speranza solida di reinserimento e farlo su un tema importante come l’economia circolare ne aumenta ancor di più il valore”. Per Daniele Parrucci, delegato a edilizia scolastica, impianti sportivi e formazione in Città Metropolitana “una formazione professionale seria, portata all’interno degli istituti penitenziari, può dare ai detenuti una speranza rinnovata, perché una nuova strada è possibile. Dopo un anno di teoria in aula, è prevista anche la possibilità di fare pratica nelle sedi di Ama, con un contratto di apprendistato retribuito”. La Garante: “Questo progetto ha una visione complessiva” - La Garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone: “Sovraffollamento e suicidi in carcere sono un’emergenza nazionale - commenta - e ideare un progetto del genere con una visione così complessiva è più importante che mai. Anche il Santo Padre, nella Bolla di indizione del Giubileo, ha più volte citato la condizione delle persone detenute, chiedendo ai Governi di restituire loro la speranza, anche attraverso forme di amnistia o indulto, volte ad alleggerire l’attuale insostenibile condizione di vita cui sono sottoposte le persone nelle nostre carceri e aiutarle a recuperare fiducia in sé stesse e nella società”. Firenze. Il carcere di Sollicciano ha il suo nuovo cappellano, ma la burocrazia lo blocca di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 luglio 2024 Il carcere di Sollicciano ha un nuovo cappellano. Si chiama Stefano Casamassima, 59 anni, originario di Bari, parroco di San Pancrazio, un passato nel mondo della disabilità e per sei anni cappellano nel carcere di Pistoia. Entrerà in carica soltanto da settembre e nel frattempo, per oltre due mesi, i detenuti rimarranno senza sostegno spirituale da parte del sacerdote incaricato dalla Curia (a causa dei tempi burocratici del ministero della Giustizia), anche se a Sollicciano ci saranno alcuni sacerdoti volontari che potranno fare messa ai reclusi. Proprio in questi giorni, Casamassima si trova a Roma per il convegno nazionale organizzato dal ministero e riservato ai nuovi cappellani delle carceri italiane. “Sono contentissimo di questo incarico che mi ha conferito l’arcivescovo di Firenze Gambelli, è un grande segno di fiducia nei miei confronti. Mi sento onorato di incontrare persone sofferenti e fragili e allo stesso tempo essere al loro servizio”. Ancora Casamassima preferisce non parlare delle criticità di Sollicciano, un luogo che ha visitato soltanto anni fa quando veniva a trovare alcuni detenuti che venivano trasferiti da Pistoia. “È un posto che ancora non conosco approfonditamente e riuscirò a parlarne meglio dopo il primo anno di attività. Entrerò a Sollicciano il 2 settembre e cercherò di avere sempre al centro la dignità delle persone dietro le sbarre”. Il religioso ricorda quei momenti nel penitenziario di Pistoia che lo hanno segnato: “A volte mi trattenevo in carcere fino a tardi, la sera vedevo quelle porte blindate che si chiudevano, istanti in cui il detenuto e gli agenti abbassano lo sguardo, è qualcosa di orribile il fatto che non riescono a guardarsi in faccia perché loro sono fratelli, entrambi esseri umani, è sempre bene ricordare che in questo contesto ci sono persone che hanno una dignità infinita, sia i detenuti che gli agenti, la priorità per me è quindi incontrare queste persone e tenere presente la loro storia, ascoltarle come ci ha insegnato Gesù, per annunciare loro una speranza, un riscatto sociale, una crescita”. Cresciuto in Puglia, Casamassima (all’anagrafe Vito Leonardo) è arrivato ventenne in Toscana. “Tutto è nato grazie all’incontro con un frate toscano che ogni sei mesi veniva a predicare vicino Bari, dove abitavo io - ha raccontato in un’intervista al Gazzettino del Chianti - È stato un incontro illuminante e con lui ho capito chiaramente dove volessi andare. Mi sono informato su come poter diventare frate e poco dopo mi sono ritrovato sul treno per la Toscana insieme a lui. Il ricordo più bello di quel viaggio sono state le ginestre in fiore che ho visto dal finestrino; non ne avevo mai viste e mi sono sembrate bellissime”. Sin da piccolo, aveva il sogno di diventare sacerdote missionario, come aveva scritto in un tema alle scuole medie, un desiderio per cui veniva talvolta preso in giro dai suoi compagni. Casamassima prenderà dunque il posto di Gherardo Gambelli, diventato arcivescovo, che a sua volta era succeduto allo storico cappellano don Vincenzo Russo. Ma Sollicciano dovrà attendere. Reggio Calabria. “Libro sospeso”, un progetto che arricchisce la biblioteca del carcere di Roberta Pino reggiotoday.it, 2 luglio 2024 Da un’idea di un detenuto, l’iniziativa consente di acquistare dei libri presso le librerie aderenti all’iniziativa e mira ad allungare una mano tra le sbarre, accorciando le distanze. Basta un libro per accorciare le distanze, abbattere i muri tra chi è costretto a scontare una pena detentiva dentro le carceri e il mondo esterno, dove la vita fluisce naturalmente. Dal caffè sospeso del bar di Napoli al Libro Sospeso, si chiama così l’iniziativa, partita dal mese di giugno, che coinvolge diverse librerie di Reggio Calabria e che consente di acquistare un testo qualsiasi da destinare alla biblioteca del carcere di Arghillà. Tale progetto è già operativo in alcune carceri del territorio italiano ma è la prima volta che si realizza negli istituti penitenziari della città dello Stretto. Il tutto è nato dall’idea di un detenuto (ormai trasferito in un altro carcere), ex referente della biblioteca di Arghillà (ampia ma vetusta) che, nell’inverno passato, si è reso conto della necessità di dare un nuovo volto alla biblioteca stessa, per svecchiarla e riempirla di nuovi testi. Propone così il progetto il Libro Sospeso. Le attuali autorità dirigenti, dottoresse Marianna Stendardo e Roberta Velletri, in servizio nella Casa circondariale di Reggio Calabria, hanno accolto favorevolmente la proposta, grazie anche alla collaborazione della dottoressa Foti, responsabile dell’area educativa e dei volontari operanti nella struttura stessa. Ricevute le dovute autorizzazioni, alcuni operatori all’interno del carcere, si sono fatti portavoce dei desiderata del detenuto, e sono partiti all’azione coinvolgendo le librerie della città. Cinque le librerie che hanno aderito al progetto, Amaddeo, Ave-Ubik, Libro Amico, Mondadori e Paoline, progetto avviato a giugno e che si concluderà a settembre. Acquistare un libro e donarlo alla biblioteca del carcere, questo è l’intento dell’iniziativa e tanti sono i libri già messi da parte che spaziano da un genere all’altro, anche in lingua straniera per i detenuti non italiani. Ma quali sono i testi scelti finora? Dalla pagina Facebook della libreria Libro Amico (tra quelle coinvolte) si possono intravedere alcuni titoli, “Il fantasma di Canterville”, “Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hide”, “Morte di un cardinale”, “Materia, le parole” ed ancora “I fiori del male” di Baudelaire e “Fahrenheit 451”, ma alcuni donatori, si apprende, hanno preferito fare un buono e saranno i volontari, al termine della campagna di solidarietà, a scegliere i testi. Non ci sono, quindi, particolari restrizioni od orientamenti verso un genere o titolo specifici, l’unica raccomandazione è che il libro non abbia una copertina rigida, ma in brossura, flessibile, per motivi comprensibili. Grazie al Libro Sospeso, si avvicina così il territorio al carcere e viceversa. Il carcere, si sa, è un luogo separato dalla società, incute timore e la maggior parte dei cittadini sa poco o niente della vita che si conduce dietro le sbarre. Una vita ristretta e costretta, e la semplice donazione di un libro può accorciare le distanze e la separatezza oggettiva esistente tra dentro e fuori le mura carcerarie. I detenuti capiscono di esistere anche fuori, che qualcuno li pensa, li supporta, le pagine di un libro colmano, seppur in maniera diversa, le mancanze di un contatto con l’esterno. Si crea così una connessione tra chi ha acquistato quel testo e chi lo riceve e lo legge, un modo per “dialogare” attorno ad un libro, come se fosse un vero e proprio circolo di lettura, a distanza però. Il regalo di un cittadino, anonimo, ad un carcerato che non conosce, due persone della comunità che si incontrano, il valore della solidarietà che diventa vicinanza e speranza, grazie anche alle dediche che alcuni decidono di scrivere nei libri donati. Una donazione che assume forme significative. A settembre poi, quando si concluderà la campagna di solidarietà, i volontari ritireranno tutti i libri sospesi per essere consegnati ai legittimi destinatari. Il progetto è realizzato in collaborazione con le istituzioni scolastiche presenti all’interno del carcere, la scuola Cpia (Centro provinciale di istruzione per adulti) Stretto Tirreno-Jonio, il liceo artistico Preti Frangipane e l’istituto professionale alberghiero turistico Giovanni Trecroci di Villa San Giovanni. Un aiuto concreto a persone che non riescono più a sognare. Arricchire le biblioteche delle carceri, spesso molto misere, dove i detenuti chiedono di poter leggere qualcosa e non trovano testi grazie ad un piccolo ma importante gesto di solidarietà. E la lettura può svolgere un ruolo importante per chi deve vivere rinchiuso per anni. Fa sentire meno soli e abbandonati, aiuta a creare relazioni e a vincere la terribile sensazione del tempo che non passa mai. In questi tre mesi, ci saranno anche dei momenti di lettura proprio nelle librerie coinvolte nell’iniziativa e saranno promosse dalle volontarie, nonché scrittrice e insegnante, Romina Arena e Paola Schipani. Un modo per stimolare, ancora di più la donazione e perché no, la propria conoscenza attraverso la lettura di un buon libro. Volontariato in carcere. Chi ce lo fa fare? di Stefano Anastasìa* garantedetenutilazio.it, 2 luglio 2024 “Chi ce lo fa fare?”: bella domanda questa che Francesca De Carolis e Sandra Berardi si fanno e ci fanno. Quante volte me lo sono chiesto, nella mia vita di ergastolano dei diritti in carcere (ci sono entrato la prima volta trentasei anni fa, quando ne avevo solo ventitré, tutti i capelli e la sfrontatezza dell’età): quante volte mentre attraversavo l’Italia, per un dibattito, una visita, una riunione; quante volte mentre sacrificavo le sere, le domeniche e le vacanze; quante volte mentre costringevo la mia compagna e i miei figli a rinunciare a qualcosa per qualcuno che loro non avrebbero mai visto, e forse neanche io. Bella domanda, chi ce lo fa fare a dedicare una parte, se non gran parte della nostra vita, senza nessun obbligo familiare o professionale a chi è costretto in carcere? Chi ce lo fa fare a consumare il nostro tempo e le nostre energie per condividere le innumerevoli frustrazioni delle persone detenute, dei loro familiari, degli operatori penitenziari motivati, dei sanitari, degli avvocati e dei magistrati scrupolosi? Per loro è la vita, sono affetti, lavoro, ma per noi? Uno dei miei fratelli maggiori, con cui mi sono accompagnato e tutt’ora mi accompagno per queste vie, un giorno mi propose una sua piccola teoria: al carcere resta impigliato chi ce l’ha da qualche parte in un imprinting. Così sarebbe per lui, figlio di un medico di un’antica colonia penale militare; così, forse, per me, figlio di un ragazzo rimasto orfano di padre in Eritrea, durante la seconda guerra mondiale, che - per contribuire a mantenere la famiglia - a sedici anni andò a fare la guardia penitenziaria nel carcere dell’Asmara. Chissà? Forse ci saranno anche questi tratti biografici, come ricorda Sandra dei suoi … Ma poi ci sono le scelte, i valori, e qualcosa fatto per sé, come giustamente scrive Francesca. E nella storia di un’“anima bella”, o di un “buonista”, come i “cattivisti” amano deriderci, c’è anche un’idea di giustizia, che dà senso alla propria esperienza di vita. O almeno così è stato per me: l’impegno per il carcere e per i detenuti è stata la naturale prosecuzione di un impegno politico giovanile, di un’idea di giustizia sociale. Quello che vedevo e vedo ancora in carcere non è il bene e il male, o almeno non solo il bene e il male, che qualcuno ha pur commesso, in carcere come fuori, ma l’effetto delle diseguaglianze che dividono le nostre società, generando violenza e abbandono, criminali e reietti. L’idea universalista dei diritti fondamentali, portata fin dentro le carceri, a beneficio di quelli che fuori abbiamo etichettato come brutti, sporchi e cattivi (e che talvolta, effettivamente, lo sono stati) è per me il modo di criticare l’ingiustizia sociale che produce tanto il crimine quanto il carcere. E qui l’anima bella si fa don Chichotte di fronte ai mulini a vento: ma come mi viene in mente di combattere l’ingiustizia sociale a partire dal carcere? E in effetti il tasso di frustrazione che genera l’impegno per i diritti e la giustizia sociale a partire dal carcere è incredibilmente alto, tanto da poter apparire una perdita della ragione, e qualcuno (tutt’altro che scettico, ma seriamente motivato a seguire una strada simile alla mia) una volta me l’ha chiesto: ma chi te lo fa fare, se il carcere non cambia mai e ogni volta bisogna ricominciare daccapo? Due risposte mi sono e gli ho dato, così su due piedi, nel frangente di una conversazione in pubblico. La prima, la più banale, dice che a ognuno di noi tocca la nostra parte nella trasmissione di un sapere, di una memoria, di un modo di vedere le cose e se quest’ergastolo dei diritti è servito a motivare altri a proseguire dopo di me, è stata una condanna ben spesa. La seconda, quella più importante, è la compensazione che una sola conquista, per una sola persona, riesce a fare di tutto quel cumulo di frustrazioni di cui è pieno il nostro impegno: perché poi, alla fine, ci sono le persone in carne e ossa, quelle che sono lì, che soffrono con noi e di fronte a noi, a cui non gli si può raccontare del migliore dei mondi possibili senza rispondergli qui e ora ai loro bisogni di giustizia. E quando uno su mille ce la fa, ecco allora chi ce lo ha fatto fare. *Prefazione al “Bianciardino”, liberamente scaricabile, di Sandra Berardi e Francesca De Carolis “Chi ce lo fa fare…/Non possiamo fingere di non sapere”: http://www.stradebianchelibri.com/uploads/3/0/4/4/30440538/de_carolis_francesca_berardi_sandra_-_chi_ce_lo_fa_fare.pdf Morgan, dal carcere al rap: “Racconto la mia storia: le rapine, il Beccaria e ora un’altra vita” di Zita Dazzi La Repubblica, 2 luglio 2024 Morgan in arte si chiama Yambo e il suo primo brano musicale pubblicato dalla Kairos Music è intitolato “Euro”. Un rap che parla delle difficoltà economiche di una famiglia, dove un ragazzo commette qualche reato per aiutare la madre senza soldi. Praticamente la storia della sua giovane vita, nemmeno 20 anni, e già passata attraverso le sbarre del carcere minorile Beccaria di Milano. Morgan possiamo parlare di te, di come sei finito dentro? “Mio padre è morto quando ero piccolo, sono rimasto solo con mia madre, a Bergamo. Mi hanno preso perché avevo commesso qualche piccolo reato legato al patrimonio, furti, rapinette. Ho fatto quattro mesi a Casal del Marmo, il minorile di Roma, poi sono arrivato al Beccaria”. Come è stata la tua esperienza? Ti aspettavi di finire in prigione? “No, inizialmente no, anche perché diciamo che io prima ero finito in comunità per una rapina, poi in carcere perché mi avevano preso in flagrante. Sono andato in “aggravamento”, perché ero scappato e quindi sono finito dentro. Il magistrato ha deciso per la custodia cautelare, insomma”. Adesso vivi in comunità Kairos da don Claudio Burgio, che è cappellano del Beccaria, ma che da vent’anni si occupa di giovani che hanno questi problemi. Da lui stai imparando un mestiere, hai scoperto la musica che serve anche a raccontare la tua vita... “Sto ricominciando a vivere, diciamo, dopo il carcere che è un’esperienza tremenda, davvero molto brutta”. Che cosa ti ricordi di brutto della prigione? “La solitudine, il rapporto con le guardie, ma poi soprattutto il fatto di sentirsi come un animale. Cioè di non avere nemmeno più la libertà di andare in bagno senza che qualcuno ti controlli. Ci sono gli spioncini anche in bagno, ti senti sempre spiato”. Ci sono inchieste della magistratura in corso sulle violenze al Beccaria. Tu ne hai subite? “Per fortuna non da parte delle guardie, ma in carcere la violenza non è solo quella fisica. C’è il tema del rispetto, la cosa più difficile da raggiungere. Il clima in carcere è sempre di violenza e di sopraffazione, non ti puoi sottrarre e questo trasforma in peggio le persone. Quando sei per strada, o comunque quando sbagli nella vita, arrivi in carcere e sicuramente non migliori perché ti ritrovi a vedere solo violenza fisica o psicologica, anche da parte dei compagni di detenzione”. Che cosa pensavi quando eri in cella? “Stavo male per la sensazione di abbandono, di rabbia, di impotenza, star dentro ti fa sentire ancora più emarginato di quando stavi fuori ed eri libero di fare quello che volevi anche se non avevi niente. La galera è un contesto in cui tutti, dalla guardia al detenuto, applicano la regola che vince solo il più forte. Non ci sono vie di mezzo”. Hai avuto paura che ti succedesse qualcosa quando eri dentro? “Certo, sempre. Sono cresciuto in carcere sapendo che è tutta una questione di paura. E chi comanda fa violenza agli altri per restare capo e per essere rispettato. Fanno paura, per avere il rispetto e la paura degli altri”. Ma le guardie che atteggiamento hanno avuto con te? “Qualcuno ha mostrato anche attenzione alla mia situazione: ci sono guardie e anche detenuti che cercano di dare una mano, quando vedono che uno sta male. Ma non tutte le guardie hanno rispetto dei ragazzi, quelli che stanno male per essere chiusi e per sentirsi la feccia dell’umanità. Questo alimenta pensieri negativi. Poi mettici anche che spesso il carcere non è un posto bello. Mi ricordo la prima notte, in isolamento: c’erano le infiltrazioni e continuava a piovere dal soffitto, faceva un freddo cane. Non ho dormito perché non avevo la coperta, e nemmeno un cuscino. Le finestre non si chiudevano e io stavo da solo al gelo. Ma poi tutto è stato brutto, non si faceva che guardare la televisione e annoiarsi e sentirsi solo, disfatto, inutile”. E adesso? “In carcere ho finito la scuola superiore, poi mi ha preso don Claudio e sto lavorando come barista, oltre a fare la mia musica, è uscito il mio primo brano. Sono contento. La mia vita è cambiata realmente quando ho trovato delle persone che hanno creduto in me. Questo mi ha salvato la vita, sono già passati due anni dalla mia ultima carcerazione ed è iniziata una nuova vita. Mia mamma è sempre stata al mio fianco, so che lei in me ci crede e mi ama. Questa è l’unica cosa che riesce a cambiare uno che ha fatto uno sbaglio, come me”. Cosa ha deciso il Comitato di bioetica sui trattamenti di sostegno vitale di Francesco Ognibene Avvenire, 2 luglio 2024 “Sono tali solo se sostituiscono le funzioni vitali”: ecco l’atteso parere a larga maggioranza su uno dei quattro criteri per accedere al suicidio assistito. I trattamenti di sostegno vitale “sono indirizzati alla risposta a condizioni che mettono a rischio la vita, in un arco di tempo breve o addirittura brevissimo”: dunque il loro concetto va “applicato a quei trattamenti che non si limitano a un semplice sostegno, ma costituiscono una vera e propria sostituzione di funzioni vitali” con “la morte del paziente” che “a seguito della loro sospensione conseguirebbe in tempi molto brevi”. È il punto centrale del parere pubblicato dal Comitato nazionale per la Bioetica, organismo pluralista di consulenza della Presidenza del Consiglio, che ha dato l’attesa risposta a un quesito sollevato dal Comitato etico territoriale dell’Umbria “in merito ai trattamenti di sostegno vitale”, come spiega una nota del Cnb. Il parere interviene dunque su uno dei quattro criteri fissati dalla Corte costituzionale con la sentenza 242 del 2019 sul caso Cappato-dj Fabo, verdetto che sancì - ricorda il Comitato - “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il suicidio di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da patologia irreversibile e capace di decisioni libere e consapevoli, se tali condizioni sono verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale e previo parere del comitato etico territorialmente competente, e se al paziente sono state offerte cure palliative”. I casi di persone che da allora hanno chiesto di accedere al suicidio medicalmente assistito in assenza di una legge nazionale (ora in gestazione al Senato) e anche in assenza del criterio di cui ora il Cnb si occupa hanno reso necessario un chiarimento di cosa si intenda per “trattamenti di sostegno vitale” (Tsv) per distinguerli “dalle terapie ordinarie”. Il Comitato “ha rilevato che, in letteratura medica, non esiste una definizione condivisa di Tsv. Ciò ha imposto di unire le considerazioni cliniche a quelle bioetiche e giuridiche sottese alla sentenza della Consulta, al fine di poter offrire una risposta. Tale risposta, quindi, si configura nell’elaborazione di un criterio flessibile, che permetta d’inquadrare i Tsv in relazione alle loro finalità, alla loro intensità e alle conseguenze della loro sospensione; ciò deve sempre essere letto nel contesto del pronunciamento della Corte costituzionale”. Il parere è stato adottato a larga maggioranza (19 favorevoli, 5 con una posizione che integra il parere con una puntualizzazione e altri 4 che non hanno partecipato al voto) al termine di un dibattito naturalmente animato, viste le differenti posizioni all’interno del “parlamentino bioetico” italiano, posizioni che - nota il Cnb - “riflettono la complessità del tema, peraltro in continua evoluzione, in relazione ai progressi scientifici e medici”. A favore di una rigorosa tutela della vita umana nella condizione di massima fragilità sono dunque in tutto 24 membri del Cnb. In sintesi, quanti hanno votato a favore del parere “ritengono che i Tsv debbano costituire una vera e propria sostituzione delle funzioni vitali, e che la loro sospensione debba comportare la morte del paziente in tempi molto brevi”, con la precisazione per alcuni che “il “sostegno” possa avvenire anche tramite piani di assistenza complessi, e che l’impatto sull’individuo e la sua percezione personale siano rilevanti”. Una sfumatura che non incrina la maggioranza larghissima raggiunta dal consesso bioetico-scientifico su un punto decisivo. Ma come si è arrivati alla conclusione adottata a maggioranza? “La Corte costituzionale - spiega la nota del Comitato che accompagna il testo integrale del parere, particolarmente complesso e articolato - ha bilanciato l’autodeterminazione con la tutela della vita, limitando l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio a condizioni specifiche. In tale contesto, i Tsv sono da considerarsi un requisito che deve esprimersi all’interno di un quadro clinico grave, non solo perché la persona è tenuta in vita da un trattamento specifico. Il documento rimarca come sia essenziale - dunque - proteggere i pazienti più fragili e vulnerabili, garantendo che il quadro giuridico e bioetico definito dalla sentenza della Corte costituzionale sia rispettato e applicato correttamente”. Il documento, che arriva pochi giorni dopo la sentenza con la quale la Corte europea dei diritti umani (Cedu) aveva dichiarato non illegittimo il divieto di suicidio assistito da parte di uno Stato, va a contribuire alla documentazione cui i giudici della Corte costituzionale stanno facendo ricorso per elaborare un nuovo intervento - atteso a giorni - sulla liceità o meno di ottenere l’assenso all’aiuto al suicidio da parte anche di pazienti che non dipendano da Trattamenti di sostegno vitale nella concezione più restrittiva e di garanzia adottata dal Cnb o che debbano ricorrere a terapie che andrebbero considerate Tsv secondo l’opinione di chi non ha partecipato al voto. Al parere è allegato un parere di minoranza con sette firme che intende per Tsv “qualsiasi trattamento di carattere anche farmacologico o assistenziale dalla cui sospensione discende, anche in tempi non rapidi, la morte del paziente”. Una posizione che tuttavia collide con il punto fermo fissato dalla Consulta quando nel 2019 volle comunque chiarire che definire un’area assai circoscritta e ben definita di non punibilità per l’aiuto al suicidio non può mai significare introdurre un “diritto di morire” che i giudici costituzionali (e dopo di loro adesso anche i colleghi della Cedu) hanno dichiarto inesistente. È quanto la maggioranza del Cnb assume quando stabilisce (paragrafo 5 del parere) “la limitazione del concetto di Tsv, ai fini dell’applicazione della sentenza, ai trattamenti sostitutivi delle funzioni vitali, in ciò ben distinti dai trattamenti ordinari e dalle modalità di cura dei bisogni vitali della persona malata, e la cui sospensione sia seguita dalla morte in tempi brevi. Indipendentemente dagli orientamenti nei confronti del suicidio medicalmente assistito, sui cui potrebbero anche essere avanzate obiezioni di fondo legate al principio di tutela di ogni vita umana e alla problematicità dell’anticipazione intenzionale della morte - aggiungono i 19 membri del Cnb -, il requisito dei Tsv ha una decisiva rilevanza bioetica, in quanto delimita nettamente l’ambito della non punibilità dell’assistenza al suicidio entro il perimetro di una situazione di prossimità della morte. Ciò esclude possibili derive verso un indebito ampliamento dell’accesso al suicidio assistito, i cui confini di applicazione risulterebbero, altrimenti, inevitabilmente incerti e socialmente discriminatori, poiché potrebbero esporre maggiormente i soggetti vulnerabili ad una inaccettabile pressione, inducendo peraltro una generalizzata apertura nei confronti dei percorsi suicidari”. Suicidio medicalmente assistito. Il Comitato bioetico nazionale vuole Cappato in carcere di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 luglio 2024 Approvato un testo restrittivo del concetto di “Trattamenti di sostegno vitale”. Mentre si attende che la Corte costituzionale dia nelle prossime settimane una dettagliata descrizione del concetto di “dipendenza da Trattamenti di sostegno vitale”, che è uno dei requisiti prescritti dalla stessa Consulta nel 2019 (sentenza n. 242, Cappato/Dj Fabo) per accedere al suicidio medicalmente assistito dal Ssn, ieri sul punto si è espresso il Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb). E la sua, di interpretazione, è la più restrittiva che si possa dare. Con 24 voti a favore, 4 contrari (Cinzia Caporale, Maurizio Mori, Luca Savarino, Grazia Zuffa) e 4 non partecipanti, il Cnb ha approvato un documento che definisce i Trattamenti di sostegno vitale (Tsv) come “sostitutivi delle funzioni vitali, la cui sospensione sia seguita dalla morte in tempi brevi”. Per andare sul concreto, secondo il Cnb, i tre malati terminali su cui la Consulta è chiamata ad esprimersi - Massimiliano, dipendente da altre persone, Elena e Romano, che rifiutavano l’imminente supporto dei macchinari, tutti suicidatisi in Svizzera con il sostengo dell’Ass. Coscioni - non avrebbero diritto costituzionale a scegliere l’eutanasia. Il Cnb, dopo quattro Plenarie, ha deciso infatti che i Tsv “non vanno confusi con un trattamento o un farmaco salvavita”. E che i requisiti di non punibilità “(cure palliative, patologia irreversibile, trattamenti di sostegno vitale, dolore fisico o psicologico ritenuto intollerabile, decisione libera e consapevole) siano necessariamente concomitanti”. Pro Vita & Famiglia se ne rallegra e ringrazia. Ma il parere del Cnb non è vincolante per la Consulta. Migranti. Non dimentichiamoci dei minori “scomparsi” di Paolo Fallai Corriere della Sera, 2 luglio 2024 Ogni giorno spariscono più di 50 minori in tutta Europa dai centri di accoglienza per i minori non accompagnati. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi migranti arrivati in Europa senza adulti di riferimento. Più di 50 minori scompaiono ogni giorno in tutta Europa dai centri di accoglienza per i minori non accompagnati, bambine e bambini, ragazze e ragazzi migranti arrivati in Europa senza adulti di riferimento. La notizia è di qualche settimana fa, ma siccome dell’argomento non si parla quasi mai, il ritardo non fa notizia. “Lost in Europe” è un progetto di giornalismo transfrontaliero senza scopo di lucro che indaga e scopre le storie di bambini migranti “persi” dopo essere arrivati in Europa. È composto da un gruppo di 23 giornalisti investigativi provenienti da 12 paesi europei, tra cui Paesi Bassi, Germania, Belgio, Italia e Regno Unito. Secondo l’ultimo rapporto di “Lost in Europe” dal 2021 al 2023 in 30 Paesi, 27 Ue più Regno Unito, Svizzera e Norvegia sono scomparsi più di 50.000 minori: in Italia a sparire sono stai quasi 23 mila, 10.100 solo nel 2023. Al secondo posto l’Austria con oltre 20 mila minori scomparsi in totale. I minori che spariscono vengono principalmente da Afghanistan, Siria, Tunisia, Egitto e Marocco. “I minori stranieri che si allontanano sono spesso preda della malavita o di sfruttatori - ha spiegato all’Ansa Carla Garlatti, garante nazionale dell’Infanzia -. In un centro per ragazze minorenni ci hanno raccontato di come ogni notte sparissero una o due giovani e del fatto che spesso ci fossero macchine appostate all’esterno con persone che offrivano lavoro alle ragazze”. Magari qualcuno può pensare che ci riguardi. I corpi senza nome di Srebrenica: ricostruzione di un genocidio di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 2 luglio 2024 A quasi 30 anni dal massacro da parte dei serbi le istituzioni Ue chiedono misure per superare l’odio interetnico. La Bosnia non ha ancora fatto i conti con il passato. La testimonianza del medico forense: “Mi impressionò la violenza sui corpi”. “Dipingere mi ha aiutato molto. È stato catartico, anche se tutt’ora faccio incubi di notte. Ho iniziato a dipingere ritratti di famiglia, poi gli orrori dei corpi che ho visto in Bosnia. Ogni persona coinvolta in questo tipo di traumi non riesce a scapparne, dipende tutto da come lo gestisci”. Robert McNeil, di origini scozzesi, è stato uno dei primi esperti forensi inviati dalle Nazioni unite nel 1996 a Srebrenica e nei territori dove l’esercito serbo guidato da Ratko Mladi? ha fatto mattanza di bosgnacchi nel primo genocidio dall’Olocausto. L’11 luglio del 1995 i soldati serbi guidati da Mladi? sono entrati nella città di Srebrenica a maggioranza musulmana per fare razzia di uomini e donne. In totale sono state riconosciute 8.372 vittime e 30mila deportati. “Durante la mia carriera ho visto omicidi, suicidi, gente morta per agenti atmosferici. Ma quello che mi ha impressionato della Bosnia è la crudeltà inflitta alle vittime e i segni delle violenze sessuali sui corpi delle donne”, racconta McNeil. Alle sue spalle i raggi solari illuminano il suo ultimo dipinto: un ritratto di famiglia curato nei minimi dettagli poggiato su un cavalletto. Ai suoi piedi una chitarra classica. Dopo la firma degli accordi di Dayton che posero fine alla guerra, è iniziata la raccolta delle prove scientifiche. Esperti forensi sono stati inviati da oltre 32 paesi diversi per dimostrare i crimini commessi dai soldati serbi. “Ho lavorato insieme ad altri specialisti, antropologi, radiografi e membri della polizia per raccogliere prove da consegnare al tribunale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. Nonostante i corpi fossero molto decomposti, eravamo in grado di capire come erano stati uccisi”, racconta Robert McNeil. Nel primo periodo post guerra le tensioni erano ancora all’ordine del giorno. Si combatteva, ancora, in alcune parti della Bosnia orientale. L’incolumità del team forense era a rischio visto che non godevano di grande protezione. Gli uomini del “boia di Srebrenica”, così è soprannominato Mladi?, sapevano che erano lì per raccogliere prove contro di loro. Per questo motivo i serbi hanno riesumato le fosse primarie - generalmente si trovavano nei pressi di scuole, magazzini e fabbriche - fatto a pezzi i corpi con le ruspe e seppellito i resti a decine di chilometri di distanza. Non solo per occultare prove o infliggere un ulteriore danno morale ai famigliari delle vittime disintegrando un corpo da seppellire, ma anche per farli passare come vittime di guerra. Gran parte delle fosse secondarie o terziarie, infatti, sono state trovate lungo le linee di frontiera della guerra tra l’esercito serbo e quello bosniaco. I resti di una vittima sono stati ritrovati in cinque luoghi diversi, il più lontano a trenta chilometri di distanza. “Ai famigliari è stata data la possibilità di scegliere se sotterrare pezzi di ossa senza aver trovato tutto il corpo”, dice McNeil. “Ci sono madri che sono riuscite a sotterrare solo due braccia del proprio figlio. È stato estremamente traumatico”. La lunga identificazione - McNeil e i suoi colleghi non avevano solo il compito di raccogliere prove scientifiche, ma anche di identificare i corpi. Dare a quei volti decomposti un’identità, un processo lungo per niente semplice per la tecnologia a disposizione dell’epoca. “Nel 1996 il riconoscimento tramite esame del Dna era noto ma molto costoso e lento. Avevamo solo un piccolo budget a disposizione. All’inizio le identificazioni positive erano molto poche. I corpi erano decomposti e quindi ci aiutavano con i vestiti delle vittime. Ma non potevamo basarci solo su quel riscontro, anche perché la popolazione era sotto assedio da 3-4 anni. I vestiti dei cadaveri venivano riparati e usati da altre persone”, spiega. Molti corpi sono stati riconosciuti grazie agli imam locali che hanno indirizzato il team forense verso le famiglie delle vittime. Questo gli ha permesso di raccogliere il loro campione di Dna e iniziare i test. A quasi trent’anni di distanza, la Bosnia è diventato il paese con uno dei più alti know how in materia di identificazione dei corpi. A Sarajevo e nella città di Tuzla, dove avvenne uno dei massacri più noti della guerra, sono nati due centri diventati tra i più importanti al mondo nel settore. Ancora oggi vengono scoperte nuove fosse comuni, e il processo di riesumazione dei corpi e della loro identificazione è in corso. Tre anni fa sono stati sepolti nel cimitero monumentale di Poto?ari i resti di 19 vittime ritrovati sparsi in più di 70 fosse comuni. “Oggi ci sono ancora arti immagazzinati in obitori della Bosnia in attesa di trovare altri resti per il loro confronto. Le famiglie vogliono il corpo intero prima di seppellirlo. Ma sono fatti che risalgono a 30 anni fa, e tanti famigliari sono morti senza mai aver avuto questa possibilità”. Gaza e Ucraina - “Dai video circolati online sulla guerra in Ucraina ho visto persone rimuovere bende o fasce dalle mani legate delle vittime. Lo facevano per ragioni umanitarie, ma così inquinano le prove. Non è utile”, dice McNeil, che segue con attenzione cosa accade in Europa. E lo stesso sta accadendo a Gaza, dove la Corte penale internazionale sta indagando per verificare le accuse di crimini di guerra e di genocidio. “Provare un genocidio è il crimine più complicato. Se si arriverà a un processo internazionale, gli avvocati sono in grado di contestare le prove raccolte dal procuratore. Quindi è importantissimo preservare il più possibile le prove, proteggere le fosse comuni fino a quando esperti internazionali non entrano a Gaza per fare il proprio lavoro”. Cosa quasi impossibile da fare al momento con la guerra ancora in corso. Nel 2009 McNeil ha smesso di vestire i panni della scientifica ed è andato in pensione. Da allora è ambasciatore di Srebrenica Uk e porta in giro per il mondo la sua esperienza per raccontare cosa è successo in Bosnia a fine anni Novanta. Incontra studenti nelle scuole e anche negli istituti penitenziari. “Una volta, al termine di un evento in carcere mi hanno fermato diversi detenuti. Conoscevano bene le storie che ho raccontato perché avevano prestato servizio militare e alcuni di loro hanno avuto esperienze in Bosnia in quegli anni. Mi chiedo se aver visto certe scene li abbia portati a prendere determinate scelte nella vita, influenzando le loro vite attuali”. I pericoli di oggi - Le divisioni etniche e culturali non sono state ancora superate, non è ancora portato a compimento quel processo di transizione politica. Tra la popolazione della Bosnia Erzegovina e della Repubblica serba di Bosnia sono ancora molto diffuse. A fine giugno un rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza scriveva nero su bianco che in Bosnia è necessario un cambiamento per superare i risentimenti, la diffidenza e l’odio “profondamente radicati che ancora troppo spesso caratterizzano le relazioni interetniche nel paese”. Qualche giorno prima un altro organo del Consiglio d’Europa giungeva a conclusioni analoghe. L’anniversario del genocidio di quest’anno avviene dopo uno storico voto delle Nazioni unite. Lo scorso 23 maggio l’Assemblea Onu ha approvato la risoluzione con cui viene riconosciuto l’11 luglio del 1995 come giorno di commemorazione del genocidio di Srebrenica. Il voto è stato osteggiato dalla Repubblica serba della Bosnia e dalla Serbia, dove il dibattito politico è inquinato dal negazionismo. Nonostante 19 voti contrari e 68 astenuti la risoluzione è stata approvata. Non senza critiche. “Sono sicuro che c’è molta politica nel voto dell’Onu. L’alto numero di paesi astenuti lo dimostra. Ho comunque provato un senso di sollievo e penso che valga lo stesso per i famigliari delle vittime”, dice McNeil. Prima della pandemia, durante un viaggio a Srebrenica chiesi ad alcune madri se avrebbero mai perdonato chi ha commesso quei crimini. Una di loro mi rispose: “Come possiamo perdonare se nessuno ci ha mai chiesto scusa”?”. “Un Egitto senza tortura”, a Mahmoud Hussein basta una maglietta per una condanna a tre anni di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2024 L’Egitto, da poco omaggiato dal governo italiano con l’inserimento nella lista dei paesi di origine sicuri, ha celebrato da par suo il 26 giugno, Giornata internazionale per le vittime di tortura. Proprio quel giorno Mahmoud Hussein, un attivista che durante una protesta pacifica aveva indossato una maglietta con una scritta contro la tortura, è stato condannato a tre anni di carcere. Il processo è stato celebrato presso il Tribunale speciale di emergenza per la sicurezza dello stato, i cui verdetti non sono appellabili: basta la ratifica del presidente al-Sisi. Per l’ennesima volta, dunque, il sistema giudiziario egiziano è stato usato come uno strumento per punire il dissenso e costringere al silenzio l’attivismo pacifico. L’imputato è stato arrestato immediatamente dopo la lettura del verdetto e portato in carcere per scontare il resto della pena, avendo già trascorso dieci mesi in detenzione preventiva. Mahmoud Hussein era stato arrestato per la prima volta il 25 gennaio 2014, al termine di una manifestazione pacifica per ricordare la caduta del regime di Hosni Mubarak, deposto tre anni prima. In quell’occasione, aveva indossato una maglietta con la scritta “Una nazione senza tortura” e una sciarpa col logo della Rivoluzione del 25 gennaio 2011. Aveva trascorso due anni in detenzione preventiva arbitraria prima di essere scarcerato su cauzione, a seguito di una campagna globale in suo favore. Ma nel 2018 era stato condannato in contumacia all’ergastolo. Durante la detenzione, funzionari dell’Agenzia per la sicurezza nazionale lo avevano sottoposto a maltrattamenti e torture, tra cui pestaggi e scariche elettriche sulle mani, sulla schiena e sui testicoli, per obbligarlo a firmare una “confessione”. Era stato nuovamente arrestato nell’agosto 2023. Sottoposto a sparizione forzata per cinque giorni. Era stato messo in detenzione preventiva in attesa del processo per accuse inventate di appartenenza a un “gruppo terrorista”. In seguito, il 23 aprile di quest’anno, un giudice aveva ordinato la sua scarcerazione, avvenuta solo il 26 maggio, 33 giorni dopo. In Egitto migliaia di persone continuano a essere sottoposte a detenzione arbitraria solo a causa dell’esercizio dei loro diritti umani, senza alcuna base legale o a seguito di procedure che violano il diritto a un processo equo. *Portavoce di Amnesty International Italia