I numeri della vergogna sulle carceri di David Allegranti Il Piccolo, 28 luglio 2024 La politica non si occupa di carcere perché non porta voti ma le condizioni dei nostri istituti di pena meriterebbero la massima attenzione della pubblica opinione e delle istituzioni. La politica tipicamente non si occupa di carcere, perché non porta voti e semmai li fa perdere. Eppure le condizioni dei nostri istituti di pena meriterebbero la massima attenzione della pubblica opinione e delle istituzioni. Le carceri italiane sono fatiscenti e sovraffollate. Al 30 giugno 2024 erano presenti 61.480 persone su 51.234 posti ufficialmente disponibili (ma in realtà, denunciano le organizzazioni che si occupano di diritti dei detenuti, molti posti non sono agibili e quindi il sovraffollamento è più alto). L’Italia si sta dunque pericolosamente avvicinando ai numeri che nel gennaio 2013 la portarono alla condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamento inumano e degradante: 66.585 detenuti alla data del 13 aprile 2012 (tasso di sovraffollamento del 148 per cento). La soluzione - si fa per dire - che il governo vuole perseguire è quella di aumentare il numero dei posti in carcere. Come mettere un secchiello più grande sotto un tubo che perde anziché occuparsi della perdita d’acqua: finirà per riempirsi anche quello. Negli ultimi 12 mesi le presenze sono cresciute di 3. 955 unità; in media, fino a maggio, oltre 300 al mese, ha calcolato Antigone nel suo ultimo rapporto: “Il tasso di affollamento è del 130, 4 per cento (al netto dei posti conteggiati dal ministero della Giustizia ma non realmente disponibili). In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia, il tasso di affollamento è superiore al 150 per cento con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia Canton Mombello”. Ma il sovraffollamento adesso riguarda, per la prima volta da anni, anche gli Istituti Penali per Minorenni. Sono stati 586 gli ingressi nei 17 IPM nei primi mesi del 2024 (fino al 15 giugno). Nel corso del 2023 erano stati 1. 142, il numero più alto degli ultimi anni. A metà giugno 2024 erano 555 - per 514 posti ufficiali - i giovani ristretti, di cui 25 ragazze, e, avverte Antigone, “le presenze sarebbero ancora maggiori se non fosse per la pratica, resa più facile dal Decreto Caivano, di trasferire nelle carceri per adulti chi ha compiuto la maggiore età pur avendo commesso il reato da minorenne, interrompendo così la relazione educativa”. Ci sono poi i suicidi, già 59 dall’inizio dell’anno. La cifra record di 84 del 2022 rischia di essere facilmente superata. Solo nel mese di luglio ce ne sono stati 10 e agosto è alle porte. Già in condizioni ordinarie le carceri italiane sono un posto orribile, salvo qualche eccezione (come Gorgona). Figuriamoci con il caldo. Il presidente della Repubblica già il 18 marzo scorso aveva invocato “interventi urgenti” sui suicidi in carcere. Pochi giorni fa è tornato a parlare del carcere con densa compostezza: “Vi è un tema che sempre più richiede vera attenzione: quello della situazione nelle carceri. Basta ricordare le decine di suicidi, in poco più dei sei mesi, quest’anno. Condivido con voi una lettera che ho ricevuto da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. O nell’università del crimine, come diceva Tocqueville. Emergenza carceri, violenze e rivolte in cella da Nord a Sud di Fulvio Fulvi Avvenire, 28 luglio 2024 In quest’estate rovente, crescono tensioni e disagi tra reclusi dell’istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano. Ieri a mezzanotte, un incendio è stato appiccato in un reparto a pianoterra dove è andato a fuoco un letto. Sei gli intossicati, due dei quali, di origine nordafricana, sono stati trasportati negli ospedali San Paolo e San Carlo, per fortuna in condizioni non gravi. Sul posto sono intervenuti gli operatori del 118. Non si conoscono ancora le cause dell’accaduto ma, dalle prime informazioni, sembra che le fiamme siano divampate in una sola cella e sarebbero state spente dagli stessi ragazzi insieme con gli addetti alla sorveglianza presenti nella struttura. I vigili del fuoco hanno eseguito subito dopo un sopralluogo di sicurezza. Stamattina la situazione nel carcere di via Calchi Taeggi è tornata tranquilla. Qui, nel pomeriggio del 28 maggio, una trentina di detenuti avevano messo in atto una violenta rivolta barricandosi in un’area dell’istituto dopo aver distrutto mobili e suppellettili di alcune celle mentre altri reclusi si erano rifiutati di lasciare il cortile dopo l’ora d’aria. La situazione si risolse entro poche ore senza nessun ferito. A far scatenare la protesta sarebbe stato, in quella circostanza, un controllo antidroga. Nella stessa giornata un altro detenuto con problemi psichiatrici avrebbe tentato di strangolare un agente della polizia penitenziaria nell’ufficio matricola dove gli era stato notificato un atto. Due detenuti minorenni, entrambi di 16 anni e condannati per rapina, erano evasi, il 14 giugno scorso, approfittando della scarsa sorveglianza (dovuta alle gravi carenze di organico) durate il passeggio pomeridiano: scavalcarono la cinta muraria e un cancello di accesso e si precipitarono verso la vicina fermata della Metro di Bisceglie. Ma sono stati ripresi poche ore dopo. Queste fughe fanno seguito alle più eclatanti evasioni del Natale 2022, quando sette baby detenuti tra i 17 e i 19 anni. Anche loro finiti in carcere per reati contro il patrimonio, riuscirono a scappare dal campetto di calcio sempre nel cortile passeggi passando da un cantiere aperto per lavori di ristrutturazione. Anche loro furono ripresi o si consegnarono dopo essersi rifugiati da parenti. L’incendio doloso di un materasso, il 9 luglio scorso, aveva comportato l’evacuazione di un’intera aula del penitenziario. Prosegue intanto l’inchiesta avviata nell’aprile scorso dalla Procura per torture e maltrattamenti all’interno del carcere minorile di Milano che vede indagate, per il momento, 21 guardie carcerarie. Sarebbero almeno 20 i casi di presunte aggressioni, pestaggi e violenze ai danni di ospiti dell’istituto avvenuti nei mesi precedenti. Dopo l’arrivo all’inizio di luglio di 33 nuove unità, gli agenti in servizio al Beccaria sono 44 mentre gli ospiti, alla data del 4 maggio 2024 risultavano 82 a fronte dei 70 posti disponibili per regolamento. Anche in questo caso il sovraffollamento rappresenta una delle cause del disagio. Solo 11 di loro hanno una condanna definitiva, gli altri sono in attesa di processo e quindi sottoposti a custodia cautelare. I funzionari giuridico pedagogici invece sono appena sei rispetto ai 18 previsti. Quasi assenti le attività di formazione e riabilitazione: i giovani reclusi passano gran parte della giornata distesi sulle brandine a guardare il soffitto. Qualche volta vengono impegnati nella realizzazione di collanine o altri oggetti, lavori commissionati dall’esterno, ma di poco impegno e limitato nel tempo. Vengono comunque organizzati nel corso dell’anno laboratori di teatro, musica, cucina, falegnameria, imbiancatura e informatica. Nell’Istituto vengono garantite 3 chiamate telefoniche alla settimana, 2 via skype e 8 ore settimanali di colloqui in presenza con i parenti. Sui fatti del Beccaria interviene il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo: “Dopo l’inchiesta che ha portato a diversi arresti, la situazione nell’istituto minorile è sfuggita di mano. La responsabilità di quello che accade nelle carceri è politica. Il governo - ha dichiarato il sindacalista - non ha inteso e non intende adottare provvedimenti utili a migliorare le condizioni disastrose delle carceri italiane che vivono il periodo peggiore degli ultimi 20 anni”. Intanto ieri si sono registrati gravi disordini anche nel carcere di Prato dove un gruppo di circa 20 reclusi ha tentato una rivolta rompendo i neon che illuminavano i loro reparto, lasciato al buio e usando le brande di ferro per barricarsi. La protesta è rientrata alle due di questa notte dopo una lunga trattativa di mediazione con il direttore dell’istituto. Un detenuto della Casa circondariale di Biella ha appiccato fuoco nella propria cella e due agenti intervenuti a domare il rogo sono finiti all’ospedale per intossicazione. L’incredibile indifferenza verso lo status delle carceri italiane di Daniela De Robert articolo21.org, 28 luglio 2024 Numeri e storie inaccettabili. Che le carceri siano piene è cosa nota. Che siano troppo piene anche. Ma il numero continua a salire inesorabilmente: 61.480 le persone detenute a fronte di 51.234 posti teorici ma solo 47.300 reali, secondo gli ultimi dati del Ministero della giustizia. Ma i numeri ci dicono anche altro. Per esempio, che ci sono circa diecimila persone ristrette che hanno una condanna fino a tre anni per le quali la norma prevede l’accesso diretto alle misure alternative, senza passare per il carcere. La loro presenza dentro ci parla della loro minorità sociale e a volte anche soggettiva: persone fragili, prive di una difesa effettiva, di una casa, di relazioni familiari e sociali significative. Per l’esattezza, 1530 hanno una condanna sotto un anno, 2963 tra uno e due anni e 4024 tra due e tre anni. A loro il carcere non può dare nulla. Troppo poco il tempo perché l’amministrazione riesca anche solo a conoscere queste persone, a individuarne le criticità e le risorse per poter attivare un programma di trattamento. Usciranno così come sono entrate, con in più il marchio indelebile di ex detenuto. La loro detenzione si riduce così a un tempo di vita sottratto alla normalità, spesso destinato a ripetersi in maniera intermittente, attivando o alimentando un percorso al ribasso, senza una prospettiva positiva. E senza in nessun modo assicurare maggiore sicurezza alla collettività. La loro presenza in carcere ci parla anche dell’assenza del fuori, della società civile e delle istituzioni distratte o troppo prese a cercare nemici veri o presunti per vedere e intercettare le difficoltà in tempo utile per evitare che finiscano nelle maglie del diritto penale, che dovrebbe al contrario intervenire solo laddove altre modalità di intervento abbiano fallito. In tre anni e mezzo la popolazione detenuta è aumentata di oltre 7mila unità, passando dalle 54.196 presenze del 31 dicembre 2021 alle attuali, con un aumento degli ingressi dalla libertà di oltre il 13% rispetto al mese di giugno del 2023 e di quasi il 21% rispetto allo stesso periodo del 2022. Numeri che si avvicinano pericolosamente al livello per cui nel 2013 l’Italia fu condannata per trattamenti inumani e degradanti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni delle sue carceri, con la cosiddetta sentenza Torreggiani. Poi c’è il capitolo dei suicidi: 58 le persone che si sono tolte la vita nei primi sette mesi dell’anno. Altre due persone sono morte per le conseguenze di uno sciopero della fame e della sete, sempre mentre erano affidate alla custodia dello Stato. Numeri impressionanti. Mai così alti, neanche nel 2022 quando si è registrato il picco di suicidi in carcere con un totale di 36 morti a luglio e di 85 a fine dicembre. Sono vite che si consumano giovanissime, ma anche in tarda età: sei di loro avevano meno di 25 anni, mentre l’uomo che i primi di luglio si è ucciso nel carcere di Potenza aveva 83 anni. Sono vite disperate di chi pensa che l’ingresso in carcere sia una via senza ritorno, un buco nero da quale non si esce, una condanna a vita anche quando la pena è finita. Perché il marchio del carcere resta appiccicato addosso, indelebile e feroce e rende la vita anche da libero se possibile ancora più difficile. Dunque, il carcere oggi è un luogo affollato in cui troppo spesso il tempo scorre inutilmente vuoto, privo di attività e di significato. Quelle otto ore che le norme nazionale e sovranazionale indicano come il minimo da trascorrere fuori dalle celle per svolgere attività significative, si traducono in molti istituti in qualche ora di ‘passeggio’ negli angusti cortili delle sezioni, spesso dei semplici cubi di cemento privi di soffitto chiuso comunque da una rete o negli spazi di socialità anch’essi troppo angusti per consentire a tutte le persone della sezione di accedervi. Il resto del tempo trascorre nelle celle, chiamate dalla norma “camere di pernottamento”, non di rado dei cameroni in cui sono ristrette, otto, dieci anche 14 persone. Mentre nelle celle singole si sta anche in tre, con la terza branda che di giorno è messa sotto il letto per consentire alle persone di muoversi oppure con l’aggiunta di un semplice materasso appoggiato per terra. Il carcere diventa allora il contenitore di un tempo inutilmente sottratto alla vita, che non offre alcuna prospettiva a chi vi entra se non quella di far scorrere i giorni, i mesi, gli anni della pena. Nulla a che fare con quel “tendere alla rieducazione del condannato” affermato dall’articolo 27 della Costituzione. Sono vite e morti che interpellano con urgenza la società politica chiamata a guardare ai fatti senza ideologie, a considerare il carcere per quello che è e non come un terreno di scontro tra tifoderie opposte, come un territorio di conquista. Ma il recente decreto-legge chiamato “Carcere sicuro” non sembra andare in questa direzione, né il respingimento in blocco degli emendamenti dell’opposizione o il rinvio del disegno di legge Giachetti sulla liberazione anticipata. Sono scelte e azioni che rispondono a una logica diversa. Poco interessata alle persone, ai diritti, alle soluzioni e prima ancora alla conoscenza e alla comprensione dei problemi. La lettera che i detenuti del carcere di Brescia hanno inviato al Presidente della Repubblica e a tutti i parlamentari bresciani è davvero straziante, per usare le parole del Presidente. Straziante e inaccettabile. Come le condizioni delle carceri riportate dall’Associazione Antigone nel suo Rapporto al termine delle visite nei penitenziari italiani. Vita e morte tra le sbarre: lettere dal carcere di Lorella Beretta* libertaegiustizia.it, 28 luglio 2024 I detenuti affidano alle lettere le denunce delle condizioni di vita, e di morte, in carcere: pagine e pagine di fatti concreti, storie personali drammatiche che vanno oltre i numeri, già di per sé drammatici e inaccettabili. Salgono sui tetti, forse semplicemente per farsi vedere. Quando riescono evadono e a volte ritornano, come successe nel dicembre del 2022 al minorile Beccaria di Milano. Altre volte scrivono, scrivono lettere. Il Presidente della Repubblica, nell’incontro con i giornalisti per la cerimonia del Ventaglio, ha citato quella che gli hanno indirizzato i detenuti del Nerio Fischione di Canton Mombello, Brescia, dove secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone il sovraffollamento è del 200%. “La descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è - e deve essere - l’Italia”, ha commentato Sergio Mattarella. Negli stessi giorni anche i detenuti del Sant’Anna di Modena, scrivevano al Garante per chiedere ventilatori per provare a combattere il caldo afoso che attanaglia la città emiliana fino a notte fonda e misure sanitarie per eliminare la presenza di scarafaggi. Anche qui, poi, c’è una presenza reale che va ben al di là dei posti previsti con 538 detenuti contro una capienza di 372. “Tante volte - si legge nella missiva - abbiamo chiesto ventilatori, ma ancora non sono stati presi provvedimenti, nonostante la presenza di anziani e cardiopatici nelle celle”. La presenza di insetti e topi non è una novità, da queste parti. L’epistolario dagli istituti penitenziari italiani è ricco di carta straccia. Come la lettera uscita dal Santa Maria Maggiore di Venezia e pubblicata sul Gazzettino di Venezia pochi mesi fa, l’ennesima: nel frattempo il 2 giugno e il 15 luglio due detenuti si sono impiccati nelle celle e il 24 luglio è scoppiata una rivolta tra i reclusi per le condizioni di sovraffollamento di una sezione nella quale ci sarebbero 245 persone a fronte di 159 posti. Una delle lettere dei detenuti del carcere di Venezia Rivolte, in questa estate 2024, sono esplose al minorile di Milano, l’ultima nella notte tra venerdì e sabato quando uno dei giovani detenuti avrebbe dato fuoco a un lenzuolo provocando l’intossicazione di alcuni compagni di cella; e poi proteste a Caltagirone, Biella, Torino. Sollicciano. Terni, Trieste. Per citarne alcune che al massimo rimangono relegate alle cronache locali ma che compongono un unico puzzle. “Nella mia cella siamo in sei persone, non abbiamo armadietti per riporre le nostre cose e c’è una sola turca, situata proprio accanto al tavolo dove cuciniamo. Non riceviamo adeguata assistenza sanitaria né cure mediche, non possiamo accedere con continuità a programmi educativi, non abbiamo assistenza psicologica permanente e la Polizia Penitenziaria non riesce a gestire tutte le problematiche relative alla sicurezza”, scriveva il 26 aprile Giovanni Granieri, recluso a Rebibbia, Roma. “Vi scrivo per informarvi che a partire da domani avrà inizio uno sciopero nazionale ad oltranza nelle carceri italiane. I detenuti non acquisteranno più la spesa fino a data da destinarsi. Questo sciopero è un atto di estrema necessità per protestare contro le condizioni disumane in cui noi detenuti siamo costretti a vivere. Le condizioni delle carceri, già difficili, sono diventate ormai insostenibili e non mostrano alcun segno di miglioramento”. A Rebibbia l’altro ieri, venerdì 26 luglio, c’è stato l’ultimo suicidio in cella, il 59imo suicidio di un detenuto da inizio anno. Numero al quale vanno aggiunti i 6 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita sempre in questo 2024, perché anche le condizioni di lavoro nelle carceri italiane, si sa, sono pesanti. Sempre in settimana, il rapporto dell’associazione Antigone ha ribadito quello che denuncia da decenni: il tasso di affollamento medio negli istituti penitenziari, compresi quelli per minorenni, è del 130,4%, con punte di oltre il 200% al San Vittore di Milano e al Canton Mombello di Brescia. “Questo significa che ci sono 200 persone detenute laddove ce ne dovrebbero essere 100. Per capire la gravità della situazione si pensi ad una scuola o un ospedale dove ci siano il doppio degli studenti o dei pazienti che le strutture sono in grado di seguire”, si legge nel rapporto. Anche i Tribunali di sorveglianza rappresentano un quadro drammatico: nel 2023 sono stati presi in carico poco più di 8.000 ricorsi presentati per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e di questi il 57,5% sono stati accolti dalla magistratura di sorveglianza. Per il Cnca (Coordinamento nazionale Comunità di accoglienza) il cosiddetto Dl svuotacarceri non è la soluzione: cita strutture di accoglienza indefinite, non affronta il nodo delle lungaggini burocratiche legate al funzionamento degli organi della giustizia, non prevede nuove assunzioni per le figure educative negli istituti di pena. “Risulta sempre più evidente come l’immaginario istituzionale sia lontano dal dettato costituzionale, basta leggere la maggior parte degli organi di stampa, come nel caso delle risposte della magistratura di sorveglianza, circa gli esposti provenienti dal carcere di Sollicciano, rigettati anche perché: “L’acqua calda non è un diritto, il carcere non è un hotel”“, si legge su uno degli ultimi articoli del giornale online del carcere di Torino, Letter@21. *Responsabile Comunicazione Libertà e Giustizia “Subito l’indulto e l’amnistia. Aboliamo la concezione della cella come unica sanzione possibile” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 luglio 2024 Luigi Manconi, ex sottosegretario alla giustizia: servono misure d’emergenza. “La situazione complessiva delle carceri italiane sta precipitando tragicamente anche perché il sovraffollamento ha raggiunto punte come mai in passato”. Sono le parole di Luigi Manconi, sociologo e presidente della Onlus “A buon diritto”, sottosegretario alla giustizia dal 2006 al 2008 ed ex senatore del Pd. Manconi, il sovraffollamento è il problema principale del carcere? “Assolutamente sì, si è raggiunto il 230 per cento di sovraffollamento in alcuni istituti, il sovraffollamento medio su 189 carceri è del 130 per cento, ci sono ben 14.500 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare e questo fa sì che le condizioni complessive della detenzione stiano andando oltre ogni soglia di tollerabilità”. Cosa non funziona nell’organizzazione penitenziaria? “A mio avviso non funziona niente, perché il sovraffollamento nel sistema penitenziario non è il corrispettivo della spiaggia di Riccione il 15 agosto, è tutt’altra cosa: dalla spiaggia di Riccione il 15 agosto ci si può allontanare la sera stessa, il sovraffollamento invece significa che tutti i servizi del carcere precipitano, tutte le attività peggiorano, tutte le condizioni di vita vanno verso la disumanità. Sovraffollamento non significa che ci sono semplicemente più persone di quante se ne possono contenere, significa che l’assistenza sanitaria si impoverisce al massimo, che tutte le attività di trattamento diventano più difficili, che non c’è possibilità di frequentare la scuola o i corsi di formazione, oppure altre attività che sottraggano la persona alla congestione di quelle celle chiuse”. Non ci sono mai stati tanti suicidi nelle carceri come adesso... “La manifestazione più crudele di questa situazione è rappresentata proprio dai suicidi, e crescono inoltre in numero esponenziale gli atti di autolesionismo tra i detenuti. Attualmente abbiamo raggiunto 59 suicidi dall’inizio dell’anno e si ipotizza che a fine anno si superi ogni tragico record precedente. Ogni suicidio è una storia a sé, ma le dinamiche soggettive possono essere potentemente acuite e rese dirompenti dalle condizioni ambientali”. Lei ha detto che il carcere è inutile e dannoso, è una macchina insensata e andrebbe abolito. Cosa significa? “La nostra carta costituzionale prevede all’articolo 27 la funziona rieducativa della pena, questa finalità rieducativa è clamorosamente fallita, la recidiva è vicina al 69 per cento, significa che quasi 7 detenuti su 10 reiterano il reato, questo è un fallimento. Se la pena, nell’accezione più nobile, deve rieducare il condannato ma anche ridurre la propensione a delinquere, questo obiettivo di sicurezza è tradito, non è ottenuto”. Ma in che senso il carcere dovrebbe essere abolito? “Abolire il carcere significa procedere progressivamente verso il fatto che il carcere sia soltanto l’extrema ratio, non significa che domattina debbano essere abbattute le prigioni, non significa abolire la pena, assolutamente no, ma abolire quella concezione concentrazionaria della pena che vede la cella chiusa come unica forma di sanzione possibile e immaginabile. Se noi considerassimo le pene alternative alla reclusione in una cella chiusa, si potrebbe andare progressivamente verso una situazione in cui il carcere sia destinato solo ed esclusivamente ai detenuti socialmente pericolosi e questi detenuti sono appena il 10 per cento dell’intera popolazione carceraria”. Secondo lei quali sono le soluzioni reali a breve termine, per migliorare le condizioni delle nostre carceri? “Indulto e amnistia, che sono provvedimenti di clemenza previsti dalla Carta costituzionale, non sono esercizi di bontà. L’ultimo provvedimento di clemenza fu quello del 2006 con l’indulto e ha dato risultati estremamente positivi, perché tra coloro che ne hanno beneficiato la recidiva è stata abbattuta della metà. Ovviamente queste sono misure di emergenza per situazioni di emergenza, che poi andrebbero sostenute da riforme strutturali, servono a far passare la febbre a un organismo alterato per restituirgli un po’ di normalità”. Cosa pensa del recente decreto carceri che porta il nome del ministro Nordio? “Non contiene mai nemmeno una volta la parola sovraffollamento, e non prevede nessun intervento per questa situazione. Secondo molti magistrati di sorveglianza questo decreto è addirittura destinato a peggiorare la situazione attuale delle carceri italiane”. Bodycam sulle divise degli agenti, tutti i dubbi sulle aperture del Governo di Luca Sebastiani Il Domani, 28 luglio 2024 Due visioni opposte si stanno scontrando nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia alla Camera, in una battaglia tra maggioranza e opposizioni a colpi di emendamenti al ddl Sicurezza: tra i tentativi di inserire i codici identificativi sulle uniformi della polizia e l’apertura all’adozione delle bodycam. Tutelare le forze di polizia da aggressioni e minacce o individuare gli agenti in caso di condotte scorrette, evitare di mettere alla gogna e sfiduciare le forze dell’ordine o garantire massima trasparenza sul loro operato. Sono le visioni opposte che si stanno scontrando nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia alla Camera, in una battaglia tra maggioranza e opposizioni a colpi di emendamenti al ddl Sicurezza per inserire i codici identificativi e le bodycam sulle uniformi degli agenti in Italia. Il no ai codici alfanumerici - In realtà sui codici alfanumerici - in vigore in quasi tutto il continente - il governo e le forze di maggioranza sono state categoriche, respingendo le proposte di Riccardo Magi, leader di +Europa. “Sono strumenti contro le forze di polizia”, ha detto il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, secondo cui “incentivano le denunce facili” contro i poliziotti e li espongono “a una situazione di maggior pericolo e rischio”. Parole seguite a ruota dai sindacati come il Sap, che con il segretario generale Stefano Paoloni ha parlato di un rischio di trasformare i poliziotti in “bersagli”. I partiti di destra da tempo fanno proprie le critiche dei sindacati di polizia che osteggiano l’adozione dei codici identificativi. Gli agenti temono di poter diventare riconoscibili a tutti, anche alla malavita o alla criminalità organizzata. In realtà, dal numero sul casco un cittadino qualunque non potrebbe risalire al nome dell’agente in questione, perché non sono dati di dominio pubblico. Ma visto che i codici potrebbero togliere mano libera ai poliziotti, con qualsiasi persona che potrebbe diventare testimone di episodi controversi e inquadrare con un cellulare il numero relativo a un agente, i sindacati si oppongono. Niente codici identificativi. Poco importa se così facendo sarà più difficile individuare agenti scorretti che screditano tutto il sistema. Magi, già firmatario di una proposta di legge da cui è partito per formulare l’emendamento poi bocciato, a Domani ha ribadito che l’avversione dei sindacati ai codici, a cui va dietro la destra, è sintomo di una “mancanza di cultura dello stato di diritto”, di “una impostazione poco moderna e lesiva del rapporto di fiducia”, perché così facendo la trasparenza tra le forze dell’ordine e i cittadini viene meno. Il sì alle bodycam - Tuttavia, nonostante il no ai codici, il governo ha aperto pubblicamente all’adozione delle videocamere agli agenti, per bocca dello stesso Molteni. “Ci sarà un emendamento del governo e della maggioranza per prevedere le bodycam sulle divise, a tutela degli operatori delle forze di polizia che mai si sottraggono e si sono sottratte a verità e trasparenza” ha detto il sottosegretario. Una dichiarazione inusuale per modi e tempi, fatta poco prima della seduta nelle commissioni di giovedì pomeriggio - durante la quale la tensione si è alzata - e dopo che erano state già bocciate le proposte delle opposizioni. L’annuncio di Molteni ha incassato il sostegno dei sindacati di polizia perché, a differenza dei codici, le videocamere restano uno strumento più o meno sotto il controllo delle forze dell’ordine. Avs e lo stesso Magi hanno reagito con scetticismo, ribadendo come sia necessario comunque integrare le eventuali videocamere con i codici identificativi. Per il Pd, invece, il governo dovrebbe basarsi sull’emendamento firmato dal deputato Matteo Mauri, che rivendica la paternità della proposta. L’emendamento misterioso - Attualmente l’uso delle bodycam è stato lanciato nel 2022 dal ministero dell’Interno: una sperimentazione limitata, con meno di mille videocamere fornite ad alcuni reparti di polizia e carabinieri. Secondo quanto detto da Molteni, invece, il loro utilizzo dovrebbe essere esteso. Ancora non si sa come, però: le regole di ingaggio cambieranno? Quali e quanti agenti le indosseranno? Chi decide sul loro utilizzo? Chi potrà visionare le immagini registrate e per quanto tempo? L’emendamento governativo non è stato ancora presentato ufficialmente alle commissioni, ma è stato elaborato e nella pratica sarà una riformulazione di quello del leghista Igor Iezzi. Fonti governative, però, a Domani riportano come la proposta al momento non preveda in nessun modo l’obbligo di usare le bodycam, ma solo una generica possibilità. Il che renderebbe tutto molto elastico e dagli effetti astratti. Inoltre, nella riformulazione dell’emendamento Iezzi sembra sparire la previsione dei fondi necessari a fornire alle forze dell’ordine le videocamere. Insomma, il governo sembra pronto a dire sì alle bodycam, ma senza impegno. La prossima seduta sarà martedì 30 luglio, quando forse se ne capirà di più. Zanettin: “Chi ha diffuso le intercettazioni e le foto del colloquio tra Filippo Turetta e il padre?” di Davide Varì Il Dubbio, 28 luglio 2024 Il capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia a Palazzo Madama ha annunciato di aver presentato una interrogazione al ministro della Giustizia. Le intercettazioni del colloquio in carcere tra Filippo Turetta e suo padre stanno facendo discutere. Purtroppo quasi tutti si sono concentrati sulle parole che Turetta padre ha rivolto al figlio, senza minimamente considerare la gravità della diffusione delle intercettazioni sulla cui utilità ai fini processuali ci si dovrebbe interrogare. L’unica voce fuori dal coro è quella del senatore e capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, Pierantonio Zanettin, che ha annunciato anche di aver presentato una interrogazione al ministro della Giustizia. “Prima il tabloid “Giallo” e poi i principali quotidiani - ha dichiarato Zanettin - hanno pubblicato le intercettazioni e le immagini di un incontro tra Filippo Turetta e i suoi genitori avvenuto il 3 dicembre dello scorso anno. Si tratta di materiale che fa parte del fascicolo del processo che si celebrerà davanti alla Corte di assise di Venezia il prossimo 23 settembre. Quanto accaduto fa sorgere una serie di domande che credo meritino una risposta. Per quali esigenze investigative sono stati intercettati i colloqui tra i genitori e Filippo Turetta, che è reo confesso? Chi ha diffuso le intercettazioni e le foto? È evidente che quel materiale non ha alcuna rilevanza processuale: si tratta solo di voyeurismo su sentimenti di umanità familiare. Ho perciò presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per sapere se intenda assumere iniziative ispettive e verificare, così, possibili violazioni di legge”. Di tutt’altro tenore la posizione della senatrice di Fratelli d’Italia, Susanna Donatella Campione, membro della Commissione bicamerale sul femminicidio, secondo la quale se fossero confermate le frasi del padre di Turetta “certificherebbero quanto, come avvocato impegnato da anni in difesa delle donne e come parlamentare so purtroppo da tempo. Spesso, si cela un’educazione tossica dietro certi soggetti che poi compiono delitti come quello commesso da Turetta che non hanno niente a che vedere con il patriarcato ma con un’educazione che crea individui fragili incapaci di tollerare un diniego. La violenza contro le donne si combatte con la cultura del rispetto e con l’educazione in famiglia e a scuola, altrimenti non ci sarà norma, né inasprimento delle pene che potranno invertire definitivamente il trend dei femminicidi”. Comprensibili le parole di Giovanni Passarotto, cugino di Giulia Cecchettin, anche restano i dubbi sulle intercettazioni e la loro pubblicazione. “Sono profondamente deluso e arrabbiato - ha scritto in una storia su Instagram Giovanni Passarotto. Il padre di Filippo ha fallito come persona e come genitore. Anziché riconoscere la gravità del crimine commesso dal figlio, ha cercato di minimizzarlo, dimostrando una mancanza totale di responsabilità e comprensione. Questo atteggiamento vergognoso non solo manca di rispetto a Giulia e alla nostra famiglia, ma perpetua una cultura di violenza e impunità che deve essere fermata”. Condanniamo i genitori di Turetta colpevoli di portare un po’ di luce nel carcere dei suicidi di Ciro Cuozzo Il Riformista, 28 luglio 2024 Davanti alla prospettiva di una condanna all’ergastolo cosa fareste voi genitori con vostro figlio? Cosa gli direste durante i colloqui in carcere dove è guardato a vista dagli agenti penitenziari per scongiurare sia gesti estremi che le aggressioni degli altri detenuti? Continuereste ad infierire oppure provereste a fargli vedere un po’ di luce, a dargli un minimo di fiducia? È raccapricciante quanto pubblicato da un settimanale, e ripreso da tutti i principali media, sull’incontro avvenuto nel carcere di Montorio a Verona, tristemente noto negli ultimi mesi come il carcere dei suicidi, tra il 22enne Filippo Turetta, accusato dell’omicidio volontario della ex Giulia Cecchettin, aggravato dalla premeditazione, crudeltà, efferatezza, sequestro di persona, occultamento di cadavere e stalking (prima udienza è stata fissata per il 23 settembre prossimo), e i genitori. Il primo incontro tra Turetta e i genitori - Si tratta del primo colloquio avuto tra le parti, risalente al 3 dicembre scorso, dove il papà prova a trasmettergli forza e obiettivi da raggiungere, anche dietro le sbarre, anche con la prospettiva, se non certezza, dell’ergastolo. Queste le parole del genitore di Turetta: “Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri. Però ti devi laureare”. Poi gli ricorda “i permessi per uscire, per andare al lavoro, la libertà condizionale”. Tutte cose che arriveranno (con buona condotta e partecipazione alle attività in programma) dopo anni perché, con buona pace di tutti, il carcere dovrebbe essere questo: riabilitazione. Alimentare la gogna anche contro i genitori? - Parole che possono indignare solo chi (purtroppo sono tanti) si appresta a una lettura superficiale delle cose. Cosa avrebbe dovuto dire papà Turetta? Avrebbe dovuto infierire ulteriormente, ricordando al figlio l’orrore che ha commesso? Era il primo approccio che i due genitori, devastati, avevano con il figlio dopo la cattura in Germania e il rientro in Italia. Provare a pesare le loro parole è così difficile? Meglio alimentare l’ennesima gogna anche nei confronti dei genitori di Turetta? Genitori che avevano chiesto aiuto psicologico - Prima di vedere la prima volta in carcere Filippo Turetta, il 3 dicembre 2023, i genitori nelle settimane precedenti avevano, attraverso il loro legale, preferito aspettare, prendersi ancora del tempo prima del faccia a faccia con il figlio. Il motivo? Erano troppo scossi da quanto accaduto e chiedevano un aiuto psicologico sia per il giovane che per loro stessi. Elena Cecchettin sul colloquio tra i Turetta: “Così si normalizza la violenza sulle donne” di Rosario Di Raimondo e Viola Giannoli La Repubblica, 28 luglio 2024 Ma è scontro sulle intercettazioni. L’incontro ripreso il 3 dicembre scorso. La Camere penali: “Voyeurismo e gogna”. Forza Italia chiede un’ispezione a Nordio. Il cugino della vittima: “Dal padre di Filippo mancanza di responsabilità e comprensione”. “Eh va beh, hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza... Non sei un terrorista. Non sei l’unico... Ci sono stati altri 200 femminicidi!”. Così diceva il 3 dicembre scorso, ripreso e intercettato a sua insaputa, Nicola Turetta al figlio Filippo durante il primo colloquio nel carcere di Verona dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. Parole pubblicate dal settimanale Giallo e diventate un caso. Gino Cecchettin, il papà di Giulia, preferisce non commentare. È Elena, la sorella della ragazza uccisa con 75 coltellate, a dire: “In questa storia non ci sono mostri, ma c’è una normalizzazione sistematica della violenza. Bisogna rifiutare la violenza contro le donne e ogni giustificazione, smettere di tacere davanti alla normalizzazione del femminicidio, continuare a fare rumore perché nessuna vittima sia una statistica, una delle “duecento”. “Arrabbiato” e “profondamente deluso” anche il cugino di Giulia, Giovanni Passarotto, che sui social scrive: “Il padre di Filippo ha fallito. Anziché riconoscere la gravità del crimine di suo figlio, ha cercato di minimizzarlo dimostrando una mancanza totale di responsabilità e comprensione. Questo atteggiamento vergognoso non solo manca di rispetto a Giulia e alla nostra famiglia, ma perpetua una cultura di violenza e impunità che dev’essere fermata”. Ma sulle parole tra Nicola e Filippo Turetta non c’è solo la rabbia della famiglia Cecchettin. I colloqui privati in carcere vengono spesso intercettati a fini d’indagine ma è sulla diffusione di quelle parole che monta l’indignazione: per le Camere Penali la pubblicazione è “immorale” e “grave perché non aggiunge nulla, si tratta solo di voyeurismo fuori luogo”, dice il segretario Rinaldo Romanelli. E il presidente Francesco Petrelli aggiunge: “Si è invece fatto scempio della riservatezza esponendo a una gogna incivile le insindacabili ragioni e le parole pietose di due genitori”. Anche Stefano Tigani, uno degli avvocati della famiglia Cecchettin, dice: “Io credo che non si possa commentare un colloquio tra un padre e un figlio in carcere, in una situazione del genere. Non è questo l’oggetto del processo e trovo sbagliato che siano state divulgate quelle intercettazioni. Non intendiamo speculare su questo”. Il 3 dicembre è una data cruciale: Nicola Turetta ed Elisabetta Martini incontrano il figlio, reo confesso, per la prima volta, una settimana dopo il suo arrivo in manette in Italia. Filippo è sorvegliato a vista in carcere, giorno e notte: si teme possa togliersi la vita. “Devi farti forza. Ti devi laureare. Avrai i permessi per uscire, per andare al lavoro, la libertà condizionale”, dice il padre. Il ragazzo gli chiede se sia a causa sua che ha perso il lavoro: “Non sei stato te, non ti devi dare colpe, non potevi controllarti”, risponde Nicola Turetta. La conversazione è pacata, fonti vicine all’indagine spiegano che il tentativo dei genitori è di rassicurare il 22enne. Ma quando Filippo racconta che “magari all’avvocato non ce la faccio a riferirgli tutto”, il padre lo invita a non tacere niente. Le intercettazioni finiscono agli atti del processo che si aprirà a Venezia il 23 settembre: non dovrebbero avere alcun peso ma intanto sono pubbliche. Pierantonio Zanettin, capogruppo di Fi in commissione Giustizia al Senato, chiede al ministro Nordio “un’ispezione per verificare possibili violazioni”. I Radicali stigmatizzano l’episodio. Per Luana Zanella di Avs e Susanna Campione di Fdi, al contrario, aver reso noto quel colloquio “è un atto civile” perché “quelle parole fanno orrore”, smascherano “il racconto normalizzante della violenza e la disumanizzazione delle vittime”. Se i genitori di Filippo Turetta banalizzano il femminicidio di Elena Loewenthal La Stampa, 28 luglio 2024 Che tristezza, che strazio. Che orrore, ascoltare Nicola Turetta, padre di Filippo l’assassino di Giulia. Perché dovrà pur esserci un altro modo per stare vicino a un figlio che ha ammazzato a coltellate la ex fidanzata e con tutta probabilità l’ha premeditato. Un altro modo per esserci, uno fuori e l’altro dentro il carcere. Per continuare a fare il padre senza rinnegarlo e provare a far finta che non esista più e invece continuare a volergli lo stesso bene dell’anima di prima strappandosi il cuore e i capelli ogni giorno, per tutto il giorno per la disperazione, per quel che lui ha fatto e come lo ha fatto. Dovrà pur esserci un modo di continuare a difenderlo, a fargli sentire i suoi genitori vicini nonostante tutto e nonostante quel che ha fatto e nonostante il carcere che gli tocca. Non possono, no non possono esistere solo le parole che Nicola Turetta ha pronunciato davanti al figlio Filippo durante il loro primo incontro dopo il delitto. Per rincuorarlo, dice lui (il padre): “non potevi controllarti”, “l’hanno fatto in tanti”, “non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone” (ma come? Lo è eccome uno che ammazza le persone, anzi “la persona”), “non sei l’unico” e poi “ti devi laureare” e uscire di prigione prima possibile, questo è il punto. Già, Filippo non è l’unico. Per l’appunto. Questo appello alla normalità del femminicidio è forse la frase più agghiacciante fra quelle che questo padre ha detto al figlio. Per rincuorarlo. Per farlo sentire normale: normale lui che ha ammazzato Giulia e normale Giulia che non è stata l’unica a farsi ammazzare dall’ex fidanzato. È proprio in queste parole che sta l’obbrobrio di un’educazione mancata, tutta da rifare. Non sei l’unico, sei normale ed è giusto essere normali e anche nell’ammazzare una ragazza che credevi di amare sta la normalità. L’ossessione di fare dei propri figli qualcosa di “normale” sta, a ben guardare, anche in tante altre, e ben più piccole e inoffensive cose. In un modo o nell’altro, se non ci stiamo bene attenti, ne siamo tutti intaccati, da questa disperata ricerca di normalità per i nostri figli. E le parole del padre di Filippo Turetta sono la tremenda deriva di un principio tossico, quello secondo cui l’educazione è protezione - sempre, ovunque e in ogni caso. A prescindere da tutto il resto - anche dal corpo di una povera ragazza ammazzata a coltellate. Perché ce ne sono tante così, che fanno quella fine. E tu sei un bravo ragazzo anche se l’hai ammazzata, ficcatelo in testa. No, non è possibile. Deve esserci un’altra strada per continuare a essere genitori amorevoli anche di un figlio che ha fatto una cosa così terribile - che più terribile di così è difficile immaginarlo. Dev’esserci un altro modo per fargli sentire l’amore di un padre e di una madre, per non gettarlo alle ortiche e far finta che non ci sia mai stato, quell’amore. Devono esserci altre parole per consolarlo, per rincuorarlo, per fargli capire che la sua vita non finisce così, come lui ha fatto finire quella della povera Giulia. Che lui può essere e diventare diverso - non “normale” come quelli che uccidono le ragazze. Altrimenti, forse, è meglio che quel padre per un po’ il suo Filippo lo lasci perdere, lasci che provi da sé la sua strada per riconoscere quel che ha fatto e che no, non è normale. Che non tutti e nemmeno tanti lo fanno. Che anche se non si laurea fa lo stesso, perché quello che conta ora è imparare a diventare uomini nel vero senso della parola, anche se ormai che Giulia l’ha ammazzata è troppo tardi. Ma val la pena tentare. Italicus 50 anni dopo: strage dimenticata di Luca Sancini La Repubblica, 28 luglio 2024 “Mio fratello morto per salvare vite. Ma per la giustizia italiana non ci sono colpevoli”. Franco Sirotti, ferroviere, è rimasto quasi da solo a chiedere verità per le dodici vittime straziate dalla bomba sul treno tra Firenze e Bologna: “I neofascisti erano manovalanza, agirono poteri che evidentemente sono forti ancora oggi”. Sono rimasti in tre a chiedere la verità su quanto accadde la notte tra il 3 e il 4 agosto di cinquanta anni fa sulla tratta appenninica tra Firenze e Bologna. Dodici vittime, straziate dal fuoco, asfissiate dal fumo, quando dentro la galleria poco dopo l’una, scoppiò una bomba piazzata sulla carrozza numero 5: undici erano passeggeri e la vittima in più, fu un coraggioso ferroviere che perse la vita cercando di salvarne altre. Silver Sirotti, conduttore, aveva 24 anni anni ed era di Forli, in una vecchia foto è accanto a suo fratellino, un gigante col viso buono che da quel gesto di generosità ricavò una medaglia d’oro al valor civile ma non la verità su quanto successe. “Non chiedo giustizia, quella ormai non si avrà ed è vergognoso, ma almeno la verità” dice oggi Franco Sirotti, anche lui ancora orgogliosamente ferroviere responsabile del settore manutenzione, cresciuto senza Silver, ma che lo ricorda nel fisico, giocatore in passato sino alla serie C con il Forlì e poi arbitro di serie A negli anni ‘90. Seduto ad un tavolino di fronte a San Petronio ricorda: “Ero là dentro il giorno dei funerali, la folla traboccava oltre la piazza, il boato di fischi che s’alzò all’arrivo del presidente della Repubblica, lo sento ancora: fu come un tuono”. Sirotti sono passati cinquanta anni dalla strage dell’Italicus. Nessun colpevole, nessuna indagine? “È una strage dimenticata, come titolò Alessandro Quadretti il documentario uscito dieci anni. Poi più nulla, perché nulla si muove. Siamo fermi alla Cassazione del 1987, gli imputati neofascisti Tuti, Franci e Malentacchi assolti. Per la giustizia italiana non ci sono responsabili”. Silver era in servizio sul treno, che ricordo ne conserva? “Come fratello, una grande complicità, mi proteggeva ma sapeva anche essere severo. Io nascondevo le brutte pagelle alla mamma, e allora a parlare con i professori ci andava lui. Quando ci fu la strage, avevo 14 anni, ricordo il dolore di mia madre e poi le frustrazioni lungo gli anni, davanti a processi interminabili e senza risposte. La grandezza del suo gesto l’ho capito col tempo”. Lui non era stato coinvolto dall’esplosione, come rimase ucciso? “E non doveva nemmeno essere in servizio. Aveva ritardato le ferie perché un amico gli aveva chiesto di andare, più avanti, in Inghilterra insieme. Secondo i testimoni, poco prima si era fermato a chiacchierare con una ragazza, Marisa Russo. Quando l’Italicus con la carrozza 5 ancora in fiamme si fermò a San Benedetto Val di Sambro Silver era sceso ma, preso un estintore, risalì sui vagoni, alcuni agenti di polizia al processo testimoniarono di aver tentato di fermarlo, si divincolò: altri raccontano di questa ombra in controluce che percorre la carrozza, si china verso qualcuno steso a terra, poi l’ombra scompare”. I parenti delle vittime dell’Italicus non hanno un’associazione, quanto ha pesato nella ricerca della verità? “Le difficoltà nacquero da subito, alcuni preferirono dimenticare, tre delle vittime sono stranieri, un giapponese, un tedesco e un olandese, e dei familiari non abbiamo più traccia. La famiglia Russo ebbe tre morti, si salvarono solo Marisa, scomparsa da poco e Mauro. Ma siamo rimasti io, lui e Daniela Mancini, figlia del capotreno dell’Italicus, non ci sono le forze”. Detto ciò non è che per avere giustizia devono essere i familiari a pungolare... “Certamente, ma la vicenda complessiva sulle stragi dimostra che in questo Paese solo con l’impegno delle associazioni familiari si tengono i fari accesi, si stimolano le indagini. A Brescia, anche quella una strage del 1974, si è riaperto il processo, a Bologna per l’attentato del 2 Agosto, vediamo i risultati”. La vicenda giudiziaria dell’Italicus fu costellata da molti segreti di Stato, pesanti depistaggi, c’è dietro una verità più indicibile delle altre? “È quello che penso, non si vuole aprire anche a distanza di anni il coperchio su segreti che devono restare tali, i neofascisti erano manovalanza, agirono poteri che evidentemente sono forti ancora oggi. Quella estate scoppiarono altre bombe in Toscana, era il centro di un progetto eversione di alto livello che si serviva di manovali del terrorismo dentro una strategia che si può intuire, di fatto si conosce, ma alla quale non si dà un nome”. Anche senza associazione continuerete a battervi? “Sono amareggiato e deluso, ma non mi resta che continuare a chiedere. Sono in contatto con un pool di avvocati, non sarà facile ma puntiamo alla riapertura delle indagini su questa strage dimenticata, speriamo di avere presto novità. Io, come fratello non avrei nemmeno diritto ad eventuali risarcimenti. Chiedo solo la verità, per Silver e gli altri. Almeno quella”. “I mafiosi non sono uomini”: quarant’anni fa l’omelia di don Italo Calabrò di Mario Nasone* Corriere della Sera, 28 luglio 2024 L’intervento del vicario generale della diocesi di Reggio Calabria nonché fondatore del Centro Comunitario Agape dopo il rapimento del piccolo Vicenzo Daino. Due agosto 1984, a Lazzaro, un paesino di mare a pochi chilometri da Reggio Calabria, Vincenzo Diano, un bambino di undici anni figlio di un noto imprenditore della zona, venne sequestrato dalla ‘ndrangheta. Non è il primo e non sarà l’ultimo sequestro di bambini nell’arco del trentennio che caratterizzò questa spregevole forma di autofinanziamento della malavita calabrese. I sequestri di donne e bambini determinarono una sorta di mutazione genetica della ‘ndrangheta, perché questa organizzazione aveva una sorta di codice d’onore in base al quale bambini, donne ed anziani erano intoccabili. Lo sgomento per il sequestro di un bambino fu tale da richiedere una sollevazione delle coscienze, una rivolta morale che, per concretizzarsi - come la storia ci insegna- aveva bisogno di qualcuno che si mettesse alla testa di un popolo, scuotendolo dal torpore, dalla rassegnazione, dalla paura. Fu don Italo Calabrò, vicario generale della diocesi di Reggio Calabria nonché fondatore del Centro Comunitario Agape, associazione impegnata contro le mafie e le ingiustizie sociali, a farsi promotore di un gesto clamoroso per quei tempi: chiese al parroco di Lazzaro la sospensione dei della Festa patronale in corso in quei giorni in segno di condanna di quel gesto sacrilego, sostituendoli con una celebrazione eucaristica in piazza. E durante quella celebrazione, l’omelia di don Italo divenne una sorta di manifesto religioso contro la mafia. In un’epoca in cui nei contesti pubblici sia civili che religiosi ci si guardava bene anche solo di pronunciare la parola ‘ndrangheta, la voce di Don Italo, diffusa in tutto il paese dagli altoparlanti, scandì parole dure e senza ambiguità. “Siamo qui - disse con voce che trasudava dolore ed indignazione - per isolare i mafiosi. E io spero che questa mobilitazione di coscienze in chiave religiosa così pubblica e partecipata sia di insegnamento per tutte le comunità cristiane. Perché a gesti disumani come quelli di un rapimento-e soprattutto del rapimento di un bambino-si risponda con una mobilitazione di coscienze cristiane e civili”. E ancora: “Conosco la deformazione che in seno alla mafia è stata data alla parola uomo, i mafiosi si ritengono uomini e addirittura - la parodia diventa sacrilega - uomini d’onore. Se c’è qualcuno che non è uomo è invece il mafioso. E se ce qualcuno che non ha onore è il mafioso. I mafiosi non sono uomini. I mafiosi non hanno onore e non li possiamo paragonare nemmeno alle bestie, perché le bestie hanno almeno un istinto paterno e materno”. Parole durissime, mitigate solo alla fine dall’invito rivolto ai mafiosi si ritrovare un barlume dell’umanità perduta convertendosi ed abbandonando la via del male. La prigionia di Vincenzino Diano durò settantadue giorni, e si concluse dopo il pagamento di un riscatto. Per la sua liberazione non fu utile neppure l’appello fatta da Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Calabria. L’omelia di don Italo rappresentò uno spartiacque per una Chiesa come quella calabrese ancora titubante ad esprimere una presa di distanza netta sul fenomeno mafioso. Egli rischiò seriamente per la sua vita, ma scelse in quella occasione e in tutta la Sua missione pastorale di non tacere, fu vicino alle vittime durante la guerra di mafia che in quegli anni insanguinò il reggino per confortare e per mobilitare le coscienze. Sempre usando un linguaggio di verità, come quando diversi sacerdoti diventarono bersaglio della ‘ndrangheta, ai quali amava dire “nel coraggio dei suoi pastori il popolo trova il suo coraggio”. Non è un caso, quindi, che don Luigi Ciotti che lo ritenga uno dei più grandi conoscitori della ‘ndrangheta. Don Italo Calabrò fu un prete che con la forza della sua testimonianza e l’approccio visionario al servizio degli ultimi, seppe coinvolgere tanti giovani nella realizzazione di servizi innovativi per i più deboli e poveri (dalle case per dimessi dall’Ospedale Psichiatrico all’accoglienza per le ragazze-madri), nel servizio civile alternativo al militare e nella lotta contro la corruzione politica. Una storia che la Chiesa reggina sta studiando con l’avvio della causa di beatificazione, un itinerario che parte da lontano e che merita di essere raccontato per comprendere quella sera di agosto del 1984 e le tante altre pagine che segnano la vita di questo straordinario prete del Sud che ha saputo dare voce e corpo alla storia di tanti costruttori di futuro. *Presidente Centro Comunitario Agape di Reggio Calabria Avvocati, quando scatta il conflitto di interessi e la “trascuratezza” nella difesa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2024 Due decisioni delle Sezioni unite, nn. 20881 e 20887, ribadiscono il dovere di assistenza a tutto tondo del cliente e la particolare attenzione ai conflitti di interesse nelle controversie familiari. Nuovi chiarimenti delle S.U. sulla deontologia dei legali. Con una prima decisione si ribadisce che il primo dovere del difensore è proprio l’assistenza nel corso di tutto il procedimento, ragion per cui disertare le udienze costituisce illecito disciplinare; con la seconda invece si chiarisce che il conflitto di interessi tra i legali, in particolare in materia di famiglia, si estende anche ai colleghi di studio. Sul punto, la Cassazione, sentenza n. 20881 depositata oggi, ricorda che il quarto comma dell’articolo 68 del codice deontologico dispone: “L’avvocato che abbia assistito il minore in controversie familiari deve sempre astenersi dal prestare la propria assistenza in favore di uno dei genitori in successive controversie aventi la medesima natura, e viceversa”. Il comma quinto dell’articolo 24 del medesimo corpo deontologico prevede testualmente: “Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi confliggenti si rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale”. Nel caso del ricorrente, incolpato per avere accettato il mandato da parte del presunto padre contro la madre per il riconoscimento della minore, nonostante il curatore di quest’ultima fosse parte della medesima associazione professionale, per la Cassazione sussistono entrambi i presupposti. E cioè: a) l’assistenza del minore in controversie familiari impone all’avvocato di astenersi dal prestare la propria assistenza in successive controversie familiari; b) gli avvocati partecipi di una società professionale o di uno studio associato (tralasciando l’ipotesi dell’esercizio, pur non associato, non occasionale nei medesimi locali, che qui non rileva) debbono astenersi dall’assistere parti aventi interessi confliggenti con la persona assistita da uno dei predetti professionisti. Ne deriva che l’avvocato ricorrente, accettando l’incarico di difendere il padre biologico della persona minorenne, “versando in una situazione di inscindibile contiguità professionale con la collega associata nel medesimo studio, che rivestiva il ruolo di curatrice speciale”, ha finito per dare vita a un conflitto di interessi, “non potendosi escludere che l’interesse dell’aspirante al riconoscimento paterno abbia finito per interferire con quello della persona minore d’età”. Mentre, affermare che nel caso in cui si versi in ipotesi di associazione fra professionisti o di società professionale, o anche solo di abituale condivisione dello studio, il conflitto non si propaghi anche ai colleghi per forza di cosa cointeressati e, comunque, coinvolti, vulnererebbe gli esposti principi. La soluzione contraria infatti procurerebbe “un’irragionevole disparità di trattamento tra il caso in cui si imponga tutela della parte attualmente assistita e quello in cui, l’incompatibilità, per così dire, sopravvenuta, consegua a un successivo incarico, nella particolarmente sensibile materia di famiglia”. Con la prima decisione, la 20877 sempre di oggi, invece la Corte afferma che l’ingiustificato abbandono della difesa lede plurimi fondamentali principi deontologici: non solo il diligente adempimento del mandato (articolo 26), ma anche il dovere di probità e dignità (articolo 9), quello di fedeltà (articolo 10) e quello di coscienziosa diligenza (articolo 12). La Cassazione ha così respinto il ricorso di un avvocato sanzionato dal Consiglio distrettuale di disciplina di Brescia con la della censura poi confermata dal Consiglio nazionale forense. In particolare, il legale venne incolpato di non aver adempiuto “fedelmente e con diligenza” al mandato ricevuto “negligentemente” non partecipando “ad alcuna udienza, con rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita”. Le Sezioni Unite aggiungono che l’incolpato è venuto meno “al primo e paradigmatico dovere del difensore dell’imputato, costituito dall’assistenza e difesa in ogni fase del procedimento”. Mentre, l’assunto che il precetto disciplinare “non sia violato ove non vengano in emersione conseguenze pregiudizievoli per il cliente risulta palesemente estranea al contenuto del precetto stesso e, oltre che ai principi di decoro e dignità della professione”. È ancora “costituisce un incomprensibile ossimoro l’assunto del difensore di fiducia circa la inutilità a priori della propria funzione in presenza di un quadro probatorio univoco”. Cassazione: sì all’iscrizione all’albo degli avvocati anche se imputati di Tiziana Roselli Il Dubbio, 28 luglio 2024 La decisione delle sezioni unite sugli aspiranti legali che ribadisce il principio della presunzione di innocenza. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n. 19726 depositata il 17 luglio 2024, hanno stabilito che il solo fatto di essere imputato in un procedimento penale non è sufficiente a negare l’iscrizione all’albo. Il caso riguardava un aspirante avvocato al quale era stata negata l’iscrizione all’albo dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati a causa di un procedimento penale in corso nei suoi confronti. La motivazione del rifiuto era basata sul presunto mancato rispetto del requisito della “condotta irreprensibile” previsto dalla legge professionale forense. L’aspirante avvocato, che non era stato condannato ma solo imputato, aveva impugnato la decisione del Consiglio dell’Ordine, sostenendo che il principio della presunzione di innocenza e il diritto al lavoro dovessero prevalere. Secondo il ricorrente, il solo fatto di essere imputato non poteva costituire un impedimento automatico all’iscrizione all’albo, in quanto ciò violava i principi costituzionali. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, stabilendo che il mero fatto di essere imputati non è di per sé sufficiente per negare l’iscrizione all’albo degli avvocati. La Corte ha evidenziato che il requisito della condotta irreprensibile deve essere bilanciato con altri principi costituzionali, come il diritto al lavoro, la presunzione di innocenza e il diritto allo studio. Inoltre, ha affermato che l’interesse pubblico alla tutela della professione forense e alla fiducia della clientela deve essere valutato caso per caso, considerando la gravità del reato contestato e lo stadio processuale del procedimento penale. L’interpretazione della Corte porta con sé una visione più equilibrata e costituzionalmente orientata del requisito della “condotta irreprensibile”. La decisione ribadisce il principio di presunzione di innocenza, pilastro del nostro sistema giuridico, e riconosce che il diritto di esercitare una professione non può essere precluso sulla base di accuse non ancora provate in via definitiva. Milano. Chiusi in celle senza spazio, sono centinaia i ricorsi dei detenuti di Ilaria Carra e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 28 luglio 2024 A San Vittore i reclusi contestano di non avere i tre metri quadri a testa previsti dalla legge. E al Beccaria è difficile trovare agenti disposti al trasferimento. Una detenzione “contraria al senso di umanità”. Uno dei tanti ricorsi si conclude con queste cinque parole. Lo ha presentato un recluso di San Vittore che punta il dito su due aspetti: un’organizzazione penitenziaria che di fatto lo costringe a stare dietro le sbarre per la maggior parte della giornata, vista l’impossibilità di svolgere attività alternative; e un sovraffollamento tale che in cella non ha nemmeno quel fazzoletto minimo di tre metri quadrati previsto dalla legge. Sarà un giudice a stabilire se ha ragione. Quel che è certo è che sono centinaia i ricorsi simili presentati dai reclusi, molti dei quali assistiti dagli avvocati della Camera penale di Milano, la quale si concentra appunto su due problemi: il problema delle “celle chiuse” e le violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cioè i “trattamenti inumani e degradanti” in carcere, che se dimostrati possono portare a risarcimenti economici o “sconti” di pena. “La situazione reale è che la gente rimane chiusa in cella per 18-20 ore al giorno in spazi minimali”, è la sintesi di Valentina Alberta, presidente dei penalisti milanesi. “Così abbiamo ritenuto fosse fondamentale portare la situazione di centinaia di persone recluse all’attenzione dell’autorità giudiziaria, offrendoci di sostenere i reclami”. Tra le altre cose, si chiede ai giudici di disporre la disapplicazione della circolare che di fatto impone le “celle chiuse”, “un aggravamento delle condizioni di detenzione spaventosamente pesante rispetto a un obiettivo non centrato”, dice Alberta. La corposa controffensiva legale è partita alla fine dello scorso anno e va avanti: molti ricorsi devono essere ancora fissati per essere discussi. Ma già nel primo mese del 2024 le cause per detenzione inumana e degradante sono state 555 in un solo mese, un numero più alto dell’intero 2023. Le condizioni critiche nelle carceri spesso portano a proteste. Come l’ennesima andata in scena nella notte tra venerdì e ieri nel carcere minorile Beccaria. Un lenzuolo è stato incendiato in una cella, si è sviluppato un incendio spento dagli agenti, due reclusi intossicati. Un’agitazione che segue varie azioni di protesta e di devastazione delle scorse settimane. Ivan Scalfarotto, capogruppo di Italia Viva in commissione Giustizia di Palazzo Madama, ha visitato il Beccaria pochi giorni fa. “Ci sono ancora le tracce delle proteste, molte celle sono inagibili perché distrutte e piene di macerie, c’è la sensazione che siano luoghi da rimettere ancora a posto”. E ancora: “La maggior parte dei detenuti è straniera e sono quasi sempre minori non accompagnati che arrivano qui ma non c’è una rete che li accoglie e li protegge, quindi spesso si trovano a commettere reati come conseguenza dell’abbandono. Se si gestisse il loro inserimento non ci sarebbe il fatto criminoso”. Al minorile Beccaria sono in arrivo 44 agenti penitenziari, quasi tutti appena formati, e qui resteranno in rinforzo dopo i tredici arresti tra i poliziotti nell’inchiesta per le violenze e le torture sui detenuti, da cui è scaturito un clima avvelenato, proteste, rivolte, incendi. Finora molti agenti erano stati distaccati, per tamponare l’emergenza. “Ma nessuno voleva andarci, è stato difficile trovarli nonostante l’indennità di missione di 110 euro lordi al giorno- denuncia il segretario generale del sindacato Osapp, Leo Beneduci. I problemi sono rimasti invariati e in più ci sono situazioni di pericolo. E si fanno orari molto faticosi, “Fine turno mai” diciamo in gergo per dirci che non sai quando finisci e nemmeno in quali condizioni”. Una situazione difficile. Come testimonia un agente da poco distaccato al Beccaria: “Faccio in media dieci ore al giorno, mi è stato chiesto più volte di fare straordinari. Subiamo continuamente aggressioni da parte dei detenuti e non veniamo minimamente tutelati, ho montato più volte presso sezioni dove il “box agenti” non è a norma di sicurezza. La maggior parte dell’istituto risulta inagibile e si continua a piazzare detenuti anche in stanze senza celle e blindi, completamente aperte, anche di notte. Ci sono sezioni dove dopo svariate rivolte ci sono ancora pezzi di vetro di finestre rotte o mazze di ferro che i detenuti possono usare liberamente”. Milano. La Lumia: “Subito misure di emergenza per avere trattamenti umani in carcere” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 28 luglio 2024 Intervista al presidente dell’Ordine degli avvocati: “Le condizioni in sono drammatiche. Cosa fare? Occorre fare ricorso alla liberazione anticipata, al numero chiuso e ai domiciliari”. “Le condizioni delle carceri sono drammatiche. O garantiamo trattamenti umani oppure, se falliamo, la Costituzione rimane carta straccia”. Un anno è passato da quando il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Antonino La Lumia, visitò San Vittore assieme a una delegazione. Entrò nelle celle, parlò con i detenuti. Una visita non solo simbolica. Dodici mesi dopo le condizioni dei penitenziari sono, se possibile, peggiorate. “Servono misure d’emergenza”, insiste La Lumia: da un’accelerazione sulla liberazione anticipata al “numero chiuso” fino a una spinta maggiore sui domiciliari. Partiamo da quella visita a San Vittore... “Ho parlato con i detenuti, sono entrato nelle celle, ho visto dove dormono. Per capire quelle che io definisco le viscere del carcere. Eppure, oggi, è come se quel mondo non fosse il nostro, come se volessimo tenerlo all’esterno. E pensare che San Vittore è in pieno centro. Come avvocato e come cittadino non posso sentire espressioni come “buttare via la chiave...”. Da Milano a Brescia: una lettera dei detenuti di Canton Mombello è stata citata dal presidente della Repubblica… “Le condizioni delle carceri restituiscono una dimensione drammatica. Condizioni non compatibili con un regime di custodia che, come ha detto il presidente della Repubblica, non deve contravvenire al senso di umanità previsto dalla Costituzione. Ho letto la lettera dei detenuti di Brescia. Mi sono soffermato su un passaggio: il carcere non è lo strumento per toglierci di mezzo. Questa espressione fa capire dove lo Stato può fallire e dove non deve. Altrimenti l’articolo 27 rimane carta straccia. Come avvocatura dobbiamo mantenere altissima la guardia, capire se lo Stato abdica alla sua funzione rieducativa. Le parole di Mattarella sono illuminanti: non possiamo parlare di Stato di diritto se non c’è un sistema carcerario che garantisca condizioni di esecuzione della pena umane”. Cosa bisogna fare subito? “Penso a un provvedimento che garantisca la liberazione anticipata in senso più efficace, come prevede la proposta di legge di Roberto Giachetti. È una misura che accelera appunto la liberazione anticipata per chi ha dato prova di un percorso di rieducazione. Un provvedimento emergenziale, certo, ma di emergenza stiamo parlando: oggi i detenuti vivono in condizioni inaccettabili, e se in alcuni casi si può dare la possibilità di uscire prima allora è una misura di civiltà giuridica da prendere in considerazione”. Poi? “Un’altra ipotesi potrebbe essere il numero chiuso. In ipotesi di carenza accertata dei posti detentivi, bisogna verificare possibili misure alternative. Per esempio, per coloro vicini al fine pena si potrebbero prevedere i domiciliari in modo che il condannato continui a espiare la pena liberando posti”. Serve costruire nuove carceri? “A parte che non si inizia domani, può essere un elemento positivo se inserito in un sistema di riforma dell’assetto penitenziario: oggi non è una risposta, viste le condizioni di sovraffollamento e di disumanità dei carcerati”. Parlare di “rieducazione” rischia di rimanere solo uno slogan? “Il carcere deve essere l’extrema ratio. La funzione rieducativa sempre al centro. La Bocconi ha elaborato un report sull’incidenza del percorso trattamentale sulla recidiva. I dati fanno ben sperare. Soprattutto quando i detenuti sono inseriti in percorsi che mirano alla formazione culturale e professionale, e si interviene su fattori come la condizione psicologica, abitativa, lavorativa. In questi casi, e in particolare per i minori, c’è un tasso positivo di riuscita del progetto di rieducazione”. Firenze. “Commissione speciale per tenere acceso un faro su Sollicciano” di Cecilia Del Re* Corriere Fiorentino, 28 luglio 2024 Gentile direttore, di fronte all’inerzia della politica, spesso è la magistratura che interviene a scuotere situazioni insostenibili. E questo sta accadendo anche in relazione alle inaccettabili condizioni in cui centinaia di detenuti scontano la pena al carcere di Sollicciano. Dopo l’ennesimo suicidio di un ragazzo di 20 anni, e dopo alcune denunce alla Procura di Firenze e istanze rivolte al Tribunale di sorveglianza, sono arrivati i primi responsi: “A causa delle condizioni degradanti dell’istituto, è gravemente compromesso il diritto alla salute ed il diritto ad una detenzione rispettosa del senso di umanità e della propria dignità” per il detenuto. E vengono, quindi, dati 60 giorni di tempo all’amministrazione penitenziaria per provvedere all’immediata ripresa degli interventi già programmati. In caso contrario, il detenuto dovrà essere trasferito in un altro istituto “ove siano garantite le minime condizioni di vivibilità” che a Sollicciano mancano. Di fronte allo spettro dell’accertamento delle responsabilità per le situazioni disumane in cui quotidianamente vivono detenuti e lavoratori dell’istituto, a far partire un altro count-down è stata poi l’amministrazione penitenziaria nei confronti della direttrice del carcere, destinataria di un’ammenda e di prescrizioni in materia di igiene e sicurezza sui posti di lavoro da sanare entro 90 giorni. Le risorse a disposizione della direzione dipendono, però, dall’amministrazione penitenziaria, finendo, così, in un circolo vizioso, dove a rimetterci saranno ancora i detenuti, ristretti tra un “rattoppo” e l’altro, come ricordava don Russo qualche settimana fa su questo giornale, in assenza di un intervento strutturale e risolutivo. Quei rattoppi, infatti, non potranno essere considerati interventi utili per ottemperare ai count-down sopra citati, perché altrimenti l’unico gesto di responsabilità- per non aggravare le responsabilità già oggetto di denunce- da compiere può essere solo quello di chiudere a stretto giro Sollicciano, con conseguente trasferimento dei detenuti in altri istituti. Al di sopra di questo cortocircuito di azioni e omissioni, c’è la politica, che, governo dopo governo, ha continuato a non affrontare la situazione, nonostante i reiterati appelli in tal senso provenienti dalle camere penali, dagli amministratori e dalla società civile. Il rischio che intravediamo è che anche le proteste assumano un sapore rituale. Occorre, allora, avere la forza di mettere in rete tutte le realtà che seguono il carcere, consapevoli che su un fronte così difficile l’ordine sparso e gli editoriali dei singoli non aiutano. La politica locale può- e deve- svolgere in tal senso un ruolo importante, unendosi nel nome di quei valori costituzionali che nella nostra civile Firenze vengono sistematicamente violati a pochi chilometri di distanza da Palazzo Vecchio, andando così oltre agli appelli al governo rimasti inascoltati, alle testimonianze di solidarietà e ai confini di competenza. Per questo proponiamo di costituire una commissione consiliare speciale, con compiti e durata prestabiliti, per monitorare lo stato di avanzamento dei lavori (e non dei rattoppi) del carcere, audire le associazioni di volontariato, i dirigenti del ministero, la direzione, il garante, gli operatori della giustizia e realtà come quelle che domani si ritroveranno a San Salvi per discutere di come ripensare il carcere di Sollicciano. Questo servirà a mantenere costantemente alta l’attenzione sul carcere, anche grazie alla pubblicità delle commissioni e all’opera dei media. Presenteremo questa proposta domani in Consiglio comunale, dopo che lo scorso aprile un’analoga proposta del consigliere Di Puccio fu respinta dalla maggioranza, ma ci auguriamo che questo nuovo corso possa vedere la collaborazione di tutte le forze politiche. Così come auspichiamo che il carcere venga concepito come extrema ratio: il sovraffollamento è provocato in primis dalla detenzione sociale. Ed è questa che va affrontata e risolta. *Capogruppo Firenze democratica Venezia. Il carcere di Santa Maria Maggiore in Parlamento “Servono interventi strutturali” di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 28 luglio 2024 Visita di Zanella e Bettin: sovraffollamento. Il consigliere: alloggi per chi lavora. Il caldo soffoca, lo spazio manca anche per andare a passeggiare nell’ora d’aria o se, in regime di celle aperte, in certi settori di detenzione si potrebbe anche muoversi oltre i metri angusti dei cunicoli con le sbarre. Però è carente la superficie da poter calpestare. E a volte, quando uno sta male, non si può fare una visita specialistica perché ci vogliono mesi. Tutto pesa. Esaspera. E rende la vita in carcere, anche al Santa Maria Maggiore di Venezia, difficile da sostenere. Al punto che basta un diniego a una richiesta o una mancata risposta a far esplodere la tensione, come è successo cinque giorni fa. Due detenuti tunisini hanno messo a ferro a fuoco la rotonda (che collega i settori destro e sinistro al piano terra): uno voleva il trasferimento, l’altro aveva esigenze di tipo sanitario. Nessuno dei due è stato accontentato. “I segni della ribellione erano ancora visibili. I vetri della guardiola degli agenti penitenziari li abbiamo trovati rotti”, racconta l’onorevole di Alleanza Verdi e sinistra Luana Zanella che ieri, con il capogruppo di Venezia Verde Progressista in consiglio comunale, Gianfranco Bettin, ha visitato il penitenziario lagunare. “Sto vedendo uno alla volta tutti gli istituti nel Paese. Dobbiamo essere un punto di riferimento e portare le istanze in Parlamento. Già 59 persone si sono tolte la vita in carcere da inizio anno. L’ultimo è un trentenne trovato morto a Rebibbia due giorni fa. E non solo i detenuti compiono gesti estremi, anche i poliziotti penitenziari- dice Zanella-. Segno di un ambiente malsano”. Il sovraffollamento è evidente. “Venezia ha una struttura di celle piccole, non ha aree per camminare. Il caldo afoso che ormai va da maggio a ottobre aggrava la situazione- argomenta Bettin-. Manca personale, ispettori e sovrintendenti soprattutto. Lavorerò in Consiglio per chiedere alloggi e più posti nel parcheggio al Tronchetto per facilitarne la mobilità”. Zanella intende portare alla Camera proposte di misure che riducano la pressione negli istituti (amnistie, indulti, accelerazione della rimessa “Nell’area verde, a ridosso del quartiere Cita, a compensazione dell’enorme intervento edilizio previsto su Marghera, per alcuni grandi alberi è iniziato l’abbattimento”. La denuncia è del comitato Marghera Libera e Pensante che ieri ha organizzato una protesta nell’area. “Abbiamo visto distruggere le grandi piante senza essere informati. Gli alberi non si abbattono, si conservano”. Dieci giorni fa il comitato ViviAmo Marghera aveva avvertito la polizia locale accorgendosi dell’abbattimento di alberi in corso in via Ulloa, nell’area Cediv. “Non c’è stata segnalazione di inizio lavori. Ringraziamo i vigili per il loro intervento. Non ci fermeremo, sperando che gli ultimi alberi di grosso fusto non vengano sradicati”. (a. ga.) in libertà dei reclusi ormai vicini al fine pena). “In attesa- dice- di interventi strutturali e del cambio della legge Bossi-Fini che considera reato la clandestinità”. Sofferenza e insofferenza fanno scoppiare ribellioni e mettono a dura prova il personale. “A Venezia ci sono agenti giovanissimi- prosegue l’onorevole- Hanno un punteggio maggiore rispetto agli altri, però succede che quando hanno maturato i requisiti per chiedere il trasferimento se ne vanno”. Il sovraffollamento che qui, secondo la parlamentare di Sinistra, è meno accentuato rispetto al Regina Coeli o al Rebibbia, si aggrava per la presenza di persone con dipendenze e problemi psichiatrici. “Serve la collaborazione con il Comune per l’inserimento al lavoro, in carcere e fuori - ribadisce il consigliere Bettin. I detenuti a Santa Maria Maggiore sono sempre più giovani perché è cambiata la legge. In tema di rave party e dipendenze situazioni che prevedevano multe adesso costituiscono reato e sono punite con la carcerazione. Bisogna agire anche su questo e tenere alta l’attenzione”. Prato. Rivolta in carcere, i letti come barricate di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 luglio 2024 Esplode ancora l’ira detenuti per le condizioni disumane, stavolta alla Dogaia di Prato. Una nuova rivolta nelle carceri toscane: dopo Sollicciano, è accaduto la notte tra venerdì e sabato alla Dogaia di Prato. Distrutte finestre e telecamere, neon divelti, letti usati come barricate. La calma torna dopo ore, con l’intervento della polizia penitenziaria. I sindacati: mancano 52 agenti, non c’è un direttore né un comandante e ci sono più di 40 gradi. L’intervista con Luigi Manconi: “Subito indulto e amnistia”. Non solo Sollicciano. Le carceri toscane vivono un periodo drammatico. Aumentano i disagi dei detenuti e degli agenti penitenziari che ci lavorano. Le cronache raccontano di frequenti disordini e rivolte. Venerdì sera è toccato al penitenziario La Dogaia di Prato, dove una ventina di reclusi ha dato il via a una rivolta che, solo dopo ore di tensioni e devastazioni, è stata sedata dagli agenti. La protesta è esplosa nella prima sezione del carcere pratese, nel reparto di media sicurezza. A raccontare cosa è successo sono i sindacalisti della Fp Cgil: “I reclusi hanno divelto i neon della sezione, lasciando al buio il reparto. Hanno poi usato le brande di ferro per barricarsi, impedendo l’intervento della polizia penitenziaria”. Paura tra gli agenti, che però sono riusciti ad avviare una mediazione lunga ed estenuante, al termine della quale, intorno alle 2 di notte, è tornata la calma. “Alcuni detenuti hanno cominciato a distruggere l’intera ala del penitenziario- aggiunge il segretario Uil Pa Ivan Bindo- Sono state divelte finestre, telecamere e sono stati utilizzati i letti per barricarsi ed evitare l’ingresso agli agenti. Sono state distrutte suppellettili ed è stato appiccato il fuoco ad alcuni indumenti e lenzuola, con danni all’impianto elettrico”. Quale sia stata la scintilla che ha innescato la rivolta ancora non è chiaro, di certo ad alimentare la protesta ci sono le condizioni non semplici in cui vivono i detenuti, soprattutto in queste settimane di caldo estremo. “Nelle celle si vive e si lavora con temperature che durante la giornata oltrepassano i 40 gradi- spiega Donato Nolè, coordinatore nazionale Fp Cgil polizia penitenziaria- La struttura del carcere di Prato è in cemento armato e il caldo viene assorbito completamente. Non ci sono né aria condizionata e neppure ventilatori, e questo certamente contribuisce ad esasperare gli animi delle persone. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che il penitenziario pratese non ha un direttore effettivo, non ha un comandante e neppure un vicecomandante. È un dato di fatto che i disordini più consistenti si verifichino soprattutto in quelle carceri sprovviste di direzione, dove mancano un governo, una visione, una prospettiva”. Oggi La Dogaia non presenta una condizione di particolare sovraffollamento. I reclusi sono 576, meno di quelli previsti dalla capienza regolamentare. “Ma è un dato falsato- spiega Nolè- perché alcuni singoli reparti presentano più reclusi del previsto”. Si tratta, dopo quello fiorentino di Sollicciano, del secondo penitenziario più grande della Toscana. Ogni cella ospita tre persone in spazi, come scritto nel rapporto dell’associazione Antigone, “piuttosto ristretti e fatiscenti”. Le celle sono sprovviste di docce interne e non in tutte è garantita l’acqua calda. Nel 2023 si è verificato un suicidio, oltre a dieci tentati suicidi e 172 casi di autolesionismo. Mancano gli agenti penitenziari: dovrebbero essere garantiti 310 uomini, invece ce ne sono solo 258. Il sindacalista Nolé, esprimendo preoccupazione per la situazione nelle carceri italiane, annunciato che il 31 luglio la Fp Cgil sarà in piazza a Roma a manifestare contro le problematiche che riguardano il comparto della sicurezza. L’episodio di Prato “rappresenta l’ennesimo segnale di crisi del sistema penitenziario nazionale, evidenziando la necessità di interventi immediati per evitare il ripetersi di simili situazioni” conclude. Il primo agosto gli agenti della Uil Pa incontreranno il neo provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria Gloria Manzelli: “Parleremo delle aggressioni al personale, della fatiscenza delle carceri toscane e della carenza dell’organico” dice il segretario regionale toscano Eleuterio Grieco. Sempre il primo agosto, a Firenze, è prevista un audit della Asl per analizzare i fatti che hanno portato al suicidio di Fedi, il detenuto tunisino di appena 20 anni che si è tolto la vita il 4 luglio e il cui corpo sarà rimpatriato nei prossimi giorni. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Pestaggi sui detenuti, tornano in servizio gli agenti imputati Il Domani, 28 luglio 2024 Esulta un sindacato di categoria che ringrazia il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove. Sono tornati in servizio sei agenti della polizia penitenziaria imputati nel processo per i pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile del 2020. La decisione, come riferisce il sindacato Usapp, è stata fortemente caldeggiata dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove. Possono rimettere così la divisa a capo e vice della Polizia Penitenziaria dell’istituto penale, insieme a due ispettori e due assistenti capo coinvolti nell’inchiesta. Potrebbe essere il preludio dello stop alla sospensione di altri agenti colpiti dalla stessa misura. La storia, svelata da Domani con lo scoop di Nello Trocchia, è finita in tribunale, ma nelle ultime ore i protagonisti di quella vicenda sono stati riammessi al lavoro. Gli articoli del nostro quotidiano hanno raccontato uno spaccato di violenze gratuite come rappresaglia ad alcune richieste avanzate dai detenuti. In quei giorni si sollevarono molte voci indignate. L’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, aveva descritto quei fatti come un “tradimento della Costituzione”. Il sindacato Usapp ha diffuso una nota per esprimere la propria soddisfazione per la decisione, ritenendo “eccessivamente penalizzante visto che sono passati 4 anni e mezzo dai fatti contestati e che lo stipendio, con la sospensione che dura dal giugno del 2021, si è ridotto con disagi economici per le famiglie”. Da qui il ringraziamento di Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio, entrambi dirigenti Usapp, rivolto al sottosegretario Delmastro, “con cui prosegue un proficuo confronto allo scopo di ridare credibilità al sistema penitenziario e, con questo, dignità al lavoro della polizia penitenziaria”, si legge nella nota. Matera. La storia di Gennaro: in carcere ho capito cos’è la vita vera di Roberta Barbi vaticannews.va, 28 luglio 2024 Gennaro Attrice, una condanna a 26 anni che terminerà nel 2028, oggi è in affidamento. Fino a qualche mese fa era detenuto nella casa circondariale di Matera, dove la sua storia è tra le prime a essere protagonista del nuovo giornale “S-catenati, oltre l’errore”, promosso dall’associazione di volontariato penitenziario Disma. Gennaro Attrice nasce e cresce ad Arzano, nella periferia nord di Napoli, conosce da vicino la delinquenza e inizia presto a praticare l’illegalità: vende sigarette di contrabbando, “ma solo per aiutare mamma che per vivere vendeva candeggina e detersivi, mentre papà lavorava in un negozio a Forcella”. I soldi però non bastano, con sei figli, così i suoi genitori decidono di affidarlo a due signore che figli non ne hanno: “Con loro sono cresciuto in una casa vera, a Napoli, ma quello che vedevo intorno, con scippi continui e vecchiette che venivano trascinate dagli scippatori sull’asfalto mi riempiva di rabbia, così ho deciso di diventare poliziotto”. In polizia Gennaro si mette subito in luce: paracadutista, sommozzatore, esperto di guida veloce, vince una gara dopo l’altra e viene assegnato ai Nocs, il Nucleo operativo centrale di sicurezza, con cui partecipa a operazioni molto delicate e pericolose, ma che regalano anche molte soddisfazioni. Poi, però, negli anni Novanta, pian piano le cose cambiano e dalle operazioni adrenaliniche Gennaro passa a fare la scorta alle mogli dei politici. È quello il momento in cui prendono il sopravvento rabbia e delusione, uno stato di fragilità che apre la strada alla cocaina. Sempre più giù - Quando lo trovano con diverse dosi di polvere bianca, Gennaro viene buttato fuori dalla polizia, anche perché decide di non patteggiare. È l’inizio di una vita fatta di espedienti, di lavoretti e di droga. Entra ed esce dal carcere, fino alla condanna più grande, quella per omicidio. “Quella schifezza mi aveva scombussolato il cervello - racconta oggi a Radio Vaticana-Vatican News - mi faceva vedere le cose contorte, una realtà falsata, mentre per vedere le cose come stanno realmente sono dovuto entrare in carcere. Lì ho scoperto cos’è la vita”. Il carcere come rinascita, ma non subito - In carcere Gennaro torna a intraprendere la lotta contro i prepotenti, ma interpretandola a modo suo, così non ottiene permessi, né giorni premio, la sua non è esattamente una buona condotta. Poi arriva il 23 giugno 2010. “Mio figlio resta vittima di un incidente in moto, lui che era pulito, un gran lavoratore, che aveva aperto una pizzeria tutto da solo. In realtà è morto il 21, ma me l’hanno detto due giorni dopo per paura della mia reazione”, racconta con le lacrime agli occhi. In realtà la sua reazione sarà sorprendente. “Ho fatto esattamente l’opposto di quello che farebbero tutti, disperandosi e lasciandosi andare oppure diventando ancora più cattivi - riflette - amavo mio figlio, era tutto per me e sapevo di essere stato per lui un eroe all’epoca in cui lavoravo in polizia, perciò a quel punto non potevo distruggermi, lui non avrebbe voluto: dovevo tornare a essere quell’eroe”. Un nuovo inizio - Grazie anche al cappellano e a un brigadiere che lo obbliga a lavorare come scopino - Gennaro in carcere si era sempre rifiutato - pian piano torna in carreggiata, trova una sbarra e inizia a fare trazioni, si rimette in forma, rifiuta gli antipsicotici che gli danno, perché vuole farcela da solo. Per suo figlio, perché da lassù possa essere ancora orgoglioso di lui. “Un giorno un altro detenuto mi ha detto: te la devi abbracciare questa croce. E così ho fatto, ho sofferto tanto e soffro ancora, ma mi hanno aiutato in tanti: gli altri reclusi, gli agenti, tutti. Si dice che il carcere rovina la gente, ma io lì dentro sono diventato una persona migliore, anche se ho visto persone rovinarsi per sempre, dipende da come lo vivi”. Oggi e domani - Gennaro non pensa al futuro, per adesso, ma solo al presente che per lui è fatto di lavoro, tanto lavoro. Anche per non pensare al dolore. E poi c’è il passato, quel carcere che almeno fisicamente si è lasciato alle spalle, perché ora è a casa in affidamento, e che per lui è stato un momento di riabilitazione molto forte, un momento lungo 26 anni che ancora non si è concluso, per lui il fine pena arriverà nel 2028. “Tutti dovrebbero andare in carcere per capire come ci si deve comportare fuori, nella società - spiega - i detenuti, tra loro, dentro, sono più umani, collaborano, si aiutano. E poi ci sono tanti poveri, perciò si condivide tutto, non si butta nulla, si aggiusta tutto”. Ma soprattutto si aggiustano vite, perché questa - Costituzione docet - del carcere è la funzione primaria. Ancona. Giustizia riparativa, le iniziative della Caritas di Gigliola Alfaro agensir.it, 28 luglio 2024 “Film, gruppi di lettura in carcere, testimonianze per far conoscere questo paradigma”. Gli obiettivi iniziali sono stati in larga parte raggiunti anche se non tutte le azioni sono state realizzate mentre, nel farsi, sono emersi collegamenti con altre attività già presenti nella progettualità di Caritas diocesana e arricchimenti resi possibili da collaborazioni con altri enti e realtà del territorio”, dice al Sir l’operatrice che ha partecipato all’iniziativa. Diffondere i principi della giustizia riparativa sul territorio diocesano di Ancona-Osimo. È stato questo l’obiettivo portato avanti dalla Caritas diocesana, nell’ambito del progetto sperimentale sulla giustizia riparativa promosso da Caritas italiana. “Un paradigma nuovo, poco conosciuto, di cui si parla poco e che si fa ancora fatica ad assumere”, dice al Sir Fabiola Sampaolesi, operatrice della Caritas diocesana di Ancona-Osimo, che ha partecipato al progetto. In diocesi opera l’équipe “Carcere e Giustizia”: sul territorio diocesano, infatti, insistono 2 carceri: “Una casa circondariale a Montacuto, che accoglie 370 detenuti, con il problema del sovraffollamento, dove non ci sono solo detenuti definitivi, ma anche appellanti, ricorrenti, non si fanno programmi di reinserimento perché la maggior parte è costituita da detenuti che nel giro di un paio di mesi possono uscire per benefici, misure alternative - spiega Sampaolesi - e una casa di reclusione, che ospita un massimo di 70/80 detenuti, struttura destinata al reinserimento dei detenuti nell’ultima fase del periodo di reclusione”. In realtà, ci racconta l’operatrice, “la Caritas diocesana si occupa di giustizia riparativa già da qualche anno, sia attraverso incontri formativi sia con l’organizzazione a gennaio 2020 dell’incontro pubblico ‘Giustizia riparativa. L’incontro che risana’. In seguito, due volontari hanno organizzato un gruppo di lettura sul libro ‘Un’altra storia inizia qui’ a cura di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, nella sezione di alta sicurezza della casa circondariale di Montacuto, a cui hanno aderito 12 detenuti”. Poi è partito il progetto sperimentale con Caritas italiana, che si è snodato lungo il 2023. “Abbiamo promosso a tal fine alcune azioni, a partire da una piccola rassegna cinematografica, durante la quale abbiamo presentato alla cittadinanza tre film che hanno toccato il tema del carcere, del reinserimento e della giustizia riparativa. In occasione delle proiezioni abbiamo spiegato alla cittadinanza il progetto sperimentale e che la Caritas di Ancona-Osimo è impegnata nel settore del carcere da diversi anni”. I film proiettati sono stati “Grazie ragazzi” di Riccardo Milani, “I nostri ieri” di Andrea Papini, “Le buone stelle” di Hirokazu Korèeda. Sono stati organizzati anche incontri pubblici con testimoni che hanno raccontato la loro esperienza di giustizia riparativa. “A febbraio 2023 abbiamo ospitato Irene Sisi e Claudia Francardi, che hanno raccontato la loro storia: il marito di Claudia è stato ucciso nel 2011 dal figlio di Irene, ma le due donne si sono incontrate e hanno iniziato a dialogare. Nel giugno 2023 a Osimo il secondo incontro ha visto la testimonianza di Agnese Moro, Giovanni Ricci e M. Grazia Grena, che ci hanno parlato della loro esperienza: della lotta armata, della riconciliazione tra chi ha partecipato alla lotta armata e chi ha subito il danno, cioè Agnese e Giovanni. Dalla viva voce di chi è stato protagonista di questi fatti la cittadinanza ha potuto capire cos’è veramente la giustizia riparativa. È stato un momento importante, molto bello, partecipato e sentito”. Sono stati previsti, poi, in estate incontri di carattere più giuridico, ma sempre aperti alla cittadinanza, oltre che a studenti della facoltà di Giurisprudenza, avvocati, volontari e operatori. “Per approfondire le novità introdotte dalla cosiddetta riforma Cartabia abbiamo invitato Lina Caraceni, docente di Procedura penale presso l’Università di Macerata, da anni impegnata nella sensibilizzazione sulle tematiche della giustizia e del carcere. Ha spiegato come funziona la giustizia riparativa all’interno della riforma, è stato importante per capire come la giustizia riparativa s’inserisce nella giustizia penale. La giustizia riparativa non si sostituisce, infatti, alla legge nel sistema giuridico penale italiano, ma si affianca”. Ancora, prosegue l’operatrice, “abbiamo organizzato incontri nelle scuole, nello specifico con studenti delle quarte e quinte di 2 licei con indirizzo in Scienze sociali, uno di Ancona e uno di Osimo. Abbiamo spiegato cos’è la giustizia riparativa, i principi, i valori. Questi stessi ragazzi hanno partecipato anche al nostro convegno finale, promosso il 24 novembre 2023 ad Ancona, sulla giustizia riparativa. È stato importante il coinvolgimento dei giovani perché la giustizia riparativa non è solo un paradigma riguardante la giustizia, ma uno stile di vita”. Il convegno, intitolato “La giustizia che ripara - La via dell’incontro”, “ha avuto lo scopo di tirare le fila di tutto il nostro lavoro, è stato suddiviso in una parte più teorica e nozionistica e una parte più esperienziale, a cui ha partecipato il direttore dei servizi sociali per i minorenni di Ancona per spiegare che in Italia la giustizia riparativa nasce con i minori, la messa alla prova; Giovanna Terna, avvocato della Caritas di Avellino, dove hanno aperto un centro di giustizia riparativa; un ex detenuto del carcere di Montacuto, che ha partecipato all’esperienza del gruppo di lettura. È intervenuto anche un giovane regista anconetano: infatti, abbiamo lavorato anche su podcast nel quale abbiamo raccontato il nostro progetto attraverso i volontari del carcere, i detenuti di Montacuto, la direttrice del carcere, un funzionario di polizia, insomma tutti quelli che hanno partecipato al progetto sulla giustizia riparativa. Quando il podcast sarà pronto sarà uno strumento di diffusione significativo”. Si è costituito all’interno della casa circondariale di Montacuto uno Sportello informativo sulla giustizia riparativa gestito dalla Cooperativa Lella e, sebbene ciò non fosse stato inserito nel progetto iniziale, “si è compresa la necessità di un’azione comune con la Caritas. È stato perciò organizzato un incontro tra le persone detenute che hanno partecipato al gruppo di lettura, promosso dalla Caritas diocesana, e le operatrici dello Sportello con lo scopo di approfondire i principi della giustizia riparativa e di illustrare le innovazioni introdotte dalla riforma Cartabia”. Nel complesso, evidenzia Sampaolesi, “gli obiettivi iniziali del progetto sono stati in larga parte raggiunti anche se non tutte le azioni sono state realizzate mentre, nel farsi, sono emersi collegamenti con altre attività già presenti nella progettualità di Caritas diocesana e arricchimenti resi possibili da collaborazioni con altri enti e realtà del territorio”. Non sono mancate criticità: “Abbiamo rilevato una scarsa partecipazione degli ordini professionali, in particolare assistenti sociali, avvocati, operatori sociali. Al convegno finale sono intervenuti pochi avvocati ma avendo spesso contatti con molti di loro ci rendiamo conto di una scarsa conoscenza e di un sommario interesse da parte della categoria verso la giustizia riparativa. Registriamo poca partecipazione anche della comunità ecclesiale del territorio diocesano”. Non solo: “C’è difficoltà a creare reti di collegamento con i servizi pubblici del territorio, necessarie per creare collaborazioni al fine di gettare le basi per un tavolo di concertazione sui temi del carcere e della giustizia riparativa”. In positivo, “la Caritas diocesana ha ottenuto visibilità e siamo riconosciuti come un soggetto di sensibilizzazione sul territorio, dagli enti pubblici e dalla comunità nel suo insieme. Questo ruolo ha facilitato la costruzione di percorsi operativi sulla giustizia riparativa organizzati da altre associazioni della Regione all’interno dei due istituti penitenziari con la prospettiva di ideare collaborazioni future”. Buono il rapporto con la scuola, “grazie alla collaborazione di alcuni insegnanti si è creato un clima educativo ispirato ai valori di questo paradigma che speriamo di poter portare avanti e approfondire nel corso dei prossimi anni”. Sampaolesi conclude: “In futuro, ma è un’idea al momento, potremmo pensare a uno sportello per le vittime: nella giustizia riparativa la vittima ha uno spazio privilegiato perché finalmente viene ascoltata”. Migranti. Abusi e pushback, l’accoglienza bulgara è in crisi di Simone Matteis Il Domani, 28 luglio 2024 Migranti e richiedenti asilo in arrivo dalla Turchia vengono trattenuti in strutture fatiscenti e inadeguate. E per i minori non accompagnati i posti non bastano. Picchiati, morsi dai cani, spogliati e derubati di soldi e telefono oppure costretti a strisciare lungo un canale. Girando il biglietto da visita del sistema d’accoglienza che la Bulgaria offre a migranti e richiedenti asilo c’è una scritta, inequivocabile: pushback. Tradotto, respingimenti illegali e contrari al diritto internazionale. Da Sofia gli ultimi dati del ministero dell’Interno parlano di oltre diecimila casi di migranti rientrati volontariamente in un paese vicino nei primi quattro mesi di quest’anno, mentre nel 2023 la polizia di frontiera bulgara avrebbe sventato circa 160mila tentativi di attraversamento irregolare. Cifre consistenti che, però, non convincono i responsabili delle organizzazioni umanitarie che da tempo si battono per la tutela dei diritti umani nella prima porta dell’Europa lungo il game, la rotta balcanica. Ogni anno transitano dalla Bulgaria migliaia di persone provenienti principalmente da Afghanistan e Siria: varcano il confine passando dalla Turchia ma il loro obiettivo è proseguire verso nord-ovest. Chi arriva sogna la Francia, la Germania o l’Austria, a volte perfino l’Italia, ma la realtà è ben più complicata. Busmantsi, Elhovo e Lyubimets sono i tre centri di detenzione presenti in Bulgaria. Qui, secondo il database del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, viene applicata sistematicamente una forma detentiva nei confronti dei richiedenti asilo, a partire dalla presentazione della domanda fino all’avvenuta registrazione. Un processo che, molte volte, si svolge proprio all’interno dei centri di detenzione dove gli irregolari attendono l’espulsione. Le testimonianze raccolte dalla piattaforma internazionale “InfoMigrants” raccontano di una situazione drastica in quanto a sicurezza, pulizia e dignità: telecamere di sorveglianza in stanze sovraffollate, servizi igienici inaccessibili, sporcizia, insetti e cibo avariato. In pratica, una prigione per i migranti irregolari intercettati sul territorio bulgaro. Qui, privati del cellulare e in balia delle violenze degli agenti di polizia, è possibile formalizzare la richiesta d’asilo, ma la maggior parte dei presenti va incontro a procedure di rimpatrio. Le denunce - A partire dal 2021 le denunce di maltrattamenti e respingimenti illegali alla frontiera si sono intensificate fino al 2023, ultimo anno prima dell’adesione della Bulgaria a Schengen. Su tutte, grande eco ha avuto la vicenda del black site di Sredets: secondo un’inchiesta del collettivo “Lighthouse Report”, un centro di detenzione illegale in cui rifugiati e migranti, privati del diritto di chiedere asilo, venivano trattenuti prima del pushback e che sarebbe stato finanziato con fondi europei gestiti dalle autorità di frontiera bulgare. Dal 31 marzo 2024 Sofia è entrata a far parte dell’area di libera circolazione dell’Ue dopo aver partecipato al Progetto Pilota finanziato dalla Commissione europea allo scopo di organizzare “procedure di asilo rapide, rimpatri più efficaci e una maggiore protezione delle frontiere”, come sintetizzato dalla commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson. L’emergenza continua - Tutto questo, però, non sembra aver posto un freno all’emergenza migratoria. Ad Harmanli, non lontano dalla Turchia, è stata da poco inaugurata un’area dedicata all’accoglienza dei minori non accompagnati, per una capienza di 98 posti. Troppo pochi stando alle statistiche ufficiali: sugli oltre ventiduemila richiedenti asilo registrati nel 2023, quasi quattromila erano minori, un centinaio dei quali d’età inferiore ai tredici anni. Da gennaio a aprile 2024 sarebbero già 358 i minori arrivati in Bulgaria, provenienti per lo più dalla Siria: ad attenderli il centro di Voenna Rampa, un enorme edificio immerso nel grigiore dell’area industriale di Sofia. Un luogo che dovrebbe rappresentare l’ultimo tassello dell’accoglienza per i minori ma che, invece, finisce per essere l’unica alternativa a un sistema di protezione nazionale inadeguato all’impennata degli arrivi. A distanza di anni, il confine fra Turchia e Bulgaria resta uno dei punti più spigolosi dell’intera rotta balcanica, ma denunciare le violenze subite molto spesso non viene neppure considerata un’opzione plausibile. Farlo significherebbe autodenunciare la propria presenza sul territorio nazionale e, pertanto, rimanere vincolati ad un paese che, nonostante i progressi in ambito comunitario, continua a non essere in grado di gestire al meglio l’emergenza migratoria. Migranti. Violenze e degrado, il dramma dei bambini nei Centri per minori alle Canarie di Martina Ucci L’Unità, 28 luglio 2024 I Centri hanno superato il 200% della capienza. Mancano posti letto, personale, attività educative. In questo sistema saturo gli abusi sono all’ordine del giorno. “Mia madre mi chiede se sto studiando, se sto facendo qualcosa, se sto bene, e io le mento per farla stare tranquilla perché sono stato rinchiuso qui per nove mesi senza fare assolutamente nulla. Non mi aspettavo di essere trattato così”. Sam (nome di fantasia) sono quasi 300 giorni che si sveglia intorno alle nove, va a fare colazione e poi si siede in strada, sul marciapiede, ad ascoltare musica e guardare video su Tik Tok. Così fino alla sera, in cui trascina a fatica i piedi per andare nella sua stanza, che è una sala riunioni riempita con circa 200 letti. Da quando ha attraversato il mare Sam è ospitato in un centro per minori a Tenerife. Negli ultimi anni le Isole Canarie sono sommerse da arrivi di migranti minori non accompagnati. Ma dall’ottobre del 2023 la situazione ha raggiunto i massimi storici. Come riferisce El País, in un’inchiesta sull’accoglienza dei minori nelle isole spagnole, si tratta di circa 5.600 arrivi, in confronto a una capacità di accoglierne al massimo 2mila. Negli ultimi 18 mesi le autorità canarie hanno accolto la metà dei minori stranieri non accompagnati arrivati in Spagna. “Nonostante gli sforzi del governo delle Canarie e di molti professionisti, è impossibile garantire i diritti dei ragazzi con questi livelli di saturazione”, spiega al quotidiano spagnolo Sara Collantes, la responsabile delle politiche per l’infanzia e lo sviluppo dell’Unicef Spagna. Questa situazione sta creando grossi problemi nella vita dei minori. Si denunciano abusi, violenze e anche una condizione di vita non dignitosa. La procura del governo autonomo delle Isole Canarie aveva deciso di chiudere un centro per minori in cui un centinaio di ragazzi viveva in condizioni terribili, ma a causa dell’aumento degli arrivi e delle richieste di posti letto in continua crescita, questo luogo non ha mai chiuso davvero. Tra le altre criticità che si riscontrano - come sottolinea El País - ci sono la mancanza di accesso alle strutture educative o di formazione lavorativa e la quasi totale inesistenza di attività per i ragazzi, che spesso, come nel caso di Sam, passano le giornate a non fare nulla e dopo 9 mesi in Spagna, ancora non sanno la lingua. “Meno della metà dei minori che ospitiamo frequenta la scuola”, racconta un’assistente sociale di un centro di accoglienza di Gran Canaria. “I ragazzi sono demotivati. Ed è logico, passano la maggior parte della giornata nel centro senza fare nulla”. Questi ragazzi sono arrivati a bordo di un cayuco (un barchino fatto in legno), senza possedere nulla, neanche i documenti. Da ottobre, sono quasi 3.900 i minori registrati dal sistema di accoglienza, ma di loro soltanto in 300 hanno ottenuto i documenti. Secondo una fonte della procura, intervistata dal quotidiano spagnolo, questa discrepanza sarebbe dovuta all’inottemperanza del governo delle Canarie, che non si è mai occupato di presentare la documentazione necessaria a legalizzare i minori. In questo scenario di grande difficoltà, questi ragazzi si trovano intrappolati, bloccati a vivere in condizioni terribili, senza la possibilità di ricevere i documenti e poter lasciare i centri di accoglienza in cui sono obbligati a dormire in stanze con oltre cento letti, a fare i turni per poter mangiare e poter accedere ai bagni. “È un caos. Uno dei motivi per cui ho deciso di andarmene è stata la valanga di arrivi di ottobre, quando abbiamo visto 200 ragazzi lavarsi con un tubo perché nel centro c’erano solo due bagni. Per non parlare della mensa, abbiamo dovuto organizzare 10 turni per farli mangiare, perché lo spazio che avevamo a disposizione poteva ospitarne solo 20 alla volta”. Questa è la testimonianza che un’ex operatrice ha rilasciato a El País a condizione di restare anonima. Questa donna è stata testimone anche di maltrattamenti degli educatori nei confronti dei ragazzi. “Un giorno è successo che un ragazzo senegalese di 17 anni si è rifiutato di fare il suo turno di pulizie. Io gli ho detto “Ok, oggi non esci finché non lo fai”. Probabilmente aveva avuto una brutta giornata, quindi ha iniziato a urlarmi contro e a insultarmi. Lo abbiamo calmato, ma è arrivato un educatore e lo ha portato in ufficio. Ha attaccato la sua fronte a quella del ragazzo e ha iniziato a insultarlo: “feccia, figlio di puttana”, minacciandolo di rimandarlo al suo Paese. Il ragazzo si è pisciato addosso”. “Non è necessario un motivo per punirti”. A parlare è un 15enne gambiano arrivato a Tenerife lo scorso agosto, che racconta di essere stato più volte rinchiuso dagli educatori del centro in cui era ospitato, insieme ad altri cinque ragazzi, in una panic room, una stanza di isolamento. “Prima ti portano in un ufficio e due o tre educatori ti picchiano dappertutto. Durante l’isolamento ti tolgono il cellulare e a parte dormire, quello che puoi fare è solo guardare un monitor che sta acceso 24 ore al giorno. Al momento dei pasti ricevi un vassoio che ti lanciano sul letto”. Questi ragazzi arrivano in Europa attraverso la cosiddetta “rotta atlantica”, imbarcandosi prevalentemente dal Marocco, Mauritania e Sahara occidentale. Questo è un percorso estremamente pericoloso, che, come denunciato dalla ong Caminando fronteras, ha ucciso 6.007 persone nel 2023 e 5.054 solo nei primi cinque mesi del 2024, che corrispondono a circa 33 migranti morti al giorno. La violenza è indescrivibile in un sistema saturo. Due ex operatori che lavoravano nel centro in cui è rinchiuso Sam attribuiscono uno dei maggiori problemi al personale che viene assunto per occuparsi dei ragazzi. “Lì c’è tutto tranne che educatori, persone con una totale mancanza di formazione”, racconta una mediatrice linguistica che ha lavorato per un centro. “Assumono dei portieri da discoteca per intimidire i ragazzi”. “Un giorno sono entrati nella stanza delle punizioni, quella che chiamano “panic room” - racconta Ibrahim, ragazzo gambiano di 16 anni. - “Mi hanno chiesto di spogliarmi e di fare la doccia davanti a loro e mi hanno picchiato”. Da grande Ibrahim vuole fare l’elettricista, “ma se il viaggio finisce alle Canarie, non c’era bisogno di attraversare il mare”, conclude. Questi ragazzi arrivano in Europa attraverso la cosiddetta “rotta atlantica”, imbarcandosi prevalentemente dal Marocco, Mauritania e Sahara occidentale. Questo è un percorso estremamente pericoloso, che, come denunciato dalla ong Caminando fronteras, ha ucciso 6.007 persone nel 2023 e 5.054 solo nei primi cinque mesi del 2024, che corrispondono a circa 33 migranti morti al giorno. Questa situazione emergenziale sta diventando un caso politico nazionale che ha spaccato in due il Partito popolare (Pp), il principale partito di centrodestra all’opposizione, che dal 2023 governa alle Canarie, insieme al partito nazionalista locale Coalición Canaria. A inizio giugno l’amministrazione delle Canarie e il governo centrale hanno concordato una proposta di legge che aiuti oltre le Canarie, anche le due exclave spagnole in territorio marocchino, Ceuta e Melilla. La proposta presentata prevede la redistribuzione obbligatoria dei “minori non accompagnati” dalle regioni in cui è stata superata la capacità di accoglienza del 150%. A questo si aggiunge anche il contributo di 125 milioni di euro a queste regioni. Come dovrebbe funzionare questa redistribuzione non è chiaro. Il vicepresidente delle Canarie, Manuel Domínguez, ha dichiarato che si aspetta sia il capo del Governo spagnolo Pedro Sánchez ad obbligare le regioni ad accettare una redistribuzione. Nel frattempo mentre la popolazione delle Canarie è in rivolta contro questo sistema di accoglienza per loro non sostenibile, il governo spagnolo si aspetta che i numeri degli sbarchi continueranno ad aumentare. Medio Oriente. Missili contro Israele, strage di ragazzini: “È stata Hezbollah” di Nello Del Gatto La Stampa, 28 luglio 2024 Colpito campo da calcio in un villaggio druso del Golan. È strage, ancora strage, stavolta di ragazzini innocenti che giocavano in un campo da calcio. Sono morti in 11, in un villaggio nel Nord di Israele, avevano tra i 10 e i 20 anni. E poi, 30 palestinesi uccisi in un raid al centro di Gaza. Alla vigilia del vertice per una tregua, che si terrà oggi a Roma, da entrambe le parti il sangue mette a rischio qualunque trattativa, e minaccia escalation, mentre si piangono decine di vittime. La giornata di ieri è iniziata con un raid israeliano, che ha colpito una scuola di Deir el Balah, nel centro di Gaza. In serata, un razzo, che Israele dice essere stato lanciato da Hezbollah dal Libano, ha colpito un campo di calcio in una città drusa del Nord del paese ebraico, uccidendo soprattutto minori. “Il peggiore attacco dal 7 ottobre”, dicono a Gerusalemme. Il tutto, in attesa che a Roma riprendano i colloqui per tregua e liberazione ostaggi dal quartetto Usa-Israele-Qatar-Egitto, con non poche difficoltà per il raggiungimento di un’intesa. Erano circa le 18 (ora locale) quando un missile ha colpito un campo di calcio della città di Majdal Shams, che si trova nelle alture del Golan, mentre dei ragazzini giocavano una partita. Qui vive una comunità drusa che non ha mai accettato la cittadinanza israeliana, da quando la zona fu annessa nel 1981, dopo essere stata conquistata nel 1967. Ma i loro rapporti con Israele sono molto positivi, hanno libertà di movimento anche se non votano. Diversi quelli che sono nell’esercito, anche se non di questa città. È la comunità drusa più importante e settentrionale, sotto il monte Hermon, molto vicina ai parenti drusi in Siria. Poco dopo l’attacco, Hezbollah in un comunicato ha rivendicato un attacco contro una base militare che non è molto distante dalla città. Ma non ha mai rivendicato l’attacco al campo da calcio, anzi in un comunicato ha smentito di aver attaccato Majdal Shams. Fonti non israeliane parlano di un razzo del sistema antimissilistico Iron Dome che ha fallito l’obiettivo e ha provocato le vittime. Circostanza non confermata dall’esercito che, dopo riunioni sulla situazione, ha confermato la responsabilità di Hezbollah. Le 11 vittime, in ogni caso, avevano tra 10 e 20 anni. I feriti sono trenta. Ma si teme che il bilancio delle vittime possa aumentare. Dalle prime testimonianze risulta che le sirene d’allarme si siano attivate ma il tempo di preavviso, in una località così vicina al confine, è irrisorio. Un’indagine dell’esercito dovrà chiarire perché il razzo non è stato intercettato. E si aspetta ora la risposta di Israele. La comunità drusa, che non ha rapporti idilliaci con Hezbollah, si è detta scioccata. Dolore espresso sia dai drusi in Israele che in Siria, che in passato più volte hanno respinto i ribelli sciiti libanesi intenzionati a sferrare dai loro territori attacchi nel Nord di Israele che avrebbero potuto colpire i familiari dall’altro lato del confine. Sul fronte di Gaza, invece, l’obiettivo è stato ancora un compound scolastico: Khadija, che come molte strutture simili nella Striscia, da diverso tempo era divenuto rifugio di sfollati. Sulla scuola sono stati lanciati da Israele almeno tre ordigni, uno dei quali, secondo fonti palestinesi, era riempito con pezzi metallici per massimizzare le vittime e i feriti. Trenta morti e un centinaio i feriti. Tra le vittime, denuncia il ministero della Salute di Gaza, 15 minori e 8 donne. Scene di caos al vicino ospedale Al Quds, dove sono stati portati i feriti. Alcuni testimoni parlano di almeno due minori decapitati. Ma le informazioni diffuse dai palestinesi vengono contestate dall’esercito. Per i militari, la struttura scolastica ospitava una sala di comando di Hamas utilizzata dal gruppo per pianificare ed eseguire attacchi contro le truppe a Gaza e contro Israele. Inoltre, l’esercito, in una dichiarazione, ha affermato che il sito è stato utilizzato per sviluppare e immagazzinare armi. Intere famiglie sono state sfollate una quindicina di volte. Ora l’area umanitaria parte da Al Mawasi fino a Deir El Balah, tenendo fuori gran parte di Khan Younis, dopo che l’esercito ha riscritto i confini di queste zone, a seguito di nuove operazioni belliche nella città. Riscrittura per la quale più dell’80% del territorio della Striscia è considerato off limits per i civili. Proprio il passaggio dei gazawi da Sud a Nord, è uno degli ostacoli al raggiungimento della tregua e sarà sul tavolo a Roma. Netanyahu insiste di voler mettere su un sistema di controllo per ogni persona, per evitare che tra i rifugiati si nascondano uomini armati. Oltre a questo, il premier insiste su un sistema di controllo del corridoio Philadelphi, il confine tra Egitto e Gaza da dove, secondo Israele, entrano armi e contrabbando verso la Striscia. Hamas ha già respinto queste richieste, volendo tornare alla proposta presentata due mesi fa dal presidente Biden. Accordo la cui approvazione è stata spinta da imponenti manifestazioni ieri sera in tutto il paese e oggi all’aeroporto di Ben Gurion dove atterrerà Netanyahu di ritorno dagli Usa. Bielorussi. Il regime esibisce in tv la “richiesta di grazia” del tedesco condannato a morte di Giuseppe Agliastro La Stampa, 28 luglio 2024 Berlino si indigna: “Non è tollerabile”. La dittatura di Lukashenko è tristemente nota per il disprezzo dei diritti umani e le “confessioni” strappate con la violenza. Un uomo in lacrime, rinchiuso in una cella angusta, che con la voce spezzata dall’angoscia si appella al dittatore Aleksandr Lukashenko affinché gli conceda la grazia. La tv di Stato bielorussa ha mandato in onda un video che ha subito suscitato un’ondata di indignazione. Prima di tutto nel governo di Berlino. Il giovane ripreso dalle telecamere - assicurano i media internazionali - è infatti un cittadino tedesco a cui il regime bielorusso ha riservato la più terribile delle pene: la condanna a morte. Una condanna dietro la quale si agitano le tensioni tra l’Occidente e il regime di Minsk, noto per le torture e le detenzioni politiche, e a sua volta stretto alleato di quello di Putin. E non sono pochi gli osservatori che in questa bieca spettacolarizzazione del dolore vedono un messaggio di Lukashenko alla Germania per un possibile scambio di detenuti che coinvolga anche il Cremlino. I giornali internazionali identificano l’uomo come un trentenne che in passato ha lavorato come operatore sanitario della Croce rossa tedesca. Il filmato è costruito dal regime in modo da cercare di farlo apparire colpevole nonostante non ci siano prove certe contro di lui. Il giovane sostiene di essere entrato in Bielorussia lo scorso autunno su ordine dell’intelligence ucraina. Afferma di aver fotografato dei siti militari e di aver fatto esplodere un ordigno su una linea ferroviaria vicino Minsk. “Mi pento ogni singolo secondo. Posso ritenermi fortunato che nessuno sia stato ucciso o ferito”, dichiara, accusando il governo tedesco di averlo “abbandonato completamente”. Poi afferma di aver commesso “il più grande errore” della propria vita e sostiene di ammettere la propria “colpevolezza”. Il video di 17 minuti viene quindi presentato dalla propaganda di Lukashenko come una sorta di confessione. Ma la realtà è molto più complessa. Il racconto del cittadino tedesco finito nelle mani della dittatura bielorussa non è verificabile e il regime non ha presentato prove, processandolo tra l’altro in segreto. Inoltre - e questo è un punto fondamentale - l’uomo è evidentemente in uno stato di forte pressione, di coercizione, e le autorità bielorusse sono tristemente note per le accuse inventate di sana pianta, per il loro disprezzo dei diritti umani e per le innumerevoli “confessioni” strappate con la violenza, sia fisica sia psicologica. “Il modo in cui il regime bielorusso ha messo in mostra in televisione il cittadino tedesco non è tollerabile”, ha denunciato la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, mentre la portavoce della diplomazia di Berlino, Kathrin Deschauer, ha accusato la tv bielorussa di aver violato “la dignità” della persona ripresa dalle telecamere. Secondo l’ong Viasna, il cittadino tedesco sarebbe stato condannato il 24 giugno, ufficialmente con sei capi d’imputazione, tra cui quelli di “terrorismo” e di “attività mercenaria”. Ma alcuni giornali denunciano dei punti poco chiari. La Deutsche Welle per esempio sostiene che, secondo la corte, l’uomo sarebbe entrato in Bielorussia il 2 ottobre come turista “con dei telefoni e un drone”, ma la legge locale vieta ai singoli individui di far entrare droni nel Paese e i controlli alla frontiera sono particolarmente severi. Un gruppo di oppositori bielorussi sentito dalla testata Meduza sospetta inoltre che l’esplosione sia stata in realtà organizzata dal Kgb, cioè dai servizi segreti che in questo Paese hanno mantenuto il vecchio nome sovietico. La situazione resta insomma piuttosto confusa. Ma c’è chi pensa che il vero obiettivo di Minsk sia quello di includere il cittadino tedesco nelle trattative per possibili scambi di detenuti tra Russia e Occidente. Mosca è infatti accusata di prendere di mira cittadini di Paesi occidentali, americani in particolare, per usarli come “pedine di scambio” per il rilascio di cittadini russi detenuti in Occidente. Minsk la settimana scorsa ha dichiarato che Germania e Bielorussia “stanno tenendo delle consultazioni” e ha inoltre affermato di aver “proposto delle soluzioni concrete” al governo di Berlino. Quali non si sa. Putin mesi fa ha però lasciato intendere di volere la liberazione di Vadim Krasikov: un presunto ex agente dei servizi russi in carcere in Germania con l’accusa di aver ucciso un ex comandante dei separatisti ceceni. L’oppositore bielorusso Pavlo Latushko ipotizza un possibile scambio che includa Krasikov e il cittadino tedesco. Quest’ultimo però adesso si trova nel braccio della morte del regime di Lukashenko e non si può non temere per la sua vita. Centrafrica. Torture e abusi nelle carceri sovraffollate di Valerio Palombaro L’Osservatore Romano, 28 luglio 2024 Torture, maltrattamenti, detenzioni illegali e arbitrarie sono all’ordine del giorno nelle sovraffollate carceri della Repubblica Centrafricana. La denuncia contenuta in un rapporto delle Nazioni Unite, arriva a pochi giorni dalla segnalazione dell’Unicef secondo cui oltre dieci anni di conflitto protratto e di instabilità “mettono a rischio ogni singolo bambino” del Centrafrica. Due distinti rapporti internazionali che, oltre tornare sulla piaga della grave situazione socio-politica nel Paese, mettono in luce un’altra dolorosa realtà per i bambini. Perché anche i minori sono direttamente interessati dai contenuti del rapporto dell’Onu sullo stato delle prigioni. “Sebbene la Repubblica Centrafricana abbia firmato una Convenzione internazionale per non mettere i bambini in carcere, rimane il problema dell’assenza di un carcere minorile nel Paese”, spiega al telefono de “L’Osservatore Romano”, suor Elvira Tutolo, religiosa delle Suore di Santa Giovanna Antida Thouret originaria di Termoli: “Così i ragazzini che commettono piccoli o grandi crimini, cosa non inusuale a causa delle condizioni di povertà estrema, vengono sbattuti in celle sovraffollate insieme agli adulti. Senza diritti”. “Siamo entrati in questa problematica in maniera molto diretta- ricorda suor Elvira-. Nella località di Berberati stavamo a pochi passi dalla prigione e una volta abbiamo sentito delle grida: siamo rimasti scioccati nello scoprire che erano quelle di un ragazzo di soli 12 anni”. Dopo circa 25 anni di missione a Berberati, al confine per il Camerun, la religiosa italiana vive oggi nella capitale Bangui dove ha “più voce” e dirige l’ong Kizito. Nel pieno della guerra civile il recupero dei bambini soldato era al centro della sua attività missionaria, mentre oggi l’attenzione è sempre più rivolta al reinserimento sociale dei minori carcerati. Decine di migliaia di persone in Centrafrica, bambini compresi, sono detenuti in condizioni disumane. A cominciare dalla “famigerata” prigione Ngaragba di Bangui. Il sovraffollamento delle carceri porta una diffusa malnutrizione, fa proliferare le malattie e priva i detenuti di un’effettiva possibilità di riscatto. Il rapporto dell’Onu esorta le autorità centrafricane ad adottare misure urgenti e concrete per porre rimedio a queste “violazioni dei diritti umani”; mentre denuncia che, alla fine del 2023, 1.749 detenuti erano ancora in attesa di processo, alcuni da quasi sei anni, in flagrante violazione del diritto a un processo equo. Spazi di cambiamento potrebbero esserci con la riforma carceraria in cantiere. “Ma c’è un grave problema legato ai finanziamenti”, spiega suor Elvira, portando la sua testimonianza diretta. “Come ong Kisito, insieme a Unicef, siamo dentro una Commissione internazionale per risolvere la questione dell’assenza di un carcere minorile”, afferma la religiosa. Ad affidarle tale compito sono state le stesse autorità del Centrafrica, sulla scia di quanto fatto a Berberati dove ha salvato circa 150 minori tra quelli reclutati dalle milizie Séléka e quelli finiti in carcere. “Ragazzi senza famiglia” (Kizito nella lingua locale) che vengono tolti dalla strada, dalla foresta e da un futuro di criminalità per essere reinseriti su percorsi positivi grazie a una “nuova” vita in comunità dove si impegnano in attività produttive, dagli orti comunitari alla scuola di falegnameria. “Circa tre mesi fa il governo ci ha concesso gratuitamente un terreno alla periferia di Bangui per replicare quanto fatto a Berberati”, dichiara suor Elvira, spiegando di avere regolari incontri con al ministero della Giustizia, con i diplomatici e con le altre ong nell’area: “Ma mancano i soldi per costruire questo centro”. Dalla guerra civile, esplosa alla fine del 2012, la Repubblica Centrafricana non si è mai del tutto ripresa. Nell’ottobre 2021 il presidente, Faustin Archange Touadéra, aveva dichiarato un cessate-il-fuoco unilaterale con l’obiettivo di facilitare il dialogo nazionale, ma gran parte del Paese- ricco di diamanti, uranio e oro- continua a essere oggetto degli attacchi delle varie milizie. Tra molte difficoltà il lavoro dell’ong Kizito prosegue; mentre risuona ancora l’appello di Papa Francesco che, aprendo la Porta Santa del Giubileo della Misericordia a Bangui nel 2015, esortò i centrafricani a superare “diffidenza”, “violenza” e istinto di “distruzione” per essere artigiani “del rinnovamento umano e spirituale”.