Il modello sbagliato di Stefano Allievi Corriere del Veneto, 26 luglio 2024 Quando scoppiano le carceri, a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita dei detenuti, la risposta che viene data in automatico è la seguente: più carceri, più agenti. Ma se il problema fosse nel fatto che la risposta è sbagliata perché la domanda è mal posta? Anche perché non si tratta di un evento eccezionale, come viene raccontato: succede tutte le estati, occasionalmente anche in altri periodi dell’anno, mentre i suicidi e gli atti di autolesionismo sono una costante, sia tra i detenuti che tra le guardie (che hanno il più alto tasso di suicidi e di burnout tra tutte le forze di polizia). Il che dovrebbe farci riflettere sulla bontà del modello, che invece viene reiterato senza riflessione alcuna dalla politica: il rimedio a ogni problema sociale è sempre l’inasprimento delle pene e l’invenzione di nuovi reati, più galera (“buttando via la chiave”, come amano dire molti), più repressione. E se questo producesse il male anziché diminuirlo? O si limitasse a nasconderlo inutilmente sotto il tappeto? A cosa servono davvero le prigioni? In origine erano case di lavoro, di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso si chiamavano anche correzionali). In teoria dovrebbero essere dei luoghi dove riflettere sui propri errori: dove scontare una pena, cioè un dolore, ma anche avere occasione di fare penitenza (da cui penitenziario). E più recentemente si è posto l’accento, oltre che sulla sua funzione punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella rieducativa, riabilitativa (anzi, col passare degli anni, con pietosa menzogna sociale, l’accento è stato sempre più messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le prime). Ma in Italia continua a prevalere la funzione “immobilizzativa”, priva di qualsiasi utilità individuale e di risvolto sociale, un mero parcheggio umano. In queste condizioni, a che cosa serve? Parliamoci chiaro. Il tasso di recidiva, in Italia, è di oltre due terzi: 2,3 detenuti su 3 tornano a delinquere (mentre tra quelli che imparano un lavoro è molto più ridotto, ma sono pochi). Siamo a oltre il doppio della media europea. Il che significa che il sistema è fallimentare, e non risponde alla sua ragion d’essere: nasce per produrre sicurezza e crea le condizioni per il suo opposto: nuove minacce alla sicurezza sociale. Se una scuola avesse due terzi di bocciati, un ospedale la stessa percentuale di decessi, o un’azienda di prodotti difettati, diremmo che è un disastro, li smantelleremmo, ragioneremmo sugli obiettivi che vogliamo raggiungere, e ci inventeremmo qualcos’altro. Invece con il carcere si fa finta di niente, riproponendo sempre le stesse ricette che non funzionano. Aggiungiamoci gli altri problemi. In Italia quasi un terzo dei detenuti sta scontando una condanna non definitiva (in Europa è circa un quinto), la durata media della detenzione è quasi doppia della media europea, come doppia è la percentuale di persone condannate per reati legati agli stupefacenti, mentre la percentuale di persone in carcere per reati non gravi è tra le più alte d’Europa. Vuol dire che è il sistema che dovrebbe chiudere, buttando via la chiave. Aggiungiamoci il problema dei costi. Il carcere è costoso, le comunità (e altre pene alternative) costano meno e hanno tassi inferiori di recidiva. Eppure si vogliono costruire nuove carceri anziché nuove comunità, o comunque incentivare altre forme di pena alternativa. Ce n’è abbastanza per dire che il problema non è solo chi è dentro il carcere (che così come stanno le cose, resta un problema irrisolto), ma il carcere in sé, l’idea che lo sottende, che finisce per riprodurre il problema che sarebbe chiamato a risolvere. È su questo che dovremmo cominciare a ragionare non solo per umanità ma per convenienza. Il Governo è fuorilegge e lo sa. Noi non molliamo di un centimetro di Rita Bernardini* L’Unità, 26 luglio 2024 I detenuti vivono in condizioni sempre più disperate ma l’esecutivo, invece di lavorare a soluzioni, aumenta le pene e crea nuovi reati. Quanto è accaduto il 24 luglio alla Camera dei deputati sulla proposta Giachetti-Nessuno Tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale avrebbe dell’incredibile e del vergognoso se non ci avessero tartassati da tempo con comportamenti istituzionali tanto inconcludenti quanto ipocriti: la maggioranza non ha avuto il coraggio né di dire SÌ né di dire NO, ha rinviato. Ha rinviato con la motivazione che occorre attendere che giunga alla Camera (dal Senato) il ddl di conversione del decreto Nordio “Carcere sicuro” perché - dicono - il disegno di legge toccherebbe lo stesso argomento di cui si occupa la proposta Giachetti. Niente di più falso: il decreto Nordio nulla ha a che fare con l’emergenza sovraffollamento, basta leggere le premesse che argomentano le motivazioni di necessità e di urgenza che giustificano il dl. La parola sovraffollamento non figura proprio nel testo di tutto il decreto. Non bisogna mollare di un millimetro perché siamo dalla parte della ragione e del diritto. Lorsignori sanno - e lo sanno anche i magistrati che per pene brevi decidono il carcere anziché una misura alternativa o la custodia cautelare nei i confronti di presunti innocenti - che la pena che si sconta nei nostri istituti penitenziari è una pena illegale che contrasta con la nostra Costituzione e con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. Non si può comminare, sapendolo, una pena illegale. Ci impegneremo a farlo valere in ogni sede, anche giudiziaria. L’unione delle Camere plenarie ha assistito all’ennesimo rinvio per la proposta di liberazione anticipata speciale e a nessuna apertura su possibili misure contro il sovraffollamento. Anche l’ulteriore monito del presidente della Repubblica, formulato nel corso della cerimonia del ventaglio, affinché il carcere non sia “il luogo in cui si perde la speranza”, è caduto nel vuoto. Le risposte fornite dal sottosegretario alla Giustizia, mostrano una indifferenza sprezzante nei confronti delle condizioni nelle quali sono costretti a vivere i detenuti del nostro Paese. Anziché da interpreti del ruolo di uomini dello stato, obbligati in quanto tali ad assumersi la responsabilità di quanto oggettivamente accade, ci si è posti nelle vesti di uomini di parte e si sono indicate le omissioni e i ritardi colpevoli di altri governi, senza tuttavia nominare le nuove politiche carcerocentriche, che contribuiscono al disastro attuale. Uomini di governo consapevoli del proprio ruolo dovrebbero intervenire a tutela della dignità di tutti coloro che si trovano ad operare, secondo le loro responsabilità, con urgenza, per rimuovere le condizioni di illegalità e di contrarietà ai principi della Costituzione italiana, nelle quali i detenuti sono costretti a vivere. Non importa chi abbia determinato quelle condizioni, perché anche chi ha il dovere di rimuoverle è responsabile degli stessi inaccettabili ritardi e delle stesse gravissime omissioni. Il decreto del governo attualmente in sede di conversione in legge è al contrario privo di ogni risposta immediata e di ogni strumento che possa utilmente e con la necessaria urgenza ovviare al sovraffollamento ed al degrado nel quale vivono i detenuti in attesa di giudizio e condannati. Abbiamo denunciato le condizioni invivibili di troppe carceri e l’atroce ed inarrestabile conteggio dei suicidi, affermando che l’inerzia del governo offende l’impegno di chi opera in quelle realtà con competenza, dedizione e passione ed offende la civiltà della nazione intera che non merita ulteriori condanne degli organismi internazionali e dell’Europa. Continua ad ingannare i cittadini chi vuole fare credere loro che più carcere significa più sicurezza, mentre nessuna pena scontata in quelle condizioni inumane e degradanti rende gli uomini migliori e riduce la recidiva. Solo un carcere umano che rispetta la dignità del condannato lo restituisce ai valori della convivenza e della libertà. Ed è per questo motivo che torniamo ancora una volta a ribadire che i valori della dignità del singolo sono alla base degli stessi valori liberali di chi governa, ricordando che senza il rispetto e la tutela della dignità della persona diviene inutile ogni anelito ed ogni speranza di libertà e di fiducia nell’uomo. In Gran Bretagna (dove il sovraffollamento praticamente non c’è, visto che in 100 posti ci sono 98 detenuti) sono allarmati e si attivano per varare provvedimenti di liberazione anticipata. Ce lo ha raccontato sabato scorso Elisabetta Zamparutti nella pagina che Nessuno tocchi Caino cura ogni settimana su questo giornale. Questa attenzione al sovraffollamento tiene conto di una raccomandazione del Consiglio d’Europa secondo la quale se il tasso di occupazione carceraria supera il 90% della sua capacità, allora occorre subito correre ai ripari. E non si tratta solo del nuovo corso del governo laburista del primo ministro Starmer, l’attenzione al de-congestionamento delle celle c’è stata sempre, anche con i governi conservatori. In Gran Bretagna non vogliono correre il rischio del sovraffollamento, qui da noi in Italia invece continuiamo ad alimentarlo (tanto che siamo al 130% con punte del 230%) pur sapendo benissimo che comporta trattamenti disumani e degradanti della popolazione detenuta e di chi in carcere ci lavora. Ce lo ha detto e continua a dircelo la Corte EDU con condanne umilianti, ma l’Italia, imperterrita, se ne frega. *Presidente di Nessuno Tocchi Caino L’ira del Presidente della Repubblica per la condizione delle carceri di David Romoli L’Unità, 26 luglio 2024 Mattarella contro “le condizioni strazianti” delle nostre prigioni inzeppate di detenuti e richiama Meloni e soci: meno forche, più rieducazione. La lunga prolusione sulla libertà d’informazione pronunciata ieri da Mattarella sul tema dell’informazione era volutamente priva di accenti polemici. Come già fatto qualche settimana fa parlando di democrazia il capo dello Stato si è limitato a ricapitolare quel che dovrebbe essere ovvio per chiunque. A rendere quel discorso così affilato sono le parole in libertà che troppo spesso scappano ai rappresentanti della maggioranza e va da sé che di questo Mattarella fosse perfettamente cosciente, ma è questione che riguarda la maggioranza. In compenso il presidente voleva vibrare due colpi precisi diretti al governo e alla maggioranza nello specifico dell’attualità corrente: sulle carceri e sulla mancata nomina del quindicesimo giudice della Corte costituzionale. Sono due passaggi che il presidente ha voluto scrivere di suo pugno invece di limitarsi come al solito a dare indicazioni precise e ai quali teneva moltissimo. Peccato che, a differenza della difesa della libertà di stampa, moltissimi, e nella maggioranza proprio tutti, abbiamo fatto finta di non sentirlo. Eppure raramente il presidente è stato così diretto, esplicito e appassionato. Citando la lettera dei detenuti di Brescia ha parlato di “descrizione straziante”, di “condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza”. È andato anche oltre, non essendo certo ignaro dello scontro interno alla maggioranza, risolto di fatto con la vittoria del fronte securitario che è riuscito a svuotare gli emendamenti di Fi. L’inquilino del Quirinale prova a indicare con molta nettezza la direzione opposta: “Vi sono in atto alcune proficue e importanti attività di recupero attraverso il lavoro. Dimostrano che, in molti casi, è possibile un diverso modello carcerario. È un dovere perseguirlo. Subito, ovunque”. Sergio Mattarella non troverà ascolto. Questa maggioranza non ha e non avrà mai il coraggio di sfidare gli umori peggiori, più securitari e forcaioli, di una parte dell’opinione pubblica che ritiene, non a torto, coincida spesso con il proprio elettorato. La formula della destra, ripetuta ieri più volte e da più voci è opposta, è la costruzione di nuove carceri. Ma sarebbe già un passo avanti se l’opposizione, oltre a protestare quando è appunto opposizione, si ricordasse delle proprie posizioni anche quando è maggioranza e sinora non è mai successo. Non si può dimenticare che in un’occasione a modo suo storica come il discorso di Giovanni Paolo II alla Camera, evento mai verificatosi prima, tutti applaudirono l’invito del pontefice ad affrontare la tragedia delle carceri con un’amnistia ma tutte le forze politiche si trovarono concordi al 100% sull’ignorare completamente le parole del Papa. Anche il secondo colpo diretto vibrato dal presidente rischia di non avere esiti concreti. Mattarella è letteralmente fuori di sé per la mancata elezione del quindicesimo giudice della Corte costituzionale. Lo ha definito addirittura “un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento”. La maggioranza ritarda l’elezione perché vuole procedere con la logica del “pacchetto”, cioè della spartizione. Il capo dello Stato ha messo il dito nella ferita: “Ricordo che ogni nomina di giudice - anche quando se ne devono scegliere diversi contemporaneamente consiste in una scelta rigorosamente individuale, di una singola persona meritevole”. In traduzione, è come aver detto che la maggioranza sta dimostrando una clamorosa assenza del pur minimo senso delle istituzioni. Anche il lungo intervento sulla libertà d’informazione era molto critico ma in modo sensibilmente diverso. Mattarella ha ricordato punto per punto la funzione centrale che occupa nelle democrazie “la documentazione di quel che avviene, senza obbligo di sconti” e anche il carattere costituzionale che la Carta assegna alla funzione dei giornalisti in base all’art. 21. Ma parole che hanno letteralmente fatto trasecolare tutti al Quirinale, come quelle pronunciate il giorno prima dal secondo cittadino dello Stato Ignazio La Russa, presidente del Senato, hanno reso quella lezione in sé quasi ovvia affilata come una lama. E Mattarella non ha finto di non saperlo. Il passaggio più specifico del suo discorso non permette dubbi: “Ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica”. Quando Napolitano (11 anni fa) chiese al Parlamento “interventi urgenti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2024 Il Capo dello stato, dopo la sentenza Torreggiani della Cedu, contro il sovraffollamento sollecitava rimedi ordinari e straordinari, quali indulto e amnistia. Era l’8 ottobre del 2013 quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio alle Camere per sottoporre all’attenzione del Parlamento “una questione scottante”, ossia la “drammatica questione carceraria”, a partire dal “fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Infatti, pochi mesi prima del messaggio, la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 Cedu (Divieto della tortura) in relazione ai “trattamenti inumani o degradanti” subiti in carcere dai ricorrenti a causa della situazione di sovraffollamento carcerario (sentenza Torreggiani e altri c. Italia dell’8 gennaio 2013, divenuta definitiva il 28 maggio 2013). Nella motivazione la Corte europea precisava che “la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone”. Parole molto nette e dure, di fronte alle quali il Presidente Napolitano giustamente ha sottolineato “il dovere urgente di fare cessare il sovraffollamento carcerario rilevato dalla Corte di Strasburgo”, aggiungendo che “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale”. Il messaggio presidenziale dell’ottobre 2013 non si è limitato a denunciare l’insostenibile situazione di sovraffollamento carcerario registrata nel nostro Paese, accertata come illegittima dalla Corte di Strasburgo perché in palese violazione dell’art. 3 della Convenzione europea, ma contiene anche una precisa ed esauriente trattazione dei rimedi atti a scongiurare questa situazione inaccettabile, che ha come conseguenza quella di “frustrare” il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3 Cost.), come rilevato dalla Corte dei Conti e sottolineato dal Presidente Napolitano. Infatti, nel messaggio in esame sono indicati analiticamente i diversi “rimedi” “ volti a risolvere la questione del sovraffollamento, suddivisi in rimedi ordinari e rimedi straordinari: i primi a loro volta sono distinti in rimedi volti a ridurre il numero complessivo dei detenuti attraverso la previsione di pene limitative della libertà personale ma “non carcerarie”, riduzione dell’area applicativa della custodia cautelare in carcere, accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine, attenuazione degli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l’ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione, incisiva depenalizzazione dei reati. Ma il Presidente Giorgio Napolitano si è reso conto che gli interventi annoverati tra i rimedi ordinari, sebbene importanti e condivisibili, sono però parziali in quanto “inciderebbero verosimilmente pro futuro e non consentirebbero di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea”. Quindi, egli ha reputato necessario intervenire nell’immediato con il ricorso a “rimedi straordinari” quali l’indulto e l’amnistia, sui quali richiama l’attenzione del Parlamento. Quanto alla misura dell’indulto, il Presidente sottolinea che “può applicarsi ad un ambito esteso di fattispecie penali (fatta eccezione per alcuni reati particolarmente odiosi)” e ravvisa la necessità che “il provvedimento di clemenza sia accompagnato da idonee misure, soprattutto amministrative, finalizzate all’effettivo reinserimento delle persone scarcerate, che dovrebbero essere concretamente accompagnate nel percorso di risocializzazione”. Quanto poi all’amnistia e al suo ambito di applicazione, Napolitano conferma “la necessità di evitare che essa incida su reati di rilevante gravità e allarme sociale (basti pensare ai reati di violenza contro le donne)” e rileva molto opportunamente che la “perimetrazione” dell’eventuale legge di clemenza spetta esclusivamente al Parlamento, non potendo il Presidente della Repubblica ingerire nella indicazione dei limiti di pena massimi o delle singole fattispecie escluse. Malgrado questa manifestazione da parte del Presidente della Repubblica, nessun ricorso all’indulto né tanto meno all’amnistia per decongestionare la situazione degli istituti penitenziari; ma neppure i rimedi ordinari suggeriti per eliminare o almeno alleviare il sovraffollamento sono stati, a ben vedere, tenuti in grande considerazione dal Parlamento e dal governo. Eppure, la situazione carceraria dell’Italia era, nell’ottobre 2013, davvero critica e preoccupante, come evidenziato plasticamente dalla sentenza Torreggiani della Cedu del gennaio 2013, sentenza che ha costituito l’occasione e lo stimolo per il denso messaggio di Napolitano. Oggi, undici anni dopo, la questione carceraria sta raggiungendo numeri emergenziali come all’epoca. Per questo è intervenuto anche l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, denunciando la situazione delle carceri che è indecorosa per un Paese civile. Quattro mesi fa, sempre il presidente Mattarella, ha chiesto un intervento affinché si trovino soluzioni. Ma ancora una volta, il messaggio viene disatteso. Eppure i dati sono allarmanti. Come denunciato dall’associazione Antigone, nel suo recente dossier, le celle non assicurano in alcuni casi neanche i tre metri a persona e i tassi di sovraffollamento arrivano ormai al 130%, equivalente a 14mila persone in più rispetto ai posti regolamentari. In 56 istituti penitenziari si sfiora anche il 150%. A preoccupare è anche la situazione degli Ipm, cioè gli istituti penali per minorenni, che per la prima volta sono sovraffollati dopo anni. Nello specifico, sono stati 586 gli ingressi nei 17 Ipm nei primi mesi del 2024 (fino al 15 giugno). Nel corso del 2023 erano stati 1.142, il numero più alto degli ultimi anni. A metà giugno 2024 erano 555 i giovani ristretti (di cui 25 ragazze) rispetto ai 514 posti regolamentari. E le presenze sarebbero ancora maggiori se non fosse per la pratica, resa più facile dal Decreto Caivano, di trasferire nelle carceri per adulti chi ha compiuto la maggiore età pur avendo commesso il reato da minorenne, interrompendo così la relazione educativa. Cambiano i governi, ma nonostante gli accorati appelli di Napolitano prima e Mattarella poi, prevale l’ignavia e il mero calcolo elettorale. I penitenziari sono fuori controllo, tanto che persino i sindacati di polizia penitenziaria hanno lanciato l’allarme chiedendo un intervento urgente. Il decreto carcere licenziato dal governo è ritenuto inutile da tutti gli addetti ai lavori. Come se non bastasse è stata nuovamente rinviata la votazione della proposta di legge sulla liberazione anticipata a prima firma del deputato Roberto Giachetti, scritta insieme a Rita Bernardini e Nessuno tocchi Caino. “Voltate ancora una volta la testa dall’altra parte sul dramma del sovraffollamento”, ha risposto Giachetti quando ha preso la parola in Parlamento. Presidente Meloni, ministro Nordio: ascoltate Mattarella e il grido di dolore che arriva dalle carceri di Walter Verini Il Dubbio, 26 luglio 2024 I suicidi si susseguono in modo angosciante. Una bravissima direttrice di un carcere mi ha telefonato: il rischio di rivolta è sempre più concreto. Presidente Giorgia Meloni, Ministro Carlo Nordio, Presidente Giulia Bongiorno, Relatore Sergio Rastrelli: se non volete ascoltare le opposizioni, ascoltate il Presidente della Repubblica. E, con lui, ascoltate la voce delle persone carcerate. Della Polizia Penitenziaria. E con loro quella di tutti i Garanti delle persone ristrette, dei Magistrati di Sorveglianza, delle associazioni di volontariato. Della Magistratura minorile, che vi dirà come anche gli istituti per minori stiano scoppiando (soprattutto per i nuovi ingressi di ragazzi, ingressi derivanti dal vostro “decreto Caivano”). Ascoltate la voce dell’avvocatura che in tutta Italia nei giorni scorsi hanno dato vita a iniziative di grande valore civile per dire basta all’angoscia quotidiana dei suicidi in carcere. Leggete il rapporto di Antigone. Le giornate di martedì e mercoledì sono state pesantissime. Alla Camera avete affossato la proposta di legge a prima firma Giachetti, per un provvedimento di liberazione anticipata speciale certamente migliorabile (nella scorsa legislatura, quando stavo alla Camera, ne ero il secondo firmatario) ma comunque in grado di dare risposte qui e ora al dramma esplosivo del sovraffollamento. Mentre alla Camera facevate questo, al Senato, in Commissione Giustizia, avete detto 235 volte “NO”. Duecento trentacinque “niet” ad altrettanti emendamenti delle opposizioni, che avevano la volontà e l’obiettivo di riempire quel guscio vuoto del vostro decreto, del tutto inadeguato a dare (adesso! Se non ora, quando?) quelle risposte che le carceri e le persone detenute, il personale di polizia penitenziaria richiedono e meritano. Avete detto no a emendamenti che prevedevano forme di liberazione anticipata speciale, risorse per l’aumento e la formazione del personale, per l’ingresso di psicologi, mediatori culturali. Ad altri che rafforzavano la socialità, il lavoro e la formazione negli istituti, come trattamento teso al recupero e al reinserimento sociale. Avete detto no a emendamenti che rendevano minimamente civile l’affettività in carcere con congiunti e conviventi, il numero delle telefonate alle famiglie. No a emendamenti per aumentare e rafforzare Case famiglia ed ICAM, per cancellare la barbarie dei bambini dietro le sbarre. Avete girato le spalle a proposte di buon senso, che pur non risolutive dell’emergenza carceri, sarebbero stati segnali, passi in avanti, che avrebbero attenuato problemi, allentato tensioni. Che altro deve accadere perché vi rendiate conto del potenziale esplosivo che risiede nell’inferno delle carceri italiane? Il presidente Mattarella ha levato la sua voce alta e autorevole, umana e rigorosa, citando la drammatica lettera dei detenuti del carcere di Brescia (pubblicata giorni fa da Il Dubbio). I suicidi si susseguono in modo angosciante. Ieri ho ricevuto una telefonata di una bravissima direttrice di un carcere. Con la voce rotta mi ha raccontato come i detenuti si siano rifiutati di rientrare nelle celle, come forma di protesta per l’inanità della “politica” (anche se, come abbiamo visto anche su questo tema, la “politica” non è tutta uguale). Mi diceva queste cose mentre al carcere di Venezia era ancora in corso l’ennesima rivolta dentro un istituto di pena. Sempre ieri mattina sono stato in visita a Regina Coeli, dove ho toccato con mano l’umana professionalità della Direttrice e del Comandante della Polizia Penitenziaria. Ho parlato con i detenuti. Alcuni esibivano con rabbia un giornale con titoli per loro drammatici, che dicevano come il Parlamento, anche questa volta, deluderà le loro aspettative. Anche quelle minime. In quel carcere al centro di Roma ci sono oggi quasi milleduecento detenuti. La capienza è della metà e mancano quasi duecento agenti di polizia. I “nuovi giunti”, coloro che varcano la soglia del carcere, vengono sistemati, per il sovraffollamento, in spazi adibiti alla formazione. Vengono ridotti, non solo a Regina Coeli, gli spazi dedicati alla socialità. Con tanti altri parlamentari del PD abbiamo toccato con mano, nei giorni scorsi, la pesantissima situazione di carceri come Sollicciano, Torino, Terni, Poggioreale, appunto Brescia e Venezia. Ma potremmo citarne altre decine. Ovunque esiste degrado. Ovunque il trattamento rieducativo è una chimera. Le prescrizioni minime di vivibilità, non rispettando le quali l’Italia è stata sanzionata dalla CEDU con la sentenza Torregiani, sono lontane dall’essere seguite. Diminuisce la sorveglianza dinamica e diminuiscono le ore di apertura delle celle. Il caldo e l’afa di questo periodo rendono ancora più insopportabile la situazione. Ci sono migliaia di ragazzi tossicodipendenti che non dovrebbero rimanere in carcere ma essere curati in comunità. E troppi detenuti psichiatrici per i quali le Rems (quelle che ci sono) non hanno spazi né risposte. La rabbia è diffusa. Gesti di autolesionismo dilagano. Così come si moltiplicano le aggressioni agli agenti di polizia. Domenica scorsa, insieme ai parlamentari Cecilia D’Elia e Gianni Cuperlo, siamo stati a Rebibbia, a vivere da vicino l’angoscia di bambini dietro le sbarre. Quella mattina “Repubblica” aveva denunciato la situazione di uno di questi “Giacomo”. Con lui c’erano altri due bambini. Tre bambini carcerati per le responsabilità penali delle madri. Storie e condizioni sociali e giudiziarie pesanti, difficili. Ma, una volta di più, siamo usciti con la convinzione profonda che quei bambini di due anni, due anni e sei mesi, di nove mesi, non possono, non debbono stare dentro una prigione per responsabilità di uno dei genitori. Presidente Meloni, Ministro, relatori: se non ora, quando? Non posso pensare che la vostra sia una scelta cinica legata a volontà politica, a una egemonia - dalle vostre parti - di quella subcultura del “buttiamo via la chiave” e del “lasciamoli marcire in galera”, in quelle discariche sociali che sono le prigioni italiane. Allora andate davvero, in queste ore, in questi giorni, dentro queste prigioni. Condividete con chi vive lì dentro, o perché costretto o perché lì lavora. Forse capirete che trattare persone che hanno sbagliato come persone da recuperare e non come scarti umani non è solo giusto umanamente. Non è solo doveroso costituzionalmente. È anche importante per la sicurezza della società: chi esce da una pena rieducato e reinserito, non torna a commettere reati. La prossima settimana, in aula, riproporremo tutte queste cose ed altre. Avete l’occasione per ripensare e cambiare il vostro atteggiamento di chiusura. Cieca e irresponsabile. Il colpevole disinteresse sulla condizione dei detenuti di Fabio Ciaramelli Il Mattino, 26 luglio 2024 “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Vecchia frase attribuita a Voltaire, ma ritornata tristemente attuale alla luce delle recenti cronache della tragica inospitalità delle prigioni italiane. Vi ha assai autorevolmente richiamato l’attenzione il presidente della Repubblica nel suo discorso alla cerimonia del Ventaglio, su cui è già intervenuto con ricchezza di dati umani e riferimenti statistici, ieri su queste colonne, il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. In sostanza, a partire dall’impressionante numero dei suicidi tra le persone private della libertà (e, sia pur in misura assai minore, tra gli stessi membri della polizia penitenziaria) e dalla denuncia dei disagi e delle condizioni di violenza e senso di abbandono che rendono un vero e proprio inferno la permanenza in carceri sovraffollate e spesso fatiscenti, Sergio Mattarella diceva che è semplicemente inaccettabile e indegno d’un Paese civile che il carcere diventi “il luogo in cui si perde ogni speranza”. Ebbene, non si tratta solo di nobili parole, da leggere come espressione di buonismo, generosità e altruismo, quasi una necessaria implicazione o prosecuzione della sesta opera di misericordia corporale che, secondo il(vecchio) dettato del catechismo, consiste(va) nel “visitare i carcerati”. Ci sono almeno altri tre aspetti, alla base dell’accorato richiamo del Capo dello Stato, che devono essere sottolineati: in primo luogo, il riferimento alla Costituzione, secondo la quale le pene ingenerale (quindi, non solo ma anche la detenzione in carcere) “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27); in secondo luogo, la consapevolezza che la dimensione coercitiva dello Stato certamente rivendica per sé consuccesso il “monopolio della violenza fisica legittima” (Max Weber), ma quest’ultima non è fine a sé stessa, men che meno può essere intesa come una specie di sostituzione più o meno attenuata o sublimata della vendetta personale, ma ha come suo esplicito obiettivo l’incremento della coesione sociale e non il suo disfacimento; interzo luogo, l’esigenza ormai indilazionabile di contrastare un senso comune diffuso, fatto di estraneità e indifferenza circa le condizioni della “patrie galere” di cui le “persone per bene” non avrebbero motivo di occuparsi, e tantomeno di preoccuparsi. A proposito di quest’ultimo aspetto, bisogna riconoscere che un’opinione pubblica trasversale teorizza e pratica un attivo e consapevole disinteresse circa le condizioni concrete delle carceri, nonostante la conclamata invivibilità di queste ultime. Ciascuno di noi può agevolmente rendersene conto dal proliferare di battute, spezzoni di dialogo e condivisione di confidenze che, ad ogni occasione propizia, ostentano distacco e insensibilità su questi temi. Senza arrivare all’auspicio di quelli che si compiacciono all’idea di sbattere i delinquenti in cella e buttare la chiave, anche in segmenti non particolarmente bellicosi dell’opinione pubblica è diffusa l’idea più o meno inconscia, secondo la quale “chi è causa del suo mal pianga sé stesso”: ragion per cui i tanti cittadini onesti e rispettosi delle leggi non avrebbero motivo di preoccuparsi per coloro che stanno al fresco (e che in questi giorni, però, crepano di caldo), dove pagano il prezzo delle proprie colpe. Ci saranno anche disagi e scomodità nella detenzione in strutture carcerarie sovrappopolate, ma ciò è considerato inevitabile, dal momento che - come si dice o si sottintende - il carcere non è, non può essere e non deve essere un “grande albergo”. Motivo di preoccupazione ben maggiore è la paura o il sospetto che siano ancora a piede libero un numero imprecisato di soggetti pericolosi, anche se già “attenzionati” dalle forze dell’ordine. Se ne deduce una grande resistenza sociale a mobilitarsi per un vero rinnovamento delle condizioni carcerarie. Ecco perché la diffusione di pene alternative, i discorsi di umanizzazione della pena, le proposte di norme “svuota-carceri” e altre riforme del genere hanno poco seguito in un’opinione pubblica nel cui inconscio collettivo campeggia e troneggia l’idea che gli autori dei misfatti paghino “il giusto fio” senza troppi fronzoli. Insomma, mentre più o meno ipocritamente si plaude alle parole di Mattarella, in realtà nessuno poi si straccia le vesti per l’invivibilità delle carceri. Che però resta un problema enorme per tutti e non solo per i detenuti che la subiscono sulla propria pelle. Infatti, se le carceri invece di diventare davvero occasione per la “rieducazione del condannato” continuano a essere luogo di perdizione non solo di quest’ultimo, ma anche di chi è in attesa di giudizio, se soprattutto si confermano efficacissima università del crimine, soprattutto per i più giovani, se comunicano l’impressione che l’unico antidoto alla violenza è la vendetta (più o meno mascherata), allora le conseguenza non le pagheranno solo quelli che stanno al fresco, ma infin dei conti le pagheremo tutti. Quando il diritto diventa disumanità di Guido Contestabile* Il Dubbio, 26 luglio 2024 Un magistrato di sorveglianza ritiene che l’acqua calda in inverno sia un privilegio da hotel, non un diritto dei detenuti, scatenando indignazione. Questo provvedimento evidenzia una disconnessione allarmante tra le istituzioni carcerarie e la dignità umana. È di qualche giorno or sono la notizia del “singolare” provvedimento di un magistrato di sorveglianza che ritiene che l’acqua calda (durante la stagione invernale) non sia un diritto dei detenuti, quanto piuttosto dei soli ospiti degli alberghi. Avrei volentieri soprasseduto dal commentare un provvedimento così imbarazzante (alle bestie e neanche a tutte viene inibita l’acqua calda in inverno) se non fosse che quel provvedimento proviene dalla stessa area geografica (mi auguro non dalla stessa penna) di quello che tempo fa ebbe a negare la liberazione anticipata ad un condannato poiché colpevole di aver tentato di togliersi la vita mediante impiccagione. E perché non residuino dubbi sulle esatte dimensioni della questione - a questo punto doverosamente da commentare - ne riporto testualmente la parte motiva: “considerato che il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera rieducativa”. Non c’è bisogno di dire che la prima reazione che ho avuto è stata di pancia e non credo proprio che sia importante trasmetterla. Piuttosto, la questione va affrontata con razionalità per i numerosi aspetti che sottende. Il primo: il bollettino di guerra dei suicidi in carcere del 2024 narra di circa otto morti al mese. Cui debbono aggiungersi i decessi per autosoppressione degli appartenenti alla polizia penitenziaria, le morti dei detenuti non curati adeguatamente nelle prigioni (“diamine!” - dirà il dirigente sanitario di turno - “allora è vero che stava male!” Seppellendo, conseguentemente, l’angoscia con un rassicurante “pazienza!”), i tentativi di suicidio, come nel caso che ci occupa da vicino. Dietro i numeri, ci sono uomini e donne, padri, mariti, figli, fratelli. E un universo di dolore incompreso e incomprensibile che fa da sfondo e che rafforza le mafie con il capocosca del paese che, mandando, corone di fiori, rassicura la famiglia del disperato con una commossa, sincera, sentita stretta di mano. Dietro i numeri, ci sono algide telefonate di tristi burocrati (non in tutti i casi, per carità), che raccontano al familiare di turno che, per una spiacevole circostanza, il loro congiunto si è tolto la vita: una finta vicinanza alla famiglia che lava la coscienza di chi la propone e proietta chi la riceve in una terza dimensione sorda e vuota. Dietro i numeri, ci sono gli attimi che precedono il gesto e la lucida follia di scegliere di abbandonare un inferno terreno certo a beneficio di un inferno soprannaturale probabile: il lenzuolo preparato con cura, il pensiero alla famiglia, forse una preghiera, la foto di un figlio stretta nella mano e poi… poi basta chiudere gli occhi e darsi una spinta. Davvero era così semplice uscire dal carcere! Il secondo: il provvedimento che oggi commentiamo è frutto di un iter burocratico che passa attraverso una istanza del detenuto o del suo difensore, una relazione sintetica della casa circondariale, un parere di un PM e una decisione. Cioè a dire: il magistrato di sorveglianza è solo la punta dell’iceberg; dietro ci sono (probabilmente) avvocati che propongono istanze ciclostilate, psicologi ed educatori che rimarcano l’esistenza di un preteso pregiudizio alla concessione della liberazione anticipata, un PM che si confronta con la vicenda e, POI, un Giudice che decide. In breve: ci SIAMO tutti coinvolti in questa vicenda. Chi più chi meno. Certamente fa specie leggere che il tentativo di suicidio sia incompatibile con l’opera rieducativa propria della pena, per la semplice, banale, circostanza che il tentativo di suicidio è la prova granitica della totale assenza dell’opera rieducativa! Dov’erano gli psicologici, i medici e gli educatori del carcere nei giorni antecedenti il tentativo di autosoppressione? Il terzo: alla base del “singolare” provvedimento, ritengo possano esservi due diverse causali. La prima che mi viene in mente è l’eccessiva burocratizzazione del lavoro del giudice di sorveglianza, seppellito da migliaia di richieste che vengono decise, con abdicazione completa della funzione giurisdizionale, secondo una logica adesiva alle proposizioni della casa circondariale. Si potrebbe trattare, pertanto, di superficialità valutativa. La seconda è molto più complessa e passa attraverso la coscienza di chi decide che potrebbe essere davvero fermamente convinto che il detenuto meriti di non avere la diminuzione di pena poiché colpevole di irriconoscenza nei confronti del sistema che, pur accogliendolo nonostante i suoi errori, viene tradito dal ribaldo gesto anticonservativo. In entrambi i casi ci si troverebbe di fronte ad un problema di titanica soluzione, non sapendo dire se sia più grave l’infingardaggine o la totale misconoscenza del mondo delle carceri fatta di dolore, sangue, disperazione, totale assenza (in alcuni, molti, casi) di ausilio da parte dell’istituzione preposta e di lenzuola che talora si spezzano (come, magari, sarà avvenuto nel nostro caso) e talaltra no. La soluzione: il senso del presente scritto non è affatto una serrata critica alla magistratura, quanto piuttosto una richiesta di aiuto. La deriva della critica oltranzista ad un provvedimento scarsamente perspicuo che dovrebbe accomunare tutta la magistratura avrebbe né più, né meno, la stessa patente di irragionevolezza di quelle tanto criticate retate a strascico che fanno inorridire anche la gente comune, o della tesi secondo cui tutti gli avvocati sono degli imbroglioni perché qualcuno di noi ha rubacchiato alla vecchietta i soldi dell’assicurazione. Ecco perché la richiesta accorata, sincera, leale ai magistrati: abbiano loro stessi il coraggio, PUBBLICO, di definire per quello che è, quel provvedimento: una mostruosità! Un errore appartiene agli uomini. Incomprensibile sarebbe non riconoscere l’errore (recte, l’orrore) e, peggio ancora, sarebbe il silenzio dei giusti. Dal canto nostro, saremo attenti a riconoscere i nostri sbagli e a censurarli, con espressa abiura alla difesa di casta. Il sistema ritroverà equilibrio e i rapporti tra le parti torneranno ad essere corretti in forma e sostanza: ad un’avvocatura utile fa di controcanto una giustizia credibile. Quel lenzuolo spezzato può essere evocativo di una nuova era di dialogo e reciproca - smarrita - fiducia. Perdere un’occasione del genere è un abominio irredimibile: una sorta di ausilio all’ illegalità di genere che si rafforza e si conserva sull’illegalità di Stato. Si tratta, in fondo, di scegliere se sia più giusto costruire un ponte o bombardarlo. Ex partibus infidelium. *Direttivo Camera penale di Palmi “I corpi ammassati, il caldo, le botte. Avevo già annodato il cappio” di Antonio Murzio affaritaliani.it, 26 luglio 2024 Il racconto di un ex detenuto. Claudio Bottan, oggi vicedirettore della rivista Voci di dentro, racconta la sua detenzione nelle carceri italiane: “Gli abusi fanno male più all’anima che al corpo. La scrittura mi ha salvato”. “Il momento peggiore è l’estate, quando tutto si ferma. ‘Neanche un prete per chiacchierar’, per dirla con Celentano. Celle sovraffollate, con 40 gradi senza un filo d’aria, dove si deve convivere forzatamente con altri corpi, che hanno bisogni, esigenze, abitudini proprie. Ricordo un’estate nel carcere di Rebibbia trascorsa in sei in una cella pensata per quattro. Ma la parola sovraffollamento non è sufficiente. Il sovraffollamento è quello che vediamo sulle spiagge, al supermercato o in discoteca. Bisognerebbe trovare altre parole per descriverlo, anche per non anestetizzare il dialogo. È piuttosto un accatastamento di corpi”. Claudio Bottan, ex detenuto, oggi vicedirettore della rivista Voci di dentro, ha accettato di parlare della sua esperienza all’indomani della pubblicazione del Rapporto Antigone sulla situazione delle carceri in Italia. “Il mio lungo tour delle prigioni è durato sei anni e mezzo, con continui trasferimenti nelle prigioni della Penisola e frequenti soggiorni nelle celle di isolamento, la prigione nella prigione, prima di ottenere la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale. Sono libero da poco più di un mese, dopo aver scontato oltre dieci anni di pena per reati fallimentari, anche se in realtà sono sempre stato libero, anche in galera, dove era imprigionato il mio corpo ma non la dignità e nemmeno la determinazione a non sprecare il dolore”, dice Bottan. Quando è nata e come opera Voci di dentro? Voci di dentro è una associazione che dal 2008 si occupa degli ultimi, coloro che provengono da situazioni di marginalità sociale. I volontari sono formati per seguire detenuti ed ex detenuti affidati all’associazione in misura alternativa al carcere che partecipano a laboratori di scrittura, lavori di pubblica utilità, digitalizzazione di manoscritti, e alla redazione della omonima rivista. Nata dall’impegno coraggioso di Francesco Lo Piccolo, giornalista e presidente della onlus, questa pubblicazione si erge a baluardo della giustizia e dei diritti umani, offrendo una voce a coloro che il sistema penale ha ridotto a mera “cosa”, privandoli della loro umanità. Attualmente le persone affidate a Voci di dentro sono una trentina, oltre a giovani universitari in tirocinio e in servizio civile. I laboratori di scrittura nelle carceri di Chieti, Pescara e Lanciano rappresentano una delle principali attività dell’associazione Voci di dentro e contestualmente un osservatorio privilegiato che ci permette di toccare con mano le contraddizioni di un’istituzione totale che ha la pretesa di “trattare” le persone, come fossero un rifiuto da trasformare in qualcos’altro. Varchiamo quotidianamente quei cancelli che separano i buoni dai cattivi per portare avanti progetti di inclusione sociale; talvolta ci siamo spinti oltre e abbiamo partecipato a visite ispettive, siamo entrati nelle celle e abbiamo visto i corpi ammassati sui letti a castello a guardare il soffitto. Ci siamo immersi come palombari nella sofferenza, cercando di trattenere il fiato per il tanfo nauseabondo, e ne siamo usciti storditi dal rumore assordante di voci che si accavallano, televisori perennemente accesi, cancelli e blindati che sbattono. Durante la tua detenzione racconti di aver combattuto con le uniche armi che avevi a disposizione, carta e penna... Inizialmente non accettavo la condizione che stavo vivendo e mi ribellavo con gli unici strumenti che avevo a disposizione: carta e penna, con cui raccontavo ciò che mi circondava. Come l’inviato di guerra sentivo l’obbligo di descrivere uno scenario dominato da violenza e indifferenza, sofferenza e repressione. La disperazione che portava all’autolesionismo con corpi sfregiati dai tagli, bocche cucite (e non in senso figurato…) e genitali inchiodati agli sgabelli, fino ai tentati suicidi e quelli - molti - riusciti. E poi le botte. Calci, pugni e manganellate fuori dalla portata delle telecamere; abusi che fanno male più all’anima che al corpo. La scrittura è un’attività disturbante per l’amministrazione penitenziaria, che si libera dal fastidio del ficcanaso trasferendo altrove il “problema”: ho fatto tappa in nove carceri diverse. Denunciare mi è costato molto, ma non avrei mai potuto girare la testa dall’altra parte. Oggi non sarei in pace con la coscienza se non avessi scritto dei soprusi, delle violenze e dell’illegalità diffusa nelle carceri. La scrittura mi ha salvato, mi ha permesso di rendermi utile aiutando gli altri, soprattutto gli stranieri e coloro che, abbandonati a sé stessi, avevano difficoltà a far valere i propri diritti. Scrivere mi ha salvato dalla sottile violenza psicologica fatta di mancate risposte alle “domandine”, di incertezze e lettere che si perdono, di telefonate interrotte e colloqui bloccati senza motivazioni plausibili, uno stillicidio che demolisce i soggetti più deboli. E anche quelli apparentemente forti. Avevo già annodato alle grate della finestra del bagno il cappio fatto con le strisce di lenzuolo; ci è voluto tempo a prepararlo di nascosto, tempo per cogliere il momento giusto, quando tutti erano fuori dalla cella per qualche ragione. Ma in carcere il tempo abbonda. Non ho avuto il coraggio per dare il calcio definitivo allo sgabello e chiudere gli occhi, qualcosa mi ha fermato un secondo prima. Da allora ho deciso che avrei trasformato la rabbia in energia mettendomi a disposizione di chi avesse bisogno. In uno dei tuoi incontri hai conosciuto Simona... In occasione di una intervista ho conosciuto Simona, la mia compagna. Insieme da alcuni anni incontriamo studenti di scuole e università in tutta Italia per raccontare la storia semplice di un ex detenuto uscito dal carcere attraverso la porta del cambiamento e di una travel blogger in carrozzina che, a dispetto della malattia, non ha rinunciato alla passione per i viaggi. La premessa per i ragazzi spesso è: “Avete presente la serie Mare fuori? Bene, adesso scordatevi tutto e ascoltate cos’è il carcere per davvero”. Non solo i giovani, ma anche molti adulti si stupiscono quando scoprono, ad esempio, che non è vero che in carcere si mangia e si beve gratis. Il soggiorno in galera costa e il conto arriva presto come ho raccontato recentemente. Uno dei drammi del carcere al quale non si riesce a mettere argine è quello dei suicidi... L’associazione Voci di dentro non interrompe le attività durante l’estate proprio perché abbiamo capito che è il momento peggiore e bisogna in qualche modo colmare il vuoto di speranza, quello che determina non a caso un incremento dei suicidi. Dall’inizio del 2024 quelli ufficiali sono già arrivati a 58, poi ci sono le decine di morti per “cause da accertare” e sei suicidi tra gli appartenenti alla polizia Penitenziaria. Un’emergenza umanitaria che pare non interessare a nessuno, sicuramente non al Governo impegnato a introdurre nuove fattispecie di reato. Non trascuriamo poi le parole pronunciate dal presidente della Repubblica: “Vi è un tema che sempre più richiede vera attenzione: quello della situazione nelle carceri”. Basta ricordare le decine di suicidi, in poco più dei sei mesi, quest’anno. Condivido con voi una lettera che ho ricevuto da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale. Esiste una soluzione? La soluzione alla condizione delle carceri deve prescindere dal populismo penale, occorre intervenire urgentemente con interventi deflattivi. Parlare di amnistia e indulto equivale a bestemmiare, ma è già tardi, non c’è più tempo per pensare all’edilizia penitenziaria, all’utilizzo delle caserme dismesse e a fantasiose soluzioni come il rimpatrio dei detenuti stranieri: i Paesi d’origine non li vogliono. È in discussione la proposta di legge di Roberto Giachetti, supportata anche da Rita Bernardini, che mira a modificare il sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti che passerebbe dagli attuali 45 giorni a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata avendo dato prova di partecipazione alle attività rieducative. E infine la soluzione più logica: carceri a numero chiuso. Attualmente ci sono 62 mila detenuti stipati in 47mila posti, si consentano nuovi ingressi solamente quando si liberano posti dando la precedenza ai condannati per i reati più gravi. I suicidi in carcere non sono una calamità naturale, come lascia intendere il ministro Nordio, ma un fatto prevedibile e strettamente connesso alle condizioni disumane e degradanti in cui sono costrette a vivere le persone detenute. È necessario che di carcere si continui a parlare fuori dai soliti circuiti tra addetti ai lavori in cui ci si parla addosso, per questo abbiamo scelto di farlo nelle scuole e nelle piazze incontrando i giovani e la gente comune utilizzando parole comprensibili, anche se a volte in maniera apparentemente fin troppo diretta: “Cosa succederebbe se in una piccola città come Chieti ci fossero stati 60 suicidi in pochi mesi? Probabilmente sarebbe evidente che c’è un problema da affrontare”. Il volontariato dovrebbe fare rete, invece ogni realtà cura il proprio orticello a discapito del bene comune. Il mio impegno in difesa dei diritti umani non cesserà con il fine pena. Sono convinto che ognuno debba fare la propria parte rimettendo in circolo il bene ricevuto, solo così si chiude il cerchio. Cara Europa, sai nulla del 41 bis? di Piero Sansonetti L’Unità, 26 luglio 2024 Dall’ergastolo ostativo alle intercettazioni pervasive, dal fantomatico concorso esterno al predominio dei pm sulla politica: ecco che cosa non va. Cara Europa, volevo darti alcune informazioni, che probabilmente ti mancano, sullo stato di diritto in Italia. Hai perfettamente ragione a sostenere che in Italia lo Stato di diritto traballa. Probabilmente per ragioni del tutto opposte a quelle che ti hanno suggerito. 1) In Italia esiste il carcere duro, dove i detenuti sono isolati, non possono vedere liberamente la Tv, subiscono la censura su libri e giornali, non possono vedere i propri figli, anche bambini, se non molto raramente e attraverso un vetro. Non possono godere di nessuno dei vantaggi previsti dalla legge per i detenuti. A molti è stato proibito anche di assistere ai funerali dei genitori. Il carcere duro si chiama 41 bis e con il 41 bis l’Italia viola tutte le convenzioni internazionali. Sarebbe utile se tu intervenissi. 2) In Italia esistono delle prigioni, tremende, nelle quali vengono stipati i migranti e tenuti per mesi e mesi. Senza aver subito nessuna condanna e neppure aver ricevuto un avviso di garanzia. Senza aver commesso nessun reato. In violazione della Costituzione, del codice penale e di tutte le convenzioni internazionali. Sarebbe utile se tu intervenissi. 3) Le carceri italiane sono sovraffollate fino al 220 per cento. Si vive in cella in condizioni impossibili. Dall’inizio dell’anno ci sono stati quasi 60 suicidi. In violazione della Costituzione e di tutte le convenzioni internazionali. Sarebbe utile se tu intervenissi. 4) Un terzo dei detenuti, in Italia, non ha subito una condanna. Viene tenuto in prigione perché confessi e accusi altri. In questo modo si violano tutte le convenzioni internazionali. Sarebbe utile se tu intervenissi. 5) In Italia esiste l’ergastolo e l’ergastolo ostativo. In violazione della nostra Costituzione. Sarebbe utile se tu intervenissi. 6) In Italia l’accusa (il Pm) e il giudice sono colleghi, i loro uffici sono uno a fianco all’altro ed è permesso lo scambio dei ruoli. In violazione dell’articolo 111 della nostra costituzione. Sarebbe utile se tu intervenissi. 7) In Italia non c’è un grande rischio di intromissione della politica nella giustizia, come tu hai paventato. La giustizia ha potere assoluto sulla politica. In questo momento due politici di livello nazionale, Giovanni Toti e il senatore D’Alì sono in stato di detenzione. Abbiamo avuto in stato di detenzione moltissimi presidenti di Regione (Lombardia, Abruzzo, Calabria, Sicilia, Basilicata, Veneto…), persino un presidente del Consiglio (e un altro costretto all’esilio) e diversi deputati e senatori. Due esponenti dell’attuale governo sono sottoprocesso. Non credo che esistano situazioni simili nel resto del Continente 8) In Italia non è proibito ai giornalisti di sputtanare politici e semplici cittadini. Le intercettazioni ordinate dai magistrati vengono quasi sempre messe a disposizione della stampa, che le utilizza senza problemi anche per spiattellare vicende private e per raccontare di persone non inquisite. E nessuno viene perseguito per questi comportamenti. È una particolarità tutta italiana. 9) Non ti devi preoccupare per la limitazione delle intercettazioni. Non c’è questa limitazione. L’Italia è il paese europeo che realizza il numero maggiore di intercettazioni. Anche dieci o venti volte superiore a quello di altri paesi europei (100 volte superiore a quelle ammesse in un paese europeo, non dell’Unione ma abbastanza moderno, come la Gran Bretagna). 10) Infine c’è un problema serio, sul quale dovresti porre attenzione. Alcune persone sono state condannate, in Italia, e hanno scontato molti anni di prigionia per un reato che si chiama “concorso esterno in associazione mafiosa”. Questo reato non esiste nel codice di nessun paese al mondo, e nemmeno nel codice penale italiano. È un’usanza. Viene adoperato quando non si trovano altri reati e però si pensa che sia necessaria una condanna. Cara Europa. Mi fermo qui. Ti prego, vedi se trovi qualcosa di sbagliato in quello che ho scritto, e se non lo trovi intervieni subito. “Arrestate Gandhi!”. La destra blinda il decreto sicurezza di Frank Cimini L’Unità, 26 luglio 2024 Intanto la magistratura boccia la precettazione dei giudici, anche non specializzati, finalizzata a convalidare i fermi e accelerare le deportazioni in Albania. Alla Camera dei deputati, in commissione Giustizia, va avanti la discussione sul decreto sicurezza del quale si parla nell’articolo qui sotto. Si tratta di norme che servono a ridurre in modo considerevole il tasso di “libertà”, soprattutto per alcune figure sociali. Diciamo le figure sociali più deboli e più povere. È una prova di forza repressiva. In particolare ci sono alcune regole che riguardano le carceri assolutamente in contrasto con lo Stato di diritto. L’aggravamento delle pene per il reato di rivolta in carcere, la definizione della rivolta in carcere come protesta anche non violenta, e pene severissime per il reato di “istigazione alla disobbedienza”. Vedete bene che sono norme che indicano una linea politica ideologica. Che ci guarderemo bene dal definire fascista, sennò chissà quante polemiche, poi si direbbe persino che siamo noi quelli ideologici. Ok. Ma anche se noi non diremo che sono provvedimenti fascisti, è chiaro che lo sono. Pensiamo a cosa succederebbe a Pannella, se fosse ancora vivo e per qualche motivo finisse in prigione. Oppure pensiamo a Gandhi, alle sue battaglie di disobbedienza e di nonviolenza, che in effetti lo portarono diverse volte in prigione durante l’occupazione inglese. Oggi però, se fosse ancora vivo, non gli succederebbe più. Potrebbe invece succedergli se venisse in visita nell’Italia di Meloni. Dal Consiglio superiore della magistratura arriva un segnale ben preciso in direzione di una sorta di rifiuto di una gestione emergenziale nell’amministrazione della giustizia. Il cosiddetto organo di autogoverno dei magistrati ha bocciato la “precettazione” di tutti i giudici per le convalide dei fermi dei migranti “perché non è un criterio idoneo ad assicurare la funzionalità dell’ufficio”. Era successo che nei giorni scorsi, al fine di garantire dieci udienze in contemporanea, il presidente del Tribunale di Roma avesse disposto dal 10 agosto in poi il coinvolgimento di magistrati di tutte le sezioni. Invece con la decisione del Csm il compito toccherà solo alle toghe specializzate in tema di immigrazione. Insomma, non ci sarà nessuna chiamata alle armi dei giudici in servizio al tribunale della capitale per garantire il funzionamento del cosiddetto protocollo Albania frutto dell’accordo tra i due governi. Se ne potranno occupare solo i magistrati che solitamente valutano i provvedimenti di fermo dei migranti destinati a essere portati o meglio dire deportati in Albania. È l’esatto contrario di quanto era stato deciso dal presidente del tribunale di Roma, Reali, il quale aveva operato in quel modo per rispondere alla pressante richiesta del ministero della Giustizia per garantire le convalide dei fermi entro le 48 ore previste dalle norme. Secondo il Csm “la designazione di ulteriori giudici per sopperire agli eventuali flussi di entrata legati al protocollo Albania risulta attuata in modo non conforme”. E inoltre “l’assenza di dati statistici pregressi relativi ai procedimenti connessi al tema di tale protocollo non esime il presidente del Tribunale di Roma dall’indicazione di un criterio idoneo ad assicurare la funzionalità dell’ufficio e dunque la soglia di rilevanza che impone l’attività di supporto cin magistrati non inseriti nella tabella della sezione immigrazione”. Sono già stati montati dieci schermi in cui appariranno i migranti soggetti alle cosiddette procedure accelerate di frontiera. La convalida in udienza sarà solo il primo problema da affrontare perché i giudici saranno chiamati a decidere sulla legittimità della cauzione che varia dal 2500 ai 5000 euro modificata dal Viminale e a valutare la reale sicurezza dei paesi di provenienza insieme alle condizioni di vulnerabilità dei migranti sottoposti al fermo. Comunque in tutti i casi in cui il fermo non viene convalidato bisognerà liberare i migranti e portarli in Italia considerando che gli accordi con Tirana escludono che le persone soccorse in mare e portate in Albania possano restare al di fuori dei centri di detenzione. Il sottosegretario Alfredo Mantovano ha dichiarato a un giornale tedesco che è già pronto il primo hotspot in Albania e che “non sarà un centro fascista ma sarà funzionale per flussi regolari. In Albania saranno mandati coloro che vengono identificati come provenienti da paesi sicuri che non sono soggetti fragili e che non compongono nuclei familiari”. Nella commissione alla Camera vanno avanti i lavori sul decreto sicurezza. In esame le proposte di modifica del funzionamento delle carceri. La norma prevede l’aggravamento del reato di istigazione a disobbedire alle leggi se commesso in prigione. Respinti alcuni emendamenti dell’opposizione per cancellare la norma. “L’Ue ha promosso le nostre riforme”. Parola di Nordio di Simona Musco Il Dubbio, 26 luglio 2024 La replica del guardasigilli al racconto del Report di Bruxelles sullo Stato di diritto: “Siamo i primi per efficacia”. Il quadro della situazione dipende sempre dal punto di vista. E tale principio vale anche nel caso del rapporto sul Rule of law, che raccoglie le voci dei vari portatori di interessi, pronti pertanto a esaltare o criticare una riforma in base, appunto, al proprio interesse. Le notizie stampa sul rapporto - che fotografa la situazione dei Paesi europei con un lungo elenco di riforme, in molti casi ancora troppo fresche per valutarne gli effetti - hanno subito le solite, prevedibili, strumentalizzazioni. Da un lato chi ha letto, tra le righe del documento, una critica feroce alle norme varate dal governo Meloni, liberticide a prescindere e capaci di minare indipendenza e autonomia della magistratura peggio che in alcune dittature. Dall’altro chi invece ha colto elogi per un Paese capace di migliorare i tempi della giustizia, digitalizzare e assumere toghe, collocando l’Italia ai primi posti in Europa. La verità, come sempre, sta in mezzo: il rapporto sembra un sunto di tutte le riflessioni sviluppate nel corso degli ultimi mesi, con le voci contrapposte di chi parla di successo e chi, invece, si straccia le vesti. Che il rapporto sia utilizzabile come arma a seconda del sentimento lo si vede dalle reazioni: da un lato chi, come Repubblica, preconizza la tragedia dello Stato di diritto, tutta colpa del guardasigilli voluto da Giorgia Meloni. Dall’altro proprio lui, Carlo Nordio, che legge nelle 35 pagine stilate dalla Ue una promozione e non un allarme. “Sorpresi ed indignati per la falsa rappresentazione che alcuni organi di stampa hanno dato sul rule of law pubblicato ieri. Al contrario, nel valutare il settore chiave dei sistemi giudiziari, l’Italia risulta promossa sotto tutti i parametri - spiega il ministro con una nota -. In particolare, nelle 6 raccomandazioni conclusive, in numero pari alla media europea, non vi è alcun invito a modificare i recenti provvedimenti adottati sui reati contro la pubblica amministrazione”. In effetti, nonostante alcune sottolineature sull’abolizione dell’abuso d’ufficio rispetto al quadro europeo - nel testo si legge che “la criminalizzazione dell’abuso d’ufficio e del traffico d’influenze fanno parte delle convenzioni internazionali sulla corruzione e sono quindi strumenti essenziali per le forze dell’ordine e le procure per combattere la corruzione” -, non c’è un vero e proprio giudizio sulla scelta fatta dal governo italiano, se non quello espresso da Anac, Procura europea, Anm e Libera. Insomma, non dall’Europa, che all’Italia raccomanda di “proseguire gli sforzi per migliorare ulteriormente il livello di digitalizzazione dei tribunali penali e delle procure; adottare la proposta legislativa in sospeso sui conflitti di interessi e adottare norme generali sul lobbying per istituire un registro operativo del lobbying, compresa un’impronta legislativa; affrontare in modo efficace e rapido la pratica di canalizzare le donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche e introdurre un registro elettronico unico per le informazioni sul finanziamento dei partiti e delle campagne elettorali; proseguire l’iter legislativo sul progetto di riforma sulla diffamazione, la tutela del segreto professionale e le fonti giornalistiche evitando qualsiasi rischio di impatti negativi sulla libertà di stampa e garantire che tenga conto degli standard europei sulla protezione dei giornalisti; garantire che siano in atto regole o meccanismi per fornire finanziamenti ai media di servizio pubblico adeguati alla realizzazione del loro mandato di servizio pubblico e per garantirne l’indipendenza e intensificare gli sforzi per creare un’istituzione nazionale per i diritti umani che tenga conto dei Principi di Parigi delle Nazioni unite”. Nessun riferimento allarmato alla separazione delle carriere, all’Alta Corte, all’abuso d’ufficio e a tutte le riforme finora messe in atto, con “consigli” in perfetta linea con quelli dati agli altri Paesi fondatori dell’Ue. Nulla, insomma, che suggerisca una preoccupazione delle istituzioni europee sulla situazione italiana. Anzi, sulla separazione si invita a fare di più: non esistendo, in Europa, una legge che la imponga o la vieti, è necessario operare con coerenza, applicando alle giurisdizioni speciali lo stesso metro usato per la magistratura ordinaria. Nordio, dunque, legge il rapporto come un’incoronazione degli sforzi fatti: per quanto riguarda l’efficienza della giustizia, afferma, “è stato dato atto che le politiche giudiziarie adottate a livello nazionale, in questi due anni, hanno consentito di conseguire i risultati attesi garantendo all’Italia il titolo di Stato membro primo nel parametro valutativo della efficacia. Abbiamo ricevuto il plauso della Commissione europea anche sotto il parametro della qualità del servizio. Sono stati apportati miglioramenti significativi nell’assunzione di nuovi magistrati e personale amministrativo e gli addetti all’Ufficio del Processo hanno migliorato la produttività e la qualità del sistema giudiziario. La Commissione - conclude il ministro - premia l’Italia anche sotto l’aspetto della digitalizzazione. Elementi positivi emergono anche dalla valutazione del quadro anticorruzione che certifica a nostro favore il compimento di “ulteriori progressi nell’adozione di una legislazione globale in materia di conflitti di interessi”. Proseguiremo in questa direzione per migliorare ulteriormente. Resta l’amarezza per una falsa rappresentazione nociva all’immagine del Paese che sembra riflettere la volontà di una strumentale polemica piuttosto che rilevare il lavoro fatto sulla giustizia che è stato così tanto apprezzato dalla stessa Commissione”. C’è un punto nella relazione che forse è passato sottotraccia: una bassa percezione, da parte dei cittadini (36%) e delle aziende (42%), del livello di indipendenza della magistratura. Il motivo? A leggere toghe.blogspot.com, pagina virtuale di magistrati fuori dal coro, la colpa non è della politica fuori dalle aule di Tribunale, ma della politica dentro le aule: quella delle correnti. “I magistrati italici - voluti dal Costituente senza padrone - si sono auto assoggettati al potere politico - si legge -, quello interno del sistema lottizzatorio-correntizio, mantenendo una solo formale autonomia dai partiti politici, coi quali trattare ogni cosa (compreso chi distaccare ai ministeri)”. Un punto di vista che, di certo, i “portatori d’interesse” non hanno raccontato. “Tutti colpevoli fino a prova contraria”, il giustizialismo è una minaccia di Antonio Mastrapasqua Il Riformista, 26 luglio 2024 Forse sarebbe ora di riformulare l’articolo 27 della Costituzione, trasformando l’attuale precetto - “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” - in uno più realistico: “L’imputato non è considerato innocente sino alla sua assoluzione definitiva. E in qualche caso nemmeno dopo”. Sarà la più bella del mondo, ma la nostra Carta fondamentale mostra qualche segno dei tempi. E un lifting potrebbe non bastare. La contrapposizione tra giustizialisti e garantisti non è solo una delle mille varianti che hanno animato la nostra storia patria, litigiosa e faziosa dai tempi dei Montecchi contro i Capuleti. C’è un problema più profondo di civiltà che è più radicale del trasformismo pratico che spesso ha finito per risolvere il dubbio del contrasto ideologico. Abbiamo digerito i tempi biblici in cui in Italia si passa dall’accusa al terzo grado di giudizio. E forse anche per questo è parso accettabile erigere tribunali del popolo nella forma di quel mostruoso ircocervo prodotto dal potere mediatico congiunto a quello giudiziario, dove il sospetto (o l’accusa) ha coinciso con la condanna, senza appello. Erga omnes. Abbiamo ammesso poi la turbativa del sistema economico e imprenditoriale accettando la proliferazione degli “uffici compliance” in tutte le grandi aziende e in molta Pubblica Amministrazione. Proprio in questi uffici si producono “atti giudiziari” senza giudice e senza processo, scegliendo preventivamente - sulla base di semplici accuse e molto spesso con l’ausilio di ritagli di giornale o di post collezionati sui social media - le imprese che possono concorrere alle gare di appalto, o i manager degni di sedere nei consigli di amministrazione o i professionisti cui affidare un incarico. E le banche chiudono le linee di credito a quelle aziende che si ostinano a esibire consiglieri indagati, giudicati utili e competenti dal management dell’impresa, ma ritenuti inidonei al ruolo dagli “uffici compliance”, spesso composti da personale amministrativo senza qualifica specifica che si trova a giudicare prima e più dei giudici. Delle due l’una: o si cambia la Costituzione o si mettono in riga tutti i soggetti - negli enti pubblici, come nelle aziende private - che hanno ormai sostituito la solida presunzione di innocenza con una vaga e liquida “web reputation”. Oltre al danno arrecato alle persone (spesso non quantificabile) si compromette il sistema economico e la vita delle aziende. Secondo la Banca d’Italia, il malfunzionamento della giustizia causa una perdita di Pil pari all’1%, ovvero circa 16 miliardi di euro all’anno. In questo computo stanno le lungaggini senza paragoni - più di 550 giorni per ottenere il primo grado di giudizio, più di due anni per il secondo grado, altri tre anni e mezzo per il terzo grado - ma anche i costi annessi, come la proliferazione di uffici che nelle aziende (così come negli enti pubblici) si occupano di offrire quei giudizi di “compliance”, che finiscono per essere una valutazione di formale coerenza con il complesso di norme esistenti. Norme ordinarie che - contraddicendo la Costituzione - ritengono che l’accusa per alcuni reati equivalga a una condanna sufficiente a escludere da una gara, da una linea di credito o da un incarico fiduciario. Si tratta di uno scandalo quotidiano, cui tutti i soggetti economici si sono adeguati, in un silenzioso torpore, che crea danni e ritardi all’attività economica. E produce diffidenza e sfiducia. La scarsa fiducia genera bassi investimenti da parte delle imprese, soprattutto straniere, nel nostro paese. Se in un anno in Gran Bretagna gli investimenti stranieri arrivano a 45 miliardi di euro, in Spagna 20, in Italia ci si ferma a 5. La nostra economia è strangolata non solo dai tassi fissati dalla Bce, ma da un cattivo costume, palesemente incostituzionale, che continua a vigere come se fosse ineluttabile, creando piccoli e grandi mostri giuridici o simil-giuridici. Come il rating di legalità cui le banche si attengono per erogare fiducia e finanza. Ma se poi si va a vedere chi e come compila questa “compliance” alla legalità, ci si ritrova nel paese assurdo dove lo Stato di diritto ha alzato bandiera bianca. Il giustizialismo non è solo ingiusto, è anche oneroso. Favorisce solo lo status quo, fornisce argomenti e strumenti per immobilizzare ogni risorsa non gradita, ogni novità imprevista. Carlo Nordio nei panni del commentatore si era fatto campione del garantismo più convinto e convincente, vorremmo che da ministro non si dimenticasse del suo passato. E magari con una semplice norma ordinaria ristabilisse la vigenza dell’articolo 27 della Costituzione. Il caso Luigi Spera e il deficit della giustizia di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 26 luglio 2024 Il carcere San Michele di Alessandria ha una sezione speciale definita Alta sicurezza 2, dove sono reclusi i detenuti condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. In questo reparto si trovano sette militanti delle Brigate Rosse e un anarchico; e da marzo scorso Luigi Spera, un vigile del fuoco siciliano di 43 anni accusato di aver partecipato a un’azione di natura terroristica. Vediamo i fatti. La storia risale al novembre del 2022 e ha a che fare con l’offensiva dell’esercito turco nei confronti delle comunità curde presenti nel nord della Siria e nel Kurdistan iracheno. Un’operazione militare iniziata anni fa e che ancora oggi viene condotta attraverso attacchi frequenti nelle zone lungo il confine nordorientale tra Siria e Turchia e una occupazione parziale dei territori curdi. In quegli stessi giorni del 2022, la redazione di Antudo, un sito di informazione indipendente siciliano, di ispirazione antimilitarista, riceve e pubblica un video che riprende un presidio di fronte alle porte dello stabilimento palermitano di Leonardo, tra le massime aziende militari europee, controllata per il 33 per cento dallo Stato italiano. L’obiettivo della manifestazione è sanzionare il principale fornitore di armamenti alla Turchia. Nei giorni successivi alla pubblicazione del video, la redazione di Antudo viene perquisita e vengono sequestrati alcuni dispositivi informatici. E un anno dopo, a marzo del 2024, tre attivisti del gruppo vengono raggiunti da misure cautelari: due obblighi di firma e una custodia in carcere. Quest’ultimo provvedimento è quello applicato a Luigi Spera, che dopo aver trascorso qualche tempo nel carcere Pagliarelli di Palermo si trova ora sottoposto al regime di Alta sicurezza nell’istituto di Alessandria. Le accuse sono assai pesanti: attentato per finalità terroristiche o di eversione; associazione con finalità di terrorismo; istigazione a delinquere. Per comprendere meglio l’entità della vicenda è sufficiente recuperare il video dell’azione dimostrativa. Si tratta di immagini sfocate che durano meno di un minuto. Mostrano cinque, sei persone sventolare due bandiere e lanciare un paio di oggetti nello spazio che si trova oltre il cancello d’ingresso della Leonardo. È sera, dentro e fuori l’azienda non c’è nessuno e non vengono riscontrati danni materiali significativi. Gli oggetti che determinerebbero la pericolosità e la gravità dell’azione sono due bottiglie di vetro dotate di uno stoppino infiammabile. In altre parole due bottiglie molotov. Nonostante il Gip abbia confermato l’imputabilità per i fatti contestati ha escluso l’aggravante della valenza terroristica, equiparando il reato a quello di incendio. Tuttavia, forse a causa di alcuni precedenti per reati minori, a Spera è stata comunque applicata la misura in carcere. Dopo il trasferimento del detenuto in Alta sicurezza, il tribunale di Palermo, nel corso dell’udienza del riesame, ha affermato nuovamente la natura terroristica dell’azione. Il prossimo passo spetta alla Cassazione, che a settembre dovrà pronunciarsi a proposito del ricorso presentato dall’avvocato difensore Giorgio Bisagna. Il 4 luglio scorso Marco Grimaldi, deputato di Alleanza Verdi Sinistra, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per verificare la congruità della detenzione di Spera in un territorio così lontano da quello di residenza; e per chiedere se si ritenga giustificata la reclusione in una sezione di Alta sicurezza tenuto conto della tipologia dei fatti attribuiti allo stesso Spera. Alcuni elementi confermano lo squilibrio che questa vicenda manifesta. Prima di tutto, come già detto, l’accusa abnorme rispetto all’evento in questione. Le storture del sistema penale e dell’amministrazione della giustizia, ancora una volta, sembrano riflettere un grave deficit: l’incapacità di utilizzare i dispositivi penali e i regimi detentivi in maniera equa, misurata e proporzionata. C’è da augurarsi che questa volta non si debba arrivare a una drammatizzazione di un fatto tutto sommato minore e che non si perpetui una condizione detentiva tanto inumana e afflittiva (due reclusi in una cella di meno di tre metri quadrati). Morte di un detenuto, la Cassazione condanna ministero della Giustizia e tre medici di Emanuela Foligno responsabilecivile.it, 26 luglio 2024 Condannati il Ministero della Giustizia e tutti e tre i medici che si sono occupati del detenuto, deceduto per embolizzazione trombotica sistemica cerebrale associata ad endocardite settica periprotesica. (Cassazione civile, sez. III, 04/07/2024 - ud. 17/06/2024, dep. 04/07/2024 - n.18354). Chiamato dinanzi il Tribunale di Bari il Ministero della Giustizia, nonché i Medici di guardia presso l’Istituto Penitenziario, chiedendo il risarcimento del danno, iure hereditatis e iure proprio, per la morte del recluso avvenuta il 27 gennaio 2001. Riassunto il giudizio al Tribunale di Roma, disposta CTU, con cui venne accertata la morte del detenuto per embolizzazione trombotica sistemica cerebrale associata ad endocardite settica periprotesica, essendo egli portatore di una protesi valvolare aortica dal 1985 posizionata a seguito di valvulopatia reumatica, il Giudice rilevava che la responsabilità andava attribuita al Ministero per le significative lacune dell’organizzazione della struttura penitenziaria, ma non ai Medici di turno e liquidava il danno in favore del coniuge nella misura di € 343.706,16 ed in favore di ciascuno dei figli nella misura di €331.430,93. La Corte di Roma (sent. 17 aprile 2023) condanna i tre Medici di guardia, in solido con il Ministero, al pagamento degli importi liquidati dal Tribunale. La decisione di Appello - I Giudici di Appello hanno osservato che nella CTU, eseguita anche sulla base delle risultanze del procedimento penale, era stato evidenziato che: “la persistenza del fenomeno flogistico cutaneo emerso a partire dal 30 settembre 2000, unitamente a febbre e faringite, alla luce della recidiva di fenomeni infettivi-infiammatori, avrebbero richiesto un maggior approfondimento diagnostico, come anche i molteplici episodi di cadute a terra per perdita di coscienza, tali da richiedere un approfondimento strumentale (ecocardiogramma); tale carenza non aveva permesso di evidenziare l’endocardite le cui complicazioni (embolizzazione settica) avevano comportato il decesso, invero evitabile “più probabile che non” con gli appropriati presidii diagnostici e terapeutici tempestivi.” Osservano, inoltre, con riferimento alla responsabilità del Ministero della Giustizia, che quanto motivato dal Tribunale sulla efficacia causale della condotta specificamente ascritta, costituente secondo il Tribunale un quadro operativo nel quale non era esigibile da parte dei Medici una condotta diversa da quella effettivamente dagli stessi tenuta, è errato. Il 9 gennaio e il 12 gennaio il dottor V., a fronte di specifici ed allarmanti sintomi presentati dal detenuto, aveva richiesto la visita specialistica cardiologica, che veniva effettuata, peraltro non in via di urgenza, il 15 gennaio 2001. Detta circostanza rende all’evidenza certa la piena conoscibilità della situazione clinica del detenuto, nonché la riconoscibilità, quanto meno a livello di dubbio, dei sintomi di una patologia cardiaca in atto, tale da richiedere l’intervento dello specialista. La CTU - Ciò posto, il Ministero non può andare esente da responsabilità stante le conclusioni del CTU secondo il quale “sussiste rapporto causale tra l’evento morte del detenuto ed il mancato inquadramento diagnostico-trattamentale della endocardite settica, esigibile anche in un regime di ricovero intramurario correttamente organizzato… ancorché non si possa negare l’opportunità dell’ospedalizzazione del detenuto al fine di ottimizzare terapie, controlli clinici, strumentali e laboratori mistici, necessari per il miglior trattamento possibile della endocardite settica”. Il CTU ha accertato che “in tale situazione, i tre medici che si sono susseguiti, avrebbero dovuto rilevare che non era stato dato eseguito quanto prescritto dalla direzione sanitaria della casa circondariale di Fo in data 27 dicembre 2000, ossia l’esecuzione di un ecocardiogramma Color Doppler + ECG dinamico sec. Holter, nonché un controllo settimanale di PT-PTIINR… Avrebbero dovuto porsi il dubbio diagnostico, a fronte di sintomi in parte equivoci, ma in parte specifici sulla natura dell’infezione batterica che determinava lo stato febbrile e la precordialgia e chiedere l’esecuzione degli accertamenti diagnostici non eseguiti, prima di orientarsi sulla diagnosi di patologia da raffreddamento o stagionale, ed escludere invece la possibilità che la patologia in atto fosse dovuta ad una evoluzione patologica derivante dalla valvola aortica meccanica di cui il detenuto era portatore… Non può ritenersi che il caso presentasse particolare difficoltà, atteso che, in un soggetto portatore di valvola aortica meccanica, i sintomi, per quanto equivoci, vanno prima di tutto valutati alla luce della suddetta situazione personale del paziente, in ossequio ad un criterio di normale prudenza, considerando anche l’esito letale che l’infezione per pericardica può comportare”. Quindi, sempre secondo i Giudici di appello, in presenza dell’evoluzione negativa delle condizioni generali del detenuto e accertata la mancata esecuzione degli accertamenti diagnostici che potevano evidenziare il sospetto di una infezione pericardica, era esigibile dai medici una diversa condotta, consistente nella urgente richiesta degli accertamenti diagnostici non eseguiti, da effettuarsi, ove non fosse possibile nella struttura carceraria, in ospedale. I Medici ricorrono in Cassazione, che respinge in toto. A fronte delle precise e circostanziate ragioni di responsabilità dei tre sanitari evidenziate dalla Corte territoriale, bacchettano gli Ermellini, non si comprende come il richiamo alle asserite deficienze organizzative della struttura penitenziaria possa deporre nel senso dell’interruzione del nesso eziologico sostenuta. Le più che esaustive, e corrette, omissioni portate alla luce dal Giudice di appello sono indipendenti dalle asserite carenze organizzative, essendo inerenti al contenuto della singola prestazione sanitaria. In ogni caso, la statuizione di responsabilità relativa al Ministero, costituente oltretutto giudicato nei confronti di quest’ultima per mancata impugnazione, dopo averne esclusa la responsabilità per l’asserita carenza nell’organizzazione sanitaria e per la negligente tenuta della cartella clinica, è stata la seguente: “il Ministero è chiamato a rispondere dell’evento lesivo per colpa professionale medica dei dottori che hanno avuto in cura il detenuto. nell’ultimo periodo in cui lo stesso è stato detenuto, compresi, dunque, il medico di guardia del Carcere e gli specialisti intervenuti”. La perizia nell’uso dei social non esclude la circonvenzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2024 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 30551 depositata oggi, bocciando l’argomento del ricorrente. La “frequentazione” tramite social network, e dunque la relativa perizia della persona offesa nell’uso della tecnologia, non costituisce una prova a difesa per il reato di circonvenzione di incapaci. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 30551 depositata oggi, bocciando l’argomento del ricorrente secondo cui “diversamente da quanto sarebbe stato ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia, il fatto che egli frequentasse la persona offesa tramite il social network Facebook, lungi dal potere indurlo a ritenere che la stessa versasse in una situazione di debolezza o di isolamento, lo poteva invece indurre a reputare che la donna (ndr) “non fosse affetta da alcun problema”, data la dimestichezza che ella dimostrava nell’uso del menzionato strumento tecnologico”. Confermata dunque la decisione di secondo grado secondo cui la dazione, senza alcuna causa o giustificazione, da parte della persona offesa in favore dell’imputato, degli assegni e dei vaglia postali si collocava in un periodo, “dal maggio al giugno 2020”, in cui la persona offesa si doveva ritenere senz’altro affetta da un generale decadimento cognitivo, come risultava dai ricoveri presso il reparto di psichiatria dell’ospedale di Montichiari e, dopo una settimana, presso l’ospedale “Fatebenefratelli” di Brescia. Accertamenti dai quali era emerso un disturbo del comportamento, segnatamente, “encefalopatia vascolare, in persona affetta da severa sindrome depressiva con alterazioni comportamentali”; “atrofia celebrare con ipoafflusso vascolare cronico”, con disturbo iniziale nella speditezza del giudizio; una severa sindrome depressiva, nonché una perdita della capacità di discernere il valore del denaro. La consapevolezza dell’imputato sullo stato di decadimento cognitivo e di fragilità della persona offesa invece emergeva dalle dichiarazioni del figlio, così come dalle conversazioni telefoniche ascoltate dall’altro figlio, in cui si consigliava la vittima a “non assumere le cure che le erano state prescritte in ospedale e di diffidare dei suoi”. La Seconda sezione penale ha infatti ribadito che ai fini della configurabilità del reato di circonvenzione di persone incapaci, di cui all’art. 643 cod. pen., sono necessarie queste condizioni: a) l’instaurazione di un rapporto squilibrato fra vittima e agente, in cui quest’ultimo abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima, che, in ragione di specifiche situazioni concrete (minore età, infermità o deficienza psichica), sia incapace di opporre alcuna resistenza per l’assenza o la diminuzione della capacità critica; b) l’induzione a compiere un atto che importi per il soggetto passivo o per altri qualsiasi effetto giuridico dannoso; c) l’abuso dello stato di vulnerabilità che si verifica quando l’agente, consapevole di detto stato, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il suo fine, ossia quello di procurare a sé o ad altri un profitto; d) l’oggettiva riconoscibilità della minorata capacità, in modo che chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti. La Corte di cassazione ha, poi, recentemente ribadito che il delitto non postula che la vittima versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente che sia affetta da infermità psichica o da deficienza psichica, ovvero da un’alterazione dello stato psichico che, sebbene meno grave dell’incapacità, risulti idoneo a porla in uno stato di minorata capacità intellettiva, volitiva o affettiva, che ne affievolisca le capacità critiche. La Suprema corte, infine, ha anche escluso la causa di non punibilità per particolare tenuità (art. 131-bis cod. pen.) “per un duplice ordine di ragioni”: a) per essere il comportamento abituale”; b) perché l’offesa non si poteva ritenere tenue. Firenze. “Sollicciano carcere fuorilegge” di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 26 luglio 2024 Tutti con Tuoni dopo l’ultimatum del Dap. A San Gimignano è un caso il pignoramento delle borse di studio a due detenuti. I vertici della giustizia toscana: subito interventi strutturali. Funaro: dal ministero zero fatti. Dopo l’ammenda comminata dal Dap alla direttrice di Sollicciano Antonella Tuoni, e i 90 giorni di tempo per “sanare” i problemi del carcere, dalla sindaca di Firenze Sara Funaro al presidente dell’Ordine degli avvocati Sergio Paparo, si è sollevata unanime un’ondata di solidarietà nei confronti della direttrice della casa circondariale. Il caso del degrado delle celle arriva al Consiglio superiore della magistratura dopo le parole del magistrato di sorveglianza sull’acqua calda che non sarebbe un diritto ma una “fornitura alberghiera”: il consigliere Ernesto Carbone ha chiesto di aprire una pratica a tutela dei diritti dei detenuti “contro provvedimenti illegittimi”. L’affaire Sollicciano finisce al Csm. Il consigliere Ernesto Carbone ha chiesto di aprire una pratica per tutelare i diritti fondamentali dei detenuti del carcere “contro provvedimenti illegittimi e discriminanti della magistratura di sorveglianza di Firenze”. Il riferimento è al magistrato che affermò che l’acqua calda non fosse un diritto essenziale garantito al detenuto ma “una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. La decisione è pendente in Appello, ma il Csm non ha perso tempo. “La giurisprudenza nazionale e della Corte Europea dei diritti dell’uomo - spiega Carbone - afferma che la mancanza di acqua calda integra una patente violazione dell’art. 3 Cedu, che proibisce trattamenti o pene disumani o degradanti”. Ma la questione del penitenziario fiorentino, tornato sotto i riflettori con la protesta dei detenuti per le condizioni inumane e degradanti dopo il suicidio di un recluso di 20 anni, è diventa anche un caso politico. Il giorno dopo la sanzione e l’ultimatum del Dipartimento di amministrazione penitenziaria alla direttrice di Sollicciano, tutti fanno quadrato intorno ad Antonella Tuoni. A partire dalla sindaca Sara Funaro: “Ringrazio la direttrice per il difficile lavoro che sta portando avanti nel carcere di Sollicciano, dove c’è una situazione di emergenza e criticità che segnaliamo da anni”. Poi va subito al nocciolo: “Il carcere andrebbe demolito e ricostruito completamente. È necessario un intervento strutturale da parte del ministero”. Ma finora “tante parole e zero fatti. È una vergogna ed è chiaro che per il governo la riqualificazione di Sollicciano non è una priorità. È grave che sia stato respinto l’emendamento presentato dai parlamentari eletti in Toscana per mettere 20 milioni in più per gli interventi nel carcere. Serve un istituto che permetta l’attuazione dei principi costituzionali”. In nome della Costituzione chiede “risorse e finanziamenti dedicati” l’assessore al welfare Nicola Paulesu, “perché il carcere possa svolgere anche la sua funzione rieducativa e riabilitativa e dare una prospettiva di vita a chi ha la volontà di rimettersi in gioco”. Su Sollicciano e sul sistema carcerario punta il dito anche il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Firenze Sergio Paparo, che ieri ha chiamato a raccolta all’auditorium Adone Zoli colleghi e vertici degli uffici giudiziari del distretto della Toscana. “Non si può addebitare la responsabilità al direttore dell’istituto penitenziario rispetto a criticità che sono ha esordito in una sala gremita e attenta. “Quando c’è un’emergenza bisogna intervenire sull’emergenza - ha proseguito il presidente - l’emergenza oggi sono il sovraffollamento e le condizioni disastrose. Ci sono misure e proposte in Parlamento che però non hanno trovato ingresso nel decreto legge Nordio. Bisogna far sentire la nostra voce contro un sistema carcerario non più tollerabile. Per questo occorre sollecitare Governo e Parlamento ad azioni concrete”. Trova “inaccettabile che la questione carceraria venga considerata solo ai fini di propaganda politica”. Il riferimento è esplicito al sottosegretario Andrea Del Mastro “che ha proposto di risolvere il sovraffollamento rispedendo i detenuti nei Paesi di origine”. Bisogna agire subito: tutti d’accordo. A partire dal presidente della Corte d’appello Alessandro Nencini: “Non è buonismo ma avere condizioni umane di vita nel carcere vuol dire restituire, al momento dell’uscita del carcerato, una persona forse migliore”. Anche per il procuratore generale Ettore Squillace Greco la questione va risolta “con interventi concreti e immediati, hic et nunc, perché mentre noi parliamo un altro disgraziato si toglie la vita. Le carceri italiane ospitano 10.200 detenuti in più rispetto a quelli che potrebbero contenere”. “Il problema è che l’Italia è fuori legge: non rispetta gli obblighi internazionali fondamentali e la dignità umana”, aggiunge il procuratore capo di Firenze Filippo Spezia. Firenze. Carcere, situazione esplosiva e indegna di un Paese civile di Emiliano Benedetti firenzetoday.it, 26 luglio 2024 “Sistema che aiuta a delinquere, Italia è fuorilegge”. Appello congiunto di avvocati, procura, tribunale: “Intervenire immediatamente, rischio nuove rivolte”. Dure critiche al governo Meloni. Una situazione esplosiva, indegna di un Paese civile e fuori da ciò che prescrive il dettato costituzionale. È la realtà di Sollicciano e di tante altre carceri italiane. Dopo l’ultimo rapporto di Antigone, presentato ieri e che descrive realtà detentive in condizioni disumane per decine di migliaia di detenuti nelle galere italiche, questa mattina alle istituzioni, ed in primo luogo al governo, da Firenze è arrivato un appello ad intervenire subito da parte di avvocati, procura, tribunale. L’occasione era, al Palazzo di Giustizia, l’incontro promosso dall’ordine degli avvocati, alla presenza dei vertici del tribunale di Firenze e della procura del capoluogo. Il tutto, venti giorni dopo l’ultimo suicidio nel carcere cittadino: Fedi, 20 anni, arrivato poco più che bambino in Italia come minore non accompagnato, finito prima all’istituto penale minorile e poi, per scontare la somma di micro reati, al carcere dei grandi, dove non è sopravvissuto. Quando hanno aperto la porta della sua cella, il 4 luglio scorso, era appeso ad una corda. Un’altra morte di carcere. “Sollicciano andrebbe demolito e ricostruito”, esordisce il presidente dell’ordine degli avvocati Sergio Paparo. “Da Antigone arrivano dati impressionanti, incompatibili con un Paese civile e con la nostra Costituzione, che assegna alla detenzione e al carcere un compito di rieducazione, per un reinserimento nella società”, prosegue. Parole durissime quelle sullo stato del sistema carcerario italiano. “Un sistema che - dice Paparo - aiuta a delinquere”. Parole dure, come quelle, altrettanto critiche, nei confronti di esponenti del governo Meloni, pur solo accennate ma fatte ampiamente intuire, per rispetto del ruolo istituzionale ricoperto. Più volte nel corso dell’incontro sono state evocate, da differenti oratori, le parole del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro in un’intervista a Repubblica, sia sulle madri detenute con figli piccoli (“il rinvio della pena per donne incinte o con figli piccoli non è più obbligatorio”, parole che hanno indignato chi si batte per non vedere bimbi di pochi mesi reclusi dietro le sbarre assieme alle proprie madri), che sui fondi da trovare “rimandando a casa loro” i migranti detenuti. “Non posso commentare le parole di Delmastro per il ruolo istituzionale che ricopro. Affermare che la soluzione all’emergenza si risolve rimandando i migranti al proprio Paese - e come? Scaricandoli in mare? In aereo? - vuol dire non avere capito nulla e utilizzare la giustizia e la questione carcere per propaganda politica”, le parole di Paparo. Nelle scorse ore, peraltro, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che dipende dal governo, ha disposto sanzioni, per violazioni sulle norme relative a igiene e sicurezza, nei confronti della direttrice del carcere di Sollicciano, Antonella Tuoni. Una situazione che va avanti da anni e certamente ereditata dal passato. “Assistiamo ad uno scaricabarile”, stigmatizza Paparo. Solidarietà alla direttrice del carcere è arrivata peraltro anche da Funaro. “La ringrazio per il difficile lavoro che porta avanti nel carcere, dove c’è una situazione di emergenza e criticità che segnaliamo da anni. Tuoni ha il nostro supporto e la nostra stima - il messaggio della sindaca -. Nel penitenziario ci sono problemi che hanno bisogno di interventi importanti di natura strutturale che possono essere realizzati solo attraverso consistenti finanziamenti del governo”. Ovviamente, non si può non rimarcare che l’emergenza carceri è certo precedente, anche se la situazione pare ancora peggiorata, al settembre 2022, quando si è insediata Giorgia Meloni. “Il carcere andrebbe demolito e ricostruito completamente, non è un luogo sano e dignitoso. Non lo è per i detenuti, non lo è per il personale della polizia penitenziaria che lavora in condizioni difficili e non lo è per tutte le realtà di volontariato che quotidianamente vi svolgono la loro attività. Firenze non può tollerare una struttura come Sollicciano, serve un istituto che permetta l’attuazione dei principi costituzionali”, aggiunge Funaro. Tornando all’incontro di questa mattina, dure parole anche da Alessandro Nencini, presidente della Corte d’Appello di Firenze. “Siamo di fronte ad un vero e proprio dramma”, il suo incipit. “C’è chi si stupisce che i giudici si interessino al carcere”, cioè al luogo dove dopo una sentenza degli stessi giudici può finire una persona, “ma questa non è una novità. Pensiamo al caso del giudice d’appello che si occupa di mandato di arresto europeo e deve valutare, tra le tante cose, le condizioni carcerarie nel Paese in cui sarà trasferita la persona del caso, se rispondono a standard europei oppure no”. L’Italia ne sa qualcosa, visto che è già stata condannata dalla Cedu, Corte europea dei diritti dell’uomo, per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di detenuti. Tra le criticità croniche delle carceri, di Sollicciano come tante altre, in primis il sovraffollamento, ma anche l’impossibilità di svolgere attività lavorative e formative, cosa che porta alla recidiva appena fuori dagli istituti penitenziari, fino alle drammatiche carenze igienico sanitarie e alla mancanza di cura per i detenuti che soffrono di patologie psichiatriche, detenuti che sono ormai una grande parte della popolazione carceraria e che sono spesso lasciati in condizioni di totale abbandono. “Nessuno può pensare che oggi qualcuno esca dal carcere in condizioni migliori di come ne sia entrato. Il sistema carcerario è di fatto criminogeno, produce crimine e problemi per il corpo sociale”, le parole dure di Nencini, che sottolinea come “uscendo dall’ideologia sarebbe interesse di tutti i cittadini avere un sistema carcerario che funzioni”. Anche perché, come dimostrano tutte le statistiche - e come richiederebbe la Costituzione repubblicana - un sistema detentivo che sappia garantire formazione e rieducazione abbatte drasticamente il tasso di recidiva. Parla di vero e proprio “scoramento” di fronte alla situazione italiana il procuratore generale presso la Corte d’Appello, Ettore Squillace Greco. “Una situazione che il presidente Mattarella ha definito indecorosa”, ricorda Greco, invocando ad uscire da una “visione carcerocentrica” e da “logiche securitarie per le quali carcere e manette sono l’unica soluzione alla devianza”. Da più parti arrivano ovviamente gli appelli ad incentivare le misure alternative alla detenzioni, ma in Italia manca tutto, a partire dalla volontà politica di farlo fino, molto più materialmente, ai braccialetti elettronici. Anche il procuratore capo Filippo Spiezia chiede di “superare la visione carcerocentrica” e usa parole, a proposito di legalità, che fanno riflettere. “Dobbiamo denunciare la situazione” del sistema carcerario perché, dice “l’Italia si è posta in questo momento al di fuori degli obblighi internazionali fondamentali, siamo fuorilegge”. Il presidente della sezione gip Angelo Antonio Pezzuti ha ricordato come in carcere “manchi ogni tutela per chi soffre di problemi psichiatrici” e come la decisione del governo Meloni, nel 2023, di aumentare da 4 a 5 anni il limite massimo di reclusione in caso di spaccio di lieve entità “abbia riempito le carceri di piccoli spacciatori”. Il presidente del tribunale di sorveglianza Marcello Bortolato ha posto l’attenzione tra le altre cose sulla drammatica carenza di organico, mentre la presidente del tribunale per i minori Silvia Chiarantini ha ricordato come tanti minori che finiscono in custodia abbiano alle spalle situazioni drammatiche, a livello familiare, sociale, economico. Roberta Pieri, procuratrice del tribunale per i minori, ha ricordato come dolo dal 2018 esista finalmente un ordinamento penitenziario per i minorenni e ha sottolineato ancora una volta l’importanza della rieducazione, ancora di più nel caso dei minorenni, che hanno personalità e carattere ancora in formazione. In conclusione Nencini ha usato parole ancora più nette. Senza interventi urgenti, ha detto, il rischio di avere presto “nuove rivolte nelle carceri”, è molto concreto, perché “siamo sull’orlo del baratro”. Firenze. Avvocati e magistrati concordi: “Amnistia e indulto, contro il sovraffollamento” di Antonino Palumbo La Repubblica, 26 luglio 2024 La direttrice di Sollicciano, “multata” dal ministero per le condizioni in cui versa l’istituto, riceve la solidarietà di Funaro. Amnistie e indulti per alleggerire il sovraffollamento delle carceri. Ma anche investimenti economici per garantire personale qualificato e strumenti tecnologici a supporto di pene alternative, per dare respiro al sistema penitenziario in crisi. È l’appello lanciato al governo e al parlamento da avvocati e magistrati fiorentini, che riflettendo sulla drammatica situazione nelle carceri ribadiscono la necessità di interventi urgenti. Sull’opportunità di considerare amnistie e indulti “che non sono atti di buonismo” si è espresso Sergio Paparo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Firenze: critico verso il decreto Nordio e i problemi strutturali del carcere di Sollicciano: “andrebbe demolito e ricostruito”. Anche per Ettore Squillace Greco, procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze, è più auspicabile ricostruire più che tamponare i problemi strutturali. Oltre a questi però, lo “scoramento” deriva dalla mancanza di medici e operatori sociali negli istituti penitenziari. “Al 30 giugno, nelle carceri italiane c’erano 10mila e 500 persone in più rispetto a quelle che è possibile accogliere. Servono interventi immediati” ha detto Squillace Greco. D’accordo su provvedimenti più incisivi, il presidente del Tribunale di sorveglianza, Marcello Bortolato: “È successo già nel 2013, quando ci fu la fuoriuscita di otto-nove mila detenuti, tramite riduzione di pena per i meritevoli”. Sull’urgenza dei provvedimenti concorda Alessandro Nencini, presidente della Corte d’Appello: “Siamo sull’orlo di un baratro. Ma servono investimenti: le riforme a costo zero sono una favoletta. E il problema non va affrontato espellendo i detenuti stranieri”. Da più parti è stata espressa piena solidarietà ad Antonella Tuoni, direttrice del carcere di Sollicciano, che ha ricevuto dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) ammende (fino a un massimo di 18.225 euro) e una serie di prescrizioni su inosservanze relative a igiene e sicurezza sul lavoro, da sanare entro 90 giorni. Si va dalla necessità di bonificare gli ambienti (anche da tracce di sangue) e di eliminare insetti, cimici e blatte alla “agibilità dei corridoi, delle camere di pernottamento, dei locali comuni e del locale destinato a colloqui telefonici, anneriti a seguito di incendi”. E poi il ripristino dell’impianto elettrico segnato dalle infiltrazioni, l’installazione di impianti di aerazione e l’incremento del numero degli addetti al primo soccorso e addetti antincendio per ogni turno di servizio. Anche la sindaca di Firenze, Sara Funaro, si schiera dalla parte di Tuoni (“La ringrazio per il difficile lavoro che sta portando avanti, ha il nostro supporto e la nostra stima”) e richiama alle responsabilità il governo che lascia Sollicciano con pochi fondi. E a proposito di fondi il deputato dem Federico Gianassi attacca: “È stato respinto il nostro emendamento per mettere 20 milioni in più nel Decreto Legge Infrastrutture”. Treviso. Il penitenziario minorile visto da dentro, dove la doccia si fa nella tazza alla turca di Serenella Bettin Il Foglio, 26 luglio 2024 I detenuti dell’istituto veneto sono circa il doppio di quelli che la struttura può ospitare e vivono tra celle sovraffollate, materassi di fortuna e spazio insufficiente. Non passa l’aria come non passa il tempo, dentro al carcere minorile di Treviso. Il passare delle ore, dei minuti, dei secondi è scandito dal tonfo secco di quelle cancellate che sbattono, si aprono, si chiudono, si riaprono e si chiudono di nuovo. “Apri”. “Chiudi”. “Chiudi”. “Apri”, sono le parole di Giacomo, bimbo di due anni che vive in carcere con la madre. Divenute tormentone litanico dell’estate a Rebibbia. Qui non siamo a Rebibbia. Ma la situazione è pressoché drammatica. “La stanza 5 è già al massimo della capienza”, c’è scritto in una lettera che accompagna l’ingresso di un nuovo ragazzo. Questo comporta il “dover aggregare un ulteriore materasso di emergenza”. “Capoposto! - protestano i detenuti - non siamo animali che dobbiamo dormire in questo stato”. Una struttura quella di Treviso, cinta da enormi e invalicabili mura. Sopra le mura, le torri di guardia. E sotto le torri di guardia, le recinzioni, il filo spinato. La porta a vetri conduce alla sezione per i minori. A destra e a sinistra ci sono le stanze di “pernottamento”. Le brande appoggiate alle pareti, i materassi accatastati per terra che si infilano tra i “letti”. Chi non ci sta, dorme sul pavimento. Stanze per tre persone, dove dentro sono in sei. Quando scende la notte, li vedi rannicchiati, rattrappiti, le teste che spuntano da sotto i letti di chi ce l’ha fatta ad accaparrarsi una branda. “Qui c’è la legge di chi arriva prima, e di chi è dentro da più tempo”, ci dicono. Una struttura questa pensata per 12 persone, ma ora sono 21. Un numero che oscilla, a seconda degli ingressi, arrivi, partenze, come un tabellone in stazione che aggiorna i binari. Fino all’altro giorno erano in 24. Scesi a 23, 21, poi tornati a 22. “Un detenuto è andato via - ci dice un agente di polizia penitenziaria - ma domattina ne arriva un altro, scendiamo di uno per 24 ore, poi torniamo tale e quale. Siamo sempre in ansia”. Qui c’è anche il ragazzo che il 28 giugno dell’anno scorso, nel quartiere di Primavalle a Roma, aveva ammazzato Michelle Causo, e poi l’aveva chiusa in un sacco nero e lasciata dentro un carrello della spesa. Ora gli hanno dato vent’anni di reclusione. Ed è lui che qualche settimana fa è rimasto al centro di una polemica perché dal carcere avrebbe usato i social. “In queste condizioni cosa vuoi riformare qui dentro?”, sbotta un agente. Per ogni detenuto ci vogliono tot poliziotti, ma, “la pianta organica di 38 unità di polizia penitenziaria è studiata per una capienza di 12 detenuti”, aveva fatto sapere il sindacato autonomo del Sappe. “Un numero così alto di detenuti per l’istituto potrebbe causare, in una rivolta, un’evasione di massa - continua - siamo preoccupati che da qui a breve possa riaccadere quanto avveratosi nell’aprile 2022, ma con conseguenze ben peggiori”. Quell’anno, qui, ci fu una rivolta: i ragazzi appiccarono il fuoco, incendiarono i materassi, misero a soqquadro tutto. Alcuni agenti furono sequestrati. Dalle immagini dell’epoca, girate da alcuni residenti della zona - qui attorno è pieno di case e il carcere se ne sta qui incastonato alle porte della città murata - si vedono le fiamme salire fino a su sulle finestre e il primo piano completamento coperto di fumo. “Non è gestibile la situazione qui dentro - dice il poliziotto - dormire su materassi e lavarsi sopra le turche dove defecano”. Prego? “Sì, guarda”. In ogni cella, c’è uno stanzino dove fare i bisogni. Un buco di un metro, dove i detenuti si fanno anche la doccia. A terra c’è una turca grigia di metallo, e all’estremità della turca c’è attaccata una grata. Se prendi la grata e la posizioni sopra la turca, quel water a terra diventa una doccia, con il sifone attaccato alla parete per lavarsi. Era già stata l’associazione Antigone, che si batte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, a denunciare la situazione. “I bagni - si legge in una relazione - risultano essere inadeguati: si nota qui la presenza delle turche, le quali sono dotate di una griglia abbassabile per poter consentire le docce. La sovrapposizione tra la doccia e la turca è un aspetto critico: solleva degli interrogativi sia rispetto alle condizioni igienico sanitarie, che alla gestione dei turni tra i detenuti per quanto riguarda l’uso del bagno”. Infatti, qualche settimana fa, ci raccontano, un ragazzo, non riuscendo a trattenere i proprio bisogni, trovando il bagno occupato, se l’è fatta addosso. L’afa poi, qui dentro, non consente di respirare. Ci sono dei ventilatori, nuovi, ma la Pianura Padana d’estate raggiunge picchi di calore e umidità notevoli. Il Garante dei diritti della Persona del Veneto auspica un “trasferimento del nuovo Ipm - istituto penitenziario minorile - a Rovigo”. Si chiudono i cancelli. Quello scampanellio di chiavi che apre e chiude le celle fa trasalire. Non circola il vento qui dentro. Fuori, invece, sventolano due bandiere: quella italiana e quella dell’Europa. San Gimignano (Si). L’Agenzia delle Entrate pignora le borse di studio dei detenuti di Matteo Lignelli La Repubblica, 26 luglio 2024 La rabbia del Garante e dei professori. Sono state stanziate dalla Regione per i meritevoli e “requisite” agli studenti per recuperare i debiti delle spese con la giustizia. Le borse di studio stanziate dalla Regione Toscana non finiscono ai detenuti studenti universitari, cui sarebbero destinate, ma all’Agenzia delle Entrate che le pignora per il recupero delle spese di giustizia. È quanto accaduto a due reclusi del carcere di San Gimignano. L’ultimo caso si è verificato a giugno, portato a galla da alcuni docenti del Polo Universitario della Toscana, ma né loro né il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani escludono che ci siano altre situazioni simili mai emerse. “Uno studente detenuto nel carcere di San Gimignano ci ha riferito che, in data 7 giugno 2024, l’Agenzia delle Entrate gli ha notificato un “atto di pignoramento dei crediti verso terzi” con mandato per l’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio Universitario di pagare direttamente all’Agenzia delle Entrate tutte le somme della borsa di studio”, denunciano in una lettera inviata alla Regione i quattro professori delle università toscane. Il motivo? Recuperare i debiti dei detenuti relativi alle spese di giustizia, spese che lo Stato impone a chi viene condannato. Gli stessi docenti raccontano di un episodio analogo avvenuto un anno fa e avvertono riguardo al rischio che diventi “una prassi generalizzata, vanificando, di fatto, i considerevoli sforzi che la Regione Toscana compie per rendere effettivo il diritto allo studio delle persone detenute”. Anche per il garante regionale alle carceri, Giuseppe Fanfani, si tratta “di una partita di giro di dubbia legittimità costituzionale”. I docenti delle università toscane citano l’articolo 34 della Costituzione, per il quale gli studenti “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” hanno diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi. Un diritto reso effettivo anche grazie alle borse di studio. In questo caso, proseguono, “ci troviamo davanti al singolare paradosso per cui mentre un ente, la Regione, si attiva per la realizzazione del diritto, un altro ente, lo Stato, si attiva per impedirlo tramite il pignoramento della borsa di studio”. Trattandosi di un finanziamento “strumentale all’esercizio di un diritto fondamentale” come quello allo studio, la borsa non può essere considerata un credito qualunque. Ecco perché il garante toscano Giuseppe Fanfani ha immediatamente spedito una lettera ai ministri Carlo Nordio e Giancarlo Giorgetti (Giustizia ed Economia), al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, e agli enti locali. La richiesta è di rinunciare “immediatamente” al pignoramento. “La questione pare tanto paradossale quanto ingiusta e socialmente inammissibile, oltre che contraria alla Costituzione e ad ogni buon senso” commenta Fanfani. “Ho scritto alle massime realtà istituzionali affinché pongano rimedio a una prassi così insensata”. Reggio Calabria. Accordo per la tutela dei minori e il supporto alle famiglie in difficoltà calabriareportage.it, 26 luglio 2024 Alleanza tra Tribunale per i minorenni, Save the Children e Agape. Il grido di sofferenza di tantissimi minori e delle loro famiglie, che la cronaca periodicamente fa emergere in modo allarmante nel nostro territorio, chiama in causa tutta la comunità e richiede una maggiore assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni e delle associazioni. Con questo spirito il Presidente del Tribunale per i minorenni Marcello D’Amico ha accolto la disponibilità di Save The Children e del centro comunitario Agape, di rinnovare un accordo di collaborazione che ha dato importanti risultati negli anni scorsi e che si ora si prefigge di attivare ulteriori azioni concrete a tutela dei diritti dei minori e delle famiglie in difficoltà. Save the Children, l’Organizzazione che da oltre cento anni lotta per salvare i minori a rischio e garantire loro un futuro, e Agape, con consolidata esperienza nell’ambito minorile, vogliono essere una risorsa per il Tribunale per i minorenni che continua ad essere un presidio fondamentale per la tutela degli interessi dei minori. Il nuovo protocollo - che è stato curato dal giudice onorario Giuseppe Marino e alla cui ratifica erano presenti il magistrato minorile Paolo Ramondino, la rappresentante regionale dei programmi di Save the Children Carla Sorgiovanni e la volontaria avvocata Elisabetta Martelli di Agape che curerà con il Giudice onorario Giuseppe Marino il servizio di ascolto e coordinamento dell’intesa.mLe collaborazioni previste sono diverse; la realizzazione, a cura di Save the Children e dei propri partner, nei territori di San luca e Locri, del progetto Buon Inizio, crescere in una comunità educante che si prende cura, già finanziato dall’impresa sociale Con I Bambini e rivolto alle famiglie, con la partecipazione a livello consultivo del Tribunale per i Minorenni, la realizzazione di momenti formativi e/o di approfondimento sulla protezione e ascolto dei Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA) rivolti al personale del TM e a tutti gli attori - istituzionali e non - che a vario titolo si occupano della protezione dei minori migranti e operano nel territorio di competenza del Tribunale. Inoltre, l’accordo include la realizzazione di momenti formativi e/o di approfondimento sulla legislazione in materia di responsabilità genitoriale e sulla valutazione della capacità genitoriale rivolti agli operatori dei progetti socio-educativi che Save the Children ed Agape promuovono sul territorio ed ai rappresentanti dei servizi sanitari servizi sanitari, sociali e scolastici. Il Centro Comunitario Agape garantirà, avvalendosi di volontari qualificati, l’apertura di un punto di ascolto c/o il Tribunale per i Minorenni per la consulenza alle persone in difficoltà ed ai cittadini che hanno esigenza di rivolgersi al Tribunale per i Minorenni, lo stesso servizio sarà svolto presso la sede del Centro Comunitario AGAPE i e sarà, inoltre, istituito un servizio telefonico attraverso il quale potranno essere raccolte le richieste di assistenza e di aiuto per le famiglie, gli insegnanti, le associazioni impegnate nella tutela dei minori. Verranno garantiti, su richiesta delle scuole interessate, incontri formativi e di consulenza con gli insegnanti e le famiglie c/o i presidi scolastici, e si collaborerà all’esecuzione dei provvedimenti adottati dal TM a sostegno dei minori appartenenti a nuclei familiari in difficoltà Tra questi anche il consultorio per adolescenti spazio Zeta promosso all’interno del progetto Orientamento al futuro, lo spazio genitori ed un servizio di orientamento legale a cura degli avvocati volontari della Marianella Garcia. Secondo le prescrizioni dell’autorità giudiziaria minorile in sinergia con i Giudici Togati, Onorari e con i curatori, il Centro Comunitario Agape collaborerà con proprio personale qualificato al monitoraggio dei minori del distretto allontanati dalla propria famiglia d’origine mettendo a disposizione risorse e servizi, curerà infine uno sportello informativo sull’affido etero familiare e iniziative di sensibilizzazione e formazione delle famiglie interessate d’intesa con il TM. Il protocollo sarà operativo dal mese di settembre ed è previsto un evento formativo di presentazione e di condivisione con i soggetti istituzionali, i servizi e le associazioni impegnati in servizi per minori e famiglie. Torino. Volontariato, un salvagente dietro le sbarre di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 26 luglio 2024 Sovraffollamento (61.480 ristretti per una capienza di 51234 posti), strutture obsolete, un numero di suicidi (ad oggi 64 di cui 6 agenti penitenziari e 580 tentativi tra i ristretti) che mai si era registrato negli anni passati nello stesso periodo, tanto da far alzare la voce al Presidente Mattarella “fermate questo stillicidio!”. E poi carenza di personale (che sfiora il 50%) fra agenti penitenziari, educatori, insegnanti, medici, psicologi, infermieri e personale amministrativo. È la drammatica situazione dei 192 istituti penitenziari della Penisola - tra cui la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” - che secondo il 20° Rapporto semestrale sullo stato delle patrie galere a cura dell’Associazione Antigone, presentato lo scorso 23 luglio, non migliorerà con il recente decreto legge del Governo sulle carceri perché - tra l’altro - complica le procedure di liberazione anticipata anziché “alleggerire” le celle. Non stanno meglio gli Istituti penali minorili che, in seguito al decreto Caivano, hanno registrato un incremento di ingressi: 555 ragazzi per 541 posti contro i 406 nel giugno 2023. Tra le risorse indispensabili per rendere la vita dietro le sbarre più “umana” e in sintonia con l’art.27 della Costituzione (le pene devono “tendere alla rieducazione del condannato”) c’è il volontariato che a Torino ha una tradizione secolare sulle orme dei santi sociali. Come don Cafasso, confessore dei condannati a morte e patrono dei detenuti, don Bosco che passava ore con i ragazzi “discoli e pericolanti” della “Generala” (oggi l’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti”) o la marchesa Giulia di Barolo che, nel 1821, presentò al Governo una relazione sulla disumana situazione delle carceri cittadine, contribuendo con proposte concrete alla realizzazione della prima vera riforma carceraria e fondò una “casa di accoglienza” per le donne uscite dalle celle. E iniziative come la falegnameria “Daccapo” promossa dalla Caritas, che raccontiamo nella rubrica “La Voce dentro” che il nostro giornale dedica ai temi carcerari, è uno dei tanti esempi di come il volontariato contribuisca a ridurre il pregiudizio e la stigmatizzazione associata alle persone ristrette. I volontari, interagendo con i reclusi, possono portare alla luce la loro umanità tormentata, promuovendo una maggiore comprensione nella società. “Il volontariato in carcere può favorire la crescita personale e professionale dei detenuti, grazie ad attività formative, offrendo sostegno morale ai ristretti, contribuendo al loro reinserimento sociale oppure organizzando attività ricreative, di inserimento lavorativo e anche di volontariato” spiega Wally Falchi, responsabile del Centro d’Ascolto “Le Due Tuniche” della Caritas diocesana che dagli anni ‘80 è punto di riferimento per chi desidera donare un po’ di tempo dietro le sbarre. “L’ascolto è il nostro compito primario: essere volontario richiede impegno e attenzione. Significa aiutare senza chiedere niente in cambio, ma è anche un momento di confronto con noi stessi. I programmi di volontariato possono aiutare i detenuti a prepararsi per il loro ritorno nella società, offrendo strumenti e risorse che facilitano il reinserimento e riducono il rischio di recidiva. Molte sono le associazioni in carcere che con i cappellani svolgono servizio quotidianamente, cercando di portare una goccia di speranza”. Il volontariato in carcere non solo sostiene i detenuti nel loro percorso di riabilitazione, ma rappresenta anche un’opportunità di crescita e riflessione per la comunità. Toglie il focus dalla punizione e lo sposta verso la comprensione, la riabilitazione e la possibilità di un futuro migliore per tutti, evidenzia Wally Falchi che aggiunge “come il volontariato carcerario sia soprattutto rivolto all’accompagnamento delle persone detenute durante il periodo di espiazione della pena, l’affiancamento nei permessi premio, i contatti con le famiglie. Nel duro periodo della detenzione, senza bacchetta magica ma con l’aiuto della Provvidenza, tra difficili soluzioni e scarse risorse, al centro dell’impegno del volontario c’è sempre la relazione. Spesso non abbiamo soluzioni e risorse ma la relazione, l’ascolto, la condivisione di paure, dolori e sofferenze sono il senso della nostra presenza. Anni fa, all’inizio del servizio del nostro Centro d’ascolto, in un colloquio con un detenuto segnalato dalla sua educatrice per un eventuale progetto di reinserimento, al termine mi disse: ‘grazie per essere venuta, anche se non riuscirà ad aiutarmi io sono contento. Da tre anni non vedevo nessuno dal mondo esterno, i miei parenti vivono lontano e sono poveri, non ho nessuno. Grazie per avermi incontrato e ascoltato’. Mi ha lasciata senza parole: ho ancora negli occhi quell’uomo solo, che aveva perso la speranza e mi guardava con immensa tristezza”. Ma le Caritas diocesane, grazie ai volontari “dentro” e sul territorio (soprattutto tramite i Centri di ascolto), si prendono carico di percorsi che non si esauriscono fra le mura del penitenziario. Come la falegnameria “Daccapo”, sono tanti i progetti di avviamento al lavoro sia all’interno che all’esterno. “È sempre più elevato” prosegue Wally Falchi “il numero di donne e uomini senza dimora che, quando escono dal carcere a fine pena non hanno sostegno e affetti, elementi necessari per ripartire, voltare pagina, iniziare una nuova vita. L’uscita con una rete di legami già avviati dietro le sbarre, magari con un lavoro, permette di riacquisire dignità. Per questo è fondamentale - a beneficio di tutta la società - sensibilizzare aziende disponibili a inserire nel proprio organico anche queste persone, dare loro una nuova possibilità di riscatto, per loro e per la propria famiglia”. La Caritas di Torino, mediante il Centro d’ascolto, si fa carico di alcuni detenuti proprio grazie al servizio dei volontari: 8 operano in carcere e 60 si occupano “fuori” di inserimenti, messa alla prova, lavori di pubblica utilità volontariato restitutivo. “I due protocolli d’intesa firmati con l’Istituto penitenziario e con Atc (Agenzia territoriale per la casa) prevedono principalmente attività di ascolto e interventi di supporto per inserimenti lavorativi, volontariato restitutivo, affiancamento e sostegno di persone sole per adempiere al regolamento regionale degli assegnatari di case popolari e non perdere l’abitazione durante la detenzione e inserimenti nella nostra struttura di accoglienza ‘Casa Silvana’ per permessi premio” prosegue Falchi. E poi si è scelto di proseguire il servizio attraverso convenzioni con il Tribunale e l’Ufficio Esecuzione Penale esterna di Torino Cuneo e Asti (Uepe) per inserire i reclusi in lavori di pubblica utilità o a misure di messa alla prova e di volontariato restitutivo. “Il volontariato restitutivo” conclude Wally Falchi “è uno strumento importante dove le nostre comunità, parrocchie, enti, centri d’ascolto potrebbero essere coinvolti: sono numerosi gli ex detenuti che desiderano davvero cambiare vita e restituire ciò che hanno sottratto: ‘Voglio pagare la mia pena ma uscire migliore e non peggiore, ritornare alla società e non odiare la società’, mi ha detto uno di loro. Siamo consapevoli che i nostri interventi sono una goccia nel mare ma una goccia può recare sollievo, ridare coraggio e aprire una porta per andare avanti. Papa Francesco, nel 2016, anno della Misericordia, citando il Vangelo di Matteo ha ricordato così i fratelli in carcere: ‘Non possono esserci condanne senza finestre di speranza che rappresentino una via d’uscita per una vita migliore”. Torino. Detenuto? Con “Daccapo” volto pagina La Voce e il Tempo, 26 luglio 2024 La carità è un modo di guardare alla vita ed il servizio un modo di vivere il rapporto con gli altri, specie quando sono segnati dalla sofferenza. Questo lo spirito con cui mercoledì 17 luglio, presso “Daccapo”, a Torino in via San Massimo 31, laboratorio di falegnameria promosso dalla Caritas diocesana, si sono trovati il Clan del Gruppo scout Agesci Chieri 1 e alcuni detenuti della Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”. Nel laboratorio i ristretti si impegnano a realizzare oggetti con materiale di recupero, legno, ferro, carta riciclata: animali, ferma libri, scaffali, banconi, sedie e divani esposti nel locale ed è attivo anche un corso di serigrafia su legno e stoffa. Alcuni manufatti vengono utilizzati nei social housing della Caritas o donati a famiglie in difficoltà a cui è stata assegnata una casa popolare da arredare. Il percorso, personalizzato per ciascun detenuto, permette di mettere a frutto potenzialità e creatività. E sono loro i primi a stupirsi degli oggetti realizzati richiesti anche come regali artigianali. Il lavoro, sia all’interno che all’esterno del carcere, è determinante per il recupero dei reclusi: dà significato alle tante ore “vuote” a cui è sottoposto chi è dietro le sbarre. Gli scout hanno conosciuto il laboratorio e hanno avviato una serie di attività sul tema formativo annuale: “la povertà”. Ospiti nel gennaio scorso, presso la Comunità di Sant’Egidio a Genova, hanno conosciuto varie forme di volontariato, soprattutto sono rimasti colpiti dalle “attività di strada” per persone senza dimora. Tornati a Chieri e desiderosi di dare il loro contributo “dove viviamo”, hanno deciso di contribuire al progetto “Daccapo-Il valore ritrovato” della Caritas. Ne hanno parlato nelle parrocchie sensibilizzando i chieresi, raccogliendo offerte e organizzando tornei sportivi con aperitivo, e vendendo popcorn nella rassegna “Cinema all’aperto”. Mercoledì 17 luglio finalmente il coronamento del cammino di un anno scout incontrando “dal vivo” i destinatati del loro servizio. Wally Falchi, responsabile del Centro di ascolto della Caritas diocesana, ha presentato gli scout ai detenuti: Carlo 60 anni, 35 trascorsi in diverse carceri italiani e ora a Torino dove risiede la sua famiglia. Nel laboratorio ha riscoperto la sua predisposizione alla manualità, costruendo presepi e opere di falegnameria: ha ringraziato chi gli ha dato questa possibilità, ormai insperata. Poi ha parlato Mario: è solo, ma nel laboratorio ha trovato nei volontari una nuova famiglia. Esce in permesso dal carcere per aggiungere “Daccapo” e spesso usufruisce anche di permessi premio a “Casa di Silvana” un alloggio gestito dalla Caritas: 3, 4 giorni dove ricomincia ad organizzarsi i pasti in autonomia, in una casa non in cella. Mario, commosso, ha raccomandato agli scout di studiare, di impegnarsi sempre per non fare i suoi errori. A nome di tutti, il capo-clan Fabio Pitto ha consegnato a Wally Falchi 1100 euro con cui i potrà acquistare una nuova pialla, una levigatrice, una troncatrice e altri strumenti per “Daccapo”. “Realizzare o ripristinare una sedia o una libreria nel laboratorio ci ha offerto l’opportunità di acquisire una competenza e, soprattutto, di trascorrere del tempo in modo creativo, allontanandoci dalla noia della nostra ‘stanza’” hanno detto i detenuti. “Inoltre, ci ha permesso di e stringere amicizia con altre persone, che ci hanno donato un po’ di quella libertà che oggi non possiamo gustare”. Perugia. Scrittura per i detenuti nel Premio internazionale Città di Castello: prima volta in Italia di Maurizio Troccoli umbria24.it, 26 luglio 2024 La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”, è il titolo della nuova sezione speciale. Per la prima volta in Italia è stato ideato e realizzato un concorso letterario rivolto alle persone recluse nei penitenziari del Paese: “Destinazione Altrove - La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”, è il titolo della nuova sezione speciale permanente inserita nell’ambito del premio letterario internazionale Città di Castello giunto alla 18esima edizione. Sono state iscritte opere (tra poesie e racconti brevi) provenienti da 22 istituti penitenziari. Il progetto rientra tra le iniziative di collaborazione per favorire la promozione umana e culturale dei soggetti reclusi previste dal protocollo d’intesa siglato Dap - dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’associazione Culturale “Tracciati Virtuali” e la Società Dante Alighieri. Subito dopo la conclusione di questa prima edizione della sezione speciale verrà varata l’edizione 2025 e si cominceranno a promuovere iniziative all’interno degli Istituti penitenziari, come ad esempio presentazioni di libri, incontri con gli autori, corsi di scrittura creativa, per cui gli organizzatori saranno lieti di ricevere adesioni da parte di tutti quei soggetti che desiderano contribuire alla crescita di questo progetto. “Si tratta di un’iniziativa di notevolissimo rilievo - ha dichiarato in video-collegamento, il Capo Dap Giovanni Russo, nel corso della conferenza stampa a Città di Castello alla sala consiliare in presenza del sindaco Luca Secondi, dell’assessore alla Cultura, Michela Botteghi, del presidente della associazione culturale “Tracciati Virtuali” Antonio Vella e Alice Forasiepi in rappresentanza della casa editrice LuoghInteriori e di Massimo Temperini in rappresentanza della Società Dante Alighieri - perché la cultura in generale è uno degli strumenti più efficaci per far acquisire alla persona detenuta i valori che sono alla base della convivenza civile”. Il senatore Walter Verini, segretario della commissione Giustizia del Senato, che ha rivestito un ruolo preminente nella ideazione di questa sezione speciale, ha affermato che, “l’emergenza carceri è drammatica. Suicidi quotidiani, sovraffollamento, mancanza di spazi, attività sociali e personale rendono impossibile l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, che prevede la pena come recupero e reinserimento sociale del cittadino recluso. Umanizzare il trattamento penitenziario è un fatto di civiltà e di sicurezza: chi, dopo la pena, esce rieducato, statisticamente non torna più a delinquere”. Il Premio “Città di Castello” è l’unico concorso letterario in Italia ad avere una sezione speciale permanente riservata a tutte le recluse e i reclusi dei penitenziari italiani. Sandro Margara, profeta del carcere dal volto umano di Franco Corleone L’Espresso, 26 luglio 2024 A otto anni dalla scomparsa, ricordiamo il Basaglia dei detenuti. E la sua intransigenza sui diritti. Sono passati otto anni dalla scomparsa di Alessandro Margara e il 29 luglio prossimo lo ricorderemo come ogni anno a San Salvi, luogo simbolo di Firenze per il “Basaglia dei detenuti”, grazie all’impegno della Società della Ragione e dell’Archivio Margara. È stato per decenni il magistrato di sorveglianza più amato, perché protagonista della stesura della riforma penitenziaria del 1975 e della legge Gozzini del 1986; nominato direttore generale del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria da Giovanni Maria Flick, è stato cacciato dopo un anno, sei mesi e 21 giorni da un ministro della Giustizia di sinistra, Oliviero Diliberto. La lettera di Margara al ministro, a seguito del suo licenziamento in tronco del 1° aprile 1999, è una netta condanna della cattiva politica “che vede la deriva dei frammenti spezzati delle idee di solidarietà, di attenzione alle varie aree del disagio sociale, riassunte nel carcere, che tutte le raccoglie e che procede alla rottamazione di quelle idee in cambio di un modello nuovo di zecca di città senza barboni e con galere fiammanti”. E rivendica invece una politica riformista che sceglie di “dialettizzare sicurezza e trattamento, cercare di gestire la contraddizione, ribadire che il carcere non deve essere il luogo dell’ozio e del vuoto, ma deve essere vivo, non il luogo dell’isolamento e della negazione della socialità, ma quello che vuole ricostruirla”. Guardando allo stato delle carceri oggi, la lettera di Margara è un documento profetico. Margara era capace di ironia sferzante. Una volta riscrisse l’articolo 27 della Costituzione secondo le idee espresse dall’allora ministro Angelino Alfano: “Le pene possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono limitarsi, senza altri scopi, a contenere il condannato per il tempo necessario all’esecuzione della pena”. Non si poteva immaginare che la sua provocazione sarebbe diventata realtà in una proposta di legge della presidente del Consiglio e di un sottosegretario alla Giustizia. La crisi del carcere non nasce oggi, è il frutto di timidezze e di paure di governi di segno diverso. Margara affronta la questione in uno scritto del 2014, “Punti interrogativi”, che può essere considerato un testamento politico e morale, pubblicato nell’antologia “La Giustizia e il senso di umanità”. Sono undici punti da cui ripartire per arrestare la tragedia del sovraffollamento, di cui è responsabile la guerra alla droga, e per interrompere lo stillicidio dei suicidi, che testimoniano la mancanza di senso di una detenzione senza speranza. Molte battaglie sono state vinte grazie al pensiero di Margara, dalla istituzione della figura del garante dei diritti dei detenuti al superamento del manicomio criminale. L’ultima vittoria è la sentenza della Corte costituzionale del 2024 a favore del diritto all’affettività e ai colloqui riservati dei detenuti, già previsti nel Regolamento carcerario del 2000, opera dello stesso Margara. Il 29 luglio parleremo di come sviluppare in carcere relazioni positive e di come difendere i diritti. E parleremo del carcere fiorentino di Sollicciano e del suo stato di abbandono, ma senza dimenticare che in esso vive il bellissimo Giardino degli Incontri, luogo simbolico di apertura a una diversa socialità dei reclusi. Ci servirà l’intransigenza di Margara per contrastare gli attentati di oggi alla Costituzione. Se volete farvi un’idea delle condizioni di vita nelle carceri di Concita De Gregorio La Repubblica, 26 luglio 2024 “Indecorosa”. “Indegna di un Paese civile”, ha detto Mattarella parlando della situazione delle carceri italiane, di come ci si vive e molto ci si muore. Rispondeva alla lettera di una ventina di detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, il secondo più sovraffollato in Italia. “Le condizioni in cui ci troviamo sono un costante incitamento al suicidio”. Se volete farvi un’idea di persona c’è un documentario terribile e magnifico, una web serie. Si intitola “11 giorni”, l’ha girata Nicola Zambelli con l’assistenza di Nicolò Ricci Bitti. Sono trentatré episodi su Instagram. La voce di un detenuto: quando il grande cancello di ferro si chiude alle tue spalle “hai una paura da film dell’orrore”. “Qua buttano tutti insieme come sardine in scatola, 60 in sezione, in un corridoio lungo 30-35 metri”, “ci sono topi, scarafaggi, le grate arrugginite, dove mangi fa schifo”. “Ho visto tre persone che si sono tagliate la gola davanti a me”. Un altro detenuto racconta: “Da poco ho perso mia madre, non mi hanno dato modo di poterla vedere nella bara aperta l’ultima volta”. “Sento la mancanza dell’erba, dell’odore della terra. Vivi di merda, lotti per quel centimetro che è rimasto di te stesso e della tua vita”. Una voce implora: “Cercate tutti di non finire qua. Questo è un manicomio”. Monica Cali, presidente del tribunale di Sorveglianza: “La struttura è fatiscente. Un degrado e una sofferenza che stringono lo stomaco e che ho visto in alcune carceri del Sudamerica. La tensione è tale per cui le istanze di scarcerazione sono tantissime. Ma noi lavoriamo sempre sott’acqua: manca un magistrato e le cancellerie hanno una scopertura del 5 0%”. Ma non è Sudamerica. Ci troviamo a Brescia. La sindaca Laura Castelletti definisce quel che accade nel carcere “disumano, inaccettabile”. La capienza è di 182 posti ma sono in 400. Chiusi in stanzoni da sedici letti fra cimici e scarafaggi. I bagni hanno le vecchie turche. Si gela d’inverno e si soffoca d’estate. I letti a castello bloccano l’apertura delle finestre. Tanti ragazzi con problemi psichiatrici o dipendenze. 150 agenti su 217 previsti, 4 educatori invece di 6, denuncia Antigone. Cosa deve succedere, cosa stiamo aspettando? Ostaggio della Rems, il giudice lo rilascia ma nessuna casa di cura lo accoglie di Marika Ikonomu Il Domani, 26 luglio 2024 Arturo è detenuto da due anni in una residenza nonostante il giudice abbia disposto la libertà vigilata. L’eccesso di domanda di internamento nelle Rems. Latita la sanità territoriale. Un’eterna proroga tiene Arturo rinchiuso dal 2022 in una delle 31 Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie. Da due anni l’uomo aspetta di essere trasferito in una casa di cura. “È una forma di ingiusta detenzione”, dice a Domani la sua avvocata Paola Bevere, che ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il sistema delle Rems, introdotte nel 2014, mirava a superare gli ospedali giudiziari e promuovere il reinserimento sociale del soggetto, con un modello assistenziale diffuso sul territorio. Le residenze avrebbero dovuto costituire una misura temporanea di extrema ratio, a cui ricorrere solo quando le misure non detentive non fossero praticabili. Un paradigma che però è stato tradito dalle politiche degli ultimi anni, come dimostra la storia di Arturo, a cui abbiamo dato un nome di fantasia per proteggerne l’identità. E come conferma un emendamento ritirato in fretta e furia dai relatori del ddl sicurezza, in discussione alla Camera. Con la modifica si chiedeva di introdurre un meccanismo di contenimento che ricorda i vecchi Opg. L’uomo, con una diagnosi di schizofrenia paranoide cronica, è imputato per il reato di atti persecutori, ma la sua infermità mentale ha inciso sulla capacità di intendere e di volere al momento dei fatti. Se inizialmente era stato considerato socialmente pericoloso, e per questo mandato in Rems, nel maggio 2022 la sua pericolosità sociale è stata definita “contenibile”. Il giudice ha quindi sostituito la misura con quella della libertà vigilata, ordinando di collocarlo in una casa di cura convenzionata. Da allora non è chiaro quale sia il motivo per cui Arturo non venga trasferito. Il problema sembra derivare non solo dall’assenza di posti, ma anche da una ritrosia ad accogliere chi esce dalle Rems. Cortocircuito burocratico - “È inconcepibile in uno stato di diritto che una persona continui a essere privata della libertà nonostante l’ordine di un giudice di rilasciarla”, denuncia l’avvocata Bevere, ricordando che il ricovero in Rems è una misura detentiva: “Un’irregolare privazione, per soli motivi amministrativi”. Anche il perito ha segnalato che il protrarsi della misura potrebbe portare a un peggioramento del quadro clinico. L’esperienza delle Rems ha infatti dimostrato “come la privazione della libertà costituisca un rischio per la salute mentale”, si legge nel rapporto di Antigone. Chi proviene dal circuito penale è considerato difficile da gestire: “Il paziente non risulta adeguato per età”; non è “compatibile con gli altri ospiti”; i suoi comportamenti sono “incompatibili con la possibilità di effettuare un adeguato percorso terapeutico”; troppi ospiti “con restrizioni giudiziarie”. Sono le risposte delle case di cura riportate negli atti del processo. Lo scorso giugno si è ripresentato lo stesso schema: il giudice ha rinviato l’udienza di Arturo in autunno e invitato il responsabile dell’Asl a presentarsi per valutare le liste di attesa. L’ennesimo rinvio senza fine. “Le attese sono molto lunghe”, dice a Domani il Garante delle persone private della libertà del Lazio, Stefano Anastasia, e spiega che la regione è tra quelle con maggiore capienza nelle Rems, ma tra quelle con le liste di attesa più lunghe. Ci sono sei strutture con 106 posti: 1,8 posti ogni 100mila abitanti, superiore al dato nazionale di 1,2. “Da un lato, la rete dei servizi sul territorio è depauperata, dall’altro ci sono involuzioni culturali”, evidenzia il garante. “Le strutture residenziali spesso non vogliono ricevere chi proviene dalle Rems. La regione però paga il servizio e dovrebbe essere in grado di porre condizioni agli enti convenzionati”, spiega Anastasia. Riforma inapplicata - “Il problema delle Rems non sono le Rems”, aggiunge il garante, “la chiusura degli Opg è stata la scelta giusta”. Alla fine del 2023 nelle 31 Rems erano ricoverati 577 pazienti, a fronte di una capienza massima di circa 600. A gennaio 2024 le persone in lista d’attesa erano 755. Alla base dell’attesa ci sono due elementi: da un lato “un eccesso di domanda di internamento”, perché “si chiede di inserire nelle Rems persone che hanno problemi di salute mentale contravvenendo all’idea dell’ultima istanza”, spiega Anastasia. E infatti “solo il 32 per cento dei presenti in lista di attesa avrebbe effettiva necessità di accoglienza in una Rems”, segnala Antigone. “Questo spiega che i presupposti di pericolosità sociale - continua il garante - dovrebbero essere rivisti”. Dall’altro influisce la difficoltà in cui versa la sanità territoriale: “Se non ci sono servizi di salute mentale sul territorio, non si sa chi debba prendere in carico chi esce dalle Rems con la misura della libertà vigilata”, sottolinea. La capienza delle residenze è stata fatta sulla base delle migliori prassi e il sistema deve essere capace di mantenerle, conclude Anastasia, “altrimenti non regge. Le Rems sono solo un pezzo di una serie di servizi sul territorio” e tutti gli altri sono in grave affanno. Migranti. Centri per il rimpatrio come forni: “40 gradi, frigo rotti, acqua bollente e tentati suicidi” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2024 Il meteo annuncia una nuova ondata di calore che investirà l’Italia e i media si prodigano nel distribuire i consigli degli esperti. Ma c’è chi non ha alcuna speranza di proteggersi dal caldo, come i detenuti delle carceri sovraffollate che tornano al centro di un’agenda politica da sempre in ritardo sulle loro condizioni. E così le centinaia di reclusi nei Centri di permanenza per il rimpatrio. A finire nei Cpr sono gli stranieri destinatari di provvedimenti di espulsione o di respingimento, ma anche migranti richiedenti asilo quando, ha spiegato il Viminale, “costituiscono un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, quando risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, per gravi reati o percolo di fuga”. A differenza delle carceri, ci si finisce in base a una disposizione amministrativa, non alla decisione di un giudice terzo, che nel caso dei Cpr opera un controllo formale. Ma le differenze terminano qui. Anzi, spesso il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha evidenziato condizioni addirittura peggiori di quelle riscontrate nelle carceri. “Un trattamento che non meritano nemmeno gli animali”, ha dichiarato il Garante della Sardegna dopo l’ennesima ispezione. E che invece riguarda almeno 500 persone, chiuse negli otto Cpr attualmente funzionanti, alle quali presto si uniranno quelle che il governo chiuderà nel Cpr del centro di Gjader, in Albania, in base al controverso Protocollo siglato con Tirana. L’inferno di Milano - Quello che accade nei Cpr esce da lì solo grazie alle ispezioni che parlamentari, consiglieri, associazioni e giornalisti si ostinano a fare, non senza difficoltà, a volte vedendosi negare l’autorizzazione a parlare con i detenuti o peggio, l’ingresso. L’ultimo accesso al Cpr di via Corelli a Milano l’hanno effettuato la settimana scorsa il consigliere regionale Luca Paladini e Nicola Cocco, medico infettivologo della rete Mai più lager - No ai Cpr. Con 46 persone recluse al momento dell’ispezione, il centro è attualmente sotto amministrazione giudiziaria in seguito all’inquietante inchiesta per turbativa d’asta e frode nei confronti dell’ente gestore, Martinina srl, mentre è ancora in corso la gara pubblica per il nuovo appalto. “In questa fase di transizione non c’è nessun visibile cambiamento rispetto al passato”, spiega al Fatto Paladini, alla quarta ispezione nel centro in pochi mesi. “Dal punto di vista delle condizioni igieniche, di quelle sanitarie dei reclusi, di dettagli tutt’altro che secondari come l’acqua fornita in bottiglie di plastica stoccate al sole e distribuite calde o i frigoriferi rotti con i cibi precotti che diventano quasi liquidi, avariati”, racconta. Il tutto mentre i 35 gradi uniti all’umidità spinge la temperatura percepita negli alloggi oltre i 40 gradi e le docce, guaste pure quelle, erogano solo acqua bollente. Così le persone se ne stanno sul cemento del cortile, sulla gommapiuma priva di lenzuola perché quelle fornite sono in fibra sintetica, insopportabili al contatto con la pelle e il sudore. Condizioni che esasperano i presenti, incapaci di accettare che una simile condizione possa essere giustificata da un documento scaduto. E infatti, avverte Paladini, “gli episodi di autolesionismo e i tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno” e capite di vedere “persone completamente sedate”. Senza contare che il registro degli eventi critici riflette, come altrove, “un’inadeguata capacità o volontà di segnalare tutto”. Paladini e Cocco hanno inviato un dettagliato rapporto a Questura, Prefettura e Ats per chiedere immediati interventi di verifica sanitaria e non solo: “Ora lo sanno”. E avverte: “Con ogni evidenza il tema non è se potrà succedere un altro evento drammatico, ma quando”. Il forno di Macomer - A contendersi il nuovo appalto prefettizio per via Corelli c’è anche la cooperativa sociale Ekene, che già gestisce il famigerato Cpr di Gradisca d’Isonzo in Friuli-Venezia Giulia e quello di Macomer in Sardegna, dove è stata la settimana scorsa il Garante regionale dei detenuti, Irene Testa. Ci era già stata l’anno scorso: “L’aumento di permanenza fino a 18 mesi (deciso dal governo, ndr) per persone che non hanno compiuto alcun reato e nelle condizioni addirittura peggiori di quelle di un carcere è inaccettabile”, aveva relazionato quando nel centro c’erano 38 persone. La settimana scorsa ne ha trovate 49, esposte a temperature ben oltre i 40 gradi: “Un forno”, dice Testa. Come a Milano, “niente frigo, acqua da bere bollente” e le stesse, inutilizzabili lenzuola in TNT. E se per i detenuti delle carceri Testa ha fatto appello al terzo settore e alla società civile perché donare dei ventilatori, per gli “ospiti” del Cpr sa già che è inutile, perché la legge non lo permette. Il regolamento adottato dall’ex ministra Lamorgese impedisce la fornitura di penne, matite, spugne, scope e addirittura sedie. “Tutti sono costretti a stare per terra, nelle celle e nei corridoi dove non circola un filo d’aria”, ha riferito il Garante. Per ripararsi dal sole usano “coperte appese alle finestre. Qualcuno ha chiesto persino il rimpatrio più di una volta, ma nessuno interviene”, ha riferito toccando un altro tasto dolente di un sistema che non rimpatria nemmeno la metà dei reclusi, mentre la maggior parte esce per mancate convalide e decorrenza dei termini, spesso senza che ci sia mai stata alcuna possibilità di rimpatrio. Il bilancio? “Una situazione vergognosa, non degna di un Paese civile”. Già in passato Testa si era trovata di fronte “situazioni schizofreniche, di persone che non dovrebbero neanche stare lì”. E l’impossibilità di contatti con le famiglie: “Non possono usare il cellulare all’interno ed è a loro disposizione un telefono con la scheda telefonica. Ma la maggior parte delle persone ospitate sono povere e nullatenenti, diventa molto difficile poter chiamare all’estero quotidianamente: a queste persone è stato tolto tutto, lasciamogli coltivare almeno gli affetti”. Manicomio Capitale - Non fa eccezione il Cpr di Ponte Galeria, a sud di Roma. A visitarlo sono state Cecilia Ferrara e Angela Gennaro, due giornaliste dell’Ansa che hanno intitolato il nutrito reportage corredato di video “Il manicomio dei migranti”. Perché “se non sei pazzo, qui lo diventi”, è stato spiegato loro dai reclusi. Il 20% delle presenze arriva dopo aver scontato una condanna in carcere: 229 persone l’anno scorso. Chi ha vissuto entrambe le esperienze non ha dubbi: “Qui è molto peggio”, dice ai microfoni dell’Ansa. Che con una richiesta di accesso agli atti ha ottenuto il registro degli eventi critici, documento obbligatorio e tuttavia lacunoso in tutto il sistema dei Cpr. Il centro dove lo scorso 4 febbraio si è tolto la vita Ousmane Sylla conta un evento critico al giorno e un tentativo di suicidio ogni due. Non solo. Chi tenta il suicidio viene spesso riportato nel centro, che pure non dovrebbe ospitare persone con problemi di carattere psichiatrico. Invece anche a Roma troviamo persone con profili sanitari incompatibili col trattenimento, come la donna con evidenti problemi mentali trattenuta per nove mesi e costata al governo la censura della Corte europea per i dritti dell’uomo. Lo hanno già evidenziato inchieste e ispezioni parlamentari: in questo centro come in altri si fa largo uso di psicofarmaci. Tra le voci del reportage c’è anche quella di Fabrizio Coresi, esperto migrazioni per ActionAid Italia che, insieme all’Università di Bari, svolge un approfondito monitoraggio sui Cpr, evidenziando che nel 2023 Ponte Galeria ha rimpatriato solo il 23% dei suoi ospiti. Ragionando del centro che l’Italia sta costruendo in Albania, dove si vorrebbero trattenere fino a 3mila persone tra richiedenti con domanda d’asilo da esaminare e persone da rimpatriare, Coresi non ha dubbi: “Il sistema dei Cpr non può che essere esportato così com’è, perché ogni stortura è insita nel modo in cui è concepito”, spiega oggi. Con l’aggravante che “sarà ancora più complicato accedere e ispezionare una struttura esterna al territorio nazionale”, spiega, ricordando le difficoltà incontrate dai parlamentari Riccardo Magi e Angelo Bonelli nel tentativo di accedere ai cantieri. “Di conseguenza anche ottenere dati, svolgere un monitoraggio e denunciare cosa accade all’interno risulterà ancora più complicato”. Migranti. L’incubo del Cpr di Ponte Galeria: rivolte, disagio psichico e tentativi di suicidio di Cecilia Ferrara e Angela Gennaro Il Domani, 26 luglio 2024 Giovedì 25 luglio l’ennesima protesta nel Centro per il rimpatrio. Dove l’uso degli psicofarmaci è schizzato alle stelle e un accesso agli atti ha mostrato moltissimi “eventi critici” di cui la metà riguardano i tentativi di suicidio. Ma spesso la malattia psichiatrica per i medici della struttura non è una ragione sufficiente per l’inidoneità alla detenzione. Il Cpr, centro per i rimpatri, di Ponte Galeria a Roma è di nuovo in rivolta. Oggi, intorno a mezzogiorno, è scattata l’ennesima protesta: materassi bruciati, gravi danneggiamenti, persone salite sui tetti e che sono riuscite a fuoriuscire dai loro “settori” per arrivare fino ai corridoi che collegano i vari moduli. Secondo le testimonianze che arrivano dall’interno della struttura, le forze dell’ordine sarebbero intervenute e il bilancio, al momento, sarebbe di una 2 persone trattenute che hanno avuto bisogno di intervento medico, e di 4 agenti e un funzionario della questura “refertati” in ospedale di cui uno con una contusione ad un polso. La rivolta sarebbe rientrata in seguito all’intervento della squadra mobile della polizia I trattenuti sono stati lasciati senza pranzo. “Qui ci massacrano tutti. Se l’altra volta hanno usato i gas lacrimogeni, questa volta ci aspettiamo di peggio”, dicono dall’interno. “La situazione è critica”. L’ultima rivolta, il 5 luglio, era scattata dopo il tentativo di suicidio di un detenuto. Oggi si segnala un livello di tensione molto alto con le forze dell’ordine presenti all’interno della struttura. “I trattenuti sono terrorizzati”. Altre fonti dei movimenti “No Cpr” parlano di “accanimento da parte della polizia su persone che chiedevano assistenza sanitaria” ieri sera, mentre oggi alcuni reclusi avrebbero sfondato la porta del settore 4 dopo aver bruciato dei materassi e 3 persone sarebbero salite sul tetto. Sul posto è arrivata nel pomeriggio la garante delle persone private della libertà personale di Roma Valentina Calderone. La garante racconta che quando è arrivata gli “ospiti” si trovavano rinchiusi nei propri settori, i cui cancelli apparivano già danneggiati e chiusi con un lucchetto provvisorio, nella protesta di oggi il cancello che separa le gabbie dei reclusi dalla parte amministrativa è stato sfondato e la stanza degli infermieri è stata distrutta. Anche l’ufficio del garante nazionale per i detenuti ha chiesto chiarimenti al Prefetto. Nessuna conferma al momento dalla Prefettura di Roma. Nell’estate calda delle carceri, ricordata anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella in queste ore, le proteste si susseguono anche nei Cpr, luoghi “spuri” di detenzione amministrativa dove le persone vengono recluse non per aver compiuto reati ma per essere state trovate senza documenti validi sul territorio nazionale. “Nelle prossime settimane non potrà che peggiorare a causa del caldo e dello stress”, conferma Calderone. “Non aiuta l’indeterminatezza della pena e i tempi del trattenimento allungati fino ad un massimo di 18 mesi. Senza che questi tempi lunghi cambino di un briciolo l’efficacia del Cpr”. L’altro punto su cui fare una riflessione secondo la garante è “la modalità di ingresso nei centri: molte persone vengono rilasciate subito dopo o per mancata convalida del giudice di pace e del tribunale ordinario. Quindi troppo spesso entra chi non ci dovrebbe stare”. La situazione del Cpr di Roma - La cronaca del 2024 di Ponte Galeria vede a febbraio scorso il suicidio del giovane Ousmane Sylla, ma anche una multa comminata all’ente gestore (attualmente in proroga), Ors Italia, per la mancata attuazione degli accordi di collaborazione con enti e associazioni esterne (accordi che, tra l’altro, vengono considerati in termini di punteggio in fase di gara d’appalto). La situazione all’interno di Ponte Galeria ha tra l’altro portato, poche settimane fa, a una condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per liberare Camelia, una donna rinchiusa nel centro da 9 mesi, da ottobre scorso. Nonostante presentasse evidenti problemi psichiatrici e nonostante il fatto che di lei non fosse neppure certa la nazionalità di provenienza: in quale paese avrebbe dovuto essere rimpatriata? La donna viveva isolata in una cella, urlava a chiunque si avvicinasse tranne che a operatori e operatrici per farsi accendere una sigaretta. Ogni volta veniva ritenuta idonea alla detenzione e il suo trattenimento nel Cpr riconfermato dal tribunale. È stato necessario un ricorso alla Cedu promosso dalle parlamentari Eleonora Evi e Rachele Scarpa e seguito dagli avvocati Daria Sartori, Gennaro Santoro, Federica Borlizzi e dalla dottoressa Muriel Vicquery, con il supporto della Rule 39 Pro Bono Initiative, della dottoressa Monica Serrano e dei medici Antonello D’Elia e Nicola Cocco. Ora Camelia è finalmente fuori ed è stata accolta in un reparto specializzato. La parlamentare del Pd che ha seguito il caso, Rachele Scarpa, è andata a trovarla proprio ieri: la donna ha ricominciato a parlare in inglese, interagisce e passeggia nel giardino della struttura. Miracolo degli psicofarmaci o piuttosto dell’allontanamento da un ambiente “disumanizzante”? La salute mentale nei Cpr - Secondo alcune recenti inchieste (Ansa e Altreconomia), all’interno del Cpr di Ponte Galeria il livello degli acquisti di psicofarmaci è passato dal 5% della spesa sanitaria del 2017 al 58% del 2022. “Evidentemente si tratta di un utilizzo non consono - spiega all’Ansa lo psichiatra e rappresentante nazionale FP CGIL Sanità, Andrea Filippi - perché nessuno può immaginare che ci possa essere stata una condizione che abbia potuto aumentare le patologie psichiatriche del 58%”. Dalle bolle di acquisto si rilevano poi, secondo i dati raccolti da Altreconomia, i nomi dei farmaci: Tavor, Tranquirit, Rivotril. A questi si aggiungono gli antipsicotici: quello usato di più negli ultimi tre anni è la Quietapina, potente antipsicotico usato soprattutto come tranquillante, agisce su ansia, agitazione e angosce psicotiche. E poi Depakin, farmaco antiepilettico molto usato come stabilizzatore dell’umore e Pregabalin (Lyrica), pure usato come stabilizzatore ma soprattutto in sindromi dolorose neuropatia. “Si può pensare che i farmaci non siano utilizzati per curare una patologia psichiatrica ma eventualmente per calmare dei sintomi legati al disagio ambientale nel quale queste persone sono costrette a stare, si tratta prevalentemente di ansiolitici, le benzodiazepine, farmaci che calmano l’ansia”, chiosa Filippi. “Non voglio pensare che siano utilizzati per sedare una bomba sociale”. Quanto ti vuoi suicidare davvero? - “Vi prego sperando di inviare questa lettera al mio bene più prezioso, la mia cara madre”, scriveva, in arabo, Ahmed (nome di fantasia), tunisino. “Non posso più sopportare me stesso”. Il testo, consegnato a chi scrive in occasione dell’ingresso all’interno del Cpr di Ponte Galeria a fine maggio scorso per conto dell’agenzia di stampa Ansa, è stato segnalato alle autorità competenti, locali e nazionali, per l’evidente rischio suicidario. Ma Ahmed, dal Cpr, dopo quella lettera, non esce. Resta lì. A dare seguito a quelle parole ci penserà un paio di settimane dopo. Neanche questa volta Ahmed viene preso sul serio: il suo primo tentativo di suicidio, per impiccagione, viene ritenuto “non credibile”. Deve rifarlo un’altra volta, il giorno successivo, per essere portato in ospedale. Uscirà definitivamente dal Cpr alcuni quasi un mese dopo aver scritto quella lettera. Durante l’ultima visita effettuata al Cpr di Ponte Galeria da parte della deputata Rachele Scarpa, accompagnata dall’avvocata dell’associazione Cild Federica Borlizzi e dall’ex consulente del garante nazionale delle persone private della libertà Monica Serrano, è stata richiesta l’autorizzazione all’acquisizione delle cartelle mediche di molti detenuti. Come quella di un uomo tunisino di 40 anni “che non avrebbe proprio dovuto accedere al Cpr”, dice Borlizzi. Secondo la sua cartella clinica, Yusuf (nome di fantasia) è dipendente da cocaina ed eroina: secondo la direttiva Lamorgese del 2022 sull’organizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri, un caso del genere non poteva essere destinato a Cpr. Per lui, però, la Asl firma un modulo precompilato per cui, in assenza di malattie infettive (le uniche citate), Yusuf viene ritenuto idoneo alla reclusione. E gli altri disturbi eventualmente presenti? Il medico di Ors Italia effettua una seconda valutazione: afferma che Yusuf ha evidenti problemi psichiatrici, ma non richiede una nuova valutazione di idoneità. “Si limita a prescrivere metadone, Rivotril e Xanax”, racconta Borlizzi. “Ma lui stesso sottolinea come questo mix di psicofarmaci non dia l’effetto sperato perché quotidianamente Yusuf mette in campo atti di autolesionismo”. Lo fa anche a metà giugno: interviene il 118. Dopo 24 ore l’uomo è di nuovo recluso dentro al Cpr. “È evidente che i medici dell’ente gestore operano con un’ampissima discrezionalità, senza andare neanche a richiedere una valutazione psichiatrica e una nuova valutazione di idoeneità, derubricando come atti dimostrativi i quotidiani tentativi di suicidio che si verificano”, spiega Borlizzi. E la Asl di competenza, quella di Roma 3, “non sembra effettuare un monitoraggio efficace sulla salute delle persone trattenute”. Secondo chi è entrato nel Cpr negli ultimi tempi (la deputata Scarpa, ma anche molte associazioni della società civile a cominciare da Action Aid Italia), dal registro degli eventi critici, quaderno “compilato a penna” in cui per legge devono essere annotati atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, scioperi della fame, violenze, al Cpr di Ponte Galeria ci sarebbe un tentativo di suicidio ogni due giorni, un “evento critico” ogni 24 ore. L’estratto del registro, un documento inviato dalla Prefettura in risposta alla richiesta di accesso agli atti effettuata per l’Ansa, è un pdf di 2 pagine che da quel quaderno riporta 21 eventi critici a partire dal 4 febbraio, il giorno della morte di Sylla, fino al 10 giugno. La metà degli episodi riportati è di tentato suicidio per impiccagione. E poi ancora autolesionismo, minacce di suicidio, “diverbi con operatori” o tra detenuti L’elenco è incompleto e compilato in maniera non sempre chiara: è numerato, dal 125 al 162, ma mancano almeno una ventina di eventi. Migranti. A Trieste la situazione del Centro di prima accoglienza è “disumana” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2024 Magi e Orfini a Piantedosi: “La Prefettura sapeva, spieghi”. Appena un mese fa Trieste aveva assistito allo sgombero del famigerato Silos, il fatiscente edificio accanto alla stazione ferroviaria, già magazzino portuale dell’Impero austroungarico, dove transitanti e richiedenti asilo giunti dalle rotte balcaniche si accampavano a causa di un sistema di accoglienza inadeguato. Anni e anni senza far nulla, con società civile e terzo settore a sopperire alle mancanze delle istituzioni, nonostante l’accoglienza di chi domanda protezione sia obbligatoria per legge. C’è voluta la visita di Papa Francesco e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in città a inizio luglio per la 50a edizione delle Settimane sociali dei cattolici italiani, perché quella vergogna fosse definitivamente chiusa e tuttavia, ancora una volta, senza soluzioni alternative strutturali. Ma sono bastate poche settimane perché il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia tornasse a far parlare di sé per il livello delle sue strutture di accoglienza. Stavolta l’allarme riguarda il Centro di prima accoglienza “Casa Malala”, un’ex caserma della Guardia di Finanza nel comune di Monrupino, in prossimità del valico di Fernetti, al confine con la Slovenia. Il CAS (Centro di accoglienza straordinario) è quello preposto alla prima accoglienza delle persone che arrivano a Trieste, comprese famiglie e minori. La situazione? “Disumana”, sintetizzano i parlamentari Riccardo Magi e Matteo Orfini che hanno depositato un’interrogazione in cui chiedono al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di “sanare una situazione ormai insostenibile”. Per capire di cosa parlano, basta guardare le foto allegate: “Cinque servizi igienici, sei lavandini e tre docce per 95 persone, infiltrazioni e muffa: questa la situazione nella quale operatori e ospiti, anche minori, devono vivere ogni giorno”, dichiara il segretario di +Europa Magi, che al Fatto parla di “evidente e strutturale mancanza di investimenti sull’accoglienza in una città raggiunta dai flussi della rotta balcanica: se in questi anni non ci fossero state associazioni e cittadini non ci sarebbe stato nulla, perché qui le istituzioni non si sono dimostrate all’altezza”.