Carceri, strage infinita. A Prato un altro suicidio: sono 60 dall’inizio dell’anno. Già 100 le rivolte di Viola Giannoli La Repubblica, 29 luglio 2024 C’era la data del 2032 sul fine pena. In carcere per somma di condanne ha resistito molto meno: a 27 anni si è impiccato sabato sera nella sua cella della Casa Circondariale di Prato. È morto poco dopo, in ospedale. Il suicidio numero 57 dall’inizio dell’anno secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che non tengono conto di chi, ad esempio, si lascia morire di fame. Il numero 60 per la Uilpa, uno dei sindacati di polizia penitenziaria, che conta anche quasi 1150 tentativi di suicidio. A Prato è il secondo detenuto che si toglie la vita da gennaio: esattamente cinque mesi prima s’era ammazzato un ragazzo marocchino, disoccupato come la metà di quelli che si uccidono in carcere. Si dice che lì, alla Dogaia, siano fortunati perché il sovraffollamento è solo del 100,17% contro la media nazionale del 130,11%. Venerdì sera, però, c’è stata una rivolta: venti detenuti della prima sezione hanno divelto le luci al neon lasciando al buio il reparto e tirato su le barricate con brande di ferro, asserragliati fuori cella fino alle 2 di notte quando, dopo una lunga mediazione, li hanno convinti a rientrare. L’ennesima protesta collettiva per il caldo o il sovraffollamento, i suicidi, i decessi per malore, l’acqua che manca, la rabbia che contagia uno dopo l’altro questi pozzi neri nell’attesa di una metamorfosi, un indulto, un’amnistia. Erano state 87 le rivolte contate dal Dap fino al 22 luglio, già molte più dello scorso anno, ma solo nell’ultima settimana sono montati i pesantissimi disordini nella casa circondariale di Velletri, le proteste nelle carceri di Terni e di Biella, l’occupazione degli asfissianti passeggi nella prigione capitolina di Regina Coeli, l’arrampicata dei detenuti sui tetti a Caltagirone, l’autogestione del penitenziario di Rieti con 400 detenuti fermi giorno e notte nei corridoi anziché in cella, la distruzione a colpi di spranghe di un reparto a Venezia Santa Maria Maggiore, il rogo a Vibo Valentia. Fino alla rivolta di Prato, 24 ore prima dell’ultimo morto impiccato. “Una carneficina mai vista prima”, dice Gennarino De Fazio della Uilpa. “Una strage infinita, una vergogna generale” per il garante toscano dei detenuti Giuseppe Fanfani. “Il dramma di questo ragazzo è il dramma di tutti i reclusi - aggiunge -. Perché nelle carceri manca di tutto: manca il rispetto della Costituzione secondo la quale la pena deve rispondere a criteri di umanità e tendere alla rieducazione. E manca la speranza. Tanto che il suicidio diventa la fine inevitabile di situazioni drammatiche ancora inascoltate” Siamo assuefatti all’inferno dei reclusi di Gaia Tortora La Nazione, 29 luglio 2024 Aumentano i suicidi nelle carceri italiane, con 60 vittime in diverse città. La situazione critica richiede interventi urgenti per garantire dignità e assistenza ai detenuti. Prato, Rebibbia, Brescia, Milano, Viterbo. Per lo più nomi di città di un terrificante bollettino di morte che ha raggiunto quota 60. Ecco, forse - chissà - se iniziassimo a dare un nome un volto a quei nomi che non sono città, ma persone identificate con il carcere dove sono recluse, le nostre coscienze avrebbero un minimo di sussulto. Forse. Perché ormai siamo totalmente assuefatti. E anche la conta dei suicidi che si aggiorna velocemente non ci colpisce più. Che importa. Provengono dalla discarica umana. Hanno sbagliato (ma in carcere c’è anche chi attende giudizio) e quindi chissenefrega. “Non va mescolato il tema del suicidio con il problema del carcere”, mi ha detto giorni fa un esponente della maggioranza. No certo, ma ormai lì dentro tutto si mescola in un frullatore totalmente fuori controllo dove chi sta male non viene aiutato né curato e chi dovrebbe scontare la pena in condizioni dignitose vive come in una stalla. Un commissario. Hanno istituito un commissario. Perché un garante nazionale, quelli regionali, i direttori dei penitenziari, non bastano. Ora viene istituito un commissario all’edilizia penitenziaria. Perché in Italia, si sa, a un certo punto spunta sempre un commissario. Costruire nuovi istituti richiederà tempo. Quel tempo che noi abbiamo superato almeno da 30 anni. Scivolando velocemente all’inferno. Facendo carta straccia dell’articolo 27 della Costituzione. Delle parole di papa Wojtyla, di Giorgio Napolitano e di Sergio Mattarella. “Le prigioni scoppiano, sono una polveriera. La politica è assente” di Andrea Gianni Il Giorno, 29 luglio 2024 Il singolo da solo non può risolvere nulla, ci vorrebbe un’azione collettiva. servono più misure alternative”. “Le carceri sono polveriere, pronte a esplodere alla minima scintilla. Gli spazi per intervenire ci sarebbero, quello che manca è la volontà politica”. Luigi Pagano ha trascorso la sua vita professionale nel sistema carcerario. Entrato nell’amministrazione penitenziaria nel 1979, ha diretto diversi istituti fra cui, per 15 anni, San Vittore, uno dei penitenziari italiani con il peggior tasso di sovraffollamento. È stato provveditore regionale per la Lombardia, vicecapo del Dap nazionale, ha lanciato sperimentazioni e progetti innovativi. Ora, in pensione, osserva una situazione che resta “drammatica”, fra suicidi di detenuti, rivolte e problemi sedimentati nel tempo. A Prato si è registrato il sessantesimo suicidio di un detenuto nelle carceri italiane da inizio anno... Da anni vengono lanciati allarmi inascoltati sulle condizioni dei detenuti, sul sovraffollamento, su una politica penitenziaria poco pertinente con l’articolo 27 della Costituzione e con la dignità umana. Lei è stato alla guida di diverse carceri. Quale ruolo possono giocare, in questo contesto, i direttori? È un errore pensare che la buona volontà del singolo, pur necessaria, possa risolvere i problemi. Serve una volontà politica e amministrativa, un’azione collettiva che in questo momento manca”. Per tamponare il sovraffollamento bisognerebbe puntare sulle misure alternative alla detenzione? “La strada è questa, anche per la finalità di un reinserimento nella società. Il problema è che le carceri ospitano già persone che potrebbero usufruire di misure alternative ma di fatto non possono accedere per le loro condizioni sociali, perché sono poveri, stranieri o senza una casa. Un obiettivo che è anche al centro del decreto battezzato come “svuota-carceri”. Qual è il suo giudizio? Sono molto scettico. Non c’è nulla in quel decreto, a mio avviso, che possa realmente risolvere i problemi delle carceri. Bisognerebbe costruire nuovi istituti? Non servono nuove carceri ma, piuttosto, carceri nuove. Le condizioni in tanti istituti, penso ad esempio a San Vittore, Regina Coeli a Roma, Brescia, sono indecenti. Servirebbe un progetto generale di riqualificazione creando spazi per attività ludiche, lavorative e di formazione. Se una persona rimane in una cella sovraffollata per 20 ore al giorno, soprattutto con questo caldo, è logico che aumenti il rischio di autolesionismo o gesti violenti. Spesso chi parla di carceri non c’è mai stato, io ho diretto per 15 anni San Vittore e so che cosa significa il sovraffollamento. Consideriamo, poi, che un terzo dei detenuti sono imputati in attesa di giudizio, quindi presunti non colpevoli. Come si può pretendere legalità se lo Stato è il primo a non rispettare la legge e a violare l’articolo 27 della Costituzione? Siamo già stati condannati dalla Corte europea dei diritti umani e, dopo la sentenza Torreggiani, senza un cambio di passo rischiamo di essere condannati ancora. Le indagini sulle violenze da parte di agenti della polizia penitenziaria al carcere minorile Beccaria di Milano, e inchieste in altre zone d’Italia, hanno sollevato anche il problema degli abusi sui detenuti... Senza voler negare le responsabilità personali degli agenti coinvolti, questi sono ulteriori indicatori di un clima esplosivo, di un humus dove basta una scintilla per creare un incendio, di un disagio vissuto anche da chi lavora nelle carceri. Per prevenire i suicidi bisognerebbe investire sull’assistenza psicologica? Servirebbero più psicologi ma, senza un cambiamento delle condizioni, rischia di non servire a niente, perché tra i detenuti viene meno la speranza. Si è riaperto un dibattito politico sull’indulto. Lei è favorevole? Di amnistia o indulto si parla, purtroppo, sempre in termini di convenienze elettorali. L’indulto servirebbe per tamponare l’emergenza, ma sarebbe come aprire il tappo di un lavandino pieno senza però aggiustare il rubinetto. Zanettin (Fi): “Accolti nostri emendamenti significativi al dl carceri, ma c’è ancora tanto da fare” Adnkronos, 29 luglio 2024 “Sono stati accolti tre nostri emendamenti significativi al dl Carceri, sul tema del sovraffollamento: la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la possibilità per i detenuti tossicodipendenti di espiare la pena nelle comunità terapeutiche. Per quest’ultima misura, il governo ha anche stanziato finanziamenti specifici per coprire i costi del soggiorno nelle comunità. Siamo soddisfatti di questo compromesso, frutto di un dialogo importante con il governo, poiché queste misure contribuiranno a ridurre la pressione sul sistema carcerario”. Lo ha dichiarato a Sky Agenda il senatore e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a palazzo Madama Pierantonio Zanettin. “Tuttavia, queste misure non sono sufficienti da sole e sarà necessario trovare ulteriori soluzioni per evitare che questo sia un anno record per i decessi in carcere. Anche se molto è stato fatto, c’è ancora tanto da fare: il decreto carceri ha aumentato le dotazioni di organico e le assunzioni di personale, inclusi direttori e mediatori culturali, ma ulteriori interventi sono indispensabili”, ha aggiunto. “Domani, con il nostro segretario Tajani, illustreremo una serie di iniziative che intendiamo attuare nel mese di agosto in tutta Italia: visiteremo le carceri, parleremo con i direttori, le rappresentanze sindacali degli agenti e i detenuti per approfondire questo tema cruciale, soprattutto in un’estate così torrida”, ha aggiunto. “Noi agenti più tutelati dal Dl sicurezza, ma ora si costruiscano nuove carceri” di Francesco Curridori Il Giornale, 29 luglio 2024 Il segretario Coisp: “Norme che aspettavamo da anni”. “Il Dl Sicurezza contiene delle importanti innovazioni normative che chiedevamo da tempo”. A dirlo è Domenico Pianese, segretario generale del Coisp che, intervistato dal Giornale, affronta anche il tema del sovraffollamento delle carceri, uno dei temi caldi di queste settimane a cui il governo ha dedicato un altro decreto legge ad hoc. Perché è favorevole al bodycam, ma contrario all’introduzione dei numeri identificativi per gli agenti? “Sui numeri identificativi ci sono alcuni emendamenti presentati dall’opposizione, ma non sono presenti nel Dl Sicurezza. Credo che le bodycam siano un elemento di garanzia tanto per i cittadini quanto per gli appartenenti alle forze di polizia perché danno la possibilità, soprattutto nelle situazioni di controllo dell’ordine pubblico, di registrare quel che sta avvenendo. Gli identificativi, invece, sono strumenti ideologici proposti da chi pensa che le forze di polizia debbano essere sempre messi dalla parte dei vigilati. Inoltre, esporrebbero gli agenti a eventuali ritorsioni da parte degli eventuali manifestanti”. Dopo la morte di un uomo, si è discusso molto sull’uso del taser. Lo manterrebbe? “Il taser si è dimostrato uno strumento eccezionale sia di deterrenza sia di intervento verso persone in stato di alterazione psico-fisico. Prima si poteva usare solo la pistola d’ordinanza e, quindi, usare il taser ha consentito di non arrivare al corpo a corpo e di rendere inoffensivi i criminali muniti di coltelli o di armi”. Cosa pensa della misura che prevede per le mamme incinte di trascorrere la detenzione insieme ai figli? “Il problema delle donne incinte o con prole che commettono continuamente dei reati e approfittano della possibilità di sfuggire alla detenzione, sebbene condannate più volte, è un problema reale che andava affrontato. Abbiamo avuto alcune donne che negli ultimi anni hanno commesso lo stesso reato per 20-25 volte senza mai scontare un giorno di carcere. Questo si è trasformato in una sorta di licenza di poter rubare senza mai pagare le proprie colpe”. Come si risolve il problema del sovraffollamento delle carceri? “In linea di principio siamo contrari a misure normative che riducano le pene a chi ha commesso dei reati. Bisogna investire sull’edilizia carceraria perché il potere di deterrenza è già stato indebolito negli anni passati e in questo Paese è necessario garantire la certezza della pena”. E, mentre si costruiscono nuove carceri, come si fa fronte alla situazione? “La situazione attuale è a macchia di leopardo e, quindi, i detenuti andrebbero distribuiti diversamente, ma questo andrebbe a confliggere con le loro richieste di restare vicini ai loro familiari. Non si può risolvere il problema del sovraffollamento liberando qualche migliaia di detenuti per ritornare a una situazione sostenibile ma inaccettabile. La soluzione non è questa anche perché queste persone tornerebbero a delinquere e in poco tempo riempirebbero di nuovo le carceri”. La legge e il giudizio del popolo di Concita De Gregorio La Repubblica, 29 luglio 2024 Esistono reati inemendabili, reati così odiosi per cui nessuna pena, nessuna riabilitazione e pentimento possono bastare? E se sì, a giudizio di chi? Il nostro, il giudizio del popolo? O è alla legge che dobbiamo tutti obbedire? Basta, il carcere, a darti una seconda possibilità di vita o non puoi averla, e allora a cosa serve il carcere. Beccaria, torna! Ci piace di più la pena di morte? Il pubblico di Parigi ha fischiato, ieri, un atleta olimpico di beach volley: Steven van de Velde, olandese. Dieci anni fa, quando aveva 19 anni, durante un viaggio in Inghilterra aveva violentato una dodicenne conosciuta su Facebook. È stato condannato a quattro anni di carcere, ha scontato la pena. Ha seguito un processo di riabilitazione segnato - leggo, non so dire cosa siano - da forti “misure di salvaguardia”. È tornato a giocare, diverse associazioni femministe hanno raccolto più di novantamila firme perché fosse escluso dalle Olimpiadi. È stato accolto in campo da un coro ostile. Il portavoce dell’Olanda, John van Vliet, ha parlato al suo posto: “La sua è una vicenda sicuramente molto più grande dello sport. Ma abbiamo una persona che ha scontato la sua pena, che ha fatto tutto ciò che poteva per poter competere di nuovo”. Ci convoca, questa vicenda, a rispondere a una domanda. Esistono reati inemendabili, reati così odiosi per cui nessuna pena, nessuna riabilitazione e pentimento possono bastare? E se sì, a giudizio di chi? Il nostro, il giudizio del popolo? O è alla legge che dobbiamo tutti obbedire? Basta, il carcere, a darti una seconda possibilità di vita o non puoi averla, e allora a cosa serve il carcere. Beccaria, torna. Ci piace di più la pena di morte? Fa eco dentro di me, questa vicenda, con le parole del padre di Filippo Turetta al figlio reo confesso del femminicidio di Giulia Cecchettin. Le ha pronunciate, quelle parole che non voglio riferire, non voglio sapere perché siano arrivate fino a noi, non dovevano - questo lo scandalo: chi ha registrato un colloquio in carcere tra genitori e figlio, chi lo ha divulgato? Ha detto, il padre, che “si vergogna” di averle pronunciate e chiede scusa: “Temevo che mio figlio si suicidasse”. Lo capisco. Capisco che un padre possa temere il suicidio del figlio, che voglia evitarlo. Non so cosa farei in una condizione simile. Non lo so e nessuno che non sia in quella esatta situazione lo sa. So però che mi sento a disagio per aver ascoltato quel che non volevo. So che mi vergogno della sua vergogna. Quanta ferocia, quanto dolore. Giulia, Filippo e il colloquio col padre: serviva davvero divulgarlo? di Viviana Daloiso Avvenire, 29 luglio 2024 Le parole carpite durante il primo incontro tra i genitori e il figlio in carcere sono già diventate un caso. Perché crediamo che sia un errore averle rese pubbliche. Ce l’eravamo già chiesti un mese fa, quando divennero di dominio pubblico i verbali degli interrogatori di Filippo Turetta, coi particolari terribili della violenza su Giulia Cecchettin, il numero delle coltellate inferte sul suo corpo indifeso, l’uso meticoloso dei sacchi e dello scotch e del coltello: a che cosa serve che si sappia in modo analitico e minuzioso, fuori dai palazzi di giustizia e dai tribunali dove qualcuno deve decidere sulla pena giusta da comminare al giovane, come è materialmente avvenuto questo femminicidio? Diritto e dovere di cronaca, si dirà. Ma in quel caso Avvenire decise di non farla, la cronaca, di non indugiare in tanto orrore, tanto meno nella pubblicazione degli scatti di quella notte, con la povera ragazza strattonata, inseguita, trascinata sul marciapiede. In queste ore il copione si ripete. Vengono diffusi, cioè, dal tabloid Giallo e a ruota da quasi tutti i giornali e telegiornali, gli ampi virgolettati del primo colloquio avuto dallo stesso Filippo Turetta in carcere, ai primi di dicembre, con sua madre e suo padre. Un momento di cui è inimmaginabile la difficoltà, tanto che gli stessi genitori - lo ricordiamo - decisero di aspettare settimane ad affrontarlo, dilaniati da chissà quale sofferenza per quanto accaduto al figlio, e a Giulia (che conoscevano bene), schiacciati da un’attenzione mediatica immane, combattuti su come proteggere il fratello più piccolo di Filippo, travolto anche lui coi suoi 18 anni dalla più triste delle notorietà. Di più, un momento del tutto ininfluente ai fini delle indagini e dell’epilogo del processo che per l’assassino di Giulia deve ancora aprirsi, visto che padre e madre in quel colloquio non hanno rivelato complicità o conoscenza del presunto “piano” del figlio (il motivo per cui legittimamente, forse, si è deciso di intercettarli). Eppure, ecco diffuso il testo pressoché integrale di un discorso già diventato “choc” e trasformato da molti in un nuovo atto di accusa: perché questo padre, in modo certamente sconvolto, sconclusionato, disarmante per superficialità e per scelta delle parole, al figlio non dice di odiarlo, di non volerlo più vedere, di cancellarlo per sempre, ma cerca maldestramente di consolarlo, “fatti forza, non se l’unico” e ancora “hai avuto un momento di debolezza”, addirittura, contro tutte le evidenze, “non sei stato te”. Ci fermiamo qui. Un’altra volta, decidiamo di non indugiare oltre nella cronaca di un colloquio che reputiamo dovesse restare privato, nelle disponibilità dei soli inquirenti e in uffici da cui non sarebbe dovuto uscire. A che cosa serve, infatti, conoscerne le parole? A dire che è un mostro anche il papà di Filippo, che è colpa anche sua? A dimostrare che “sminuisce” il femminicidio e, visto che di Giulia nel dialogo non parla, che non gli interessa minimamente di quello che le è accaduto? Oppure che è da rintracciare nella storia della famiglia Turetta la radice del male che ha portato il giovane a ucciderla? Serve forse a lenire il dolore della famiglia Cecchettin, contro cui ogni notizia riguardante Filippo Turetta immaginiamo si abbatta come uno tsunami, piuttosto, riaprendo una ferita già abbastanza sanguinante di per sé? Crediamo di no. Di Filippo Turetta, invece, occorrerebbe semplicemente smettere di parlare. Il destino che lo attende, e che purtroppo coinvolgerà anche la sua famiglia, lo decideranno i giudici della Corte d’Assise di Venezia a partire dal prossimo settembre stabilendo quanto tempo dovrà trascorrere in carcere e se abbia premeditato o no il suo delitto. Quello di cui serve continuare a parlare è di Giulia, della sua storia, di quello che desiderava per il suo futuro e della sua voglia di studiare: tante ragazze dallo scorso novembre si sono ispirate a lei, hanno capito che l’amore che stavano vivendo era malato come il suo o hanno deciso di aiutare un’amica che vedevano nella stessa situazione, hanno denunciato. Serve dir loro che non sono sole, far conoscere le realtà e le associazioni a cui si possono rivolgere. Serve insegnare ai ragazzi e alle ragazze a costruire relazioni sane, insistendo sull’educazione all’affettività, che è l’unica strada per prevenire le violenze e i femminicidi. Serve da parte delle istituzioni accertarsi che ci siano le giuste tutele e che questa educazione entri nelle scuole il prima possibile, in modo sempre più strutturato e capillare. Parlare e scrivere per Giulia, non di Filippo. Il carcere e quelle parole che non dovrebbero mai finire sui giornali di Stefano Tallia* casadeigiornalisti.it, 29 luglio 2024 Quando la difesa del diritto di cronaca passa anche dalla scelta di non pubblicare un verbale. Invitato dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e dal dipartimento di studi giuridici dell’Università di Torino, sono stato alcune settimane fa all’interno del polo universitario del carcere di Saluzzo. Una realtà piuttosto lontana da quanto leggiamo in queste settimane a proposito dei penitenziari italiani all’interno dei quali il sovraffollamento sta rendendo intollerabili le condizioni di vita. Pur non conoscendo dettagliatamente la situazione di quel carcere, nel corso dell’incontro mi sono fatto l’idea di una struttura nella quale, pur nella inevitabile durezza della condizione detentiva, quella visione del carcere come luogo di recupero e di riscatto delle persone scritta nella nostra Costituzione, abbia un qualche senso. Con gli studenti-reclusi abbiamo quindi discusso e ragionato del delicato rapporto tra informazione e giustizia e del tema, per i detenuti centrale, del diritto all’oblio. Un confronto utile a conoscere il punto di vista di chi è spesso protagonista delle cronache, un esercizio che credo tutti i giornalisti dovrebbero fare di tanto in tanto. Fino a qualche ora fa, avrei dunque voluto dedicare quest’ultima puntata del Diario prima della pausa estiva a un richiamo generale sulle parole che utilizziamo per raccontare questa realtà, che tante, troppe volte, difettano della necessaria sensibilità. A questi temi nei prossimi mesi l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte dedicherà alcuni corsi di formazione e tuttavia, proprio un episodio avvenuto nel fine settimana mi suggerisce una riflessione più ampia sul giornalismo e le sue regole. Mi riferisco alla pubblicazione del colloquio avvenuto in un penitenziario tra un detenuto e i suoi famigliari, corredato in alcuni casi anche dalle immagini dell’incontro stesso. Non cito i nomi dei protagonisti e non voglio entrare nel merito delle frasi riportate - purtroppo - da quasi tutti gli organi di informazione, perché penso vi sia una questione che preceda tutto. È corretto, utile alla conoscenza dei fatti, pubblicare un dialogo privato tra persone che si trovano in una condizione emotiva evidentemente alterata dalle circostanze? Aggiunge elementi di conoscenza indispensabili o rappresenta invece una intollerabile violazione della privacy ? Intendiamoci, non è in questione il diritto degli inquirenti a intercettare dialoghi dai quali pensano di poter ricavare elementi di prova, né un giudizio sulla gravità del reato contestato. Qui si tratta invece di utilizzare quella sensibilità della quale ogni giornalista dovrebbe essere dotato, vala a dire la capacità di essere mediatore tra la notizia e il pubblico e non semplice riproduttore delle carte delle quali viene in possesso. Per altro, sono proprio queste disinvolte scelte editoriali a fornire alibi chi non aspetta altro per porre limiti al diritto di cronaca, quello che riguarda invece fatti di indubbio interesse pubblico. Avvenimenti tra i quali non rientra però il colloquio privato tra un detenuto e un suo genitore. In chiusura non posso che fare mie le parole di Enrico Mentana, uno dei pochi direttori ad aver scelto di non pubblicare quel dialogo: “Vorrei capire come le frasi di un genitore in visita al figlio detenuto in attesa di giudizio nel parlatorio di un carcere vengano registrate e poi fatte uscire, pur essendo prive di qualsiasi contenuto utile alle indagini e per di più pronunciate da un cittadino non indagato. Oppure vogliamo aggiungere ai codici la norma per cui il padre dell’autore di un delitto efferato perde da subito a sua volta ogni diritto, come punizione per avere allevato un mostro?” *Presidente Ordine dei Giornalisti del Piemonte Il padre di Filippo Turetta: “Non mi do pace per quelle frasi dette in un momento di disperazione” di Roberta Merlin Corriere del Veneto, 29 luglio 2024 “Ora lui si rende conto di quello che ha fatto”. Parla Nicola Turetta, genitore dell’ex fidanzato di Giulia Cecchettin, accusato di averla uccisa l’11 novembre 2023: “Temevo che lui si potesse suicidare”. “Chiedo scusa per quello che ho detto a mio figlio: erano solo tante fesserie. Non ho mai pensato che i femminicidi fossero una cosa normale. Ho fatto quelle affermazioni solo perché temevo Filippo si suicidasse”. Mentre parla Nicola, il padre di Filippo Turetta, il 23enne di Torreglia, da novembre scorso nel carcere veronese di Montorio con l’accusa di avere sequestrato e ucciso l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, ha la voce rotta dal pianto. Ieri mattina, è uscito di casa all’alba e si è diretto a piedi verso le campagne che circondano il piccolo paesino di Torreglia, nel Padovano, dove abita con il resto della famiglia. “Non ho chiuso occhio stanotte. Sto malissimo. Non mi do pace per quelle frasi senza senso che ho rivolto in un momento di disperazione a mio figlio, durante il primo colloquio in carcere - racconta al telefono in lacrime -, non pensavo assolutamente quelle cose. Non credo affatto che i femminicidi siano giustificabili. Assurdo anche solo pensarlo. Non sono frasi da prendere in considerazione, ero, ripeto, confuso e disperato in quel momento”. Le frasi a cui si riferisce, sono quelle che Nicola rivolge al figlio, il 3 dicembre scorso, quando lui e la moglie Elisabetta Martin incontrano Filippo, per la prima volta, dopo l’omicidio e la fuga in Germania: “Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri. Però ti devi laureare...” afferma Nicola rivolgendosi al ragazzo nella saletta dei colloqui tra detenuti e famigliari nel carcere veronese di Montorio. Si ricorda di avere pronunciato queste frasi? “Si, ho detto tutte quelle fesserie. Ma non le pensavo assolutamente. Non sapevo come affrontare mio figlio. Ci avevano riferito che Filippo aveva tentato di togliersi la vita. In quelle settimane a Montorio c’erano stati altri 3 suicidi. Ci siamo trovati davanti a questo ragazzo di 21 anni, tremante, cosa dovevamo fare? Accusarlo di essere una persona orribile, un assassino che merita la morte? Non era quello il momento. Da genitore ho cercato di tenerlo in vita affinché scontasse la sua pena. Erano frasi senza senso, un disperato tentativo di un padre di evitare il suicidio del figlio. Chi non lo avrebbe fatto?”. Cosa ha pensato quando ha visto che le intercettazioni erano state rese note? “Ho provato un grande dispiacere insieme ad un infinito imbarazzo. Si trattava infatti di un momento intimo, un colloquio di due genitori con un figlio, fino al giorno prima considerato da noi un ragazzo responsabile, e improvvisamente accusato di essere un assassino. In quegli istanti, non sapevamo come affrontarlo: da un lato è pur sempre tuo figlio, dall’altro non lo riconosci più. Si è presentato davanti a noi tremante, impaurito. Cosa dovevamo fare? È veramente atroce anche trovarsi da genitori in questa situazione”. Cosa è successo dopo la diffusione di quel colloquio? “È scoppiata una nuova ondata di odio e indignazione nei confronti di noi genitori. Io e mia moglie avevamo da poco trovato la forza per tornare al lavoro. Questi mesi sono stati difficilissimi. Abbiamo cercato di farci coraggio anche perché abbiamo un altro figlio. Poi c’è Filippo, non lo possiamo abbandonare in carcere, anche se è difficile, siamo pur sempre i suoi genitori. Mettetevi per un secondo nei nostri panni. Ora sono ripartite le trasmissioni televisive che ci giudicano come genitori dando peso a quel disperato colloquio. Si parla ancora di patriarcato e altre sentenze nei nostri confronti. Il tutto per quelle frasi rivolte ad un figlio in carcere in un momento di disperazione”. La raccomandazione di terminare gli studi e di laurearsi? “Gli ho detto “ti devi laureare”, non perché mi interessasse, o perché sperassi in un futuro fuori dal carcere per lui. Gli ho dato quel consiglio solamente per tenerlo impegnato e non farlo pensare al suicidio. Era logico che non era una priorità la laurea e che non gli sarebbe servita, visto che dovrà giustamente scontare la sua pena per quello che ha fatto. Ma in quegli istanti ho cercato, ripeto, di evitare un gesto estremo”. A 7 mesi da quel colloquio, siete riusciti a parlare con Filippo di quanto successo? “Sì, lui ora si rende conto di quello che ha fatto. Vuole scontare la sua pena. Non ha nessuna speranza o intenzione di sottrarsi alle sue responsabilità”. Cosa vorrebbe dire a chi la sta giudicando? “Prima di tutto, che non pronuncerei più quelle parole. Quelle cose non si dicono nemmeno per scherzo. Ma vorrei le persone capissero che in quel momento era un tentativo disperato di un genitore di evitare un suicidio. Ora, provo imbarazzo”. Paolo Crepet: “Pietas per i genitori di Turetta ma le responsabilità del delitto sono anche loro” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 29 luglio 2024 Lo psichiatra: “Il padre dovrebbe dire al figlio: “Se tu sei qui è anche colpa mia”. Il giustificazionismo danneggia tutti”. E sulla rinuncia alla perizia psichiatrica per Turetta da parte della difesa: “Scelta saggia”. “Partirei dalla pietas, la prima parola che ritengo si debba pronunciare nei confronti di chi si trova nella difficile condizione di questi genitori. Quelle parole del padre al figlio si possono anche comprendere nell’immediatezza dell’arresto, dettate dalla paura del gesto autolesionista. Tuttavia ci sono dei punti su cui bisogna ragionare”. La riflessione di Paolo Crepet riguarda una certa cultura, una certa mentalità giustificazionista. “Diffusissima fra i genitori di quest’epoca nei confronti dei figli. Non illudiamoci che l’atteggiamento del padre di Turetta sia un caso isolato. I genitori tendono ad annacquare qualsiasi errore dei loro ragazzi, lo sfumano, lo triturano, fino a trasformarlo in una poltiglia digeribile. In questo caso, viste le precisazioni e la supplica del padre che ora chiede comprensione, immagino che oggi non parlerebbe più così a Filippo”. Cosa dovrebbe dirgli - Per lo psichiatra l’approccio giusto dovrebbe tendere a una responsabilità condivisa. “Non sono dell’idea che il padre debba dirgli “stai lì, ti meriti questo e tanti saluti”. Ma nemmeno dev’essere un prete che dà speranza attraverso la lettura delle sacre pagine. Lui è un padre e deve innanzitutto domandarsi come sia potuto crescere un assassino nella sua casa. Dovrebbe dirgli: “se tu sei qui è anche colpa mia”, questa sarebbe una frase di enorme dignità e civiltà. “Abbiamo sbagliato qualcosa anche noi, non solo tu”. “Che cos’è che non mi hai detto in questi anni?”. E invece gli ha detto “hai avuto un momento di debolezza”. Due anni di martellanti messaggini e il martirio della povera Giulia possono forse essere un momento di debolezza?”. Detto che Crepet considera ogni femminicidio come premeditato per definizione, è l’idea del raptus che a suo parere danneggia. Il danno del giustificazionismo - “Perché è giustificazionista e non aiuta il figlio: hai avuto un momento di follia e le hai dato 70 coltellate. No, non è così. L’hai pensato, l’hai ragionato, c’era un tarlo nella tua testa e nessuno l’ha visto. E nessuno ha intercettato la sua solitudine e pure quella di Giulia. É mancata l’empatia. Non minimizziamo, non riduciamo questa tragedia circoscrivendola ai due ragazzi. Sbagliato, è accaduta in una comunità”. Sulla pubblicazione - Sull’opportunità di pubblicare l’intercettazione ambientale, scelta giudicata grave dal segretario delle Camere penali “perché non aggiunge nulla alle indagini né alla cronaca, si tratta solo di voyeurismo fuori luogo”, Crepet è perplesso: “Premesso che non ho alcuna competenza sulla questione giurisprudenziale, se non si potevano pubblicare quelle frasi chiudiamo qui l’intervista e mi taccio. Però non svegliamoci oggi con il voyeurismo, che abbiamo tenuto tutti, me compreso, per sei mesi. Ma poi cosa vuol dire voyeurismo? Questi elementi fanno parte dell’analisi familiare, emotiva e relazionale da cui nasce il delitto, come nacquero vent’anni fa Cogne e Novi Ligure e prima ancora Pietro Maso. Questi aspetti vengono a galla dai dettagli, dai colloqui, dalle reazioni. Servono a capire, a contestualizzare”. Un plauso finale lo tributa all’avvocato di Turetta, Giovanni Caruso: “Ho trovato saggia la scelta di non chiedere alcuna perizia psichiatrica, di andare dritti a processo e alla pena. Lo trovo coerente, giusto, raro”. “Modifica legislativa volta ad escludere le attenuanti per il reato di femminicidio” di Manuela Modica Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2024 La proposta bipartisan alla marcia silenziosa per Lorena Quaranta. Una modifica legislativa per escludere le attenuanti dai casi di femminicidio. È la proposta lanciata dal palco di Furci, in provincia di Messina, dai parlamentari di destra e sinistra presenti alla marcia contro la pronuncia della Cassazione. La Suprema corte ha annullato l’ergastolo di Antonio De Pace, assassino di Lorena Quaranta, rinviando gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria perché venga valutata l’attenuante dello stress da Covid. Contro questa decisione, una marcia silenziosa è partita alle 19 di ieri, sabato 27 luglio, da casa di Lorena a Furci Siculo, il paese della costa ionica messinese dove la 27enne laureanda in Medicina viveva assieme a De Pace, infermiere due anni più grande della ragazza. Proprio a Furci si è consumato il femminicidio: Lorenza è stata strangolata al termine di una lite, il 31 marzo del 2020. Una presenza massiccia di amministratori e politici di destra e di sinistra quella che si è registrata alla marcia: a manifestare contro la decisione della Cassazione c’erano dieci sindaci del comprensorio, più il primo cittadino di Favara, paese dell’Agrigentino dove era nata Lorena, parlamentari nazionali e regionali di Lega, Fdi, Italia viva, Sud chiama Nord e Pd. “Non si può accettare che il femminicidio venga sminuito”, ha detto Antonio Nicita, senatore dem che ha lanciato la proposta di una modifica legislativa per escludere le attenuanti dal reato di femminicidio. Una proposta ampiamente condivisa poi dagli altri parlamentari: Ella Bucalo di Fdi, Dafne Musolino di Iv, l’ex europarlamentare della Lega Annalisa Tardino, il neo segretario siciliano del Carroccio Nino Germanà, Maria Stefania Marino del Pd, Pippo Lombardo di Sud chiama Nord. Alla manifestazione, organizzata dal centro antiviolenza “Al tuo fianco” e sostenuta anche dall’amministrazione di Furci, guidata dal leghista Matteo Francilia, hanno preso parte pure Enzo e Cinzia Quaranta, genitori di Lorena. “Siamo il grido di chi non ha più voce”, recitava uno dei manifesti esposti durante la marcia, partita dalla casa su in collina: “Di fronte alla pronuncia della Cassazione non possiamo che restare senza parole”, ha sottolineato Cettina La Torre, avvocata e presidente del centro antiviolenza. In piazza è stato invece montato un palco dal quale sono intervenuti amministratori, organizzatori e parlamentari: “Adesso è davvero come se di nuovo si considerasse la violenza sulle donne come frutto di un raptus, di uno stato di stress - ha detto dal palco La Torre -. La violenza su di noi nasce da una cultura che considera la donna inferiore all’uomo, possesso dell’uomo, su questo terreno non possiamo accettare che si torni indietro. Il processo è giusto quando viene applicata la pena giusta. Anche noi sosteniamo i diritti degli imputati, ma c’è un altro delitto di cui non dobbiamo dimenticarci che è il diritto alla vita, quella vita che a Lorena è stata tolta”. “Sto vicino a tutte le associazioni antiviolenza e sarò al loro fianco per tutto il resto della mia vita, per Lorena ma anche per tutte le altre donne”, ha detto dal palco anche Enzo Quaranta, padre di Lorena. A margine ha poi raccontato: “Dopo la pronuncia della Cassazione mia moglie ed io siamo tornati indietro, è un dolore che si rinnova con la stessa intensità di 4 anni fa. Abbiamo avuto Lorena che eravamo ancora molto giovani, era per me quasi più una sorella che una figlia. Una ragazza dolcissima che non litigava mai con nessuno. Lo stress non può portare ad uccidere. Questi uomini che uccidono le donne, mi chiedo io da uomo e padre, che uomini sono?”. Assieme ai genitori anche la sorella e il fratellino della 27enne studentessa di Medicina. La manifestazione si è poi conclusa di fronte alla panchina del lungomare, dedicata a Lorena, dove sono stati deposti due mazzi di fiori. Prato. Giovane si uccide in cella, tragedia senza fine: nelle carceri italiane dieci suicidi al mese di Maristella Carbonin La Nazione, 29 luglio 2024 Un 27enne si è tolto la vita mentre il suo compagno era impegnato in altre attività. È il sessantesimo da inizio anno. I sindacati di polizia penitenziaria: “Bisogna agire subito”. In quel momento il suo compagno di cella era impegnato in altre attività. Lui era solo quando ha deciso di morire: ha usato una corda rudimentale e si è impiccato. È stato trovato agonizzante attorno alle 19 di sabato da uno degli agenti impegnati nel controllo del reparto di media sicurezza del carcere di Prato. Il ragazzo, 27 anni, è morto poco dopo l’arrivo in ospedale, chiudendo gli occhi su un orizzonte che lo avrebbe visto scontare la pena (era pluripregiudicato per svariati reati, tra cui furti e rapine) fino al 2032. Il giovane detenuto era italiano di origine sinti, proveniva da Viareggio. Sposato, con figli, qualche mese fa non era rientrato in carcere dopo aver usufruito di un permesso, ma poi era stato rintracciato e arrestato. Fatto sta che è l’ennesima croce, questa, piantata nella pancia di un Paese che non può più ignorare il problema carceri. Veniamo ai numeri, alle vite soffiate via: questo è il sessantesimo suicidio di un detenuto nel corso dell’anno. Stringiamo la lente sulla Dogaia, il carcere pratese: questo è il terzo suicidio in meno di dodici mesi. È la cartina di tornasole di una ‘polverierà: solo poche ore prima, nella notte tra venerdì e sabato, la Dogaia era stata teatro di una rivolta circa venti detenuti della prima sezione. Neon divelti, vestiti dati alle fiamme, brande di ferro usate dai detenuti per barricarsi. L’intervento della polizia penitenziaria, del direttore reggente e del comandante è stato immediato ma la calma è stata riportata solo dopo ore di trattative. Fino a quanto durerà? “Occorre metter mano a riforme strutturali che allontanino il pianto dalle nostre carceri”, tuona il garante toscano dei detenuti Giuseppe Fanfani. “Nelle carceri italiane il sovraffollamento, per assurdo, diventa marginale. Manca di tutto. Soprattutto - prosegue - manca il rispetto del dettato costituzionale secondo il quale la pena deve rispondere a criteri di umanità e deve tendere alla rieducazione”. La geografia della disperazione. A Firenze solo qualche settimana fa, era avvenuto un altro suicidio: un ragazzo di vent’anni si era tolto la vita a Sollicciano. L’associazione L’altro diritto lo aveva aiutato a presentare un reclamo giurisdizionale ex articolo 35 bis per lamentare le gravi condizioni del carcere: topi, cimici, muffa. E anche a Sollicciano è stata rivolta, il giorno dopo la morte: urla, pezzi di mura lanciate dalle finestre, lenzuoli dati alle fiamme. Se, “il grado di civilizzazione di una società si può misurare entrando nelle sue prigioni”, come diceva Dostoevskij, pare sia ancora molto il lavoro da fare. I sindacati di polizia penitenziaria si sgolano, e non da ieri. Donato Nolé, coordinatore nazionale FpCgil polizia penitenziaria, parla di “fallimento del sistema penitenziario italiano”, sottolineando l’urgenza di misure efficaci. “Una carneficina mai vista”, le parole di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Il sovraffollamento è la piaga che rende il malato agonizzante: sono 14.500 i detenuti in più rispetto ai posti disponibili e, nel solo 2023, sono stati ben 4.731 i reclusi nei confronti dei quali la magistratura di sorveglianza ha dovuto riconoscere rimedi risarcitori per trattamento inumano e degradante, ricorda De Fazio. E proviamo a leggere il sovraffollamento mettendogli accanto un altro numero: agli organici della Polizia penitenziaria mancano oltre 18mila unità. “Servono provvedimenti efficaci - continua De Fazio - La Presidente del Consiglio batta un colpo”. E un appello a Meloni parte anche da Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Stiamo vivendo un’estate di fuoco nelle carceri e servono immediatamente provvedimenti risolutivi: espulsioni di detenuti stranieri, invio dei tossicodipendenti in comunità di recupero e psichiatrici nelle Rems o strutture analoghe. Il personale di Polizia penitenziaria è allo stremo”. Prato. Detenuto si uccide, è il terzo in 8 mesi. I sindacati: “Dogaia abbandonata dai vertici” di Maristella Carbonin La Nazione, 29 luglio 2024 Riccio (Fp Cgil polizia penitenziaria): “Mancano direttore e comandante titolare. E riceviamo detenuti da tutta la Toscana”. Si è impiccato con una corda, quando era da solo in cella. È stato trovato in fin di vita intorno alle 19 di sabato da un agente al lavoro nel reparto di media sicurezza. La corsa al Santo Stefano è stata immediata, ma non c’è stato nulla da fare. Il detenuto, un ragazzo di 27 anni, italiano di origine sinti e proveniente da Viareggio, è morto poco dopo l’arrivo in ospedale. Si tratta del sessantesimo suicidio di un detenuto nel corso dell’anno in Italia. Alla Dogaia è il terzo suicidio in meno di un anno. Il 27enne, che da quando si apprende lascia moglie e figli, avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2032. Secondo il sindacato Uilpa della polizia penitenziaria la vittima aveva alcune condanne definitive per furti e rapine. Solo poche ora prima, all’interno della Dogaia, era andata in scena la rivolta di una ventina di detenuti che, nella notte tra venerdì e sabato hanno creato il caos nella prima sezione: neon divelti, brande usate come barriere per tenere lontano gli agenti, vestiti bruciati. Poche ore dopo, il suicidio. La Dogaia è una bomba a orologeria. Proviamo a capire i motivi con Giulio Riccio della Fp Cgil Polizia Penitenziaria Prato. Tre detenuti suicidi dal dicembre 2023 e rivolte ormai frequenti. Senza considerare le carenze di organico, di cui più volte abbiamo scritto anche su questo giornale. La Dogaia, come molte altre carceri italiane, ormai è una polveriera. “Prato ha due intoppi grossi. Non ha un direttore titolare e un comandante titolare. Due mesi fa è stato assegnato un comandante, che non è voluto arrivare. Il sistema, per forza, diventa instabile. La Dogaia soffre un senso di abbandono generale dai vertici dell’amministrazione. Ma i problemi sono anche altri. Questo di fatto è rimasto l’unico istituto ricettivo della Toscana”. Si spieghi meglio... “Abbiamo segnalato pochi giorni fa al provveditorato che erano arrivati tanti detenuti da Sollicciano. La Dogaia prende detenuti da tutta la Toscana. Eppure, Sollicciano ha il doppio degli agenti, il doppio degli ispettori, un doppio comandante e ha meno detenuti di Prato”. Torniamo quindi al nodo degli organici, piaga annosa e pare senza soluzione... “Le faccio un esempio: a una manciata di chilometri da Prato, abbiamo Pistoia con un organico al 100% su tutti i ruoli. E non ricevono un detenuto neanche a pagarlo”. Dove sono le carenze maggiori? “Agenti, sovrintendenti e ispettori: per ogni ruolo ci sono carenze. Per quanta riguarda gli agenti la carenza è del 15%. Arriva all’85% sia per i sovrintendenti e che per gli ispettori”. Nelle prigioni dovrebbero essere garantiti standard di civiltà che anche l’Europa ci chiede. E che il sovraffollamento per forza di cosa ostacola... “Sul sovraffollamento il discorso è ampio. Prato, ad esempio, ha un reparto media sicurezza, uno di collaboratori di giustizia prima fascia, un reparto di alta sicurezza 3 e un reparto di semilibertà. Quali di questi circuiti è sovraffollato? Gli ultimi dati, di maggio, parlano di un sovraffollamento del reparto media sicurezza del 130%. Ossia: alla Dogaia c’è il 30% in più di detenuti rispetto ai posti che sarebbero previsti per quel reparto. Senza considerare l’altro grosso problema. Ossia che arrivano anche tanti detenuti con problemi psichiatrici. Sono persone malate, che vanno curate e che, inserite in contesti già complicati, finiscono per diventare ingestibili, con un superlavoro per gli agenti. Con le chiusure degli Opg queste persone sono state dirottate nelle circondariali, che non sono attrezzate a gestirle. In teoria dovevano essere destinati alle Rems, strutture per detenuti con malattie psichiatriche. E invece...”. Prato. Il Garante regionale dei detenuti: “Strage infinita, vergogna generale” notiziediprato.it, 29 luglio 2024 Dopo la morte del 27enne che si è impiccato nella sua cella e in giorni particolarmente complicati per la situazione negli istituti penitenziari italiani dove le rivolte sono una costante, la richiesta è solo una: interventi urgenti per tornare alla normalità. Continua a restare un tema centrale quello delle carceri italiane nelle quali, dall’inizio dell’anno a oggi, si contano sessanta suicidi tra i detenuti e sei tra gli agenti penitenziari. L’ultimo suicidio è quello di sabato 27 luglio nel reparto di ‘media sicurezzà della Dogaia. Vittima un giovane di 27 anni, trovato in fin di vita da un agente e morto poco dopo l’arrivo all’ospedale di Prato (leggi). “È una strage infinita, una vergogna generale”, il commento durissimo del garante dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani. Un nuovo dramma che si consuma nei giorni di rivolte generali negli istituti carcerari italiani: Roma e Biella i casi del fine settimana, ma anche la Dogaia è stata teatro, nella serata di venerdì, di un tentativo di rivolta subito soffocato, ma non senza fatica e timori, dagli agenti. “Il dramma del ventisettenne che si è ucciso a Prato - ancora Fanfani - è il dramma di tutti i detenuti. Nelle carceri italiane il sovraffollamento, per assurdo, diventa marginale. Manca tutto, soprattutto manca il rispetto del dettato costituzionale secondo il quale la pena deve rispondere a criteri di umanità e tendere alla rieducazione”. Il ventisettenne che si è ucciso a Prato impiccandosi, proveniva da Viareggio. Sposato con figli, era in carcere per scontare condanne per rapine e furti. Il suo fine pena era fissato nel 2032. Qualche mese fa non era rientrato dopo un permesso e, una volta rintracciato e arrestato, era stato denunciato per evasione. Le condizioni all’interno delle carceri sono difficili e dure per tutti, compresi gli agenti costretti a fare i conti con il problema principe che è la carenza di organico, ma anche con il sovraffollamento che rende particolarmente complicato il controllo e la gestione, e con la rabbia dei detenuti che cresce giorno dopo giorno. “Il suicidio avvenuto nel carcere di Prato - scrive il segretario generale del Sappe, Donato Capece - deve far riflettere sulla condizione in cui vivono i detenuti e su quella in cui è costretto a operare il personale di polizia penitenziaria. Questi eventi segnano i nostri agenti, che spesso sono agenti giovani, lasciati da soli nelle sezioni detentive per la mancanza di personale. Servirebbero anche più psicologi e psichiatri vista l’alta presenza di detenuti con disagio mentale”. Dal sindacato appello al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: “Un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato. Servono provvedimenti rapidi, tutti siamo responsabili per queste morti assurde”. Tra i provvedimenti suggeriti, la dotazione di strumenti di difesa per gli agenti che hanno a che fare con la violenza di alcuni detenuti, oltre a un sistema di cura adeguato per quei detenuti le cui condizioni psichiche non sono compatibili con la convivenza in una struttura come il carcere. Palermo. “Soffochiamo in celle minuscole, ascoltateci o ci lasciamo morire” di Alessia Candito La Repubblica, 29 luglio 2024 Nella sezione 9 dell’Ucciardone. Viaggio nella sezione dei “puniti”, degli indisciplinati, dei sottoposti a sorveglianza speciale o isolamento, di chi protesta o si fa del male. “Voglio solo avere la possibilità di curarmi, mi sta consumando”. Davide - come per gli altri nome di fantasia, storia verissima - scollina da poco i vent’anni. Ha una grave forma di psoriasi, sulle sue braccia trasformate in piaga, le terapie normali non funzionano. “È una torcia umana”, dice chi lo ha incontrato. Ma, conferma persino una nota che il direttore ha inviato all’assessorato siciliano alla Sanità, non ci sono dermatologi, oncologi, cardiologi o pneumologi per i detenuti dell’Ucciardone di Palermo. L’oculista è disponibile quattro ore a settimana, gli psichiatri poco di più. Le 500 persone che lì stanno rinchiuse possono solo aspettare, sperando che la lista d’attesa negli ospedali pubblici sia più veloce del male che li consuma, che i nervi tengano mentre la paura sale, che frustrazione, rabbia e disperazione non abbiano la meglio. Dietro le sbarre c’è chi ha patologie importanti, come Luciano. Sieropositivo, con un linfoma e un enfisema polmonare - 8 mesi già fatti, 4 anni da scontare - aspetta che la sua domanda di trasferimento in un carcere dotato di un centro medico venga valutata. Francesco, cardiopatico e diabetico, nell’attesa si è spento. Davide non è riuscito a pazientare, ha dato in escandescenze, è finito alla Nove. La sezione dei “puniti”, degli indisciplinati, dei sottoposti a sorveglianza speciale o isolamento, di chi protesta o si fa del male. Ci stanno in 51, nelle scorse settimane, in quattro erano in sciopero della fame, della sete, delle terapie o di tutte e tre. Ma ci sono voluti quindici giorni e due ispezioni perché la notizia arrivasse al Tribunale di sorveglianza. Eppure Feisal, pur di farsi ascoltare, si era persino cucito la bocca con il fil di ferro. Per settimane ha rifiutato cibo, spiegazioni e rassicurazioni di chi lo ha incontrato. “Fatemi lavorare”, la richiesta che ha affidato a un compagno di cella, unico canale di comunicazione con il mondo. “Quella sezione va chiusa. È un ghetto nel ghetto”, dice il Garante cittadino per i diritti dei detenuti, Pino Apprendi. Se ne discuterà martedì, quando all’Ucciardone arriverà l’avvocato Mario Serio, del Collegio nazionale dei garanti. Nel frattempo, alla Nove si può solo aspettare che il tempo passi. Sperare di capitare in una cella in cui ci sia una porta a chiudere il bagno, che sia uno vero, non una turca. “In alcune è un cubicolo di un metro quadrato dove neanche ci si entra seduti”, dice Apprendi. Sono tutte microscopiche, eppure spesso ci si sta in tre. I 4 metri quadri di spazio minimo che la legge prevede per ogni detenuto sono illusione. Come la funzione rieducativa della pena. “Per favore, mi chiami per nome, qui nessuno lo fa”, ha detto Paolo a chi in carcere lo ha incontrato. Da quando la madre anziana non ha più le forze per affrontare il viaggio da Mazara del Vallo, è solo. “Mi basterebbe parlare con qualcuno un’ora al giorno”. A differenza della stragrande maggioranza dei detenuti della Nove, non è un ragazzino, ha cinquant’anni e molti li ha passati dentro. Avrebbe voluto seguire i corsi universitari che fuori non ha mai potuto permettersi. Ma per lui, niente borse di studio. Nel tempo vuoto della detenzione senza progetto, con una depressione clinica diagnosticata ad appena diciott’anni, per quattro volte ha provato a togliersi la vita. Ed è finito alla sezione nove. Per venti giorni ha rifiutato il cibo. “Esco fra un mese - mormora - se non trovo niente, mi impicco”. Dietro le sbarre la paura del dopo è sindrome comune. Soprattutto fra chi per anni non ha potuto fare altro che consumare a larghi passi la cella. “Quando li abbiamo incontrati - dice la consigliera regionale Pd Valentina Chinnici, che insieme al collega di Sud chiama Nord Ismaele La Vardera ha effettuato un’ispezione - ci ha stupito che fossero informati su attualità, politica nazionale, regionale. Poi ci hanno spiegato che per la maggior parte del tempo possono solo guardare la tv”. Oppure misurare avanti indietro per quattro ore al giorno un cortile di meno di 40 metri quadri pieno di sterpaglie e rifiuti, con a disposizione solo una turca senza neanche acqua. Che è poca ovunque in carcere, quindi una doccia al giorno a tutti deve bastare, anche nell’estate torrida siciliana, con l’Ucciardone che diventa forno in cui anche le pareti sono roventi. “Abbiamo chiesto all’Assemblea regionale di stanziare una piccola somma per comprare dei ventilatori”, dice La Vardera. Una toppa su una voragine. Perché all’Ucciardone manca tutto: progetti, educatori, mediatori e psicologi a sufficienza. Opportunità, per chi ci finisce. “Mio nonno rubava, mio padre pure, mi è sembrato normale fare lo stesso - racconta Luca -. Ho sbagliato, sto pagando. Ma senza un’alternativa, cos’altro potrò fare quando uscirò?”. E non c’è risposta che il sistema dia alla sua domanda. Teramo. La direttrice: “Evitati 100 suicidi, non esiste un caso Castrogno” di Diana Pompetti Il Centro, 29 luglio 2024 Dall’inizio dell’anno tre detenuti si sono uccisi e per Antigone il carcere di Teramo è come quello di Napoli Poggioreale: “Qui la professionalità di polizia e operatori salva le vite, ma la pena non può essere solo il carcere”. Quando si parla di diritti e Costituzione spesso, in questo Paese, le interpretazioni vanno in direzioni opposte. Succede per un sistema penitenziario che - tra sovraffollamento endemico delle celle, personale che manca, finanziamenti inadeguati e continui richiami del Consiglio d’Europa - rende sempre più arduo, quando non impossibile, un percorso di rieducazione che per la Costituzione dovrebbe essere garantito a tutti. Con i suicidi a cancellare vite. Nel carcere di Castrogno e in tanti altri come di recente ha raccontato il rapporto di Antigone che, proprio per il numero di detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, ha messo l’istituto teramano al primo posto in Italia insieme a quello di Napoli Poggioreale. Ma per la direttrice del penitenziario Lucia Avantaggiato “non c’è un caso Castrogno”. Da pochi mesi a Teramo con alle spalle 32 anni di attività in vari istituti penitenziari tra cui Lanciano e nel Dap, ha la consapevolezza di quel senso dello Stato che con cuore e coraggio può far cambiare le cose. Giorno dopo giorno. Esiste un caso Castrogno per numero di suicidi tra i detenuti? “Il carcere di Teramo non è un caso meritevole di cronaca per il numero di suicidi che nei primi sei mesi dell’anno sono stati tre. È un caso, sì, ma di eccellenza perché per tre suicidi 100 ne sono stati evitati. Il dato deve essere sempre contestualizzato, interpretato. Il contesto è fatto di persone portatrici di grande sofferenza anche psichica e psichiatrica. Voglio dire grazie alla professionalità e all’attenzione di operatori e polizia penitenziaria, tutti capaci di stare accanto al male, al crimine, alla disperazione, alla follia, trasformando le ferite in feritoie attraverso cui possa entrare la luce della speranza. Il carcere interviene dove tutto ha fallito, ma diventa anche opportunità di cambiamento. Tutto il personale svolge in situazioni estreme incomprensibili un lavoro difficilissimo a stretto contatto con il male, con la follia, con il disagio, con la disperazione e lo fa con professionalità, spirito di servizio e grande umanità. Molti sono i tentativi di suicidio, i propositi non compiuti perché intercettati e neutralizzati dagli operatori e molto è imputabile alla disperazione, all’assenza di speranza, alla malattia mentale, alla depressione”. Il carcere è in grado di dare risposte? “Il carcere fa tutto quello che può fare sia pure tra infinite difficoltà ed avversità. Vengono garantiti, ripeto pur se tra mille difficoltà, sostegno psicologico, psichiatrico, educatori, servizio sociale, volontari, religione, attivazione di risorse, soddisfacimento di bisogni personali e familiari, soluzione di problemi. Viene fatto l’impensabile per garantire ogni diritto previsto dalla Costituzione in un carcere che deve garantire soprattutto rieducazione”. Se tutto questo viene garantito che cosa non funziona? Quali possono essere le cause? “Molti dei detenuti che oggi sono in carcere non dovrebbero stare in carcere. Il carcere deve essere l’estremo rimedio. Invece, devo dire, che la magistratura usa con grande disinvoltura il carcere. Non ne conosce il senso. Un carcere inflitto a chi ha solo 21 anni per violazione della prescrizione del divieto di dimora non solo non serve, ma è devastante, preclude ogni possibile positiva evoluzione di personalità. Sempre che la fragilità non sfoci in disperazione e suicidio. L’articolo 27 della Costituzione usa il plurale “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. La magistratura vede solo il singolare. Solo carcere. Per tutto e per tutti. Indifferenziato. Così non fa né sicurezza sociale né rieducazione. Deve funzionare la prevenzione. Il carcere va riportato nel giusto perimetro”. Cosa pensa del nuovo decreto legge sulle carceri che secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio dovrebbe ridurre il sovraffollamento? “Non credo possa servire a cambiare”. Velletri (Rm). Irruzione delle forze dell’ordine dopo il fallimento delle trattative con i detenuti di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 29 luglio 2024 Rivolta nel carcere. Per ore i vertici dell’amministrazione penitenziaria hanno tentato di far ragionare i reclusi che non volevano rientrare nelle celle del Reparto D e avevano dato fuoco ai materassi. Analoghe iniziative a Regina Coeli. Prima la trattativa, durata per ore, con i vertici dell’amministrazione penitenziaria. Quindi in serata l’irruzione nel carcere di Velletri da parte delle forze dell’ordine in assetto antisommossa. Fra loro polizia, carabinieri e Gom, il Gruppo operativo mobile della Penitenziaria, creato ad hoc anche per affrontare situazioni di questo genere. Che nelle ultime settimane si sono ripetute in diverse carceri d’Italia. Nelle ore scorse anche a Regina Coeli, Terni e Rieti, con proteste diffuse e rifiuti di rientrare in cella. Non è chiaro al momento quante persone siano state fermate per la rivolta finita con l’intervento degli agenti e dei militari. I detenuti avevano incendiato i materassi e distrutto alcune telecamere di vigilanza, prendendo a più riprese il controllo dei locali del Reparto D. Danni per decine di migliaia di euro, ma soprattutto una rivolta che si è protratta per ore, con i vertici dell’amministrazione penitenziaria impegnati in una delicata trattativa con alcune decine di detenuti del carcere di Velletri, che hanno occupato il Reparto D, quello dei detenuti comuni con pene definitive, in regime di vigilanza dinamica. La protesta dei detenuti è scoppiata nel primo pomeriggio quando si sono rifiutati di rientrare nelle celle. Poco dopo in 300 hanno fatto la stessa cosa a Regina Coeli, dopo che c’erano stati disordini nella giornata di sabato scorso. In questo caso i reclusi non sono tornati dietro le sbarre per il timore di provvedimenti nei loro confronti. A Velletri, già coinvolta in altre proteste nei mesi scorsi, dove c’è un sovraffollamento di 182 reclusi (sono 594 invece di 412), sono state rotte alcune telecamere e bruciati i materassi delle celle. Quindi i detenuti si sono barricati nei locali, mentre i vigili del fuoco cercavano di spegnere i roghi appiccati. Sul posto Penitenziaria, polizia e carabinieri insieme con il magistrato di sorveglianza. Richiamati gli agenti fuori servizio e quelli di altri uffici della Penitenziaria. A rendere nota la notizia della rivolta è stato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che - spiega - “al di là della propaganda, continua a essere abbandonata a se stessa”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, che rivela un’altra protesta giorni fa a Rieti, sollecita “provvedimenti concreti e risolutivi: espulsioni di detenuti stranieri, invio tossicodipendenti in comunità di recupero e di detenuti psichiatrici nelle Rems o strutture analoghe”. Anche per Massimo Costantino, leader della Fns Lazio, “bisogna diminuire il numero dei detenuti”. Maurizio Somma, segretario per il Lazio del Sappe, riferisce che “la situazione sia peggiorata: inutili le trattative con direttore, comandante, Garante dei detenuti, magistrato di Sorveglianza e presidente del Tribunale di Roma. Inizialmente, la situazione era rientrata in due sezioni, ma poco fa si è destabilizzata di nuovo in tutte le sezioni del Reparto D. Hanno dato fuoco nuovamente, una sezione è stata resa ormai inagibile, stanno intervenendo i vigili del fuoco, in più sono intervenuti in ausilio colleghi di altri Istituti, Gom, polizia di Stato e carabinieri all’interno dell’istituto”. Terni. I detenuti protestano per il sovraffollamento e non rientrano in cella di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 29 luglio 2024 Una sessantina di detenuti di una sezione della media sicurezza da ore non rientrano nelle celle. La protesta degli ospiti della sezione L della media sicurezza, italiani e stranieri, è esplosa contro il sovraffollamento del penitenziario ternano, dove ci sono 150 detenuti in più rispetto alla capienza prevista. La decisione di non rientrare nelle celle è legata anche alle temperature da record che rendono complicata la quotidianità dei detenuti, che possono contare solo sui ventilatori donati dalle associazioni di volontariato che operano in carcere. La situazione viene tenuta sotto stretto controllo e la speranza è che la protesta non degeneri. “Ci auguriamo che non si faccia male nessuno - dice Fabrizio Bonino, segretario per l’Umbria del Sappe che sta seguendo l’evolversi della protesta. Si cercherà di sciogliere questa rimostranza e speriamo che durante le operazioni per convincere i detenuti a rientrare nelle celle non ci siano conseguenze per nessuno. La certezza è che sabato sera, quando una sessantina di reclusi della media sicurezza hanno iniziano a protestare rifiutandosi di rientrare in cella per la situazione inumana che stanno vivendo, nell’istituto ternano c’erano solo nove poliziotti della penitenziaria al lavoro”. La comandante della polizia penitenziaria, Vanda Falconi, ha informato tutti gli organi preposti alla sicurezza e da ieri mattina sia i carabinieri che la polizia presidiano la zona antistante il penitenziario di Sabbione per monitorare la situazione. “Per ora - dice Fabrizio Bonino - dicono che la manifestazione è pacifica ed interessa solo quella sezione. Il problema può essere l’effetto emulazione delle altre sezioni. Il personale in servizio è pochissimo purtroppo, intervenire è impossibile. Al momento a Sabbione ci sono 570 detenuti, un numero da record”. Il segretario del Sappe, preoccupato per l’evolversi della situazione, si augura che intervenga un gruppo di intervento regionale che riporti in condizioni di sicurezza la sezione L e l’intero istituto e torna a denunciare la situazione degli organici del corpo in Umbria e a Terni: “Per una discutibile decisione dell’attuale provveditore in missione, non è stato dato corso ai provvedimenti dell’Emilia Romagna del personale che non è arrivato nelle carceri umbre mentre i colleghi che dall’Umbria avevano il diritto ai trasferimenti sono partiti tutti. Intanto oggi ancora una volta viene messo in discussione lo Stato, gli uomini e le donne della polizia penitenziaria ancora una volta hanno dimostrato grande coraggio e senso di appartenenza e abnegazione nel fronteggiare una situazione esplosiva”. Lanusei (Og). Minorenni in arrivo nel carcere. La Uil: “Decisione scellerata, struttura non idonea” L’Unione Sarda, 29 luglio 2024 Dopo un primo alt dal Ministero arriva la contro-decisione. Uil: “Per l’Istituto è una condanna alla chiusura”. Minorenni in arrivo al carcere di Lanusei. La struttura, che “non è idonea” al trasferimento dei nuovi detenuti, come tuonano i sindacati, si starebbe preparando alla decisione del Dipartimento della Giustizia minorile. Per la Uil si tratta di una “decisione scellerata che condanna l’Istituto ad una velocissima chiusura. Nonostante l’annuncio del Capo del Dipartimento della Giustizia minorile Antonio Sangermano e del sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari che durante l’ultima riunione con i rappresentanti sindacali nazionali avevano scongiurato l’invio di detenuti minori per l’inidoneità della struttura, pare sia arrivata improvvisamente la clamorosa contro decisione. I detenuti minorenni pare che infatti verranno comunque assegnati, anche se dal punto di vista della sicurezza e degli spazi la struttura non sia stata reputata idonea e rende impossibile rispettare le normative che regolano la vita in carcere per i minorenni, radicalmente diverse rispetto ai detenuti adulti”. “La commissione inviata dallo stesso Dipartimento è stata categorica: “L’istituto di Lanusei non è idoneo per i minori sotto tutti i punti di vista”, di conseguenza questa forzatura per noi significa che l’Amministrazione penitenziaria ha deciso di condannare il San Daniele alla chiusura mascherata da una improbabile riconversione ad istituto per minori”, a renderlo noto il segretario generale della Sardegna della Uil Pa Polizia Penitenziaria Michele Cireddu che aggiunge: “Riteniamo che questo cambio repentino rappresenti una decisione scellerata nei confronti dei detenuti minorenni costretti ad essere assegnati in una struttura non idonea per loro, mettendo in chiara evidenza le contraddizioni di un amministrazione che sta condannando a nostro avviso inesorabilmente il carcere di Lanusei alla chiusura. Nella penisola i detenuti che il Dipartimento della Giustizia minorile si appresta ad inviare, hanno distrutto intere sezioni detentive, hanno messo in atto evasioni rocambolesche ed aggressioni a danno degli operatori, di conseguenza sembra abbiano deciso nel nome della provvisorietà, di sacrificare una struttura che non reggerebbe per più di qualche giorno. Per noi è una chiusura annunciata”. Prato. L’esodo dei giudici verso Firenze rallenta la macchina della giustizia di Paolo Nencioni Il Tirreno, 29 luglio 2024 Da settembre saranno trasferiti quattro magistrati e si faranno meno processi. Il presidente del Tribunale: “Un disastro”. Un casino, un disastro”. Questa, nelle parole del presidente del Tribunale Francesco Gratteri, è la situazione della giustizia pratese alla vigilia delle vacanze estive e in vista della ripresa di settembre, che sarà più difficile di sempre. Il disastro è rappresentato dal trasferimento di quattro magistrati (Bruno nel civile, Sordi, Chesi e Scarlatti nel penale) che riducono all’osso le risorse per celebrare i processi. “Ho rinunciato a capire” commenta Gratteri, che dal 7 settembre sarà in pensione. Ha rinunciato a capire le logiche che regolano l’assegnazione e la distribuzione dei magistrati nei Tribunali del Belpaese. E se non l’ha capito lui che li frequenta da una vita, figuriamoci noi. La conseguenza dei trasferimenti di settembre è che bisognerà spostare due magistrati (Tesi e Del Vecchio) all’ufficio del giudice per le indagini preliminari, che altrimenti non potrebbe funzionare. Così facendo rimarranno solo quattro magistrati per il penale in Tribunale, si potrà mettere insieme un solo collegio giudicante, dunque si faranno meno udienze (non che se ne facessero molte nemmeno prima) e la macchina della giustizia rallenterà dopo un periodo di relativa calma durante il quale erano stati raggiunti numeri dignitosi in Tribunale. Si tornerà alla situazione “imbuto” o “collo di bottiglia”: la Procura continuerà a fare le sue indagini e a chiedere i rinvii a giudizio, il giudice per le indagini preliminari fisserà le udienze e nel caso ordinerà i processi, che però slitteranno nel tempo, perché non ci sono abbastanza magistrati per giudicare se un imputato è colpevole o innocente. Anche nel settore monocratico, quello dei reati meno gravi ma che comunque possono destare allarme sociale e richiedono risposte certe: da cinque udienze mensili si passerà a quattro. Dei quattro magistrati sul piede di partenza, tre hanno ottenuto il trasferimento a Firenze. Un’attrazione fatale, quella del Palazzo di giustizia di Novoli, che ha segnato i percorsi di molti magistrati passati da Prato e che è molto facile da spiegare: una sede più prestigiosa in ottica di carriera e carichi di lavoro che spesso sono la metà di quelli di Prato. Questo disastro annunciato forse si poteva evitare se il Csm avesse sospeso l’efficacia delle delibere di trasferimento, ma la regola dice che lo si può fare solo quando la scopertura degli organici nel Tribunale dal quale si muovono i trasferiti sia almeno del 35%. Al ministero hanno fatto i conti e hanno concluso che la scopertura di Prato ammonta al 34,7%, un’inezia che cambia tutto. “Vabbè, avrebbero potuto arrotondare, lo fanno anche al supermercato” ironizza amaramente il presidente Gratteri. Ma le logiche del ministero sono altre e i trasferimenti non sono stati sospesi. E così, mentre in Tribunale hanno appena finito di cambiare i pavimenti e prima o poi verrà inaugurata una scala d’emergenza apparentemente inutile accanto all’ingresso, continuano a scarseggiare gli “inquilini”, quelli che dovrebbero mandare avanti una macchina che ogni tanto, anzi spesso, perde colpi. Roma. “A 12 anni guadagniamo 100 euro al giorno per aiutare i pusher” di Irene Famà La Stampa, 29 luglio 2024 Viaggio tra i ragazzini arruolati dai clan nelle piazze di spaccio romane. Fino a cento euro al giorno per aiutare i pusher: “Via, ci sono gli sbirri”. Un lungo fischio. “Le guardie, le guardie!”. Se hai dodici anni e vivi nelle piazze di spaccio della Capitale sai bene come funziona. Sai bene che non appena vedi una divisa devi iniziare a correre e a fischiare. Devi lanciare il segnale: “Ci sono gli sbirri”. E così fa quel ragazzino dal taglio sbarazzino e lo sguardo da duro nonostante la giovanissima età. Il nome? Agli estranei non lo dice. È stato arruolato nell’esercito dei bambini vedetta. E addestrato a dovere. Soldato dello spaccio, lui come tanti altri. Ecco la nuova frontiera del racket dei minori non accompagnati. Da soli lasciano il loro paese e arrivano in Italia. Finiscono nei centri d’accoglienza, vengono intercettati in strada e inseriti nella piramide del commercio degli stupefacenti. Roma, Napoli, Palermo. Non hanno documenti, nessuno sa davvero chi sono. E non hanno nulla da perdere. Cento euro al giorno per fare la sentinella sono più di quanto potessero sperare. La criminalità lo sa e ne approfitta. I più piccoli non sono nemmeno imputabili, per i più grandicelli non è necessario pagare un avvocato. Sono manovalanza, non parte della famiglia. E soprattutto non hanno nulla da perdere. Si parte dal Quarticciolo, quartiere popolare ad est di Roma. Palazzoni dall’intonaco scrostato e dalle scritte sul muro che raccontano malavita e amori da strada: “Quel proiettile è per te”, “Syria ti amo”. Scheletri di motorini e auto rubate e date alle fiamme sono ammassati nel cortile del quadrilatero a lato di corso Palmiro Togliatti. Una sciabola è nascosta vicino a un albero, un martello e una pistola (riproduzione di una vera, ma questo verrà accertato solo dopo) sono appoggiati dietro le centraline dell’acqua: da utilizzare quando arrivano “le guardie” o gli estranei. Le vedette sono tutte lì, sedute sul balconcino di un bar. Quando è il loro turno, salgono sui monopattini e iniziano a perlustrare la zona. Don Antonio Coluccia, il prete salentino sotto scorta che sfida i clan, ne intercetta una. Avrà sì e no quindici anni, arriva dal Marocco. “Ma lascia perdere sta cosa. Che c’è qua? Che c’è? Ci sono gli anni di carcere”. Il ragazzo ha paura, si guarda intorno: “Eh prete c’hai ragione”. Il parroco lo incalza: “Quanto dura il tuo turno? Sei, sette ore?”. L’adolescente ribatte: “Boh, sì. Ma, con tutto il rispetto, questo esce dalla parola vostra”. Prende e scappa. Chi parla troppo, da quelle parti, si guadagna l’epiteto di infame. Don Coluccia afferra il megafono: “Qui si incrociano povertà e mancanza di lavoro”. Il parroco denuncia “vuoti istituzionali. E spacciatori nord africani con i clan italiani stanno cercando di minare questo territorio che invece va riscattato”. Le parole sono nette: “I clan hanno consenso sociale perché lo Stato, qui, non c’è”. Pensa ai giovani. Che radunati in un angolo osservano spavaldi. Alzando il dito medio. “I ragazzi di questo territorio non sono all’asta”, tuona don Coluccia. Poi trasmette la canzone di Fabrizio Moro: “Pensa. Prima di sparare, pensa. Prima di dire e di giudicare, prova a pensare. Pensa che puoi decidere tu”. Due signore, solo due in quel crocevia di palazzoni, scendono in cortile. Una di loro ha una figlia che studia chimica all’università. “Guardi, nessuno si affaccia. Io lo faccio per mia figlia. Magari poi me menano. Qui è così. E io ci sono nata, ho visto tutte le trasformazioni. Ora usano pure i bambini”. Lo stesso succede a Tor Bella Monaca, definita la piazza di spaccio più grande d’Europa. Quarto municipio che ospita venticinque centri d’accoglienza sui cinquanta di Roma. I nomi di chi gestisce quello che gli investigatori definiscono “il supermercato della droga” sono altisonanti: le famiglie Longo, Lionello. Pure i Moccia, vicini alla Camorra. Anche lì hanno compreso che i minori non accompagnati sono un affare. Soprattutto se impiegati nel commercio della cocaina, dell’eroina e del crack. In via dell’Archeologia ogni targa nuova viene seguita da vedette che impennano sugli scooter. E seguono l’auto, l’accerchiano. Come a dire: “Questo è il nostro territorio”. Prima i ragazzini-vedetta li ospitavano nei garage, sotto dei palazzi che gridano vendetta al cospetto di Dio. Nei mesi scorsi i box sono stati sgomberati. All’interno restano macerie, vecchie griglie, immondizia. Un poster di Tupac, rapper americano ammazzato a colpi di pistola da una gang a Las Vegas. E le giovani sentinelle ora le mettono negli alloggi occupati. Almeno possono riposarsi. Il resto è lavoro: avanti e indietro, da mattina a notte fonda, ad assicurarsi che non arrivino le forze dell’ordine. “Dobbiamo essere realisti - dichiara Franco Nicola, presidente del Quarto municipio - Le bande criminali, perlopiù di nordafricani, si stanno battendo per impadronirsi della piazza di spaccio. Sfruttando i minorenni. Non si può sottovalutare la questione”. Solo l’altro giorno, un diciottenne di origine tunisina ha accoltellato un connazionale di 27 anni. L’ha colpito al braccio, al petto, gli ha perforato un polmone. La vittima è gravissima in ospedale. Il diciottenne, in carcere, si rifiuta di parlare. Prima regola? L’omertà. Il resto lo mormorano lì intorno: “Questioni di droga”. A San Basilio, altra zona di spaccio della Capitale, è tutto più in ordine. La chiamano piazza della Coltellata, per una resa dei conti davanti a un bar. I “boss”, e il termine non è errato perché sono eredi dei Marando, noto clan della ‘ndrangheta, si ritrovano davanti al circolo di Padel. La criminalità organizzata calabrese sembra avere tutto sotto controllo: lasciare il territorio in mano ai ragazzini è un rischio troppo alto. Qualcuno c’è. Ed è monitorato con attenzione. Sul racket dei minori non accompagnati finiti in mano ai narcos nostrani indaga la polizia. Approfondimenti complessi, volti a fare luce sulle dinamiche delle piazze di spaccio. “È un fenomeno che continua ad allarmare - dice Fabio Conestà, segretario generale del movimento sindacale autonomo di polizia Mosap - Si tratta di ragazzini, spesso molto piccoli, intorno ai dodici e tredici anni, che finiscono in mano a dei criminali che gli rubano il futuro”. Dalla periferia di Roma arriva una lamentela: “Nessuno ci considera. Mai”. Le vedette lasciano passare le auto dei clienti abituali. Macchine di lusso. “Arrivano pure da Roma nord”, spiegano. Quando si tratta di affari, periferia e centro sono distinzioni che non contano nulla. Milano. Premio Letterario “Due mondi allo specchio” per cittadini e detenuti primamilanoovest.it, 29 luglio 2024 Promosso dall’associazione Gruppo Carcere Mario Cuminetti in collaborazione con la biblioteca di Baranzate il Premio Letterario “Due mondi allo specchio”. L’associazione Gruppo Carcere Mario Cuminetti bandisce il Premio Letterario “Due mondi allo specchio” in collaborazione con la biblioteca “Il Quadrato” di Baranzate. Tema dell’edizione 2024 è “La scrittura: quello che si prova, si sogna, si vive”. L’iniziativa viene svolta in collaborazione con la Biblioteca Centrale della Casa di Reclusione di Bollate e la Biblioteca Crescenzago del Comune di Milano. La finalità - Finalità del premio è dare espressione al dettato dell’articolo della Carta Costituzionale, secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La partecipazione al Premio è aperta a tutte le detenute e i detenuti del carcere Bollate e a tutte le cittadine e i cittadini residenti nella provincia di Milano. Il premio è diviso in due sezioni. La prima è “Un mondo allo Specchio” per i cittadini residenti nella Città Metropolitana, la seconda è “Oltre lo Specchio” per i detenuti di Bollate. L’edizione è costituita da due fasi: una prima con incontri fra detenuti e cittadini dedicati alla reciproca conoscenza e alla discussione del tema del premio; una seconda di partecipazione al premio e alla premiazione. Per i primi tre classificati di ogni sezione il premio sarà un cesto di prodotti gastronomici. Gli elaborati dovranno essere consegnati entro il 15 gennaio 2025. E-book dell’Ordine nazionale dei Giornalisti su informazione e giustizia odg.it, 29 luglio 2024 Uno strumento rivolto ai giornalisti, per aiutarli ad orientarsi tra i più recenti interventi del legislatore in materia di informazione e giustizia; un’occasione per stimolare una riflessione, non senza qualche preoccupazione, sulle limitazioni che, passo dopo passo, il legislatore sta introducendo, con il rischio di comprimere il diritto dei cittadini ad essere compiutamente e correttamente informati. È l’obiettivo che si pone “Informazione e Giustizia”, l’ebook realizzato dal Gruppo di lavoro su “Informazione e Giustizia” del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, coordinato dal consigliere, membro dell’esecutivo, Gianluca Amadori e composto dai consiglieri Riccardo Arena, Oreste Lo Pomo e Pierluigi Roesler Franz. Si tratta di una pubblicazione, scaricabile dall’home page del sito www.odg.it, che analizza le principali criticità, illustra le proposte avanzate dall’Ordine dei giornalisti e fa il punto sugli interventi e sulle iniziative assunte dal dicembre del 2021 sul fronte della difesa della libertà di informazione. Tra le tematiche affrontate figurano le novità introdotte dal decreto sulla presunzione d’innocenza, che tanti problemi stanno creando al lavoro dei cronisti, le problematiche connesse alla normativa sul diritto all’oblio e le preoccupazioni connesse alla proposta di sanzioni economiche spropositate per i casi di diffamazione a mezzo stampa. E ancora la denuncia dell’aumento di minacce e intimidazioni a danno dei giornalisti, la richiesta di interventi concreti per contrastare il fenomeno delle cosiddette “querele bavaglio”, le iniziative per sostenere l’approvazione dell’European Media Freedom Act. Scarica il libro: https://www.odg.it/wp-content/uploads/2024/07/informazione-e-giustizia-11.07.2024.pdf Il dottor Stranamore è un’altra volta tra noi di Massimo Cacciari La Stampa, 29 luglio 2024 Muti i filosofi e i giuristi, le assemblee parlamentari ridotte a fantasmi, le istituzioni relegate in un angolo. Dissolto il velo d’ipocrisia, la grande politica è tornata a imporsi in tutta la sua tragica volontà di potenza. Chiediamocelo dunque - poiché forse di fronte all’immagine della catastrofe potremmo cercare con più forza di evitarla: non è stato che un intervallo la non-guerra, o la guerra per interposta persona, tra i grandi spazi imperiali dopo la Seconda guerra mondiale? Nient’altro che una pausa per meglio prendere la rincorsa in vista della definitiva “sistemazione” del pianeta? Perfino l’atomica, questa formidabile arma di equilibrio, sembra aver perduto il suo potere deterrente. Forse in qualche laboratorio del grande complesso militare-industriale si è scoperto il modo di usarla senza finire tutti sottoterra. Così come si inventano virus e poi vaccini, armi batteriologiche e poi antidoti. Soltanto la Tecnica, è noto, può, secondo la vox populi, risolvere i problemi che essa stessa genera. Se siamo certi di poter usare la Bomba senza che ci colpisca come un boomerang perché non usarla? Chi ha detto che è morto il dottor Stranamore? E chi dice che oggi finirebbe male? Lo puoi fare? - dice ancora la vox populi - E allora fallo. Quale Giudice, d’altra parte, quale Autorità terza potrebbe impedire che la logica della guerra (ancora) non dichiarata, ma in atto, si svolga “iuxta propria principia”? Se la filosofia se ne va misera, via dal mondo dove a parlare è solo la volontà di potenza, la scienza giuridica non conosce disfatta minore. Sognava, un tempo non certo remoto, addirittura una giuridicizzazione del conflitto politico. Contribuiva, coi suoi massimi esponenti, alla creazione di Alte Corti di Giustizia, di Corti penali internazionali. Si batteva per conferire all’Onu effettivi poteri sovranazionali, superando la procedura dei veti. E citavano anche i filosofi i nostri giuristi, per dare fondamento alle loro teorie del diritto internazionale: i Rawls e gli Habermas - e maledicevano il cupo realismo dei Miglio e degli Schmitt. La grande politica è tornata a imporsi in tutta la sua tragicità. Volontà di potenza contro volontà di potenza. E schiacciate nel mezzo le istituzioni che ne avrebbero dovuto giudicare gli atti e anche giungere a sanzionarli. Esplicitamente ormai queste istituzioni sono considerate “nihil” dai detentori del potere effettuale. Nihilismo concreto: ogni soggetto non dotato di potere in atto è niente, semplicemente non è. Parla, dichiara, ma la parola non ha più valore. Neppure più il velo dell’ipocrisia sta a coprire la realtà che il diritto vigente è il diritto del più forte. Ma proprio questo è il problema: chi è il più forte? Come lo si deciderà? Tacciono i filosofi, muti i giuristi, le assemblee parlamentari ridotte a fantasmi. Non ci sarà altro arbitro, allora, che il conflitto in armi? La decisione spetterà soltanto al vincitore? Così è sempre stato e così è destino avvenga ancora, se tutti gli istituti di mediazione, tutti i luoghi di discussione e compromesso vengono smantellati. Quando la rotta non è più segnata dalla volontà del confronto e del compromesso - o quando sembra che il perseguirlo non corrisponda più ai propri interessi - la situazione normale trapassa nell’imprevedibile. Normale diviene il susseguirsi di situazioni eccezionali. Virus locali ovunque in agguato che possono in ogni istante esplodere nella Pandemia. E ciò moltiplica le istanze di controllo, di sorveglianza, il rafforzamento spasmodico di barriere di ogni tipo, l’accentramento delle funzioni esecutive. O si esce dalla guerra tra i grandi spazi imperiali o questa prospettiva distopica si svilupperà inesorabilmente. L’incertezza sul futuro genera paura. Sembra non esservi più nulla intorno a noi che possiamo dire capace di dar forma al futuro. Un grande scrittore del Novecento, Elias Canetti, ha parlato di questa situazione in pagine memorabili. “Questa cattedrale con i suoi ottocento anni potrebbe ridursi in polvere la prossima notte… questa città traboccante di vita crollare in un quarto d’ora”. Se non avvertiamo la realtà del pericolo non potremo superarlo. Se lo comprendiamo, invece, può crescere la possibilità di salvezza. L’incertezza che domina sempre più la nostra vita deriva certo anche dal fatto che non possiamo più rivolgerci al potere dello Stato come al regolatore in ultima istanza. Noi “fingiamo” ancora che il governo si costituisca nel sistema dello Stato, ma in realtà l’Auctoritas che decide è la risultante di una serie straordinariamente complessa di atti, mediazioni, conflitti tra oligarchie economico-finanziarie globali, in cui si incarnano le funzioni di Ricerca e Sviluppo, e dimensioni amministrativo-burocratiche particolari degli apparati statuali o di insiemi di Stati, come nel caso dell’Unione Europea. È questo il “luogo” del Politico oggi - “luogo” che coinvolge non solo la navicella del pianeta, ma lo spazio in cui essa ancora naviga. È “male” questa situazione? A vedere la resistenza dei governi dei vecchi Stati europei e la senile gelosia con la quale proteggono gli antichi privilegi, si direbbe di sì. Ma forse è proprio il carattere globale del confronto tecnico-economico e la mescolanza di interessi che esso produce a contenere e frenare gli appetiti egemonici di quei soli Stati in grado di svolgere ancora una propria politica, cioè i grandi Imperi. Forse è proprio lo “stacco” tra statuale e effettiva potenza politica a trattenerci sull’orlo della catastrofe. Ma non potrà durare se gli Imperi non sapranno interrogarsi su cosa significhi guerra oggi, su che cosa per essi voglia dire vittoria. È possibile vincere la Guerra? E le guerre debbono per forza essere condotte attraverso massacri e distruzioni? La Guerra non può essere vinta. Le guerre sì, ma senza necessariamente ricorrere all’antico, crudele, barbaro gioco delle armi. A cosa porta la vittoria militare? A cosa ha portato in Iraq? Nessuna vittoria “a ferro e fuoco” può più portare alla sottomissione della nazione vinta. Figurarsi nel caso di grandi spazi culturali, di millenari Imperi, se è immaginabile la loro umiliazione. Il “metodo” non può che essere quello della competizione sul piano complessivo della Tecnica: sviluppo, innovazione, efficienza amministrativa. E anche modello culturale, giuridico. Su questi piani la vittoria può essere reale, l’egemonia effettiva. Fin quando vi saranno uomini vi saranno nemici, diceva l’umanista Petrarca. Ma non è affatto necessario che i nemici siano così ciecamente tali da pensare di poter vincere soltanto rischiando con la Guerra l’auto-distruzione. Così il furore cieco travolge la speranza di Domenico Quirico La Stampa, 29 luglio 2024 Val la pena mentre il vortice mediorientale, che è carne e sangue, ancor più si ingarbuglia e si è a un passo dal nuovo fronte libanese di guerra, ricordare l’irruente e incostante Solimano della “Gerusalemme” del Tasso. Lo paralizza a tratti la visione intima della tragedia in cui è irretito, ma è incapace egualmente di cedere ai suggerimenti della ragione. Quando dall’alto della torre di Davide vede l’inizio del disastro dell’esercito radunato, a Gaza!, dal re d’Egitto, come per radioscopia gli appare oltre la mischia una idea astratta: “l’aspra tragedia dello stato umano”. Eppure nonostante questa lucidità e preveggenza si getta nella mischia perché la sua “è opera di furore più che di speme”. Vogliamo apporre questo verso come capovolto esergo della attuale condizione di Netanyahu e di Israele? Nei nove mesi della guerra di Gaza che ha permanenti maschere di sterminio ci sono alcuni punti fermi. Israele ha perso la guerra con Hamas, l’ha persa perché dopo il massacro del sette ottobre si è posto da solo nella condizione di non poter invertire quella insanguinata e bruciante dimostrazione di vulnerabilità. In ogni guerra, prima ancora delle tattiche e dei mezzi con cui si intende combattere, ciò che è decisivo è la definizione del punto in cui si proclamerà la vittoria, in cui sarà onorevole fermarsi. È dove Netanyahu ha sbagliato, anche perché la sua biografia politica non gli dava scelta: ha annunciato e promesso che avrebbe ottenuto la ricostruzione della intangibilità, avrebbe ricucito a cannonate una deterrenza assoluta (che era peraltro da tempo più mito che realtà). Gli serviva non la sconfitta parziale di Hamas, forse realizzabile, ma il totale annientamento fisico, aritmetico, dei jihadisti palestinesi. Risultato concettualmente e praticamente impossibile quando si ha a che fare con guerriglieri mescolati a una popolazione di due milioni di civili. Per ammettere tutto questo occorreva personaggio di ben altra statura che il premier israeliano, dalla infinita peripezia storica un leader che avesse appreso la retorica nuda dei profeti. Per cancellare il sette ottobre, l’umiliazione dell’esser stati colti di sorpresa, le immagini dei miliziani che scorrazzano e uccidono dentro Israele, gli ostaggi portati via brutalizzati e umiliati (il riapparire antico dell’ebreo come docile bestia da macello la cui negazione è la ragione di Israele) si è avviata non una offensiva di accorta contro guerriglia, ma una guerra biblica, ovvero assoluta, senza limiti, estirpatrice. A Gaza si è riproposta la furia implacabile delle guerre di Giosuè, una guerra di dio con la pratica dell’anatema, la strage di tutti i nemici prima di congedare le truppe al grido “alle tue tende, Israele! “. Da nove mesi Tzahal, frustrato, sempre più impotente nonostante le tonnellate di bombe che arano sabbia, baracche e uomini, sforna comunicati allungando le addizioni di miliziani neutralizzati, di capi e sottocapi eliminati, di”covi”carbonizzati. Ma non riesce ad arrivare a un punto finale. È sempre una spanna più in là. Anche gli americani in Vietnam, un altro brano di storia contemporanea da deglutire, ogni sera per i telegiornali in patria preparavano le cifre dei vietcong eliminati. Assicuravano al Presidente che secondo le statistiche i viet non potevano più esistere: Abbiamo praticamente vinto…eran cifre di fantasmi. Ad Hamas basta conservare un miliziano vivo, o che Sinwar resti imprendibile. E ogni proclama di vittoria israeliana è smentita. Conseguenza ancor più negativa e forse irreparabile: il modo in cui è stata condotta la rappresaglia ha reso tutti motivi di discordia sullo stato ebraico, la possibilità di convivenza con i palestinesi condensati nella ipocrita formuletta “due popoli, due Stati”, trascurabili e secondari. Hamas ha imposto con la strage una soluzione totale. C’è un solo argomento vero su cui si ritorna sempre, quello delle origini: lo Stato di Israele è nato a torto, la sua stessa esistenza è una iniquità e un sopruso che si può correggere solo riportandolo alla inesistenza. Qualunque cosa abbia fatto o farà Israele sarà di natura ingiusta, bacato da un peccato originale, incancellabile, definito con sommaria teologia, colonialismo e imperialismo. Un giudizio non basato sulla politica ma su un fatto avvenuto, irrevocabile, quindi come il passato. Da cui consegue la certezza escatologica e politica che i palestinesi e il mondo arabo lo elimineranno come hanno espulso i crociati dalla Storia del vicino oriente. Ora si delinea per Netanyahu un secondo possibile baratro: nascondere una sconfitta cercando un altro nemico da battere, il rivale del fronte nord, il partito-esercito libanese di Hezbollah: migliaia di combattenti ben inquadrati e armati pesantemente, 150 mila razzi in grado di sfiancare con il numero il sistema di difesa israeliano e colpire le grandi città. Il pilastro del progetto iraniano del “cerchio di fuoco” attorno allo stato ebraico. Da mesi, via via che la sabbia di Gaza seppelliva le certezze di rapida vittoria, colpire a nord, saldare i conti anche con i fedeli ascari degli aytollah, è diventata più che una tentazione, l’azzardo che può far tornare i conti, solo una questione di tempo. Anche per ragioni interne che forse pesano di più che le proteste dei parenti degli ostaggi. Qui ci sono sessantamila cittadini israeliani fatti allontanare ad ottobre per precauzione da cittadine e villaggi sotto tiro di Hezbollah. Sono loro la quinta colonna dei guerriglieri sciiti. Esercito e governo avevano promesso che dopo pochi giorni sarebbero tornati a casa. Case e fattorie sono distrutte e la rabbia per esser dimenticati trabonda. Come i civili di Gaza, bersaglio inerme delle roche bestemmie delle cannonate, non sono loro che fanno la grande Storia, ma la grande Storia si fa purtroppo anche con loro. Medio Oriente. Il Libano e la strage di bambini, Israele verso un nuovo fronte di Renzo Guolo* Il Domani, 29 luglio 2024 Dopo il razzo sul campetto di calcio della cittadina drusa di Majdal Shams, si rischia un’altra crisi in Medio Oriente. I caccia Idf hanno già colpito postazioni Hezbollah. L’ipotesi dell’errore balistico. I ministri contestati ai funerali. È sempre più sottile la linea rossa che impedisce l’apertura del secondo fronte di guerra mediorientale - o terzo se si include quello yemenita. Il missile sul campetto di Majdal Shams, che ha fatto strage di ragazzi drusi, induce Israele a promettere una “risposta ampia”, di cui si sono già viste le avvisaglie nella notte tra sabato e domenica, quando i caccia con la Stella di David hanno colpito postazioni e strutture di Hezbollah. In particolare nell’area di Shebaa, zona da sempre teatro di scontri tra Partito di Dio e Idf - l’area delle “fattorie”, sotto controllo israeliano, è rivendicata da Hezbollah come parte integrante del territorio libanese - da dove sarebbe partito il razzo che ha colpito il villaggio druso del nord del Golan. Razzo, di fabbricazione iraniana, che aveva come probabile bersaglio la brigata dell’Idf sul Monte Hermon, finito, invece, sulla sfortunata località. Per Israele, il Golan, occupato dopo la guerra del 1967 e annesso unilateralmente nel 1981, è territorio nazionale: siano o meno d’accordo comunità internazionale, siriani, drusi. Dunque, in base alla dottrina strategica vigente, fondata sul mantenimento della deterrenza, l’aggressore sarà inesorabilmente colpito. Il punto è come, oltre il quanto, perché solo la gradazione della rappresaglia può tenere in forma la guerra, altrimenti destinata a deflagrare con conseguenze imprevedibili. Per evitare simili sviluppi, il Partito di Dio, così come il governo libanese, adombra l’ipotesi che possa essersi trattato di “un errore”, dunque di balistica, non di volontà politica. E in effetti, come si è visto dalla reazione dei locali contro i ministri israeliani presenti alle esequie, contestati e accusati di aver abbandonato a sé stessi quei territori annessi per ragioni strategiche, Hezbollah non ha interesse a colpire i drusi, semmai a soffiare sul fuoco delle loro tensioni con Israele. Obiettivo che una voluta strage di innocenti finirebbe per minare. Nonostante l’annessione, infatti, la maggior parte dei drusi non sono, né si sentono israeliani: sono apolidi, solo il 10% ha la nazionalità dello Stato ebraico. Sebbene, per tradizione, i drusi rifuggano da identità nazionali forti, per regioni familiari, comunitarie, geografiche oltre che etniche, restano legati alla Siria. I drusi, denominazione che peraltro la comunità rifiuta a favore di quella di muwahhidun “unitari”, mentre il mondo continua imperterrito a chiamarli cosi, sono una setta di antica derivazione ismailita - dunque di origine sciita settimana - anche se questa filiazione si è scolorita nel tempo, soprattutto dal punto di vista dottrinale. Tanto da essere considerati eretici dagli altri musulmani, perché credono alla trasmigrazione delle anime e all’inabitazione del Divino in talune personalità storiche. Al di là di queste specificità religiose - che . pero, in Medioriente contano, a dispetto degli analisti che continuano pervicacemente a ignorarle - i drusi del Golan vivono con disagio la loro condizione di “annessi”. Per quanto siano tendenzialmente lealisti, difficile che su Gaza o sul Libano la pensino come Netanyahu o come il leader della destra nazionalreligiosa messianica Smotrich, contestato al funerale insieme a altri ministri israeliani. La propaganda - Anche per questo la strage di Majdal Shams è difficile da usare sul piano della propaganda o della mobilitazione identitaria. Nonostante ciò, Israele colpirà Hezbollah. I piani militari sono pronti da settimane, anche se la decisione di regolare i conti con i seguaci dello sceicco Nasrallah risale all’inizio del conflitto a Gaza, quando l’attacco di Hamas ha indotto l’esecutivo ad affermare la strategia del “nessun nemico ai confini”. E Hezbollah, assai più di Hamas, è considerata una seria minaccia. Sia in ragione del suo armamento e dei suoi effettivi, sia per lo stretto legame con l’Iran, che Netanyahu a Washington ha definito il Nemico per eccellenza, responsabile prima di aver armato Hamas, poi, nel corso della guerra dei proxies, di aver delegato Hezbollah, gli Houthi e alcune formazioni filoiraniane in Siria e Iraq, a combattere Israele in sua vece. La questione ora, nelle cancellerie internazionali, nelle capitali mediorientali, nell’America concentrata sulla corsa presidenziale, non è riuscire a evitare l’attacco ma come imporre a Israele di graduarlo. Impedire, insomma, come già accaduto nello scambio aereo di primavera tra Tel Aviv e Teheran, che il conflitto sfugga di mano, divenendo quel casus belli che, a parole, tutti dicono di voler scongiurare. Difficilmente, però, se la risposta fosse devastante, e obbligasse a sua volta il Partito di Dio a reagire pesantemente, la guerra si potrebbe contenere. Con conseguenze imprevedibili in una situazione internazionale, e per alcuni paesi interna, come quella attuale, in cui un evidente deficit di egemonia a livello mondiale rende instabile lo scenario globale. Attaccare il Libano non in maniera dimostrativa senza il sostegno americano, non sarebbe, comunque, semplice per Israele. Se non altro perché la prospettiva di vedere Trump di nuovo alla Casa Bianca si è fatta più incerta. Biden è divenuto un’anatra zoppa dopo la rinuncia a correre, ma i minori vincoli che vengono dal non partecipare alla competizione presidenziale, gli consentono di sostenere le proprie posizioni senza temere conseguenze elettorali. Quanto a Kamala Harris, per avere qualche chance di successo, deve, prima ancora che vincere negli stati decisivi, tenere compatto l’elettorato dem, anche quello pro-pal. Anche se Netanyahu potrebbe scegliere la consueta politica del fatto compiuto: agire senza troppi vincoli, generando situazioni difficilmente reversibili sul terreno, per poi vedere che succede. I colloqui di Roma - Come in questo quadro possa progredire la trattativa tra Israele e Hamas, nel vertice di Roma tra l’emiro del Qatar e i capi dell’intelligence di Stati Uniti, Israele, Egitto, resta un mistero. E non solo perché a Gaza continuano in queste ore le stragi di civili palestinesi, comprese donne e bambini colpiti dagli attacchi aerei israeliani, ma anche perché Netanyahu, che pure si dice d’accordo sui principi fissati dagli Usa, continua a chiedere modifiche nei “dettagli”. La richiesta, già respinta da Hamas, è quella di “filtrare” i palestinesi che nella Striscia intendono tornare a Nord, misura giustificata con la necessità di evitare che con i profughi interni si muovano anche i residui miliziani di Hamas. L’organizzazione islamista palestinese non intende discuterla, dal momento che non era contemplata nell’intesa preliminare. Ma se si profilasse la “la svolta drammatica” al confine libanese annunciata da Netanyahu, non ci sarebbe più nulla da negoziare. Toccherà allora a Biden e Harris decidere che fare, nel caso di Kamala anche per evitare di essere travolta elettoralmente, con il riottoso Bibi. *Sociologo