Amnistia per ricostruire speranza di Ornella Favero* Il Riformista, 27 luglio 2024 Quando gli studenti hanno più fiducia nei cittadini del ministro Nordio L’amnistia “rappresenta un fallimento dello Stato e verrebbe negativamente compresa dai cittadini”. Parole del ministro Nordio, che non ha molta fiducia nell’intelligenza dei cittadini italiani. E se provassimo a dimostrargli che se si fa conoscere davvero la realtà del carcere alla società, una parte consistente di quella stessa società potrebbe essere in grado di capire anche misure difficili come l’amnistia e l’indulto? Abbiamo provato a parlare di questi temi agli studenti, che nel carcere di Padova numerosissimi incontrano le persone detenute per parlare di pene e carcere, per ascoltare le loro storie e capire quanto sia facile da piccoli comportamenti a rischio scivolare nei reati, ma anche quanto è importante che la pena sia scontata in modo civile e umano. Gli abbiamo pure spiegato quanto misure come l’amnistia e l’indulto, che potrebbero apparire come una negazione della giustizia, possano servire invece proprio a portare un po’ di giustizia là dove si sconta la pena in carceri sovraffollate, degradate, senza prospettive di un futuro decente, là dove ci si suicida con frequenza impressionante. Il fatto è che la macchina giudiziaria, in particolare nella parte che ha a che fare con le carceri e l’esecuzione pena, non funziona certo perfettamente, e quindi è giusto e inevitabile che Io Stato abbia la generosità e l’intelligenza di fare i conti con i suoi errori. Uno Stato, non dimentichiamolo, condannato quasi cinquemila volte in un anno per trattamento inumano e degradante delle persone che tiene recluse. Scrivono alcune giovani studentesse, dopo un’esperienza di una settimana “passata in galera” nella redazione di Ristretti Orizzonti: “Non potrò mai dimenticare le emozioni che ho provato durante l’esperienza, come anche la mia crescita personale e il cambiamento della mia prospettiva su alcune questioni. Ciò che mi ha lasciato l’incontro con i detenuti è un bagaglio importantissimo: ascoltarli raccontare la loro storia passata, il modo in cui vivono il presente e ciò che si augurano per il futuro mi ha fatto aprire gli occhi su quanto l’essere umano, nonostante contesti o condizioni complicati davanti ai quali la vita ti mette di fronte, in fondo rimanga sempre un essere umano, capace di sbagliare, talvolta in modo grave, ma anche di comprendere i propri errori per cercare di recuperare, perché non è mai un gesto inutile ma anzi richiede tanta forza e coraggio. Altrettanto coraggio l’ho osservato nel loro esporsi davanti a noi studenti senza il timore, almeno apparentemente, di essere giudicati o fraintesi. Questo mi ha aiutata ad aprirmi e a liberarmi dalla paura dei pregiudizi”. (Sole, 18 anni). “Il carcere è un luogo senza umanità in tutti i sensi, sia per le condizioni fisiche e psicofisiche, vieni allontanato dalla tua famiglia che non puoi vedere e sentire praticamente quasi mai, non hai privacy e non hai una vita, è un luogo che serve per rieducare la persona, ma vivendo così nelle peggiori condizioni, la persona difficilmente ha la motivazione di cambiare. Noi siamo stati solamente al carcere di Padova, il quale offre delle attività a vari detenuti, ma in tutto il resto del mondo ci sono tanti altri detenuti che vivono in condizioni ancora peggiori. In conclusione desidero che ognuno di voi detenuti riesca a superare ogni minimo ostacolo che vi impedisca di migliorare nel vostro percorso e che là fuori, un giorno, quando uscirà, riesca a rifarsi la vita che ha sempre voluto”. (Valentina, 18 anni). “Vedere il carcere di Padova non è stata una semplice “visita allo zoo”, ma un’esperienza completa che mi ha fatto aprire gli occhi su una realtà che non viene raccontata abbastanza. In questi cinque giorni abbiamo “imparato a vedere con il cuore”, non solo con gli occhi della giustizia, che mai dimenticherà un reato commesso.” (Claudia, 17 anni). Viene da dire che se una esperienza simile fossero obbligati a farla i parlamentari, per conoscere la realtà delle nostre galere, che significa conoscere meglio anche la vita e la civiltà del nostro Paese, forse poi saprebbero capire e spiegare il senso di un provvedimento di amnistia e indulto: che è soprattutto un “risarcimento” per pene fatte scontare dalle Istituzioni alle persone detenute nella illegalità più drammatica, senza speranza e senza quello che la Costituzione impone di garantire, la rieducazione, quindi un rientro graduale e accompagnato nella società. Se mai dovessero essere concessi amnistia e indulto, questo succederebbe: che uscirebbero un po’ prima del previsto persone che spesso si trovano ancora in carcere perché non hanno le risorse per accedere a una misura alternativa. Eppure, tutte le ricerche dimostrano che una persona che sconta tutta la sua pena in carcere esce molto più pericolosa, rabbiosa, senza prospettive rispetto a una persona che esce sì un po’ prima del fine pena, ma accompagnata in una misura alternativa, sostenuta, messa in condizione di ricostruirsi un futuro. *Direttrice di Ristretti Orizzonti La parola impronunciabile di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 27 luglio 2024 Non potevamo accomiatarci da Voi, cari lettori (per la sola pausa estiva, beninteso) in nessun altro modo che pronunciando, con tutto il fiato che abbiamo in corpo, la parola più impronunciabile di questo Paese: AMNISTIA. Chiunque si occupi dei problemi della giustizia italiana, che sono tanti, complessi ed impellenti, sa che il tema del sovraffollamento carcerario è una bomba da tempo innescata, destinata inesorabilmente ad esplodere di fronte alla irresponsabile inerzia della politica. Lo spettacolo parlamentare di queste ultime ore è la penosa messa in scena di questa pervicace ed ottusa irresponsabilità politica, fondata sul fraintendimento tra intransigenza punitiva e banalissima incapacità di governare fenomeni ed emergenze che lo Stato - ecco il punto - ha il compito esclusivo di risolvere. La dimensione surreale del dibattito sta tutta qui. Il “governo della fermezza carceraria”, baldanzosamente guidato dal nostro Ministro Liberale della Giustizia, si pone davanti al tema del sovraffollamento con l’atteggiamento di chi, assediato da una folla di criminali furbescamente impegnata a trovare in qualche modo la strada per sottrarsi al debito che ha contratto con la società, risponde sprezzante: “‘cca niusciun’ è fesso”. Noi siamo quelli con la schiena diritta, siamo quelli della “certezza della pena”, non ci facciamo fregare da voi furbacchioni. Trascurano, gli intransigenti, un piccolo dettaglio: lo Stato è il custode dei suoi detenuti. Il che implica che le modalità di organizzazione ed esecuzione di questo compito istituzionale grava - come dire - unilateralmente sullo Stato, del tutto a prescindere dalle storie di ciascuno degli ospiti delle patrie galere. Non è un tema oggetto di negoziazione con i detenuti, come se stessimo discutendo delle ore da destinare alla socialità, o della presenza di qualche ventilatore nelle celle. Qui parliamo di un fondamentale compito istituzionale che lo Stato ha il dovere di assolvere secondo parametri minimi di civiltà che la CEDU ha avuto ripetutamente modo di dettagliare: numero massimo di persone per metri quadri, riservatezza e capienza dei servizi igienici. Fermiamoci a questi due parametri basici, dimentichiamoci i voli pindarici, che sembrano appartenere al mondo delle favole, sul lavoro in carcere, la socialità, e bla bla bla. Figuriamoci, roba di lusso, poi arrivano i soliti imbecilli a straparlare di albergo a tot stelle, lasciamo perdere. Almeno quei due parametri devi assicurarli, e se non sei in grado di farlo dopo tutti questi anni, il problema è tuo, dello Stato, in via esclusiva. Se non sei in grado di assicurare quei parametri basici di civiltà, c’è una sola soluzione: devi diminuire il numero delle persone detenute. Punto. Non è cosa difficile da comprendere, e il tema della “certezza della pena” (Beccaria li perdoni) qui c’entra come il cavolo a merenda. Ora, che la responsabilità non sia esclusiva di questo governo e di questa maggioranza, è del tutto pacifico. Anzi, a mio avviso proprio coloro che avevano virtuosamente studiato il caso e le soluzioni possibili (ricordate gli Stati Generali della esecuzione penale?), buttando poi a mare tre anni di lavoro per paura di esserne travolti elettoralmente, hanno forse le responsabilità maggiori. E quindi? Una volta celebrata la solita solfa di “e allora le Foibe?”, cosa dovremmo conseguirne? Oggi c’è un Governo, una maggioranza ed un Ministro che hanno l’onere di dare una risposta, e di disinnescare quella bomba. Invece di agitare, come mosconi nel bicchiere di vetro, i fantasmi della “certezza della pena”, si persuadano. Per ogni giorno che passa, la parola impronunciabile, la bestemmia oltraggiosa si staglia all’orizzonte come l’unica salvezza possibile. Prima lo capite, meglio sarà, innanzitutto per Voi: AMNISTIA. Il tempo delle scelte straordinarie di Stefano Musolino* Il Riformista, 27 luglio 2024 Siamo di fronte a un’autentica emergenza umanitaria: bisogna tutelare la dignità umana di chi si trova in carcere. Ora più che mai è indispensabile una vera riforma del sistema dell’esecuzione penale. C’è “...un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttare via, un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere ed un tempo per parlare...”, la litania del Qoelet percorre le menti della comunità giuridica, di fronte ai numeri del sovraffollamento delle nostre carceri a cui si sommano, come conseguenza agghiacciante, quelli dei suicidi dei detenuti e del personale di Polizia Penitenziaria. È l’oggettivo cinismo dei numeri a dire, con rara eloquenza, che la qualità di vita nei nostri istituti di pena è già al di sotto dei livelli che avevano giustificato la condanna dell’Italia da parte della Corte EDU nel famoso caso Torreggiani. Nelle carceri italiane, insomma, non si vive, si sopravvive. È, allora, la sapienza biblica - che sussurra al cuore di ogni uomo - a chiederci se questo sia il tempo delle rigide affermazioni di principio oppure il tempo della prossimità al dolore che urla alle nostre coscienze. La domanda va accompagnata da una stipulazione preventiva che costituisce una premessa dimenticata nei discorsi pubblici: il diritto penale è immerso in una complessità policentrica allergica a semplicistiche soluzioni monodimensionali. La norma costituzionale, piuttosto, sollecita l’interprete a costanti bilanciamenti tra esigenze di sicurezza e diritti individuali che non sono dati una volta per tutte, ma richiedono costanti revisioni ed affinamenti. Per questo la costruzione del consenso elettorale nel campo del diritto penale (in funzione anestetica delle paure sociali, alimentate mediaticamente) inquina il dibattito parlamentare ed il discorso pubblico con rigidità ideologiche, irrisolvibili alla complessità dei bilanciamenti che la materia pretende, pena la sua trasformazione in bieco strumento politico, piuttosto che regolamento equilibrato di esigenze sociali e di diritti individuali. Tuttavia, la comunità dei giuristi non può accettare le semplificazioni, i timori e le timidezze che caratterizzano l’approccio della politica parlamentare ai problemi della detenzione, è tempo di sollecitare un’assunzione di responsabilità coerente con la gravissima emergenza umanitaria che percorre i nostri istituti di pena. Per questo, ormai da qualche mese, Magistratura democratica, insieme ad Antigone, all’accademia ed alla classe forense non ha esitato ad unirsi al coro di voci di chi reclama una riforma del sistema dell’esecuzione penale, in modo da poter riaffermare il volto costituzionale della pena e assicurare la dignità di ogni persona che si trova a vivere e lavorare in carcere. Non solo abbiamo auspicato interventi in un’ottica di medio e lungo periodo che ambiscono ad incidere sulle deficienze strutturali del sistema penitenziario, ma di fronte alla costante emergenza umanitaria che caratterizza la vita detentiva, abbiamo ritenuto necessario sollecitare anche l’approvazione di provvedimenti di clemenza. È vero, l’amnistia rompe il principio di uguaglianza nell’applicazione della legge ed ha effetti correttivi contingenti e discriminatori delle storture del sistema penale esistente, erodendo il principio di legalità penale ed indebolendone l’efficacia general-preventiva. Tuttavia, bisogna prendere atto che, in assenza di graduali strumenti di clemenza, l’attuale sistema penale collassa, stressato da una domanda di punizione eccessiva rispetto ai mezzi ed alle risorse disponibili. Si tratta di prendere atto che siamo di fronte ad un’autentica emergenza umanitaria, rispetto alla quale le nostre risolute certezze e gli indefessi principi che le fondano devono cedere il passo innanzi alla tutela della dignità umana deturpata quotidianamente dalle condizioni di vita in cui sono costretti i detenuti che abitano le nostre carceri. Sono i numeri a dirci che la misura è colma e che è il tempo di scelte straordinarie. Ed infatti, il sovraffollamento strutturale e sistemico che caratterizza le nostre carceri ha trasformato la pena in un trattamento inumano e degradante, incompatibile con le nostre regole costituzionali ed eurounitarie. Una situazione che reclama interventi straordinari attraverso gli strumenti di politica criminale che la Costituzione mette a disposizione del Legislatore; ed all’art. 79 la nostra Carta riconosce agli istituti di clemenza generale il compito di intervenire quando le concrete modalità esecutive sfregiano “il volto costituzionale del sistema penale”, che vincola il legislatore della punizione a esercitare le proprie prerogative “sempre allo scopo di favorire il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale” del reo, per come ci insegna la sentenza n. 179/2017 della Corte Costituzionale. È tempo che il Parlamento si assuma la responsabilità delle scelte, perché è solo assicurando autentiche e concrete condizioni di dignità alle persone sottoposte all’esecuzione penale e rendendo non utopica la promessa di reinserimento sociale che si riuscirà ad ottenere un avvicinamento alla funzione che la Costituzione assegna al diritto penale. *Segretario nazionale di Magistratura democratica La necessità della clemenza nell’epoca del diritto penale massimo di Nicola Mazzacuva* Il Riformista, 27 luglio 2024 E ormai del tutto ricorrente la segnalazione dell’eccezionale incremento delle leggi penali. Si versa nella stagione del diritto penale ‘massimo’ (ovvero `totale’) ed è divenuto non solo impossibile conoscere tutti i reati ‘legalmente’ previsti, ma financo calcolarne l’esatto numero: il che risulta davvero incredibile e allarmante. Orientamenti rigoristici prevalgono, poi, anche nel momento di commisurazione della pena. Del resto, l’ampliata possibilità di applicare una ‘pena carceraria’ costituisce il (quasi obbligato) esito di interventi legislativi spesso volti soltanto ad incrementare il trattamento sanzionatorio. In presenza di un siffatto “diritto penale massimo” diviene spontaneo pensare, nella contrapposta prospettiva (tanto razionale, quanto necessaria) di un suo contenimento, alla necessità di ‘provvedimenti di clemenza’. Una definizione derivante semplicemente dal fatto che essa si presta a riassumere istituti diversi quali amnistia e indulto. Le ragioni dell’amnistia sono ben note e fortemente attuali. La limitazione dell’eccesso punitivo non viene affidata a circolari delle (più diverse) autorità giudiziarie, bensì a scelte proprie del legislatore nei singoli provvedimenti di clemenza anche sulla base di esclusioni oggettive e soggettive, di volta in volta previste, dalla remissione sanzionatoria dando, così, effettivo corpo ad istituti già presenti nelle ‘leggi’ (anche e proprio nel ‘superiore’ art. 79 Cost. e nell’art. 51 c.p.). E senza dover tornare a Bentham secondo cui ‘nei casi in cui la pena farebbe più male che bene ... la poteste] di clemenza non solo è utile, ma è necessaria’, si può senz’altro condividere quanto diffusamente segnalato nella nostra manualistica: l’amnistia è, in particolare, assolutamente utile per fronteggiare l’altissimo tasso di detenzione carceraria rispetto alla capienza degli istituti penitenziari. Sul piano della politica criminale la storia dei provvedimenti di clemenza vale, poi, ad illustrare l’opera di distinzione tra i valori ‘fondamentali’ costantemente protetti e i valori alla cui tutela (penale) si può, invece, più opportunamente rinunciare (anche soltanto temporaneamente). E un pur sommario riferimento agli ultimi provvedimenti di clemenza offre spunti di rilievo: il primo è pertinente, appunto, alla ‘costante’ presenza di tali provvedimenti nella concreta declinazione delle scelte di politica criminale. Anche considerando, appunto, soltanto l’ultimo ‘periodo applicativo’ (1970-1990) si può notare il frequente e significativo ricorso ad amnistia e indulto; basta menzionare la sequenza a partire dal d.p.r. n. 283/70, sino a quello n. 413/78; ai successivi n. 744/81 e n. 865/86, nonché, appunto, all’ultimo n. 75/90. Se le scelte di politica criminale in quel lungo lasso temporale (e non solo in tale periodo: poiché, invero, il ricorso alla ‘clemenza’ ha costituito una ‘costante’ già in epoche precedenti e financo nello Stato autoritario, persino subito dopo l’entrata in vigore del nuovo codice) si sono attuate anche attraverso provvedimenti di amnistia e di indulto, ciò significa l’utilità di tali istituti per far fronte a precise esigenze deflattive oggi per nulla diminuite, ma anzi notevolmente accentuate. Il secondo rilievo pertiene proprio alla selezione dei reati di volta in volta praticata dal legislatore. Vi è stata, infatti, applicazione della ‘clemenza’ per reati puniti con ‘una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni’, ma anche per reati sanzionati con `pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni ... se commessi dal minore degli anni diciotto o da chi ha superato gli anni settanta’ (decreti de11978, de11981 e de11986). Sino all’ultimo provvedimento del 1990 ove si è provveduto ad un ‘innalzamento’ (sino a quattro anni) della pena detentiva di riferimento, ma si è arricchito, in modo significativo, il catalogo - sempre delineato - delle ‘esclusioni oggettive’, tenendo appunto fuori dalla portata operativa della clemenza tutta una (lunga) serie di reati posti a tutela di beni giuridici ritenuti rilevanti. Appunto a dimostrazione ‘storico-legislativa’ del fatto che anche l’impiego della clemenza, pur con riguardo ad illeciti presidiati da pene edittali massime (comunque) non elevate, non è - può non essere - indiscriminato. E ad ulteriore, definitiva, riprova che l’uso della clemenza non è per nulla rimedio arbitrario, ma rappresenta invece lo strumento più idoneo a immediatamente realizzare contingenti - e spesso, come accade appunto oggi, senz’altro impellenti - necessità di mitigazione di un sistema penale che si voglia continuare a definire liberale e costituzionale. *Professore Ordinario di Diritto Penale Voi non li avete visti. Dalla sentenza Torreggiani al decreto legge 92/24: una cecità permanente di Giuseppe Belcastro* Il Riformista, 27 luglio 2024 Albeggiava l’anno 2013 quando la Corte di Strasburgo, investita dal dolore di sette persone detenute nelle carceri italiane, incominciava la motivazione della storica sentenza Torreggiani con devastante semplicità: “La Corte rammenta che la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato”. Concetti chiari, inoppugnabili e dai quali discesero poi, nel testo di quella decisione, diversi corollari, uno più centrato ed efficace dell’altro. Era l’anno 2013, appunto, e la Corte, oltre a condannare l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione in ragione delle condizioni inumane e degradanti della carcerazione subita dai sette ricorrenti, prendeva atto della dimensione sistemica del problema, adottando la procedura della sentenza pilota e ordinando al contempo allo Stato di istituire strumenti di tutela effettiva a ristoro del sovraffollamento. Passati 11 anni, la situazione torna tragica come un tempo. Sono ben oltre sessantuno mila i detenuti nelle carceri italiane, con un indice di sovraffollamento che sfora il 130% in media, con picchi del 200% e del 150% in oltre un quarto degli istituti. Il sovraffollamento carcerario, esso stesso da solo possibile causa di violazione dell’art. 3 della Convenzione come la Corte non ha mancato di evidenziare, è dunque il più grave e urgente problema della giustizia italiana. Lo attesta in maniera incontrovertibile il fatto che, da gennaio ad oggi, 59, tra le vittime di questo stato di cose, hanno deciso di ammazzarsi. Sulle ragioni di un simile tragico approdo si potrebbero articolare molti pensieri, ma basta qui richiamare una tendenza legislativa, accentuatasi nell’ultimo decennio, ad introdurre disposizioni che hanno la vocazione a riempirlo il carcere, piuttosto che ad alleggerire la pressione che lo schiaccia. Così, l’allargamento del corteo dei reati ostativi per i quali non sono possibili misure alternative al carcere - non si è fatto in tempo a rimuovere le previsioni dalla famigerata legge spazza-corrotti che già è in corso un provvedimento di esame che incastona nuovi titoli nell’art. 4-bis O.P. - e la moltiplicazione del numero dei reati (il reato di Rave party introdotto dal D.L. 166/22 ne è l’emblema), in perversa sinergia con una percentuale di detenuti in attesa di giudizio migliorata sensibilmente rispetto al passato, ma ancora sopra la media europea, ha generato il monstre storico che abbiamo davanti agli occhi. E fa quasi sorridere allora, rileggere le parole garbate e ferme della sentenza Torreggiani con cui la Corte “esorta no Stato] ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà (...) e una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere...”: ci dev’essere sfuggito qualcosa. Ma in disparte le ragioni, conviene appuntare un pensiero su questa tragedia: quale che ne sia la causa e quali che possano esserne le soluzioni strutturali, il tempo per intervenire è finito. Per rendersene conto, oltre a guardare il numero dei suicidi, servirebbe visitare le strutture penitenziarie italiane. E vedere. Vedere cosa voglia dire per davvero trascorrere il tempo di un intero giorno in spazi angusti, immersi in un’aria irrespirabile e così pesante che quasi la tocchi, adagiati su letti a castello a cinquanta centimetri dal soffitto per non poter fare altro, condannati alla condivisione forzata dell’intimità con i propri compagni di sventura, cuocendo cibi su fornelletti adiacenti a fatiscenti servizi igienici. E non avere aria. Vedere sui volti al di là delle sbarre tutto lo smarrimento di chi perde il contatto con il mondo reale e non trova prospettive al suo agire, né comprende la finalità per questa barbara condizione. Vedere insomma, come e perché nasce quell’angoscia soffocante che spinge a gesti estremi. E una volta visto tutto ciò, servirebbe adempiere l’imperativo morale di farlo cessare, con l’unico atto che oggi possa raggiungere lo scopo: un’amnistia. E invece, a leggere gli indirizzi legislativi del governo, spirano altri venti. È facile presagio che gli strumenti introdotti dal DL 92/24 saranno ora inutili allo scopo ora pochissimo o per nulla efficaci. L’assunzione di 1000 nuovi agenti di polizia penitenziaria, in disparte il fatto che è spalmata in due metà tra 2025 e 2026, non alleggerisce punto il sovraffollamento, né può render meglio fruibili servizi che non ci sono. La articolata nuova procedura per la concessione della liberazione anticipata, se può da un lato snellire in qualche misura l’accesso al beneficio, non avrà nessun impatto significativo sulle condizioni disastrose nelle quali versano le carceri. Non lo avrebbe probabilmente, almeno nella misura necessaria, nemmeno l’approvazione della proposta Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata speciale (che mentre scriviamo è nuovamente slittata). Darebbe però una boccata di considerazione a donne e uomini costretti a vivere come animali; sarebbe insomma almeno un segno che qualcuno ha ancora un pensiero autentico per loro. Che almeno qualcuno ha aperto gli occhi. E ha visto. *Avvocato penalista Agire subito. Amnistia e indulto atti politici di Eriberto Rosso* Il Riformista, 27 luglio 2024 La modifica dell’art. 79 della Costituzione, per come intervenuta con la legge costituzionale 6 marzo 1992, n. 1, si è costruita una rigida gabbia per la concessione di amnistia e indulto, prevedendo la maggioranza qualificata dei 2/3 dei parlamentari per deliberare i provvedimenti di clemenza. Al contempo, però, con quella legge il Parlamento ha rivendicato a sé il potere di una risposta politica a situazioni straordinarie che coinvolgono il sistema penale e la macchina repressiva dello Stato. Si è così posto fine ad antichi retaggi sul potere di clemenza riservato all’imperatore, al principe, al Papa o al Presidente, per spostare il centro della responsabilità politica dell’atto di estinzione dei reati o di abbuono della pena verso il Parlamento, quale organo di espressione della volontà popolare. Non è un caso che nel 2006 - a fronte del protrarsi di una situazione straordinaria di sovraffollamento e invivibilità negli istituti di pena italiani e delle pronunce di condanna del nostro Paese da parte delle giurisdizioni sovranazionali - il Parlamento sia riuscito a convergere solo su un provvedimento di condono per alleggerire la pressione sul carcere e non si siano invece create le condizioni per la concessione di una amnistia. Logiche securitarie non hanno consentito infatti la individuazione largamente condivisa di un catalogo di reati per i quali procedere ad estinzione, magari nella prospettiva di una significativa prossima depenalizzazione, quest’ultima vera bestia nera per una politica debole, che ormai ha individuato nel panpenalismo l’unica risposta spendibile a fronte della complessità dei fenomeni della organizzazione sociale. La necessità dell’amnistia e dell’indulto oggi non si basa sull’esigenza di pacificazione sociale rispetto a una stagione di inesistenti estremizzazioni, né vi sono all’orizzonte ragionevoli possibilità di importanti depenalizzazioni. Estinzione di reati e di pene brevi sono oggi una prima risposta alle condizioni degli istituti carcerari, quasi tutti oramai un inferno, nei quali le persone si ammalano, costrette come sono a vivere ricoperte di cimici, in condizioni di inumano sovraffollamento, senza la possibilità di circuiti diversificati, nell’inesistenza di supporti per il disagio mentale. La polizia penitenziaria ha piante organiche drasticamente ridotte e non riesce a garantire condizioni ragionevoli di ordine, con interventi che oscillano tra violenza inaudita e la non risposta alle mille domande che la condizione di privazione di libertà pone. Lo Stato tollera una condizione di assoluta illegalità in termini di qualità delle strutture e di condizioni di vita al loro interno; alcuni istituti vanno chiusi e per molti altri la ristrutturazione può iniziare solo a colpi di maglio e di bulldozer. Più di 12.000 sono i detenuti in sovrannumero; vi è poi il fenomeno - davvero scandaloso, ma che in realtà funge da ammortizzatore - dei centomila liberi sospesi, persone che da anni attendono di sapere se a loro toccherà il carcere o una modalità alternativa di espiazione della pena. Sono oltre un milione i procedimenti penali pendenti, in gran parte incagliati nelle nuove definizioni previste dalla riforma Cartabia, che non riesce ad andare a regime per ingolfamento della macchina e per le carenze di organico. Lo Stato tollera che il processo prosegua in tempi irragionevoli, negando giustizia a imputati e persone offese. La giurisdizione di cognizione e di esecuzione non può da sola risolvere il problema, sia per i tanti elementi individualizzanti sia, talvolta, anche per la incongruenza di certi orizzonti culturali. Dunque la responsabilità è solo della politica e, per essa, del Parlamento. Un provvedimento di amnistia e indulto servirebbe a tamponare l’emergenza, a risolvere il sovraffollamento, ad aprire la strada ad una seria discussione sulla depenalizzazione ed alla necessità di riportare il processo penale alla sua ispirazione originaria di accusatorietà, ripulendolo di tutte le incrostazioni che le logiche populiste e giustizialiste hanno apportato negli anni, devastando il sistema e rendendolo irriconoscibile. Insomma, amnistia e indulto come precondizione per una nuova condivisione delle regole del sistema processuale e, subito, la liberazione di chi si trova in carcere per pene brevi, impossibilitato spesso per miseria e povertà a richiedere misure alternative, cominciando così a costruire condizioni diverse perché tanti non vedano più il suicidio quale unica risposta alla disperazione. Davvero, come dicono i penalisti italiani, non c’è più tempo. *Avvocato penalista Ancora un suicidio in carcere: ma il governo resta sulle sue posizioni di Franco Insardà Il Dubbio, 27 luglio 2024 Dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 59 persone: l’ultimo caso a Rebibbia. Le opposizioni attaccano, ma Ostellari ribadisce: “No allo svuota-carceri”. Ormai anche la conta dei suicidi si è trasformata in qualcosa di rituale. Oggi l’ennesimo, questa volta a Rebibbia, dove un giovane detenuto di 30 anni si è impiccato nella sua cella del reparto g12 del carcere romano. Per lui non c’è stato nulla fare, nonostante i soccorsi. Sono già 59 le persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno, alle quali vanno aggiunti i sei agenti della polizia penitenziaria che non ce l’hanno fatta più a reggere il peso della invivibilità in carcere. Sì perché, come diceva Marco Pannella, in carcere ci sono tutti sia i detenuti che i detenenti. E tutti soffrono di questa condizione ormai disperata, ben fotografata dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. Al 30 giugno 2024, le carceri italiane ospitavano 61.480 detenuti a fronte di soli 51.234 posti regolamentari. Il tasso di affollamento ufficiale è del 120%, ma la situazione è ancora più grave se si considerano i posti effettivamente disponibili, infatti, tenendo conto dei 4.123 posti non utilizzabili, il tasso reale di affollamento sale al 130,6%. La situazione è particolarmente critica in 56 istituti, dove il tasso di affollamento supera il 150%. In 8 la situazione è drammatica, con tassi superiori al 190%. Il record negativo spetta al carcere di Milano San Vittore (sezione maschile) con un incredibile 227,3% di sovraffollamento, seguito da Brescia Canton Mombello (207,1%) e Foggia (199,7%). Per la prima volta da anni, anche gli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) si trovano in una situazione di sovraffollamento. Al 15 giugno 2024, erano presenti 555 giovani (di cui 25 ragazze) a fronte di soli 514 posti ufficiali. A Rieti sono rientrate le proteste dei 400 detenuti che da alcuni giorni si autogestivano e si rifiutavano di entrare nelle celle rimanendo nei corridoi. Una protesta pacifica, senza violenze né verso le persone, né verso le cose. Ma la situazione è allarmante anche in altri istituti penitenziari, dove si sono registrate nelle ultime ore delle proteste. Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, preoccupano “le condizioni di sovraffollamento, le carenze nell’assistenza sanitaria e psichiatrica e la mancanza di personale impegnato da ieri pomeriggio per cercare di ripristinare l’ordine nel carcere reatino dove vi sono 499 detenuti rispetto a 295 posti disponibili”. Molto dure le critiche degli esponenti dell’opposizione, dopo l’ultimo suicidio di Rebibbia. Per la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra, Ilaria Cucchi, si tratta di “un’altra sconfitta dello Stato di diritto, che dovrebbe far vergognare tutti, perché il carcere è diventato il luogo in cui si perde ogni speranza, senza alcuna possibilità di riabilitazione per tornare in società. Il contrario di quanto afferma la nostra Costituzione”. In una nota la deputata Pd Michela Di Biase, componente della commissione Giustizia, dichiara: “Non si può più aspettare e soprattutto non è accettabile affrontare questa condizione drammatica con qualche intervento spot, come quelli contenuti nel decreto carceri. Servono norme per intervenire sul sovraffollamento e misure per migliorare l’assistenza sanitaria e psicologica dei detenuti”. Ma la maggioranza resta ferma sulle sue posizioni e il sottosegretario alla Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, ospite a Start su Sky TG24, rispondendo sugli emendamenti proposti, anche da Forza Italia, per risolvere la situazione di sovraffollamento, ha detto chiaramente: “Abbiamo detto di no agli sconti sulla pena e ai decreti svuota-carceri, non per questioni ideologiche ma per ragioni giuridiche guidate anche dai numeri. Quello che abbiamo fatto con questo decreto-legge è potenziare le alternative al carcere. Non si può lasciare un detenuto libero senza alcuna possibilità di reinserirsi nella società. Il tema delle carceri non è una banderuola politica, basta decreti tampone, serve una riforma davvero strutturale. O investiamo sulla formazione e sul lavoro dei detenuti per dare una reale possibilità di rieducazione oppure il sistema non funzionerà mai”. “Certezza della pena” non vuol dire morire in galera di Mariastella Gelmini* Il Dubbio, 27 luglio 2024 La maggioranza non ha il coraggio di rispondere a una situazione che il Presidente Mattarella, citando la drammatica lettera dei detenuti dal carcere di Brescia, ha definito “indecorosa per un Paese civile”. La discussione sul cosiddetto decreto carceri del Governo al Senato e il rinvio sine die del disegno di legge Giachetti alla Camera dimostrano, purtroppo, che la maggioranza non ha il coraggio di rispondere a una situazione che il Presidente Mattarella, citando la drammatica lettera dei detenuti dal carcere di Brescia, ha definito “indecorosa per un Paese civile”. Il tasso di affollamento è attualmente al 130 per cento, il 27 per cento dei reclusi ha a disposizione meno di 3 mq e si contano purtroppo 58 suicidi da inizio anno. Numeri impietosi che confermano le gravi condizioni in cui versano le carceri italiane, a scapito non solo dei detenuti ma anche della Polizia Penitenziaria, del Terzo Settore e di chi opera in queste strutture ogni giorno. Il principio della certezza della pena, nella discussione pubblica, è stato impropriamente trasformato in quello della imprescindibilità della galera, suggerendo l’illusione che detenzioni più lunghe, afflittive e disumane siano la migliore garanzia per la sicurezza dei cittadini e che quindi anche il sacrificio dei diritti dei detenuti sia giustificato da prevalenti interessi sociali. Tutto ciò non solo non è giusto, ma semplicemente non è vero. Se la pena serve in primo luogo a prendere in carico un delinquente per riconsegnare alla società un non delinquente, è ampiamente dimostrato dai tassi di recidiva degli ex detenuti che le misure alternative alla detenzione, favorendo il reinserimento sociale e occupazionale dei condannati, sono molto più efficaci per prevenire “ricadute” nel crimine. E il percorso intrapreso al Senato con Eleonora Di Benedetto e la Fondazione Severino, con Caterina Micolano ed Ethicarei, per avvicinare sempre più il mondo imprenditoriale a quello dei detenuti, attraverso la formazione e il lavoro, va esattamente in questa direzione. Al contrario, quanto più l’espiazione della pena è disumana e incompatibile con la funzione riabilitativa prescritta dalla Costituzione, tanto più diventa un fattore di cronicizzazione criminale. Per questa ragione, rendere più semplice l’accesso alla semilibertà o alla detenzione domiciliare non è un atto di generosità verso i detenuti, ma di previdenza verso la società. Per questa stessa ragione, rendere il carcere più vivibile e servibile per attività di formazione e lavoro, nonché più aperto alle esigenze affettive dei detenuti e alle loro relazioni personali e familiari può essere una scommessa vinta per tutti. La questione carceri deve essere al centro dell’agenda politica. È un’emergenza che riguarda tutte le forze politiche, al di là delle appartenenze, lontano da ideologie e contrapposizioni. Serve una battaglia trasversale per attivare le giuste sinergie. E serve più coraggio. Di questo coraggio al momento la maggioranza non ha dato prova né a Palazzo Madama, dove è in conversione il decreto Nordio sulle carceri, né alla Camera dove la discussione sul disegno di legge Giachetti viene sistematicamente accantonata. Come Azione, abbiamo presentato diversi emendamenti al decreto del Governo, a partire da quello per rendere automatici sessanta giorni di liberazione anticipata per ogni semestre di pena espiata, tranne nei casi e per i periodi in cui il detenuto abbia subito provvedimenti disciplinari. Un automatismo che aveva suggerito Valerio Onida vent’anni fa. L’esecutivo - nonostante le proposte in materia di affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà e su una pluralità di programmi per rendere il carcere insieme più utile e più umano, che non sono però realizzabili senza riportare la popolazione detenuta entro i limiti della capienza regolamentare - ha scelto di non scegliere. Un ultimo punto. Le carceri non esplodono solo perché sono piene di condannati a cui sono precluse misure alternative alla detenzione, ma perché sono pure piene di innocenti, cioè di detenuti in attesa di giudizio definitivo, circa un terzo del totale, molti dei quali destinati a essere assolti. Anche su questo punto nella maggioranza non si muove niente, ma bisogna ammettere che non si muove nulla neppure nell’opposizione di sinistra, che qualifica ogni limitazione della custodia cautelare come un torto al lavoro dei magistrati. *Senatrice e portavoce di Azione La politica tradisce l’articolo 27 della Costituzione di Gaetano Pecorella Il Dubbio, 27 luglio 2024 Le carceri sono un problema umano, non politico o di maggioranza e minoranze: per questo si avverte un senso di imbarazzo di fronte a partiti politici che in Parlamento si scontrano dimenticando la Costituzione, il numero di suicidi tra le sbarre, e, non ultima, l’assenza di ciò di cui avrebbe diritto ogni essere umano, e soprattutto di coloro di cui ancora non si sa se sono colpevoli o innocenti. Ciononostante lo scontro non avrà fine e i criteri per intervenire non saranno la tutela della persona umana, né ciò che è più giusto, o ciò che non lo è, ma la “bilancia” di quanti voti si guadagneranno con certe scelte, o di quanti voti si perderanno. C’è da vergognarsi di fronte a partiti che hanno contribuito a formulare e discutere l’art. 27 Cost. ed ora, per ragioni prettamente elettorali, si oppongono a riforme anche minimali. Uomini come Malagugini, o lo stesso Gramsci, si rivolteranno nella tomba di fronte a chi contrasta una riforma come quella di elevare la detrazione della pena, ai fini della scarcerazione anticipata, dagli attuali 45 giorni a 60 giorni per semestre. Se non si può non essere d’accordo con questa misura di buon senso, non si possono condividerne le ragioni per cui la stessa è stata proposta, perché ricade nel calcolo politico della gestione delle carceri come se in gioco fosse la sicurezza e l’obiettivo di evitare le rivolte estive. Nelle carceri, viceversa, vivono esseri umani, in stato incompatibile con ciò che è dovuto all’uomo, centro della Costituzione e di questo pianeta. Tutto deve partire, invece, dall’art. 27 Cost. e dalla funzione della pena che non può e non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Se non si parte da questi sacrosanti principi non si potrà mai sperare che i cittadini possano avere rispetto e possano condividere le sofferenze dei detenuti, a prescindere da ciò di cui sono accusati, L’art. 27 in sede di assemblea costituente fu discusso, modificato, e migliorato con l’intervento di tutte le forze politiche a prescindere dalla loro collocazione a sinistra, a destra o al centro. E’ segno del degrado della cultura in questo Paese dimenticarsi che quella norma fu votata da De Gasperi come da Togliatti e che l’obiettivo non era quello di alleggerire il peso delle carceri, ma di riconoscere la dignità di ogni persona, con l’effetto che tale riconoscimento consolidava il senso di eguaglianza al di là delle condizioni personali e sociali. Ci troviamo di fronte a due proposte: l’una di lasciare le cose come stanno, e l’altra di cambiare per evitare il peggio; nessuno in Parlamento che abbia detto che non si vogliono condoni mascherati, ma il recupero della condizione umana dei detenuti. Se la pena deve tendere alla rieducazione è necessario riconoscere un beneficio a chi persegue questo obiettivo con la durata della pena che sia proporzionata al raggiungimento di questa finalità. Nella vicina Svizzera la pena prevede un minimo dopo il quale si riesaminano le condizioni personali del detenuto per stabilire quale sia il grado di recupero sociale. Noi abbiamo la liberazione anticipata che dovrebbe accertare se il detenuto si è avviato a una vera rieducazione. Non tiene conto dei parametri costituzionali né chi voglia tenere in carcere un detenuto senza valutare il cambiamento della sua personalità, né chi voglia scarcerarlo anticipatamente solo per ragioni di opportunità o di sicurezza. Ogni detenuto dovrebbe essere soggetto a un esame permanente ed avere la liberazione anticipata solo in funzione del suo grado di rieducazione. Ma questo significherebbe avere una classe politica che non guarda ai propri introiti elettorali, ma soltanto a ciò che è giusto e a ciò che non lo è. Frottole sovraffollate di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2024 Come a ogni estate, ecco l’immancabile dibattito sulle carceri sovraffollate e su come sfollarle, col contorno dei soliti sciacalli pronti a legiferare per non farci più entrare chi di solito non le vede neppure col binocolo: i colletti bianchi. L’ultima ideona, firmata dal renziano Giachetti e sposata da FI e Pd, è quella di allargare la già indecente “liberazione anticipata” dagli attuali 3 a 4 mesi per ogni anno di pena. Nella sentenza c’è scritto che devi scontare 9 anni? Tranquillo, è tutto finto: 9 vuol dire 6, ma poi 6 vuol dire 2, perché - grazie alle svuota-carceri dell’ultimo decennio - i 4 finali li sconti ai domiciliari e ai servizi sociali. È la certezza della pena all’italiana, che aumenta il senso di impunità e dunque il numero dei reati anziché ridurlo. Così il problema rimane intatto, pronto all’uso strumentale per l’anno successivo. Quello che chiamiamo ‘sovraffollamento’, con tanto di numeri di detenuti in eccesso (14 mila) rispetto ai posti-cella previsti (47 mila), è frutto di un equivoco autolesionista tutto italiano. L’Italia calcola i posti-cella in base alla legge del 1975 che fissa 9 metri quadrati per il primo detenuto e 5 per ciascuno degli altri. Invece il Consiglio d’Europa ne raccomanda almeno 4 per ogni recluso. E la Corte di Strasburgo considera inumano uno spazio pro capite inferiore ai 3. Così un carcere sovraffollato in Italia non lo è nel resto d’Europa. Ciò non significa che nelle carceri italiane si viva bene, anzi: molte sono un inferno (58 suicidi in 7 mesi). Ma perché sono vecchie, malsane, fatiscenti, poco differenziate per tipo di detenuti, incapaci di farli lavorare, permeabili alla droga, a corto di personale. L’unica soluzione è costruirne di nuove, ma i “garantisti” non ci sentono. Pensano che i detenuti siano “troppi” non si sa in base a cosa, a prescindere, cioè che in carcere ci siano migliaia di persone che non dovrebbero starci. In realtà, rispetto all’unico parametro serio - il numero di reati e di delinquenti - i detenuti sono troppo pochi: se si recuperasse un po’ di efficienza repressiva per risolvere un 5% delle centinaia di migliaia di delitti impuniti un po’ di certezza della pena, le carceri scoppierebbero ben di più. Del resto l’Italia, unico Paese con tre mafie ha un rapporto detenuti-abitanti simile o persino inferiore a nazioni con minori tassi di criminalità. C’è chi parla di un boom causato dalle “politiche securitarie” (ma quali?) del governo Meloni, ma anche questa è una frottola: la destra ha inventato ben 15 nuovi reati, tipo il rave party, ma sono tutte baggianate rimaste lettera morta, senza processi o arresti (a parte l’assurdo dl Caivano, che però ha aumentato di qualche centinaio le presenze nelle carceri minorili, non negli ordinari). Forse, per risolvere il problema, bisognerebbe prima capire qual è. Carceri, cimiteri dei vivi e luoghi di tortura di Sergio D’Elia L’unità, 27 luglio 2024 Caro Travaglio, vieni a vedere se non c’è sovraffollamento. “In te c’è la passione del male e non c’è l’amore del vero.” Così Marco Pannella una volta ti disse, aggiungendo: “sei un poeta del racconto delle varie forme di merda”. Caro Marco (Travaglio), se vuoi vedere la terra del male che ti appassiona e la sostanza maleodorante nella quale sono immersi i “malvagi”, per te, irredimibili fino alla morte, dovresti venire con noi in quei luoghi dove l’altro Marco (Pannella) andava a compiere laicamente, cento volte all’anno, quella sesta opera di misericordia corporale che ogni buon cristiano come te dovrebbe compiere almeno una volta nella vita. Vieni con noi a “visitare i carcerati”. Scopriresti che il vero male non sta nei palazzi del potere ma nei luoghi dove il potere ha concentrato tutto quello che di incivile, inumano e degradante nella storia dell’umanità è stato abolito proprio perché incivile, inumano e degradante: le stanze della tortura, i bracci della morte, i manicomi, i lazzaretti. Vieni con noi a visitare le carceri. Scopriresti l’amore del vero: la realtà, il sapore e l’odore della “certezza della pena”. Che idiozia una tale certezza! L’unica certezza che la nostra Costituzione prevede nelle pene, è la loro incertezza e flessibilità. Al contrario di come la vedi tu, il fine della pena è la sua fine anticipata. Comunque, vieni a vedere i luoghi di pena. Scopriresti che fanno letteralmente pena, arrecano danno, infliggono dolore e sofferenze gravi a tutti. Torturano guardie e ladri. Nei luoghi detti di privazione della libertà, vedresti che la privazione è di tutto: della vita, della salute, del senno e dei più significativi rapporti umani. E degli stessi sensi umani fondamentali: la vista, il tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto. Scopriresti che le vittime, i suicidati, gli ammalati, gli impazziti, gli accecati, i sordi non sono solo i detenuti ma anche i “detenenti”, come li chiamava Marco (Pannella). Mentre scrivo, a Rebibbia, si è tolto la vita un altro detenuto, il cinquantanovesimo di questo 2024, un anno orribile per lo stato di diritto e di vita di un Paese che passa per esserne la culla. A questi vanno aggiunti i suicidi di sei agenti della polizia penitenziaria. Altri 67 detenuti sono morti di “morte naturale”. Negli ultimi 10 anni, sono 615 le persone detenute che si sono tolte la vita, altre 1.483 sono morte di malattia e patimenti gravi. Il totale fa 2.095. Non può essere questo il modo, incivile e inumano, di concedere la “liberazione anticipata” delle persone private della libertà: la liberazione dal carcere tramite suicidio o per “cause naturali”. Nulla di quel che accade in un carcere può essere definito “naturale”, il carcere è un luogo di per sé contro natura: la natura umana è incompatibile con uno stato di privazione della libertà, che poi diventa di privazione di tutto. In carcere è negato il sentimento umano fondamentale per cui vale la pena vivere. Per mancanza di amore ci si toglie la vita, si ferma il cuore. “Cimiteri dei vivi” chiamava le carceri Filippo Turati all’inizio del secolo scorso. Nulla è cambiato, questo è il carcere ancora oggi! “Bisogna aver visto!” diceva Piero Calamandrei per conoscere e deliberare sulla realtà dei luoghi di pena. Vieni a vedere con noi se davvero come dici tu non esiste sovraffollamento nelle carceri del nostro paese. Tu fai calcoli fasulli e dici: ci sono nove metri quadri a testa mentre negli altri paesi ce ne sono tre. Non sai che al DAP c’è un “applicativo”, una sorta di allarme che scatta quando una cella va sotto i tre metri quadri di spazio minimo vitale per ogni detenuto. L’applicativo segnala anche i detenuti che vivono tra i tre e quattro metri quadri, perché se in una cella mancano oltre allo spazio anche aria, luce, acqua calda, vita all’aperto, anche stare in quattro metri quadri costituisce trattamento inumano e degradante. Tre o quattro metri quadri, Travaglio, non nove, nei quali tu evidentemente non consideri che c’è anche lo spazio occupato dal letto, dai sanitari e da altri ingombri. A conti fatti, ci sono 14 mila detenuti in più rispetto ai 47 mila posti detti regolamentari secondo i parametri già restrittivi della Corte europea e dalla Corte di Cassazione italiana. In tali condizioni, sono torturati detenuti e detenenti, vittime gli uni e gli altri di una struttura violenta, patogena, mortifera che infligge vere e proprie pene corporali, quelle che si usavano nel medioevo e che poi abbiamo abolito perché incivili. Sei appassionato dal male e ossessionato dai colletti bianchi. Vieni con noi a visitare i luoghi dove abita Caino e dove, secondo te, c’è ancora posto per altri Caini. Vieni a vedere come vivono i loro custodi, dove lavorano i colletti bianchi della polizia penitenziaria. La pena che vedrai, respirerai e toccherai con mano, è contagiosa. Contagerà anche te, come contagia e imprigiona anche il “carceriere” costretto in un luogo malsano, pericoloso e forzato a un lavoro usurante e, spesso, fino a un tempo di straordinario che per la polizia penitenziaria (soltanto) non è facoltativo ma obbligatorio. Tieni conto che per 14 mila detenuti in più ci sono 18 mila detenenti in meno rispetto alla pianta organica prevista. Ben altro ci vorrebbe che una liberazione anticipata speciale che Nessuno tocchi Caino con Rita Bernardini e Roberto Giachetti hanno proposto al parlamento per ridurre il carico intollerabile di corpi e di dolore che grava su tutta la comunità penitenziaria. Come premio minimo, non per tutti - non fare il furbo, Travaglio! - ma solo per i carcerati che hanno tenuto una buona condotta nonostante la condizione strutturale di tortura cui sono stati sottoposti. E non per un giorno, non per un mese, non per un semestre, ma per anni! Libera anche, Travaglio, la mente e la penna da altre fesserie. Non puoi dire che chi scende sotto i 4 anni di pena da scontare, va ai domiciliari o ai servizi sociali, perché non esiste nessun automatismo, si tratta di misure decise sempre da magistrati di sorveglianza che, data l’esiguità del numero - appena 250 per oltre 61.000 detenuti - stentano finanche a leggere le varie istanze. Pensi che un mese in più all’anno di liberazione anticipata o qualche anno in detenzione domiciliare, costituiscano una resa dello Stato nei confronti di Caino, un tradimento delle vittime di reato, una breccia intollerabile nel muro della certezza della pena. Pensi questo, ma poi accetti rese, tradimenti e brecce ben più gravi. Il sovraffollamento e i suicidi in carcere cosa sono? La tortura di Stato ai danni di persone sottoposte alla sua custodia e il maltrattamento degli stessi custodi, sono fatti ben più gravi! Non è una esagerazione. Per il sovraffollamento, nel 2013, con la sentenza Torreggiani la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della convenzione, per intenderci, quella che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. La cifra del reato è in questi numeri: dal 2018 al 2023 oltre 24.000 detenuti, 4.700 nel solo 2023, si sono visti riconoscere rimedi risarcitori per le condizioni in cui sono stati costretti a vivere. Allora, Travaglio, ti chiedo: non ti importano i diritti umani dei detenuti? La vita dei detenuti non vale niente? Preoccupati, allora, occupati insieme a noi, dei diritti e della vita dei servitori dello Stato, dei direttori, degli educatori, dei poliziotti penitenziari vittime anche loro del degrado delle carceri, costretti a turni massacranti, a lavorare in luoghi malsani e violenti, patogeni e criminogeni. Noi diciamo: beati i costruttori di pace e di speranza nelle carceri. Noi proponiamo una Santa Alleanza tra detenuti e detenenti. D’altronde, il motto di Nessuno tocchi Caino è “Spes contra spem”. “Despondere spem munus nostrum”, è quello del corpo della polizia penitenziaria. Noi, non guardie e ladri, ma parti diverse di un insieme, quella comunità penitenziaria che Marco (Pannella) amava e dalla quale era amato, possiamo essere speranza al di là di ogni ragionevole speranza. Possiamo seminare la speranza in terre dove regna la disperazione, possiamo compiere l’opera di misericordia corporale in un luogo dove si infligge la pena corporale. In tal modo, possiamo contribuire a salvare molte vite nelle carceri del nostro Paese. Dalla solitudine, dall’angoscia e dall’impiccagione. Gli errori di Travaglio. Tutti i danni provocati dalla retorica repressiva alle carceri italiane di Francesco Petrelli* Il Foglio, 27 luglio 2024 Il numero di reati (soprattutto quelli gravi) nel nostro Paese diminuisce da anni, quello dei carcerati è in esponenziale aumento (e con esso i suicidi in cella). La quantificazione degli spazi minimi esistenziali all’interno dei quali un essere umano può riconoscersi come tale costituisce uno di quei profili valutativi altamente soggettivi sui quali (al di là dei dati normativi, giurisprudenziali, convenzionali, ragionieristici ed altro…), ogni parere è ammesso. La questione tuttavia è interessante perché chi ne discute svela la sua Weltanschauung di riferimento. Nelle navi negriere utilizzate nel commercio di schiavi nei secoli XVII e XVIII i corpi degli schiavi venivano ammassati l’uno sull’altro perché comunque le perdite calcolate, con cibo e acqua calibrati al minimo della sussistenza, si aggiravano intorno al 12 per cento, assicuravano un notevole profitto. Se l’uomo è considerato “merce di scambio” ogni valutazione è possibile e tutto torna. Tutto dipende dall’idea che si ha dunque del valore delle vite umane e della dignità dell’uomo che, come è noto e come rivelano alcune esternazioni, prevede anche lo zero come base di partenza del possibile rating. Basti tornare indietro di qualche secolo. Se il dibattito sul sovraffollamento carcerario (da Turati in poi…) si ripete, si vede che chi si dovrebbe occupare del problema, non se ne occupa, in questa intensa e solerte attività omissiva evidentemente supportato da chi non ritiene affatto che si tratti di un problema. E da chi pensa, come ha scritto ieri Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, che la questione dovrebbe essere posta al contrario, considerando che i detenuti non sono affatto troppi in quanto, al contrario, “rispetto il numero di reati e di delinquenti - i detenuti (in Italia) sono troppo pochi”. Se tuttavia si volesse operare una analisi del problema che tenga conto delle linee di tendenza dei fenomeni, si dovrebbe dire che in verità i reati nel nostro paese diminuiscono progressivamente da molti anni e questo fenomeno riguarda in particolare i reati più gravi. Ma il numero dei carcerati aumenta esponenzialmente. Un carcere inutilmente inumano che degrada l’individuo e ne umilia la dignità (si rilegga la lettera inviata dal carcere di Canton Mombello, citata dal presidente Mattarella, per averne un’idea in concreto), non concorre affatto alla sicurezza dei cittadini, perché non rende certo migliori gli uomini che si sono sottratti alle regole della convivenza civile e non riduce affatto il rischio della recidiva. Pensare ancora a un primitivo uso del carcere duro come medicina evoca improbabili scenari retributivi che non appartengono certo alla modernità occidentale ed ai nostri riferimenti giuridici convenzionali e costituzionali. Quanto alla sana retorica repressiva cito solo un dato sul quale riflettere: dall’inizio dell’anno si sono tolta la vita nelle nostre carceri 10 giovani con meno di 25 anni. Senza contare gli altri 50 che certamente se la sono cercata, in quanto fragili, emarginati e con problemi psichiatrici, e meritano tutta la nostra indifferenza. Sentire evocare in queste drammatiche condizioni il proficuo recupero di “un po’ di efficienza repressiva” ci fa chiedere quali siano i luoghi mentali di chi auspica tali scenari. Certo, la tanto aborrita “indecente liberazione anticipata” funziona un poco da “carota e bastone” con chi si induce ad accettare le regole e vede tale adesione premiata da una riduzione della pena, ma la sostituzione di tale dispositivo premiale (che esiste in tutta Europa), con il solo “bastone” è evidentemente il sogno di chi scrive. Da quali dati empirici, razionali o comunque esperienziali provenga l’idea che quella auspicata “efficienza repressiva” accompagnata da una non meglio definita “certezza della pena” risolverebbe almeno “un 5 per cento delle centinaia di migliaia di delitti impuniti”, resta un mistero, visto che tutte le politiche criminali di quel tipo hanno notoriamente fallito e chi si era retoricamente riempito la bocca di simili autoritarie flatulenze ha dovuto fare un rapido retro-front. Auguri a chi pensa di percorrere ottusamente ancora queste strade, che oltre che essere contro la nostra Costituzione sono anche contro il buon senso. *Presidente Unione Camere penali Il sovraffollamento spiegato a Travaglio di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 luglio 2024 Non si può parlare del dramma delle carceri senza parlare dell’abuso della carcerazione preventiva. Abbiamo scoperto da Marco Travaglio che il problema del sovraffollamento delle carceri è, citiamo testualmente, “frutto di un equivoco autolesionista tutto italiano”, in quanto l’Italia calcolerebbe i posti-cella in base a una legge che fissa uno spazio minimo che deve avere un detenuto in Italia (5 metri) superiore a quello considerato inumano dalla Corte di Strasburgo (3 metri). L’equivoco autolesionista tutto italiano sulle condizioni disumane delle carceri italiane - quattromila detenuti in più rispetto all’estate scorsa, 61.480 detenuti a fronte di una capienza di 47.300 posti, 60 suicidi tra i carcerati nel 2024, due solo ieri - potrebbe apparire meno ambivalente mettendo al centro del dibattito qualche altro numero utile. Si potrebbe ricordare, per esempio, cosa che Travaglio non fa, che da quando la Corte dei diritti europei è stata istituita, nel 1959, l’Italia è il terzo paese ad aver ricevuto più condanne (2.466), subito dopo Turchia e Russia (dati 2021) e che l’Italia è stata condannata nove volte per tortura (l’Ungheria mai, per dire), 297 volte per violazione del diritto al giusto processo (21 l’Ungheria, per dire), 33 volte per trattamento inumano e degradante (38 l’Ungheria, per dire) e 1.203 volte per la durata eccessiva dei processi (344 l’Ungheria, per dire). Si potrebbe ricordare, per esempio, cosa che Travaglio non fa che la stessa Corte europea a cui il direttore del Fatto si appella ha calcolato il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane pari al 130 per cento, e nella terribile Ungheria, per dire, il tasso, secondo il rapporto del Consiglio d’Europa, è del 111,5 per cento. Si potrebbe ricordare tutto questo ma lo spunto di riflessione, per così dire, offerto da Travaglio ci porta a ragionare su un altro tema che riguarda le carceri e che spiega bene la ragione per cui il partito unico delle manette, il partito unico del giustizialismo chiodato, il partito unico del securitarismo giudiziario considera un tema da rimuovere, “un equivoco”, il dossier sul sovraffollamento delle carceri italiane. E la ragione è in una percentuale offerta dal consiglio d’Europa. Questa: il 27,6 per cento dei detenuti si trova in carcere pur essendo ancora in attesa di giudizio. Quando si parla di carceri, il grande elefante nella stanza è proprio questo e si lega a un tema evidentemente rimosso dal partito unico delle manette: quanto l’abuso della carcerazione preventiva rappresenta un acceleratore del sovraffollamento carcerario. I numeri sono semplici. Il sovraffollamento carcerario è pari a 14 mila persone. I detenuti che si trovano in carcere in attesa di giudizio sono 17 mila. La metà dei detenuti che si trova in carcere in attesa di giudizio statisticamente viene assolta o condannata con una sospensione condizionale, il che significa che la carcerazione non era giustificata, e non ci vuole molto dunque a capire che sarebbe sufficiente introdurre dei meccanismi in grado di governare gli automatismi con cui i magistrati sbattono i sospettati in galera per dimezzare letteralmente il sovraffollamento carcerario. Per chi ha trasformato i magistrati in entità infallibili, legittimati cioè a utilizzare le leve del potere giudiziario per combattere i fenomeni e non solo i reati, il tema è difficile da affrontare perché affrontare questo tema significherebbe ammettere quello che il partito unico delle manette non può riconoscere. Ovverosia che nel sovraffollamento delle carceri vi è una diretta responsabilità della magistratura. L’approvazione del ddl Nordio va in questa direzione, specie nella parte in cui prevede che la richiesta di arresto dell’indagato avanzata dal pm non sarà più valutata da un solo giudice, ma da tre giudici. Ma fino a che l’Italia non si ribellerà a una classe dirigente che ha trasformato in slogan di successo frasi come “buttare la chiave” e fare “marcire” i reclusi in galera, sarà possibile trasformare il sovraffollamento delle carceri in un equivoco, anche per evitare di guardare con indignazione a quell’osceno elefante nella stanza chiamato abuso della carcerazione preventiva. Così la criminalità aizza la rivolta nelle carceri di Luca Fazzo Il Giornale, 27 luglio 2024 E se fosse la mafia a soffiare sul fuoco delle carceri? Se è vero, come dicono i sindacati della Polizia penitenziaria, che le prigioni italiane sono una “polveriera pronta ad esplodere” è senza dubbio colpa delle condizioni disastrose in cui si vive al loro interno. Ma a preoccupare in questi giorni i vertici della amministrazione penitenziaria è l’influsso potenziale di due fattori: la speranza, grazie alle dichiarazioni continue delle sinistre, di provvedimenti a breve termine di scarcerazioni di massa; e il passaparola gestito dalle organizzazioni criminali per coordinare violenze e rivolte simili a quelle di quattro anni fa, ai tempi dell’emergenza Covid. Già allora a sventolare la parola d’ordine dell’indulto erano anche personaggi legati ai clan. L’indulto non arrivò, le rivolte continuarono e il bilancio fu tragico, con più di venti detenuti morti nei disordini. Per evitare che uno scenario simile si ripeta il ministero della Giustizia tiene monitorato attentamente l’andamento delle proteste più esagitate a partire dal mese di maggio. I dati raccolti sembrano confermare la presenza in alcuni istituti di uno zoccolo duro della protesta che porta ad allarmi a ripetizione, nonostante - numeri alla mano - non sempre si tratti di carceri che fanno parte della top ten della invivibilità. È il caso per esempio della struttura di Catanzaro, dove forme violente di protesta proseguono con costanza da maggio nonostante il tasso di sovraffollamento sia del 130 per cento, certo sgradevole ma lontano dalle punte drammatiche registrate in altre realtà come Canton Mombello, a Brescia, dove si è superato il 230 per cento. Eppure a Brescia l’ordine pubblico appare sotto controllo mentre a Catanzaro ancora l’altro giorno un agente è stato aggredito a testate. Nel caso specifico pare che l’autore sia un detenuto con problemi psichiatrici ma forse non è casuale che a vedere un clima così pesante sia un carcere, come Catanzaro, ad alta composizione di delinquenza organizzata. Dell’elenco delle carceri più “agitate” pubblicato qui accanto fanno parte istituti che ospitano sia reparti di media sicurezza che di alta sicurezza. È lì, nel mix tra detenuti comuni e mafiosi, che il rischio di scintille dalle conseguenze imprevedibili è più alto. Poi, certo, il messaggio delle rivolte si diffonde anche a strutture dove la presenza mafiosa è minore, e trova terreno di coltura in situazioni oggettivamente intollerabili. È il caso del carcere di Vazia, a Rieti, una struttura di media sicurezza che fa parte della lista degli istituti a più alto tasso di proteste, e che con una capienza ufficiale di 295 posti registra oggi 492 detenuti. Praticamente un inferno. La situazione drammatica di Varzia fa capire bene come le proposte di legge svuota carceri destinate a restare sulla carta abbiano finito con il surriscaldare il clima: l’altro ieri trecento detenuti del carcere reatino si sono ribellati, rifiutando di rientrare nelle celle e impadronendosi di fatto del reparto G, il più grosso del carcere, e mantenendone il controllo per tutta la notte. Parole d’ordine, amnistia e indulto. È la conseguenza, dicono i sindacati della polizia penitenziaria, di chi in questi giorni interviene sull’emergenza carceri illudendo i detenuti con leggi improbabili. Non è un caso che il miraggio dell’indulto stia facendo presa anche in strutture che non si possono considerare sovraffollate ma dove, come in ogni prigione del mondo, il sogno di tutti è uscire il prima possibile. L’esasperazione politica e mediatica porta a scatenare la rabbia anche in carceri dove la capienza viene rispettata: è il caso di Carinola, in provincia di Caserta, ex carcere di massima sicurezza oggi riconvertito in istituto a custodia attenuata, una prigione dal volto umano con 488 posti e 493 reclusi. E dove ciò nonostante l’altro giorno cinquanta detenuti hanno preso d’assalto l’ufficio di sorveglianza armati di bastoni - riferisce il sindacato Sappe - per aggredire e picchiare il comandante e l’ispettore. Siamo in balia di questi facinorosi convinti di essere in un albergo. Il carcere si svuota con la depenalizzazione e le misure alternative”. Le preoccupazioni del Cnca redattoresociale.it, 27 luglio 2024 Secondo il Coordinamento nazionale Comunità di accoglienza, il Dl “svuotacarceri” cita strutture di accoglienza non ben definite, non affronta il nodo delle lungaggini burocratiche legate al funzionamento degli organi della giustizia e non prevede nuove assunzioni per le figure educative negli istituti di pena. Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) esprime forte preoccupazione per il decreto legge cosiddetto “svuotacarceri” sia per l’approccio alla base del provvedimento sia per alcuni punti specifici contenuti nel testo. Da sottolineare che le comunità terapeutiche residenziali della rete Cnca ospitavano, nell’ultima rilevazione effettuata, quasi 400 persone in misura alternativa alla detenzione. In primo luogo, il Cnca ribadisce che “la strada maestra per affrontare il problema del sovraffollamento in carcere è solo quella di ridurre gli ingressi nelle strutture detentive e limitarne i tempi. Un risultato che si raggiunge con una decisa azione di depenalizzazione e di ricorso esteso alle misure alternative alla detenzione. Non è più tollerabile - si afferma - che tensioni e problemi sociali vengano affrontati creando nuovi reati, aumentando le pene e limitando il ricorso alle misure alternative, come anche questo governo sta facendo fin dalla sua costituzione”. In secondo luogo, secondo il Cnca “allarma quanto previsto all’art 8 del decreto legge, in cui è prevista l’istituzione presso il ministero della Giustizia di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale delle persone detenute adulte. Queste strutture residenziali dovrebbero garantire servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti residenti, compresi quelli con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico. Ci domandiamo - afferma il Cnca - a quali tipologie di strutture si stia facendo riferimento. Per le persone con problematiche di dipendenza o di salute mentale sono previsti, infatti, servizi specifici nella rete del Sistema sanitario nazionale pubblico, e quando questi servizi sono offerti da ‘comunità’ a gestione privata sono previsti processi di accreditamento delle stesse che prevedono requisiti strutturali e di personale dettati da normative regionali. È a queste comunità che il decreto si riferisce o si vogliono creare nuove strutture, fuori dal sistema attuale di accreditamento, semmai riservate solo a persone inserite nel circuito penale e con un numero di ospiti ben superiore a quello delle strutture oggi esistenti? Sarebbero delle micro carceri private per le persone tossicodipendenti e/o con problemi psichiatrici, una soluzione che sarebbe inaccettabile”. In terzo luogo, la federazione rileva che “il problema principale per l’accesso in comunità è dato spesso da lungaggini burocratiche e da un’effettive difficoltà di funzionamento degli organi della giustizia. Andrebbero semplificate e velocizzate le procedure (i tempi di attesa per una camera di consiglio possono arrivare a 12 mesi) e non impedito l’ingresso anche per coloro che sono in attesa di giudizio. Inoltre, in alcune zone del paese le comunità si trovano con capacità di intervento inutilizzate per le difficoltà degli invii da parte del sistema sanitario, che limita fortemente l’uso delle rette regionali per mancanza di fondi”. Inoltre, il Cnca sottolinea che, “oltre alle comunità, sarebbe opportuno sostenere anche altre soluzioni come le diverse forme di housing sociale che numerose organizzazioni del Cnca stanno sperimentando in tutta Italia”. Infine, il decreto legge prevede un aumento degli agenti penitenziari ma non stabilisce nulla per l’endemica mancanza di personale dedicato alle aree educative trattamentali degli istituti di pena. “Spesso le persone ristrette arrivano a fine pena senza la redazione della Relazione di sintesi necessaria per la richiesta al magistrato di sorveglianza delle misure di esecuzione penale esterna - conclude il Coordinamento. Riteniamo che si debba investire urgentemente anche per accrescere nelle carceri queste professionalità”. Carceri, rischi ingolfamento sulla liberazione anticipata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2024 Le osservazioni del Csm sul testo del decreto legge ora all’esame del Senato. Per i giudici di sorveglianza si profila un aumento dei carichi di lavoro. Già non particolarmente incisive nell’affrontare l’emergenza carcere le misure del decreto legge appena approvato dal Consiglio dei ministri e in questi giorni in discussione al Senato rischiano di essere del tutto inefficaci in assenza di un’articolata fase transitoria. Lo sottolinea il parere del Csm approvato dall’ultimo plenum prima della pausa estiva. Il testo precisa che, se sono condivisibili gli obiettivi del decreto (semplificazione delle procedure di esecuzione penale e conseguente alleggerimento dei carichi di lavoro della magistratura di sorveglianza), tuttavia le misure introdotte in materia di liberazione anticipata e di ammissione alle misure alternative, soprattutto se non accompagnate da una puntuale declinazione della prima fase di applicazione, “rischiano di essere poco incisive, se non addirittura di determinare un allungamento dei tempi e delle relative istruttorie e di rendere, per certi aspetti, più gravose le attività della magistratura di sorveglianza e della magistratura requirente”. Per quanto riguarda, per esempio, uno dei punti cardine dell’intervento, le modifiche alla disciplina della liberazione anticipata, se nel sistema precedente l’applicazione del beneficio era di solito sollecitato dagli interessati, con il nuovo sistema occorre che il giudice si attivi d’ufficio entro i termini indicati. E allora, osserva il parere, “tenuto conto del numero assai elevato di detenuti in carico a ogni magistrato di sorveglianza, perché il termine di avvio del procedimento sia rispettato sarà necessario un costante aggiornamento della posizione giuridica di ciascun detenuto, con l’obiettivo di monitorare costantemente le scadenze che via via arrivano a maturazione. “Tanto inevitabilmente - si legge nel parere - renderà necessaria una rimodulazione non poco impegnativa delle attività delle cancellerie e degli stessi magistrati di sorveglianza che rischia di vanificare i vantaggi, in termini di sgravi procedimentali derivanti dalla limitazione alla proponibilità delle istanze di ammissione al beneficio (...)e ciò in considerazione anche delle carenze degli organici della magistratura di sorveglianza e del personale dei relativi tribunali”. Inoltre, nel caso assai frequente della detenzione scontata in una pluralità di istituti, il termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento sia nel caso della liberazione anticipata sia per le misure alternative al carcere potrebbe non essere rispettato, dando luogo a scarcerazioni tardive proprio per la complessità dell’istruttoria da compiere. Meglio sarebbe allora, suggerisce il Csm, prevedere, come regola generale, che tutte le informazioni istruttorie destinate agli uffici di sorveglianza (relazioni e dati informativi provenienti dagli istituti penitenziari dove è stato detenuto il condannato e dagli organi coinvolti nella procedura) vengano trasmesse periodicamente alla scadenza di ogni semestre di detenzione, quando è più agevole rintracciare notizie e informazioni. Quanto poi all’assai discussa norma di diritto penale sostanziale, il peculato per distrazione, introdotta anche per colmare il vuoto di copertura penale per una serie di condotte dei pubblici funzionari dopo la soppressione dell’abuso d’ufficio, il parere del Csm ricorda il pericolo di future incertezze interpretative soprattutto per la sfumata linea di confine rispetto ai casi di peculato semplice, con l’eventualità di un significativo abbassamento del trattamento sanzionatorio, e per avere in larga parte ricalcato il contenuto dell’ormai cancellato abuso d’ufficio. La commissione Giustizia del Senato ha concluso l’esame degli emendamenti senza modifiche sostanziali sul versante delle misure dedicate al carcere, mentre sul peculato per distrazione ne ha inserito la rilevanza per il decreto 231 e aggravato il trattamento sanzionatorio per frodi gravi ai danni degli interessi finanziari della Ue. Il Parlamento gioca con la Consulta ma Mattarella gli rovina la festa di Andrea Pugiotto L’Unità, 27 luglio 2024 Alla cerimonia del Ventaglio il Capo dello Stato ha affrontato il tema della lunga attesa della Corte per il suo quindicesimo giudice, un vulnus costituzionale che va sanato “subito”. 1. Potestas e auctoritas non sono la stessa cosa. Un conto è la titolarità di un potere (potestas), altro è l’autorevolezza necessaria per esercitarlo (auctoritas). Se la prima si ottiene in ragione della carica assunta, la seconda si guadagna sul campo con l’esercizio appropriato della funzione istituzionale rivestita. Accecante, la differenza è balzata agli occhi nelle due “cerimonie del Ventaglio” celebrate, davanti alla stampa parlamentare, a palazzo Madama e al Quirinale. Siderale è apparsa la distanza, per postura e linguaggio, tra il presidente del Senato e il capo dello Stato. Ne è emersa una duplice conferma: da un lato, la capacità del presidente Mattarella di fondere insieme autorità istituzionale e autorevolezza personale; dall’altro, la difficoltà oramai acclarata del presidente La Russa a incarnare adeguatamente il ruolo di seconda carica della Repubblica. Esemplare il primo. Unfit il secondo. 2. L’intervento del capo dello Stato merita una lettura integrale per i temi trattati, tutti di indubbio spessore costituzionale. Il pluralismo informativo (“la democrazia, infatti, è anzitutto conoscenza”), con l’incondizionata condanna di ogni attacco alla libertà d’informazione (“atto eversivo rivolto contro la Repubblica”) e la valorizzazione del nuovo regolamento Ue sulla libertà dei media, piattaforme digitali comprese. Il ritorno della guerra in Europa, con l’ammonimento a non dimenticare l’eterogenesi di fini seguita all’accordo di Monaco del 1938: firmato per assicurare la pace, spalancò le porte al secondo conflitto mondiale (“historia magistra vitae”). L’allarme per “il diffondersi di una subcultura che si ispira all’odio”, fino alla violenza fisica contro gli avversari politici, alimentata a livello globale da “molti apprendisti stregoni”. La raccomandazione di conformare l’indirizzo politico del Paese “al rispetto del nostro interesse nazionale e dei principi della nostra Costituzione” (e non agli esiti elettorali di altri Stati, per quanto fondamentali nello scacchiere internazionale). Il nesso tra regole elettorali (che limitano le “scelte effettivamente affidate agli elettori”) e il crescente e preoccupante fenomeno dell’astensionismo dal voto. La “straziante” situazione nelle carceri, le cui “condizioni angosciose” sono “indecorose per un Paese civile”, trasformandole da luogo di speranza in “palestre criminali”. I giornali del giorno dopo ne hanno dato ampia eco. Viceversa, salvo rare eccezioni (su tutte, la lodevole pagina di Donatella Stasio su La Stampa), è rimasto in ombra un tema che il capo dello Stato ha voluto trattare perché di prepotente urgenza istituzionale: “la lunga attesa della Corte costituzionale per il suo quindicesimo giudice”. Merita, invece, di essere riportato al centro della scena, come questo giornale ha già fatto con preoccupata preveggenza (cfr. l’Unità del 18 aprile scorso). 3. Da quando il mandato di giudice costituzionale di Silvana Sciarra è scaduto (11 novembre 2023), sono già trascorsi otto mesi e mezzo. Spetta alle Camere in seduta comune scegliere il membro mancante a palazzo della Consulta: convocate finora soltanto cinque volte, l’elezione non ha dato esito positivo. Ciò benché - dopo il terzo scrutinio - il quorum richiesto sia costituzionalmente sceso, dai dolomitici due terzi alla più scalabile maggioranza dei tre quinti del collegio. Non basta: solo 330 parlamentari (su 605 aventi diritto al voto) hanno preso parte all’ultima votazione, il 25 giugno scorso. Lo stallo è tutto politico. Si procede svogliatamente, dando per scontata la “fumata nera” della seduta, volta per volta burocraticamente convocata, partecipata con sempre più malcelato fastidio. E così si intende proseguire fino al 20 dicembre, quando terminerà il mandato di altri tre giudici costituzionali (Augusto Barbera, Franco Modugno, Giulio Prosperetti), anch’essi di elezione parlamentare. Con un poker a disposizione - opinano i vari king makers - sarà più facile trovare il necessario accordo trasversale, all’interno sia delle forze di governo che dell’opposizione (o di quei suoi parlamentari sufficienti a centrare il quorum richiesto). Nel frattempo, non importa che la Consulta continui a operare con un collegio incompleto. Dove - in caso di parità - è il voto del suo presidente, raddoppiato in valore, a decidere la causa in esame. Dove viene meno l’equilibrio tra componenti che la Costituzione vuole presenti in eguale misura (cinque giudici di nomina presidenziale, cinque eletti dalle supreme magistrature, cinque di elezione parlamentare). Dove, giocoforza, diminuisce in quantità la capacità della Corte, privata di un giudice, di rendere giustizia costituzionale. Dove a fine anno, in attesa dell’elezione “a pacchetto”, il collegio scenderà a undici giudici, soglia sotto la quale - per legge - non può svolgere le proprie funzioni. Non importa, in altri termini, il rispetto della legalità costituzionale, a fronte della volontà della presidente del Consiglio di “dare le carte”, come ha rivendicato nella conferenza stampa del 4 gennaio scorso. Testuale: entro fine anno, “il Parlamento, che oggi ha una maggioranza di centrodestra, deve nominare quattro giudici della Corte costituzionale. […] Non credo si possa dire che se una maggioranza di centrodestra esercita le stesse prerogative che la sinistra ha esercitato, senza guardare in faccia a nessuno, questo possa essere considerato una deriva autoritaria. Penso che sia piuttosto una deriva autoritaria considerare che chi vince le elezioni, se non è di sinistra, non abbia gli stessi diritti degli altri”. Curiosa giustificazione: a brigante, brigante e mezzo. Come se le violazioni costituzionali si elidessero reciprocamente invece di sommarsi, raddoppiando in gravità. 4. Con il suo garbato “invito”, formulato però “con determinazione”, il capo dello Stato rompe il giocattolo con cui Governo e Parlamento si stanno baloccando, ignorando le regole costituzionali del gioco. Le sue parole, cesellate una ad una, sono adamantine. L’attesa del giudice costituzionale mancante è “lunga” e va interrotta “subito”, perché si traduce in un “vulnus alla Costituzione”, cioè - a un tempo - in una ferita e in un’offesa alla Carta fondamentale. Ingiustificabile è attendere il futuro pacchetto di nomine di giudici costituzionali perché, “anche quando se ne devono scegliere diversi contemporaneamente”, ognuna è “una scelta rigorosamente individuale”. Non si tratta, infatti, di individuare “un gruppo di persone da eleggere”, semmai di “una singola persona” da designare non per il suo profilo politico, ma perché “meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio, di assumere quell’ufficio così rilevante”. Sono parole ricalcate dalla Costituzione, cui è estranea una concezione proprietaria (“Tre a noi, uno a voi”) dei posti presso la Corte costituzionale. 5. Senza reticenze, il capo dello Stato indica nel Parlamento il responsabile del vulnus costituzionale denunciato. La chiamata in correità ha obbligato il presidente della Camera Lorenzo Fontana, quale presidente del collegio elettorale, a un’iniziativa risolutiva: la convocazione a cadenza settimanale del Parlamento in seduta comune, con la riserva in ogni caso di procedere - ove necessario - a votazioni continuative una volta al giorno. Non prima di settembre, però, in ragione di un calendario parlamentare estivo giudicato troppo compresso. Apprezzabile è il cambio di passo, molto meno il suo ritmo e il suo rinvio: la violazione costituzionale dura da troppo tempo e non va in vacanza. Andrà poi evitato che l’accelerazione si riveli mero camouflage procedurale. Nei sistemi democratici, “i Parlamenti muoiono per suicidio” (Luciano Violante): allocare sostanzialmente nel Governo le proprie prerogative costituzionali è tra i modi più sbrigativi per farla finita. Vedremo se deputati e senatori saranno capaci di un sussulto di autonomia politica. O se, invece, preferiranno guardare altrove, tradendo la propria funzione. Roma. “Non ho un lavoro. Non ho nulla. Nessuno crederà in me” di Irene Famà La Stampa, 27 luglio 2024 Detenuto si toglie la vita nel carcere di Rebibbia. Il Garante dei detenuti del Lazio: detenzione inutilmente faticosa e priva di prospettive, speriamo che il richiamo di Mattarella abbia finalmente una risposta. “Non ho un lavoro. Non ho nulla. Nessuno crederà in me”. La paura di Giuseppe Pietralito era racchiusa tutta lì, in poche parole confidate ai suoi avvocati. Temeva quello che c’è oltre le sbarre. Il futuro senza un riscatto, senza una prospettiva, senza un’opportunità. La libertà? Ai suoi occhi, reclusi nel carcere di Rebibbia dall’agosto 2022, pareva una dannazione. Così ieri si è ammazzato in cella, nel reparto G12. Ha manomesso la porta per ritardare i soccorsi. Poi si è stretto il lenzuolo intorno al collo, sino a smettere di respirare. Trent’anni, originario di Siracusa, stava scontando una pena definitiva per diversi reati legati al mercato della droga. Spaccio perlopiù. In carcere lavorava, si occupava della spesa per gli altri detenuti. Faceva il “portantino”, così dicono. Impegni, responsabilità, che scandivano la sua quotidianità. “Vivace, gioioso”, racconta chi lo conosceva bene. Qualche scoramento all’inizio della detenzione, legato alla solitudine. Alla lontananza dalla figlia adolescente. Poi inizia a scriversi con una donna. Lei fuori dal carcere, lui dalla cella. Lettere seguono altre lettere. Racconti, confidenze. Un’amicizia che diventa qualcosa di più. C’era il problema dei colloqui. Interviene il garante, intervengono gli avvocati e la coppia inizia a incontrarsi ogni giovedì. Proprio l’altro ieri, poi, quella che avrebbe dovuto essere una buona notizia: Giuseppe Pietralito sarebbe tornato libero nel 2026 e non nel 2030. “Eravamo riusciti a ottenere la continuazione dei reati. Stavamo già valutando i permessi e così via”, spiega l’avvocata Federica Carmen Gomma. “Non so cosa sia successo dall’oggi al domani. Siamo in una situazione carceraria disastrosa. Servirebbe un supporto di vicinanza, di ascolto di attenzione ai detenuti. Ma gli operatori sono pochi e chi è fragile viene abbandonato a sé stesso”. L’avvocata Carmen Gomma ha intenzione di andare sino in fondo alla vicenda finita sul tavolo del pubblico ministero Giovanni Battista Bertolini. Le sue difficoltà, le sue ombre, Giuseppe Pietralito le ha sempre tenute per sé. Mai un problema, mai una lamentela. In quel carcere, dove su 1170 posti i detenuti sono 1564 e il sovraffollamento è del 146%, il trentenne non faceva questioni. Le sue fragilità? Nessuno pare le avesse notate. E lo spiega bene il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa: “L’ennesima morte in carcere, per una detenzione che diventa ogni giorno di più insopportabile, perché inutilmente faticosa e priva di prospettive. Speriamo che l’ultimo richiamo del Presidente Mattarella abbia finalmente una tangibile risposta”. Un appello arriva anche dai sindacati della polizia penitenziaria. “È indecente che mentre si propone di nominare un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, non si faccia nulla per il problema dei suicidi e delle aggressioni agli agenti”, dice Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp. Che critica “il capo dell’amministrazione penitenziaria. Resta al suo posto anche se non riesce a fare nulla per l’emergenza”. Interviene Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa: “Ci troviamo davanti all’ennesimo suicidio di un detenuto, cui bisogna aggiungere i sei degli agenti appartenenti alla polizia penitenziaria. Il commissario straordinario all’edilizia penitenziaria è già fallito negli anni passati e di certo, anche questa volta non potrà produrre effetti, se non a lungo termine”. E ancora. “Si sarebbe potuto pensare a un commissario all’emergenza carceraria, che si occupasse anche di assunzioni e di scuole di formazione”. Caltagirone (Ct). Rabbia e proteste nel carcere, detenuti sui tetti livesicilia.it, 27 luglio 2024 La causa è la morte di un compagno di cella. La morte per cause naturali di un detenuto ha fatto scoppiare la protesta all’interno della Casa circondariale di Caltagirone. Iniziata questa mattina, è terminata attorno alle due del pomeriggio. A darne notizia è il segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. “Alcuni detenuti sarebbero saliti anche sul tetto dell’edificio - ha reso noto stamattina il sindacalista, Gennarino De Fazio. Per fronteggiare la situazione, sono stati richiamati gli agenti liberi dal servizio e ulteriori rinforzi sono in arrivo da altre sedi della Sicilia”. Ore 14, la protesta rientra - Poi i disordini sono terminati, ma, secondo quanto reso noto dalla Uilpa, fortunatamente non ci sarebbero stati scontri fisici e “nessuno si sarebbe fatto male”. Il carcere è rimasto per tutta la mattinata presidiato all’esterno anche dalle altre forze dell’ordine. Quanto avvenuto rappresenta l’emblema di uno status quo al limite della sopportazione, proprio all’indomani della pubblicazione del dossier dell’associazione Antigone sulla condizione nelle carceri. E infatti il segretario della Uilpa rincara la dose. Una situazione “esplosiva” - “La situazione è esplosiva - aggiunge De Fazio - 59 suicidi fra i detenuti, 6 fra la polizia penitenziaria, 14.500 reclusi in più rispetto ai posti disponibili, checché ne dica il sottosegretario Andrea Ostellari, voragini negli organici del personale, carenze sanitarie, strutturali, infrastrutturali e amministrative”. “Alla Polizia penitenziaria non si può continuare a chiedere d’imporre il rispetto delle leggi dello Stato - conclude - da quello stesso Stato che continuamente le calpesta e le oltraggia sia nei confronti dei reclusi sia a danno dei suoi stessi servitori”. L’appello alla premier Meloni - Infine l’appello alla premier Meloni a “battere un colpo”, anche dopo le parole del presidente della Repubblica Mattarella. Il Capo dello Stato ne ha parlato infatti nell’ambito della cosiddetta “cerimonia del Ventaglio” con la stampa parlamentare. Ha parlato della condizione in cui vivono i detenuti, definendole “angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere - ha sottolineato Mattarella - non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Firenze. Il carcere, la politica e il teatrino Di Stefano Fabbri Corriere Fiorentino, 27 luglio 2024 Se c’è qualcosa che ha strettamente a che fare con le scelte politiche, questa è il carcere. E se c’è qualcosa che deve obbligatoriamente stare fuori dallo scontro politico fine a se stesso, questa è ancora il carcere. La vicenda di Sollicciano è emblematica: raramente si è vista un’”emergenza” durare da 40 anni, tanti ne sono trascorsi dalla sua costruzione. Quattro decenni di impotenza o di ignavia, durante i quali non sono mancati segnali di allarme, indignazioni e pure qualche generoso tentativo di reazione. Oggi il bubbone pare esploso, ma ciò che per ora sembra aver fatto il botto è soprattutto il suo epifenomeno, ovvero la polemica e l’uso politico di una tragedia. Inutile qui fare il conto delle responsabilità di ciascuno, che ci sono e ben stratificate. Ma come definire se non un teatrino quanto va in scena in questi giorni, con le parti già scritte: il governo e le sue strutture che fanno finta di intervenire non attraverso stanziamenti adeguati alla situazione del carcere fiorentino, drammatica per i reclusi e per chi ci lavora, ma con una specie di grida manzoniana in cui si intima alla direttrice di porre rimedio in 90 giorni a magagne non marginali; e l’amministrazione comunale che, nonostante il pronunciamento di non belligeranza di Sara Funaro, pare usare la difesa della dirigente più per non mancare l’occasione di una sfida con l’esecutivo nazionale. Tutto questo mentre ciascuno sembra essersi svegliato (provvisoriamente) dal letargo. Poi, di nuovo, l’oblio di una quotidianità che è folle considerare normale. Come è difficile considerare normale che a certificare l’assenza di cimici e topi nella cella in cui un ventenne è stato trovato impiccato sia stata la stessa ditta incaricata della disinfestazione. La triste verità è che il carcere non produce consenso e voti, se non tra i fan della chiave buttata nel pozzo. Al massimo un po’ di indignazione, carburante eccellente per la polemica ma non per mettere radicalmente mano a quella che ancora oggi è una discarica di umanità fatta di errori e di pena, in cui c’è chi cerca quel riscatto promesso dalla Costituzione. Altrimenti non si spiegherebbe perché il dato emerso dal recente convegno del Cnel, che indica al 60% la recidiva tra i detenuti che non lavorano mentre la stima al 2% tra i pochi che riescono a trovare un’occupazione, sembri destinato a restare negli archivi. Se un detenuto deve chiedere qualcosa c’è una prassi: la “domandina”, in cui brevemente si scrive il desiderio affidandolo alle procedure. Ecco. Una “domandina” rivolta alla politica potrebbe essere questa: non trasformate l’emergenza-carcere in un terreno di scontro in cui a perderci ancora una volta sarebbero solo i detenuti. Ma se volete invece tentare qualcosa di concreto, “fate presto”, come titolò un importante quotidiano dopo il terremoto in Irpinia. Fatelo ora, prima che il sisma carcerario travolga Sollicciano e il buonsenso. Genova. “Degrado, dispetti e nessuna possibilità di rieducazione, così sale la nostra rabbia” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 27 luglio 2024 Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera di alcune detenute della Casa Circondariale di Genova-Pontedecimo. Scriviamo per rendervi partecipi della situazione di degrado nella quale viviamo la nostra quotidianità. La cosa che ci sta più a cuore sottolineare è la mancanza di attività volte alla rieducazione (elemento che, ad esempio, per i giudici risulta molto importante ma che qua sembra non avere rilevanza) ovvero nell’investire tempo svolgendo qualcosa di positivo, che aiuti la persona a crescere psicologicamente e spiritualmente per comprendere appieno gli errori ed evitare di reiterarli, cosa molto frequente per la rabbia che si matura in questi luoghi e che non viene, appunto, sfogata. A questo proposito la mancanza di figure di riferimento costanti, come psicologi e soprattutto educatori, è il principale problema di questa struttura che si riflette inevitabilmente in una drammatica carenza di attività lavorative e rieducative (con la sola eccezione della scuola, comunque presente per obbligo di legge, ma da sola insufficiente per quanto efficiente), problema per noi doppio in quanto non ci fornisce strumenti di reinserimento sociale e inasprisce la componente afflittiva della detenzione per via della frustrazione, della rabbia e della depressione che ci dà il non avere niente da fare per tutto il giorno, tutti i giorni, per anni. Ciò appare tanto più sconfortante e avvilente alla luce delle ultime statistiche del Cnel sulle percentuali di recidiva, al 68,7% per i detenuti che non hanno lavorato durante la carcerazione a fronte del solo 2% di chi ha potuto lavorare durante la pena. La tendenza a risolvere ogni problema tramite la somministrazione di terapia, per rendere innocuo un soggetto piuttosto che esaminare e cercare di risolvere il problema rende le cose ancor di più intricate o complesse. C’è un grave malfunzionamento dell’area sanitaria ed un’incompetenza dilagante che unite fanno sì che la persona non venga seguita correttamente. Per ottenere una visita in ospedale ci vogliono mesi a meno che non si facciano gesti estremi e questo è profondamente diseducativo. In carcere non si può stare bene. Questo sembra lo slogan che dilaga tra queste mura. Le stesse mura tra le quali viviamo giorno e notte in condizioni igieniche inesistenti perché questa struttura cade a pezzi e l’umido e la ruggine trasudano dal ferro anche solo facendo una semplice doccia. E’ inoltre guerra aperta per ottenere anche le cose più semplici (generi alimentari, palestra inesistente, corsi improvvisati peggio dei villaggi turistici per anziani) che sono date per scontate nelle altre carceri. Le nostre figure di riferimento sono state delle agenti o assistenti che hanno capito come starci vicino, poiché qui siamo rinchiuse e anche una parola, uno scherzo, una risata illumina la giornata e stimola a vivere la carcerazione in modo giusto. Ma ahinoi sono state trasferite e sostituite da soggetti che tante volte, non tutte, sfogano la loro frustrazione impartendo divieti e minacciando di fare rapporto per esercitare il loro potere. Lamentiamo anche la non uguaglianza nel trattamento di noi detenute, essendoci favoritismi, cosa non giusta. Siamo qui per scontare una pena, nessuna vale meno dell’altra e la cattiveria viene punita. Non si dà priorità a ciò che è davvero importante, purtroppo chi è responsabile di questo carcere investe le energie per istruire le agenti a vietarci la libertà di stare come vogliamo nelle celle e negli spazi comuni, che è solamente un corridoio, ovviamente sempre nel rispetto altrui. Un esempio: non si può stare piegate nel corridoio, né sedute e non si possono mettere le proprie cose fuori dalla cella per consentire una migliore pulizia. Come se già non fosse pesante stare in 15mq non in libertà ma in galera. Perché infierire? Perché limitare la libertà personale se già ci è stata tolta visto che siamo in gabbia e non possiamo uscire. Rieti. Da due giorni 400 detenuti in protesta si autogestiscono di Sabrina Vecchi Il Messaggero, 27 luglio 2024 “Circa 400 detenuti di ben 9 sezioni detentive, su 11 totali, da due giorni, di fatto, si autogestiscono presso la Casa Circondariale di Rieti. In estrema sintesi, si rifiutano di entrare nelle celle e anche di notte rimangono aperti lungo i corridoi, salva l’adesione alle normali attività di routine (passeggi, colloqui, etc.). Al momento la protesta è pacifica e non si registrano violenze né verso le persone né verso le cose, ma nelle ultime ore stanno aumentando le provocazioni in un clima complessivo che desta, almeno in noi, fortissime preoccupazioni. Ricordiamo che già nel marzo del 2020 nel carcere di Rieti vi fu una violenta rivolta dei ristretti in conseguenza della quale si registrarono 3 decessi”. Lo dichiara Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “La protesta sembra avere origine dal fortissimo sovraffollamento, su 295 posti regolamentari sono ben 499 i detenuti presenti, nonché dalla riottosità al rispetto delle regole interne. La Polizia penitenziaria, al contrario fortemente sottodimensionata, con 134 unità complessivamente in servizio (da distribuire su più turni e in tutti i compiti) a fronte di un fabbisogno di almeno 290, si trova nel bel mezzo di un cortocircuito essendo obbligata a imporre la legge dello Stato per conto di quello stesso Stato che a sua volta non la rispetta minimamente sia nei confronti dei detenuti sia dei suoi stessi servitori. Di fatto, il Corpo di polizia penitenziaria, i reclusi e in generale le carceri sono abbandonati a se stessi mentre la politica e il Governo discettano del nulla e il Capo del Dap, Giovanni Russo, convoca le Organizzazioni Sindacali per il 31 luglio, dopo un anno e mezzo dall’insediamento, per discutere di “interventi in sede centrale e territoriale”, immaginiamo da realizzarsi, a voler essere molto ottimisti, a decorre da settembre quando si rischierà di ritrovare solo macerie”, continua il Segretario della Uilpa Pp. “Ribadiamo che 14.500 detenuti oltre la capienza disponibile, 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, carenze nell’assistenza sanitaria e psichiatrica, disorganizzazione imperante e condizioni carcerarie d’illegalità diffusa costituiscono una miscela esplosiva pronta a deflagrare alla minima scintilla. Servono interventi urgentissimi che non si rilevano né nel decreto-legge n. 92, meglio noto come carcere sicuro (sic!), né dal disegno di legge di conversione per come sta emergendo dalla Commissione giustizia del Senato. Lo sappiano dalla Presidenza del Consiglio fino al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, passando per il Ministero della Giustizia, che avranno e dovranno assumersi la piena responsabilità di ciò che, temiamo, potrà accadere nelle prossime settimane”, conclude De Fazio. Cremona. Ha gravi problemi psichici, il Gip ha disposto il ricovero in comunità: è ancora in carcere di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 27 luglio 2024 Emergenza, ancora emergenza, sempre emergenza carceraria con effetti deleteri anche per quei detenuti che non dovrebbero restare negli istituti penitenziari. S.D., 49 anni, è ospitato da qualche mese nel carcere di Cremona. È indagato, tra le varie cose, per rapina, minaccia, atti persecutori e danneggiamento. Il Gip del Tribunale di Lodi lo scorso 5 luglio ha revocato la misura cautelare della custodia in carcere, disponendo l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza della libertà vigilata. Il motivo di questo provvedimento risiede nelle precarie condizioni psichiche del detenuto, che non può più restare in carcere e va seguito da una “comunità ad alta intensità di cura” con i relativi percorsi di cura presso il Centro psico- sociale (Cps) di riferimento. Sulla carta tutto è lineare e coerente con le condizioni critiche in cui versa S. D., riscontrate da una perizia psichiatrica in cui si rilevano l’incapacità di intendere e di volere e la pericolosità sociale. Nella realtà, però, le cose cambiano. Il detenuto, nonostante la revoca della misura della custodia cautelare, non può essere trasferito in comunità per mancanza di posti. Una situazione che conferma la fragilità del sistema carcerario, dove gli anelli della stessa catena se si spezzano rendono tutto difficilmente gestibile. Nella giornata di ieri è giunta la conferma, da parte della direzione della casa circondariale di Cremona, della difficoltà a reperire nell’immediato una comunità ad alta intensità di cura, nonostante la gravità del caso. Il detenuto, infatti, in base alla relazione sanitaria dell’ospedale di Cremona del 25 luglio è stato dichiarato “affetto da piscosi maniacale e delirante, con disturbi del comportamento antisociale e portatore di invalidità civile al 100%”. Giunto nel carcere di Cremona, S. D. è stato collocato in una cella singola per il monitoraggio psichiatrico. Nel giro di poco tempo le sue condizioni di salute, da quanto risulta dalla relazione dell’Unità operativa della Sanità penitenziaria, sono peggiorate. Vengono segnalati “comportamenti aggressivi, maniacali e disturbanti la tranquillità altrui soprattutto nei momenti notturni” e si sottolinea la necessità di applicare un “regime chiuso a tutela della sua e altrui incolumità” con “somministrazione della terapia psicotica long-acting”. Un altro passaggio della relazione sanitaria è chiaro: “Oggi - il detenuto, nda - è diventato di difficile gestione all’interno del reparto infermeria per via della sua forma grave di bipolarità e psicosi paranoide. Malgrado i multipli tentativi, non è possibile al momento trovare una Comunità/Cps/Rems che possano accoglierlo vista non solo la scarsità dei posti, ma anche i tempi di attesa”. L’avvocata Federica Liparoti del Foro di Milano, che assiste S. D., non nasconde la propria amarezza. “Si tratta - dice al Dubbio - di una persona fragile, affetta da infermità mentale tale da escludere la capacità di intendere e di volere al momento dei fatti che gli vengono contestati, come attestato dallo psichiatra incaricato dal Gip. Le sue condizioni di salute sono state valutate non compatibili con la detenzione in carcere. La procura di Lodi, a cui va il mio ringraziamento, si è attivata immediatamente perché la scarcerazione ed il collocamento presso una comunità ad alta intensità di cura avvenisse in tempi brevi, alla luce delle gravi condizioni di salute del mio assistito”. Secondo Liparoti, la situazione rischia di precipitare. “Il ministero della Giustizia - commenta - ci ha comunicato che non vi sono posti disponibili in comunità e il mio cliente si trova ancora in carcere. La sua salute e le sue condizioni psichiche sono in continuo peggioramento. Sono molto preoccupata per il mio assistito e mi chiedo per quale motivo, nonostante una situazione che permane da anni, non si sia implementato il numero di posti disponibili nelle strutture sanitarie e in comunità. La Cedu ha già condannato più volte l’Italia per aver trattenuto illecitamente in carcere soggetti con problemi psichici e l’emergenza umanitaria in atto nei nostri penitenziari si sta consumando nel disinteresse generale”. Monza. Lavorare per qualcosa di meglio dell’attuale sistema carcerario di Sarah Brizzolara* L’Unità, 27 luglio 2024 Quello che sta succedendo nelle carceri italiane inizia forse a colpire al cuore anche persone che fino ad oggi del carcere non si erano occupate. Quando ho iniziato, da consigliera comunale, a visitare il carcere della mia Città, a Monza, sono rimasta colpita dalla differenza tra quanto, pur di negativo e drammatico potevo immaginare, e quel che davvero ho visto con i miei occhi. È solo grazie alla non conoscenza del carcere che è possibile mantenere in una società come la nostra un luogo di abbandono e di sofferenza come questo. Nella mia città, come in molte altre, la maggior parte delle persone nemmeno sa che c’è un carcere o dove si trova, nascosto come è in un angolo invisibile di territorio. Un non luogo. Dove i “cattivi” vengono puniti. Ma chi si mette a cercarlo, chi varca la soglia trova tanti disperati, persone abbandonate che non hanno avuto opportunità dalla vita, avvolte in un circolo di negatività e di sofferenza, persone con problemi psicologici, psichiatrici e tossicodipendenze, clandestini abbandonati al loro destino. La conta dei suicidi da inizio anno si fa ogni giorno più pesante e quando tocca anche al carcere della tua città questo ti scatena un sentimento di rabbia e di impotenza. La sensazione di non essere riusciti a fare abbastanza, nonostante l’impegno di chi ci lavora, che a volte decide a sua volta di togliersi la vita, nonostante le tante associazioni di volontariato. Eppure sarebbe veramente possibile gestire tutto questo sistema diversamente. Dare lavoro alla maggior parte di queste persone, che sarebbero nella condizione di farlo secondo la normativa vigente, eppure solo 221 detenuti su 700 a Monza lavora, e solo per pochissime ore l’anno. Non portare in carcere chi, secondo la legge, non ci dovrebbe stare. Facendo uscire anticipatamente chi ancora, secondo la legge, sarebbe nelle condizioni di farlo e applicare alla maggior parte di queste persone le pene alternative che sono previste. Così da non avere 700 persone in uno spazio fatiscente progettato per 400. Perché, innanzitutto, se lo si conosce, il carcere è un luogo di illegalità, non solo di chi viene detenuto ma innanzitutto dello Stato che non riesce o non vuole applicare le regole che si è dato. Del progetto di reinserimento sociale di cui parla la nostra Costituzione si vedono forse pochissime tracce, il resto è attesa. Un luogo dal tempo immobile. Dove la solitudine e la sensazione di disperazione prendono il sopravvento e questo spiega il perché di certe scelte tragiche, perché in troppi hanno ritenuto che quello fosse l’unico modo di uscirne. Morte per pena e pena fino alla morte, nel Paese che tra i primi ha abolito la pena di morte e ne ha promosso l’abolizione nel Mondo. In questa lunga notte del diritto e della ragione noi dobbiamo accendere una luce e lavorare per qualcosa di meglio dell’attuale sistema carcerario. In questi anni abbiamo provato a discutere di carcere nel territorio, a coinvolgere Sindaci e amministrazioni a che di parti politiche diverse, abbiamo raccolto disponibilità e attenzione anche dal mondo delle imprese. Stiamo lavorando perché si attivi il Garante dei detenuti a livello comunale e provinciale. Perché siamo convinti che molto si possa fare per la riduzione del danno. Per trasformare tutto il carcere nell’esempio dato dall’ex reparto femminile ad esempio, dove gli spazi per persona sono rispettati, dagli orti e dai laboratori che non riescono però a coinvolgere abbastanza persone per la carenza di personale e il sovraffollamento, dalla palestra o dal teatro che però non sono più utilizzabili. Soprattutto abbiamo cercato di raccontare le storie di chi si conosce nel carcere. Perché sono storie che aprono gli occhi e fanno cambiare idea, distruggono i pregiudizi di chi è disposto a mettersi in discussione. Questo sistema non è necessario, non è sostenibile, non è inevitabile e si può e si deve cambiare. E quando l’intero Consiglio Comunale si è alzato in piedi, in silenzio, per quella persona che si è tolta la vita a pochi minuti da dove noi ci riuniamo ho sentito la forza di una speranza, la possibilità di essere speranza. Possiamo davvero realizzare insieme un cambiamento. E per farlo dobbiamo essere uniti e coinvolgere molte più persone nella comprensione di quel che davvero accade dietro quelle mura. A Opera ogni mese con alcuni di loro c’è la possibilità di percorrere un pezzo di cammino insieme verso la consapevolezza. A Monza, adesso, c’è la possibilità di fare passi avanti nella direzione della Giustizia. *Consigliera comunale a Monza Cremona. “Tazzine & Libri”, il progetto sperimentale a favore dei detenuti di Francesca Morandi La Provincia di Cremona, 27 luglio 2024 L’iniziativa sarà illustrata lunedì prossimo a Ca’ del Ferro. Saranno presenti il garante Ornella Bellezza, la direttrice Rossella Padula e chi ha collaborato gratuitamente al progetto. L’idea l’ha avuta un anno fa: un caffè letterario all’interno del carcere di Ca’ del Ferro. Una sfida, certo. È nato così ‘Tazzine & Libri’, il progetto sperimentale realizzato a favore dei detenuti, copyright Ornella Bellezza, Garante provinciale dei diritti delle persone private della libertà personale. La sua proposta è stata subito raccolta dalla direttrice del carcere, Rossella Padula, e dal presidente della Provincia Mirko Signoroni. “Ne abbiamo parlato ampiamente - spiega il Garante Bellezza. Sicuramente, il merito va a chi ha colto l’idea e a tutti coloro che l’hanno sostenuta, alle persone che ci hanno messo non solo il cuore, ma anche il tempo e i materiali”. L’iniziativa sarà illustrata lunedì prossimo a Ca’ del Ferro. Saranno presenti Bellezza, la direttrice Padula e chi ha collaborato gratuitamente al progetto. Dallo street artist Marco Cerioli, che ha curato l’allestimento degli ambienti grazie alla realizzazione da parte dei detenuti di un murales, a Giuseppe Maria Scolari, che ha tenuto il corso di caffetteria. L’idea, il Garante Bellezza l’aveva spiegata così, a settembre scorso. “L’esperienza dei caffè letterari nasce in tempi passati, tra il Seicento e il Settecento, in Francia. Sono luoghi particolarmente frequentati ed apprezzati dagli intellettuali del tempo ove si intrecciavano i temi più attuali, quali, ad esempio, l’economia, la politica, la società insieme a temi di grande spessore culturale come la letteratura, il teatro, l’arte nelle sue varie forme di espressione. Gradualmente, con il trascorrere del tempo, questi spazi sono divenuti luoghi di incontro e di dialogo tra diverse culture dove l’arte nelle sue molteplici espressioni è l’occasione per disquisire sull’attuale realtà”. E allora, “l’idea che un caffè letterario possa trovare sede all’interno di un istituto penitenziario è stimolante ed ambiziosa se calata in un contesto così complesso dove le vite di tante persone sono già intrise di peculiarità originate dai luoghi di origine, da culture ed abitudini determinate, da predisposizioni culturali esistenti. La prospettiva di un ‘ambiente’ così variegato può essere proprio il terreno fertile per incentivare il dialogo attraverso la cultura”. Un ‘vero caffè letterario’ “può contribuire alla crescita della cultura della persona come formazione di un soggetto sia intellettualmente che moralmente, individuando la piena e rinnovata consapevolezza del ruolo che gli compete nella società”. Dall’idea, ai fatti. Primo passo: l’allestimento degli ambienti, quindi il corso di caffetteria. Le lezioni di teoria - quelle sulla storia del caffè, le sue leggende, i tipi di caffè, il processo di tostatura e lavorazione, e quelle sulla macchina del caffè espresso - e le lezioni di pratica. L’intero progetto è stato realizzato senza alcun onere grazie al lavoro di coordinamento del Garante Bellezza, e alla fattiva collaborazione tra la Provincia di Cremona e la casa circondariale con la direttrice Padula. Fondamentale per la buona riuscita dell’iniziativa, anche la disponibilità e generosità di Confesercenti Cremona e Cooperativa Rising, che hanno fornito le attrezzature e gli arredamenti. Lunedì saranno consegnati ai partecipanti gli attestati di partecipazione al corso base di caffetteria E se Tortora fosse innocente? di Enzo Biagi La Repubblica, 2 agosto 1983 Nel pieno della gogna mediatica che seguì l’arresto-show nel giugno 1983, Enzi Biagi “osò” mettere in dubbio le accuse contro Enzo Tortora, il conduttore di Portobello in carcere già da un mese e mezzo. Enzo Tortora è in carcere da quasi un mese e mezzo. Un lungo periodo di detenzione è ormai prevedibile, a causa della complessa istruzione di un processo che coinvolge ben 800 imputati. Da più parti, in queste ultime settimane, è sorta una domanda semplice ma terribile: e se Tortora fosse totalmente innocente, vittima di un’oscura vendetta nata all’interno del mondo della criminalità organizzata? Personaggi pubblici hanno testimoniato dell’impegno dimostrato da Tortora in più occasioni contro la camorra, e della veemenza con cui ha denunciato i suoi capi, in particolare in una manifestazione avvenuta in uno dei loro feudi. Potrebbe essere questo lo “sgarro” che sta ora pagando? Sarebbe un ben triste e beffardo rovesciamento delle parti. Alcuni firmatari di questa lettera conoscono personalmente da molti anni Enzo Tortora e non hanno alcun dubbio sulla sua totale innocenza, proprio per la correttezza e limpidezza dei suoi comportamenti professionali e umani che hanno accompagnato tutta la sua vita. Altri firmatari, pur non conoscendo così bene Tortora, di fronte a questo caso rimangono anch’essi sconcertati e si pongono alcune domande: tutto questo potrebbe accadere a ognuno di noi? È giusto che un cittadino possa essere incarcerato senza immediatamente avere la possibilità di difendersi? Il segreto che per legge circonda l’indagine della magistratura in questa fase non consente alla difesa di intervenire efficacemente a favore dell’accusato: e ciò le impedisce, tra l’altro, di operare anche a tutela della sua onorabilità. Per un personaggio pubblico, come è Enzo Tortora, questo rappresenta un aspetto particolarmente grave, dato il grande spazio che la stampa e la Tv hanno dedicato e dedicano alla sua vicenda. Ma è un problema che, naturalmente, riguarda ogni altro accusato. Il caso Tortora, al di là della vicenda personale, sembra porre dunque un problema più generale, che riguarda l’attuale “procedura del silenzio” (e delle illazioni), che molti giuristi hanno già considerato lesiva di certi diritti essenziali del cittadino. Questa dichiarazione vuole sottolineare la necessità che al diritto processuale italiano vengano apportate urgenti riforme a totale garanzia della dignità e libertà individuale. Invitiamo coloro che la pensano come noi a manifestare il loro pensiero e la loro adesione. Piero Angela, Giacomo Ascheri, Domenico Bartoli, Silvio Bertoldi, Dino Biondi, Giorgio Bocca, Luigi Compagna, Pio De Berti Gambini, Eduardo De Filippo, Roberto Ducci, Claudio G. Fava, Mario Formenton, Loris Fortuna, Aldo Garosci, Gigi Marsico, Enrico Mattei, Piero Ottone, Massimo Pini, Mario Pogliotti, Mario Raimondo, Michele Tito, Salvatore Valitutti, Umberto Veronesi. Tra i numerosi sottoscrittori dell’appello che si aggiunsero su la Repubblica nei giorni seguenti (dal 4 al 18 agosto 1983): Renzo Arbore, Paolo Battistuzzi, Pippo Baudo, Lello Bersani, Enzo Bettiza, Osvaldo Bevilacqua, Italo Calvino, Vladimiro Caminiti, Pino Caruso, Giuseppe Catalano, Sergio e Nori Corbucci, Maurizio Costanzo, Luciano De Crescenzo, Maria Giovanna Elmi, Massimo Fichera, Giorgio Forattini, Luciano Garibaldi, Pietro Garinei, Antonio Ghirelli, Vittorio Giovanelli, Luca Goldoni, Gianni Granzotto, Carlo Gregoretti, Paolo Martini, Renzo Montagnani, Ennio Morricone, Gino Nebbiolo, Gino Palumbo, Mario Pastore, Miriam Petacci, Gianfranco Piazzesi, Paolo Pillitteri, Nino Pirito, Franco Piro, Guido Quaranta, Samaritana Rattazzi, Carlo Ripa di Meana, Nantas Salvalaggio, Gustavo Selva, Umberto Simonetta, Luigi Veronelli, Bruno Voglino e Ugo Zatterin. E io difendo Tortora (Enzo Biagi, La Repubblica, 4 agosto 1983) Signor Presidente della Repubblica, non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura. Lei è il massimo esponente dell’organo supremo dei Magistrati: e deve sapere. Ho un sincero e profondo rispetto per i giudici che, come i giornalisti, hanno pagato, e pagano, un duro conto con il crimine. Conoscevo Alessandrini, e voglio bene ai figli del dott. Galli. Credo nell’onestà e nel sacrificio di quelli che lottano, a Napoli e ovunque, contro la camorra e la mafia. Ma ci sono aspetti del “blitz” contro i cutoliani che lasciano perplessi: dalla data, una settimana o poco prima delle elezioni, agli sviluppi. Dalle conferenze- stampa trionfalistiche, alla caccia all’uomo con cineprese al seguito, dal segreto istruttorio largamente violato, al numero degli arrestati e dei dimessi. Su 350, se le cronache sono esatte, 200 sono tornati fuori: ma, hanno detto gli inquirenti, e mi scuso per l’odioso e usatissimo termine che suscita il ricordo di antiche procedure, molti rientreranno in cella. Come dire, che si può sbagliare fino a tre volte: arresto, scarcerazione, altra cattura. Ma qual è la buona? Tortora è denunciato da un tale Pandico, che fa il suo nome dopo tre interrogatori: guarda caso, un personaggio così popolare non gli viene in mente subito. Le conferme vengono da un certo Barra, conosciuto nell’ambiente come “‘ O animale”: è lui che parla dello “sgarro”, e che fa andar dentro il sindaco D’Antuono, rilasciato poi al trentanovesimo giorno di detenzione per mancanza di indizi. È sempre lui che riferisce della visita a Cutolo dei Gava e dei servizi segreti, per tirare fuori dagli impicci l’amico Cirillo, ma di questa impresa non si discute. Gli avvocati che difendono il presentatore non hanno potuto leggere neppure i verbali degli interrogatori del loro assistito; ci sono periodici che hanno pubblicato i testi delle deposizioni dei due camorristi accusati. Chi glieli ha dati? Ogni mattina, la stampa ha ricevuto la sua dose di indiscrezioni: Tortora fu iniziato col taglio di una vena, Tortora ha spacciato droga per 80 milioni e non ha consegnato l’incasso, Tortora ha riciclato denaro sporco, Tortora era amico di Turatello: smentisce la madre del bandito, smentisce ed è a disposizione, il suo braccio destro. Nessun segno sui polsi. Ma ci sarebbe la conferma di una “contessa”, che non può testimoniare perché, guarda caso, è morta. C’è la prova che dovrebbe mettere in difficoltà? Tortora: una lettera di Barbaro Domenico per dei centrini andati perduti alla Rai. Esiste un carteggio tenuto dall’ufficio legale della Tv di Stato, ma non significa nulla. Conta, invece, la parola di due assassini. Poi ci sarebbe l’altro seguace di Cutolo, che messo in libertà avrebbe dovuto far fuori il compare Tortora che ha tradito, tanto è vero che ha scritto il nome dell’autore di “Portobello” nella sua agenda che è come se Oswald avesse segnato sul calendario: “Mercoledì sparare a Kennedy”. È pensabile che i misteriosi tipi che stanno sconvolgendo la nostra vita, per far fuori uno, o per far saltare un’automobile, abbiano bisogno di aspettare che un detenuto torni in circolazione? Si ha l’impressione che, dopo aver messo le manette a Tortora, stiano cercando le ragioni del provvedimento. Ma ecco che arriva il colpo sensazionale: col caldo che imperversa, il dottor Di Persia corre a Milano, perché ha trovato finalmente chi può schiacciare quel finto galantuomo di Tortora. C’è uno che lo ha visto, nientemeno, consegnare della polvere bianca in cambio di una mazzetta di banconote, a un terzetto di farabutti, ed ha assistito alla scena in compagnia della sua gentile signora. Il dottor Di Persia non si informa sui precedenti del “noto pittore”, che si chiama Giuseppe Margutti, ed è tanto riservato, odia tanto la pubblicità, e dà dello stesso fatto versioni differenti: una ad un redattore di Stop, l’altra al Sostituto Procuratore. Bene, l’artista, che si è fatto denunciare dal Louvre per una mostra delle sue opere non richiesta, che inventa, per andare con una donna, un rapimento, che mette in circolazione francobolli con la sua faccia, che dichiara guerra agli Usa che lo hanno buttato fuori, che immagina un sequestro che non c’è mai stato, che denuncia i critici che non lo capiscono, che si fa incatenare nella Galleria di Milano, che chiama i fotografi per far- si ammirare mentre imbianca i muri sudici dell’asilo di sua figlia è il teste chiave. I giudici di Napoli spiegano poi agli avvocati Dall’Ora, Della Valle e Coppola, tutori di Tortora, che le chiacchiere di Margutti costituiscono “un importante risultato sul piano probatorio”. Signor Presidente, chi risarcirà Tortora di queste calunnie? Col pappagallo, dovrà forse andare a distribuire i pianeti della fortuna? Del resto, visto come va la giustizia, a chi si dovrebbe affidare? L’appello di Biagi fu un “miracolo”. Che durò poco di Raffaele Della Valle e Francesca Scopelliti Il Dubbio, 27 luglio 2024 Era un pomeriggio di una torrida giornata di agosto. Il mio morale e quello del collega Coppola di Napoli - Dall’Ora non era ancora intervenuto - era davvero a terra. Da Napoli filtravano notizie. Tutte artatamente negative. I media, quasi tutti, erano allineati su posizioni accusatorie. Al di là dei fedeli amici di Enzo, in primis Piero Angela, Giacomo Ascheri, Biondi e qualcun altro, nessuno spezzava una lancia a nostro favore. Quel pomeriggio verso le ore 14, improvvisa, come Minerva dalla testa di Giove, mi balenò una pazza, pazza idea - il titolo della canzone di Patti Bravo - che mi diceva, quel pomeriggio, in una città vuota, per dirla - con un riferimento ancora canoro - con Mina: vai da Enzo Biagi e parlagli col cuore aperto e riferisci il tuo pensiero sulla sconcertante e surreale vicenda. Vai da Enzo Biagi. Ma: obiezione interiore. Ma come vai da Biagi? Mi diceva il buonsenso. Ma ti sei impazzito? Manco lo conosci Biagi. Ma poi figurati se c’è, Biagi, nel suo studio, in quel torrido giorno di agosto. E poi senza uno straccio di appuntamento! Ma io ero ormai risoluto, e non volevo sentire ragioni. Fu in questo contesto che si realizzò l’incontro inaspettato che è stato per me una delle pagine più toccanti della mia vita professionale e che mi diede la forte scossa di cui in quel momento avevo bisogno per continuare la battaglia per la libertà di Enzo e per una giustizia giusta. Ero sospinto dalla fiducia di godere della protezione di qualcosa di divino e fu questo che mi mise le ali ai piedi. In un battibaleno, dal tribunale di Milano mi trovai al cospetto di Enzo Biagi nel suo ufficio in via Vittorio Emanuele a Milano. Scendendo le scale a chiocciola, per entrare nel suo studio, il mio cuore batteva fortemente. Ero emozionato, ero accaldato, non sapevo neanch’io cosa fare. C’era un campanello. Lo rivedo ancora. Schiaccio il bottone e, miracolo!, al di là della porta c’è Enzo Biagi. Con la sua pettinatura, con la sua forma elegante, che al tempo stesso incuteva timore e autorevolezza. Facciamo le presentazioni, lui mi riceve con cordialità. Gli vuoto, tutto quello che avevo in corpo, tutto quello che sentivo, tutte le umiliazioni che avevamo provato Coppola ed io, in quei lunghi 40 giorni di detenzione di Enzo, gli rappresentavo altresì tutta la dignità dell’uomo Tortora, che pur nel dolore non si piegava e manteneva intatta la fiducia nella giustizia. Gli raccontai filo per segno quello che sapevo. Lui mi ascoltava, silenzioso, molto presente e pensieroso. Non mi fece alcuna promessa. Mi disse: “Avvocato, ci sentiamo, ho capito la vicenda”. Tre giorni dopo, Biagi si chiedeva dalle pagine di Repubblica, con un articolo memorabile: “E se Tortora fosse innocente?”. Quell’articolo, quell’incontro, sortì un miracolo. Le gomme della mia macchina psicologica, erano sgonfie, il mio serbatoio di benzina, era vuoto. In quel momento, però, tutto si trasformò: le gomme divennero gomme da fuoristrada, invincibili; il serbatoio di benzina si riempì di propellente. E da quel momento in poi io e Coppola, e successivamente Dall’Ora, tutti insieme cominciammo una battaglia dura e faticosa che alla fine riuscimmo a vincere. Raffaele Della Valle --------------- Nella lettera del 6 luglio, Enzo mi scrive: “O la difesa scatena un pandemonio, o ci ingoiano come le sabbie mobili” e ho imparato che per un indagato in carcere, ancor più se innocente, l’operato degli avvocati non è mai sufficiente. Si chiede sempre di più: come Massimo Decimo Meridio che, esasperato dal desiderio di vendicare la morte del suo imperatore Marco Aurelio, incita i suoi soldati “al mio segnale scatenate l’inferno”. E visto che la vicenda napoletana si sviluppava sui media, era importante rispondere sui media, ancor più quando giornali e tv erano tutti schiacciati sulle posizioni della procura napoletana tanto da riproporre con titoli ad effetto quelle “veline” accuratamente fornite dagli uffici dei procuratori Di Persia e Di Pietro. E Raffaele della Valle che, anche per amicizia, sentiva molto il peso di questa drammatica situazione, avvertiva quasi l’obbligo, il desiderio di esaudire le richieste di Enzo. In questo contesto giudiziario, psicologico e “meteorologico” nasce l’idea, “pazza” come dice lui stesso, di andare a parlare con il giornalista Rai più autorevole del momento, Enzo Biagi, pur non conoscendolo, pur non avendo preso un appuntamento. (Da leggere l’emozionante racconto che l’avvocato fa in questa pagina). L’appello di Enzo Biagi “E se fosse innocente?” e la sua lettera aperta al Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, furono per Tortora una boccata di aria buona, in un momento in cui, da quel maledetto 17 giugno 1983, tutto gli era contro. Tutti lo vedevano come Mister Hyde, quando invece era un rispettabile dottor Jekyll. Dopo aver vissuto il Covid, quella “difesa” mediatica - credo - sia stata per lui come la mascherina dell’ossigeno per un malato grave. Erano la speranza, la fiducia, una piccola ma importante nota di ottimismo in un momento in cui sembrava non esserci via d’uscita. E invece proprio su Repubblica, il quotidiano di Eugenio Scalfari, - per la prima volta - si parlava bene di Enzo Tortora. “Mi si aprì il cuore”, ebbe a dire. “Dopo aver ingoiato tanto fango, c’era dunque qualcuno che mi dava una speranza. Mi appesi a quelle righe come il malato ad una medicina inattesa”. L’appello sulla innocenza di Enzo fu riproposto e rinforzato da Leonardo Sciascia, Piero Angela, Eduardo de Filippo, Giorgio Bocca, Giacomo Ascheri, Mario Formenton, Piero Ottone, Aldo Garosci, Salvatore Valitutti e continuò a raccogliere tantissime adesione, personaggi del giornalismo, dell’editoria, della cultura, della politica, dello spettacolo. Persone che avevano conosciuto e visto Tortora vivere nella sua quotidianità. Ma il conforto, il sollievo di quei giorni non durò a lungo. Dopo poco, veniva diffusa - sui media, naturalmente - la notizia che sull’agendina del camorrista Puca erano stati rinvenuti i numeri telefonici di Enzo, prova irrefutabile del suo collegamento con la NCO. Era finita “l’ora d’aria” e si ritornava nella cella del cannibalismo giornalistico. Unica irrinunciabile arma della procura napoletana per sostenere l’accusa. Francesca Scopelliti Detenute a scuola di scrittura di Goffredo Fofi Il Manifesto, 27 luglio 2024 Monica Sarsini, fiorentina, si è inventata da molti anni una scuola di scrittura che non ha molto a che fare con quelle ideate dall’ottimo Baricco, anche se ha ugualmente prodotto diversi testi interessanti per ragioni che non sono però esclusivamente letterarie. Artista visiva, spericolata e ambiziosa anche sul piano letterario, in “La Portavoce. Racconti delle detenute di Sollicciano” (pp. 152, euro 14), sistema e ricompone i testi di più donne in uno e unico, interrotto dalle ampie citazioni da altri. Sembra una sorta di coro volta a volta rotto da degli a-solo, come in qualche antica partitura. Lo pubblica, con il sostegno della Chiesa Valdese, una piccola casa editrice fiorentina, Contrabbandiera, che vorremmo alla prova con altri testi ugualmente insoliti e ambiziosi. E in qualche modo non segnati dal narcisismo di chi mira a vincere lo Strega. Se ne parliamo non è solo per polemica con i prodotti di scuole di scrittura ormai tradizionali e imperanti, che hanno prodotto tanti scrittori e soprattutto scrittrici mediane e mediani ma ben pochi outsider, mai degli apripista, dei radicali - almeno tra quelli più affermati, che mi pare si muovano tutti o quasi dentro una medietà della lingua e del progetto infine conformista. Ne parliamo perché la scrittura - una scuola di scrittura - se ben impostata e gestita, può certamente diventare scuola di tante cose, di conoscenza di sé da parte degli allievi o in questo caso allieve, e di espressione del sé, di dialogo col passato e col presente, il “personale” e il “pubblico” uniti e divisi, e insomma con tutto quello che di più importante si ha tutti il bisogno di capire, con cui si ha il dovere di confrontarsi. Le carcerate di Sollicciano sanno questo istintivamente, perché sono estranee all’idea del successo letterario, così come vi è estranea la loro maestra, o meglio stimolatrice. Ma insomma, se anche i maestri e gli allievi delle scuole di scrittura “in libertà” capissero che sono anche loro, che siamo noi tutti chiusi in carceri che spesso ci siamo costruiti da soli, e cercassero/cercassimo nella scrittura ma anche in tante altre cose qualche forma di libertà, fuggendo dalla prigione in cui ci siamo fatti rinchiudere, non ostinandoci a elevare, aiutando i nostri carcerieri, altre costrizioni, altre strade obbligate, altre illusioni di breve fiato, altre consolazioni risibili ed effimere? Altre verità, altra “comunicazione”. Francia. Il ritorno alla normalità dei giovani ex detenuti è un problema sociale irrisolto di Ilaria Federico linkiesta.it, 27 luglio 2024 Tra dichiarazioni politiche incendiarie, precarietà sociale e fallimenti educativi, la reintegrazione dei giovani criminali in Francia risulta spesso fallimentare. Dietro le narrazioni allarmanti sulla violenza giovanile, si cela una realtà intricata che mette in luce le difficoltà di riscatto Xavier Dormont, coordinatore dell’associazione Man, prende il tè e i tavoli dal suo camion per prepararsi all’incontro con i giovani del quartiere Barges Cachin di Vaulx-en-Velin, nella periferia di Lione, in Francia, il 18 giugno 2024. È un pomeriggio afoso di fine giugno a Meyzieu. L’aria è statica, sotto un sole cocente. È in questa banlieue dell’est di Lione, in Francia, che il 19 giugno due minorenni di tredici anni si sono filmati mentre davano fuoco alla scuola elementare Marcel Pagnol. Questo evento non tarderà a infiammare il dibattito politico sulla criminalità minorile, già molto presente in Francia negli ultimi mesi. Dibattito iniziato dopo le rivolte dei giovani delle banlieue l’anno scorso, - che manifestavano per la morte di Nahel, il ragazzo di origini algerine ucciso da un poliziotto -, e alimentato da fatti più recenti come lo stupro di una dodicenne ebrea nella regione di Parigi qualche settimana fa. Da parte dell’ex premier Gabriel Attal sono arrivate affermazioni quali: “È necessaria una scossa di autorità. Siamo pronti a darla”. A rincarare la dose, Jordan Bardella, presidente del partito Rassemblement National, che ha dichiarato: “Dobbiamo eliminare gli assegni familiari per i genitori dei minori recidivi”. Queste sono solo alcune delle recenti dichiarazioni politiche su questo tema, a volte seguite da azioni concrete come l’apertura di nuovi collegi per i delinquenti alle prime armi avviata da Attal. Da aprile, alcune città francesi hanno inoltre imposto un coprifuoco per i minori di tredici anni. Altre misure sono state proposte per combattere quella che sembra essere una nuova piaga sociale in Francia: l’aumento della criminalità minorile. Eppure, secondo Christian Mouhanna, sociologo al Cesdip, questi discorsi sulla delinquenza giovanile sono falsi. “Non so a cosa faccia riferimento il governo per dire che sta aumentando”. Da dieci anni il numero dei detenuti minorenni è rimasto relativamente stabile oltralpe: i dati dell’Oip ne indicano circa tremila all’anno. Secondo Mouhanna, questo accanimento da parte di personalità pubbliche serve dei fini politici. “Quando Emmanuel Macron è stato eletto, ha insistito sulla lotta alla disoccupazione e sul rilancio dell’economia. Dato il fallimento su questo piano, inizia a tirare fuori questo discorso sull’insicurezza”. Stessa osservazione per Jean-Jacques Yvorel, ricercatore in storia ed ex insegnante dell’Enpjj: “Ad ogni nuovo fatto di cronaca che coinvolge un minore, generalizziamo dicendo che i giovani sono sempre più violenti e sempre più giovani. Questo è un discorso che esiste fin dalla Monarchia di Luglio, cioè dagli anni Trenta dell’Ottocento. Ma non è vero”. Dopo la pena, tanti sogni ma pochi aiuti - Secondo i dati del ministero francese della Giustizia, al 1° maggio il numero dei minorenni detenuti era pari a ottocentodiciannove, rispetto ai seicentoquarantatre dell’anno precedente. “Oggi ci sono più pene detentive, ma per periodi più brevi. I giudici pensano che anche un breve periodo di carcere sia un buon modo per scioccare i giovani affinché smettano di violare i loro obblighi”, commenta Nadia Beddiar, ricercatrice di diritto penitenziario e specialista di diritti dei minori presso l’Istituto cattolico di Lille. “Ma il carcere diventa una scuola del crimine”, aggiunge Jean-Jacques Yvorel, ex insegnante dell’Enpjj ed ex educatore della Pjj. Secondo l’Insee, in Francia, quasi la metà di coloro che escono dal carcere recidivano entro due anni, con un tasso elevato tra i giovani. È successo anche a Corentin Blanchard, Farès e J.N. Corentin Blanchard, ventisei anni, è passato dal carcere minorile di Orvault, nell’ovest della Francia, all’età di quattordici anni per un tentato omicidio di un poliziotto. Per anni ha conosciuto le detenzioni anche nei centres éducatifs fermés (Cef). “Imparavamo l’uno dall’altro. Ci siamo introdotti a vicenda al crimine e condividevamo idee di delitti. A volte assumevo il ruolo d’insegnante, altre volte di studente”, spiega il giovane. Farès, che oggi ha ventitré anni, ha iniziato a delinquere all’età di quattordici: incendi di auto, furto con scasso in una panetteria e traffico di droga. Viene quindi collocato in un Cef. J.N., ventitré anni, quanto a lui, è stato posto sotto controllo giudiziario con obbligo di firma presso la Pjj dai sedici ai diciotto anni per traffico di droga. Oggi Farès sogna di creare un’azienda di traslochi. J.N. sta cercando una formazione informatica per diventare sviluppatore web. Ma con un braccialetto elettronico e precedenti penali è complicato. L’organizzazione Jedai del gruppo La Varappe aiuta i due giovani a costruire e realizzare i loro progetti. Corentin Blanchard si dedica a intervenire nei centres éducatifs fermés per ispirare i giovani detenuti raccontando la sua storia. Ha anche creato una società per il reinserimento dopo il carcere e fondato un’associazione. L’iter giudiziario dei minori francesi - Nadia Beddiar, ricercatrice in diritto penitenziario e specialista di diritti dei minori presso l’Istituto Cattolico di Lille, ci ha spiegato l’iter legale di un minore in Francia: custodia cautelare, intervento del pubblico ministero e decisioni del giudice minorile. Se i fatti sono lievi, sono possibili delle alternative alla pena giudiziaria (tirocini, consulenze, rientro a scuola). Per i casi gravi, il giudice può scegliere tra quattro tipologie di misure educative provvisorie affidate alla Protezione giudiziaria della gioventù (Pjj), della durata di sei mesi prima della sanzione vera e propria. Il silenzio regna avvicinandosi al carcere minorile del Rhône, la regione di Lione. Secondo Prison Insider, questa struttura è spesso sovraffollata e viola frequentemente il principio di reclusione individuale previsto per i minori. È dalle porte di questo istituto penitenziario che sono passati molti giovani dei quartieri popolari di Lione, incontrati durante gli interventi del Man. L’associazione offre a questi ragazzi “l’opportunità di interagire con degli adulti all’ascolto e comprensivi, con l’obiettivo di accorciare le distanze tra loro e il resto della società”, spiega Xavier Dormont, coordinatore. Xavier tira fuori dal suo camion dei tavoli pieghevoli e vi posa sopra dei bicchieri. Nei cortili delle case popolari di Vaulx-en-Velin, all’est di Lione, e Saint-Fons, banlieue a sud della città, davanti a un tè marocchino che prepara lui stesso, parla amichevolmente con i giovani residenti. Alcuni di loro hanno vissuto la detenzione minorile, ma ne conservano un ricordo relativamente positivo. Ricordano soprattutto il sollievo di avere una cella individuale, di disporre segretamente di uno smartphone e di cannabis e di trovare volti familiari tra i detenuti. Per questi giovani il periodo della pena è vissuto come una bolla protettiva. È il “dopo” che fa paura. “Il nostro futuro è stato rimandato, ci vogliono anni per riprendere la nostra vita in mano, per chi ci riesce…”, spiega Corentin Blanchard, che è ricaduto nella criminalità dopo i diciotto anni. “Sono sotto controllo giudiziario, con obbligo di firma una volta al mese. Non mi è permesso lasciare Lione e alle 19 devo essere a casa”, spiega Karim, diciotto anni. Non è rimasto a lungo nel carcere minorile di Meyzieu, solo quattro giorni. Ma oggi la sua vita è complicata. “Nessuno mi dà un lavoro dato che ho precedenti penali… A parte controllare che restiamo nella legalità, la Pjj non ci guida né ci dà consigli su come ricominciare da capo”. Alla domanda sulle sue ambizioni e sui suoi sogni se non avesse la fedina sporca, Karim rimane pragmatico: “Vorrei diventare preparatore delle spedizioni Amazon, se la giudice è d’accordo”. “La Pjj segue i minori fino ai diciotto anni, a volte, ma raramente, fino ai ventuno, spiega Nadia Beddiar, ricercatrice in diritto penitenziario e minorile. “Possono provare a ricevere un contrat d’engagement jeunes, ma è difficile. Non possono ricevere la Rsa, riservata a chi ha più di venticinque anni. In Francia, i giovani tra i diciotto e i venticinque anni hanno uno statuto molto precario. Per evitare che ricadano in una delinquenza di sopravvivenza, si dovrebbe pensare a un aiuto statale a partire dai diciotto anni. Gli studenti possono ricevere le borse di studio, perché non garantire qualcosa del genere anche ai giovani che non vanno all’università?”. Il carcere minorile del Rhône, a Meyzieu, vicino Lione, in Francia. Angèle Guitton lavora con l’associazione Possible a Lione. Interviene in un’unité éducative d’hébergement collectif (Uehc), dove vengono collocati ragazzi dai quattordici ai diciassette anni prima o dopo la sanzione. “Facciamo corsi sulla cittadinanza. Li porto in tribunale, invito dei giudici ed ex detenuti. Parliamo di consenso… Questi ragazzi provano un forte sentimento d’ingiustizia, per questo proviamo a demistificare il funzionamento del sistema giudiziario”. Souareba, diciannove anni, è stata incarcerato a quindici anni, poi collocato in un Cef e a diciotto anni in un carcere per adulti. Oggi impara la tinteggiatura con l’associazione Appel d’Aire. “Vado avanti e faccio del mio meglio, anche se è difficile. Vorrei ottenere una qualifica”, spiega il ragazzo. Appel d’Aire è un’associazione convenzionata con la Pjj, ed è situata in un quartiere popolare del terzo arrondissement di Marsiglia. “Proviamo a costruire delle relazioni con dei giovani che hanno abbandonato la scuola o con ex detenuti che si trovano in una situazione antirelazionale a più livelli - con la famiglia, i coetanei, la scuola, le autorità, gli adulti…” descrive il direttore Julien Acquaviva. “I nostri laboratori di formazione ai lavori manuali con il legno e i metalli ci permettono di trasmettere loro i codici della convivenza sociale, come arrivare puntuali, giustificare le assenze, andare d’accordo con i colleghi, organizzare il proprio lavoro, prendere delle iniziative…”. I delinquenti minorenni solitamente terminano la loro pena con un livello di istruzione non superiore all’inizio della scuola media. Spesso i legami con le famiglie di origine si indeboliscono o addirittura si distruggono durante la pena, e l’accompagnamento della Pjj termina bruscamente all’età di diciotto anni. Sono quindi le associazioni e gli educatori che cercano di colmare il vuoto. Le proposte di riforme penali ingannevoli - Un disegno di legge reso pubblico ad aprile prevede tre anni di carcere e quarantacinquemila euro di multa per i genitori dei minorenni recidivi. Éric Ciotti, presidente del partito di destra Les Républicains, ha invece proposto di eliminare l’attenuante della minore età. “Dal 2007 è possibile giudicare come adulto un minore di sedici anni, ma i giudici generalmente evitano di applicare questa misura, anche in casi talvolta estremi”, analizza Nadia Beddiar, giurista. “Ne parlano come se fosse qualcosa di nuovo, quando è un provvedimento vecchio”. Un altro progetto dell’esecutivo francese consiste nel reintrodurre la possibilità di essere processati in comparizione immediata a partire dai sedici anni, procedura che era stata abolita con la riforma della giustizia penale minorile del 2021. “Abbiamo già nel nostro corpus giuridico la possibilità di sanzionare i genitori inadempienti togliendo gli assegni familiari”, spiega Jean-Pierre Rosenczveig, magistrato onorario ed ex giudice minorile. “Quindi vediamo molto chiaramente che non è la legge che dev’essere cambiata, ma dev’essere attuata. E per questo abbiamo bisogno di assistenti sociali che sostengano i giudici minorili, poiché il giudice non può lavorare da solo”, continua Rosenczveig. “Si tratta spesso di famiglie in difficoltà economiche. È davvero utile, per lottare contro la delinquenza, renderle ancora più precarie?”, ribatte Nadia Beddiar. “La comparizione immediata degli adulti non può applicarsi ai minori. Ci troviamo di fronte a risposte presentate come un tentativo di rassicurare l’opinione pubblica, ma sappiamo che tecnicamente e politicamente non sono possibili”, conclude Jean-Pierre Rosenczveig. La detenzione, un’occasione mancata di ricostruzione - Sin dal momento della pena o della detenzione carceraria, ridare forma alla propria vita è un percorso ad ostacoli per questi giovani. Alcuni ex detenuti ed educatori denunciano l’onnipresente violenza verbale e fisica tra i giovani degli Epm e dei Cef, così come le intimidazioni talvolta esercitate da alcuni supervisori di questi centri. Inoltre, è difficile conoscere l’impatto di queste strutture sui ragazzi, dato che le valutazioni e le relazioni sul loro funzionamento interno e sulla loro efficacia sono pressoché inesistenti. “La Pjj monitora i nostri sforzi per rimanere nella legalità, ma non ci aiuta davvero. Non ci dicono “ecco come trovare una formazione” o “puoi trovare un lavoro in questo modo”. Siamo abbandonati a noi stessi”, spiega J.N., ventitré anni, posto sotto controllo giudiziario dai sedici ai diciotto anni per traffico di droga, recidivo e ora sotto braccialetto elettronico. “Trafficavo per guadagnare, ma nessuno ci spiega come ottenere soldi legalmente. Quando hai sedici anni, è complicato capire cosa fare se non hai niente da mangiare a casa”. Secondo un ex funzionario della Pjj che preferisce rimanere anonimo: “Gli educatori sono eccellenti e fanno del loro meglio, ma il funzionamento della Pjj è catastrofica. La sua gerarchia crea divisioni. La direzione maltratta e considera i propri dipendenti come sindacalisti pigri che non vogliono lavorare, quando in realtà è un lavoro molto duro”. “Spesso le misure educative non vengono attuate”, aggiunge Jean-Pierre Rosenczveig, ex giudice minorile. “Per mancanza di personale, di locali adeguati… Quando vogliamo allontanare un giovane dalla famiglia, ci viene detto che non c’è posto nei vari centri. È un problema di risorse umane e finanziarie. Poche persone vogliono lavorare in questo campo. E il risultato è questo leggero aumento del numero di minorenni incarcerati rispetto allo scorso anno: i giudici sono obbligati di optare per il carcere, perché mettere in atto gli altri provvedimenti è troppo complicato”. Il camion dell’associazione MAN, parcheggiato a Vaux en Velin, poco prima di un incontro con i giovani del quartiere Chenas-Genier, il 25 giugno 2024. Corentin Blanchard, ventisei anni, - che come ricordiamo ha vissuto in carcere e nei centri educativi chiusi (Cef) dai quattordici ai diciannove anni -, ricorda oggi la solitudine e l’angoscia di quel periodo. “La prima notte nel carcere minorile, il sorvegliante mi ha preso le impronte digitali e mi ha perquisito, nudo, in una stanza molto piccola. Eravamo soli e ho sentito che perdevo la mia dignità. Avevo molta paura di quello che avrebbe potuto farmi, che mi violentasse. Ero affamato, ma mi rifiutò un pasto caldo perché era ormai passata l’ora. A mezzanotte crollai in ginocchio piangendo”. I minorenni trascorrono fino a ventidue ore al giorno nella loro cella senza fare nulla, secondo Yvan Jobard, che ha insegnato e coordinato l’insegnamento presso il centro di detenzione di Pontet, nel sud della Francia, dal 2017 al 2019. Secondo un rapporto di Alice Simon, direttrice del centro di ricerca della Pjj, i detenuti minorenni spesso soffrono di privazioni. Il confinamento individuale porterebbe all’isolamento sociale e psicologico. Il tempo trascorso nelle celle varia, con alcuni minori che escono solo raramente per svolgere delle attività. Nel 2021, sono state inviate alla direzione della Pjj quattrocento cinquanta sei segnalazioni di incidenti, inclusi cento quarantasette tentativi di suicidio e quarantadue rischi di suicidio. I minorenni sono tenuti all’obbligo scolastico anche mentre scontano una pena. “Ma le strutture non sono adeguate. Potevamo utilizzare soltanto due sale con dei computer ma senza accesso a internet”, spiega Yvan Jobard. “Gli studenti erano divisi in tre gruppi in base alle affinità degli uni con gli altri, ma senza tenere conto del loro livello scolastico. I mezzi finanziari erano molto scarsi ed era complicato introdurre del materiale per fare lezione, toccava a noi portare tutto, ma anche un libro necessitava di autorizzazioni”, continua il docente. Le ore di insegnamento previste vengono raramente rispettate. Secondo Prison Insider, l’accordo tra il ministero della Giustizia e il ministero dell’Istruzione francese fissa degli obiettivi da raggiungere: dodici ore settimanali nei quartiers des mineurs (Qm) e venti ore nelle carceri per minori (Epm). Ma la media delle ore d’insegnamento effettuate realmente è di dieci ore settimanali. “Se ne facevamo cinque o sei, era già tanto”, conferma Yvan Jobard. Egitto. Battiamoci per il diritto alla memoria di Giuseppe Giulietti* Il Manifesto, 27 luglio 2024 Il palazzo delle torture, dei sequestri, degli assassinii diventerà un albergo di lusso. L’inchiesta de il manifesto rivela il cinismo delle autorità egiziane, ma anche l’indifferentismo etico degli inquirenti- Il palazzo delle torture, dei sequestri, degli assassinii diventerà un albergo di lusso? Il regime egiziano si prepara a cancellare il luogo dove centinaia di militanti, di oppositori sono stati rinchiusi, massacrati, uccisi? Il quotidiano il manifesto in un articolo firmato da Chiara Cruciati ha rivelato il piano, gestito direttamente dagli emissari di al-Sisi, vale a dire i medesimi che hanno progettato la cancellazione dei diritti politici, civili, sociali. La conferma arriva da Hossam el Hamalawy, militante comunista e giornalista, che ha ricordato come il luogo dove sorgerà un albergo della catena Mariott sia stato il centro delle attività di tortura e pestaggio di migliaia e migliaia di cittadine e cittadini, tra cui anche Giulio Regeni. Sarà il caso di ricordare che il regime continua a non collaborare nell’accertamento della verità, nonostante le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che aveva annunciato la piena collaborazione di al-Sisi e soci. Naturalmente, non è accaduto nulla. Questo sarebbe il paese amico? Il paese sicuro con il quale firmare le intese o dove trascorrere le vacanze? L’inchiesta de il manifesto rivela il cinismo delle autorità egiziane, ma anche l’indifferentismo etico degli inquirenti. Vogliono cancellare il ricordo e persino l’odore delle camere di tortura, che sono già state o saranno spostate altrove, lontano da orecchie e occhi indiscreti. Nel frattempo, è indispensabile sostenere chi continua a battersi per le “Giulio e i Giulio” di Egitto. Nella speranza che possa arrivare il giorno della liberazione e, abbattuto l’albergo, si possa realizzare un museo dedicato ai sequestrati, torturati e uccisi, con i loro nomi e le loro storie. *Coordinatore nazionale Articolo 21