Quel panpenalismo che fa scoppiare le carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 luglio 2024 I decreti rave, Cutro, Giustizia, Caivano e il pacchetto sicurezza hanno creato nuovi reati, aumentando le pene. Sempre e solo repressione, portando agli estremi la politica panpenalistica che ha attraversato varie legislature. Un’analisi approfondita viene cristallizzata dal dossier dell’associazione Antigone da poco presentato, portando all’attenzione pubblica una serie di provvedimenti significativi adottati dal governo Meloni, evidenziando le implicazioni e le critiche legate a ciascuno di essi. Tutto è penale, tutto è condanna e nuovi reati. Il 31 ottobre 2022, il governo ha approvato il decreto-legge n. 162/2022, noto come Decreto rave, successivamente convertito in legge n. 199/2022. Questo provvedimento ha introdotto il reato di “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica” all’articolo 663- bis del codice penale. Inoltre, sono state apportate modifiche alle norme sull’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per i detenuti colpevoli di reati ostativi, come previsto dall’articolo 4- bis dell’ordinamento penitenziario. Il 10 marzo 2023, pochi giorni dopo la tragedia di Cutro, è stato approvato il decreto-legge n. 20/2023, conosciuto come Decreto Cutro, poi convertito in legge n. 50/2023. Questo decreto ha innalzato di un anno i limiti di pena minimi e massimi per il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione illegale” e ha introdotto una nuova fattispecie di reato che prevede la “morte o lesione come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”. Il 26 luglio 2023 è stato approvato un disegno di legge presentato il 15 febbraio dello stesso anno, riguardante la perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadini italiani. Questo provvedimento mira a regolamentare una questione eticamente complessa e dibattuta. Il 10 agosto 2023 è stato approvato il decreto-legge n. 105/ 2023, noto come Decreto Giustizia, successivamente convertito in legge n. 137/2023. Questo decreto ha trasformato l’abbandono di rifiuti da illecito amministrativo a reato contravvenzionale, con multe fino a 10 mila euro, raddoppiate in caso di rifiuti pericolosi. Inoltre, è stato introdotto un reato specifico per l’abbattimento, la cattura o la detenzione di orsi bruni marsicani e sono state aumentate le pene per il reato di incendio boschivo. Il 15 settembre 2023 è stato approvato il decreto- legge n. 123/2023, conosciuto come Decreto Caivano, poi convertito in legge n. 159/2023. Questo decreto ha introdotto nuove fattispecie di reato, tra cui la “pubblica intimidazione con uso di armi”, l’”inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori” e il “porto di armi per cui non è ammessa licenza”. Inoltre, sono state inasprite le pene per i reati di lieve entità in materia di stupefacenti ed è stato introdotto il Daspo urbano, il foglio di via obbligatorio e l’avviso orale del questore. Il 26 settembre 2023 è stata approvata la legge n. 138/2023, che ha inasprito le pene per l’omicidio stradale, aumentando la reclusione da 8 a 12 anni se commesso in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di droghe. Questa legge ha anche introdotto i reati di omicidio nautico e lesioni personali nautiche gravi o gravissime. Infine, il 28 giugno 2024 è stata approvata la legge n. 90/2024, entrata in vigore il 17 luglio dello stesso anno, che ha introdotto aumenti di pena per reati informatici come l’accesso abusivo a sistemi informatici e il danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici. L’associazione Antigone ha criticato fortemente anche il pacchetto sicurezza, affermando che esso porterà a un aumento dell’affollamento carcerario e che si tratta di una manovra repressiva volta a criminalizzare ogni forma di dissenso. Tra le principali critiche mosse, Antigone sottolinea la trasformazione del blocco stradale da illecito amministrativo a reato e la negazione del rinvio obbligatorio della pena per donne madri o in stato di gravidanza. Inoltre, vengono inasprite le pene per il reato di accattonaggio e introdotte nuove sanzioni per lesioni lievi o lievissime contro agenti di Polizia. Viene anche introdotto l’articolo 415-bis del codice penale, che punisce la resistenza passiva dei detenuti o i tentativi di evasione con pene fino a 8 anni, applicabile anche nei Cpr e hotspot. Carceri sovraffollate, in attesa delle leggi urgono interventi concreti di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 25 luglio 2024 Se il sovraffollamento carcerario non fosse una questione tremendamente seria, si potrebbe essere tentati di considerare surreale il dibattito politico in corso sulle misure da adottare per provare a sfoltire le presenze negli istituti di pena. Purtroppo, mentre nelle Camere maggioranza e opposizioni si scontrano duramente su due testi distinti (il decreto legge governativo “Carcere sicuro”, all’esame del Senato, e la proposta di legge del deputato Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata alla Camera), nei 190 penitenziari italiani i problemi restano tanti e tali da aver portato le condizioni di vita dei 60mila detenuti (10mila in più della capienza) oltre il limite del sopportabile. Entrare in una cella qualsiasi, da Bologna a Pavia, da Roma ad Avellino - denuncia l’associazione Antigone - comporta tristemente il dover fare i conti con la cronica penuria di acqua, con l’assenza di un qualsiasi sistema per refrigerare gli ambienti (mentre la canicola estiva tocca i 40 gradi) e con la presenza fastidiosa e degradante di cimici nei materassi e scarafaggi sul pavimento. E persino con tutte queste situazioni insieme, come se le “nostre prigioni” - mentre la società si apre alla domotica e all’intelligenza artificiale - debbano essere condannate, nel silenzio generale, a restare ferme alle tetre galere della Fortezza dello Spielberg, narrate da Silvio Pellico. Sono “condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza”, ammonisce il capo dello Stato Sergio Mattarella, “indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia”. Così, viene da chiedersi, mentre Governo e Parlamento si arrovellano su soluzioni normative più o meno coraggiose e praticabili, non sarebbe opportuno investire subito una parte dei 166 milioni di euro appostati dal ministero della Giustizia per nuovi edifici per consentire all’amministrazione penitenziaria di affrontare, già in questi mesi, le prime elementari urgenze in quelli vecchi? Mentre ci si confronta su come sfoltire le troppe presenze, non sarebbe doveroso dotare adesso gli istituti di impianti idrici e sanitari adeguati, di climatizzare anche gli ambienti in cui vivono i reclusi e non solo gli uffici direttivi, d’igienizzare e disinfestare ogni singola cella? Che dire poi della carenza di personale: va bene prospettare, come si legge nel decreto Nordio, mille nuove assunzioni nella polizia penitenziaria, ma non ne servirebbero almeno altrettante di assistenti sociali e mediatori culturali? Non solo: i servizi sanitari dietro le sbarre andrebbero implementati, accrescendo la presenza di medici e psichiatri, se si vuole provare a intercettare prima i segnali di un disagio che da gennaio ha portato a 58 suicidi, 800 tentativi e migliaia di atti di autolesionismo. Da ultimo, sulla vexata quaestio della liberazione anticipata, a cosa potrà servire ridisegnarne i meccanismi di calcolo (come fa il decreto Nordio) o portare da 45 a 75 i giorni in meno di pena concessi per ogni semestre trascorso in buona condotta (come propone il testo Giachetti) se poi i magistrati di sorveglianza che dovranno vagliare quelle istanze oggi sono solo 230 (col personale amministrativo sotto del 50%) e sulle loro scrivanie già pendono 200mila procedimenti? La situazione è talmente grave da richiedere subito interventi concreti, gare d’appalto, assunzioni. Al carcere occorre l’hic et nunc, in attesa che il legislatore faccia davvero e per intero la propria parte. Rieducazione dei detenuti: bisogna stabilizzare psicologi e gli altri esperti di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 25 luglio 2024 Erving Goffman, sociologo delle istituzioni canadese del Novecento, nel suo fondamentale trattato Asylums, dedica la prima parte all’analisi di quelle che lui identifica come le “istituzioni totali”: tra quest’ultime, come noto, figura il carcere. Gli istituti penitenziari, come osserva il sociologo, prevedono in qualche modo una replica, in piccolo, della società esterna, diversificata, stratificata e con leggi proprie: al loro interno, la divisione principale è quella che separa la popolazione detenuta, da un lato, dall’Amministrazione penitenziaria (lo “staff”, come chiama Goffman), dall’altro. E, tuttavia, traendo spunto dagli studi sociologici citati, con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, il Legislatore, nell’introdurre la figura dell’Esperto ex art. 80 o.p., ha ritenuto di escludere tale componente dallo “staff” dell’Amministrazione penitenziaria. Il trattamento di precarietà che il Legislatore - negli anni - ha riservato a tale figura professionale è stato inversamente proporzionale alla unicità di tale categoria all’interno delle realtà carcerarie; alla comune e globalmente riconosciuta presa di coscienza circa l’indispensabilità degli Esperti ex art. 80 o. p. non ha mai - fatto seguito un altrettanto indispensabile intervento legislativo di stabilizzazione all’interno dell’Amministrazione penitenziaria di tali professionisti. La primaria necessità di un intervento normativo in tal senso è imposta preliminarmente - dalla particolare condizione nella quale si trovano i soggetti destinatari della loro attività professionale: i soggetti detenuti. Nei confronti di questi ultimi, l’attività rieducativa, di recupero, di reinserimento è tanto più efficace quanto più il trattamento penitenziario svolto degli Esperti ex art. 80 o. p. sia caratterizzato da continuità, stabilità, individualizzazione e personalizzazione. Il costante turnover di tali figure professionali, da un Istituto di pena all’altro, in assenza di uno stabile inserimento, vanifica la bontà del trattamento penitenziario intrapreso con ciascun detenuto, contribuendo - in ultima istanza - ad aggravare (indebitamente) la prospettiva rieducativa che la Costituzione ci indica come faro cui deve tendere la pena. Appare, dunque, non più rinviabile una Riforma - anzi, di “rivoluzione copernicana” sarebbe forse più opportuno discorrere - per poter finalmente restituire dignità a tale cruciale componente di lavoro all’interno di quella delicatissima “istituzione totale” chiamata carcere. *Direttore Ispeg Bambini in carcere con le madri detenute, il governo non cede sulle misure alternative di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2024 Pene più dure per le madri, anche se questo comporta danni permanenti sui figli molto piccoli. La maggioranza di governo non cede di un millimetro sulle misure alternative per le detenute con bambini al seguito. I partiti di opposizione avevano presentato una serie di emendamenti in commissione Giustizia al Senato per finanziare le case famiglie protette e potenziare gli Istituti a custodia attenutata per le madri (Icam), ma martedì 23 luglio hanno abbandonato il tavolo accusando una “mancanza di confronto”. Eppure, proprio Forza Italia e Lega in passato avevano mostrato aperture, tanto che nel 2022 hanno votato a favore della proposta di legge Siani sulle case protette (poi fallita). Una linea che era già stata abbandonata con il sostegno al disegno di legge Sicurezza, con il quale la maggioranza vuole rendere facoltativo il differimento della pena - oggi obbligatorio - per le detenute madri con figli piccoli. Le forze di minoranza speravano in un ravvedimento, ma con la chiusura in Senato si è di fatto sbarrata la strada a qualunque minima apertura. E mentre ancora si discutono gli interventi in Parlamento, intanto i fatti dimostrano che già viene concesso facilmente il carcere alle madri detenute con figli piccoli: risale a pochi giorni fa la storia del bimbo di due anni e mezzo che, come rivelato da Repubblica, recluso nella sezione nido del carcere di Rebibbia, “ha maturato un ritardo nello sviluppo psico-motorio”. Il piccolo non dovrebbe trovarsi lì, ma in una casa protetta o in un Icam, cioè le due opzioni da prediligere secondo la legge in vigore (62/2011). Eppure, finora il carcere continua a essere la prima scelta, a prescindere dalla tutela dell’interesse del minore. L’ultimo caso - Chiuso da circa un anno a Rebibbia con la madre, il bimbo di due anni e mezzo è sovrappeso, non corre, fatica a socializzare con gli altri e le parole che utilizza di più sono “apri” e “chiudi”. Nei bambini che trascorrono i primi anni di vita in carcere questo è un vocabolario standard. Gli operatori raccontano spesso che i bimbi ristretti chiamano “zii” agenti e commissari, sognano il suono delle chiavi nelle grate, mentono ai loro compagni di asilo o di scuola per non dire dove vivono. Questo genera preoccupazione per la crescita sana del minore. “L’esecuzione della pena - dice a ilfattoquotidiano.it Gemma Tuccillo, magistrata in quiescenza e capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità fino al gennaio 2023 - deve mirare al reinserimento sociale, non può e non deve tradursi nella compressione dei diritti fondamentali dei figli della persona detenuta”. Ristretto con la mamma da dieci mesi, per il bambino è stato chiesto e ottenuto il trasferimento in una casa protetta quasi subito dopo l’ingresso a Rebibbia. Tuttavia, da quanto si apprende, la posizione giuridica della madre - in parte ancora sotto indagine - non consentirebbe al momento l’uscita da un istituto penitenziario senza rischi per il processo. “Sapevamo di questa situazione - racconta a ilfattoquotidiano.it la Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Roma Valentina Calderone - cerchiamo di monitorarla. Nessun bambino dovrebbe rimanere in un carcere così a lungo ma è una condizione complicata, che coinvolge diverse autorità, da chi coordina le indagini al tribunale dei minori ai servizi sociali”. La difficoltà sta sempre nel conciliare la certezza della pena e del processo con la crescita sana del bambino. La casa protetta di Roma, Casa di Leda, una delle uniche due presenti in Italia, aveva dato già mesi fa la disponibilità ad accogliere il bambino e la mamma, tuttavia finora ha prevalso la sicurezza, a dimostrazione che la legge attuale già consente ai giudici di avvalersi del carcere. “Il nostro auspicio è che si trovi una soluzione per i domiciliari, anche in una casa protetta - dice a ilfattoquotidiano.it Stefano Anastasia, garante per i diritti dei detenuti della regione Lazio - per il momento attendiamo le valutazioni della magistratura”. Il carcere è già la prima scelta - Per un caso come quello di Rebibbia, che ha entrambi i genitori in prigione contemporaneamente, la soluzione sulla carta sarebbe un Icam. Tuttavia, in Italia ne esistono solo cinque e quello più vicino a Roma si trova a Lauro, a circa 230 km da Rebibbia. Sceglierlo significa recidere i rapporti già limitati con gli affetti. Anche per questo motivo la sezione nido di Rebibbia - che pure ha ridotto il numero di presenze nel nido da una media di dieci bambini intorno al 2020 ai tre di oggi - continua a non spopolarsi. Per investire in strutture adeguate come case protette e Icam era nata la proposta di legge a prima firma Siani nel 2019, approvata in prima istanza alla Camera, poi naufragata con la caduta del governo Draghi e ripresentata all’inizio dell’esecutivo Meloni da Debora Serracchiani (Pd), che ha scelto di ritirarla perché gli emendamenti proposti dal centrodestra snaturavano quel provvedimento. Ora il testo giace in un cassetto, e il decreto Carcere non interviene con misure alternative specifiche, che infatti le opposizioni avevano chiesto di inserire in Senato. “Bocciando 200 emendamenti in blocco, il centrodestra non comprende il dramma che si sta consumando nei penitenziari italiani e dimostra insensibilità sui bambini in carcere - dice all’indomani della rottura in Senato a ilfattoquotidiano.it il dem Walter Verini, tra i primi firmatari insieme a Siani della proposta del 2019 - Riproporremo questo tema di civiltà, sebbene al momento da parte della maggioranza ci sia un atteggiamento di grave irresponsabilità”. Nel frattempo, aleggia l’ombra del pacchetto sicurezza. Secondo alcune indiscrezioni, la maggioranza è divisa sulle norme che riguardano le madri. Le opposizioni sperano che il ddl finisca nell’oblio, ma tra i continui rinvii la discussione continua verso l’inasprimento delle misure. “Perfino con il codice Rocco era applicato il differimento della pena per le donne incinte e le madri con figli piccolissimi, questo governo vuole essere ancora più securitario”, commenta a ilfattoquotidiano.it Lillo Di Mauro, fondatore ed ex presidente della Casa di Leda. L’effetto del carcere sui bambini - Come dimostra da ultimo il caso del bambino di due anni, però la detenzione in carcere non tutela a sufficienza l’interesse del minore, che vive i primissimi anni in una condizione di disparità rispetto ai coetanei. “Dai sei mesi in poi, per svilupparsi, ogni bambino ha bisogno di fare esperienze e avere intorno una comunità che lo accolga, lo stimoli e gli crei dei ricordi - spiega Paolo Siani, pediatra ed ex parlamentare, promotore della proposta di legge per potenziare le case protette - il carcere è un ambiente troppo restrittivo, che influenza negativamente la crescita del suo cervello”. Nelle sezioni nido i bambini sono ammessi fino al compimento dei tre anni, quindi tra poco anche per Giacomo si troverà una soluzione obbligata, ma i momenti vissuti finora restano. “Preoccupa anche il senso di complicità che si crea in un bimbo così piccolo davanti a una situazione tanto anomala come quella del carcere - spiega la magistrata Tuccillo - Ha difficoltà a confrontarsi con i pari, apprende modalità di relazione che non sono quelle di un ambiente libero, non vive il rapporto con cugini o fratelli della stessa età, spesso mente ai coetanei per non dire che la sua famiglia è in carcere e crescendo può anche allontanarsi dalla madre per aver vissuto tutto questo”. A inizio luglio le commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia della Camera hanno bocciato tutti gli emendamenti all’articolo 12 del ddl sicurezza, che renderebbe facoltativo il rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli minori di un anno. Senza investimenti nelle strutture protette e con la chiusura agli emendamenti al dl carceri in Senato, le sezioni nido delle carceri torneranno a riempirsi. Solo il diritto a lavorare può cambiare il carcere di Francesco Rotondi Il Domani, 25 luglio 2024 Non si tratta di lavoro in funzione espiatoria, ma nemmeno semplicemente di lavoro come strumento rieducativo; si tratta invece di utilizzare il lavoro come leva per rappresentare all’interno delle mura carcerarie lo strumento di riscatto sociale. Il dibattito politico e la cronaca di quanto accaduto nel carcere di Trieste nelle scorse settimane, ampiamente documentato sulla vostra testata, devono indurre a riflettere approfonditamente sul tema delle carceri e sul ruolo del lavoro rispetto alla detenzione. Prima di cimentarsi in valutazioni opinabili occorre muovere da numeri che opinabili non sono. In primo luogo, va osservato che, nel nostro paese, sono in stato di detenzione circa 61mila persone, di cui il 4,3 per cento sono donne e il 31,3 per cento sono stranieri: ciò a fronte di una capienza delle strutture di circa 51.700 posti. In questo quadro, occorre rilevare che dei detenuti oggi presenti nelle carceri italiane circa seimila usciranno dallo stato di detenzione entro un anno, e il 35,7 per cento ha un fine pena al più pari a 4 anni. Occorre anche aggiungere che a oggi nel corso dell’anno si sono verificati 56 suicidi, un record. Questi dati potrebbero indurre ad affrontare la questione sotto molteplici punti di vista, mettendo in luce le differenti criticità del nostro sistema detentivo. Dovendo scegliere, per affrontare il tema, un approccio che sia all’altezza della sua delicatezza e complessità, il primo a venire in rilievo ci sembra quello del rapporto fra lavoro e stato di detenzione: non però nell’accezione puramente economicista che si rifà al filone del lavoro carcerario obbligatorio sotto-remunerato a vantaggio di imprese private, o dei lavori socialmente utili, ma nel senso costituzionalmente più pregnante, che lega la funzione rieducativa della pena alla dignità del lavoro e della persona umana. La riflessione muove dalla considerazione che il lavoro può e deve rappresentare la leva perché la detenzione svolga la funzione rieducativa che la Costituzione gli riconosce. Non si tratta di lavoro in funzione espiatoria, ma nemmeno semplicemente di lavoro come strumento rieducativo; si tratta invece di utilizzare il lavoro come leva per rappresentare all’interno delle mura carcerarie lo strumento di riscatto sociale attraverso cui il detenuto si riabilita ed attraverso cui programma il suo futuro dopo la fine pena. Ma nemmeno questo è sufficiente: bisogna altresì attribuire al lavoro dei detenuti una benintesa funzione economica e di pubblico interesse, sicché esso non rappresenti solo la vittoria del lavoratore contro i propri errori, ma anche uno strumento utile al mercato del lavoro e quindi alla collettività. Un esempio di questo percorso virtuoso potrebbe essere il considerare quel 35,7 per cento di detenuti che nei prossimi 4 anni avranno finito di scontare la pena un bacino utile per fare fronte al mismatch occupazionale che affligge il nostro Paese, specialmente in alcuni settori - ad esempio quello turistico alberghiero e della ristorazione -, e in particolari periodi dell’anno. Il punto di partenza di questo percorso è ripensare al rapporto fra stato detentivo, formazione e lavoro; nella consapevolezza che la sfida è ardua, ove si consideri che le politiche attive del lavoro stentano a decollare per lo stesso mercato “ordinario” del lavoro. Detenuti e imprenditoria, quali scenari possibili di Stefano Monti formiche.net, 25 luglio 2024 Perché non considerare i detenuti come potenziali imprenditori? Limitarsi a chiedere cosa possa fare la società per i detenuti, senza interrogarsi sul contrario, è una forma sottile di discriminazione che li identifica come un problema anche quando potrebbero essere una potenziale soluzione. È di questi giorni la pubblicazione dell’annuale rapporto nel quale Antigone analizza le condizioni nelle carceri italiane. Una condizione che risulta chiara già dalla scelta del titolo di questa ventesima edizione del rapporto “Nodo alla gola”. Ci si riferisce, chiaramente, al numero di suicidi che tra il 2023 e i primi mesi del 2024 è stato più volte al centro dell’opinione pubblica. Ma si riferisce anche a tutte quelle potenziali condizioni che, di fatto, rendono il percorso riabilitativo meno edificante di quanto potrebbe essere. Molti sono i dati del rapporto che meritano una riflessione, alcuni riferiti a condizioni quantomeno delicate, altri invece a percorsi positivi, come i dati sull’istruzione, anche universitaria, che raccoglie un numero crescente di detenuti iscritti. Dato, quest’ultimo, che va accolto con grande interesse ma che, come tutti gli altri, va inquadrato in una visione d’insieme in cui è necessario adottare una cautela anche maggiore rispetto a quella richiesta in merito ad altri ambiti della vita democratica. Il tema della detenzione, infatti, è molto delicato non solo perché tratta della vita delle persone che hanno in qualche modo violato il patto sociale, ma anche perché, in virtù di tale violazione, quelle persone vivono in condizioni differenti rispetto a quanto avviene per il resto della società. È chiaro dunque che, rispetto al dato sull’istruzione, per molti risulterà molto più importante quello relativo alle condizioni di sovraffollamento. Così come ad altre sensibilità potrebbero risultare iniqui i percorsi di istruzione gratuita e di inserimento lavorativo per i detenuti. Molte persone, ancora, potranno essere più interessate alle dimensioni psicologiche dei detenuti, mentre per altre qualsivoglia riflessione che non sia volta a garantire il mantenimento di condizioni dignitose all’interno delle carceri potrebbe risultare un vezzo più utile a chi lo propone che a chi potrebbe riceverlo. Pur con tutta la cautela ed il rispetto che è doveroso assumere nei confronti di questo tema, soprattutto quando, come in questo caso, è un non addetto ai lavori ad affrontarlo, è pur vero che delegare l’intero dibattito ai tecnici, così come per qualsiasi altra tematica della vita democratica, non solo desensibilizza l’opinione pubblica, ma dall’altro rischia di asfissiare il dibattito riducendolo alla reiterazione tipica dei “circoli di pensiero”, in cui si ribadiscono sempre le stesse problematiche, si propongono sempre le medesime soluzioni, e al termine del dibattito ci si saluta cordialmente in attesa dell’ennesima occasione di confronto in cui verranno ribadite simili argomentazioni. Pur muovendo dunque il ragionamento in punta di piedi, e pur confermando quanto sia essenziale che la riflessione si concentri su tematiche che seguano le medesime priorità in qualche modo “maslowniane”, ci sono degli elementi che raramente compaiono nel dibattito pubblico legato al tema nel nostro Paese e che invece potrebbero essere di interesse. Il primo è legato alla dimensione del talento. Il termine può essere un po’ naif ma, al di là degli aspetti lessicali, sotto il profilo prettamente statistico è quantomeno improbabile che in una popolazione di circa 62mila persone (che rispondono più o meno agli abitanti di una città di medie dimensioni) non esistano persone dotate di capacità cognitive o manuali in grado di rappresentare, per l’intera collettività, un valore aggiunto. Malgrado i trascorsi che le hanno condotte in una condizione di detenzione, è comunque da considerare che un talento non espresso rappresenta un costo per la società civile. Chiaramente, la questione delle capacità va affrontata tenendo conto del singolo caso, delle condizioni che ne hanno abilitato o stimolato la violazione del patto sociale, e anche del tipo di violazione condotta. In una logica neutra, infatti, va pur sempre ricordato che ci sono state epoche storiche, neanche troppo distanti, in cui venivano comunemente accettati comportamenti che oggi la nostra società ritiene esecrabili, e che quindi nel definire un determinato crimine si debbano considerare anche le possibili modifiche culturali (intese nell’ampio senso di espressione di una data società) che potrebbero verificarsi nel corso dei prossimi decenni. Un esempio tra tutti è il caso delle sostanze stupefacenti o psicotrope: si tratta di un’ampia gamma di reati ma che riguardano un tema che, almeno in parte, è sempre più oggetto di riflessioni. Non è certo un esempio preso a caso: secondo l’Istat, i detenuti per tipologia di reato “stupefacenti e sostanze psicotrope” rappresentavano, nel 2023, la categoria più numerosa, con un totale di 20.566 persone tra uomini e donne condannate per tale tipologia di reato. Se vivessimo in una società in cui la produzione, la distribuzione e la vendita di alcune sostanze stupefacenti fosse regolarizzata, una parte, anche minima, di queste 20mila persone potrebbe non appartenere alla categoria “detenuti”, ma alla categoria “imprenditori”, “agricoltori”, “distributori”, “commercianti”. Sia chiaro, ciò non significa voler mettere in discussione la loro attuale detenzione: il loro agire è avvenuto in un momento in cui la sensibilità sociale ha stabilito che tali azioni fossero da considerare criminali, e alla violazione delle leggi è lecito far corrispondare un’adeguata reazione del potere coercitivo dello Stato. Ciò che si mette in discussione è piuttosto il fatto che l’attuale sensibilità sociale debba essere percepita come “perenne”, errore commesso con una certa frequenza, malgrado la capacità del diritto di rispondere ai dettami sociali sia una delle basi dell’intero sistema giuridico. Basti pensare al solo reato d’adulterio: non più di 60 anni fa, una donna adultera era punibile con un anno di prigione in caso di adulterio e con due anni di prigione in caso di relazione adulterina (ai sensi dell’articolo 559 del Codice penale dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con le sentenze 19 dicembre 1968, n. 126 e 3 dicembre 1969, n. 147. Fonte Brocardi). Tenendo conto di queste circostanze, pertanto, e ferme restando le condizioni dei singoli, val forse la pena provare un cambio di prospettiva nel rapporto tra società civile e detenuti. Ribaltare, cioè, l’attuale logica “assistenziale” (cosa può fare la società per i detenuti) e adottare una più coerente logica “opportunistica” (cosa possono fare i detenuti per la società). Malgrado possa apparire come radicale, questa prospettiva non fa altro che estendere ai detenuti le stesse condizioni che si adottano per il resto della società civile: è quanto accade con gli studenti (cosa può fare uno studente universitario per creare valore aggiunto al corso, al docente, all’ateneo o alla società nel suo complesso); è quanto accade con i dipendenti (come può un dipendente incrementare la produttività generale dell’impresa); è quanto viene richiesto agli imprenditori (come può un investitore migliorare il proprio impatto sul territorio e sulla vita delle persone). Come può, dunque, una persona, che ha infranto il patto sociale, migliorare la condizione dell’intera collettività? A questa domanda sono state fornite tantissime risposte: l’istruzione, il reinserimento lavorativo, il volontariato, ecc. Raramente, invece, tali soggetti vengono considerati come potenziali imprenditori: rari sono i programmi di start up, di leadership, o capacità di sviluppo tecnologico, economico e finanziario. Eppure si tratta di persone che, per la propria condizione, possono aver sviluppato sensibilità differenti, aver intercettato categorie inedite di bisogni cui voler fornire una risposta, aver identificato delle esigenze che, nelle normali condizioni di vita, si tende a non percepire. Non si sta di certo affermando che tra i detenuti delle nostre carceri potrebbe esserci il nuovo Elon Musk. Si sta affermando piuttosto che non si può escludere del tutto tale possibilità. E che per quanto ad oggi esistano percorsi volti alla professionalizzazione e all’istruzione, tali percorsi demandano alla possibilità dei singoli invece la possibilità di un’azione imprenditoriale. Del resto, perché un detenuto deve necessariamente essere un pasticciere, un sarto, o un artigiano? Non può essere anche un imprenditore? Se esistono imprenditori che vanno in carcere, perché dovrebbe essere così impossibile immaginare carcerati che diventano imprenditori? Ci sono dei casi, certo. Ma i casi singoli non rappresentano un impegno “esterno” quanto piuttosto una capacità intrinseca che è sorta in condizioni adeguate. Un programma di start up per detenuti, con partecipanti selezionati sulla base sia delle loro capacità sia del tipo di reato, potrebbe semplicemente estendere il ventaglio di possibilità che vengono offerte ai detenuti per “creare valore aggiunto” alla società e alla loro stessa vita. Perché limitarsi a chiedere cosa possa fare la società per i detenuti e non interrogarsi sul contrario è una forma sottile di discriminazione che pone il detenuto in una condizione di perenne bisogno, lo identifica come un “problema” anche quando, al di là della giusta pena che è giusto paghi, potrebbe essere una potenziale soluzione. Il suicidio dello Stato di diritto. Lettera da un carcere Il Foglio, 25 luglio 2024 È giusto che chi ha sbagliato paghi, perché occorre rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone detenute vengono poco alla volta, giorno dopo giorno, defraudate della loro umanità, e questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento. Pubblichiamo la lettera dei detenuti del Gruppo diritti umani della Casa Circondariale Nerio Fischione ex Canton Mombello, a Brescia, una delle carceri più affollate d’Italia, inviata a Sergio Mattarella, e citata ieri dal capo dello stato nel suo discorso alla cerimonia del ventaglio. Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle, e si appiccica con i vestiti addosso, sono madido, e si sono ormai impregnati lenzuola e materasso, anch’essi di sudore come i miei panni e le nostre membra. Si boccheggia, in cella, e l’acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanto sofferta e agognata doccia, evaporando riempie d’umidità l’angusto luogo. L’aria satura d’umidità, sudore, miasmi, la puoi tagliare con un coltello, in verità, farlo è impossibile, i coltelli sono di plastica riciclata, e si rompono anche solo a guardarli. Devo andare in bagno, ma è occupato, altri 15 sono in fila davanti a me. Un anziano di circa 74 anni ha il mio stesso problema, purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno. Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda con il materasso vecchissimo in gomma piuma. In un attimo, lenzuola e materasso s’impregnano di liquame e urina, lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato, impietrito, attonito. Piange, un uomo di settantaquattro anni, i capelli radi e canuti, piange e si scusa, geme, si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio di morire. La sua colpa è quella d’aver commesso un grave reato: Banca rotta Fraudolenta. I suoi carnefici sono fuori, si sono approfittati di lui, di un vecchio che a stento sa leggere e scrivere. L’hanno circuito, e lui, è qui, in questo piccolo inferno, devastato nel corpo nella mente e nell’anima, ma in fondo questo non è un nostro problema. Il nostro problema sono gli odori. Il problema è suo, infatti, uno della cella si sta alzando irritato, gridando qualcosa d’incomprensibile nella sua lingua. Probabilmente vuole mettergli le mani addosso, non lo fa per mera cattiveria, è lo stress, il caldo, gli odori insopportabili, il fatto che non parla la nostra stessa lingua e che non riesce a sentire la sua famiglia se non per dieci minuti a settimana. È stanco arrabbiato, sofferente, lo siamo tutti. Qualcuno si alza per ragionarci, per calmarlo, ma subito l’aria s’infiamma, cominciano a volare parole grosse e i primi spintoni, per fortuna altri intervengono e si riesce a placare gli animi. Questa volta è andata bene, ma la situazione è sempre questa, e purtroppo, non tutte le volte termina cosi. 15 e un solo bagno, un vero e proprio stabilimento balneare per germi e batteri, per loro è la condizione migliore, una festa, per noi, forse un po’ meno. Questa combinazione è il cocktail perfetto per far insorgere discussioni, litigi e tutto quanto di brutto può conseguirne. Oltretutto il cesso è una vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell’acqua per farsi la doccia, che d’estate scotta dannatamente, e d’inverno, è maledettamente fredda. A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti, e se è vero che quando tiri lo sciacquone, le feci nebulizzate schizzano fino a due metri, allora cosa stiamo mangiando da anni? In fondo però, è notevolmente migliore della sbobba che ci servono dal carrello. In quindici è pressoché impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare, quindi facciamo a turno. Nei turni con noi, si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce, che non ne vogliono sapere di rispettare la fila. Ben pensandoci però, più che mancanza d’intimità, non stiamo forse parlando di una vera e propria violenza? Violentati, intimamente, mentalmente, moralmente, proprio in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Di persone non auto sufficienti in questo Istituto ce ne sono parecchie, si può spaziare dalle malattie psichiatriche più accentuate sino alla tossicodipendenza, e come visto sopra, a malattie senili. Il sovraffollamento in un carcere causa tutto questo, o meglio, in tutte le carceri di questo paese, non puoi aspettarti altro. E cosi, come soffriamo noi allo stesso modo, soffrono gli operatori che ci devono assistere, dagli Agenti per la sicurezza al personale sanitario, e che dire di quelle migliaia che in carcere sono finite, ma nulla avevano fatto per meritarlo? Tutte persone incrinate, inevitabilmente, irreparabilmente, una tristezza desolante e sconfinata, per i rei e non. Elevati sono i suicidi in carcere, 44 in soli cinque mesi e mezzo dall’inizio dell’anno, un gesto troppo estremo? Forse, ma è quello che viviamo qui che porta queste persone a compiere certi gesti, e qui di persone ce ne sono sicuramente troppe. I gesti estremi accadono sempre vicino a noi, ti svegli una mattina e forse mestamente ti accorgi che nel bagno un tuo cancellino ha reso l’anima, oppure accade al vicino o al dirimpettaio. È aberrante. Siamo sovraffollati, in condizioni che rasentano la disumanità, definite di tortura dall’Unione Europea, sopra, lo abbiamo ben spiegato. La domanda giusta da porsi è: Come può funzionare il reinserimento? La cosi chiamata rieducazione? Come si possono svolgere i corsi organizzati? Non solo manca personale, sono concretamente assenti gli spazzi. Sappiamo che alcuni di voi sono già venuti a vedere le nostre celle, ma viverci è molto diverso. Voi ci dovete credere, queste non sono lamentele, non vogliamo né impietosire né mendicare, né invocare clemenza, ma solo riportare quanto è vero e ahinoi terribile. Si certo, alcuni di noi meritano di stare in carcere, hanno commesso reati, è altresì verosimile che, questa mancanza pressoché totale, di umanità nei confronti dei carcerati non è forse pari a commettere dei reati? È giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone detenute vengono poco alla volta, girono dopo giorno, defraudate della loro umanità, e questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento. La violenza fatta a quell’anziano prima citato, non è simile a compiere un reato, è uno dei tanti è vero, ma quanti, quanti ce ne sono come lui, non sono dei veri e propri reati, trattare le persone in questo modo, e non è forse vero che le condizioni in cui ci troviamo in carcere sono un costante incitamento al suicidio? Non pensiamo sia edificante, ma umanamente avvilente per un agente di turno dover sciogliere un nodo che un detenuto esanime si è messo al collo ponendo fine alla esistenza. Tutti possono sbagliare, ma il carcere deve essere impostato per rieducare, non per toglierci di mezzo, non penso che lo Stato attuale sia uno Stato non improntato al dialogo, anzi! È proprio per questo che possono nascere dal dialogo vere e proprie soluzioni. Vedere qui oggi le Signorie Vostre per noi è fonte di speranza, voi ci rappresentate, indifferentemente dall’appartenenza politica, voi ci rappresentate come persone, come abitanti di questo Bel Paese, l’Italia. Il problema carceri in Italia è grande, non è di sicuro il nostro fiore all’occhiello. In Europa ci rimproverano (2006-2013) per il nostro sistema carcerario, perché quindi, non provare ad ascoltare chi in carcere ci vive per immaginare possibili soluzioni? Questo non vuol dire scendere a patti con nessuno, ma semplicemente sarebbe un atto di democrazia, un modo per riuscire a sistemare questo problema carceri, o perlomeno un punto da cui cominciare. Da questo punto potrebbero nascere idee, e qui a Canton Mombello, il problema del sovraffollamento è eclatante, quindi perché non cominciare da qui? Sarebbe bello che compiendo un atto di umanità il nostro paese venisse visto in maniera diversa, in maniera positiva anche per il sistema carcerario oltre a tutto quello che di bello in Italia già c’è. Leggendo i giornali abbiamo letto che alcuni, considererebbero la concessione dei giorni in più di Liberazione Anticipata come un fallimento dello Stato. Noi ci chiediamo: “Perché concedere dei giorni in più di liberazione anticipata a persone “meritevoli” sarebbe un fallimento?”. Abbiamo visto, che non è facile essere meritevoli, sappiamo, che solo chi ha fornito prova di partecipazione ad un percorso rieducativo e riabilitativo può beneficiare di detti giorni, abbiamo osservato come non sia semplice rientrare nelle maglie di questa rete, quindi, davvero sarebbe un fallimento? Personalmente crediamo che non si tratti per nulla di un fallimento, al contrario sarebbe la concreta dimostrazione che lo Stato c’è, e ha vera volontà di cambiare le cose, di migliorare la vita a tutti i suoi cittadini, anche a quelli che hanno sbagliato, ma che comunque non sono esclusi. Ad oggi, causa il sovraffollamento, il carcere non mette in condizioni nessuno di essere rieducato, e fa vivere pesanti condizioni anche hai suoi operatori. Come può un sistema che mette in avaria il suo stesso personale passando da quello sanitario, dell’area educativa sino agli Agenti che con un giuramento si prodigano tutti i giorni in questo lavoro, funzionare? Cosi come i detenuti vivono quotidianamente con il sovraffollamento, gli stessi operatori sono costretti a conviverci e a fare i conti con i problemi che causa. Tutti quanti sono mesi a dura prova ogni giorno, e alla nostra sofferenza si somma la loro. Chi vuole, cerca e si prodiga per la rieducazione, conscio dei propri errori, si ritrova a lottare per frequentare corsi, che non possono esserci per tutti, poiché siamo davvero tanti. Qui nessuno chiede alcuna misura di grazia, desideriamo solamente poter avere un percorso corretto, giusto, che ci consenta di migliorarci come persone, e a cosa servirebbero i Giorni aggiunti di Liberazione anticipata se non a migliorare questo sistema? Con la concessione di questi giorni, non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del sovraffollamento, ma incentiverebbe un sistema virtuoso che da una speranza ai meritevoli. Conversione Decreto carceri, intesa tra alleati della maggioranza dopo le tensioni di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 25 luglio 2024 Vertice con Bongiorno e Nordio, ridotte le richieste di Forza Italia. Resta l’Aventino dell’opposizione, duello in Aula. Più scontro finale che dibattito fisiologico quello sul decreto Carceri. Maggioranza e opposizione si affrontano affilando le armi in previsione di mercoledì prossimo, quando il provvedimento - sul quale probabilmente sarà posta la fiducia - approderà nell’aula del Senato. È lì che la minoranza presenterà i propri emendamenti, dopo aver abbandonato martedì sera i lavori in commissione. L’Aventino è continuato anche ieri, con la richiesta al governo di riformulare il decreto alla luce delle emergenze carcerarie (dal sovraffollamento ai suicidi, passando per le condizioni degradanti dei detenuti in Italia). A irritare, poi, la contingentata partecipazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio al dibattito in corso. E sono state scintille tra il Guardasigilli e i dem: “Assurdo che sia venuto una sola volta in commissione”, dicono in coro, dal Pd, Anna Rossomando e Walter Verini. Il capogruppo dem Francesco Boccia attacca: “La maggioranza non ha consentito il necessario confronto sul provvedimento”. Critiche anche da 5 Stelle, Avs e Italia viva. Replica Giulia Bongiorno, presidente leghista della commissione Giustizia: “C’è stato un ampio dibattito e i relatori hanno garantito l’ascolto”. Quindi, verso i banchi dell’opposizione: “Se non venite in commissione poi non lamentatevi”. Sembrano ricomposte invece, almeno per ora, le divisioni nella maggioranza sul testo. “La politica è l’arte del compromesso. A volte non si può ottenere tutto subito”, commentano gli azzurri in commissione Giustizia, Maurizio Gasparri e Pierantonio Zanettin. Alla fine, nel vaglio in commissione, passano solo due dei nove emendamenti presentati da Forza Italia, che chiedeva modifiche importanti (come la possibilità della semilibertà per pene sotto i 4 anni). Risultato di una lunga trattativa, culminata in un vertice nello studio di Bongiorno, con Nordio, il viceministro Sisto e i sottosegretari Ostellari e Delmastro. Gli emendamenti “sono stati un po’ ristretti”, riassume Bongiorno. FI incassa il sì all’allargamento delle opportunità di messa alla prova e sulla possibilità per gli over 70 di scontare la pena ai domiciliari se tra i 2 e i 4 anni (nel testo originale si parlava di 4 e 6 anni, con le accuse dell’opposizione di una norma “pro Verdini”). Oltre a un odg sulla possibilità per i tossicodipendenti di scontare la pena in comunità. Rinviato, alla Camera, il testo di Roberto Giachetti (Iv) per aumentare i termini della liberazione anticipata: “Ennesimo rinvio, insopportabile presa in giro”, attacca lui. Intesa sullo svuota-carceri: sconti di pena, linea soft di Francesco Bechis Il Messaggero, 25 luglio 2024 Contatti Meloni-Tajani: niente semilibertà per chi ha ancora 4 anni da scontare Sì alle corsie veloci per anziani malati e tossicomani. Le opposizioni: “Non è civiltà”. Un accordo a metà. Il governo tiene il punto sul decreto-carceri: nessuna concessione a maxi-sconti di pena, solo ritocchi mirati per permettere ai detenuti fragili, anziani e tossicomani di scontare gli ultimi mesi fuori dai penitenziari. È il giorno dell’appello di Sergio Mattarella a fare presto sul sovraffollamento e l’emergenza suicidi in carcere. E il Parlamento per tutta risposta si trasforma in un ring. Da un lato il centrodestra diviso che trova una quadra dopo una riunione fiume al Senato: passano solo due dei sette emendamenti di Forza Italia per alleggerire il decreto carceri firmato da Carlo Nordio. Dall’altro le opposizioni infuriate e pronte all’Aventino, in protesta contro il rinvio alla Camera dell’esame della proposta di legge svuota-carceri del renziano Roberto Giachetti. La giustizia scalda gli animi dentro e fuori la maggioranza, in quest’ultimo sprint prima della pausa agostana. E preoccupa la premier Giorgia Meloni impegnata in prima persona a evitare incidenti e tensioni all’interno della sua coalizione. Ieri la presidente del Consiglio ha avuto più contatti telefonici con il vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani. Una tessitura per cercare un punto di contatto tra due linee opposte al governo. Dura e intransigente, sulle scarcerazioni “facili”, quella di Lega e Fratelli d’Italia, di tutt’altro tenore le richieste forziste - nel solco di Berlusconi - per alleviare il sovraffollamento dei centri di detenzione. Il risultato è una mediazione faticosa. “La politica è l’arte del compromesso”, sospira nel pomeriggio il capogruppo azzurro al Senato Maurizio Gasparri. Un compromesso, si diceva. Forza Italia la spunta su due emendamenti. Il primo permette ai detenuti malati con più di settant’anni e meno di quattro anni di pena residua di accedere agli arresti domiciliari, tranne nel caso di reati gravi. Il secondo riguarda la messa alla prova e permette di estenderla ai lavori di pubblica utilità. Ottiene anche, il partito azzurro, un ordine del giorno condiviso che prevede la possibilità dei tossicodipendenti di scontare la pena in comunità. Gli altri emendamenti invece sono ritirati. Incluso il più importante per i forzisti, su cui insiste lo stesso Tajani parlandone con Meloni: la concessione della semilibertà per i condannati con meno di quattro anni di pena residui. Niente da fare. Passa la linea del rigore e a dettarla è lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio in mattinata con una riunione fiume di maggioranza a Palazzo Madama ospitata nello studio della capogruppo della Commissione giustizia leghista Giulia Bongiorno, insieme al capo di gabinetto di Nordio Giusi Bartolozzi, i sottosegretari Andrea Ostellari e Francesco Paolo Sisto. “La maggioranza è coesa”, assicura all’uscita Bongiorno, anche se tra le file forziste resta la delusione per il mancato accordo sulla semilibertà, un vecchio pallino del Cavaliere. Il vero scontro però si consuma con le opposizioni, con buona pace delle strigliate arrivate dal Colle. Clima tesissimo fin dalla mattina, quando nel Transatlantico del Senato va in scena un duro batti-becco tra Nordio e i senatori dem Rossomando e Verini. Dal Pd accusano il governo di non aver preso in considerazione neanche una delle 225 proposte avanzate per allargare il perimetro del decreto-carceri. Fra queste, una norma che consentirebbe di togliere dal carcere i figli con meno di tre anni spostando le madri a scontare la pena in case famiglia. Proposta però finita contro il muro di Lega e FdI. Come non bastasse, nel pomeriggio alla Camera si accende un’altra miccia. Il partito della premier chiede e ottiene in aula il rinvio dell’esame del testo di Giachetti per accelerare sullo svuotamento delle carceri con un netto aumento degli sconti di pena: se ne riparlerà, semmai, più avanti. “Uno schiaffo alla civiltà”, affonda la dem Debora Serracchiani. “Proposta irricevibile” le fa eco il segretario di Più Europa Riccardo Magi. La battaglia, promettono le opposizioni, ripartirà la prossima settimana. Dl carceri, l’opposizione diserta i lavori e protesta. Il Colle: “Troppi suicidi” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 luglio 2024 Aventino di Pd, M5S, Avs e centristi dopo la riunione di maggioranza in cui è stato trovato l’accordo sugli emendamenti di Forza Italia. Scontro in Senato tra Nordio e il Pd, Il dem Bazoli: “Ci hanno sbattuto la porta in faccia”. Al Senato è scontro totale sul decreto legge carceri. L’opposizione ha abbandonato i lavori della commissione Giustizia a causa della bocciatura di tutti gli emendamenti (più di 200) presentati, accusando la maggioranza di un atteggiamento “ottuso” su un tema sempre più delicato, che richiederebbe una collaborazione costruttiva tra tutti i partiti. Ora l’opposizione annuncia battaglia in aula. Ma in merito al passaggio parlamentare l’ottimismo è ridotto al lumicino. “Ci hanno sbattuto la porta in faccia”. Non usa giri di parole il senatore dem Alfredo Bazoli. “Di fronte alla nostra amplissima disponibilità a discutere - dice al Dubbio il capogruppo Pd in commissione Giustizia a Palazzo Madama - per affrontare nel migliore dei modi l’emergenza carcere la risposta della maggioranza è stata uno schiaffo verso le opposizioni. Un atteggiamento così sprezzante e arrogante io non l’ho mai visto in dodici anni di presenza in Parlamento”. Di qui la decisione di abbandonare la commissione Giustizia. “Non potevamo fare diversamente - spiega Bazoli -, perché la nostra presenza a questo punto è diventata del tutto inutile. La maggioranza ha certificato la decisione di non prendere in considerazione neanche uno dei nostri 225 emendamenti presentati”. Cosa faranno adesso il Pd e gli altri partiti dell’opposizione? “Purtroppo - aggiunge Bazoli - su questo decreto siamo stati messi fuori completamente, ma continueremo a incalzare la maggioranza a partire dall’arrivo in aula del testo. Penso, però, che il decreto carceri verrà approvato con la fiducia e che verrà tagliata completamente la discussione anche in aula”. L’esponente del Pd si rammarica per la situazione venutasi a creare. “Tutte le nostre proposte - evidenzia il capogruppo dem in Commissione Giustizia del Senato - sono finalizzate al miglioramento della condizione di vita di chi è recluso. Si pensi alle telefonate e alle videochiamate dei detenuti, alle misure alternative al carcere, al ripristino delle misure come i permessi premio, alle licenze premio nelle forme che furono sperimentate con esiti confortanti durante l’emergenza Covid. Senza tralasciare le altre misure deflattive sul sovraffollamento carcerario, come la liberazione anticipata e lo sconto automatico di pena. Il nostro ventaglio di proposte può impattare in misura notevole sulla vita all’interno delle carceri e sulla popolazione carceraria. Il carcere non dovrebbe essere terreno di scontro politico. Anzi, dovrebbe indurre tutti i partiti a fare uno sforzo per trovare punti di condivisione”. La tensione sul dl carceri ha raggiunto l’apice nello stesso giorno in cui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel corso della cerimonia del Ventaglio, ha ricordato quanto sia preoccupante la condizione dei detenuti nel nostro Paese. “Vi è un tema - ha commentato il Capo dello Stato - che sempre più richiede vera attenzione: quello della situazione nelle carceri. Non ho bisogno di spendere grandi parole di principio: basta ricordare le decine di suicidi, in poco più dei sei mesi, quest’anno. Ma vorrei condividere una lettera che ho ricevuto, per il tramite del Garante di quel territorio, da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è e deve essere l’Italia”. La lettera alla quale ha fatto riferimento il presidente della Repubblica è stata pubblicata sul nostro giornale un mese fa, lo scorso 22 giugno. I detenuti del carcere di Brescia-Canton Mombello hanno presentato con disarmante chiarezza uno spaccato delle condizioni ai limiti dell’umano in cui si vive nell’istituto lombardo, ma anche nella maggior parte dei penitenziari italiani. “Il carcere - ha ricordato Sergio Mattarella - non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza. Non va trasformato in palestra criminale. Vi sono in atto alcune proficue e importanti attività di recupero attraverso il lavoro. Dimostrano che, in molti casi, è possibile un diverso modello carcerario. È un dovere perseguirlo”. Il senatore Alfredo Bazoli, che è di Brescia, si è associato al pensiero espresso del Capo dello Stato: “Molto bello e importante che il presidente Mattarella abbia voluto richiamare la lettera dei detenuti del carcere di Brescia per richiamare l’attenzione della politica sulle condizioni disastrose in cui vivono i detenuti. È un segnale di attenzione e apprezzamento per un appello che i detenuti di uno degli istituti penitenziari peggiori d’Italia hanno voluto rivolgere in modo civile e appassionato alle istituzioni, grazie anche al prezioso lavoro della garante di Brescia, Luisa Ravagnani. C’è solo da sperare che il governo e la maggioranza, sprezzanti e arroganti con le opposizioni, raccolgano l’appello e abbiano il coraggio di cambiare profondamente un decreto carceri, che, allo stato, è acqua fresca rispetto alla grave emergenza carceraria”. L’emergenza carcere è conclamata e richiede il massimo del pragmatismo. Decreto carceri, ok agli emendamenti di Forza Italia di Giacomo Puletti Il Dubbio, 25 luglio 2024 Il faccia a faccia tra Nordio e gli azzurri dà via libera all’intesa: riformulate le modifiche volute dai forzisti. Sisto: “Trovata sintesi soddisfacente per tutti”. Martedì il mandato al relatore. Arriverà in Aula la prossima settimana il decreto carceri, con il mandato al relatore che sarà votato martedì, dopo che la commissione Giustizia del Senato ha terminato l’esame degli emendamenti. Un esame al quale ha partecipato la sola maggioranza, con l’opposizione che per protesta ha disertato i lavori. La stessa maggioranza ha invece trovato l’accordo sugli emendamenti di Forza Italia, che puntavano a “umanizzare” le carceri dopo mesi di proteste negli istituti, crescita del sovraffollamento e di pari passo dei suicidi, arrivati al numero monstre di 58 dall’inizio dell’anno. Un accordo arrivato al termine di una riunione svoltasi a palazzo Madama ieri mattina tra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, la presidente leghista della commissione Giulia Bongiorno e i viceministri Andrea Ostellari del Carroccio e il forzista Francesco Paolo Sisto. “Abbiamo individuato alcune sintesi sugli emendamenti per una soluzione condivisa sugli schieramenti, circoscrivendo un po’ alcuni emendamenti di Forza Italia, per una ampia condivisione”, ha spiegato Bongiorno esprimendo poi “soddisfazione per la sintesi e la coesione in maggioranza”. Subito dopo Sisto ha spiegato che “gli emendamenti di Forza Italia puntano a deflazionare il carcere con misure su semilibertà, affidamento in prova e domiciliari” e che “si è trovata una sintesi politica soddisfacente per tutti”. Una soddisfazione che Forza Italia ha espresso tramite una nota di Maurizio Gasparri e Pierantonio Zanettin, membri azzurri della commissione Giustizia di palazzo Madama. “Forza Italia, nel garantire la certezza della pena, ha cercato di favorire quei meccanismi tesi ad umanizzarla, in casi di grave malattia o di età avanzata, favorendo anche il lavoro di pubblica utilità come alternativa a quello privato per l’affidamento in prova al servizio sociale - si legge - Abbiamo quindi mantenuto un impianto che, nel garantire la sicurezza per i cittadini, desse luogo anche a una attenuazione del sovraffollamento carcerario. A tal fine, fondamentale è stato il contributo che Forza Italia ha dato affinché si ricorra maggiormente alla norma che consente ai detenuti tossicodipendenti, con condanne fino a sei anni, di scontare la loro pena agli arresti domiciliari, presso una comunità terapeutica. È stato infatti approvato anche un ordine del giorno che abbiamo presentato in tal senso. Abbiamo apprezzato - proseguono i due senatori - l’impegno che il governo sta profondendo, di intesa con le Regioni, perché la permanenza in una comunità terapeutica, oltre ad avere una valenza educativa e morale, costa molto meno di un giorno in una struttura carceraria. Anche questo strumento, già esistente e da applicare con maggiore intensità, contribuirà a un minore affollamento delle carceri. Il governo, a tal fine, ha anche garantito fondi maggiori con un apposito emendamento”. Ritirato invece per mancanza di coperture l’emendamento dei relatori sui servizi di telemedicina per i detenuti. Trattandosi di una disposizione che andava ad incidere su un investimento del PNRR, hanno spiegato fonti di maggioranza, “lo abbiamo ritirato per il necessario coordinamento” con gli altri elementi del piano. Sul tema carceri ieri è intervenuto anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale ha citato una lettera dei detenuti di Brescia e le cui affermazioni sono state condivise da Fi. “Condividiamo perfettamente il giudizio espresso dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ci siamo impegnati per cercare di risolvere il problema carcerari coniugando due aspetti, quello dell’umanizzazione della pena con quello della certezza della pena - ha detto Zanettin - Siamo consapevoli che la situazione è molto grave, abbiamo un numero abnorme di suicidi e dobbiamo in tutti i modi evitare che questo numero aumenti: il nostro obiettivo è intervenire sul sovraffollamento e contiamo che gli interventi del governo aiutino in tal senso”. “Lodo Toti”: Forza Italia vuole tutti fuori dopo 2 mesi di custodia cautelare di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2024 Oltre i 60 giorni vietato il carcere o i domiciliari se non c’è pericolo di reiterazione del reato (ma la misura serve proprio a evitare che ciò accada. Tutti fuori dopo sessanta giorni, se non sopraggiungono nuovi e diversi elementi di rischio di reiterazione del reato. Tommaso Calderone, capo gruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, prova a riscrivere le norme sulla custodia cautelare. Lo fa con una proposta di legge - anticipata da Il Dubbio - che firma da solo, senza altri esponenti di Forza Italia. L’obiettivo è quello di far rivalutare al giudice il rischio di reiterazione di reato, dopo due mesi dall’ordinanza di misura cautelare, che sia in carcere o ai domiciliari. Ma logica vuole: come fa ad esserci un fatto nuovo se la misura cautelare serve proprio ad impedire che ciò accada? Di conseguenza, nei fatti, la custodia cautelare, così come la si vuole riscrivere, diventerebbe a termine: ossia due mesi per tutti. Raggiunto dal Fatto però Calderone precisa subito: “La mia proposta non riguarderà i reati ostativi, quelli di mafia, i reati sessuali, di terrorismo o comunque aggravati dalla mafia, l’omicidio e l’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti”. Riguarderà però altri delitti altrettanto odiosi: le corruzioni, quelli dei colletti bianchi, e anche i singoli reati di spaccio. E dunque è una norma che potrebbe calzare, in linea astratta, anche al caso di Giovanni Toti, il governatore della Liguria dall’8 maggio ai domiciliari per l’accusa di corruzione. “Toti è capitato nel mezzo. Certo che può essere applicato anche al suo caso - dice Calderone -. Io però mi occupo di diritto, non di ideologie. Faccio l’avvocato da 40 anni, conosco le patologie del processo”. E il reato contestato al singolo spacciatore? “È punito con pene non elevate. Il diritto ha dei principi generali che non si possono mortificare. La pena edittale arriva a incidere su decide di altri istituti giuridici. In ogni caso stiamo parlando della fase cautelare, ovvero la fase in cui il carcere dovrebbe essere l’estremo rimedio”. La sua proposta incide sulla lettera C dell’articolo 274 del codice di procedura penale che norma proprio le esigenze cautelari disposte in caso di pericolo di reiterazione del reato. È un ulteriore balzo rispetto a quanto stabilito dalla riforma Nordio che ha passato la decisione dell’emissione di misura cautelare non più ad un singolo giudice ma a un collegio di tre. Adesso l’idea del deputato forzista è quella di dare la possibilità al giudice, dopo 60 giorni dalla misura cautelare, di rivalutare se ci sono ancora pericoli di reiterazione del reato: se non sono sopraggiunte esigenze nuove e diverse da quelle che avevano portato inizialmente ad emettere la misura, tutti fuori. Fine del carcere o dei domiciliari. Calderone è convinto che ne beneficeranno anche i magistrati: “Questo perché è una norma che dà un senso al decorso del tempo. È chiaro che una misura personale determina afflizione perché è strettamente correlata al disonore sociale”. Insomma “se un soggetto viene arrestato, se è minimamente una persona perbene come minimo prova vergogna, la sua famiglia subisce patimento, e vi sarà pure un pregiudizio per la sua attività lavorativa”. E quindi? “E quindi è necessario che dopo 60 giorni un giudice torni a valutare le esigenze cautelari. In questo modo si dà un valore ai sessanta giorni di carcere. Nel caso di Toti, ad esempio, se emergono altri elementi, altri processi o altri capi di imputazione è chiaro che sono fatti nuovi e dunque resta dov’è. Ma se non emerge nulla, non c’è un fatto nuovo che mi fa pensare che l’indagato possa reiterare il reato, va fuori. È lo Stato che deve dimostrare che ci sono ancora esigenze cautelari”. Calderone quindi conclude: “Ogni volta ci sono casi diversi, decisioni contrapposte da città a città, ma anche tra Gip che fanno parte dello stesso Tribunale. E quindi abbiamo un giudice a Messina che dopo un mese mette fuori uno e quello di Palermo che ci mette sette mesi. Bisogna dare una disciplina. La ratio legis è questa”. Carceri incivili, ma la destra se ne frega e insabbia la proposta di legge Giachetti di Paolo Comi L’Unità, 25 luglio 2024 A Montecitorio la maggioranza rinvia ancora la pdl sulla liberazione anticipata speciale e al Senato tira dritto sul dl di Nordio che non incide minimamente sul sovraffollamento. Nulla da fare. Le carceri continuano ad essere uno dei temi più incandescenti all’interno della maggioranza. Le sensibilità al riguardo fra i partiti che sostengono il governo Meloni, soprattutto sul modo di gestire la detenzione, sono quanto mai distanti fra loro. L’unico partito che sulla carta potrebbe avere un approccio più garantista è Forza Italia, ma si trova schiacciata fra Lega e Fratelli d’Italia che vedono con il fumo negli occhi qualsiasi provvedimento che metta in discussione il mantra della “certezza della pena”. Non va mai dimenticato, infatti, che ai tempi di Tangentopoli i leghisti esponevano il cappio alla Camera e i missini tiravano le monetine a Bettino Craxi all’hotel Raphael. Senza considerare, inoltre, che FdI esprime sia il ministro della Giustizia che uno dei sottosegretari, Andrea Delmastro, il quale peraltro ha proprio la delega sulle carceri e sulla polizia penitenziaria. Le divisioni culturali sono emerse ieri in occasione della discussione in Commissione giustizia al Senato sul dl “Carcere sicuro”, il provvedimento voluto dal ministro della Giustizia per rispondere al gravissimo sovraffollamento delle prigioni italiane. Con un colpo di mano sono stati respinti tutti gli emendamenti. Gli unici due emendamenti sopravvissuti sono a firma di Forza Italia ma riguardano questioni minori. “Abbiamo cercato di favorire quei meccanismi tesi ad umanizzare la pena in casi di grave malattia o di età avanzata, favorendo anche il lavoro di pubblica utilità come alternativa a quello privato per l’affidamento in prova al servizio sociale”, hanno dichiarato i senatori azzurri Maurizio Gasparri e Pierantonio Zanettin. Ritirato, infine, l’emendamento sulla semilibertà anticipata. Sempre su proposta di FI è stato approvato un odg che consente ai detenuti tossicodipendenti, con condanne fino a sei anni, di scontare la loro pena agli arresti domiciliari, presso una comunità terapeutica. Durissime, invece, le opposizioni alla decisione di bocciare tutti gli emendamenti: non parteciperanno più ai lavori della Commissione fino al suo arrivo in Aula previsto per lunedì e dove ripresenteranno tutti i loro emendamenti. “Non ci sono le condizioni per contribuire alla conversione di questo decreto. Un no secco a tutti gli emendamenti delle opposizioni, nessuna apertura nonostante le audizioni, le dichiarazioni iniziali, nonostante la situazione drammatica delle carceri”, hanno fatto sapere Anna Rossomando e Walter Vernini (Pd), Ilaria Cucchi (Avs), Ada Lopreiato (M5s) e Ivan Scalfarotto (Iv). “Sono ancora rimasti al “bisogna marcire in galera”, ha ricordato Rossomando. “Abbiamo 61mila detenuti, quando dovrebbero essere al massimo 47mila”, ha sottolineato ancora una volta Scalfarotto. “Con temperature alte, senza un ventilatore, in condizioni pessime, i nostri detenuti - ha aggiunto - sono in sofferenza, anche perché sono condannati alla perdita della dignità”. Nel mirino, come sempre, Delmastro. “Quando il sottosegretario dice che è contrario ad ogni decisione che vada contro la certezza della pena, si deve ricordare che questo non significa dormire senza acqua calda, con i topi, con le blatte. C’è un’idea della pena che non è umana e non è a norma della Costituzione”, ha quindi puntualizzato Scalfarotto, secondo cui la responsabilità del Parlamento non è solo politica, ma anche “morale”. La polemica si è successivamente spostata alla Camera dove la deputata meloniana Carolina Varchi ha chiesto e ottenuto il rinvio ad altra seduta dell’esame della proposta di legge Rita Bernardini-Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata e che prevede, tra l’altro, un aumento da 45 a 60 giorni dello sconto di pena ogni sei mesi per buona condotta. Varchi ha proposto il rinvio “per ragioni di economia” dato che al Senato è, appunto, in discussione il dl “Carcere sicuro”. “La tragedia si consuma ora: siamo in media al 130% del sovraffollamento, i suicidi sono 58, ma questo numero rappresenta solo l’epifenomeno perché ne sono stati tentati 800 e si contano decine di migliaia di atti di autolesionismo. L’unica misura in grado di incidere subito è la nostra”, ha fatto sapere Giachetti, aggiungendo che “il rinvio per l’esame della legge sulla liberazione anticipata è un’insopportabile presa in giro”. L’iter di questa proposta era iniziata il 14 febbraio in Commissione. C’era poi stato un primo rinvio e quindi la richiesta da parte della maggioranza di un nuovo rinvio per trovare una sintesi. Dunque, un altro rinvio per le elezioni europee. Arrivata la convocazione del 17 giugno, è stata fatta slittare a ieri, ma nel frattempo è arrivato in Senato il dl Nordio. “Andateci in carcere e sentite che cosa vi diranno i sindacati della polizia penitenziaria, i direttori, i magistrati di sorveglianza, le associazioni di volontariato, gli educatori, gli psicologici. Tutti diranno che la situazione è drammatica. La maggioranza vuol far sì che lo stato di illegalità faccia esplodere la situazione. Mi rivolgo ai colleghi di Forza Italia. State girando la faccia e il vostro voto affonderà questa legge”, ha concluso Giachetti. “Impossibile ottenere di più”, ha commentato un forzista a microfoni spenti. Ma si era capito. Affossata la proposta di legge Giachetti. Meloni e Lega costringono Forza Italia al dietrofront di Gabriella Cerami La Repubblica, 25 luglio 2024 La norma rinviata sine die. L’ira del deputato contro FI che si era detta a favore: “Vi state girando dall’altra parte”. È la solita condanna. “State girando la faccia e il vostro voto affosserà questa legge”, dal suo scranno di Montecitorio, Roberto Giachetti alza la voce. Urla più che può rivolgendosi verso i banchi di Forza Italia perché, ancora una volta, la volontà politica di migliorare la vita dei detenuti non si è affermata in Parlamento, malgrado i buoni propositi dei forzisti naufragati nel nulla. In Aula alla Camera è arrivata la proposta di legge presentata dal deputato di Italia Viva, che prevede di alzare da 45 a 60 per ogni semestre i giorni per la liberazione anticipata, così da alleggerire il sovraffollamento carcerario. Ma è approdata solo per mezz’ora e per deciderne il rinvio a data da destinarsi con il voto favorevole degli azzurri, che fino a qualche ora prima consideravano questo provvedimento necessario a fronte anche dei 54 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno ad oggi. Poi però la giornata ha preso un’altra strada Al Senato, contestualmente, è in discussione il decreto Carceri, che non contiene norme che impattano sull’emergenza degli istituti penitenziari. Ed è per questo che, in commissione Giustizia a Palazzo Madama, Forza Italia aveva depositato nove proposte di modifica, alcune delle quali sostanziali, come l’emendamento che prevedeva la semilibertà nel caso in cui la pena da scontare non superasse i 4 anni. Oggi i mesi sono sei. Il presidente Maurizio Gasparri e il capogruppo in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin, hanno provato a puntare i piedi, ma sono rimasti schiacciati dal resto della maggioranza. Hanno quindi battuto la ritirata dopo una lunga trattativa culminata in una “complessa riunione” convocata nello studio di Giulia Bongiorno, presidente della commissione e responsabile giustizia della Lega, alla presenza del Guardasigilli, Carlo Nordio, del suo braccio destro Giusi Bartolozzi, del viceministro Paolo Sisto e dei sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Delmastro. Un vertice ad alta tensione per non dare l’idea di una maggioranza spaccata in Parlamento. E ci sarebbe stata anche una telefonata tra il leader di FI, Antonio Tajani, e la premier Giorgia Meloni per tentare di far passare almeno la proposta sulla semilibertà. Ma senza che la cosa abbia prodotto gli esiti sperati. Alla fine i colleghi della Camera, dove le minacce di una frattura erano più forti, si sono adeguati ai senatori e lo stratagemma individuato è stato quello del rinvio del provvedimento, con ogni probabilità, a dopo l’approvazione del decreto Carceri. Tutto ciò avviene nel giorno in cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parla di una situazione carceraria “indecorosa per un Paese civile” e “un sistema migliore è possibile”. Le opposizioni, che avevano chiesto di votare a scrutinio segreto per stanare le contraddizioni della maggioranza, protestano di fronte a quello che considerano “uno schiaffo alla civiltà”, per usare le parole della responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani. “Ma andateci in carcere”, è l’invito di Giachetti, “e sentite cosa vi diranno i sindacati della polizia penitenziaria, i direttori, i magistrati di sorveglianza, le associazioni di volontariato, gli educatori, gli psicologici. Tutti diranno che la situazione è drammatica”. Niente da fare. Se la proposta di legge Giachetti resta al palo, il decreto Carceri resta vuoto, anche perché in commissione al Senato sono state accantonate tutte le proposte di modifica presentate dalle opposizioni, che poi hanno infatti deciso di disertare i lavori. Le uniche modifiche riguardano i due emendamenti di Forza Italia. Uno dei quali, che secondo le opposizioni avrebbe potuto essere “a vantaggio di Denis Verdini”, è stato riformulato. Nella versione originaria, si parlava della possibilità di far scontare al condannato 70enne o over 70 la pena tra i 4 e i 6 anni agli arresti domiciliari. Mentre nella stesura corretta si parla di una pena tra i 2 e i 4 anni. L’altro consente al condannato di essere ammesso a un servizio di pubblica utilità, E infine l’ordine del giorno sulla possibilità per i detenuti tossicodipendenti di scontare la pena in comunità. La soluzione dell’emergenza, o almeno un passo in avanti, è rinviata. Bernardini: “Sulle carceri il governo non ascolta nemmeno Mattarella. Nordio? Non lo riconosco” di Gianluca De Rosa Il Foglio, 25 luglio 2024 L’ex deputata Radicale ha scritto insieme al deputato di Iv Roberto Giachetti una legge per aumentare gli sconti di pene ai detenuti che si comportano bene e ridurre il sovraffollamento. Ma la maggioranza alla Camera ieri ha rinviato la discussione del testo. “Davanti alle parole di Mattarella non hanno neppure avuto il coraggio di dire no, intanto nelle carceri la situazione sta diventando insostenibile”. Rita Bernardini, ex deputata radicale e presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, una vita passata a battersi per i diritti dei detenuti, passeggia per palazzo Montecitorio sconfortata. Nonostante il presidente della Repubblica abbia ieri sottolineato come la situazione delle carceri italiane sia “indecorosa per un paese civile”, la maggioranza ha rinviato il progetto di legge che Bernardini ha scritto insieme al deputato di Italia viva Roberto Giachetti che è diventato anche una petizione su change.org. La proposta prevede 30 giorni in più all’anno di sconto di pena per i detenuti che “hanno dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Una norma per ridurre il sovraffollamento che Lega e FdI hanno bollato come uno “svuota-carceri”. E che, invece, Bernardini ricorda: “È già stata adottata in passato e non farebbe altro che consentire alle persone più meritevoli di uscire un po’ prima, senza alcun ‘libera tutti’ generalizzato”. Per adesso la maggioranza non ha bocciato la proposta, ma rinviato la discussione a dopo l’arrivo alla Camera del decreto Carceri. Ora si trova al Senato, dove il governo ha cassato l’emendamento del forzista Pierantonio Zanettin che avrebbe allargato l’accesso al regime di semilibertà. “Non sarebbe stato risolutivo ma avrebbe dato un segnale forte”, commenta Bernardini che ormai è convinta che la maggioranza non farà nulla, nonostante i quasi sessanta suicidi da inizio anno. “Questo fenomeno va gestito, devono capirlo, invece non ascoltano niente e nessuno”, dice. Eppure il sottosegretario Andrea Delmastro dice di andare spesso in visita nelle carceri. “Sì, peccato che lui e Ostellari (il sottosegretario della Lega, ndr) si limitino a parlare con gli agenti della polizia penitenziaria, non con i detenuti. Forse gli fanno schifo, ma dovrebbero sapere che le carceri esistono per loro”. Ma più che i sottosegretari tutti sicurezza e mascelle serrate di Lega e FdI a stupire l’ex segretaria di Radicali italiani è il ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Io - dice - ormai lo chiamo il ‘fu Nordio’, nel senso che da quando è diventato ministro purtroppo ha cambiato personalità. Io mi ricordo quando con Pannella si diceva favorevole all’amnistia e all’indulto, oggi sostiene che sarebbero ‘una resa dello stato’. Era persino presidente di una commissione istituita dal Parlamento per decarcerizzare il sistema, poi non so cosa sia successo, mi chiedo ‘dove stai Nordio?’”. Il ministro comunque dice che il tema dei suicidi e quello del sovraffollamento non sono collegati. “È l’affermazione di chi ha deciso di non voler ragionare. Il sovraffollamento determina che il personale assegnato - che sarebbe carente anche se i detenuti fossero circa 47 mila, ovvero quelli che le carceri possono ospitare - è in difficoltà estrema con 14 mila persone in più. Questo comporta che spesso persone che hanno anche problemi psichiatrici o di gravi dipendenze compiano gesti inconsulti perché non c’è nessuno a seguirli: non uno psicologo, non uno psichiatra, ma neppure un poliziotto”. Ma se la legge che ha scritto con Giachetti serve per affrontare l’emergenza Bernardini sostiene che invece di costruire nuove carceri questo dovrebbe essere il momento della svolta. “Così com’è - dice - il nostro sistema è rimasto carcerecentrico e le carceri sono diventate lo sgabuzzino del disagio sociale, mentre dovrebbero essere un luogo riservato alle persone più pericolose, con tossicodipendenti e malati psichiatrici in strutture alternative. Purtroppo basta vedere i numeri: per tenere in piedi un sistema disumano paghiamo 3 miliardi l’anno mentre per le misure alternative si spendono in totale 500 milioni di euro, un sesto”. La destra dice che servono regole certe. “La linea securitaria del governo fa ridere”, replica Bernardini. Faccio un esempio: a detta del provveditore della Campania, Lucia Castellano, uno dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, le carceri sono le migliori piazze di spaccio, perché i detenuti tossicodipendenti se gli porti la droga lì sono disposti a pagare qualsiasi cifra, e questo accade tutti i giorni perché in queste condizioni le carceri oltre a essere luoghi di assoluto degrado sono anche posti in cui regna un’illegalità diffusa. Non solo...”. Ci dica. “In Italia ci sono 100 mila liberi sospesi: gente condannata a pene sotto 4 anni che attende la decisione del giudice di sorveglianza: pene alternative o il carcere. Queste persone sono in questo limbo per anni, e se sono pericolose, quale sarebbe la garanzia della sicurezza? Quanta ipocrisia”. Csm e giudici costituzionali, il Colle avvisa il Parlamento di Mario Di Vito Il Manifesto, 25 luglio 2024 “Con garbo”, ma anche “con determinazione”, durante la cerimonia del Ventaglio di ieri, Sergio Mattarella ha ricordato al Parlamento che da otto mesi deve eleggere un giudice costituzionale. Era l’11 novembre, infatti, quando è andata in pensione Silvana Sciarra e da allora tutte le votazioni per la sua sostituzione sono finite in nulla. Non parliamo di una casualità, né di una palude istituzionale particolarmente difficile da attraversare, ma di un preciso calcolo politico della destra. A dicembre, infatti, scadrà di mandato di altri tre giudici di nomina parlamentare (Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti) e le forze di governo puntano a fare cappotto: quattro pedine in un colpo solo. “Non so come lo si vorrà chiamare. Monito, esortazione, suggerimento, invito…”, ha detto Mattarella, lasciando intendere che dicembre è una scadenza troppo lontana sul calendario. La tempistica, infatti, non è per niente casuale. Siamo infatti nei giorni in cui la questione istituzionale più calda riguarda la posizione della consigliera laica del Csm Rosanna Natoli (FdI), precipitata al centro di uno scandalo senza precedenti dopo la diffusione dell’audio di un suo incontro riservato con una giudice sotto procedimento disciplinare. Lunedì pomeriggio Mattarella ha fatto presente al vicepresidente del Csm Fabio Pinelli che Natoli farebbe bene a dimettersi, ma la consigliera appare intenzionata a resistere a tutte le pressioni. Anche a quelle che arrivano dal Colle: una mossa clamorosa dietro la quale non può che esserci un sostegno politico. Di chi? Tanto per cominciare, Natoli è una diretta emanazione di Ignazio La Russa, che l’ha voluta al Csm a mo’ di compensazione per la mancata elezione alla Camera nel 2022. Poi c’è un fatto puramente numerico: per sostituirla ci sarebbe bisogno del voto compatto dei tre quinti del parlamento e, allo stato attuale delle cose, appare improbabile che FdI possa riuscire a nominare un’altra figura a sé tanto organica. Non sfugge a nessuno, figuriamoci a Mattarella, che i tre quinti necessari per rimpiazzare Natoli sono gli stessi che servono per nominare i nuovi giudici costituzionali. E se la destra è in crisi per il primo punto, pallottoliere alla mano, non può che esserlo anche per il secondo. In soldoni: servono 363 voti e le forze di governo ne hanno 355 (sulla carta, perché poi il voto è segreto). Gli altri 8, che prima venivano assicurati da renziani e calendiani, adesso sono molto più incerti di quanto non fossero fino a pochi mesi fa e così l’ipotesi del cappottone giudiziario della destra - ampia maggioranza dei laici al Csm, ampissima maggioraza tra i giudici costituzionali - si sta fatalmente allontanando ogni giorno di più. L’unica strategia possibile, dunque, è quella di resistere a oltranza. Natoli, in via informale, ha fatto sapere a Pinelli che non vuole dimettersi e, ammesso che riesca a tenere la posizione ancora un’altra settimana, arriveranno salvifiche le ferie di agosto a far slittare ogni discussione a settembre. Per i giudici costituzionali, invece, i piani non cambiano: testa sotto la sabbia e aspettare dicembre, sperando in tempi migliori. Ma Mattarella invita a fare presto e c’è da aspettarsi che il richiamo “garbato” di ieri con il passare delle settimane diventerà sempre più veemente. Intanto al Csm si fa finta di niente. Al plenum di ieri mattina si è parlato di tante cose (compreso il caso di Yara Gambirasio, chiuso in maniera ermetica dalle sentenze ma ora tornato di moda a causa di una serie complottista di Netflix) ma non di Rosanna Natoli, peraltro assente. L’imbarazzo in questa situazione coinvolge soprattutto i consiglieri nominati dal parlamento, che quasi negano l’esistenza stessa dello scandalo, derubricandolo a bagatella di scarso rilievo. Di contro i togati sono, a voler usare termini gentili, sempre più perplessi. La nota diffusa dall’Anm è, in questo senso, un manifesto ambientale: “Il tentativo di minimizzare” il caso Natoli (definita “inadeguata”) “è inaccettabile” perché così si va a minare “in profondità il prestigio dell’istituzione” e si offende” la magistratura nel suo complesso”. Da qui l’invito all’interessata di far prevalere “il senso di responsabilità”. Che si sbrighi a far arrivare le sue dimissioni. In tempi normali, il passo indietro sarebbe inevitabile, se non per logica politica, almeno per sensibilità istituzionale. Ma evidentemente non viviamo in tempi normali. Grave lo stop sui giudici costituzionali. La Consulta non è terra di conquista di Donatella Stasio La Stampa, 25 luglio 2024 Il presidente della Repubblica incalza la politica e chiede di nominare subito il 15° membro della Corte. Lega, FdI e Fi vorrebbero “dividersi” i candidati e votarli a dicembre. Ma così danneggiano l’Istituzione. Il potere mite di un’istituzione forte. È quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ieri ha pronunciato parole durissime nei confronti del Parlamento ma con un garbo che, al di là dello stile personale, è la cifra della forza e della credibilità dell’istituzione che rappresenta. Il ritardo nell’elezione del quindicesimo giudice costituzionale, ha detto Mattarella, è “un vulnus alla Costituzione”. Un danno, un’offesa, una grave lesione degli equilibri della nostra democrazia. L’artefice è il Parlamento, proprio l’istituzione che la Costituzione mette “al centro della vita della nostra democrazia”. Da più di otto mesi, il Parlamento rinuncia a esercitare le sue prerogative, succube di una maggioranza che vuole arrivare al 21 dicembre, quando scadranno altri tre giudici in quota parlamentare, per fare en plein. Da più di otto mesi, il Parlamento contravviene ai suoi doveri costituzionali e alle relative responsabilità. Da più di otto mesi - e il rischio è che si arrivi a marzo 2025 -, il Parlamento sta di fatto danneggiando un’altra istituzione vitale per la democrazia, la Corte costituzionale. Non è accettabile. Non lo è per noi cittadini, che abbiamo a cuore la democrazia, i suoi organi rappresentativi e quelli di garanzia. Ma a maggior ragione non lo è - tanto più di fronte all’ostentato silenzio dei presidenti delle due Camere, direttamente responsabili dell’elezione - per chi, come il Capo dello Stato, ha il compito cruciale di assicurare il buon funzionamento delle istituzioni e quel compito intende svolgere fino in fondo, finché sarà possibile. Questo ha fatto ieri Mattarella, chiedendo che il quindicesimo giudice venga eletto “subito”. Subito vuol dire subito, non dopo le vacanze, magari con una finta convocazione prima della chiusura delle Camere per ferie. Subito deve significare convocazioni a oltranza, ogni giorno, e più di una al giorno, contestualmente alle altre emergenze in cui è finito il Parlamento per la bulimia di decreti legge del governo. Un conclave, insomma, finché non si arriverà al risultato, come avvenne nel 2005, dopo il richiamo dell’allora capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, raccolto dai presidenti delle Camere Pera e Casini. Quando la democrazia è a rischio - che si tratti della latitanza sul 15° giudice costituzionale o delle condizioni “indecorose” del carcere, altra urgenza segnalata da Mattarella - il Parlamento non va in vacanza ma resta a lavorare. Questo ci aspettiamo ora dalla maggioranza e anche dall’opposizione, che finora ha giocato troppo di rimessa, non con la postura richiesta da un passaggio istituzionale come questo. Mattarella ha detto che “la democrazia è anzitutto conoscenza”. In più occasioni, abbiamo denunciato e cercato di spiegare perché è un “vulnus alla Costituzione” questo sfrontato ritardo nell’elezione di uno dei cinque giudici in quota parlamentare (gli altri dieci sono scelti, in parti uguali, dal Quirinale e dalle supreme magistrature). Lega, Fdi e Fi non si fidano reciprocamente e perciò vogliono “spartirsi” i candidati, e votarli, nello stesso momento, cioè a dicembre: uno a me, uno a te, uno a me e forse il quarto all’opposizione. Ma Mattarella ha ricordato che la scelta di un giudice costituzionale - o di più giudici - non rientra nel novero delle “nomine” politiche, anche se il quorum elevato stabilito in Costituzione impone di trovare un accordo ampio e trasversale. Le forze politiche hanno il dovere di fare “una scelta rigorosamente individuale, di una singola persona meritevole, per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio, di ricoprire quell’incarico così rilevante” ha detto Mattarella. Che sulla base di questi criteri, a novembre dell’anno scorso (addirittura con sei giorni di anticipo) ha nominato (in sostituzione di Daria De Pretis e Nicolò Zanon) Antonella Sciarrone Alibrandi, cattolica, e Giovanni Pitruzzella, già candidato nel 2015 in quota Centro. Non certo due profili “di sinistra” (ammesso, e non concesso, che ce ne siano davvero alla Corte) e neppure di “destra”, ma due personalità di riconosciuto spessore scientifico. Alla Corte non si mandano “soldatini” per eseguire ordini, e nessun giudice lo è mai stato, neppure quelli provenienti da carriere politiche. Perciò è preoccupante sentire la premier che rivendica la prerogativa di “dare le carte” in questa partita. Le Corti costituzionali hanno una funzione “contromaggioritaria”, perché nascono nel secondo dopoguerra come limite ai poteri delle maggioranze politiche di turno e come garanti dei diritti delle minoranze. Perciò alcuni governi mal tollerano le Corti e cercano di catturarle. E perciò bisogna vigilare sulle Corti affinché ciò non accada mai. La nostra Corte - appena reduce da decisioni delicate e coraggiose, tra cui quelle sul suicidio assistito e sul genere non binario - ha già in calendario, fino a marzo, questioni caldissime: referendum elettorali, sull’autonomia differenziata, sul lavoro; il decreto Caivano, la maternità surrogata, l’adozione di single e molto altro. La sua composizione e il pluralismo delle voci sono aspetti cruciali per il suo buon funzionamento. Non dar seguito “subito” all’invito, a tutto tondo, di Mattarella sarebbe non solo uno sgarbo istituzionale ma il segnale di una pericolosa hybris politica, che considera la Corte alla stregua di una multiproprietà. Inaccettabile. Ddl sicurezza. L’emendamento per i numeri identificativi e le bodycam sugli agenti è stato bocciato di Simone Alliva L’Espresso, 25 luglio 2024 Respinta in Commissione la proposta di Magi. Ventuno Paesi su ventisette in Europa, secondo i dati di Amnesty international, prevedono una forma di riconoscimento sulle tenute di chi gestisce l’ordine pubblico. L’Italia continua a essere tra le poche eccezioni. L’emendamento al ddl Sicurezza proposto da Riccardo Magi (+Eu) che prevede il numero identificativo sulle divise e la bodycam per gli agenti delle forze dell’ordine impegnati nella gestione dell’ordine pubblico, nel corso ad esempio di manifestazioni o eventi, è stato respinto dalle commissioni riunite Giustizia e Affari costituzionali, che hanno ripreso l’esame degli emendamenti sul provvedimento. “Non c’è intento punitivo o intimidatorio nei confronti degli agenti, ma ci sono al contrario tutte le garanzie per la tutela della riservatezza”, aveva sottolineato Magi illustrando il suo emendamento, sottoscritto poi anche da Avs, ma che aveva parere contrario di relatori e governo. “Una misura che non solo ci richiedono gli standard internazionali, ma che avrebbe il merito di tutelare sia i cittadini da eventuali abusi sia gli stessi operatori del comparto sicurezza, garantendo loro trasparenza. Evidentemente tutto questo al governo e alla maggioranza non interessa: molto meglio proteggere le mele marce e parlare a vanvera di quanto vogliono bene a polizia e carabinieri”, ha commentato Magi. “La mia proposta di legge su bodycam e identificativi è comunque depositata in Parlamento, pronta per essere esaminata, discussa e votata. Prima di rincorrere il prossimo caso di cronaca, sarebbe utile che le opposizioni facessero una battaglia comune anche su questo, visto che identificativi e bodycam sono già realtà in tantissimi Paesi europei e non solo”. Secondo una mappatura di Amnesty International, sono 21 su 27 gli Stati membri che hanno deciso di adeguare le proprie normative interne alle richieste dell’Unione Europea. Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna sono i paesi che hanno introdotto misure di identificazione per gli agenti impegnati in attività di ordine pubblico. La Germania le prevede in nove regioni su 16. In altri Länder per i corpi di polizia regionali la polizia è libera di scegliere se riportare un’etichetta identificativa o meno (a Berlino, però, dal luglio 2011 la polizia ha l’obbligo di esporre un codice di riconoscimento di quattro cifre). Mentre in Ungheria e in Svezia, pur non essendo previsto un obbligo, gli agenti di polizia espongono nome e grado sull’uniforme, oltre che un codice quando indossano l’equipaggiamento speciale. La Grecia nel 2010 ha introdotto l’obbligo, per tutti gli agenti, di rendere visibile nelle proprie spalline un numero di riconoscimento individuale. Nel 2013 è toccato alla Francia, che ha imposto a tutti gli agenti in servizio, sia in uniforme che in borghese, l’obbligo di esposizione del codice alfanumerico di riconoscimento. Nella risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2012 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea, il paragrafo 192 “esorta gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”. Anche il Relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto alla libertà di assemblea pacifica e di associazione e quello sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie raccomandano, in merito alla corretta gestione delle manifestazioni, che “i funzionari delle forze di Polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta col nome o con un numero”. Nel 2022 una delegazione di Amnesty International Italia ha consegnato al Capo della Polizia e direttore Generale della Pubblica Sicurezza, prefetto Lamberto Giannini, oltre 155.000 firme raccolte in calce alla petizione della campagna che chiede l’introduzione di una legge sui codici identificativi per le forze di polizia impegnate in operazioni di ordine pubblico. “Riesame”, per gli irreperibili è legittima la notifica al difensore dell’avviso di udienza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2024 Lo ha chiarito la Cassazione, sentenza n. 30372 depositata oggi, affermando un principio di diritto. Nel caso di elezione di domicilio da parte dell’indagato, qualora questi sia irreperibile, l’avviso di fissazione dell’udienza camerale dinanzi al tribunale del riesame può essere notificato al difensore. La Cassazione, sentenza n. 30372 depositata oggi, chiarisce il punto affermando un principio di diritto. Respinto dunque il ricorso dell’imputato che sosteneva l’inefficacia del sequestro probatorio per l’omessa notifica dell’avviso. L’indagato aveva provveduto a dichiarare il proprio domicilio, ma i Carabinieri, incaricati della notifica da parte del Riesame, ne avevano accertato l’irreperibilità procedendo con la notifica presso il difensore. Secondo il ricorrente si sarebbe dovuto seguire il disposto dell’art. 157 cod. proc. pen., con conseguente deposito presso la casa comunale, lasciandone avviso sulla porta e spedendo la raccomandata prevista, dalla cui ricezione la notificazione si sarebbe dovuta considerare come perfezionata. Una lettura bocciata dalla Terza sezione penale, secondo la quale, nell’ordine, la procedura da seguirsi è la seguente: a) notifica al domicilio dichiarato od eletto; b) qualora non si riesca nell’intento di notificare l’avviso di udienza all’imputato, non trovato in nessuno dei luoghi da lui stesso indicati come domicilio - proprio perché si versa nella procedura conseguente ad istanza di riesame in cui non sono consentiti né il rinvio dell’udienza la declaratoria d’irreperibilità dell’imputato, entrambi incompatibili con i suoi termini strettissimi e con le sue finalità - non va applicata la procedura di cui al comma 4 dell’art. 161 citato, ma quella dell’art. 157-bis, comma 1, cod. proc. pen., che prevede l’esecuzione della notificazione mediante consegna dell’atto al difensore, di fiducia o d’ufficio. Per la Corte si tratta di una conclusione “del tutto logica, coordinandosi con quella ‘generalè dell’art. 324, comma 2, cod. proc. pen., come novellato, in quanto le esigenze di assicurare la rapidità di fissazione e la sicura rappresentanza dell’indagato dinanzi al Tribunale del riesame, che sono alla base di tale nuova disciplina - che, come anticipato, prevede che ove la richiesta sia presentata da imputato non ristretto in vinculis, solo ove non abbia dichiarato od eletto domicilio è tenuto ad indicare (si intende, nella richiesta), “il domicilio presso il quale intende ricevere l’avviso previsto dal comma 6” della stessa disposizione (che, appunto stabilisce che “l’avviso della data fissata per l’udienza è comunicato al pubblico ministero e notificato al difensore e a chi ha proposto la richiesta”), stabilendo che “in mancanza” (si intende, della indicazione del domicilio nella richiesta di riesame) “l’avviso è notificato mediante consegna al difensore” - valgono, a maggior ragione, nel caso in cui tale dichiarazione od elezione di domicilio da parte dell’indagato vi sia già stata”. Ragion per cui, prosegue il ragionamento, “in caso sia divenuta impossibile la notifica al domicilio dichiarato od eletto, è del tutto ragionevole e conforme alla ratio normativa, che l’avviso sia notificato mediante consegna al difensore, essendo assimilabili i presupposti a fondamento delle due ipotesi, non potendosi ipotizzarsi una disciplina diversa, quale quella suggerita dalla difesa dell’indagato, per l’impossibilità di eseguire la notifica al domicilio indicato, la quale comporterebbe inevitabili lungaggini procedurali, incompatibili con le esigenze di una rapida celebrazione dell’udienza camerale dinanzi al Tribunale del riesame”. La Cassazione ha dunque affermato il seguente principio: “L’avviso di fissazione dell’udienza camerale dinanzi al tribunale del riesame, previsto dall’art. 324, comma 6, cod. proc. pen., ove chi ha fatto la richiesta non sia detenuto e non abbia precedentemente dichiarato o eletto domicilio deve essere comunicato, in caso di mancata indicazione nella richiesta del domicilio presso cui intende riceverlo a norma dell’art. 324, comma 2, stesso codice, dev’essere notificato mediante consegna al difensore; ove, invece, chi ha fatto la richiesta di riesame non sia detenuto ed abbia precedentemente dichiarato o eletto domicilio, la notificazione dell’avviso dell’udienza camerale di cui al comma 6 dell’art. 324, cod. proc. pen., nel caso in cui la notificazione al domicilio dichiarato od eletto divenga impossibile, dev’essere parimenti eseguita mediante consegna al difensore di fiducia o d’ufficio a norma dell’art. 157-bis, comma 1, cod. proc. pen.”. Tornando al caso concreto, “non essendo stato reperito l’indagato al domicilio dichiarato, la notifica andava eseguita, come avvenuto, al difensore di fiducia, ma non a norma dell’art. 161, comma 4, quanto, piuttosto, a norma dell’art. 157-bis, comma 1, cod. proc. pen.”. Gratuito patrocinio per gli stranieri senza codice fiscale italiano di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2024 Il chiarimento arriva dalla Cassazione, sentenza n. 30047/2024, che ha accolto il ricorso di un cittadino romeno in Italia. In tema di patrocinio a spese dello Stato, la Cassazione, sentenza n. 30047/2024, ha affermato che l’istanza di ammissione al beneficio presentata dal cittadino straniero comunitario, non residente in Italia, non necessita dell’allegazione del codice fiscale italiano. La IV Sezione ha così accolto (con rinvio) il ricorso di un cittadino rumeno contro l’ordinanza del Tribunale di Roma che aveva confermato il diniego del patrocinio a spese dello Stato, in quanto il richiedente aveva indicato unicamente il codice fiscale della Romania e la residenza all’estero. Secondo il Tribunale, invece, in quanto cittadino dell’Unione Europea, avrebbe dovuto richiedere il codice fiscale ad un ufficio territoriale della Agenzia delle Entrate. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 144 del 2004, invocata dall’imputato, infatti, avrebbe regolato il diverso caso di stranieri presenti irregolarmente nel territorio dello Stato o il caso di impossibilità a fornire il codice fiscale. La Corte, nell’accogliere il ricorso, ricorda che l’articolo 79 del Dpr 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico spese di giustizia), prevede, a pena di inammissibilità, l’indicazione del codice fiscale. In sede di disciplina dei casi in cui è obbligatoria l’indicazione del codice fiscale, il testo dell’articolo 6, secondo comma, del Dpr n. 605/1973 (Disposizioni relative all’anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti), prevede espressamente che “l’obbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con la sola indicazione dei dati di cui all’art. 4” - dello stesso Dpr - “con l’eccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale all’estero”. E l’articolo 4, primo comma, lettera a), del Dpr (n. 605 del 1973) richiede, ai fini dell’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche, esclusivamente i seguenti dati: cognome, nome, luogo e data di nascita, sesso e domicilio fiscale. Il ricorrente ha dedotto che, al momento del deposito dell’istanza, era presente in Italia da soli 40 giorni e che dunque non aveva la titolarità di un codice fiscale italiano, ma soltanto del codice fiscale del paese di residenza (la Romania), che aveva indicato nel ricorso unitamente al proprio domicilio nello stato di residenza. “Orbene - si legge nella decisione - […] nulla appare escludere la possibilità che lo straniero non residente in Italia, pure se residente in un paese UE, in luogo dell’indicazione del codice fiscale, fornisca i dati di cui all’art. 4 citato, oltre al proprio domicilio all’estero”. “Dalle norme in questione, infatti, non si ricava alcun onere, per il cittadino straniero non residente, di munirsi di un codice fiscale italiano al fine di avanzare la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, fermo restando l’obbligo, di cui all’art 76 del Dpr 115 del 2002, di allegazione alla istanza del reddito prodotto come risultante dalla ultima dichiarazione presentata nel paese di residenza”. Né, prosegue, la lettura della ordinanza della Corte Costituzionale porta alle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma. In quella sede, infatti, il giudice delle leggi, decidendo sulla legittimità costituzionale dell’articolo 79 Dpr 115/ 2002 se interpretato nel senso di richiedere, a pena di inammissibilità, anche per il cittadino extracomunitario il codice fiscale, ha rilevato che la “lettura congiunta dell’art. 6 e dell’art. 4 del Dpr n. 605 del 1973 consentiva di ritenere sufficiente, per il cittadino straniero irregolare, la sola indicazione del domicilio nel paese estero”. “Dall’ordinanza citata non si ricava però - conclude la Cassazione - che il presupposto di applicazione dell’art. 4 Dpr n.605 del 2002 sia il fatto che l’istante si trovi nella impossibilità di richiedere la titolarità del codice fiscale italiano”. Veneto. Le carceri scoppiano, sale la tensione di Silvia Madiotto Corriere del Veneto, 25 luglio 2024 Sovraffollamento al 134%. Zanettin: “Libertà anticipata ai meritevoli”. Muro di Ostellari: “Svuota carceri mai”. Nel carcere di Verona la capienza regolamentare è di 335 detenuti: i presenti sono 578. Più che alla casa di reclusione di Padova, dove i 438 posti registrano invece un’occupazione di 568. Non sono numeri, ma persone. “Spazi stretti, servizi ridotti, manca personale nelle strutture” sottolineano dai sindacati e dalle associazioni. I disordini al carcere di Venezia arrivano il giorno dopo il report di Antigone (associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale) che assegna al Veneto il 134,4% di indice di sovraffollamento: il più alto è a Montorio, seguito da Santa Bona a Treviso e Venezia Santa Maria Maggiore. Il Veneto è terza regione in Italia per sovrappopolazione carceraria: i dati rientrano nei parametri europei (3 mq per detenuto a cella) mentre il report di Antigone valuta parametri stabiliti su scala nazionale (9 mq). Ed è qui che si vede che la popolazione carceraria scoppia: 715 in più dei regolamentari 1.947. Ma c’è un altro numero di estrema gravità: sei suicidi fra i detenuti da inizio anno in Veneto (tre a Verona, uno a Padova, due a Venezia). Se le cifre scattano la fotografia, sono le voci dei protagonisti a cogliere le sfumature, nei giorni in cui il Parlamento affronta il Decreto Carceri. E molti sono veneti: il ministro è Carlo Nordio, trevigiano ed ex procuratore a Venezia, il sottosegretario è il padovano Andrea Ostellari (Lega), il presidente della Commissione giustizia alla Camera è il veronese Ciro Maschio (FdI) e in commissione al Senato sono stati gli emendamenti depositati dal vicentino Pierantonio Zanettin a tenere banco tutta ieri. Nel testo passato il 3 luglio in Cdm si prevede l’aumento del personale penitenziario e dei dirigenti, formazione più mirata e ingressi più veloci per gli agenti di polizia; per i carcerati si parla di liberazione anticipata più rapida e sicura, affidata al giudice di sorveglianza, più telefonate dal carcere fra detenuti e familiari, misure penali di comunità, formazione, trasferimenti per minori e fragili a comunità di accoglienza (in forma di detenzione). L’opposizione ha chiesto di portare da 45 a 60 i giorni di scarcerazione anticipata ogni sei mesi ma non è stato accolto. “Dopo vent’anni di chiacchiere - ha affermato Ostellari -, il Dl Carceri rappresenta il primo intervento strutturale sul sistema dell’esecuzione penale. Prevede un’ulteriore assunzione di mille agenti e la nomina di un commissario straordinario per realizzare, in tempi rapidi, nuovi istituti e completare i lavori di ristrutturazione previsti. I detenuti meritevoli, che accettano di lavorare invece di guardare il soffitto, potranno accedere a misure alternative con più facilità. Mi spiace per la sinistra, ma non sono previsti “svuota carceri”. La pena serve se rieduca, non se viene percepita come inutile: aprire le celle prima del tempo non aiuta nemmeno i detenuti. Diamo un’opportunità a chi vuole ricostruirsi una vita, senza mettere in pericolo le persone perbene che stanno fuori”. Forza Italia aveva alzato barricate in commissione al Senato (dove inizierà l’esame del testo) ma ieri si è trovata la quadra: “Occorre coniugare umanizzazione e certezza della pena - ha detto Zanettin -. La situazione è molto grave, abbiamo un numero abnorme di suicidi e dobbiamo evitare che aumenti, anche intervenendo sul sovraffollamento. Gli emendamenti che abbiamo proposto riguardano casi meritevoli, aiutando a reinserirsi nella società”. Il senatore sottolinea la collaborazione col governo: “Ai detenuti tossicodipendenti è consentito scontare la pena ai domiciliari presso una comunità, così come agli over 70 e ai malati di patologie gravi. Inoltre, è stato approvato l’affidamento in prova ai servizi sociali. Interventi non automatici, non è un’amnistia, ma una verifica al vaglio del magistrato”. Ritirato invece l’emendamento sulla semilibertà. Ma la velata protesta di Forza Italia martedì ha lasciato il segno. Giampiero Pegoraro, coordinatore regionale Cgil Polizia Penitenziaria, ritiene che il decreto di Nordio non sia sufficiente: “La situazione è grave, a causa anche dell’alto numero di detenuti, spesso stranieri, e di istituti in condizioni non accettabili. Tre in stanze da due a Venezia, a Verona si arriva a cinque per cella. Non servono tamponi, ma soluzioni concrete. Rivedere le strutture, innanzitutto, rivedere il codice penale depenalizzando i reati minori, potenziare le misure alternative, aumentare il personale, sia di polizia penitenziaria, sia di assistenti sociali. Mi rendo conto che l’elettorato di centrodestra vuole tutti in prigione e buttare via la chiave, e il centrosinistra per paura non ha fatto molto, ma non è così che favoriamo il reinserimento”. La Presidente di Ristretti Orizzonti Ornella Favero riflette: “Sovraffollamento vuol dire mancanza di attenzione e di ascolto. Una persona in quelle condizioni si sente persa. Soprattutto in un’estate afosa, torrida, mentre la politica non dà risposte né speranze. Le condizioni di molti istituti sono pessime, le carceri sono in gran parte degradate”. Ed è per questo, dice, che nascono le proteste: “I detenuti non vedono un futuro. La liberazione anticipata non è una resa dello Stato, se questo stato non rispetta la legge e i diritti”. Venezia. Due detenuti danno vita a una rivolta: “È un’estate di fuoco” di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 25 luglio 2024 Mobili distrutti a sprangate, scrivanie e computer devastati, vetri frantumati con il lancio di estintori. Nessuno è rimasto ferito ma la rivolta scoppiata in carcere a Venezia nella notte fra martedì e mercoledì ha sconquassato “la rotonda” al piano terra. È l’area dove confluiscono le persone recluse dai settori “destro” e “sinistro” del penitenziario ed è stata messa a ferro e a fuoco. A far scoppiare l’ennesima ribellione violenta al Santa Maria Maggiore sono stati due detenuti tunisini di 25-30 anni decisi a ottenere una risposta alle loro insistenti richieste prendendo per sfinimento la comunità carceraria già in sofferenza. Uno attende il permesso per essere trasferito in un’altra sede. L’altro ha esigenze di tipo sanitario. Finora non hanno ricevuto né un sì, né un no e tanto è bastato per far scattare una violenza fuori controllo, fortunatamente scaricatasi solo sugli arredi e non sulle persone, ma inarrestabile al punto da mettere a dura prova la resistenza del corpo di polizia penitenziaria. “Non c’è stata un’adesione plateale”, spiega l’avvocato garante dei diritti dei detenuti, Marco Foffano. Ai vertici (responsabile area giuridico-pedagogica Ferdinando Ciardiello, comandante Antonio Antonica e direttore sostituto Alberto Quagliotto) si fa presente che la sommossa non ha comportato una rivolta generale dell’istituto. “L’episodio, iniziato verso l’una e terminato alle 8 di ieri mattina, ha visto protagoniste due persone. Quando in mattinata sono entrato al Santa Maria Maggiore - prosegue Foffano - non ho sentito battere come di solito accade quando sale la tensione. Il clima appariva rasserenato”. Le reazioni scomposte insomma non sono sfociate in un’esasperazione collettiva. “Sono stati chiamati in soccorso da casa colleghi fuori servizio - commenta Giovanni Vona, segretario del sindacato autonomo di polizia Sappe - Hanno devastato la rotonda, l’ufficio della sorveglianza generale, i registri, i tavoli. Nella sezione dove i due sono ristretti hanno incendiato lenzuola e giornali, tanto che per il fumo è stato necessario evacuare i detenuti al passeggio”. La situazione è allarmante per Donato Capece, della stessa sigla. “Il personale è sempre meno, stiamo vivendo un’estate di fuoco con rivolte all’ordine del giorno. Servono espulsioni di detenuti stranieri, invio dei reclusi con dalle comunità e trasferimento degli psichiatrici alle Rems”. I numeri: “L’aumento dei detenuti è irrefrenabile - prosegue il garante - 257 a fronte di una capienza per 160 al Santa Maria Maggiore. Non è vero che c’è stato un aumento di personale. Dei 15 agenti arrivati al carcere maschile, 10 hanno avuto il trasferimento, mentre in quello femminile sono entrate 35 poliziotte e ne sono uscite 20”. La rabbia di un paio di detenuti e pochi altri al seguito è bastata a mettere a soqquadro un’intera sezione del penitenziario: materassi bruciati e la postazione degli agenti distrutta, spiega la Funzione pubblica Cgil. “Solo grazie alla professionalità degli agenti la sommossa non si è estesa - afferma Ivan Bernini, segretario generale Fp Cgil - A tutela di quei lavoratori però non bastano più solo i plausi perché i turni massacranti e le situazioni stressanti causano problemi di salute”. “In queste giornate di gran caldo, peraltro, l’ambiente è soffocante”, fa presente Franca Vanto (Fp Cgil Venezia). Il lavoro all’interno dell’istituto e fuori, grazie alla collaborazione con cooperative, volontariato, istituzioni come la Biennale, e aziende (da Ava ai bagnini) è una forma di recupero e un modo per ridurre la pressione. “Ma le iniziative faticano a decollare. Tutto è lento: magistrati in ferie, tempi lunghi per i permessi di soggiorno, quando nelle carceri del nord Italia la maggior parte dei reclusi è extra Ue argomenta l’avvocato Foffano - La struttura veneziana è particolare poi, perché sta in mezzo alla città a poca distanza dalle finestre delle case che sentono tutto: clamori, disordini, momenti di esasperazione”. Sono stati 58 i suicidi in carcere in Italia, due quelli a Venezia quest’anno. L’ultimo 10 giorni fa. Un 37enne di San Donà è stato trovato morto. “La mia solidarietà alla polizia penitenziaria che ha dovuto gestire i gravi disordini nella casa circondariale di Venezia. Al tempo stesso esprimo sdegno per la condizione di sovraffollamento”, le parole della capogruppo M5S in Consiglio regionale, Erika Baldin. Brescia. Gli orrori del carcere dove i detenuti pregano Dio di morire di Ilaria Carra e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 25 luglio 2024 “Cercate di non finire qua, è un manicomio”. Il carcere citato da Mattarella come indegno per un Paese civile: “Quell’istituto va chiuso. Bisogna fare qualcosa subito”. “Devo andare in bagno ma è occupato, altri 15 sono in fila davanti a me. Un anziano ha il mio stesso problema. Purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno. Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda. In un attimo, lenzuola e materasso s’impregnano di liquame e urina. Lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato. Piange, un uomo di 74 anni. Si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio di morire”. Quattro pagine, scritte a giugno da una ventina di detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, il secondo più sovraffollato in Italia. “La descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia”, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, commentando la lettera. I reclusi hanno scelto di inviarla anche a lui. E lui ha risposto. “Gli saremo riconoscenti per il resto dei nostri giorni”, dice la garante dei detenuti Luisa Ravagnani, motore dell’iniziativa, voce instancabile che una volta di più ripete: “Quell’istituto va chiuso. Bisogna fare qualcosa subito”. La capienza è di 182 posti ma gli ospiti toccano anche punte di 400. Chiusi in stanzoni da sedici letti, in camere da otto oppure in tre dentro una singola. Fra cimici e scarafaggi. I bagni hanno le vecchie turche, la doccia sopra, il fornelletto per cucinare a un passo. In alcuni buchi si gela d’inverno e si soffoca d’estate. I letti a castello bloccano l’apertura delle finestre. Durante l’ora d’aria, solo cemento. Poco lavoro, poche attività, 150 agenti su 217 previsti, 4 educatori invece di 6, riporta Antigone. Tanti ragazzi con problemi psichiatrici o dipendenze. Questo è il Canton Mombello di Brescia. Nell’ultima settimana Monica Cali, presidente del tribunale di Sorveglianza, c’è entrata due volte. L’ultima lunedì, con il procuratore generale e il presidente della Corte d’appello: “La struttura è fatiscente. Un degrado e una sofferenza che stringono lo stomaco e che ho visto in alcune carceri del Sudamerica. La tensione è tale per cui le istanze di scarcerazione sono tantissime. Ma noi lavoriamo sempre sott’acqua: manca un magistrato e le cancellerie hanno una scopertura del 50%”. La garante Ravagnani parla della lettera dei reclusi, “hanno lavorato a lungo per raccontare quello che è oggi il carcere”. Un percorso nato nel 2022 per protestare seguendo “i metodi della legalità”. Ma quando il grande cancello di ferro si chiude alle spalle dei nuovi arrivati, “hai una paura da film dell’orrore”. La voce è di un detenuto. La si può ascoltare grazie alla web serie “11 giorni” del regista Nicola Zambelli: 33 episodi su Instagram, un racconto per parole e immagini della casa circondariale. Eccoli, i racconti: “Qua buttano tutti insieme come sardine in scatola, 60 in sezione, in un corridoio lungo 30-35 metri”, “ci sono topi, scarafaggi, le grate arrugginite, dove mangi fa schifo”. Un “luogo che si nutre di violenza”, dove “ho visto tre persone che si sono tagliate la gola davanti a me”. Un altro detenuto racconta: “Da poco ho perso mia madre, non mi hanno dato modo di poterla vedere nella bara aperta l’ultima volta, mi hanno solo portato al funerale. Non è colpa loro è colpa mia, se sono qua lo devo solo a me stesso”. “Sento la mancanza dell’erba, dell’odore della terra. Vivi di merda, lotti per quel centimetro che è rimasto di te stesso e della tua vita”. Una voce implora: “Cercate tutti di non finire qua. Questo è un manicomio”. Eppure, “proprio i detenuti stanno dando un esempio di protesta civile, nonostante il silenzio con cui buona parte della politica pretende di rispondere alle grida di disperazione che si alzano dal mondo carcere”, dice Stefano Verzeletti, presidente della Camera penale. Risposte aspettate da troppo tempo. “Il carcere di Brescia è un problema di sopravvivenza, è disumano, inaccettabile. Per i detenuti e per chi ci lavora - dice la sindaca Laura Castelletti - Più volte ne ho chiesto la chiusura e l’ampliamento del carcere di Verziano (un’altra casa di reclusione della città, ndr). Stiamo ancora aspettando risposte dal Governo”. Una “situazione drammatica” nota da decenni, dice l’ex sindaco Emilio Del Bono, oggi consigliere regionale in Lombardia. “Non c’è altra strada che chiuderlo e lo denunciamo da anni, nonostante la conduzione sia eccellente”. Del Bono ricorda che negli ultimi anni sono stati stanziati 50 milioni come fondi straordinari, non sufficienti per il progetto di chiudere Canton Mombello e far nascere un istituto parallelo accanto a Verziano. Problemi burocratici e di risorse. Intanto i detenuti aspettano. E pensano a quell’anziano che maledice la vita dal suo letto sporco: “Voi ci dovete credere, queste non sono lamentele, non vogliamo né impietosire né mendicare”, scrivono in quelle quattro pagine, per poi chiedere: “Non è forse vero che le condizioni in cui ci troviamo sono un costante incitamento al suicidio?”. Trieste. Casa circondariale “Ernesto Mari”, tutta la disumanità delle carceri di Morena Pinto altreconomia.it, 25 luglio 2024 Anche nella Casa circondariale “Ernesto Mari” le condizioni sono degradanti per gli oltre 250 detenuti (su 150 posti): wc a vista, materassi a terra, caldo estremo, spazi ridotti e cimici da letto. La sofferenza sfocia in gesti drammatici come proteste, scioperi della fame e tentativi di suicidio. E da agosto in tutto il Friuli-Venezia Giulia resteranno tre magistrati di sorveglianza invece dei sei previsti. “Siamo trattati come animali”. Urlavano così i detenuti della Casa circondariale, a due passi dal Tribunale. Lenzuola e materassi bruciati, danni agli oggetti e assalto all’infermeria. Una protesta, quella dell’11 luglio di quest’anno, che ha richiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Un bilancio di cinque feriti tra scontri e gas lacrimogeni e poi la tragica morte di Zdenko Ferjancic, 48 anni, ritrovato dai compagni di cella il giorno dopo. Una morte provocata, secondo le prime ricostruzioni, da un’overdose di metadone. Depressione, bipolarismo e tossicodipendenza tratteggiano, poi, Ferjancic nel racconto del suo avvocato, ma fino a che punto il sistema carcere può non ritenersi corresponsabile per la sua morte? Morire di carcere è infatti una costante. Solo pochi giorni prima, un suicidio nell’Istituto Sollicciano di Firenze e la morte, dalle cause incerte, di un detenuto nel carcere di Viterbo, seguiti da una rabbia esplosiva dei reclusi, espressa con modalità simili al caso triestino. “All’origine delle proteste risiedono il caldo estremo e il numero dei reclusi in relazione alle condizioni strutturali degli istituti e di detenzione delle persone”, sottolinea Francesco Santin, referente per Antigone in Friuli-Venezia Giulia. Nelle 189 carceri italiane si registra un tasso medio di sovraffollamento del 130,6% (secondo il Report semestrale pubblicato da Antigone a luglio 2024): 61.480 detenuti nelle carceri italiane per un tetto massimo di 51.234 presenze, dice lo stesso ministero della Giustizia (anche se i posti disponibili sono 47.111). Una condizione che non risparmia Trieste, con 257 detenuti per una capienza ufficiale di 150 persone e a cui si somma un’altra aggravante, le “cimici da letto”. “Le cimici sono un problema cronico nell’Istituto, acuito dal caldo eccessivo e indipendente dalle abitudini igieniche dei detenuti -continua Santin-. È necessaria una disinfestazione per evitare che venga inflitta una pena maggiore alle persone recluse”. Una dignità mancata per i detenuti anche per i wc a vista, i materassi a terra e gli spazi ridotti: situazioni già segnalate nei mesi precedenti alla protesta da Elisabetta Burla, Garante per i diritti dei detenuti a Trieste e Paolo Pittaro, Garante regionale Friuli-Venezia Giulia. Condizioni inammissibili portate alla luce dagli stessi detenuti del carcere triestino con il ricorso al tribunale di sorveglianza per le condizioni detentive inumane e degradanti: nel 2022, su 99 procedimenti esauriti, 55 sono stati accolti. Questa possibilità di denuncia per i detenuti si è presentata a seguito della condanna dell’Italia, nel 2012, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La miccia di partenza è stata la sentenza Torreggiani, ossia il ricorso presentato da sette reclusi delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza per le condizioni detentive inumane e degradanti, nella fattispecie celle triple con meno di quattro metri quadrati per detenuto. “Una sofferenza cronica nei detenuti testimoniata anche dall’alto numero di eventi critici, -spiega Jessica Lorenzon, osservatrice per Antigone negli istituti di pena per adulti e minori-, gesti che mettono a rischio l’incolumità degli stessi detenuti o quella altrui, all’interno delle carceri, come le aggressioni al personale, i tentativi di suicidio o gli scioperi della fame”. Drammatici, in particolare, i 58 suicidi dei detenuti dall’inizio del 2024: numero che rischia di superare il boom degli 85 nel 2022. Tracciare, però, una linea netta tra morte scelta e morte per le condizioni degradanti del carcere non è sempre così immediato. “Gli eventi critici rendono più sfumate le motivazioni dietro alla morte di una persona detenuta - sottolinea Lorenzon. L’assunzione impropria di farmaci o i tentativi di suicidio possono essere un modo per volersi fare ascoltare o per affrontare una condizione di dolore cronico”. L’aumento delle scelte suicidarie sembra essere inoltre strettamente correlato con l’insorgenza degli eventi critici nelle carceri, come dimostra lo studio “Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari” promosso nel 2022 da Mauro Palma, Garante nazionale fino al gennaio 2024. Un malessere cronico che non riguarda solo i detenuti, ma tutto il personale. Ai suicidi dei detenuti si aggiungono infatti i sei avvenuti tra la polizia penitenziaria nel 2024, secondo il sindacato Uilpa. “In Italia il vero problema risiede nei dirigenti di polizia penitenziaria, presenti in numero cospicuo nell’amministrazione penitenziaria (714 unità), ma assenti nelle carceri, sfuggendo al lavoro all’interno degli istituti -aggiunge Enrico Sbriglia, coordinatore nazionale della dirigenza penitenziaria della Federazione sindacati indipendenti-. I direttori penitenziari devono quindi supplire a questa mancanza curando da soli il reparto di polizia penitenziaria”. In altri casi, invece, la stessa magistratura è sotto organico. Come sta per avvenire dal mese di agosto in Friuli-Venezia Giulia, dove resteranno tre magistrati di sorveglianza in tutta la Regione, invece dei sei previsti, per gestire le istanze dei detenuti, inclusi i liberi sospesi. “Le carceri senza mezzi e risorse adeguati per un’esecuzione penale esterna (misure alternative, ndr) restano inutili e pericolosi contenitori di persone detenute e detenenti”, evidenzia Sbriglia. L’auspicio vira quindi verso una modifica del sistema carcerario, a partire dalla gestione dei tassi di sovraffollamento. Ma il nuovo decreto legge, il 92 del 4 luglio 2024, in fase di conversione al Senato, non lascia ben sperare. Assente il tema delle presenze in carcere; regolamentate invece le relazioni con l’esterno. Le telefonate di dieci minuti concesse ai detenuti, con l’approvazione della legge, passerebbero da quattro a sei al mese, ma l’istituto triestino, ad esempio, non ha mai tolto la possibilità, concessa ai reclusi durante la pandemia, di poter telefonare una volta al giorno. “I detenuti si trovano di fronte alla perdita di un diritto che pensavano di aver acquisito: un’importanza, quella della continuità con i legami familiari in carcere, sottolineata anche dallo stesso regolamento penitenziario”, aggiunge Burla. Avvicinare il fuori al dentro è necessario poi per conoscere il carcere. Le presentazioni dei libri nell’istituto triestino prima della pandemia, in presenza dell’autore e di persone esterne, rispondevano a questa necessità. “In queste occasioni le persone fanno domande e sono curiose”, racconta la Garante. Fare rete e aprirsi alla città per sensibilizzare è l’approccio del Cantiere Carcere, progetto che da un anno vede unite realtà ecclesiali e civili sulla spinta del vescovo Enrico Trevisi. Vera Pellegrino, responsabile ufficio studi, formazione e promozione della Caritas di Trieste (nella rete del Cantiere Carcere) dice convinta che “esiste un movimento della società civile che vuole ancora costruire un bene comune”. Modena. Scarafaggi e caldo, i detenuti scrivono al Garante: “La situazione è insostenibile” Il Resto del Carlino, 25 luglio 2024 La lettera: “Abbiamo chiesto dei ventilatori, ma non sono stati ancora presi provvedimenti”. E sul tema intervengono anche gli avvocati: “Preoccupazione e rammarico, così non va”. Un’invasione di scarafaggi in tutta la struttura, soprattutto la sera, ma anche un caldo intollerabile che rende la vita insopportabile in particolar modo nelle celle situate nei piani alti. È quanto hanno denunciato alcuni detenuti del Sant’Anna in una lettera inviata di recente direttamente al garante regionale. Una condizione che hanno definito intollerabile, con temperature disumane e assenza di ventilatori. Il testo, firmato dai detenuti di oltre 25 celle, sottolinea i due problemi più urgenti per chi vive nell’istituto, già fatti presente ma senza ottenere risultati. Il primo, appunto, relativo agli insetti che invaderebbero il penitenziario ogni sera. Situazione segnalata purtroppo anche in altri penitenziari della regione. Poi c’è la questione ‘temperature dell’estatè, in particolare nella sesta sezione, all’ultimo piano, esposto al solo tutto il giorno. “Tante volte - scrivono - abbiamo chiesto ventilatori, ma ancora non sono stati presi provvedimenti, nonostante la presenza di anziani e cardiopatici nelle celle”. Nei giorni scorsi una delle storiche volontarie del carcere, Paola Cigarini (Associazione “Carcere e città” - Progetto Peter Pan), volontaria dal 1987 spiegato come, contrariamente agli uomini, le detenute non avessero un posto all’esterno per ripararsi dal sole e come, per quanto riguarda appunto il caldo insopportabile all’interno del penitenziario, per la prima volta, al costo di trenta euro i detenuti potessero acquistare un ventilatore. “Ma questo fa capire come il mondo è di chi ha e chi non ha: pure l’aria fresca la compri e non tutte possono permetterselo” aveva sottolineato, facendo presente come molti carcerati stessero facendo collette proprio per acquistare i ventilatori. Sul tema intervengono anche gli avvocati. “La Camera Penale di Modena esprime rammarico e preoccupazione in merito alle criticità lamentate dai detenuti della locale casa circondariale, riguardo alla mancanza di riscontro agli appelli avanzati dalla popolazione carceraria sulla necessità di contrasto intramurario alle elevate temperature estive registrate negli ultimi giorni - sottolineano i legali - oltre che alle precarie condizioni igieniche che sarebbero correlate alla presenza di scarafaggi nelle sezioni. Per tale ragione, la camera penale auspica e sollecita un repentino intervento ministeriale (che quanto alla installazione di ventilatori pareva essere prossimo), volto a garantire una conduzione dignitosa della vita carceraria, anche al fine di reprimere la tendenza sempre più allarmante a gesti autolesivi, risultati fatali in ben 58 casi dall’ inizio dell’anno”. Firenze. Degrado a Sollicciano, il Dap multa la direttrice. Ma è subito polemica di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 25 luglio 2024 Sanzione da 25 mila euro per lo stato del carcere e 90 giorni per sanarlo. Il Garante: inadempiente è il Dap. Per le condizioni degradanti in cui versa il carcere di Sollicciano è finita nel mirino del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) la direttrice Antonella Tuoni: multa da 25 mila euro e obbligo di sanare i problemi entro 90 giorni. Lei sostiene di non avere gli adeguati poteri che servono per questo compito. Dalla sua parte anche il garante Eros Cruccolini: “È una vergogna”. La direttrice di Sollicciano, Antonella Tuoni, è stata sanzionata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con 25 mila euro di ammenda per le condizioni degradanti del carcere fiorentino, dopo due ispezioni effettuate a giugno e a luglio. Non solo: il Dap le prescrive di sanare le inosservanze alle norme sull’igiene e la sicurezza sul lavoro entro 90 giorni. Le violazioni alle norme saranno inoltre comunicate alla procura di Firenze, con la conseguente apertura di un’indagine. Ma la direttrice continua a sostenere di non avere poteri adeguati per migliorare la situazione e che, in assenza di una vera ristrutturazione che parta dall’alto (più volte annunciata ma mai completata), Sollicciano non potrà migliorare. Un rimpallo di responsabilità che non giova né ai detenuti né agli agenti penitenziari. Fra le prescrizioni del Dap alla direzione, come riportato da La Nazione, si chiede di “bonificare gli ambienti di lavoro, in particolare le pareti e le scale delle sezioni detentive del reparto giudiziario intrise di tracce presumibilmente ematiche e non solo”, ma anche “per quanto riguarda la presenza di insetti, cimici, blatte”. Si prescrive poi di ripristinare “l’agibilità dei corridoi, delle camere di pernottamento, dei locali comuni e del locale destinato a colloqui telefonici, anneriti a seguito di incendi”; di controllare l’impianto elettrico “rispetto alle gravi e diffuse infiltrazioni di umidità e muffe”; di “provvedere all’installazione di impianti di aerazione e di ricircolo dell’aria nelle postazioni agenti dei reparti detentivi”; di “incrementare il numero degli addetti al primo soccorso e addetti antincendio per ogni turno di servizio”. Una questione su cui si inserisce anche il garante comunale dei detenuti, Eros Cruccolini, prendendo le difese della direttrice: “È un atto vergognoso scaricare sulla direttrice le responsabilità del degrado di Sollicciano. Sto valutando un esposto contro il Dap perché sono loro a essere inadempienti. La direttrice ha fatto quanto in suo potere, ma se non si riammoderna la struttura nulla cambierà mai”. Parole simili da Alessio Scandurra dell’associazione Antigone: “Presumo che la direttrice abbia più volte fatto presente al Dap i problemi di Sollicciano”. Quel che è certo è che la direzione di Sollicciano non può decidere autonomamente di riammodernare una struttura carceraria, perché si occupa dell’ordinaria amministrazione e non di interventi straordinari, come le ristrutturazioni. Ma anche perché non ha neppure i mezzi per farlo, tanto più nel contesto di Sollicciano dove c’è bisogno di un investimento massiccio. Il ministero aveva stanziato 7 milioni, ma i lavori si sono bloccati dopoché erano state evidenziate infiltrazioni al reparto femminile. Era stata la stessa direttrice, in un’intervista al Corriere Fiorentino, a sottolineare le responsabilità: “Il direttore di Sollicciano spende quanto gli viene assegnato dal provveditorato, ufficio regionale. I lavori di straordinaria manutenzione sono stati appaltati dal dipartimento nel 2020, all’indomani di una visita ispettiva che già allora certificava le pessime condizioni della struttura. Sono stati avviati al femminile, sempre nel 2020 ma a inizio 2023, a seguito di una mia segnalazione, sono stati poi sospesi poiché le infiltrazioni meteoriche non erano state eliminate e da allora, per quanto mi è dato sapere, sono ancora sospesi”. E dunque, chi pagherà la sanzione arrivata dal Dap? Il pagamento in teoria spetta ad Antonella Tuoni, di tasca sua. Ma, secondo Scandurra, “è probabile che adesso la direttrice impugnerà la sanzione con tanto di documenti e richieste di lavori ufficiali trasmessi al Dap ma evidentemente mai realizzati o realizzati male”. Perugia. La sindaca Ferdinandi in visita al carcere: “Negati i diritti umani fondamentali” di Luca Fiorucci La Nazione, 25 luglio 2024 “Luogo molto lontano da quello che dovrebbe essere. C’è da fare un grande lavoro insieme a tutte le istituzioni”. L’avvocato Caforio: “Il principio costituzionale della riabilitazione non resti sulla carta”. Il suo volto parla chiaro. È quello di chi, lo dice senza mezzi termini, ha visto “un vero inferno dei viventi”. Lo dice al termine del sopralluogo che ha fatto insieme al garante per i detenuti dell’Umbria, Giuseppe Caforio. “C’è da prendere atto di una situazione indubbiamente molto grave” commenta la sindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi e spiega: “Ho voluto essere qui per toccare con mano la fotografia che c’era stata restituita dal garante regionale. La fotografia di un luogo che è molto lontano per condizioni da quella che dovrebbe essere la sua vocazione. Il carcere non deve essere considerato un luogo di fine corsa, ma nelle sue origini deve essere un luogo di riabilitazione”. Invece “oggi il nostro carcere è un luogo che rimanda a una gravità di situazione a livello di diritti umani fondamentali che vengono negati”. “C’è da fare un grande lavoro insieme a tutte le istituzioni per ripensare questo luogo e restituire ai detenuti e alle detenute delle condizioni di vita umane. Purtroppo il nostro carcere sconta delle problematiche anche a livelli nazionali che riguardano le condizioni igienico sanitarie, la mancanza di personale sanitario che si possa occupare dei bisogni di cura dei carcerati, un sovraffollamento, un mancato piano occupazione delle forze di polizia penitenziaria che devono essere supportate, e il disagio psichiatrico” ha ribadito Ferdinandi. Il Comune ha iniziato ad accendere un faro, spiega, ma non si vuole fermare qui: “Ci occuperemo anche di riportare l’esterno all’interno, con le cooperative, con il mondo del terzo settore per offrire progettualità per chi sta scontando la pena” dando così la possibilità “di pensare a un futuro, a un reinserimento”. Perché, ribadisce, è necessario che “le marginalità vengano affrontate con sistemi di welfare strutturale e di comunità che permettano a queste persone di integrarsi e diventare un’opportunità per il territorio”. “Bisogna lavorare in questa direzione perché il principio costituzionale della riabilitazione non sia un’affermazione che sta sulla carta, ma una realtà che si può attuare. Un Paese civile lo deve attuare. Mi auguro che tutti possano in qualche modo contribuire” ha commentato il garante, Giuseppe Caforio. Intanto, già in queste ore, Ferdinandi incontrerà il procuratore generale Sergio Sottani. Palermo. 40 persone detenute accolte in Housing Sociale con il progetto Ortis di Serena Termini Ristretti Orizzonti, 25 luglio 2024 Antonella Macaluso (Un Nuovo Giorno): “Daremo continuità con Ortis 2.0”. I racconti di Sami e Nicola. Housing Sociale, tirocini formativi e laboratori per garantire un futuro diverso alle persone detenute sottoposte a misure alternative. È stato l’obiettivo del progetto “Ortis, l’orto della Spazzina, presidio territoriale per la giustizia di comunità”. Questo, per quasi due anni, ha coinvolto 132 persone tra detenuti, soggetti sottoposti a sanzioni di comunità e loro famiglie. Al centro del progetto c’è stato l’avviamento sperimentale dell’Housing Sociale con 18 posti letto per 40 persone (accolte per brevi e lunghi periodi), in prevalenza di origine straniera (Maghreb, Africa subsahariana ed Europa dell’est). Dopo la sua conclusione dello scorso30 giugno, l’1 luglio è partito Ortis 2.0. Il progetto è stato cofinanziato da Cassa delle Ammende e dall’Assessorato regionale della Famiglia e delle Politiche Sociali. Oltre all’associazione Un Nuovo Giorno, gli altri partner sono stati l’associazione Life and Life, La Linea della Palma, il Cirpe, Le Ali della Libertà e Quarto Tempo. 19 sono stati i tirocini che hanno portato a 3 assunzioni lavorative. 35 persone hanno partecipato a corsi di formazione e 34 hanno seguito i laboratori (danzaterapia, apicoltura, restauro e pittura sul legno). Inoltre, 45 nuclei familiari hanno usufruito di buoni per spesa e trasporti. “Sono due mesi che mi trovo in questa casa - ha raccontato Sami, 36 anni e di origine tunisina -. È la prima volta in vita mia, dopo essere stato in diverse carceri, che mi sento accolto e messo nella strada giusta. Ringrazio chi mi sta dando questa opportunità di vita. Sto imparando a fare il sarto. Quando finirò la pena vorrei avere una vita regolare con una casa e un lavoro”. “Dopo alcuni anni di carcere avere una stanza in una casa mi è sembrato un altro mondo - ha continuato Nicola anche lui di 36 anni -. In questo posto, senza sbarre, cerchiamo, ognuno con la propria storia, di vivere insieme rispettandoci tutti. In carcere sei solo un numero e non fai altro che soffrire. Qua abbiamo la possibilità di dimostrare chi siamo senza pregiudizi. Finirò la pena nel 2026 e la mia futura vita ripartirà dalla relazione con i miei due figli. In housing vorrei dedicarmi alla cura del giardino”. “Per dare continuità alle persone accolte si è già attivato Ortis 2.0 - ha aggiunto Antonella Macaluso, presidente di Un Nuovo giorno -. I risultati che abbiamo raggiunto sono positivi soprattutto se pensiamo ai benefici per le persone detenute. Cerchiamo di rispondere ai bisogni più vari anche se le difficoltà sono tantissime. Le problematiche maggiori sono quelle delle persone migranti i cui diritti sono completamente disattesi. Alcuni di loro, dopo il fine pena, per il provvedimento di espulsione, vanno nei Cpr. Questa è una forte ingiustizia sociale che vanifica il progetto di vita che facciamo con loro. Un nodo forte da sciogliere resta pure la carenza dei servizi per le persone con disagio psichico”. Un apprezzamento per il lavoro finora svolto è stato manifestato dal dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Particolare plauso va all’associazione Un Nuovo Giorno Odv - riporta la nota del provveditore Cinzia Calandrino - per la serietà e il profondo senso di responsabilità dimostrato nel portare avanti azioni positive e di grande pregio sociale, nella costante collaborazione con gli istituti”. L’associazione Un Nuovo Giorno sta partecipando, inoltre, al progetto europeo Escape (Educational Spiritual Counselling Applications in Prisons of Europe) che, coinvolgendo Italia, Turchia, Spagna e Romania, è dedicato al “counseling spirituale” e formativo per persone che sono state in carcere. Bergamo. Famiglie salva-detenuto. Più il legame è forte più vince il recupero di Michele Andreucci Il Giorno, 25 luglio 2024 Bergamo, il progetto “Mediare in carcere”. L’iniziativa dedicata ai detenuti è nata dalla collaborazione tra Asst Papa Giovanni XXIII e associazione Nepios. Favorire il mantenimento della relazione tra i detenuti e i loro figli, progetto che nell’ultimo biennio ha coinvolto circa 100 carcerati della casa circondariale di Bergamo per un totale di 226 colloqui individuali e di gruppo. È l’obiettivo dell’iniziativa “Mediare in carcere. Quando il detenuto è genitore. La cura delle relazioni dentro e fuori dal carcere”, nata dalla collaborazione tra Asst Papa Giovanni XXIII e associazione Nepios (associazione che si occupa della tutela dell’infanzia), il cui accordo è stato appena rinnovato per altri due anni. Nel progetto fondamentale è stata la messa a disposizione, per i detenuti in misura alternativa o in permesso per i figli, di spazi ristrutturati all’interno della casa circondariale bergamasca, grazie ai contributi di Nepios, tali da renderli adatti agli incontri. A disposizione ci sono anche i locali del Centro per il Bambino e la Famiglia, gestito in collaborazione tra l’associazione, presieduta da Tullia Vecchi, e l’ospedale “Papa Giovanni”, considerato in Lombardia l’unico nel suo genere per gli interventi sulla violenza, sugli abusi sui minori e più in generale le famiglie in crisi. “Questo progetto - spiega Maria Simonetta Spada, direttore della Psicologia del “Papa Giovanni” - permette di dare un valore aggiunto rispetto alla dimensione clinica. Gli studi in merito al reinserimento sociale del detenuto ci dicono che la recidiva nel reato si contiene se vengono coltivati i legami familiari”. L’iniziativa a favore dei detenuti, però, non è l’unica forma di collaborazione tra Nepios e il “Papa Giovanni”. Il nuovo accordo sostiene anche la ricerca della Neurochirurgia. Roma. A proposito della vicenda dei tre minori di Casal del Marmo di Arpjtetto Onlus Ets Ristretti Orizzonti, 25 luglio 2024 Tutto ciò che riguarda un minore, anche e soprattutto se sottoposto a procedimento giudiziario, merita tutela e riservatezza. La vicenda che ha visto protagonisti tre minori stranieri non accompagnati, detenuti nell’IPM di Casal del Marmo, evasi, poi ritrovati e quindi ricondotti in carcere ha assunto toni e narrazioni su alcuni quotidiani che, come Associazione, censuriamo e rifiutiamo. Pubblicare i nomi dei tre minori, di cui uno appena quindicenne, non ha nulla a che fare con la sicurezza collettiva. Ci chiediamo, come Associazione che da anni lavora con minori sottoposti a procedimenti giudiziari dentro e fuori gli istituti di pena, come sia stato possibile esporre alla pubblica gogna tre minori, come sia stato possibile narrare la loro evasione come una sorta di gioco tra guardie e ladri, come sia stato possibile dimenticare il contesto e la storia. La storia di un paese che permette la detenzione migliaia di adulti in condizioni di inumane, che per la prima volta accetta di riempire le celle di minorenni, sorprendendosi se poi, come è capitato, alcuni di loro tenteranno di scappare o, peggio, di farsi del male, perché costretti in pochi metri quadrati, senza aria né prospettiva. Mobilitiamo le risorse per svuotare le prigioni, non per riempirle. Libertà dei media, premierato e giustizia: la Commissione europea ammonisce l’Italia di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 25 luglio 2024 È lungo e dettagliato il capitolo dedicato all’Italia nel rapporto 2024 sullo Stato di diritto nei paesi Ue. In origine il report doveva essere pubblicato all’inizio del mese, ma le contingenze elettorali e ancora di più ragioni di opportunità politica (non fa mai piacere a un governo ricevere critiche, soprattutto quando la presidente della Commissione era in cerca di voti) lo hanno fatto slittare alla prima data utile dopo il via libera dell’Eurocamera all’Ursula bis. Ampio spazio viene dedicato alla libertà dei mezzi d’informazione, secondo l’esecutivo Ue sotto attacco per scarsa indipendenza della tv pubblica e per le non sufficienti tutele ai giornalisti. Anche se l’Italia non è sola - critiche su questo versante sono state rivolte anche alla Grecia, ma anche per differenti ragioni a Francia e Slovacchia - le osservazioni critiche coprono anche altri ambiti sensibili per il governo Meloni: la giustizia - inclusa la riforma Nordio e l’eliminazione dell’abuso d’ufficio -, ma soprattutto il premierato, rispetto al quale si esprimono “preoccupazioni in merito alle modifiche proposte all’attuale sistema di controlli e bilanciamenti istituzionali”, nonché “dubbi sul fatto che ciò possa apportare maggiore stabilità”. Il rapporto segnala che “con questa riforma, non sarebbe più possibile per il presidente della Repubblica trovare una maggioranza alternativa e/o nominare una persona esterna al parlamento come primo ministro” con nei casi dei governi Monti o Draghi. A questo si accompagna la critica all’eccessivo ricorso alla decretazione come accade, di nuovo in Francia, e poi in altri paesi come l’Estonia. Bocciata senza appello Budapest, maglia nera dello stato di diritto in Ue, che colleziona il maggior numero di raccomandazioni per non aver combattuto la corruzione e non aver mostrato nessun progresso in settori chiave come “l’indipendenza dei media del servizio pubblico” e “la promozione di uno spazio civico sicuro”. Non manca un richiamo, in questo caso verso Roma, in merito ai mancati progressi su trasparenza delle lobby e sulla creazione di un registro elettronico sul finanziamento ai partiti. Oltre all’allarme per le ripetute aggressioni ai giornalisti, osservazioni importanti sulla situazione italiana contenuta nel report riguardano l’indipendenza della Rai. Il rapporto fa riferimento alla lettera di denuncia sullo stato del servizio pubblico inviata a Bruxelles dalla Federazione nazionale della stampa (Fnsi) e riporta “preoccupazioni di lunga data” sulla Rai, a fronte della quali si raccomanda “una riforma globale per garantire che il servizio pubblico sia meglio protetto dai rischi di interferenza politica” in modo da garantirne la “piena indipendenza”. “Le autorità devono adottare misure urgenti in Italia, che è scesa di 5 posizioni al 46° posto nell’indice di Reporter senza frontiere citato dal rapporto”, commenta la portavoce Ue di Rsf Julie Majerczak. Oltre al La libertà di stampa in Italia è in sofferenza anche per un’altra ragione: non è stato portato avanti il processo legislativo per introdurre una riforma del reato di diffamazione, della tutela del segreto professionale e delle fonti giornalistiche, alla luce degli standard europei. La legislatura appena trascorsa ha licenziato il Media freedom act o Legge europea sulla libertà dei media, che però entrerà in vigore solo tra un anno. Il rapporto menzione invece i timori rispetto all’emendamento Costa (nella riforma Nordio), sul divieto di pubblicazione del testo dell’ordinanza di custodia cautelare fino all’avvio del processo. “Le leggi bavaglio e le proposte di carcere per i giornalisti rappresentano le punte dell’iceberg di una deriva illiberale e antidemocratica la cui responsabilità è tutta in capo a questo governo”, attacca la presidente delle commissione di vigilanza Rai, la 5S Barbara Floridia. “Anche sulla Rai arrivano conferme sulla situazione inaccettabile di ingerenza della politica cristallizzata con la Legge Renzi del 2015. Serve una riforma che contrasti le interferenze della politica”. Respinge al mittente le raccomandazioni il forzista Maurizio Gasparri, il cui nome resta legato alla legge sull’assetto del sistema radiotelevisivo del 2004: l’Italia è “culla della democrazia e del pluralismo”, parola sua. Sollecita invece il rispetto della Legge sulla pluralità dei media europei il Pd Sandro Ruotolo, quando ricorda come l’avversione di FdI e Lega ai provvedimenti Ue su libertà e pluralismo dei media. “Il posizionamento a destra di Giorgia Meloni isola sempre più l’Italia dal resto d’Europa”. Migranti. La Procura di Crotone: “Maysoon Majidi deve restare in carcere” di Silvio Messinetti Il Manifesto, 25 luglio 2024 L’attivista curda, in sciopero della fame, ha mostrato in aula le foto che la scagionano dall’accusa di essere una scafista. Per la giudice deve restare in cella. Anche se pesa solo 35 chili. Il sole a picco. Trentaquattro gradi già alle 9 del mattino. Il palazzo di Giustizia di Crotone ribolle. Nella facciata all’entrata principale spicca il murale dedicato ai giudici Falcone e Borsellino. Martedì uno spiraglio di giustizia si era aperto proprio in quegli uffici. I giudici inquirenti di Crotone hanno messo nero su bianco una verità che era nota a tutti: la strage dei migranti di Steccato di Cutro del 26 febbraio 2023 poteva essere evitata. Ma, come spesso accade, la giustizia può entrare in cortocircuito. Perché ieri, dopo l’avviso di conclusione indagini sui fatti di Steccato, in quello stesso tribunale di Crotone si celebra la prima udienza del giudizio immediato nei confronti di Maysoon Majidi. Una coincidenza stridente, in un processo kafkiano. Perché Majidi è in carcere anche per effetto del cosiddetto decreto Cutro. Fuori, nello spiazzo di corso Mazzini, si sono dati appuntamento gli attivisti dei movimenti. Nei mesi scorsi un comitato spontaneo e numerosi giornalisti d’inchiesta in tutta Europa, hanno preso posizione in suo sostegno. Ne invocano l’immediata liberazione. Molti i parlamentari e i consiglieri regionali recatisi in carcere. Per tre volte, la prigioniera è entrata in sciopero della fame. Le reiterate richieste di attenuazione del regime detentivo sono state rigettate. Da sette mesi la regista curda, attivista per i diritti umani in Iran, è in cella. L’accusano di essere una scafista del natante sbarcato in riva allo Jonio il 31 dicembre. A Crotone non c’è un reparto femminile nella casa circondariale. Come un pacco, prima l’hanno rinchiusa a Castrovillari poi l’hanno sbattuta a Reggio. La Procura è così convinta di trovarsi di fronte una criminale che ha chiesto e ottenuto il giudizio immediato, ovvero quel rito che salta il filtro dell’udienza preliminare, dato il “quadro di evidenza probatoria”. Così Maysoon, che ha rischiato di finire nella malfamata prigione iraniana di Evin, rischia adesso di marcire in un carcere di Calabria. La possibilità c’è tutta. Quando la vedi in gabbia, così deperita che “sembra una stampella con addosso i vestiti” (parole del consigliere regionale Ferdinando Laghi, primario a Castrovillari, unico politico presente in aula), i grandi occhi a coprirne i 35 chili di magrezza, il dubbio ti prende. Maysoon sorride agli antirazzisti entrati in aula. Su richiesta del suo legale Francesco Liberati, che in apertura aveva ripresentato l’istanza di riqualificazione della misura, le viene concesso di uscire dalla cella. Prende parola e legge le sue dichiarazioni: “Quando sbarcai a Crotone pensai di esser salva, invece è iniziato il mio incubo: 150 euro e il telefonino usato solo per rassicurare la famiglia diventano armi per accuse assurde. Io e mio fratello abbiamo fatto questo viaggio per salvarci la vita ed essere liberi in Europa” esclama dopo aver raccontato le fasi della traversata. La richiesta dei domiciliari però viene di nuovo respinta. Rimangono il pericolo di fuga e le medesime condizioni che hanno determinato gli altri due provvedimenti di rigetto. Le motivazioni addotte dalla pm Rossella Multari e confermate del presidente del collegio Mario D’Ambrosio sono un altro duro colpo per la giovane curda. Che a quel punto riprende il microfono e piangendo implora di poter mostrare due foto che, a suo dire, la scagionerebbero. In una si vedono lei e il fratello sottocoperta, nell’altra una donna vicino allo scafista: “Questa è quella che mi ha preso il cellulare”. Un processo indiziario riporta, dunque, nelle carceri un’innocente. Bastò il mormorio delatorio di alcuni dei suoi compagni di viaggio per convincere gli agenti della Guardia di finanza ad accusarla di essere “il capitano” del battello. L’odissea giudiziaria di Maysoon iniziò nel momento dell’approdo. Rovistando nei suoi contatti telefonici, in applicazione del decreto Cutro, che criminalizza i conducenti di imbarcazioni dei disperati, le autorità italiane riscrissero in modo capzioso la storia del suo calvario personale. Non mollano gli antirazzisti che lanciano un appello alla mobilitazione nazionale: “Invitiamo coloro che credono nei diritti umani e nella giustizia giusta a unirsi a noi nel sostenere Maysoon e tutte le altre persone private della propria libertà, per esprimere la contrarietà a leggi sbagliate che puniscono la solidarietà” annuncia Filippo Sestito dell’Arci. Prossima udienza il 18 settembre. Migranti. In aula per la libertà: ma Majidi resta in cella, “provata e dimagrita” di Marika Ikonomu Il Domani, 25 luglio 2024 Il tribunale di Crotone ha rigettato per la terza volta la scarcerazione. La ragazza dopo due settimane di sciopero della fame pesa 38 chili. “Sembrava di essere in un processo kafkiano”. Elisabetta Della Corte del Comitato Free Maysoon Majidi descrive così l’udienza che si è tenuta ieri a Crotone, nel processo a carico della 27enne attivista curdo-iraniana per i diritti delle donne, laureata in regia teatrale, accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per questo in custodia cautelare nel carcere della città. Arrivata sulle coste calabresi il 31 dicembre 2023, è stata subito accusata di aver aiutato chi guidava l’imbarcazione. È salpata dalla Turchia in cerca di un luogo sicuro, ma in Italia ha trovato il carcere. “Chi vorrebbe aiutarla non riesce e si presentano possibilità che poi non si realizzano”, continua Della Corte, descrivendo come sul piano pratico sembra non esserci alcuna possibilità di reazione, dopo oltre sei mesi di reclusione. Nemmeno le visite dei parlamentari e l’attenzione mediatica hanno portato alla revoca della custodia cautelare. È infatti la terza volta che i giudici rigettano la richiesta di Majidi di sostituire la misura con quella degli arresti domiciliari o ottenere la liberazione. Ma per il collegio penale del tribunale di Crotone permane il pericolo di fuga. “Così Maysoon resterà in custodia cautelare sulla base di testimonianze già smentite dalle stesse persone che l’avevano accusata”, hanno dichiarato la deputata del Partito democratico e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo Laura Boldrini e il vicecapogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera, Marco Grimaldi. Sono loro ad aver portato la storia di Majidi all’attenzione del parlamento, senza però ottenere le risposte richieste dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, continuano i parlamentari, “sta trasformando la salvezza in incubo per tantissime persone in fuga da situazioni terribili. Continuiamo a chiedere la traduzione ai domiciliari per Maysoon, che si trova in una condizione di depressione e debilitazione fisica”. Nessuna spiegazione - Da mesi la ragazza si chiede: “Perché sono qua?” Non si spiega come sia potuto accadere che, fuggita con il fratello grazie ai risparmi del padre dall’Iran, paese in cui è in atto una repressione sanguinaria, sia stata accusata di un reato così grave. Dopo il decreto Piantedosi - varato a seguito del naufragio di Cutro - rischia infatti una pena da sei a sedici anni e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo. I due fratelli hanno pagato il viaggio in tutto 17mila euro. Lo attesta una ricevuta. Ma gli inquirenti fondano le accuse sulle dichiarazioni di due persone su 77 passeggeri che viaggiavano sul veliero. Gli accusatori, raggiunti in Germania e in Inghilterra dal suo avvocato Giancarlo Liberati e anche da alcuni media, come Le Iene, hanno detto successivamente di non aver pronunciato quelle parole e che probabilmente si trattava di un errore di traduzione. Al contrario, la procura non è stata in grado di rintracciare i testimoni nell’incidente probatorio, svolto dopo 5 mesi. Majidi ritiene ciò che le sta accadendo un’ingiustizia e ha anche inviato una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Sono accusata di aver agito da scafista sulla base di alcune dichiarazioni, forse mal interpretate, rilasciate da due testimoni all’autorità giudiziaria (e smentite, peraltro, dagli stessi) mentre sono solo una delle persone migranti e richiedenti asilo che come me fuggono da situazioni di acuta sofferenza”, ha scritto. A giugno per circa due settimane ha deciso di fare uno sciopero della fame, poi interrotto. È dimagrita molto, fa sapere l’avvocato, pesa 38 chili. Dichiarazioni spontanee - Molto provata, Majidi ha partecipato all’udienza e ha deciso di raccontare del suo viaggio in prima persona, facendo dichiarazioni spontanee. “Io e mio fratello abbiamo fatto questo viaggio per salvarci la vita ed essere liberi in Europa”, ha detto ai giudici, precisando di essere partita il 26 dicembre. Ha poi spiegato al collegio di aver trascorso tutto il viaggio sottocoperta e di aver chiesto di salire a prendere aria per un malore. “Ho iniziato a litigare con una donna che prima di partire aveva preso a tutti il cellulare. A quel punto ho detto che quando fossimo arrivati li avrei denunciati alla polizia italiana perché ci stavano maltrattando. Questo ha scatenato antipatia e odio nei miei confronti da parte di chi stava in coperta. La mia minaccia di denuncia probabilmente ha dato agli altri una immagine distorta di me e per questo hanno pensato che dovessi essere incolpata”, ha detto. Riponeva speranze nella richiesta di domiciliari. Di fronte al rigetto è scoppiata in un pianto e ha chiesto di poter mostrare al collegio due foto che potrebbero scagionarla. Una, riporta l’Ansa, mostra la ragazza e il fratello sottocoperta, nell’altra invece c’è una donna vicino all’uomo che guidava il veliero. E ha precisato: “Questa è quella che mi ha preso il cellulare. Mi si incolpa di essere una scafista ma si vede che la persona vicina al capitano è un’altra. Io e mio fratello eravamo sotto” ed è evidente nel video, ha detto. Il processo dovrebbe concludersi a novembre. A sostegno della ragazza fuori dal tribunale c’era un sit in del Comitato Free Maysoon Majidi, formato da diverse organizzazioni che chiedono la sua scarcerazione. “La ragazza è solo la punta dell’iceberg”, conclude Della Corte, “di questo sistema populista penale che impone un martirio a centinaia di persone”. È complicato trovare dati precisi e aggiornati. Secondo il rapporto dell’Arci Porco Rosso di Palermo, dal 2013 al 2021 circa 3.200 persone sono state fermate con l’accusa di essere scafiste. Ma è ormai accertato che chi riceve questa accusa è spesso un migrante messo al timone, senza alcuna connessione con l’organizzazione dei trafficanti, oppure quella barca non l’ha proprio guidata. Migranti. Solo negligenza delle autorità locali per la strage di Cutro? di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 25 luglio 2024 Dopo la sentenza. Chi ha imposto al personale della Guardia costiera e della Guardia di finanza le “procedure”, o vi ha partecipato direttamente nel coordinamento ai Tavoli tecnici ministeriali? Il ministro Piantedosi ha replicato con la consueta indignazione all’avviso di conclusione delle indagini sulla strage di Steccato di Cutro nel quale la Procura di Crotone individua come responsabili per omissione nella trasmissione di informazioni, contestando reati molto gravi come naufragio colposo e omicidio colposo plurimo, due esponenti locali della Guardia costiera e quattro componenti del Reparto aeronavale (ROAN) della Guardia di finanza di Vibo Valentia. Come prevedibile, gli esponenti di governo, da Salvini a Piantedosi, hanno espresso solidarietà ai rappresentanti delle forze dell’ordine coinvolti nelle indagini. In particolare l’attuale ministro dell’interno si è dichiarato certo dell’innocenza dei sei indagati, affermando che “gli operatori di Crotone dimostreranno la loro estraneità”, con l’auspicio “che anche per loro valga il principio costituzionale di non colpevolezza fino a sentenza definitiva”. Non possiamo che condividere questo richiamo del ministro dell’interno. Non basta però attribuire tutte le responsabilità della strage ad una virata improvvisa dello scafista, quando l’imbarcazione era giunta ormai a poche decine di metri dalla costa, perché se è vero che il personale della Guardia costiera e della Guardia di finanza avrebbe seguito tutte le “procedure previste”, occorre chiedersi chi ha imposto quelle procedure o vi ha direttamente partecipato nei ruoli di coordinamento che competono alle autorità centrali, dunque ai Tavoli tecnici ministeriali ed al Nucleo centrale di coordinamento (NCC) del ministero dell’interno. A meno di non ritenere che gli unici responsabili della morte di tanti bambini, oltre ai presunti scafisti, siano i genitori che li hanno messi su una barca per attraversare il Mediterraneo, in assenza di più sicuri canali legali di ingresso. Se un difetto, o una completa mancanza di informazioni, viene contestata agli organi periferici forse si dovrebbe ricostruire la catena di comando ed il flusso di comunicazione costantemente attivo con le autorità centrali, perché soprattutto nel caso di eventi SAR che maturano al di fuori delle acque territoriali, in base al Piano SAR nazionale del 2020, che richiama le Convenzioni internazionali, la competenza per le decisioni relative al passaggio da una operazione di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement) ad una operazione di ricerca e salvataggio (SAR) risale necessariamente ai vertici della Guardia costiera ed al Nucleo centrale di coordinamento presso il Viminale, al quale partecipano, tra gli altri, esponenti del Corpo delle Capitanerie di Porto e della Guardia di finanza. Ed è a questo Nucleo centrale di coordinamento (NCC), che Frontex comunica in tempo reale tutti gli avvistamenti di imbarcazioni sospettate di “trasportare” migranti verso le coste italiane, “target da intercettare, secondo i piani operativi predisposti dal ministero dell’interno, attraverso i periodici “tavoli tecnici”, solo quando arrivano a varcare il limite delle 12 miglia delle acque territoriali, a meno che non sia necessario soccorrerle prima. Ma nel caso della strage di Cutro è sempre stato evidente, al di là delle responsabilità dello scafista, che i soccorsi, possibili quando il caicco si trovava in acque internazionali, diventavano impossibili in prossimità della costa, per l’altezza delle onde sui fondali più bassi e per il peggioramento delle condizioni meteo. Non possiamo condividere per questo quanto osservato dalla Procura di Crotone, secondo cui “è risultata non censurabile la scelta iniziale di qualificare l’evento come operazione di polizia (law enforcement) in luogo di soccorso in mare”. Lo stesso Regolamento Frontex n.656 del 2014, che la Procura di Crotone richiama a base delle sue determinazioni, contiene criteri di valutazione degli eventi SAR come le condizioni meteo marine, l’assenza di dispositivi di salvataggio, ed il sovraccarico che, se correttamente applicati dalle competenti autorità italiane, avrebbero imposto, già nella sera del 25 febbraio 2023, l’immediata qualificazione dell’evento, subito dopo l’avvistamento da parte dell’assetto aereo di Frontex, come un “evento di soccorso (SAR)” e non invece come un mero evento di immigrazione irregolare (law enforcement). Se un difetto di comunicazione tra i diversi organi si è verificato, questo va dunque valutato alla luce delle competenze e dei criteri di qualificazione degli eventi SAR imposti dalle autorità centrali. La strage di Steccato di Cutro del 26 febbraio dello scorso anno, è l’ennesima conferma delle conseguenze letali delle politiche di abbandono in mare, frutto della valutazione degli eventi di soccorso (SAR) come attività di immigrazione irregolare, se non “clandestina” e delle limitazioni dell’area operativa di intervento in acque internazionali della nostra Guardia costiera. Migranti. Il Csm boccia la “precettazione” di tutti i giudici per le convalide dei fermi in Albania di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 luglio 2024 “Non è un criterio idoneo ad assicurare la funzionalità dell’ufficio”. Nei giorni scorsi, per garantire 10 udienze contemporaneamente, il presidente del tribunale di Roma aveva disposto dal 10 agosto il coinvolgimento di magistrati di tutte le sezioni. Adesso toccherà solo a quelli specializzati sull’immigrazione. Non ci sarà nessuna “chiamata alle armi” dei giudici in servizio al tribunale di Roma per garantire il funzionamento puntuale del protocollo Albania. A valutare i provvedimenti di fermo da disporre nei confronti dei migranti che saranno portati al di là dell’Adriatico, saranno esclusivamente i magistrati della sezione immigrazione e non tutti i giudici, di qualsiasi sezione (anche quelle che nulla hanno a che fare con il settore), come era stato deciso dal presidente del tribunale di Roma Reali. La bocciatura del provvedimento - Nell’ultima seduta il plenum il Csm ha infatti bocciato il provvedimento che il presidente Reali aveva firmato per rispondere alla richiesta pressante arrivata dal ministero di Grazia e giustizia di garantire almeno dieci udienze in contemporanea per convalidare entro le 48 ore, come prescrive la legge, i fermi dei migranti che saranno disposti dal questore di Roma. “Il criterio idoneo” - Nella delibera, il plenum del Csm rileva che “la designazione di ulteriori giudici per sopperire agli eventuali flussi in entrata legati al protocollo Albania risulta attuata in modo non conforme” e ritiene che “l’assenza di dati statistici pregressi relativi ai procedimenti connessi al protocollo Albania non esima il presidente del tribunale di Roma dell’indicazione di un criterio idoneo ad assicurare la funzionalità dell’ufficio e dunque la soglia di rilevanza che impone l’attività di supporto con magistrati non inseriti nella tabella feriale della sezione immigrazione”. I turni per le convalide - Bocciata dunque la cosiddetta tabella dei turni per le convalide dei fermi dei migranti. Ad occuparsene, a partire dal 10 agosto, saranno esclusivamente I giudici della sezione immigrazione che svolgeranno le udienze in videoconferenza collegati con l’Albania dalle aule del tribunale di Roma dove sono stati già montati dieci megaschermi in cui appariranno i migranti soggetti alle cosiddette procedure accelerate di frontiera. Il primo scoglio del protocollo - L’udienza di convalida sarà, da subito, il primo scoglio del protocollo visto che sono diversi i punti controversi su cui i giudici saranno chiamati a pronunciarsi: dalla legittimità della cauzione (adesso modificata da un decreto del Viminale) che varia dai 2.500 ai 5.000 euro (unico modo teorico per i migranti per evitare la detenzione nel centro di Gjader,) alla valutazione della reale sicurezza dei Paesi di provenienza e alle condizioni di vulnerabilità dei migranti sottoposti al fermo. Se il fermo non è convalidato - In tutti i casi in cui il fermo non dovesse essere convalidato, occorrerà immediatamente liberare i migranti e portarli in Italia visto che gli accordi con Tirana escludono la possibilità che le persone soccorse nel Mediterraneo e portati in Albania possano restare libere al di fuori dei centri di detenzione. Tra dubbi e ricorsi, il Protocollo sui migranti con l’Albania è un flop annunciato di Vitalba Azzollini* Il Domani, 25 luglio 2024 Sulla procedura accelerata di valutazione delle domande di asilo, presentate da persone che provengano da paesi sicuri, pendono questioni pregiudiziali dinanzi alla Cassazione e alla Corte di giustizia Ue. Nonostante alcune mosse del Viminale, è probabile che tali questioni creino intralci all’applicazione del Protocollo. Ed è ragionevole immaginare che vi saranno molti ricorsi da parte di chi verrà portato in quei centri. L’operazione di Meloni e Rama rischia di risolversi in un flop colossale, giuridicamente ed economicamente. A breve potrebbero iniziare i trasferimenti di migranti in Albania, come previsto dal relativo Protocollo. Ma diverse questioni pregiudiziali pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione e alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CgUe) potrebbero ostacolarne l’attuazione. Le mosse del Viminale - Nei mesi scorsi, la Corte di Cassazione ha chiesto alla Corte di giustizia Ue di pronunciarsi sulla conformità al diritto Ue della norma del decreto Cutro che prevede una “garanzia finanziaria”, di importo fisso (circa 5.000 euro), che i richiedenti asilo sottoposti alla “procedura accelerata di frontiera” devono versare per evitare il trattenimento. Tale procedura si applica ai migranti che provengano da stati inseriti nell’elenco dei “paesi sicuri”, definito nel 2019 con decreto ministeriale in conformità alla Direttiva procedure (2013/32/Ue) e aggiornato da ultimo nel maggio 2024. La procedura accelerata pone a carico del migrante l’onere di dimostrare i gravi motivi per cui il paese di origine, sicuro in base al decreto, di fatto non è sicuro per lui. Nel settembre scorso, il tribunale di Catania - nel noto caso della giudice Iolanda Apostolico - aveva respinto alcune richieste di convalida del trattenimento, ritenendo la garanzia non conforme alla normativa Ue. Secondo quest’ultima, infatti, l’importo non deve essere fisso, ma proporzionato alle condizioni del migrante. Il Viminale aveva presentato ricorso in Cassazione, che poi ha rinviato la questione alla Corte di giustizia Ue. Ma nel giugno scorso, probabilmente temendo una bocciatura da parte della Corte, il ministero dell’Interno ha modificato la struttura della cauzione - da modulare tra i 2.500 e i 5.000 euro in relazione alla “situazione individuale dello straniero” - così da renderla conforme alle disposizioni europee; contemporaneamente, forse per evitare che la Corte si pronunciasse anche su altri profili critici del decreto Cutro, ha rinunciato ai ricorsi contro le ordinanze di Catania, nonché chiesto il ritiro della questione pregiudiziale. Queste mosse del Viminale sono tese anche a evitare che l’attesa della pronuncia della Corte e poi la pronuncia stessa possano intralciare l’attuazione del protocollo con l’Albania, ove si applicherà la procedura accelerata e la connessa norma sulla garanzia finanziaria. Premesso che la Corte Ue potrebbe esprimersi comunque sulla questione, i problemi restano molti. Ad esempio, la cauzione dà ai migranti il diritto a essere lasciati liberi durante l’iter di valutazione della loro richiesta di asilo. Ma liberi dove? Di certo, in base al Protocollo, non in Albania; ma nemmeno in Italia, ove è previsto siano trasferiti solo alla fine di tale iter, e non prima, come invece dovrebbe avvenire pagando la cauzione. Altre questioni pregiudiziali - Potrà incidere sul Protocollo con l’Albania anche la questione pregiudiziale sollevata il 1° luglio scorso dinanzi alla Corte di Cassazione dal tribunale di Roma. La questione trae origine da un caso riguardante la Tunisia ove, come in Egitto, si registrano “forme di persecuzione, violenza, discriminazione, compressione del dissenso politico e delle libertà fondamentali” a causa del regime politico e amministrativo. Il tribunale chiede alla Cassazione se il giudice abbia il potere-dovere di valutare la qualificazione di un paese come sicuro, e quindi di sindacarne l’inserimento nel relativo elenco. Chiarire questo punto, spiega il tribunale, è “elemento essenziale e prioritario nell’apprezzamento della legittimità del trattenimento di una persona in Albania, giacché soltanto coloro che provengono da paesi di origine considerati come sicuri potranno essere sbarcati in quello stato ed essere ivi trattenuti”. L’operazione albanese potrà essere condizionata anche da rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia Ue effettuati dal tribunale di Firenze il 31 maggio scorso, in relazione a ricorsi di migranti ai quali erano state rigettate le domande di asilo perché provenivano da Costa d’Avorio e la Nigeria, presenti nell’elenco dei paesi sicuri. Il tribunale ha chiesto alla Corte, tra l’altro, se sia conforme alla Direttiva procedure definire come sicuri i paesi in cui i diritti di alcune categorie di persone - detenuti, disabili, albini, sieropositivi, omosessuali ecc. - siano a rischio di violazione. Si può ragionevolmente immaginare che vi saranno molti ricorsi da parte di richiedenti asilo portati in Albania. Ciò comporterà per lo stato, quindi per i cittadini, costi ulteriori che si aggiungeranno a quelli mirabolanti già previsti per un’operazione che, economicamente e giuridicamente, rischia di risolversi in un flop colossale. *Giurista Sfruttamento e nozze forzate, schiavi 12 milioni di minori: l’allarme di Save the Children di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 25 luglio 2024 Presentato il nuovo report “Piccoli schiavi invisibili” in occasione della Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. Un dramma che tocca anche Italia e Europa. Sfruttamento lavorativo, sessuale e coinvolgimento in attività illecite. Ma anche tratta e matrimoni forzati. Su 50 milioni di persone di varie forme di schiavitù moderna, un quarto (vale a dire 12 milioni) sono minori. E il trend è in aumento. Nel mondo, ma anche in Europa: in 5 anni (2017-2021) sono state identificate circa 29.000 vittime di tratta per sfruttamento sessuale e lavorativo, il 16% ha meno di 18 anni. Sono i “Piccoli schiavi invisibili” come testimonia il titolo del rapporto di Save the Children, arrivato alla 14esima edizione. L’organizzazione internazionale indipendente - impegnata da oltre un secolo nella lotta per la tutela di bambine, bambini e adolescenti a rischio per garantire loro un futuro - lancia così l’ennesimo allarme su un fenomeno sommerso. Il dossier viene presentato in occasione della Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani, istituita nel 2013 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Un fenomeno, quello della tratta e dello sfruttamento minorile, su cui “non possiamo chiudere gli occhi: un dramma diffuso nel mondo, ma presente anche nel nostro Paese”, come spiega Raffaela Milano, direttrice ricerca e formazione di Save the Children. Quest’anno inoltre il dossier ha dato voce alle giovanissime vittime, accolte dal sistema nazionale anti-tratta, incontrate nei progetti dell’Organizzazione o ancora nelle case di accoglienza per minori non accompagnati in Italia: “Storie, dai tratti comuni e allo stesso tempo uniche. Storie di assenza, di sogni rubati, di fiducia tradita, di violenze subite, fino all’emersione e al riscatto”. Un vero dramma, dunque, come testimoniano i dati del report. Vediamoli nel dettaglio. Tra i minori, 3,3 milioni sono coinvolti nel lavoro forzato, in prevalenza per sfruttamento sessuale (1,69 milioni) o per sfruttamento lavorativo (1,31 milioni) - in ambiti quali lavoro domestico, agricoltura, manifattura, edilizia, accattonaggio o attività illecite - mentre 320mila risultano sottoposti a lavoro forzato da parte degli Stati, come detenuti, dissidenti politici, o appartenenti a minoranze etniche o religiose perseguitate. E poi i matrimoni forzati: è stato calcolato che il fenomeno ha interessato 9 milioni di adolescenti. Un’emergenza che interessa maggiormente l’Asia Orientale (14,2 milioni di persone coinvolte nel 2021, più del 66% dei casi stimati), seguita a distanza dall’Africa (3,2 milioni di persone coinvolte, 14,5%), dall’Europa e Asia Centrale (2,3 milioni di persone, 10,4%). La maggior parte dei matrimoni forzati è organizzata dai genitori delle vittime (nel 73% dei casi) o da parenti stretti (16%) e spesso si lega a situazioni di forte vulnerabilità, quali servitù domestica o sfruttamento sessuale. Anche l’Europa e la stessa Italia deve fare i conti con il fenomeno della tratta e dello sfruttamento. Nel quinquennio 2017-2021 nel nostro continente, spiega il report, sono state circa 29mila le vittime di tratta registrate nel database del Counter Trafficking Data Collaborative: in poco più di un caso su due, la tratta avviene per sfruttamento lavorativo (53% delle vittime) e nel 43% dei casi per sfruttamento sessuale, mentre il restante 4% riguarda altre forme di sfruttamento (come accattonaggio o attività illecite). Nella maggior parte dei casi, le vittime di tratta sono persone adulte (84%), di sesso femminile (66%), ma una percentuale significativa è composta da minorenni (il 16% delle vittime). Tra i più piccoli, fino agli 11 anni di età, le vittime sono quasi in egual misura sia bambini che bambine, mentre in tutte le altre fasce d’età la prevalenza di sesso femminile è netta (con un picco del 77% di ragazze nella fascia d’età fra i 15 e i 17 anni). I bambini e le bambine vittime della tratta sono maggiormente soggetti a forme di abuso psicologico, fisico e sessuale rispetto alle vittime adulte. In Italia, poi, dal 1° gennaio al 31 maggio 2024 il Numero Verde Nazionale inAiuto alle Vittime di Tratta e/o Grave Sfruttamento ha svolto 1.150 nuove valutazioni con potenziali vittime di tratta. Sebbene i flussi migratori dalla Nigeria abbiano subìto un forte calo, la nazionalità nigeriana si conferma sul territorio italiano la principale per numero di nuove valutazioni (25,2%), seguita da quella ivoriana (13,6%) e marocchina (11,2%). Le storie delle vittime - “Parliamo di bambini, bambine e adolescenti traditi dal mondo degli adulti che ha abusato della loro fiducia e calpestato i loro sogni. Questo dossier - continua Raffaella Milano - è dedicato alle storie dei minori vittime di tratta e sfruttamento accolti nel circuito di protezione italiano. Sono solo una minima parte, la “punta dell’iceberg”, di un fenomeno sommerso, ampio e diffuso. Siamo convinti che l’ascolto delle loro storie, il punto di vista delle vittime, possa aiutarci a conoscere meglio questa terribile piaga per rafforzare le reti di prevenzione e contrasto. Quello della tratta e dello sfruttamento è un fenomeno che cambia molto rapidamente ed è fondamentale che la sua conoscenza e la mappatura territoriale siano costantemente alimentate dall’impegno delle istituzioni, dell’autorità di pubblica sicurezza, degli enti locali e del Terzo settore”. In cinque anni in Europa ci sono state più di 29mila vittime della tratta di esseri umani di Chiara Sgreccia L’Espresso, 25 luglio 2024 Schiavizzati per lavori estenuanti, costretti alla prostituzione o all’accattonaggio. Il fenomeno riguarda anche più di 4 mila minori. La denuncia nell’ultimo report di Save the Children, Piccoli schiavi invisibili: “Parliamo di bambini traditi dagli adulti che abusano della loro fiducia e calpestano i loro sogni”. “Va bene ci andrò. Qualsiasi cosa che mi faccia evitare di sposare questo vecchio e mi permetta di andare via da questo posto va bene”. Così aveva risposto Precious, 19 anni, alla donna che le aveva offerto aiuto per lasciare la Nigeria, quando ancora immaginava che in Europa avrebbe potuto studiare e costruirsi una vita nuova. Invece, per sfuggire al matrimonio forzato a cui la famiglia l’aveva destinata pur di ripagare un vecchio debito, è finita in Libia. Dove è stata costretta a prostituirsi: “Quella donna mi aveva mentito. Allora ho pianto. Ho detto che non potevo vivere questo tipo di vita. Ho lasciato la Nigeria per lo stesso motivo”. La testimonianza di Precious, che è un nome di fantasia utilizzato per tutelare la sua identità, è solo una delle tante raccolte da Save The Children, per realizzare il rapporto Piccoli Schiavi Invisibili: la punta dell’iceberg, pubblicato il 25 luglio in vista della giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. Con l’obiettivo di accendere i riflettori su un fenomeno - il reclutamento con l’uso della forza o di altre forme di coercizione per fini di sfruttamento - che spesso resta silenzioso e sotto traccia ma che distrugge la vita di milioni di persone. Secondo la ricerca Global Estimates of Modern Slavery: Forced Labour and Forced Marriage, redatta dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni nel 2022, sono quasi 50 milioni nel mondo le vittime della schiavitù moderna, cioè di quella forma di assoggettamento per cui a causa di minacce, violenza, coercizione, inganno o abuso di potere una persona è costretta al lavoro o al matrimonio forzato. Solo in Europa, tra il 2017 e il 2021, le vittime di tratta registrate sono state circa 29 mila. In poco più di un caso su due, la tratta avviene per sfruttamento lavorativo, nel 43 per cento dei casi per sfruttamento sessuale, mentre il restante 4 per cento è sottoposto ad altre forme di sfruttamento, l’accattonaggio ad esempio. Come si capisce consultando il database del Counter Trafficking Data Collaborative, sebbene nella maggior parte dei casi le vittime di tratta siano persone adulte, di sesso femminile, ad essere costretti allo sfruttamento sessuale o lavorativo sono anche molti minori, oltre 4 mila in cinque anni. E mentre tra i più piccoli le vittime sono quasi in egual misura sia bambini che bambine, dagli 11 anni in poi la prevalenza femminile è netta. I minori vittime della tratta, si legge dal rapporto Piccoli Schiavi invisibili, sono soggetti a forme di controllo psicologico, fisico e sessuale più frequenti rispetto agli adulti. In particolare, il 69 per cento subisce una forma di controllo psicologico, il 52 per cento è minacciato e ingannato attraverso false promesse, il 46 per cento è soggetto a controllo fisico. Abusi che in tanti casi si sovrappongono tra loro, rendendo molto difficile per una persona riuscire a tornare libera: “Non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fenomeno della tratta e dello sfruttamento minorile, un dramma diffuso nel mondo, ma presente anche nel nostro Paese. Parliamo di bambini, bambine e adolescenti traditi dagli adulti che abusano della loro fiducia e calpestano i loro sogni”, spiega Raffaela Milano, direttrice ricerca e formazione di Save the Children: “È necessario che alla commozione e allo sdegno per questo e per altri drammi faccia seguito un’azione continuativa e capillare di contrasto al traffico e allo sfruttamento degli esseri umani, nonché un impegno deciso a sostegno delle giovani vittime accolte nel sistema di protezione affinché, dopo aver vissuto una delle esperienze più devastanti che un ragazzo o una ragazza possono trovarsi ad affrontare, siano accompagnate nella costruzione di un futuro diverso e libero”. La “fame zero” resta un miraggio: una persona su 11 nel mondo non ha da mangiare di Lucia Capuzzi Avvenire, 25 luglio 2024 L’obiettivo previsto per il 2030 è più lontano che mai: l’insicurezza alimentare resta altissima ovunque, soprattutto in Africa. E i governi non cambiano il loro modello finanziario. Fame zero? Il secondo degli Obiettivi che il mondo si è proposto di raggiungere entro il 2030 resta ancora drammaticamente lontano. La quota di chi è condannato a vivere in costante insicurezza alimentare rimane di 733 milioni per il terzo anno consecutivo. Il 36 per cento in più di un decennio fa quando, appunto, le Nazioni Unite hanno adottato i 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile per affrontare quella che considerava - e considera tuttora - un’emergenza. Dopo i progressi dei primi anni, però, è arrivato lo stallo, con 152 milioni aggiuntivi di affamati rispetto al pre-Covid. In pratica, ora, una persona su undici non ha da mangiare. In Africa, però, dove il numero continua a crescere, è una su cinque. Livelli di malnutrizione paragonabili a quelli della crisi economica del 2008-2009. L’unica regione dove si sono registrati miglioramenti è l’America Latina - con la vistosa eccezione dell’area caraibica - mentre i dati asiatici sono rimasti stazionari. Nella regione compresa tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco, in 5,4 milioni sono usciti dalla fame. “Il Continente va nella direzione giusta per raggiungere la meta prefissata nel 2030”, ha detto il direttore generale della Fao, Qu Dongyu. Il resto del pianeta, invece, è fuori strada. Di questo passo, nel 2030, i malnutriti cronici saranno 582 milioni: mezzo miliardo in più di quanto prefissato. Le cause dell’impossibilità di nutrirsi per troppi sono i conflitti - che dilagano mai come in questo momento -, le crisi economiche improvvise, la speculazione finanziaria sui prezzi degli alimenti e, soprattutto, nel corso del 2023, il riscaldamento globale. Lo denuncia il consueto rapporto sullo “Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione” (Sofi) presentato ieri a Rio, nell’ambito della ministeriale del G20 e confezionato da cinque agenzie Onu: Fao, Ifad, Unicef, Pam e Oms. Agli oltre 700 milioni in condizioni estreme, vanno sommati i 2,3 miliardi di donne e uomini in situazione di insicurezza alimentare moderata e grave. Tre quarti dei più poveri vivono nelle aree rurali dei Paesi in via di sviluppo. Un paradosso crudele: sono proprio i piccoli produttori a sfamare il pianeta. Sull’agricoltura familiare - principale vittima dell’aumento repentino delle temperature mondiali -, dunque, occorre agire per sciogliere il controsenso. Lo studio Sofi non si limita a scattare la fotografia, a tinte scure, della realtà. Propone bensì un nuovo paradigma per impostare i finanziamenti in modo da renderli più equi ed efficaci contro la fame. Al momento, alla sicurezza alimentare va meno di un quarto degli aiuti destinati allo sviluppo. Una media di 76 miliardi di dollari l’anno tra il 2017 e il 2021, di cui solo il 34 per cento è stato investito per contrastare i fattori scatenanti. Una quantità evidentemente insufficiente. Per i Grandi, però, non si tratta unicamente di mettere mano al portafogli. “Spendere di più e soprattutto in maniera più intelligente”, ha sintetizzato Alvaro Lario, presidente di Ifad. Attraverso una trasformazione dell’intero modello finanziario. Questo vuole dire costruire un quadro più coerente dei flussi di denaro, mobilitare nuovi fondi e spenderli meglio, garantendo un ruolo decisionale cruciale ai protagonisti nazionali e locali. “È necessario garantire finanziamenti meno onerosi ai Paesi che hanno più necessità”, ha aggiunto Lario. Invece, delle 119 nazioni a medio e basso reddito analizzati, il 63 per cento rivela forti difficoltà nell’accesso ai fondi. Troppo rischioso investirvi date le precarie condizioni. Gli strumenti finanziari per bypassare gli ostacoli, però, ci sono: collocamenti privati di obbligazioni sostenibili, schemi di finanziamento misto e accordi di condivisione del rischio per attrarre fondi privati. Adottarli è una scelta politica. Da qui la decisione di divulgare il rapporto di fronte alle venti principali economie internazionali, le uniche con la forza sufficiente per promuovere il cambiamento. In un luogo oltretutto strategico: il Brasile che, con gli ambiziosi programmi di inizio anni Duemila, è diventato un riferimento nella lotta alla fame, come ha ricordato la direttrice esecutiva del Pam, Cindy McCain. I costi sono indubbiamente alti: si parla di miliardi di dollari. “Il costo dell’inazione sarà, però, di gran lunga maggiore - si legge nel rapporto Fao -. Il riutilizzo dei finanziamenti esistenti per l’alimentazione e l’agricoltura potrebbe dare un contributo significativo”. Una delle chiavi è impiegarli in modo massiccio per dare ai contadini dei Paesi poveri i mezzi per difendersi dal surriscaldamento generale. Fattore a cui sono tragicamente vulnerabili. “Realizzare sistemi alimentari resistenti al clima è ora una questione di vita o di morte - sottolinea Olivier De Schutter, special rapporteur Onu sulla povertà estrema e i diritti umani e co-chair dell’International panel of experts o sustainable food systems -. Abbiamo una disperata necessità di una nuova ricetta per affrontare la fame, basata su una produzione agro-ecologica del cibo diversificata e su mercati alimentari localizzati invece che su catene alimentari industriali globali. Nonché su programmi di protezione sociale che garantiscono il diritto al cibo per i più poveri del mondo”. Il punto di partenza, secondo il capo economista della Fao, Máximo Torero, è prevedere piani di trasferimento rapido di denaro dove si verifica l’emergenza. L’intensificarsi delle catastrofi ambientali e dei fenomeni estremi, produce uno scenario cangiante. “Anche gli aiuti devo essere in grado di adattarsi al contesto - sottolinea Torero -. Con il cambiamento climatico, la velocità di azione diventa fondamentale”. Alcune esperienze citate nello studio sono eloquenti. L’introduzione in Zambia di un sistema di “assicurazioni climatiche” per i contadini più vulnerabili ha consentito un forte miglioramento della produzione alimentare e della riduzione della malnutrizione. Mentre in Indonesia, un programma di incentivo focalizzato con le donne, ha fatto crescere la pesca sostenibile del 78 per cento. “Non è un’utopia - ha concluso McCain -. Un futuro libero dalla fame è possibile. Si tratta di volerlo”. Turchia. Due ergastoli all’attivista comunista Ayten Öztürk di Eliana Riva Il Manifesto, 25 luglio 2024 Dopo 13 anni di carcere e due ai domiciliari, è stata riarrestata lo scorso febbraio insieme a musicisti, attivisti, avvocati. La Cassazione ha confermato: due ergastoli. Il resto della vita da passare in regime di isolamento nelle carceri turche. Tenendo conto che l’aspettativa di vita media per una donna turca è di 80,7 anni e che nei suoi primi 50 anni Ayten Öztürk ne ha già scontati 13,5 di prigione, potrebbe arrivare a trascorrere il 55% della sua esistenza dietro le sbarre. Il calcolo, in realtà, è ottimistico perché non tiene conto dei due anni e mezzo passati agli arresti domiciliari e dei sei mesi di tortura nel centro segreto di detenzione a Istanbul. Il suo crimine più grande, quello per cui rimarrà in prigione a vita, è proprio aver deciso di denunciare le torture e gli abusi sessuali subiti. Abbiamo incontrato più volte Ayten Öztürk: era stata posta ai domiciliari un paio di anni fa, per essere riarrestata lo scorso febbraio. Prima di allora, sull’esito del procedimento giudiziario i suoi numerosi sostenitori, in Turchia e in giro nel mondo avevano espresso un cauto ottimismo quando, lo scorso 7 novembre, era stata assolta dall’accusa di “propaganda per un’organizzazione terroristica”, formulata in seguito alla pubblicazione di un libro in cui denuncia gli abusi subiti (il volume è stato sequestrato e ne è stata proibita la distribuzione). In quell’occasione la nutrita presenza di osservatori e giornalisti internazionali ha fatto la differenza. Lo hanno affermato con estrema sicurezza i suoi avvocati, ora tutti o quasi in prigione insieme a lei. Un’ondata di arresti in Turchia ha infatti travolto lo scorso febbraio associazioni, centri di supporto legale, musicisti, attivisti, in seguito a un attacco armato all’esterno del tribunale di Istanbul, conclusosi con l’uccisione di un civile e dei due attentatori, e mai rivendicato da alcun gruppo. Ayten Öztürk è un’oppositrice politica, marxista come la maggior parte degli aleviti di Istanbul. La loro è una comunità molto unita. I propri principi politici, le rivendicazioni di democrazia, giustizia e uguaglianza li connettono in maniera indissolubile, come fossero i membri di una grande famiglia, spesso esiliata, rifugiata in diversi Paesi ma mai dispersa. La sentenza della Corte di Cassazione ha confermato la condanna a due ergastoli aggravati con le accuse di “aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale e favoreggiamento nel reato di omicidio premeditato”. Due sono le contestazioni. La prima è di far parte di una associazione per i diritti umani che si occupa di lotta alla droga e alla prostituzione ma che secondo i giudici propaganda idee politiche socialiste pericolose per il governo. La seconda è di aver assistito, guardandolo da lontano, al pubblico linciaggio di Selahaddin Cirit, un uomo turco con numerosi precedenti penali per pedofilia che è stato aggredito per aver abusato di un minore. Pilastri dell’accusa, i testimoni segreti. Gli avvocati di Ayten Öztürk ci hanno fatto sapere che la loro assistita non è ancora a conoscenza della sentenza, annunciata nella tarda serata di lunedì 22 luglio e che chiederanno un nuovo processo per violazione dei diritti umani alla Corte costituzionale. Se non saranno ascoltati, si rivolgeranno alla Corte europea dei Diritti dell’uomo. Dodici avvocati dell’Ufficio legale del popolo sono attualmente in prigione. Tra gli arrestati di febbraio c’è anche Mehmet Güvel, di 79 anni, malato di cancro. I prigionieri che dividono con lui la cella sono in sciopero della fame per richiederne il rilascio. La maggior parte delle persone fermate si trova in carceri di sicurezza in cui l’isolamento è totale, non esistono finestre né contatti umani, compresi quelli con le guardie carcerarie, perché tutto è automatizzato e controllato in maniera computerizzata.