Ammassati e senz’aria, invasi da cimici e topi. Benvenuti in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 luglio 2024 Il rapporto choc di Antigone nell’anno dei suicidi record: “Tasso di sovraffollamento al 130,6%: ci sono 14mila detenuti in più della capienza. L’associazione Antigone, che da oltre trent’anni si occupa del sistema penitenziario e penale italiano, ha presentato un dossier che dipinge un quadro allarmante della situazione nelle carceri del Paese. Il rapporto evidenzia una serie di criticità, tra cui un drammatico sovraffollamento, un’impennata nei tassi di suicidio e condizioni di vita che violano i diritti umani fondamentali dei detenuti. Sovraffollamento alle stelle - Uno dei dati più preoccupanti emersi dal dossier di Antigone riguarda il livello di sovraffollamento raggiunto nelle carceri italiane. Al 30 giugno 2024, le carceri italiane ospitavano 61.480 detenuti a fronte di soli 51.234 posti regolamentari. Il tasso di affollamento ufficiale è del 120%, ma la situazione è ancora più grave se si considerano i posti effettivamente disponibili. Tenendo conto dei 4.123 posti non utilizzabili, il tasso reale di affollamento sale al 130,6%. La situazione è particolarmente critica in 56 istituti, dove il tasso di affollamento supera il 150%. In 8 strutture, la situazione è addirittura drammatica, con tassi superiori al 190%. Il record negativo spetta al carcere di Milano San Vittore (sezione maschile) con un incredibile 227,3% di sovraffollamento, seguito da Brescia Canton Monbello (207,1%) e Foggia (199,7%). Per la prima volta da anni, anche gli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) si trovano in una situazione di sovraffollamento. Al 15 giugno 2024, erano presenti 555 giovani (di cui 25 ragazze) a fronte di soli 514 posti ufficiali. Un anno prima, i detenuti erano 406. Il 64,1% dei presenti non ha ancora una sentenza definitiva. Il rapporto evidenzia come le condizioni di vita nelle carceri italiane siano spesso in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che proibisce trattamenti inumani o degradanti. Nel 2023, sono state presentate 9.574 istanze di risarcimento per queste violazioni. Di queste, 8.234 sono state esaminate e ben 4.731 (il 57,5%) sono state accolte. Le visite dell’Osservatorio di Antigone in 88 istituti negli ultimi 12 mesi hanno rivelato che nel 27,3% delle carceri visitate ci sono celle che non garantiscono il minimo di 3 metri quadri di spazio calpestabile per detenuto, considerato lo standard minimo per una detenzione dignitosa. Testimonianze scioccanti - Il rapporto include anche testimonianze dirette di detenuti e familiari che descrivono condizioni di vita disumane: celle sovraffollate con temperature che raggiungono i 50 gradi, mancanza di assistenza medica, infestazioni di insetti e roditori, servizi igienici inadeguati e mancanza di attività ricreative o formative. Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, sottolinea come il sovraffollamento non sia solo una questione di numeri, ma abbia un impatto diretto e devastante sulla qualità della vita all’interno delle carceri. In un istituto sovraffollato, non sono garantiti solo gli spazi vitali minimi, ma viene compromesso anche l’accesso alle attività, in particolare quelle lavorative, che sono fondamentali per il percorso di riabilitazione dei detenuti. Inoltre, in queste condizioni, diventa estremamente difficile per gli operatori svolgere adeguatamente il proprio lavoro. L’attenzione alle fragilità di molti detenuti, che spesso presentano problematiche complesse, non può essere garantita come dovrebbe. Il risultato è una progressiva spersonalizzazione del detenuto, che rischia di diventare sempre più un numero e sempre meno una persona con diritti e necessità specifiche. Emergenza suicidi - Il 2024 si sta caratterizzando anche come un anno di emergenza per quanto riguarda i suicidi in carcere. I dati riportati da Antigone sono scioccanti: al momento della stesura del dossier, 58 persone si erano già tolte la vita all’interno degli istituti penitenziari dall’inizio dell’anno. Di queste, 10 solo nel mese di luglio e 12 nel mese di giugno. Se questo trend dovesse continuare, si rischia di superare il tragico record negativo del 2022, quando i suicidi in carcere furono 85. Questi numeri sono un chiaro indicatore del profondo disagio che si vive nelle carceri italiane e dell’urgente necessità di interventi strutturali per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Il dossier di Antigone sottolinea come un carcere sovraffollato non solo violi i diritti dei detenuti, ma finisca anche per non contribuire alla sicurezza dei cittadini. Il tasso di recidiva in Italia è estremamente elevato: dati al 31 dicembre 2021 mostravano che solo il 38% delle persone detenute era alla prima carcerazione, mentre il 62% ne aveva già subita almeno un’altra. Addirittura, il 18% dei detenuti aveva alle spalle almeno cinque carcerazioni precedenti. Questi dati suggeriscono che il sistema carcerario attuale non riesce a svolgere efficacemente la sua funzione rieducativa e di reinserimento sociale, fallendo nel prevenire la reiterazione dei reati. Gonnella sottolinea come il sovraffollamento non sia un fenomeno naturale o inevitabile, ma il risultato diretto di scelte politiche. In particolare, viene criticata la direzione presa dal governo Meloni nei suoi primi due anni di mandato, con un aumento considerevole del numero di reati e un inasprimento delle pene per molte fattispecie. Secondo Antigone, il sistema penale viene utilizzato più come strumento per ottenere consensi nel breve periodo che come mezzo per garantire giustizia e sicurezza nel lungo termine. L’associazione esprime preoccupazione per il ddl sicurezza attualmente in discussione alla Camera, che contiene numerose norme di carattere penale che potrebbero aggravare ulteriormente la situazione. Proposte di intervento - L’associazione Antigone ha quindi elaborato un piano di 15 proposte concrete per migliorare le condizioni di vita nelle carceri italiane e renderle più conformi ai principi costituzionali. Al centro del piano c’è il respingimento del pacchetto sicurezza, attualmente in fase di approvazione, che introduce nuove fattispecie di reato come la rivolta penitenziaria e prevede la detenzione per donne incinte o con bambini piccoli. Antigone propone invece di ampliare la liberazione anticipata a 75 giorni per semestre, di consentire telefonate quotidiane ai detenuti e di dotare tutte le celle di ventilatori o aria condizionata e frigoriferi. Per favorire la socializzazione e il reinserimento, si propone il ripristino del sistema di celle aperte durante il giorno, la modernizzazione della vita carceraria con accesso controllato a internet e l’assunzione di 1000 giovani mediatori culturali e 1000 educatori e assistenti sociali. Viene inoltre sollecitato un maggiore impegno sul fronte sanitario con l’aumento di psichiatri, etno-psichiatri e medici, mentre per un sistema sanzionatorio più premiante si propone di ampliare i consigli di disciplina e introdurre misure alternative come premi. Tra le altre proposte, Antigone chiede di garantire lo spazio minimo vitale come condizione per l’ingresso in carcere, di consentire ai semiliberi di trascorrere la notte fuori dal carcere, di chiudere le sezioni di isolamento e di trasformare le sezioni nuovi giunti in aree di accoglienza qualificata. Infine, si propone la creazione di team multidisciplinari di poliziotti, educatori e medici per gestire i casi più complessi. Le proposte di Antigone rappresentano un passo importante verso un sistema carcerario più umano e in linea con i principi costituzionali, che punti al recupero e al reinserimento dei detenuti nella società. L’attuazione di queste misure concrete permetterebbe di migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri italiane, riducendo la sofferenza dei detenuti e promuovendo la loro riabilitazione. Carceri, mai così tanti detenuti dal 2013. E ora pure gli Ipm sono sovraffollati di Viola Giannoli La Repubblica, 24 luglio 2024 Carceri, mai così tanti detenuti dal 2013. E ora pure gli Ipm sono sovraffollati. Il dossier di Antigone dopo le ispezioni negli istituti penitenziari e i numeri del Garante dei detenuti. Accolti metà dei ricorsi per “condizioni degradanti”. Altro che Mare fuori. Gli Ipm, per la prima volta da anni, scoppiano. Il carcere pure: mai così tanti detenuti dal 2013 a oggi. I ricorsi presentati nel 2023 per condizioni di vita degradanti sono stati 10mila, più della metà accolti. Lo racconta Antigone, nell’ultimo dossier pubblicato oggi. Gli Ipm sovraffollati - Erano 406 i minori negli istituti penitenziari a giugno del 2023, sono 529 adesso, per 496 posti ufficialmente disponibili, dicono i numeri diffusi dal Garante nazionale delle persone detenute. Sovraffollamento del 106,65%. E i reclusi, aggiunge Antigone, sarebbero anche di più se non fosse per la pratica, resa più facile dal decreto Caivano, di trasferire nelle carceri per adulti chi ha compiuto la maggiore età pur avendo commesso il reato da minorenne, interrompendo la relazione educativa. Pur non considerando la parentesi della pandemia che ha visto i numeri abbassarsi per motivi di eccezionalità (alla fine del 2020 i giovani detenuti erano 278), i numeri delle presenze stanno rapidamente salendo: al 31 dicembre 2019 gli Ipm ospitavano 369 ragazzi. Più della metà sono stranieri, quasi tutti provenienti dal Nord Africa, molti quelli non accompagnati, che incrociano il carcere per la mancanza di strutture di accoglienza esterne che li costringe a una vita di strada. Abbondante l’utilizzo, testimoniato, di psicofarmaci. Quasi un terzo delle carceri fuori norma - Tra gli adulti il sovraffollamento è del 130,4 per cento (con il record di Milano San Vittore: 224,78%). Perché a livello nazionale i detenuti sono 61.246 per 46.953 posti disponibili. Sono ormai solo 38 su 190 gli istituti non sovraffollati. I dati aggiornati, rispetto a quelli di Antigone, li ha dati in Parlamento il garante Maurizio D’Ettore. Troppo pochi gli agenti di penitenziaria: l’organico presente è l’84,97% dell’organico previsto. Mentre dalle 88 visite svolte dall’Osservatorio di Antigone negli ultimi 12 mesi risulta che nel 27,3% degli istituti visitati c’erano celle in cui non erano garantiti i 3 metri quadrati a testa di spazio calpestabile. Il sovraffollamento però, dice Antigone, non è una calamità naturale. C’è, sostiene l’associazione, una responsabilità politica: “Di fronte ad eventi di cronaca, sempre catalogati come ‘emergenzè, l’attuale governo ha adottato una risposta di stampo securitario e repressivo con l’emanazione di decreti legge o proposte di legge che cercherebbero di risolvere l’insicurezza sociale percepita con l’introduzione di molte nuove fattispecie di reato e l’incremento del ricorso alla custodia cautelare. Misure che colpiscono prevalentemente le fasce di popolazione più vulnerabili (minori, tossicodipendenti, appartenenti a minoranze etniche) e aggravano peraltro il tasso di sovraffollamento carcerario e le condizioni di vita detentive, già al di sotto di standard adeguati”. Peggio perché, attacca Antigone, alle porte c’è una nuova ondata di affollamento qualora passasse il nuovo pacchetto sicurezza che punisce, tra l’altro, la disobbedienza e la resistenza passiva: verrebbe arrestato anche Gandhi”, sostiene l’associazione. Condizioni di vita degradanti: più della metà dei ricorsi accolti - Con la sentenza “Torreggiani” nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, giudicando che le condizioni di vita dei detenuti inumane e degradanti. In quell’occasione l’Italia ha introdotto un risarcimento (un giorno di sconto di pena ogni 10 giorni di violazione o 8 euro al giorno se non si è più reclusi) per chi ha subito in carcere un trattamento ingiusto. Nel 2023 sono arrivate agli uffici di sorveglianza italiani 9.574 istanze per sconti di pena. Ne sono state decise 8.234 e di queste 4.731, il 57,5%, sono state accolte. In queste condizioni, nei primi sei mesi del 2024, rispetto allo scorso anno, sono aumentati gli atti di autolesionismo (184 in più), le colluttazioni (+174), le rivolte (+348), i suicidi e i tentati suicidi (17 e 73 in più), le aggressioni alla penitenziaria. Le storie: “A 50 gradi senza ventilatore. Dal bidet escono i topi” - “Oggi mio figlio mi ha chiamata e mi ha detto che stanno tenendo i detenuti chiusi nelle celle quasi tutto il giorno, con 50 gradi e senza ventilatori e stanotte mio figlio che soffre di asma si è sentito male e nessuno gli ha aperto. La situazione è al limite”, ha raccontato ad Antigone la mamma di un detenuto nel carcere di Milano Opera. E ancora, da Agrigento: “Siamo tre detenute in cella, il bidet viene usato sia per lavarci che per pulire le stoviglie. Le docce sono in comune e ne funziona solo una su due per 15 detenute in sezione. Siamo invase da blatte e formiche. Dal bidet fuoriescono i topi. I materassi sono pieni di muffa. Spesso e volentieri siamo senza acqua e luce. I ventilatori li abbiamo comprati a nostre spese. Non abbiamo mai accesso alla biblioteca. Non ci sono corsi da frequentare. Non c’è nessuna attività. Noi donne non siamo considerate da nessuno, siamo all’abbandono”. Nel carcere di Avellino, al momento della visita di Antigone, l’acqua corrente non era disponibile dalle 22 alle 6 del mattino. Nella sezione femminile, le finestre erano schermate dal plexiglass, impedendo così il passaggio d’aria. Nella settima sezione dell’istituto di Regina Coeli le celle sono piccolissime e ospitano 2 o 3 persone su un unico letto a castello; il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. La presenza di scarafaggi e di cimici da letto è stata rilevata rispettivamente presso le Case Circondariali di Bologna e di Pavia. In particolare, presso la sezione di isolamento e l’area psichiatrica di quest’ultimo istituto, gli Osservatori di Antigone hanno constatato condizioni igienico-sanitarie inaccettabili, aggravate dal caldo e dal sovraffollamento. Le proposte di Antigone - Tra le proposte lanciate da Antigone per svuotare le carceri e riportare la dignità dei detenuti all’interno delle carceri c’è l’aumento a 75 giorni della liberazione anticipata per semestre, telefonate quotidiane, ventilatori in ogni cella, l’assunzione di mille mediatori culturali e altrettanti educatori, moltiplicare la presenza di psichiatri e medici, chiudere le sezioni di isolamento. L’eterna “emergenza” carceri. I numeri dei primi sei mesi del 2024 di Enrico Cicchetti Il Foglio, 24 luglio 2024 Affollamento dei penitenziari (persino negli istituti minorili), scarsità di personale e condizioni fatiscenti. E poi c’è la vera emergenza: quella dei suicidi. L’ultimo report dell’associazione Antigone. Non ha ormai davvero più senso definire quella delle carceri italiane come un’emergenza. Perché tale dovrebbe essere qualcosa che emerge, appunto, dell’orizzonte piatto della normalità, una circostanza imprevista. Ma non sono una novità né l’affollamento dei penitenziari (ora persino nei minorili), né la scarsità di personale e neppure le condizioni fatiscenti di molti edifici, rese ancora peggiori dal caldo insopportabile che in estate attanaglia gli istituti da nord a sud della penisola. In questi primi sei mesi del 2024 sono aumentati in maniera estremamente preoccupante anche i suicidi (58 dall’inizio dell’anno, nove solo a luglio) e le proteste che avvengono ormai quasi quotidianamente, mentre manca il 16 per cento delle unità di polizia penitenziaria previste in pianta organica. Lo abbiamo raccontato più volte su queste colonne e ora lo mette nero su bianco l’associazione Antigone, che si occupa dei diritti dei detenuti. Già 58 suicidi in carcere - Quella che invece si può ancora chiamare emergenza - perché con queste cifre è una situazione nuova e drammatica, che richiederebbe l’adozione di interventi eccezionali - è la questione dei suicidi in carcere. Se il ritmo dovesse continuare di questo passo, a fine anno rischieremo di superare il tragico record del 2022 che, con 85 casi, è passato alla storia come l’anno con più suicidi di sempre. Dei 58 suicidi avvenuti in carcere dall’inizio dell’anno, due erano donne, 25 gli stranieri, i più giovani erano due ragazzi di appena 20 anni, deceduti nel carcere di Novara e Pavia, il più anziano era un uomo di 81 anni, deceduto a Potenza. Gli Istituti dove sono avvenuti il maggior numero di suicidi da inizio anno sono le Case Circondariali di Napoli Poggioreale, Pavia, Teramo e Verona. Allarmante è il dato relativo alla durata della permanenza in carcere: 27 persone si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione. Di queste, 8 erano in carcere solo da una manciata di giorni. Oltre a chi era da poco in carcere, diversi sono stati i suicidi di persone che si trovavano invece in procinto di lasciarlo. Se ne contano almeno 11 con una pena residua breve o prossime a richiedere una misura alternativa. Ad alcune di loro mancavano solo pochi mesi per rientrare in società. Il 9 luglio un signore di 67 anni detenuto nel carcere di Augusta è morto dopo sei mesi di sciopero della fame. Negli ultimi dodici mesi di visite l’Osservatorio di Antigone ha registrato una media di 17,4 atti autolesivi ogni 100 detenuti; 2,3 tentati suicidi, 4 aggressioni al personale penitenziario, 5,6 aggressioni ai detenuti e 15,2 provvedimenti di isolamento disciplinare. L’affollamento delle carceri italiane - Al 30 giugno, scrive la Onlus nel suo ultimo report, presentato oggi, erano presenti nelle nostre carceri 61.480 detenuti in 51.234 posti detentivi regolamentari. Le donne erano 2.682, il 4,4 per cento dei presenti, mentre gli stranieri erano 19.213, il 31,3 per cento. Il tasso di affollamento ufficiale medio del 120 per cento. Come sappiamo però la capienza regolamentare, su cui è calcolato il tasso di affollamento ufficiale, non tiene conto dei posti non disponibili, che al 17 giugno 2024 erano in totale 4.123 e di conseguenza il tasso di affollamento reale del nostro sistema penitenziario è ormai del 130,6 per cento. Se si guarda ai posti effettivamente disponibili sono ormai 56 gli istituti in cui il tasso di affollamento è superiore al 150 per cento e ben 8 quelli in cui è superiore al 190 per cento. Si tratta di Milano San Vittore maschile (227,3), Brescia Canton Mombello (207,1), Foggia (199,7), Taranto (194,4), Potenza (192,3), Busto Arsizio (192,1), Como (191,6) e Milano San Vittore femminile (190,7). Sono ormai solo 38 gli istituti non sovraffollati. Dalle 88 visite svolte dall’Osservatorio di Antigone negli ultimi 12 mesi risulta che nel 27,3% degli istituti visitati c’erano celle in cui non erano garantiti 3mq a testa di spazio calpestabile. Negli ultimi 12 mesi infatti le presenze sono cresciute di 3.955 unità, un +6,9 per cento che ha riguardato in misura sostanzialmente uguale anche le donne (+6,8%) e gli stranieri (+6,8 per cento). Una crescita che fino a maggio è stata in media superiore alle 300 unità al mese. Per la prima volta da mesi, a giugno si registra un calo delle presenze rispetto al mese scorso, -67, ma non c’è da sperare purtroppo che questo sia indicativo di un’inversione di tendenza, si tratta probabilmente dei permessi premio concessi in maggior numero nel periodo estivo. Per la prima volta da anni gli Ipm sono sovraffollati. Sono stati 586 gli ingressi nei 17 Istituti Penali per Minorenni d’Italia nei primi mesi del 2024 (fino al 15 giugno). Nel corso del 2023 erano stati 1.142, il numero più alto degli ultimi anni. A metà giugno 2024 erano 555 - per 514 posti ufficiali - i giovani ristretti (di cui 25 ragazze), e le presenze sarebbero ancora maggiori se non fosse per la pratica, resa più facile dal Decreto Caivano, di trasferire nelle carceri per adulti chi ha compiuto la maggiore età pur avendo commesso il reato da minorenne, interrompendo così la relazione educativa. Il 64,1 per cento dei presenti non aveva una sentenza definitiva. Le pessime condizioni di molti istituti - Se il caldo esasperato che peggiora di anno in anno è di difficile sopportazione per chiunque, si pensi a coloro che si trovano in una struttura fatta quasi integralmente di cemento, stipati in celle sovraffollate, senza aria condizionata e a volte con schermature alle finestre. La notte a volte i blindi vengono chiusi, rendendo rovente l’ambiente della cella. Oltre che per l’aumento delle temperature, l’estate è da sempre uno dei momenti più critici e delicati per le persone detenute, perché rallentano le attività, e con esse spesso anche le procedure burocratiche, i volontari entrano meno di frequente e via discorrendo. Dalle visite effettuate dagli Osservatori di Antigone negli ultimi mesi emerge un quadro desolante rispetto alle condizioni di detenzione di alcuni istituti, le quali peggiorano in maniera esponenziale a causa del caldo afoso. Nel carcere di Avellino, al momento della visita, l’acqua corrente non era disponibile dalle 22 alle 6 del mattino. Le celle presentavano infiltrazioni e muffa, oltre a non essere dotate di doccia. Presso la sezione femminile, le finestre erano corredate da schermature in plexiglass, impedendo così il passaggio d’aria (anche in giornate come quella in cui si è svolta la visita in cui il termometro segnava 41 gradi). Condizioni simili sono quelle osservate presso la Casa di Reclusione di Asti, in cui l’area verde esterna per i colloqui all’aperto sebbene sia stata completata, continua a rimanere inutilizzata a causa della mancanza di misure di sicurezza per i bambini, obbligando l’uso esclusivo delle sale colloqui interne che, durante l’estate, raggiungono i 40 gradi, in quanto sprovviste di condizionatori. Nella settima sezione dell’istituto di Regina Coeli le celle sono piccolissime e ospitano 2 o 3 persone su un unico letto a castello; il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. Le finestre sono più piccole che in altre sezioni e dotate di celosie, il che non consente all’aria di circolare e riduce l’ingresso della luce naturale. In questi spazi così ristretti, le persone trascorrono circa 23 ore al giorno. In alcune sezioni dell’istituto, inoltre, manca l’acqua. Anche la prima sezione della Casa Circondariale di Rimini è caratterizzata da celle di anguste dimensioni, con le finestre schermate, il pavimento e i muri scrostati, senza areazione all’interno del bagno. Le docce sono comuni e si presentano in pessime condizioni, causate in particolare da seri problemi di muffa. Al momento della visita dell’Osservatorio la Casa di Reclusione di Carinola era priva di allaccio alla rete idrica, dovendo usufruire di pozzi artesiani e di un sistema ad hoc di depurazione dell’acqua; inoltre in quasi tutti i reparti vi sono celle senza doccia e con bagno a vista. A Busto Arsizio, invece, per ovviare alla scarsità di luce naturale delle sezioni detentive sono state installate in tutte le celle plafoniere a led con il ventilatore integrato. La presenza di scarafaggi e di cimici da letto è stata rilevata rispettivamente presso le Case Circondariali di Bologna e di Pavia. In particolare, presso la sezione di isolamento e l’area psichiatrica di quest’ultimo istituto, gli Osservatori di Antigone hanno constatato condizioni igienico-sanitarie inaccettabili, aggravate dal caldo e dal sovraffollamento. Nel padiglione dei detenuti comuni, a causa dell’aumento delle presenze, durante la notte viene aperta la terza branda e poi richiusa la mattina, al fine di avere un minimo di spazio vitale all’interno della cella durante la giornata. Emergenza carceri in Italia: nelle celle nemmeno tre metri a persona di Eleonora Camilli La Stampa, 24 luglio 2024 Il dossier sul sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari fornito dalla associazione Antigone. Le carceri italiane scoppiano. Le celle non assicurano in alcuni casi neanche i tre metri a persona e i tassi di sovraffollamento arrivano ormai al 130%, equivalente a 14mila persone in più rispetto ai posti regolamentari. In 56 istituti penitenziari si sfiora anche il 150%. Lo denuncia in un dossier l’associazione Antigone, che negli ultimi 12 mesi ha visitato 88 strutture. In un anno la presenza carceraria è aumentata, con quattromila persone in più finite dietro le sbarre. A preoccupare è anche la situazione degli Ipm, cioè gli istituti penali per minorenni, che per la prima volta sovraffollati dopo anni. Nello specifico, sono stati 586 gli ingressi nei 17 Ipm nei primi mesi del 2024 (fino al 15 giugno). Nel corso del 2023 erano stati 1.142, il numero più alto degli ultimi anni. “A metà giugno 2024 erano 555 i giovani ristretti (di cui 25 ragazze) rispetto ai 514 posti regolamentari. E le presenze sarebbero ancora maggiori se non fosse per la pratica, resa più facile dal Decreto Caivano, di trasferire nelle carceri per adulti chi ha compiuto la maggiore età pur avendo commesso il reato da minorenne, interrompendo così la relazione educativa”. Stando ai dati il 64,1% dei presenti non ha una sentenza definitiva. Dei 555 ragazzi detenuti 346 erano minorenni e 209 giovani adulti. Si va dai 66 ragazzi ospitati a Nisida ai 9 di Quartucciu (Cagliari). Gli stranieri sono 266, di cui 204 provenienti dal Nord Africa. “Molti i minori stranieri non accompagnati, che incrociano il carcere per la mancanza di strutture di accoglienza esterne che li costringe a una vita di strada - spiegano gli esperti di Antigone -. Giovani arrestati principalmente al Nord Italia che, a causa del sovraffollamento, vengono trasferiti negli Ipm del Sud e allontanati dai pochi riferimenti territoriali che possiedono. Molto alto, specialmente nei loro confronti, l’utilizzo di psicofarmaci, anche a causa dell’alto numero di presenze che rende più difficile la presa in carico individualizzata”. Le condizioni degradanti della vita in carcere per adulti e minori hanno prodotto già diecimila ricorsi, più della metà (il 57%) sono stati accolti. “L’accoglimento di questi ricorsi è un segno evidente ed innegabile dell’invivibilità delle nostre carceri, e si tratta di numeri che sottostimano il fenomeno, dato che non abbiamo purtroppo dati rispetto ai ricorsi accolti dai tribunali civili” spiega ancora Antigone che punta il dito contro la risposta “di stampo securitario e repressivo” del governo e cioè sull’emanazione di decreti e proposte di legge “che cercherebbero di risolvere l’insicurezza sociale percepita con l’introduzione di molte nuove fattispecie di reato e l’incremento del ricorso alla custodia cautelare”. Misure solo simboliche che però stanno portando in carcere sempre più persone, aumentando il sovraffollamento delle strutture. Secondo Antigone “l’edilizia penitenziaria non è la risposta”. Non serve aumentare le strutture e cambiare l’approccio. A preoccupare è infatti anche il nuovo pacchetto sicurezza che potrebbe portare dietro le sbarre ancora più persone. Il tabù della clemenza di Luigi Manconi La Repubblica, 24 luglio 2024 Quei reclusi che si tolgono la vita sono l’appendice estrema di una crisi terminale dell’amministrazione della giustizia. Di tutto questo sembra futilmente inconsapevole il ministro Nordio. La torva distopia alla quale si affida gran parte della classe politica italiana induce a ritenere che la strage dei detenuti (decessi, autolesionismo, suicidi) riguardi solo gli stessi detenuti. La verità è tutt’altra: quei reclusi che si tolgono la vita sono l’appendice estrema di una crisi terminale dell’amministrazione della giustizia (quanto accade al Csm ne è la prova ultima). È quello il punto più vulnerabile e dolente e la più crudele manifestazione di un collasso che tende infine a implodere, annichilendo le componenti più fragili: i detenuti, appunto, e i poliziotti penitenziari, tra i quali il numero dei suicidi cresce più di quanto accada all’interno degli altri apparati dello Stato. Di tutto questo sembra futilmente inconsapevole il ministro della Giustizia Carlo Nordio, non so se per inadeguatezza intellettuale - fare il Guardasigilli è impresa assai ardua - o per una sorta di irresistibile hybris. La vanità del potere e della fortuna porta a formulare quei giudizi che il Vangelo definisce temerari, espressione di avventatezza e di irresponsabilità. Nel gennaio scorso Nordio si limitava a sostenere che i suicidi in carcere “sono diffusi in tutto il mondo” e derivano “dallo shock psicologico della detenzione”: è qualcosa “che esiste come la malattia e tante altre negatività della vita”. E, tuttavia, - diceva ancora - il fenomeno in Italia “è diminuito del 15% rispetto al 2022”. Questo, sei mesi fa. Nel frattempo i suicidi sono arrivati a 58 e, con questo ritmo di crescita, è prevedibile che a fine anno questa macabra contabilità sia destinata a raggiungere l’acme. A fronte di ciò il decreto Nordio - che qualche sciagurato chiama “svuotacarceri” - appare totalmente inefficace. Non una delle misure previste avrà un effetto deflattivo sul sovraffollamento. E, come afferma la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari Cristina Ornano, quella normativa “può aggravare i problemi anziché risolverli”. Intanto, il più recente rapporto dell’Associazione Antigone documenta come il numero degli attuali detenuti sia il più alto dell’ultimo decennio, tra gli adulti il sovraffollamento è del 130,4%, mentre cresce anche negli Istituti penali per minorenni. Il governo non ha proposto, finora, un solo provvedimento - giuro, nemmeno uno - capace di far fronte a questa rovinosa realtà. E la politica penale dell’esecutivo - quindici nuove fattispecie penali e inasprimento di tutte le pene - ha prodotto altri reati, altri arresti, altri detenuti, altri suicidi. La situazione è tale che solo un decremento significativo dell’attuale sovraffollamento può consentire di porre rimedio a un simile sfascio, garantendo condizioni umane di vita, accesso ai servizi, assistenza sanitaria e psicologica, opportunità di riabilitazione e, soprattutto, tutela della dignità. Con gli attuali numeri, non c’è scampo. Arriverà in aula il Disegno di legge Giachetti-Bernardini che, in caso di buona condotta, prevede un aumento di giorni (da 60 a 75) di liberazione anticipata per ogni semestre di pena scontata. Secondo il ministro della Giustizia si tratterebbe di una “resa”, ma all’interno della maggioranza si manifesta, grazie al cielo, una qualche resipiscenza. Sullo sfondo, un’ulteriore ipotesi, assai impegnativa che potrebbe rivelarsi risolutiva. È quella di un provvedimento generale di clemenza: un intervento che consenta la riduzione drastica del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come è certamente il caso. E che potrebbe assumere i connotati di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per qualche tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. L’amnistia e l’indulto rappresentano un tabù per la classe politica italiana ma l’analisi scientifica dimostra inequivocabilmente che l’ultima misura di clemenza (l’indulto del 2006) ha dato risultati estremamente positivi, abbattendo la recidiva dall’ordinario 68,45% al 33,92% tra i beneficiari di quel provvedimento. Sia chiaro, si tratta di misure parziali e provvisorie, ma indispensabili per affrontare lo stato d’eccezione con strumenti altrettanto eccezionali; e ridurre la condizione febbrile del sistema per potervi intervenire successivamente attraverso riforme strutturali. Insomma, si tratta di un intervento di emergenza per una situazione che è di emergenza massima. La destra, come sempre ha fatto, la affronta con la tradizionale retorica dell’allarme sociale e del panico morale. La sinistra, con rare eccezioni, si è mostrata finora assai titubante. E fin troppo prudente. Non ci sono elezioni alle porte e, di conseguenza, non dovrebbe esserci il timore di una “galvanizzazione sentimentale delle masse” contro leggi di garanzia e di equità. Si può affrontare la questione con razionalità e intelligenza. Non è forse questa, o non dovrebbe essere questa, la qualità di una sinistra matura e al passo con i tempi? Più detenuti in condizioni peggiori: l’effetto delle politiche securitarie di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 24 luglio 2024 Sarebbe importante che i parlamentari si recassero in carcere perché, come scriveva Pietro Calamandrei dopo la caduta del fascismo, “bisogna avere visto”. “Oggi mio figlio mi ha chiamata e mi ha detto che stanno tenendo i detenuti chiusi nelle celle quasi 24 ore su 24 (forse un’ora o due d’aria ma non so nemmeno se vengono rispettate quelle). Con 50 gradi e senza ventilatori stanotte mio figlio (che soffre di asma e sta facendo aerosol e prendendo antibiotico) si è sentito male e nessuno gli ha aperto. La situazione è al limite, bisogna fare qualcosa”. È la testimonianza della mamma di un ragazzo che si è rivolta ad Antigone. Le carceri scoppiano con un tasso di affollamento superiore al 130% e circa 14 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. In ben 56 prigioni il tasso di affollamento supera addirittura il 150%. E per la prima volta anche gli Istituti penali per minori sono sovraffollati. 555 ragazzi (erano 406 a giugno 2023) per 514 posti ufficiali. Non sarà il piano carceri evocato dal ministro Nordio a risolvere il problema. Nella storia italiana i piani edilizi hanno lasciato in eredità inchieste e condanne anziché nuove strutture. Così come evocare il trasferimento dei detenuti stranieri all’estero è pura propaganda. Il sovraffollamento determina condizioni di vita degradate: igiene a rischio, diritti negati, stress. Nonostante l’ammassamento di persone costrette a vivere in celle con letti a tre piani, il sistema penitenziario è tornato a essere tragicamente chiuso. L’ideologia securitaria ha prevalso e i detenuti, dopo che è stata cancellata ogni forma moderna di sorveglianza dinamica, sono costretti a trascorrere lunghissima parte della giornata in celle affollate, calde, senza spazio vitale. Il sistema delle celle chiuse, voluto da alcuni sindacati di polizia penitenziaria, ha peggiorato per tutti, personale compreso, la vita in galera. È stato un moltiplicatore di sofferenze e violenze. 58 suicidi nel 2024. Una persona che si è lasciata morire dopo un lunghissimo sciopero della fame. E ben due omicidi fra detenuti, più quasi un terzo a Regina Coeli. Il sistema delle celle chiuse è inumano, fa male alla salute psichica delle persone ed è criminogeno. Antigone, nel suo dossier, ha raccontato un luglio caldo fatto di proteste, morti, assenza di acqua calda, igiene mancante, infestazione da cimici, assenza di luce naturale e di ogni forma di refrigerazione. Non dappertutto, fortunatamente. Purtroppo, però, in troppe galere la vita è sotto ogni standard di decenza. Agosto è alle porte. Arriva tutti gli anni. Non è una calamità naturale imprevedibile. Spesso ci si domanda, perché il sovraffollamento? Sono aumentati i delitti in Italia? La risposta è no. Gli omicidi sono ancora in calo nel primo semestre del 2024 rispetto al periodo corrispondente del 2023. I detenuti crescono perché i giudici tendono a infliggere pene più lunghe, perché non si esce facilmente dal carcere, perché è stato un anno governativo nel segno di un’ondata repressiva mai vista: ben 18 nuove fattispecie di reato introdotte dal governo Meloni. Sono misure che colpiscono prevalentemente le fasce di popolazione più vulnerabili. Dall’altra parte, il decreto legge carceri, propagandato come misura di umanità, è del tutto inadeguato. Invece, il nuovo pacchetto sicurezza, in discussione alla Camera, produrrà danni letali al sistema penitenziario e allo Stato di diritto. Ben diverse le proposte di Antigone: aumentare gli sconti di pena; depenalizzare e decarcerizzare la vita dei tossicodipendenti; prevedere che si possa entrare in carcere solo se è assicurato lo spazio vitale; consentire telefonate quotidiane; ritornare al sistema a celle aperte durante il giorno; modernizzare la vita penitenziaria consentendo di collegarsi, con le dovute cautele, alla rete; assumere operatori sociali; favorire la presenza del volontariato; moltiplicare la presenza di etno-psichiatri e medici; far trascorrere la notte ai semiliberi fuori dal carcere; chiudere le sezioni di isolamento; trasformare le sezioni nuovi giunti in sezioni di qualificata accoglienza; formare nuclei di poliziotti, educatori e medici capaci di gestire insieme i casi difficili. Sulla base di queste proposte, sarebbe importante che i parlamentari si rechino in carcere perché, come scriveva Pietro Calamandrei all’indomani della caduta del fascismo, “bisogna avere visto”. *Presidente di Antigone Un carcere al collasso: ogni mese 300 ingressi in più, non sorprende visti i nuovi reati del governo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2024 “Siamo tre detenute in cella. Il bidet viene usato sia per lavarci che per pulire le stoviglie. Le docce sono in comune e ne funziona solo una su due per 15 detenute in sezione. Siamo invase da blatte e formiche. Dal bidet fuoriescono i topi. I materassi sono pieni di muffa. Spesso e volentieri siamo senza acqua e luce. I ventilatori li abbiamo comprati a nostre spese. Non abbiamo mai accesso alla biblioteca. Non ci sono corsi da frequentare. Non c’è nessuna attività”. Questa la testimonianza arrivata ad Antigone da alcune donne detenute. Non un caso isolato, come si può leggere nel dossier dal titolo “Le carceri scoppiano”, presentato questa mattina dall’associazione Antigone. Come ogni mese di luglio, Antigone fa il punto sulla situazione delle carceri nella prima metà dell’anno. Le carceri scoppiano sempre di più: al 30 giugno 2024 si contavano 61.480 persone detenute per 51.234 posti regolamentari, con un tasso di affollamento ufficiale medio del 120%, che supera tuttavia il 130% se consideriamo gli oltre 4.120 posti non disponibili nella realtà. Un sovraffollamento che non sta risparmiando neanche le carceri minorili, che ne erano tradizionalmente esenti. Sono ben 56 gli istituti per adulti in cui il tasso di affollamento è superiore al 150% e in molti luoghi si supera addirittura il 190% (Milano San Vittore maschile con un affollamento del 227,3%, Brescia Canton Monbello con 207,1%, Foggia con 199,7%, Taranto con 194,4%, Potenza con 192,3%), Busto Arsizio con 192,1%, Como con 191,6% e Milano San Vittore femminile con 190,7%). Nell’ultimo anno la popolazione detenuta è cresciuta a un ritmo medio di oltre 300 unità al mese. Non sorprende, vista l’introduzione delle tante fattispecie di reato da parte dell’attuale governo, che fin dal proprio insediamento, con il cosiddetto Decreto Rave, ha governato con gli strumenti della necessità e dell’urgenza ampliando a dismisura l’uso del penale e del penitenziario. Oltre all’introduzione di nuovi crimini, si è provveduto a elevare le pene per quelli già presenti, ad allargare le possibilità di ricorso alla custodia cautelare in carcere o alla pena detentiva, nonché l’uso di strumenti amministrativi quali il Daspo urbano (le cui violazioni hanno ampie ricadute nel penale). E sarà molto peggio se verrà approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza governativo oggi in discussione in Parlamento. Le categorie più colpite sono naturalmente le più deboli, come per l’estensione del reato di accattonaggio o la previsione del carcere per donne incinte o con figli di età inferiore a un anno. Nel settembre 2023, con il Decreto Caivano, fu approvata l’estensione delle pene per i cosiddetti fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti. La normativa sulle droghe costituisce la maggiore causa del sovraffollamento carcerario. Come si legge nel dossier, alla fine dello scorso anno il 34,1% del totale della popolazione detenuta - quasi il doppio della media europea, che è pari al 18% - si trovava in carcere per violazioni del Testo Unico sulle droghe e il 28,9% della popolazione penitenziaria era costituito da persone definite ‘tossicodipendenti’. Un carcere al collasso, che fa estremamente fatica a gestire una pena che assuma il ruolo che la Costituzione le conferisce. I dati emersi dalle visite di Antigone alle strutture carcerarie ci dicono che solo il 31,5% dei detenuti lavora, quasi sempre alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria impiegata - spessissimo per poche ore settimanali allo scopo di coinvolgere più persone - in piccoli lavoretti domestici che a poco serviranno per ricostruirsi una vita alla fine della pena. La media dei detenuti che lavorano per datori di lavoro esterni è del 3,4%. Dall’osservazione di Antigone emerge inoltre che sono in media il 26% i detenuti coinvolti in corsi scolastici. Inutile dire che in queste condizioni la recidiva è altissima, a tutto discapito della sicurezza della società. Molto bassa è infatti la percentuale di persone detenute che si trovano oggi alla prima esperienza di carcerazione. L’arrivo dell’estate - con l’interruzione della maggior parte delle attività interne e una minore presenza di operatori e volontari - e del caldo - in strutture costruite spesso quasi integralmente in cemento, in celle roventi e sovraffollate, senza aria condizionata, spesso con schermature alle finestre e con i blindi chiusi durante la notte - ha peggiorato il già drammatico quadro. Dalle ultime visite di Antigone emerge davvero una situazione desolante, che si può leggere in più dettagli nel dossier presentato oggi. Un dossier che ha voluto ricordare una per una le persone che hanno scelto di togliersi la vita in carcere in questo 2024, già 58 dall’inizio dell’anno e 9 nel solo mese di luglio. I più giovani erano due ragazzi di appena 20 anni, deceduti nelle carceri di Novara e Pavia. Il più anziano era un uomo di 81 anni, deceduto a Potenza. Allarmante è il dato secondo il quale ben 27 persone si sono uccise nei primi sei mesi di detenzione. Di queste, 8 erano in carcere solo da pochissimi giorni. E non meno allarmante il dato opposto: almeno 11 suicidi sono avvenuti tra chi stava per lasciare il carcere per aver finito di scontare la pena o per accedere a una misura esterna. In queste condizioni, la libertà fa paura. Il decreto emanato dal governo nei giorni scorsi è del tutto insufficiente a far fronte a questo stato di cose. Uno stato di cose che il disegno di legge governativo n. 1660, oggi in discussione in Parlamento, se approvato peggiorerà ulteriormente. Ci auguriamo che il dossier di Antigone possa contribuire a creare consapevolezza sull’attuale stato tragico delle carceri italiane. *Coordinatrice Associazione Antigone Intaccare la cultura sul carcere di don David Maria Riboldi* La Prealpina, 24 luglio 2024 La ragionevolezza dell’incapienza degli istituti penitenziari sembra sempre incagliarsi sul: “Dovevano pensarci prima”. Vero, per carità. Per quanto la vicenda Zuncheddu o, per stare in casa varesotta, la vicenda Binda, dovrebbero averci ormai allertati sufficientemente sul fatto che non sia così matematico finire in carcere “avendo fatto qualcosa per meritarselo”. Ma c’è dell’altro. Come collettività abbiamo cambiato idea su tante cose. Veramente. La cultura odierna, come orizzonte di valori su cui convergere e su cui educare i giovani, non è la stessa di cento o cinquanta anni fa. Nel 1923 Gentile creava classi separate per bambini con disabilità. Cosa che oggi, Vannacci permettendo, è stata superata. E già quello era un passo in avanti, una presa di coscienza che sarebbe diventata corsi universitari, creazione di figure professionali, legislazione, fondi. Cultura. Siamo cambiati. In meglio. Nel 1934 si vietava il fumo ai minori di 16 anni: l’inizio di una nuova consapevolezza che porterà alla legge Sirchia del 2003 con il divieto di fumo in tutti i luoghi pubblici al chiuso. Un investimento culturale importante: il fumo fa male. È scritto ora su ogni singolo pacchetto di sigarette. Siamo cambiati. In meglio. Nel 1988 viene resa obbligatoria la cintura di sicurezza sui sedili anteriori in macchina. “Metti la cintura” è diventato il mantra dei genitori quando fanno salire i propri piccoli sull’auto. Non si sa mai. Anche qui: siamo cambiati. In meglio. Notare bene: sono tutti cambi anzitutto culturali, di mentalità. E sulle carceri? Anche sulle carceri siamo cambiati. La rosa dei politici della cosiddetta “prima Repubblica” (De Gasperi, Togliatti, Fanfani, Moro…) votava un provvedimento di clemenza un anno sì e uno no: 23 dal 1948 al 1992. “Indulto” e “Amnistia” erano parole di uso corrente, in Parlamento. Oggi forse suonerebbe meno grave una bestemmia. E mentre nelle prigioni di Sua Maestà, nel Regno Unito, siamo al 98 per cento di capienza e ci si affretta a scarcerare 5.500 persone, perché è incivile stipare persone là dove spazio non ce n’è, in Italia il sovraffollamento tocca il 130% e non tocca palla nel cuore della gente. Ribadisco: il problema, prima che politico, è culturale. Chi siede in Parlamento è espressione di tutto ciò. Ora, se in un cinema dovesse esserci in sala una sola persona in più del dovuto, partirebbero le multe. Ma lo Stato non multa se stesso quando, ad esempio, nel penitenziario di Busto Arsizio vi sono 430 persone anziché 240: come previsto (basta guardare il sito del Ministero della Giustizia). Dieci giorni fa Monsignor Trevisi, vescovo di Trieste, ha detto: “Le persone sono in carcere perché non hanno rispettato la legge: ed ecco che è un controsenso se poi lo Stato non rispetta le leggi che regolamentano il carcere e i carcerati”. Abbiamo cambiato idea sulla disabilità, sulle sigarette, sulla cintura in macchina. Avranno oggi i nostri parlamentari il coraggio di generare un’inversione di tendenza su come oggi guardiamo al carcere e alle persone che vi entrano? Avranno il coraggio di fare ciò che è giusto, anche se impopolare? Di riportare le presenze negli Istituti di pena alla capienza regolamentare? Chiudo ricordando che Papa Francesco ha espressamente chiesto per l’anno giubilare ormai alle porte “forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società” (Spes non confundit, 10). Piace tanto il Papa: ascoltiamolo! Per davvero! *Cappellano casa circondariale Busto Arsizio, Fondatore La Valle di Ezechiele Le carceri italiane sono irrespirabili. Ma la risposta governativa è la repressione di Luca Rondi altreconomia.it, 24 luglio 2024 Il report semestrale di Antigone fotografa un sistema al collasso. Sono 14mila le presenze in più rispetto ai posti disponibili, 58 i suicidi dall’inizio dell’anno e ben 11 le rivolte scoppiate negli istituti dal 27 giugno al 18 luglio con il caldo che attanaglia i reclusi. Sia gli adulti, sia i minorenni detenuti negli Ipm. Una situazione che rischia di peggiorare ulteriormente se venisse approvato il nuovo “pacchetto sicurezza”. Le carceri scoppiano, denuncia Antigone, l’associazione che monitora la condizione dei detenuti, descrivendo la situazione nei penitenziari italiani. “Il clima è incandescente e non solo per il caldo insopportabile che nelle ultime settimane attanaglia gli istituti - scrivono gli osservatori nel report semestrale pubblicato il 23 luglio - ma anche per le proteste che avvengono ormai quasi quotidianamente”. Sono infatti 11 in meno di tre settimane quelle che si sono verificate tra il 28 giugno e il 18 luglio negli istituti, sia nel circuito degli adulti sia in quello dei minorenni: un ambiente che Antigone definisce “irrespirabile” anche per il personale di polizia penitenziaria. Così sale tragicamente la conta dei suicidi, già 58 da gennaio con un dato che rischia a fine anno di superare il record di 85 casi del 2022. E all’orizzonte il futuro non è roseo. “Se il nuovo ‘pacchetto sicurezza’ venisse approvato, gli autori di rivolte e proteste sarebbero punibili con una pena fino a otto anni di reclusione. In generale, il testo del decreto prevede un’ondata repressiva diretta a criminalizzare ogni forma di dissenso che porterebbe a un aumento dell’affollamento carcerario”. E i dati fotografano che la situazione, sotto questo punto di vista, è già grave. Negli ultimi 12 mesi le presenze sono cresciute di quasi 4mila persone, circa 300 al mese portando al 30 giugno a 61.480 detenuti su 47.111 posti disponibili con un tasso di affollamento reale del 130,6%. Ma in alcuni istituti è ben peggiore: a Milano nel carcere di San Vittore è del 227%, a Brescia Canton Mombello del 207%, a Foggia del 199% e Taranto del 194% e così via. Solamente otto penitenziari su 190 non sono sovraffollati. E per la prima volta da diversi anni anche gli Istituti penali per minorenni (Ipm) contano più presenze rispetto alla capienza. Sono 555 i reclusi con 514 posti a disposizione. Dati che sarebbero ben più alti se il cosiddetto “decreto Caivano”, emanato all’indomani degli stupri di gruppo avvenuti a Caivano (Napoli), non avesse previsto di trasferire nelle carceri per adulti chi ha compiuto la maggiore età pur avendo commesso il reato da minorenne con gravi ripercussioni sulla continuità del suo percorso. “Il sovraffollamento non è una calamità naturale -ricorda Antigone-: l’attuale governo ha adottato una risposta di stampo securitario e repressivo. Sono misure, alcune simboliche altre di grande impatto repressivo, che colpiscono prevalentemente le fasce di popolazione più vulnerabili (minori, tossicodipendenti, appartenenti a minoranze etniche) aggravando peraltro il tasso di sovraffollamento carcerario e le condizioni di vita detentive, già al di sotto di standard adeguati”. Un’ondata repressiva che, come detto, non sembra fermarsi. Il disegno di legge numero 1660 (il nuovo “pacchetto sicurezza”) prevede l’introduzione del reato di occupazione abusiva di immobili, la trasformazione da illecito amministrativo a reato punibile con la reclusione, per il blocco stradale, introducendo l’aggravante nel caso in cui lo stesso venga fatto con il proprio corpo. Ma non solo. Si nega il rinvio obbligatorio della pena nel caso di detenzione di donne madri o in stato di gravidanza, vi è l’innalzamento delle pene e l’estensione del reato di accattonaggio e si introduce una nuova specifica sanzione anche per le lesioni lievi o lievissime commesse nei confronti di un agente di polizia. Oltre al già citato innalzamento delle pene per rivolte e proteste nelle carceri e nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). “Va ritirato”, sottolinea l’associazione che fin dagli anni Novanta si occupa di giustizia penale. Dalle visite effettuate dagli osservatori di Antigone negli ultimi mesi emerge un quadro desolante rispetto alle condizioni di detenzione di alcuni istituti, le quali peggiorano in maniera esponenziale a causa del caldo afoso. Eloquente il racconto di una mamma di un ragazzo recluso inviato all’associazione. “Oggi mio figlio mi ha chiamata e mi ha detto che stanno tenendo i detenuti chiusi nelle celle quasi 24 ore su 24 (forse un’ora o due ore d’aria ma non so nemmeno se vengono rispettate quelle). Con 50 gradi e senza ventilatori stanotte mio figlio (che soffre di asma e sta facendo aerosol e prendendo antibiotico) si è sentito male e nessuno gli ha aperto. La situazione è al limite, bisogna fare qualcosa”. Le testimonianze degli osservatori lo confermano. Nel carcere di Avellino, al momento della visita, l’acqua corrente non era disponibile dalle 22 alle 6 del mattino e le celle presentavano infiltrazioni e muffa oltre a non avere le docce; a Regina Coeli, Roma, le celle sono piccolissime ed ospitano due o tre persone su un unico letto a castello, con il wc ed il lavandino che si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità: in queste celle i ristretti trascorrono 23 ore al giorno; a Carinola, provincia di Caserta, la casa di reclusione è priva di allaccio alla rete idrica, con l’obbligo di utilizzare pozzi artesiani e un sistema di depurazione dell’acqua. Una situazione che, da Nord a Sud, è insostenibile. “La notte a volte i blindi vengono chiusi, rendendo rovente l’ambiente della cella. Oltre che per l’aumento delle temperature, l’estate è da sempre uno dei momenti più critici e delicati per le persone detenute, perché rallentano le attività, e con esse spesso anche le procedure burocratiche, i volontari entrano meno di frequente e via discorrendo”. I suicidi a luglio sono già nove. Su 58 da inizio 2024, 27 persone si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione e otto erano in carcere da una manciata di giorni. Quasi una su due era di origine straniera, con due ragazzi di appena vent’anni. Almeno nove persone sembra che soffrissero di qualche forma di disagio psichico. Il tema della salute mentale continua ad essere centrale: il 17,7% dei detenuti assume regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi mentre il 39,2% assume regolarmente sedativi o ipnotici. Il personale psichiatrico e psicologico è presente rispettivamente per 7,4 e 20,4 ore settimanali ogni 100 persone detenute. “Evidentemente insufficienti per far fronte alle necessità della popolazione reclusa -fa notare Antigone-. Emerge poi una preoccupante presenza di persone destinatarie di diagnosi psichiatriche gravi e un massiccio ricorso agli psicofarmaci”. L’associazione presenta in chiusura del report 15 proposte per “tornare a un carcere costituzionale”. C’è l’aumento a 75 giorni per la liberazione anticipata per semestre, la previsione di telefonate quotidiane, il ritorno a un sistema a celle aperte durante il giorno e poi l’assunzione di mille mediatori culturali e mille educatori e assistenti sociali, così come l’aumento della presenza di psichiatri, etno-psichiatri, medici e di prevedere un maggior supporto per la polizia penitenziaria. A Roma, intanto, la maggioranza non sembra trovare un accordo. Il 23 luglio arriva alla Camera la proposta di legge a firma di Italia Viva sulla liberazione anticipata e un potenziamento degli sconti di pena utile a contrastare il sovraffollamento. Forza Italia potrebbe votare a favore. Contrari Lega e Fratelli d’Italia. Il luglio caldo delle carceri italiane non sembra vedere la fine. Niente contro il sovraffollamento e nuovi reati, il cortocircuito di Nordio sulle carceri di Vitalba Azzollini Il Domani, 24 luglio 2024 Continuano i suicidi dei detenuti, una vera emergenza. E il ministro Nordio non solo non vara un provvedimento per ridurre con effetti immediati il sovraffollamento in carcere, ma addirittura introduce nuovi reati e inasprimenti di pene che sono destinati a peggiorarlo. “Non sempre vi è un rapporto di causalità” tra suicidi in carcere e sovraffollamento, ha detto il ministro per la Giustizia, Carlo Nordio, in una recente intervista. Forse questo è il motivo per cui il guardasigilli non solo non vara un provvedimento per ridurlo con effetti immediati, ma addirittura introduce nuovi reati e inasprimenti di pene che sono destinati a peggiorarlo. Il decreto Carceri - Il decreto-legge Carceri, che secondo il ministro dovrebbe ridurre il sovraffollamento, di fatto non contiene misure idonee a produrre sollecitamente tale risultato. Ad esempio, si prevede la creazione di un elenco di strutture per l’accoglienza e il reinserimento sociale, nelle quali eseguire misure alternative alla detenzione per tossicodipendenti e persone senza fissa dimora. Ma per varare la disciplina dell’elenco occorreranno almeno sei mesi, previsti dal decreto, e i passaggi burocratici necessari per l’operatività delle strutture non la renderanno rapida. Un’altra misura contro il sovraffollamento è la semplificazione della liberazione anticipata. Il pubblico ministero, nell’ordine di esecuzione, calcolerà il termine della pena risultante dalle detrazioni previste in caso di buona condotta, 45 giorni ogni 6 mesi. Mentre finora era il detenuto a presentare istanza per il riconoscimento dello sconto, con la nuova norma esso sarà concesso d’ufficio dal magistrato di sorveglianza, se il detenuto ha partecipato all’attività di rieducazione. Ma ammesso che vi sia un’effettiva semplificazione - cosa di cui dubitano diversi giuristi e magistrati, i quali anzi affermano che si produrrà ulteriore burocrazia - i giorni di sconto restano invariati, per cui non si otterrà un immediato sfoltimento delle presenze in carcere. Servirebbero misure tempestive ed efficaci, non pannicelli caldi che produrranno effetti tra mesi e anni. Solo la proposta di legge di Roberto Giachetti, scritta con Rita Bernardini e l’Associazione Nessuno Tocchi Caino, ridurrebbe subito il sovraffollamento, aumentando i giorni di premialità da 45 a 60. La proposta sarà discussa oggi in Aula e, data la possibilità di voto segreto, non si esclude sia appoggiata da esponenti di Forza Italia. Il disegno di legge Sicurezza - “L’idea di poter risolvere tutto con il codice penale è solo propaganda, pericolosa demagogia”, scriveva Nordio in un libro del 2010. Peccato che oggi, da ministro, con il disegno di legge Sicurezza vada in direzione opposta, introducendo norme che aggraveranno il sovraffollamento e la situazione di invivibilità delle carceri. Il testo qualifica come crimini forme di mera resistenza passiva e non violenta, attuate negli istituti di pena o nei centri di permanenza per i rimpatri. Per giurisprudenza consolidata non sono penalmente rilevanti forme di protesta civili che non creano pericolo all’ordine pubblico ed esprimono dissenso civile e ordinato rispetto a singoli provvedimenti. Ma la norma del ddl Sicurezza le criminalizza comunque. Una norma prevede il carcere, e non più solo una multa, per chi blocca una strada. Pacifici sit-in di studenti che fermano il traffico davanti alla scuola, manifestazioni di protesta finora libere, potranno essere considerati reato. Una più lunga permanenza in carcere potrà conseguire dall’aggravante prevista per qualunque reato commesso “all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri”. Luigi Manconi l’ha definito come un “panpenalismo toponomastico”, ricordando pure che nei primi 20 mesi di governo sono state introdotte o sono in procinto di esserlo ben 17 nuove fattispecie penali. Anche in caso di “violenza o minaccia” a un pubblico ufficiale per protestare contro “la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”, si introduce un’aggravante della pena, detta anti No-Ponte, con conseguente ampliamento del periodo di reclusione. Ancora, si rende facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza o con figli sotto l’anno. Ciò, oltre a violare un principio di civiltà e non tutelare i diritti dei minori, aggraverà la situazione delle strutture per la custodia di chi si trovi in tali situazioni. Nordio ha di recente dichiarato che il sovraffollamento non è dovuto “a una decisione governativa: è il magistrato che decide dello status libertatis”. Ma se il ministro continua a inventare nuovi reati e a disporre aggravamenti di pena, il magistrato non può che conformarsi. Assumersi qualche responsabilità, ogni tanto, sarebbe necessario. Le carceri esplodono e la maggioranza non sa che pesci prendere di Gianluca De Rosa Il Foglio, 24 luglio 2024 Antigone fotografa una situazione drammatica: 59 suicidi da inizio anno e sovraffollamento record. FI propone norme di buon senso per ridurre la pressione sugli istituti, ma Lega e FdI non voglio norme “svuota-carceri”. La soluzione? Rinviare. Nel giorno in cui l’associazione Antigone presenta la sua relazione sullo stato pietoso delle carceri italiane, continua il braccio di ferro interno alla maggioranza sull’argomento. Forza Italia, dopo il macabro record di 59 suicidi da inizio anno, spinge per misure che riducano il sovraffollamento, mentre FdI e Lega vogliono evitare l’approvazione di qualsiasi norma che possa essere bollata come uno “svuota-carceri”. Per questo il governo ha deciso ieri sera di rinviare il suo parere all’emendamento del forzista Pierantonio Zanettin al decreto carceri arrivato per la conversione alla commissione Giustizia di Palazzo Madama. L’emendamento amplierebbe la possibilità di accesso alla semilibertà, il regime che consente ai detenuti di trascorrere parte del giorno fuori dal carcere. In particolare, la norma concederebbe ai condannati con pena minore di quattro anni di entrare fin da subito in prigione solo per dormire, alleggerendo notevolmente i nuovi ingressi (attualmente la misura si applica solo a pene fino a sei mesi). Inoltre, per chi è stato condannato a pene maggiori, ridurrebbe dalla metà a un terzo della pena scontata la soglia per poter accedere alla misura. A nulla però sono serviti i vertici di maggioranza con i capigruppo e i sottosegretari alla Giustizia di FdI, FI e Lega, né l’incontro tra il ministro Carlo Nordio e il capogruppo di FI a palazzo Madama, Maurizio Gasparri. FI non retrocede e il governo non va allo scontro con un parere negativo all’emendamento che ieri sera in commissione Giustizia è stato temporaneamente accantonato e sarà rivisto giovedì, dopo il voto sugli emendamenti delle opposizioni, che per protesta hanno abbandonato i lavori. Mentre la maggioranza non trova una quadra, i dati forniti da Antigone fotografano una realtà drammatica. Se il ritmo dei suicidi rimanesse costante, quest’anno si supererebbe il tragico record del 2022 di 85 casi. A questo si somma una situazione di sovraffollamento che ha ormai raggiunto i picchi degli anni più complicati: con 60.480 detenuti per 47.110 posti effettivamente disponibili, 14 mila in meno del necessario, con un tasso di sovraffollamento reale del 130,6 per cento e picchi di oltre il 190 in alcuni istituti. Che farà la maggioranza? Rinviata la discussione al Senato, oggi altrettanto potrebbe accadere alla Camera. A Montecitorio dovrebbe sbarcare il progetto di legge a prima firma Roberto Giachetti. Il testo prevede di aumentare da 45 a 60 giorni le detrazioni di pena guadagnate ogni sei mesi dai detenuti che hanno “dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Nella pratica, la legge consentirebbe a moltissimi detenuti di uscire in poco tempo dalle carceri, riducendo significativamente la pressione sugli istituti, molto più di quanto farebbe l’emendamento Zanettin. La legge non dispiace a FI. E per questo ieri i capigruppo di Pd, Azione, Iv, Avs e Più Europa hanno chiesto al presidente della Camera, il leghista Lorenzo Fontana, di prevedere il voto segreto sul provvedimento. Ma è molto probabile che il voto non avverrà affatto: la maggioranza potrebbe infatti chiedere il rinvio in commissione per attendere l’arrivo a Montecitorio del decreto carceri. Giachetti si prepara alle barricate: “Nel decreto carceri del governo non c’è nulla per ridurre il sovraffollamento, intanto ogni giorno c’è un nuovo suicidio riuscito o tentato. Solo l’altro ieri due detenuti a Oristano hanno cercato di darsi fuoco in cella. Se questa inerzia continua sono pronto a denunciare il ministro Nordio. Quello che comincio a temere purtroppo - aggiunge - è che la maggioranza punti a una sorta di strategia della tensione: si aspetta qualche rivolta grave per potere reprimere con la forza i problemi”. Il riferimento è al nucleo d’intervento operativo della polizia penitenziaria varato a maggio dal sottosegretario di FdI, Andrea Delmastro Delle Vedove, un gruppo di 200 agenti scelti per l’intervento negli istituti in caso di rivolta. Fonti autorevoli del sistema penitenziario, però, smentiscono un’ipotesi del genere: “Se in assenza di un provvedimento per ridurre il sovraffollamento iniziassero davvero le rivolte come faranno 200 persone a intervenire in tutta Italia?”. Chi sente il rumore del carcere che esplode? di Giuseppe Rizzo Internazionale, 24 luglio 2024 Nel carcere di Regina Coeli a Roma, dove ci sono 1.100 detenuti per 628 posti, perfino le aule scolastiche sono state trasformate in celle. In quello di Pavia non ci sono abbastanza letti per far dormire i 684 detenuti, così la notte sono aperte delle brandine che al mattino sono richiuse. Dalla sezione femminile dell’istituto di Agrigento scrivono: “Siamo tre detenute in cella. Il bidet viene usato sia per lavarci che per pulire le stoviglie. Le docce sono in comune e ne funziona solo una su due. Siamo invase da blatte e formiche. Dal bidet fuoriescono i topi. I materassi sono pieni di muffa. Spesso e volentieri siamo senza acqua e luce. Non abbiamo mai accesso alla biblioteca. Non ci sono corsi da frequentare. Non c’è nessuna attività”. L’associazione Antigone ha intitolato il suo nuovo rapporto di metà anno sulla situazione negli istituti penitenziari italiani Il carcere scoppia. Non ci vuole molto a capire perché. Oggi dietro le sbarre ci sono 61.480 persone, ma i posti disponibili sono 47mila. Nelle sezioni maschili di San Vittore, a Milano, il tasso di affollamento è del 227 per cento, a Taranto del 194. Nel paese la media è del 120 per cento. Solo 38 istituti su 190 non sono sovraffollati. Sulla parola sovraffollamento bisogna intendersi. I posti in carcere sono calcolati sulla base di un decreto del ministero della sanità del 1975, secondo cui “la superficie delle celle singole non può essere minore di 9 metri quadrati e per le multiple sono previsti 5 metri quadrati aggiuntivi per ciascun detenuto”. In quasi un carcere su tre degli 88 visitati da Antigone c’erano celle in cui non erano garantiti neanche tre metri quadrati a testa: la soglia minima della dignità secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo. Per i maiali l’Unione europea prevede che lo spazio minimo negli allevamenti sia di 6 metri quadrati ad animale. Ma non è solo questione di spazio. Nella settima sezione di Regina Coeli le finestre sono più piccole e fanno filtrare poca aria e luce. In altre aree dell’istituto manca l’acqua. A Carinola, in provincia di Caserta, non c’è allaccio alla rete idrica. Ad Avellino non c’è acqua corrente dalle dieci di sera alle sei del mattino. Le finestre della sezione femminile sono schermate con il plexiglass, impedendo all’aria di passare. In carcere anche l’aria aperta è chiusa. In celle del genere, le persone possono trascorrere fino 23 ore al giorno. Qualcuno però non ce la fa: e ingoia pile, si taglia le braccia con le lamette, si uccide. Quest’anno i detenuti che si sono suicidati sono 58. Nove solo nel mese di luglio. Otto erano in carcere da pochi giorni, 27 da neanche sei mesi. Undici invece stavano per uscire. A Novara e Pavia si sono ammazzati due ragazzi di appena vent’anni. Ad Augusta un uomo di 67 anni è morto dopo sei mesi di sciopero della fame. A loro bisogna aggiungere i cinque agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Conoscere i motivi dietro gesti così estremi è complicato: ma il degrado e la violenza in cui sono costretti a vivere carcerieri e carcerati mostra un pezzetto di questa complessità. Queste condizioni e questa violenza colpiscono anche i minori. A metà giugno erano 555 le ragazze e i ragazzi negli istituti penali per minorenni. Nel 2023 erano 406. Bisogna risalire al 2009 per trovare un numero più alto dei cinquecento. Negli ultimi anni la media si era attestata sui trecento e anche i crimini commessi erano in calo. Quello che è successo è che nel 2023 il cosiddetto decreto Caivano del governo Meloni ha reso più facile prendere un ragazzo e chiuderlo in cella, anche per fatti di poco conto, invece di immaginare per lui percorsi alternativi nelle comunità. Il sovraffollamento non è una calamità naturale, ma il risultato di politiche che alimentano insicurezza, creano emergenze e rispondono alla percezione di pericolo con leggi che riempiono le galere, punendo spesso i più deboli. Dal 2022 sono almeno sette i provvedimenti del governo che rispondono a queste logiche. Il carcere, sempre innamorato di se stesso, e i carcerieri, sempre innamorati dei carceri degli altri, non riescono e non vogliono immaginare alternative, e perciò sognano nuove galere. Da anni Fratelli d’Italia punta ad aumentare il loro numero, e il ministro della giustizia Carlo Nordio ha da poco annunciato un commissario straordinario per capire come fare. Tuttavia, la verità è che piani del genere, oltre al fatto che impiegherebbero decenni per essere realizzati, finora hanno dato vita solo a inchieste per corruzione. In Italia, quando non si vogliono affrontare i problemi si nominano commissioni e commissari, e quando si cerca di fare i conti con i disastri delle galere si promette di costruirne di nuove. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) ha indicato un’alternativa più semplice ed efficace: permettere ai detenuti di lavorare. I dati dimostrano che la percentuale della recidiva tra chi ha un impiego, sia dentro sia fuori le mura di una prigione, scende dal 68,7 per cento al 2 per cento. Ma in Italia il lavoro all’esterno coinvolge meno del 5 per cento dei carcerati. Il resto cerca di non finire inghiottito dalle sabbie mobili. In meno di un mese, dal 27 giugno a oggi, ci sono stati undici casi di proteste e rivolte: la maggior parte per il suicidio di un detenuto e contro le condizioni invivibili delle strutture. D’altronde, sono gli stessi tribunali a riconoscere queste condizioni come inumane e degradanti, giudicandole in base all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Nel 2023 sono stati presentati circa diecimila ricorsi per condizioni di vita degradanti, dice Antigone, e più di quattromila sono stati accolti, concedendo sconti di pena oppure risarcimenti, calcolati in otto euro al giorno. Significa che l’Italia ammette di far vivere i detenuti in condizioni disumane, ma stabilisce per legge che la dignità calpestata di una persona non valga che pochi spicci. Il sistema carcerario sta esplodendo, ma chi sente il rumore di questa esplosione? Carcere, quello che non c’è. Le 15 proposte di Antigone redattoresociale.it, 24 luglio 2024 Manca il 16% delle unità di Polizia Penitenziaria previste in pianta organica. L’8,4% delle persone presenti presenta diagnosi psichiatriche gravi, mentre il 17,7% assume regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Le 15 richieste per un carcere “costituzionale”. In carcere manca tutto, dallo spazio alla libertà, dagli affetti all’aria. Mancano, però, anche personale e salute. Lo riferisce Antigone, nel denso Rapporto appena pubblicato. Iniziamo dal personale: secondo i dati riportati nelle schede trasparenza del Ministero aggiornate al 2024, manca il 16% delle unità di Polizia Penitenziaria previste in pianta organica. In totale il personale effettivamente presente è pari a 31.068. Il rapporto detenuti agente attuale è pari ad 1,96 detenuti per ogni agente, a fronte di una previsione di 1,5. Un dato non uniforme sul territorio, come nella Casa Circondariale di Pescara, dove il rapporto detenuti per agente è di 3,7 o come a Regina Coeli a Roma, dove il rapporto è di 3,5. Per quanto riguardagli educatori, secondo le schede trasparenza aggiornate a luglio 2024, il numero complessivo è pari a 1.021 a fronte delle 1.099 previste in pianta organica. La media nazionale di persone detenute in carico a ciascun funzionario è di 59,7. Come per gli agenti, il dato differisce sul territorio, come a Busto Arsizio dove il rapporto è di un educatore per 146,7 detenuti, o a Bolzano dove è presente un solo educatore per 117 detenuti. Riguardo i dirigenti, secondo il Piano triennale dei fabbisogni di personale 2024-2026 sono attualmente 288 rispetto ad un organico di 330. Tuttavia sono presenti 51 consiglieri penitenziari, ovvero dirigenti vincitori del concorso in formazione, e che dovrebbero prendere servizio entro settembre. Nonostante i vari concorsi durante l’ultimo biennio, il sovraffollamento crescente annulla gli effetti di un aumento del personale, rendendo necessario un ripensamento degli organici di tutti gli operatori, soprattutto nell’ottica dei turn over e dei futuri pensionamenti. La salute che non c’è - Per quanto riguarda invece la salute, “negli ultimi 12 mesi con il nostro Osservatorio - si legge ancora nel rapporto - abbiamo realizzato 88 visite negli istituti penitenziari italiani, da cui è emersa una preoccupante presenza di persone destinatarie di diagnosi psichiatriche gravi e un massiccio ricorso agli psicofarmaci”. I dati raccolti mostrano che l’8,4% delle persone presenti presenta diagnosi psichiatriche gravi, mentre il 17,7% assume regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Inoltre, 39,2% assume regolarmente sedativi o ipnotici. Il personale psichiatrico e psicologico è presente rispettivamente per 7,4 e 20,4 ore settimanali ogni 100 persone detenute, evidentemente insufficienti per far fronte alle necessità della popolazione reclusa. Rilevante poi il tema delle segnalazioni di mancata traduzione delle persone detenute in attesa di visita medica, circostanza che comporta un aggravamento delle loro condizioni di salute. In tal senso, criticità di elevato spessore si ravvisano nella Regione Lazio, ove segnalazioni continue di mancate visite legate al problema della scorta continuano a pervenire ai volontari di Sportello attivi presso le C.C. di Roma Regina Coeli e Roma Rebibbia NC. Le 15 proposte per tornare a un carcere “costituzionale” Ed ecco le proposte di Antigone, per il ritorno a un carcere che, se non umano, torni ad essere almeno costituzionale: 1. Ritirare il pacchetto sicurezza (in via di approvazione) che introduce nuove fattispecie di reato tra cui quello di rivolta penitenziaria (che sanziona fino a 8 anni anche tre persone che con resistenza passiva e non violenta disobbediscono a un ordine dell’autorità) e che vuole far scontare in carcere la pena alle donne in stato di gravidanza o con un bimbo di età inferiore ad 1 anno. 2. Aumentare a 75 giorni la liberazione anticipata per semestre. 3. Approvare misure che consentano telefonate quotidiane. 4. Dotare tutte le celle di tutti gli istituti di ventilatori o aria condizionata e frigoriferi, quanto meno di sezione. 5. Ritornare dal sistema a celle chiuse a celle aperte durante il giorno. 6. Modernizzare la vita penitenziaria attraverso la possibilità di collegarsi, con le dovute cautele, alla rete. 7. Assumere 1000 giovani mediatori culturali e 1000 giovani educatori e assistenti sociali; anche la polizia penitenziaria ha bisogno di un supporto, non potendosi sostituire a queste figure professionali. 8. Favorire la presenza del volontariato nei mesi estivi riempiendo in queste settimane di vita le carceri; 9. Moltiplicare la presenza di psichiatri, etno-psichiatri e medici. 10. Chiedere ai direttori di convocare consigli di disciplina allargati e introdurre la possibilità di concedere l’applicazione di misure alternative come premi. 11. Prevedere che si possa entrare in carcere solo se è assicurato lo spazio minimo vitale. 12. Far trascorrere la notte ai semiliberi fuori dal carcere. 13. Chiudere le sezioni di isolamento 14. Trasformare le sezioni nuovi giunti in sezioni di alta e qualificata accoglienza 15. Formare nuclei di poliziotti ed educatori e medici capaci di gestire collegialmente i casi difficili in modo da evitare che degenerino. Relazioni affettive, costruire un discorso dentro le mura di Grazia Zuffa Il Manifesto, 24 luglio 2024, 24 luglio 2024 “Costruire Relazioni Positive (CORPO”): è il progetto di formazione - ideato dalla Società della Ragione col sostegno di Fondazione Cassa Risparmio Firenze - per operatori penitenziari di diversa professionalità e posizione di alcuni istituti penitenziari fiorentini, fra cui Sollicciano. Il tema: relazionalità, emotività, affettività, esplorate nel contesto carcerario. Il primo elemento da notare è la sottovalutazione di queste dimensioni nell’iter formativo degli operatori. Eppure, l’elemento emotivo è centrale nella vita carceraria. Basti pensare al significato enorme della privazione della libertà, che dà ragione dell’ingresso in carcere come momento emotivamente intenso, che mette a dura prova le capacità personali di resistenza. Né può stupire che la possibilità di mantenere e coltivare le relazioni significative “fuori” siano un pilastro della tenuta psicologica della persona. Non a caso le rivolte nelle carceri al tempo del Covid, colpevolmente dimenticate coi loro morti, nacquero dalla disperazione per l’interruzione dei rapporti coi familiari e di tutte le attività dipendenti dall’esterno. E poi ci sono le relazioni di base “dentro”, fra le persone recluse e fra queste e il personale. Gli operatori che hanno partecipato alla formazione sono consapevoli dell’importanza di instaurare relazioni positive con i detenuti/e e hanno anche sviluppato competenze valide nella pratica quotidiana. Eppure, percepiscono che “queste non sono riconosciute come parte significativa della loro professionalità”. Il tema dell’affettività ha conquistato l’attenzione pubblica con la sentenza della Corte 10/2024, che, dopo battaglie di decenni, ha stabilito il diritto dei detenuti agli incontri intimi. Una sentenza di grande rilievo che, nel riconoscere uno spazio centrale di espressione umana alla persona reclusa, ha implicitamente rilanciato il nodo dei limiti della pena, secondo la Costituzione: la privazione della libertà non può eliminare gli altri diritti fondamentali della persona, dalla tutela della salute, fino al mantenimento delle relazioni affettive e all’esercizio della sessualità. La sentenza è uscita in contemporanea allo svolgimento della formazione, il che ha permesso di approfondire con gli operatori, in specie gli agenti, il significato da loro attribuito alla pena e ai diritti nel contesto della loro mission professionale. È così emerso un “conflitto originario”, non sempre riconosciuto, fra chi custodisce e chi è custodito. L’agente incarna agli occhi del detenuto (perfino materialmente con le chiavi dei cancelli) il potere di sottrarre il bene enorme della libertà. Perciò, dalla parte del detenuto, il conflitto assume la forma di “resistenza/sottrazione” al “potere” dell’agente. Gestire questo conflitto è possibile se la relazione originaria di “potere” - inteso come soggezione dell’uno all’altro - evolve verso un potere inteso come scoperta di nuove potenzialità relazionali, lontane dai luoghi comuni. Il più radicato dei quali è la contrapposizione fra diritti/sicurezza. Al contrario, una cornice riconosciuta di diritti può ridurre la “resistenza” del detenuto, poiché segna i limiti del potere di sottrazione della libertà. D’altro lato, segnare i confini di quel potere, lungi dal risolversi per l’agente in una diminuzione di sicurezza e di status, gli/le conferisce un di più di sicurezza come guadagno di professionalità aperta a nuove forme relazionali. Un’apertura essenziale anche per il personale socioeducativo, per meglio inquadrare il “trattamento” fuori da tentazioni di paternalismo autoritario. In conclusione, i partecipanti alla formazione in tutti gli istituti coinvolti si sono trovati d’accordo nel chiedere più formazione: strutturata, continua, costruita “dal basso”. Un segno che relazionalità e affettività stanno conquistando il posto che meritano nel discorso sul carcere. Ostellari: “Fondi per l’edilizia carceraria. Ed è in arrivo un Commissario ad hoc” di Claudia Guasco Il Messaggero, 24 luglio 2024 Fondi per l’edilizia carceraria e un Commissario straordinario in arrivo, procedure più snelle per le misure alternative alla reclusione, nuove comunità per accogliere adulti e minori. A indicare la direzione sarà il decreto “Carcere sicuro” approvato dal Consiglio dei ministri, “è lo strumento strutturale dal quale vogliamo partire per riformare e risolvere il problema che abbiamo ereditato”, afferma Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia. Le carceri italiane, riflette, “accolgono e custodiscono donne e uomini privati della libertà, ma non della loro dignità. Il compito del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è collaborare al loro pieno recupero e al successivo reinserimento”. L’emergenza ora è il tasso di sovraffollamento. Sottosegretario, le misure previste dal decreto risolveranno il problema? “In questi mesi abbiamo sbloccato 166 milioni di euro per l’edilizia carceraria, per ristrutturare gli edifici che abbiamo trovato in condizioni degradate e costruire nuovi padiglioni. I progetti ci sono già, dobbiamo solo renderli operativi. Nel decreto che è in conversione inseriremo con un emendamento la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia, l’obiettivo è agire con la massima urgenza. Da quando si è insediato il governo abbiamo messo in atto diversi interventi, a cominciare dalle assunzioni di polizia penitenziaria. Ora gli agenti sono 39.771, quando siamo arrivati erano 37.100 circa, l’ultimo provvedimento prevede il reclutamento di altri mille uomini”. E per la carenza di educatori? “Erano 900 circa, adesso siamo a 1089. In pratica abbiamo coperto pianta organica che da tempo risultava insufficiente”. La costruzione di nuove strutture però non è immediata. Nel frattempo? “Si ricorre ad altre soluzioni, come rendere più veloci le procedure per la libertà anticipata. Nessuno sconto, il detenuto potrà vedere fin da subito riconosciuto nell’ordine di esecuzione qual è il fine pena da sentenza e quale se aderisce a programmi rieducativi. Stipuliamo un patto e questo alleggerirà i Tribunali di sorveglianza da circa 200 mila fascicoli che attualmente ingombrano gli uffici”. Saranno agevolati anche i trasferimenti nelle comunità... “E questo apre a un sistema unico nel suo genere, perché consente al detenuto di uscire dal carcere, essere collocato in una struttura e lavorare, per rieducarsi davvero. Siamo determinati a proseguire su questa strada, dicendo no a sconti di pena o svuota-carceri e non perché siamo cattivi, bensì in base a dati concreti sui tassi di recidiva: se non impari nulla nel corso della detenzione, quando esci reiteri il reato ed è quello che è successo negli ultimi anni. Quando la sinistra sostiene il contrario non aiuta il detenuto, semmai lo getta nelle mani della criminalità. Noi invece diamo un’alternativa a chi è recluso. Detto questo, gli spazi in carcere sono sufficienti? No, siamo consapevoli che bisogna fare di più, tuttavia l’intervento del commissario straordinario per l’edilizia dimostra che noi investiamo e non riteniamo che lo svuota-carceri, adottato da altri, sia la soluzione”. E sul fronte degli istituti penali per i minorenni? “Stiamo lavorando per misure alternative al carcere. C’è un accordo con la Regione Lombardia per la realizzazione di due comunità adibite a spazio per la rieducazione. Quanto alle strutture, entro l’anno o al massimo nei primi mesi del 2025 ci verrà consegnato il nuovo carcere di Rovigo, dotato di aree per la formazione. Stiamo per tornare in possesso di due istituti, uno a L’Aquila e uno a Lecce, contemporaneamente ci siamo attivati per completare i lavori del Beccaria a Milano e dell’istituto di Airola in provincia di Benevento. A Catanzaro la ristrutturazione è appena terminata. Per i minori, in particolare, è necessaria un’attenta formazione degli educatori. Entro l’anno verranno assunti 543 funzionari dei servizi sociali ed entreranno in servizio 350 funzionari pedagogici”. Delmastro: “Carceri sovraffollate di migranti, rimandiamoli a casa loro e avremo i fondi necessari” di Liana Milella La Repubblica, 24 luglio 2024 Intervista al sottosegretario alla Giustizia: “No allo svuota-carceri mascherato della sinistra perché erode la certezza della pena”. Le mamme in cella? “Decide il giudice, ma le borseggiatrici seriali non hanno diritto all’impunità perché sono madri”. Nordio nelle carceri? “Non tengo il pallottoliere delle sue visite”. Andrea Delmastro dica un po’, ai duri di Meloni non frega niente se un detenuto crepa in cella? “Certo che ci frega. Il problema è se le colpe siano dei morbidi anti-meloniani, dato che questa è la fotografia esatta della catastrofica eredità penitenziaria che stiamo cercando di risolvere”. Peccato che non si vede visto che le carceri scoppiano... “Mentre gli altri parlavano retoricamente di trattamento noi abbiamo saturato le piante organiche degli educatori, nonché quelle dei mediatori culturali, 3 in tutta Italia a ottobre 2022, e ora 61, sulla pianta organica di 67. Questa è realtà, il resto chiacchiere”. Qua non contano i numeri, ma i fatti. E 61 mediatori su 61mila detenuti fanno ridere. “E facevano piangere i tre che c’erano con la sinistra, autrice della pianta organica dei 67”. Pensa davvero di affrontare così i 58 suicidi? “No, certo. Dobbiamo recuperare altri posti detentivi per umanizzare la pena. Tant’è che abbiamo sbloccato 166 milioni per l’edilizia penitenziaria incredibilmente bloccati, più 84 col Pnrr, recuperando 6.754 posti sui 10mila che mancavano”. Suicidi e sovraffollamento ci sono. È mai andato in una prigione dove c’è stato un suicidio? Non mi pare… “E sbaglia. Sono andato più volte nelle carceri dove c’erano stati. Ma la sinistra ci suggerisce uno svuota-carceri già vissuto e quindi inutile. La risposta non può essere questa”. E quale sarebbe? Mandare gli stranieri da dove sono venuti? “Anche, ma non solo. Un terzo dei detenuti è straniero e costa tra i 137 e i 150 euro al giorno. Basta moltiplicare 19.213 detenuti stranieri per queste cifre per 365 giorni e abbiamo già trovato i fondi per costruire nuove carceri, assumere agenti e personale per trattamento e rieducazione”. Lei e Nordio vi tenete mano e parlate sempre al futuro, ma qui bisogna fare subito perché la gente muore... “Io parlo di misure per i detenuti tossicodipendenti per aumentare la possibilità che possano andare nelle comunità terapeutiche”. Perché Nordio perde tempo a scrivere su Churchill e non va nelle galere? “Lei non sa che Nordio ha visitato parecchi istituti…”. Mi dica quanti... “Non tengo il pallottoliere delle sue visite e non invidio l’altrui cultura. Spiace constatare che da sinistra sia un problema”. È cultura lo sfregio di far passare le telefonate da 4 a 6 al mese? “Mi pare che farle crescere, a differenza di quanto ha fatto la sinistra quando ha governato, sia un’umanizzazione della pena e corrisponde all’idea del centrodestra, umanizzare la pena senza cedere sul fronte delle misure svuota-carceri ancorché mascherate”. Ma di che misure parla? Della Giachetti, 30 giorni in più all’anno per chi si comporta bene in cella? “Pur rispettando la proposta dell’ottimo collega non voglio aderire a un’ipotesi che erode la certezza della pena”. Ah, l’ha detto, lei vuole che i detenuti marciscano in galera... “No, voglio che espiino la loro pena perché guardo alle vittime dei reati e ai cittadini per bene che non devono vivere nell’insicurezza sociale”. E tenere i bambini in cella con le madri fa sicurezza? “Lo deciderà un giudice. Abbiamo solo detto che il rinvio della pena per donne incinte o con figli piccoli non è più obbligatorio. Il giudice valuterà la pericolosità sociale”. Bella furbata, così se una ladruncola ci ricasca voi ci fate una campagna stampa... “Nessun giudice dotato di senno sbatte in galera una ladruncola con un bimbo di un anno. Diverso è il caso di borseggiatrici seriali che non devono più confidare nell’impunità grazie alla maternità”. Su, lo ammetta, lei è un duro e sta difendendo solo le guardie. Tant’è che ha creato il Gio, la squadretta dei super picchiatori anti-rivolte. “Io sono un morbido, e lo può chiedere a mia figlia che mi compra con un sorriso. Non sono mai stato con le guardie, ma sempre al fianco degli agenti della polizia penitenziaria, uomini e donne in divisa che rappresentano la legalità e che con il Gio avranno un supporto importante per mantenere la sicurezza, tant’è che tra loro ci sarà anche il negoziatore”. Nuovi picchiatori come al Beccaria? “Sono professionisti equipaggiati e addestrati per usare meno forza ma garantire più sicurezza”. Un commissario per l’edilizia? Qua siamo agli annunci in stile democristiano... “Invece è una realtà che ci permetterà di recuperare più velocemente i posti mancanti che abbiamo ereditato”. Un’altra illusione come le caserme di Nordio? “Dalla sinistra abbiamo ricevuto delusioni e sul binomio umanizzazione e certezza della pena stiamo cercando di ricostruire le carceri”. Dice Scalfarotto che date meno spazio ai detenuti in cella che ai suini negli allevamenti… “Temo che questa battuta si commenti da sola”. Dl carceri, in Senato lo “svuota-celle”. Battaglia sugli sconti di pena: il pressing di FI di Emilio Pucci Il Messaggero, 24 luglio 2024 La battaglia portata avanti da Forza Italia per fronteggiare il problema del sovraffollamento delle carceri si gioca in Senato. Alla Camera infatti, la maggioranza ha già pronta la contromossa sulla richiesta delle forze dell’opposizione (eccetto il M5s) di votare oggi in Aula a scrutinio segreto la pdl firmata dall’esponente renziano Roberto Giachetti: su proposta di FdI e Lega la discussione sul testo slitterà ancora, con il rinvio del provvedimento in Commissione. A patto però che FI non decida di mettersi di traverso per difendere la proposta di legge che prevede di riformare l’articolo 54 della legge 354/75 sulla liberazione anticipata con l’aumento da 45 a 60 giorni. Tutto dipende dall’iter del dl Nordio-Meloni a palazzo Madama: al momento l’esecutivo non ha aperto agli emendamenti di Forza Italia. Oggi si tenterà l’ultima mediazione, in ogni caso è difficile che gli azzurri facciano le barricate, tanto meno che non votino la fiducia al dl. Il tentativo del partito è di portare a casa qualche risultato senza spaccare la maggioranza. FI spera in una trattativa last minute per evitare strappi sul tema della liberazione anticipata: “L’approvazione dei nostri emendamenti consentirebbe - la linea azzurra - di rinviare per Forza Italia ogni riflessione sulla Pdl Giachetti successivamente alla verifica degli effetti, sul carcere, degli interventi proposti”. Già la settimana scorsa in una riunione a palazzo Chigi, alla presenza del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e della presidente della Commissione Giustizia di palazzo Madama Giulia Bongiorno, era emersa la strategia di non stravolgere il decreto. Ed è proprio tra la leghista Bongiorno e FI che ieri si sono registrati momenti di alta tensione. Il faro è sugli emendamenti presentati dal senatore Pierantonio Zanettin. Il partito di via dell’Umiltà ha tenuto a specificare che le misure messe sul tavolo non prevedono automatismi nelle scarcerazioni o “tagli orizzontali”, ma affidano al giudice la scelta. L’emendamento più rilevante consente al giudice di applicare la misura alternativa della semilibertà (per la serie dormi in carcere ed esci solo per lavorare) al detenuto definitivo che debba scontare una pena anche residua non superiore a quattro anni. Un altro prevede che il condannato che vada in affidamento in prova e che non abbia la possibilità di procurarsi un lavoro possa essere ammesso ad un servizio di volontariato o a un lavoro di pubblica utilità. In modo da tutelare i meno abbienti. Inoltre, “per evitare ingiuste carcerazioni” si propone che gli ultra settantenni e i malati già valutati come gravi, che abbiano una pena residua da espiare tra i quattro e i sei anni, siano provvisoriamente ammessi alla detenzione domiciliare in attesa del provvedimento del magistrato di sorveglianza. Per evitare “i ritardi nell’istruttoria che spesso non consentono la tempestiva applicazione delle misure”, un altro obiettivo è imporre alla direzione dell’istituto penitenziario di trasmettere anticipatamente al magistrato di sorveglianza l’elenco dei detenuti interessati alle misure alternative alla detenzione. Per ora l’unico sì del governo è stato sulla possibilità di far scontare la pena nelle comunità terapeutiche, anziché in carcere, ai detenuti tossicodipendenti. Ma per il resto ci ha pensato proprio l’esecutivo, sulla scia dell’informativa svolta ieri dal Guardasigilli in Consiglio dei ministri, ad introdurre ulteriori novità: viene istituito con il mandato di “compiere tutti gli atti necessari per la realizzazione di nuove infrastrutture penitenziari” un commissario che opererà “in deroga alla legge”, salvo quella penale. Verranno stanziati per il funzionamento della struttura commissariale 338mila euro per il 2024 e 812mila per il 2025, si procederà al reclutamento di personale medico nelle carceri e allo stanziamento di 5 milioni per le strutture sanitarie per i detenuti tossicodipendenti. È stato, invece, ritirato dai relatori un emendamento che prevedeva di istituire a decorrere dal prossimo anno “una nuova struttura per l’esecuzione delle misura di sicurezza detentive, denominata Rems di primo livello” per persone affette da disturbi mentali che hanno commesso reati. Sul dl Nordio lo scontro ora si sposta nell’emiciclo del Senato: le opposizioni hanno lasciato i lavori della Commissione dopo che il governo ha dato parere negativo a tutte le loro proposte. “Non ce la sentiamo di condividere la responsabilità morale dell’inazione rispetto alla situazione drammatica delle nostre carceri”, il grido di protesta. Decreto carceri, opposizioni via dalla Commissione per protesta di Luciana Cimino Il Manifesto, 24 luglio 2024 Sul dl Nordio si divide anche la maggioranza. Antigone presenta nuovi dati drammatici: 10mila ricorsi per condizioni degradanti. Duecento detenuti ogni 100 posti. Neanche 3 metri quadrati di spazio a persona. Il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane è salito al 130,4%, ben oltre il dato medio, già altissimo, del 120% rilevato negli ultimi anni. Secondo i dati dell’Osservatorio Antigone, che quest’anno ha ispezionato 88 istituti penitenziari, in oltre 56 carceri si supera il 150% con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia Canton Mombello. Per la prima volta, a causa dei nuovi reati o dell’inasprimento delle pene introdotti dal governo Meloni, si registra il sovraffollamento persino negli Ipm, gli istituti penitenziari minorili, nella realtà molto distanti dalle narrazioni televisive: 555 ragazzi per 514 posti ufficiali. Più della metà dei reclusi sono di origine straniera, moltissimi i minori non accompagnati che avrebbero bisogno di altri tipi di accoglienza. “Molto alto, specialmente nei loro confronti, l’utilizzo di psicofarmaci, anche a causa dell’alto numero di presenze che rende più difficile la presa in carico individualizzata”, scrive l’associazione. Le condizioni in cui vivono detenuti e detenute nelle carceri italiane è plasticamente rappresentata da due dati in particolare: i ricorsi agli Uffici di Sorveglianza per condizioni di vita degradanti sono stati nel 2023 quasi diecimila, il 57,5% di queste è stato accolto; le persone che si sono tolte la vita in cella sono state finora 58, di cui 10 solo nel mese di luglio e 12 a giugno. Il Rapporto di Antigone è stato presentato ieri mattina mentre la commissione Giustizia del Senato iniziava a votare il contestato decreto Nordio, prima chiamato “Svuota carceri” e ora “Carceri sicure”. Una seduta animata tanto che in serata tutte le opposizioni hanno deciso di abbandonare i lavori della Commissione per protesta contro il governo che ha negato ogni possibilità di discussione. “È un decreto vuoto, che non affronta l’emergenza delle carceri, il dramma dei suicidi quotidiani, l’intollerabile sovraffollamento, la situazione dei bambini in carcere. Avevamo auspicato un confronto vero. Non ce la sentiamo di continuare a partecipare a questo simulacro di discussione e di condividere la responsabilità morale dell’inazione rispetto alla situazione drammatica delle nostre carceri”, hanno dichiarato in una nota congiunta i capigruppo nella commissione Giustizia del Senato di Pd, Avs, M5s e Iv. Il provvedimento però ha diviso pure la maggioranza: anche gli emendamenti di Forza Italia, non contraria alla proposta di legge di Roberto Giachetti sull’aumento dei giorni di sconto della pena per buona condotta (atteso entro giovedì in Aula e sul quale le opposizioni, tranne il M5s, hanno chiesto il voto segreto) sono state accantonate dagli alleati: prevedono misure deflattive puntano sulla semilibertà e i domiciliari. Ai 225 emendamenti presentati nei giorni scorsi dal centrosinistra, e non accolti, si sono aggiunte altre 10 proposte di modifica da parte del governo e 4 dai relatori (la leghista Giulia Bongiorno e Sergio Rastrelli di Fdi) che per l’opposizione ampliano il testo ma senza di fatto modificarlo. È stato però espunto dal testo la proposta sui Rems, cioè delle nuove strutture per persone con disabilità psichiche che hanno commesso reati, “a gestione mista, sanitaria per quanto riguarda l’assistenza delle persone ospitate, e giudiziaria per quanto attiene la sicurezza degli operatori e degli utenti, assicurata dalla polizia interforze”. In pratica un ritorno degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari chiusi a fatica negli anni scorsi, che ha allarmato l’opposizione, a partire dalla senatrice di Avs Ilaria Cucchi, ma che non ha convinto neanche la maggioranza. La Commissione ha ancora tre sedute per discutere il testo ma il presidente dei senatori FI Maurizio Gasparri spinge per far arrivare il decreto in aula al più presto e preannuncia l’ennesimo ricorso al voto di fiducia da parte dell’esecutivo. L’emendamento proposto dal senatore, per far scontare la pena ai tossicodipendenti nelle comunità terapeutiche, anziché in carcere, potrebbe essere l’unico di Forza Italia a non essere oggetto di discussione. L’idea di Calderone: modificare la norma sulla custodia cautelare di Simona Musco Il Dubbio, 24 luglio 2024 La proposta del capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia: far riesaminare al giudice il rischio di reiterazione del reato, 60 giorni dopo l’applicazione della misura. Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, prova a cambiare la custodia cautelare, intervenendo nella parte che prevede, tra le esigenze, il rischio di reiterazione del reato. Con una proposta “garantista”, spiega al Dubbio, che prevede di rivalutare l’esigenza dopo 60 giorni e che “farà storcere il naso a più di un giustizialista. Fosse già esistita, avrebbe consentito di evitare casi come quello di Giovanni Toti”, ai domiciliari per corruzione dal 7 maggio e di fatto “costretto” a rinunciare al proprio ruolo per tornare in libertà. La proposta supera le riforme Nordio, andando a incidere sull’aspetto più delicato delle indagini, ovvero la privazione della libertà degli indagati, laddove necessaria. Un passo ulteriore rispetto a quella collegialità del giudice già intesa dalla maggioranza come momento di garanzia per chi è sottoposto ad indagine. L’idea è quella di incidere sulle esigenze cautelari, soprattutto su quella che garantisce maggiore “potere e libertà” ai giudici: il pericolo di reiterazione del reato, appunto. “È una formula che garantisce ai magistrati un potere infinito, così da consentire, nel 99 per cento dei casi, di trasformare la misura cautelare in pena anticipata”. La proposta è composta da un unico articolo, in base al quale, nei casi di rischio di reiterazione, “l’esigenza cautelare è riesaminata, anche d’ufficio, decorsi sessanta giorni dall’applicazione della misura. In assenza di nuove esigenze cautelari, desumibili da atti e fatti concreti e attuali, diversi e ulteriori rispetto a quelli sulla cui base è stata disposta la misura, il giudice ne dispone la revoca, ovvero la sostituzione con altra misura meno afflittiva”. Ma tranquilli, assicura il deputato forzista, tale norma non vale per i reati ostativi e a sfondo sessuale, quelli che destano maggiore allarme sociale. Calderone ha scritto la sua proposta ragionando da avvocato, più che da politico: “Frequentando ogni giorno le aule di Tribunale - ha sottolineato - so che questo è un aspetto patologico a cui nessuno ha mai messo mano”. Perché l’esigenza cautelare più frequentemente invocata nel richiedere provvedimenti limitativi della libertà personale e, al contempo, quella più difficilmente confutabile da parte della difesa, scrive nella sua relazione, è proprio questa, che pur non essendo in contrasto con il diritto costituzionale “pone rilevanti conseguenze e ripercussioni”. Il motivo, scrive Calderone, è semplice: si fonda sulla “sensibilità del giudice nella valutazione del pericolo di ulteriori comportamenti criminali da parte del cittadino indagato o imputato, comportando un serio rischio di strumentalizzazione della misura cautelare”. Di mezzo, infatti, non c’è solo l’analisi del fatto, ma anche “la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato”, motivo per cui ciò che viene chiesto, nella valutazione di questo pericolo, è “di formulare un giudizio prognostico sul suo autore. Se la pericolosità sociale può essere desunta da comportamenti o atti concreti o anche da precedenti penali - prosegue Calderone -, si coglie come l’intervento cautelare si avvicina ai caratteri di una misura di sicurezza”. Ciò provocherebbe un corto circuito con un principio costituzionale, quello di non colpevolezza. Per tale motivo, dunque, Calderone ha deciso di intervenire, con lo scopo, mette nero su bianco, di “restituire centralità alla valutazione del fatto e non del tipo di autore, così limitando le criticità insite nel concetto di pericolosità. Si prevede infatti che il giudice, anche d’ufficio, dopo sessanta giorni dall’applicazione della misura, provveda ad una nuova valutazione dei presupposti legittimanti la stessa e che ove non ravvisi la sussistenza delle esigenze cautelari, accertate sulla base di atti e fatti concreti e attuali, diversi e ulteriori rispetto a quelli sulla cui base è stata disposta la misura (la “pericolosità”) dovrà disporre la revoca della misura, ovvero sostituirla con altra meno afflittiva”. Il che calzerebbe a pennello sul caso Toti: la reiterazione della misura, infatti, si basa, nel suo caso, su fatti vecchi, ma che il governatore, secondo i giudici, potrebbe reiterare per via del suo ruolo. Al quale non può essere sottratto se non per libera scelta politica. “A tal proposito giova ribadire come la privazione della libertà personale sia, di per sé ontologicamente, momento di grave afflizione e disonore sociale, soprattutto per persone che non sono aduse al crimine e che, dopo un cospicuo lasso di tempo (sessanta giorni) trascorso in custodia cautelare, necessariamente non sono più gli stessi del momento dell’applicazione della misura coercitiva: è evidente come rispetto a tali soggetti e alle vicende processuali che li vedono coinvolti il fattore tempo abbia un’incidenza esiziale - aggiunge il deputato di FI -. Prevedere che, decorsi sessanta giorni, si riattivi una nuova valutazione sulla sussistenza di presupposti nuovi e diversi rispetto a quelli che hanno supportato l’originario provvedimento, implica codificare proprio quella significante che è il fattore tempo”. E disegnare un perimetro normativo più chiaro, conclude Calderone, non farà altro che agevolare il giudice “nell’esercizio del proprio ruolo” e tutte le parti in causa: “La maggior chiarezza si traduce necessariamente in maggiore tutela e, quindi, maggiore efficienza del procedimento penale”. L’Anm e la prima presidente della Cassazione bocciano la separazione delle carriere di Gabriella Cerami La Repubblica, 24 luglio 2024 “Pm sotto il controllo del governo”. Per Margherita Cassano la riforma “è dannosa per i cittadini”. Per Santalucia anche il sorteggio per le cariche della magistratura “è antidemocratico. Una carrellata di audizioni, molte delle quali di peso e dai contenuti critici. Dalla prima presidente della Cassazione, Margherita Cassano, e dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, arriva una bocciatura netta al disegno di legge, all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera, che prevede la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente. “Sarebbe un danno per il cittadino”, secondo Cassano, e “i pm finirebbero inevitabilmente sotto il controllo del governo”, sottolinea Santalucia. Per la Prima presidente della Cassazione la separazione nei fatti c’è già: “Da quando sono state introdotte le modifiche, prima nel 2006 e successivamente nel 2022 - spiega - le strade del pubblico ministero e del giudice si sono allontanate professionalmente. Nell’arco di cinque anni è pari allo 0,83% la percentuale dei pubblici ministeri con funzioni requirenti che sono passati a funzioni giudicanti, mentre è dello 0,21% la percentuale dei giudici che sono passati a funzioni requirenti”. In ogni caso, per Cassano, “i principi di indipendenza e imparzialità del pm sono fondamentali”. Quindi, se con la riforma del ministro Carlo Nordio, “si distacca il pm dal resto della magistratura, ci sarà un unico danneggiato, il cittadino. Il pubblico ministero sarà fatalmente attratto verso ruoli investigativi, e questi sono aspetti negativi. Infine, si dice che in Francia e Spagna è così, ma si dimentica che in quei Paesi il ruolo di indagine non lo svolge il pm, ma il giudice istruttore, che fruisce di tutte le garanzie di autonomia e indipendenza proprie del giudice”. Per Santalucia, la riforma della separazione delle carriere “è un grande passo indietro, non si rafforza l’autonomia e l’indipendenza né della magistratura giudicante né della inquirente. Nei Csm saranno in maggioranza numerica i magistrati inquirenti: si rafforzerà il pm a danno del giudicante, e questo creerà uno squilibrio nei fatti, con una magistratura inquirente che sarà autoreferenziale”. Per il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, “tutto questo avrà una ricaduta: si rafforza il pubblico ministero quando si dice di voler rafforzare il giudice. Ma così lo si rende più debole. E bisognerà riequilibrare, perché non sarà democraticamente tollerabile. Il passo successivo sarà quindi la necessità di introdurre dei controlli, e quindi la magistratura inquirente finirà, secondo me, inevitabilmente, per finire sotto il controllo del governo”. Inoltre “il sorteggio” per le cariche in magistratura, che fa parte del ddl, “nelle intenzioni del governo serve a limitare e porre fine al correntismo, ma sono stati pochissimi negli anni i magistrati che hanno tratto vantaggio dal correntismo, tutti gli altri sono stati danneggiati. Ora con questo sistema si toglie loro anche il diritto di voto, quindi è un progetto totalmente antidemocratico”. “Solo lo 0,8% dei pm cambia carriera”. Cassano smonta la riforma di Nordio di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 luglio 2024 Le audizioni alla Camera in Commissione affari costituzionali. Scandalo al Csm, La Russa (quasi) scarica Natoli: “Non ho consigli da darle”. Quanto vale davvero la “riforma epocale” della separazione delle carriere della magistratura? La risposta l’ha data ieri mattina alla Camera, in Commissione affari costituzionali, la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano: “Negli ultimi cinque anni è pari allo 0,83% la percentuale dei pubblici ministeri con funzioni requirenti che sono passati a funzioni giudicanti. Ed è dello 0,21% la percentuale dei giudici che sono passati a funzioni requirenti”. Questi due numeri, già da soli, basterebbero a smontare la retorica epica che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha deciso di dare alla sua riforma, passata in consiglio dei ministri alla fine di maggio e ora attesa alla prova dei passaggi parlamentari. Ma i problemi non si limitano al piano della narrativa, perché riguardano anche aspetti sostanziali. Ancora Cassano: “La separazione delle carriere si pone in netto contrasto con le ultime norme approvate, a partire da quella del 2022, la riforma Cartabia, che prevede che per i reati meno gravi, come danneggiamento o guida in stato di ebbrezza, fin dalla fase delle indagini preliminari possano essere promosse dal pm sanzioni, per un superamento della prospettiva carcerocentrica. Si chiede cioè al pm l’assunzione di funzioni e responsabilità che prima non aveva, avvicinandolo alla sensibilità del giudice”. In sostanza, è la conclusione dell’alto magistrato, “l’unico danneggiato sarà il cittadino”. A questa critica si sono poi aggiunte quelle già note del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, intervenuto in commissione assieme al segretario generale, Salvatore Casciaro. “Questa riforma è un grande passo indietro - sostiene Santalucia -, perché non si rafforza l’autonomia e l’indipendenza né della magistratura giudicante né di quella inquirente. L’esigenza di una separazione delle carriere in nome della terzietà è un tentativo che resta incompiuto: la prospettazione del governo resta vana, la terzietà messa in campo non si raggiunge. Sul piano ordinamentale la magistratura resta unica”. Il vero obiettivo, dunque, sarebbe “solo” la creazione di due Csm, cioè dell’uccisione di fatto dell’organo di governo autonomo della magistratura. “Questo produrrà solo una fortisima burocratizzazione - dice ancora Santalucia -, si rafforzerà il pm a danno del giudicante, e questo creerà uno squilibrio nei fatti, con una magistratura inquirente che sarà autoreferenziale. Bisognerà riequilibrare perché non sarà democraticamente tollerabile. Il passo successivo sarà quindi la necessità di introdurre dei controlli, e quindi la magistratura inquirente finirà, secondo me, inevitabilmente, per finire sotto il controllo del governo”. Il tema del Csm, per il resto, resta delicato: il caso della consigliera laica di FdI Rosanna Natoli e della registrazione clandestina del suo incontro privato con una giudice sotto procedimento disciplinare tiene banco. Lunedì sera Sergio Mattarella ha espresso le sue perplessità (eufemismo) al vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Ieri, Ignazio La Russa, referente politico di Natoli, si è chiamato fuori dalla partita: “Non ci siamo sentiti in questi giorni. Non faccio consigli, lei non ne chiede a me, io non ne chiedo a lei”. Le dimissioni della consigliera, però, ancora non arrivano. Il magistrato del Csm estratto a sorte parla solo per se stesso di Enrico Scoditti* La Stampa, 24 luglio 2024 È una cattiva riforma il disegno di legge costituzionale che prevede l’introduzione dell’estrazione a sorte dei magistrati destinati a comporre il Consiglio superiore della magistratura. Una parola chiara va subito detta sull’associazionismo giudiziario e sulle cause delle degenerazioni emerse nel rapporto fra associazionismo e Csm. C’è un marchio di origine nel moderno giudice europeo-continentale ed è l’organizzazione, di derivazione napoleonica, della funzione giudiziaria all’interno di un corpo di funzionari reclutati per concorso e portatori di un’ideologia burocratica. L’assetto burocratico dell’organizzazione giudiziaria era destinato ad entrare in collisione con il costituzionalismo novecentesco, non solo sul versante dell’ingresso nel mondo del diritto della nuova fonte costituzionale e dei temi dell’interpretazione della legge, ma anche su quello dell’ideologia di ceto che la forma burocratico-amministrativa comporta, e cioè le aspettative di carriera con le relative aspirazioni di promozione, il trattamento retributivo e il prestigio rispetto ad altri apparati. Il merito dell’associazionismo giudiziario è stato quello di rendere compatibile con il giudice della costituzione democratica novecentesca il guscio del giudice-funzionario, concepito in un tempo nel quale fra burocrazia e giurisdizione non doveva esserci distinzione. La causa delle degenerazioni è nella prepotente riapparizione per legge nel 2006 della carriera. L’ideologia del ceto burocratico si è prepotentemente riaffacciata nel corpo della magistratura, facendo dell’associazionismo, o meglio di una certa versione dell’associazionismo, lo strumento delle aspirazioni di carriera. Per arrestare le derive di un carrierismo dimentico che “i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni” (art. 107 Cost.) , c’è bisogno oggi di più, e non meno, associazionismo dentro la magistratura, un sano associazionismo che sia in grado, in funzione di sostegno del grande lavoro della Scuola superiore della magistratura, di provvedere alla formazione etica e professionale dei magistrati. L’associazionismo giudiziario è invece il bersaglio principale del disegno di riforma, ma con l’associazionismo si colpisce anche l’organo costituzionale. La teoria e la prassi sulle assemblee sorteggiate tendono ad affidare a tali collegi funzioni consultive o di sorveglianza. Affidare alla “lottocrazia” le deliberazioni di un organo di rilievo costituzionale quale il Csm significa spezzare il nesso ricorrente fra l’ordinamento costituzionale e il linguaggio della democrazia (se si escludono, per una serie di ragioni specifiche, gli organi ausiliari del governo - il Cnel, da una parte, e Consiglio di Stato e Corte dei conti, dall’altra -, mentre per gli organi giudiziari vale la legittimazione esclusivamente tecnica, presidiata dalle garanzie costituzionali di autonomia e indipendenza). In una costituzione democratica anche le autorità nominate, e non elette (è il caso dei giudici costituzionali), rinviano ad una fondamentale istanza democratica, grazie alla fonte del potere di chi le nomina. Il sorteggiato è estraneo al valore della democrazia, perché esclude la partecipazione di tutti gli altri, sia pure nella forma delle delega elettorale, alla formazione delle decisioni, ed è estraneo pure al principio della rappresentanza, la quale presuppone un mandato, invece assente nel sorteggio. Il magistrato estratto a sorte parla soltanto per se stesso. Si può sorteggiare la composizione di un comune collegio di diritto pubblico (si pensi alla giuria popolare), ma non quella di un organo mediante cui si articola l’ordinamento costituzionale, il quale, anche in forme indirette, non può non rinviare al principio democratico. Lo stesso vizio avrebbe una forma di sorteggio temperato (oggi previsto in forma residuale): l’elezione segue alla predeterminazione per sorteggio degli eleggibili. Al principio c’è sempre il caso, e non la volontà democratica. Le degenerazioni correntizie nel governo autonomo della magistratura sono un fenomeno, ed ai fenomeni si risponde con le leggi ordinarie, non con la (ri)-scrittura della Costituzione, che fissa per le generazioni a venire l’assetto dei poteri. L’alternativa al sorteggio è, dunque, la seguente. Con legge ordinaria deve essere prevista l’incompatibilità della carica di consigliere del Csm con l’iscrizione a qualsiasi associazione giudiziaria che non sia l’Associazione nazionale magistrati. L’acquisto dello status di consigliere superiore non comporta solo la detta incompatibilità, ma anche l’acquisto, successivo all’esaurimento della consiliatura ed indisponibile per il consigliere, dello status di consigliere superiore emerito, che comporta anch’esso l’incompatibilità con qualsiasi appartenenza associativa che non sia l’Anm. Lo status di consigliere superiore emerito comporta che egli venga consultato, anche online, sulla normazione secondaria che il Csm via via produrrà. La condizione di iscritto ad una corrente è causa di decadenza dalla carica di consigliere superiore. L’iscrizione ad una corrente dopo la fine della consiliatura è condizione negativa delle valutazioni di professionalità cui il magistrato è periodicamente sottoposto e della conferma nell’incarico direttivo o semidirettivo. All’iscrizione deve equipararsi la “partecipazione sistematica e continuativa”, per riprendere la formulazione della disposizione che vieta l’iscrizione dei magistrati a partiti politici. In tal modo si recide per sempre, con l’ingresso nel Csm, qualsiasi vincolo di appartenenza correntizia dell’eletto. Il magistrato eletto consigliere superiore passa attraverso una rigenerazione, diventa una risorsa istituzionale anche per il periodo successivo all’esaurimento del mandato. Porta con sé i valori sull’amministrazione della giurisdizione per i quali è stato eletto, ma ha reciso per sempre ogni appartenenza correntizia. All’associazionismo giudiziario resta il compito di produrre idee, da una parte, e donne e uomini, dall’altra, per il governo autonomo della magistratura, ma quelle donne e quegli uomini, una volta eletti, cammineranno legati solo alle idee. *Presidente della Corte di Cassazione Fu depistaggio oppure no? Il giudice decide se archiviare la pm del caso Bossetti di Simona Musco Il Dubbio, 24 luglio 2024 È una lotta tra innocentisti e colpevolisti, senza vie di mezzo. Eppure in mezzo ci sta il dubbio, che questa volta appare quantomeno ragionevole, alimentato da errori e mosse strane, sulle quali ora dovrà pronunciare un giudice di Venezia. L’inchiesta sulla morte di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate scomparsa a ottobre del 2010 e ritrovata in un campo, senza vita, a febbraio 2011, è piena di punti oscuri. Tanto da far finire la pm Letizia Ruggeri sotto indagine, per la scelta, contestata dalla difesa, di spostare 54 campioni di dna - la cui esistenza è stata a lungo negata - di fatto provocandone la distruzione. Da meno 80 gradi a temperatura ambiente: impossibile salvarli. La pm è finita sotto indagine dopo l’archiviazione disposta dal gip Alberto Scaramuzza nei confronti del presidente della Corte d’Assise e della funzionaria dell’ufficio corpi di reato del tribunale di Bergamo, iscritte a seguito di una denuncia per frode processuale e depistaggio presentata a Venezia dai legali di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo per la morte di Yara. Il gip ha dunque trasmesso gli atti per approfondire la posizione di Ruggeri, per la quale è stata però chiesta l’archiviazione. E oggi è il giorno in cui il gip si pronuncerà su una vicenda che può cambiare il corso della vita di Bossetti. Nel chiedere l’archiviazione, il procuratore aggiunto Paola Mossa si è appellata alle norme, che avrebbero autorizzato, a suo dire, le scelte di Ruggeri. Cinque pagine, nelle quali la magistrata afferma che non c’era “nessuna “ansia di distruzione”“ da parte del pubblico ministero, “ma solo richieste e provvedimenti conformi al dettato normativo e alle autorizzazioni ricevute”. Insomma, nulla di strano. Ma come sono andate le cose? Bossetti viene condannato in via definitiva il 12 ottobre 2018. Cinque mesi dopo, Ruggeri chiede al giudice di poter spostare tutti i reperti all’ufficio corpo di reato. Una richiesta accolta e autorizzata dal giudice nel settembre del 2019. Il 21 novembre 2019 i carabinieri di Bergamo spostano “fisicamente” tutti i reperti, compresi i 54 campioni di dna, dal laboratorio San Raffaele di Milano all’ufficio corpo di reato. Ma prima, avvisano Ruggeri del rischio di distruzione. La pm li invita a procedere, i carabinieri, però, conservano per scrupolo i campioni nei freezer della compagnia. La difesa di Bossetti, il 27 novembre 2019, ottiene l’autorizzazione del giudice ad analizzare i campioni, circostanza, spiega l’avvocato Claudio Salvagni, nota a Ruggeri, perché notificata dallo stesso avvocato alla procura. Ma cinque giorni dopo, il 2 dicembre, i reperti, compreso il dna di “ignoto 1”, sono stati portati all’ufficio corpi di reato. Dove, di fatto, sono andati distrutti. Nella sua opposizione alla richiesta di archiviazione, Salvagni spiega che la pm, nel disporre il trasferimento dei 54 campioni di dna, “ha agito in modo consapevole (conoscendo le norme e ignorando anche l’allarme prospettatole dai carabinieri), in modo tale da rendere i reperti biologici inservibili per nuove indagini”. E “nessun diritto aveva a distruggere i campioni, provvedimento riservato esclusivamente al giudice”. L’avvocato riporta una frase della pm, sentita in procura di Venezia: “Abbiamo chiesto che non gli sia consentito di accedere a questi reperti, né ora né mai, né per la revisione né per niente altro”. Nella sua richiesta di archiviazione, Mossa scrive che “è vero che nel provvedimento di confisca la corte d’Assise fa riferimento alla non opportunità di provvedere, allo stato, alla distruzione dei reperti, e che il deposito degli stessi in luogo non dotato di congelatori ne avrebbe probabilmente alterato l’integrità; ma è altrettanto vero che quel provvedimento interviene solo il 15 febbraio 2020”, mesi dopo l’arrivo delle provette all’ufficio corpi di reato. Per Mossa, d’altronde, Ruggeri non aveva nulla da temere in vista di una possibile richiesta di revisione, dal momento che “la prova scientifica su cui si fonda il giudizio di responsabilità a carico del Bossetti è risultata assolutamente solida e non vi sono elementi per ritenere che accertamenti successivi e ulteriori possano inficiarla”. Salvagni, però, non è d’accordo. “Il dato oggettivo è che i beni - che erano ancora sotto sequestro - sono stati spostati su ordine del pm, dalla temperatura di meno 80 gradi a temperatura ambiente, con il rischio concreto che di degradassero - dice al Dubbio -. Ma in quanto beni sotto sequestro avevano ancora una finalità probatoria. Spostare i reperti ha comportato la distruzione di una prova. Tutto questo, secondo me, va solo in un’unica direzione, quella della responsabilità del pm”. Nella richiesta di archiviazione, viene citata una norma, in base alla quale, secondo il magistrato di Venezia, Ruggeri si sarebbe comportata coerentemente con quanto prescritto dalle leggi. L’articolo in questione è il 262 del codice di procedura penale, “ma basta leggerlo - prosegue Salvagni - per rendersi conto che il pm non ha questa facoltà, tanto è vero che il provvedimento del giudice, invece, è quello di conservazione. Il pm avrebbe dovuto aspettare il provvedimento del giudice: è una parte tanto quanto la difesa e quindi non può prendere un’iniziativa se non è disposta da un giudice”. Ma non solo: che quei reperti esistessero è stato a lungo negato. “Le sentenze dicono che non esistevano più: lo scrive la Cassazione. Ma se i giudici scrivono che non esistono e invece esistono, è evidente che qualcuno ne ha nascosto l’esistenza. Anche questo mi sembra totalmente evidente”, aggiunge il legale. I dubbi sono tanti, ma per tutti rimane un fatto: il dna di Bossetti sul corpo di Yara. Come si spiega? Per Salvagni, quella che finora è stata spacciata per certezza in realtà certezza non è. “Che quello sia sicuramente il dna di Bossetti scientificamente non è possibile. Sappiamo tutti che la cellula è composta da due elementi, il nucleare e il mitocondriale - spiega -. Siccome in scienza non ci sono elementi di serie A e di serie B, abbiamo da una parte un elemento che va nella direzione Bossetti e dall’altra uno che lo esclude. Sono due dati antitetici: o si dà una risposta scientifica a questa anomalia oppure si è in presenza di un qualcosa di aberrante”. Nella serie Netflix a spiegarlo è Peter Gill, padre della genetica forense con cattedra all’università di Oslo, secondo cui “oltre al dna nucleare di Massimo Bossetti e al dna mitocondriale di Yara c’era per forza il mitocondriale di una terza persona”. “Si tratta di un luminare della genetica forense che non è stato un consulente della difesa, per cui non capisco perché ci si ostini a dire che c’era il dna di Bossetti: allo stesso modo si potrebbe affermare che non ci fosse, perché un pezzo di quel dna non c’è”. Per la Cassazione, però, “il dna mitocondriale c’è, ma non si vede. Allora la mia domanda è: come mai si vedono quello di Yara e, sotto traccia, quello di una terza persona? E perché, invece, il dna mitocondriale di Bossetti gioca a nascondino? Se il mitocondriale, che potrebbe essere preso come la prova del nove, non torna, è evidente che l’individuazione fatta con il nucleare è sbagliata”. A questa eccezione si obietta che comunque il dna di Bossetti è venuto fuori. E non si tratta del dna di un uomo dall’altro capo del Paese, ma di qualcuno della zona, esistente. “Sembra una argomentazione molto forte - continua Salvagni -, ma anche questo non tiene conto di una cosa invece scientifica: nella bergamasca esiste indubbiamente una sorta di microcosmo in cui tutti più o meno alla lontana sono imparentati, per cui l’esistenza di dna molto simili non è così eccezionale. Probabilmente la verità è che quel dna è di una persona comunque vicina al dna di Bossetti, ma non è lui, perché basta cambiare un allele e cambia persona. La certezza con cui si afferma che sul corpo di Yara c’era il nucleare di Bossetti è ascientifica”. La difesa, ora, punta ad analizzare i reperti che sono ancora esistenti, ovvero gli indumenti di Yara, quelli dai quali è stato estratto il dna di ignoto 1, per verificare se ci sono altre tracce analizzabili e che magari restituiscano un risultato simile, ma non identico. “Anche perché le macchine che dovevano leggere questo dna - aggiunge Salvagni - non sono state tarate così bene da evitare un errore: abbiamo evidenziato 261 anomalie”. Maltrattamenti, arresto in semi-flagranza se la vittima denuncia violenze abituali di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2024 Il Gip non aveva invece convalidato l’arresto operato dalla polizia in quanto a suo avviso erano emersi solo elementi del reato di percosse anche per la riscontrata situazione di calma apparente nell’abitazione. La legittimità dell’arresto in semi flagranza, per il reato di maltrattamenti in famiglia, può ben fondarsi sulle rilevate tracce rosse sul collo della persona offesa, da parte degli agenti che accedono sulla scena familiare, al loro ingresso nell’abitazione dove si svolge la convivenza. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 30316/2024 - ha annullato senza rinvio l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che non aveva convalidato l’arresto dell’uomo imputabile di maltrattamenti in famiglia, tra l’altro aggravati in base all’accusa di averli commessi in danno della compagna, alla presenza del figlio minore. Accusa contenuta nella querela della donna e raccolta dagli agenti al momento del controllo nell’abitazione. Il controllo di Polizia era stato provocato dall’allerta data dalla sorella della vittima dopo aver ricevuto la telefonata dell’uomo che minacciava “di far fuori” la compagna. L’uomo veniva arrestato a causa dei riscontrati segni di violenza e delle affermazioni della donna di aver da anni subito violenze sistematiche davanti al figlio. Arresto eseguito nonostante la situazione di calma apparente riscontrata dagli agenti. Elementi del reato di percosse o maltrattamenti - Ciò che rileva - secondo la Cassazione - ai fini della convalida dell’arresto eseguito dalla Polizia sono una serie di rilievi effettuati dai verbalizzanti nell’immediatezza dell’accesso nella casa: - calma apparente in un appartamento che non dava però alcun riscontro di tale calma, anzi la smentiva; - l’aria dimessa della presumibile parte offesa che presentava forti rossori nella zona del collo e che contestualmente affermava, nella querela raccolta dagli agenti, di essere vittima di percosse e continue offese da parte del compagno e alla presenza del loro figlio minore. A fronte di tali “segnali” la Cassazione boccia il ragionamento del Gip secondo cui al momento dell’arresto avvenuto in semi flagranza (cioè quando il reato si è appena consumato) non fosse configurabile più del reato di percosse che è appunto reato che non lo consente. Infatti, il Gip aveva disposto solo il divieto di avvicinamento alla parte offesa querelante, garantito anche dall’uso del braccialetto elettronico. La Cassazione ritenendo invece erroneo il ragionamento del Gip che non aveva ravvisato gli elementi di accusa per il reato ex articolo 572 del Codice penale per cui è previsto l’arresto obbligatorio del convivente maltrattante. Umbria. Limitare il carcere a chi ha problemi mentali. In attesa di una Rems La Nazione, 24 luglio 2024 Siglata l’intesa tra uffici giudicanti e requirenti del distretto umbro. Regione, Asl 1 e 2, Aziende ospedaliere di Perugia e Terni. Un passo avanti. In attesa che venga realizzata una Rems, dai dodici ai sedici posti da destinare ai casi più critici, si punta a gestire la criticità dei detenuti psichiatrici, quelli per cui la detenzione viene ritenuta indispensabile, attraverso le strutture sanitarie del territorio, private e pubbliche. A questo punta il Protocollo d’intesa siglato alla Corte di Appello di Perugia tra uffici giudicanti e requirenti del Distretto umbro, Regione Umbria, Asl 1 e 2, Aziende ospedaliere di Perugia e Terni. L’accordo operativo in materia di applicazione di misure di sicurezza e trattamento di autori di reato affetti da problemi di salute mentale, viene a colmare un’esigenza più volte segnalata dagli uffici giudiziari umbri. L’accordo ha preso forma, grazie all’impegno del Tribunale e della Procura della Repubblica di Perugia ed alla disponibilità della Giunta Regionale dell’Umbria. Nel documento sono previste non solo concrete forme di collaborazione e coordinamento tra autorità giudiziaria e servizio sanitario, ma vengono altresì dettati precisi criteri organizzativi, “sulla base del riconoscimento del ruolo solo residuale che deve avere la misura di sicurezza detentiva, dovendosi dare prevalenza al trattamento terapeutico e riabilitativo nel contesto territoriale di riferimento”. La Corte d’appello e la Procura Generale perugine hanno coinvolto tutti gli uffici giudiziari del distretto per favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i soggetti chiamati ad operare in questi contesti. Nel protocollo si afferma come prioritario il progetto terapeutico che deve essere individualizzato, anche al fine di limitare il ricovero nelle Rems. Il protocollo garantisce inoltre tempestività negli interventi, nello scambio delle informazioni, nell’attivazione di immediate valutazioni della situazione clinica al fine di garantire la più adeguata gestione di casi di autori di reato con problemi di salute mentale, anche ove venissero applicate misure precautelari di arresto o fermo. Un problema estremamente rilevante, quello dei detenuti psichici nelle strutture carcerarie umbre, la cui gestione è spesso e volentieri alla base di numerosi episodi di intemperanza e aggressioni che si registrano. Oggi, a Capanne, sindaca Vittoria Ferdinandi e garante regionale dei detenuti, Giuseppe Caforio, in visita. Milano. I mille fantasmi del carcere di San Vittore, fra i detenuti senz’acqua e in celle roventi di Ilaria Carra e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 24 luglio 2024 Viaggio nel carcere di Milano, il peggiore d’Italia, dove la popolazione è di giovanissimi, soprattutto stranieri con dipendenze e disturbi. Fanny Gerli ha 61 anni e dal 2018 entra a San Vittore per l’associazione Naga. Il suo turno è appena finito: “Sono sempre più giovani, sempre più poveri. Vivono in celle roventi, lo spazio è poco, se sono fortunati hanno due sedie. Le attese sono infinite, vuote, il tempo non passa mai e agosto sarà peggio. Molti hanno disturbi psichiatrici. Le famiglie sono lontane, nessuno sa che esistono. Non hanno voce e la rabbia cresce. Il carcere diventa una discarica sociale perché fuori non c’è niente per aiutarli”. Oggi i reclusi sono 1.074, 996 uomini e 78 donne. Il numero cambia sempre perché la casa circondariale è la porta d’accesso di tutti gli arrestati. Ogni giorno entrano tra 15 e 20 persone ma il numero non corrisponde a quanti vengono “sfollati” in altri penitenziari. E la folla aumenta. Sempre più da ragazzi tra i 18 e i 25 anni, in maggior parte stranieri, spesso con dipendenze o disturbi. Ogni giorno una corsa per sistemarli. Antigone denuncia che la sezione maschile ha un sovraffollamento del 227%, il tasso più alto in Italia. Percentuali che ballano in base a come vengono lette. Il carcere, da vent’anni, funziona a scartamento ridotto. Due “raggi”, il secondo e il quarto, sono inagibili. La capienza massima, che secondo il ministero della Giustizia è di 754 posti, scende così a 503. Ci sono stanze da 8 o 9 detenuti, stipati nei letti a castello; molte sono da tre o cinque posti e a fatica si garantisce quel fazzoletto di 3 metri quadri a testa previsto dalla legge. Un frigo va diviso tra più persone, farsi una doccia può diventare un’impresa. “L’emergenza è cronica e i trasferimenti funzionano meno perché anche le altre carceri lombarde, da Monza a Busto Arsizio, si sono riempite”, spiega Valeria Verdolini, presidente lombarda di Antigone. Ci sono reparti complicati. Come il sesto braccio, quattro piani: qui vivono gli ospiti con provvedimenti disciplinari, si riducono ore d’aria e apertura delle celle. C’è un reparto “a vocazione più o meno sanitaria - continua Verdolini. Persone ritenute incompatibili con la vita in reparto per fragilità psichica”. E ci sono i protetti, che per i crimini commessi (spesso di natura sessuale) sono gestiti a parte per la sicurezza. Il sovraffollamento non aiuta in situazioni critiche come quelle del quinto raggio, le “celle ad alto rischio”, con un regime di prevenzione per il rischio autolesionistico. “I numeri sono spaventosi - dice l’avvocata Antonella Calcaterra, di Antigone. Tante persone hanno bisogno di cure. Senza attività stanno dentro tutto il giorno tranne per l’ora d’aria”. Beatrice Saldarini, presidente della commissione Carceri dell’Ordine degli avvocati di Milano, racconta: “Ieri nella saletta dei colloqui abbiamo visto un ragazzo. Si moriva dal caldo. Lui mi ha sorriso: “Immagini su”. È un disastro. E ho paura di agosto, perché tutto si ferma. I direttori delle carceri fanno i salti mortali. Ma sono costretti ad accettare detenuti anche quando le condizioni sono contrarie a ogni principio di rispetto dei diritti umani. Qui siamo all’illegalità”. Dall’1 gennaio al 10 febbraio le denunce al tribunale di Sorveglianza da parte di detenuti (di vari istituti) per “trattamenti inumani e degradanti”, in violazione dell’articolo 3 della Cedu, sono state 555. Un numero più alto dell’intero 2023 (furono 477). Ricorsi destinati ad aumentare. “Le docce sono esterne e in condizioni disastrose. Le camere, sebbene dedicate a persone in condizioni di salute problematiche, non hanno campanello d’allarme notturno”, scrive nel suo ricorso un detenuto di San Vittore, che denuncia anche come un “gravissimo episodio cardiaco” ha messo a rischio la sua vita e sottolinea una detenzione “contraria al senso di umanità”. Una partita che Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano, segue da vicino: “San Vittore è troppo pieno, vecchio. Ora è un inferno. Con le celle chiuse la gente è stipata in spazi stretti. I detenuti ci dicono che di fatto si esce solo quattro ore al giorno. Il personale fa l’impossibile per arrivare a fine giornata. Il direttore in passato ha avuto il coraggio di fare progetti per mantenere l’equilibrio. Ma il sistema non può reggere”. Ivan Lembo, che per la Cgil è nella segreteria dell’osservatorio carcere e territorio, aggiunge: “Siamo preoccupati, i detenuti vivono in celle dove i metri calpestabili sono 3,14 e anche in virtù della circolare sulla media sicurezza rimangono chiusi dentro molte ore, amplificando i disagi”. “Siamo abbandonati”, conclude Alfonso Greco, segretario regionale del sindacato Sappe, che parla di agenti penitenziari costretti a “posticipare riposi e ferie”. “Non molliamo, aiutarne uno è già un mondo. Ma a noi interessa risolvere il problema”, sospira la volontaria Gerli, pensando alla prossima volta che entrerà a San Vitùr, appena mezz’ora a piedi dal Duomo. Bologna. Suicidi e scarafaggi alla Dozza: “La solidarietà non basta più” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 24 luglio 2024 La denuncia della Camera penale dopo il suicidio alla Dozza di Lulzim Musta, il detenuto albanese con problemi di salute mentale. “La solidarietà non basta più, è necessario che ognuno faccia la sua parte e si assuma le sue responsabilità”. Il direttivo e l’osservatorio “diritti umani” della Camera penale, chiamano tutti alle proprie responsabilità dopo il suicidio alla Dozza di Lulzim Musta, il detenuto albanese con problemi di salute mentale che domenica mattina si è tolto la vita impiccandosi in cella. Un richiamo forte, alla luce di un fenomeno ormai fuori controllo a Bologna, come in altri istituti italiani. Ci sono i due morti dall’inizio dell’anno alla Dozza, ma ci sono anche i tentati suicidi, gli atti di autolesionismo e le aggressioni, tra detenuti e il personale: “Ecco perché la solidarietà non basta più”. Parole che fanno il paio con quelle del garante per i diritti dei detenuti, Antonio Ianniello, secondo cui a Bologna “il sovraffollamento si mischia in modo perverso con l’inadeguatezza degli spazi”. Da qui la convinzione che sia “urgente mettere in campo ogni sforzo per elaborare strategie che rendano più incisiva l’attuazione del piano per la prevenzione dei suicidi, così come è urgente una condivisione degli interventi fra area penitenziaria e area sanitaria”. Sovraffollamento, problemi psichiatrici e condizioni igieniche impossibili da sostenere. Come quelle rilevate dall’associazione Antigone alla Dozza, con la presenza di scarafaggi e di cimici: “Condizioni igienico-sanitarie inaccettabili, aggravate dal caldo e, appunto, dal sovraffollamento”. Sul disagio psichico e sulle patologie mentali si è soffermato Ettore Grenci, referente per i diritti umani dell’Ordine degli avvocati di Bologna, che rileva come sul tema non vi sia neppure una reale consapevolezza, “per la semplice ragione che non è dato sapere esattamente quanti detenuti con problemi mentali siano ristretti nelle carceri”. E questo perché “nessuna seria diagnosi viene fatta a nessuno di loro”. Per Grenci sarebbe necessario “fare le diagnosi prima di mandare in carcere le persone”, evitando di risolvere il problema “con gli psicofarmaci, il cui abuso è una delle tante piaghe che affliggono la popolazione detenuta”. Non a caso “molte delle persone che da inizio anno si sono tolte la vita nelle carceri si è scoperto (sempre drammaticamente a posteriori) essere affette da malattie mentali più o meno gravi”. L’ultima di questa tragica scia di morti si è registrata proprio nella nostra città, “e ha riguardato un detenuto in attesa di giudizio che pare avesse problemi psichiatrici, tanto da aver indotto la difesa a richiedere una perizia psichiatrica. Che però, evidentemente, non è arrivata in tempo”. Un caso che “è la fotografia di altre decine di casi analoghi, che appaiono tanto più gravi se si pensa che si trattava e si tratta, per la nostra Costituzione, di un presunto innocente”. Silvia Zamboni, di Europa Verde e vicepresidente dell’Assemblea legislativa della Regione, spiega che bisognerebbe garantire “i necessari livelli di igiene”, per poi “accorciare le lungaggini burocratiche che dilatano enormemente i tempi di risposta alle richieste inviate ai magistrati di sorveglianza”. Senza dimenticare la necessaria “adozione di misure alternative alla detenzione e le opportunità di accoglienza fuori dal carcere, durante e dopo pena”. Firenze. Sollicciano, gli ispettori del Ministero sanzionano la direttrice: “Celle da bonificare” di Pietro Mecarozzi La Nazione, 24 luglio 2024 Una sanzione di oltre 25mila euro. Il passaggio degli atti alla procura di Firenze, che aprirà un’inchiesta per i reati contestatigli in quanto datore di lavoro. E poi la scadenza: 90 giorni per sistemare tutto ciò che non va nel carcere di Sollicciano. È il verbale di prescrizione, compilato dagli ispettori - inviati dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) - dopo che hanno riscontrato contravvenzioni a leggi per l’igiene o sicurezza sul posto di lavoro (in questo caso il penitenziario fiorentino), alla direttrice Antonella Tuoni. Un atto che pesa come un macigno, frutto delle due visite che gli ispettori del Dap hanno fatto a metà giugno e a inizio luglio. Secondo quanto riportato, Tuoni non avrebbe osservato gli obblighi del datore di lavoro non delegabili. A partire in primis dai requisiti degli ambienti di lavoro richiesti per legge. In altre parole, le carenze strutturali che Sollicciano lamenta da anni, e di cui il nostro giornale ha dato ampiamente risalto in queste ultime settimane, sono responsabilità della direttrice, in quanto in quegli ambienti ci lavora il ‘suo’ personale. E deve essere sempre lei a provvedere alla sua bonifica. In particolare, si legge ancora, Tuoni (ripeto: in 90 giorni) dovrà sistemare “le pareti e le scale delle sezioni detentive intrise di tracce presumibilmente ematiche e non solo”. Ma anche far sparire dagli ambienti di lavoro “insetti, cimici e blatte”. E ripristinare “l’agibilità dei corridoi, delle camere di pernottamento, dei locali comuni e del locale destinato a colloqui telefonici, anneriti a seguito di incendi”. Poi ci sono i lavori all’impianto elettrico (da controllare in considerazione delle numerose infiltrazione di umidità e muffe), quelli di pulizia, e quelli per l’impianto di aerazione e ricircolo dell’aria. Insomma, tutti quegli interventi che da tempo servono a Sollicciano, e che sono fermi dal febbraio 2023, da quando la stessa direttrice Tuoni ha constato che quanto fatto nelle sezioni non era servito a fermare le infiltrazioni d’acqua nei locali. Un cantiere che sarebbe servito a migliorare l’accoglienza dei detenuti e che il Dap, ad oggi, non più fatto ripartire. C’è poi un punto che rimane irrisolto: chi paga? Al momento, il Governo non ha previsto finanziamenti per il penitenziario fiorentino indirizzati a lavori di ristrutturazione delle sezioni maschili e femminili. Niente soldi dal ministero della Giustizia, vuol dire nessun raggio di manovra per Tuoni, che, secondo il Dap, deve in tre mesi risistemare il penitenziario (in cui nulla si è mosso negli ultimi quattro anni), senza però specificare con quali fondi. In bocca al lupo. Viterbo. Strangolò il compagno di cella, detenuto a giudizio immediato di Beatrice Tominic fanpage.it, 24 luglio 2024 Giudizio immediato per il ventenne accusato di aver strangolato il compagno di cella, Alessandro Salvaggio, lo scorso dicembre. Giudizio immediato per Krasmir Tsvetkov, accusato di aver strangolato il compagno di cella, Alessandro Salvaggio, all’interno del carcere Mammagialla di Viterbo. È quanto emerso ieri, lunedì 22 luglio 2024. La gip Rita Gialoni del Tribunale di Viterboha accolto la richiesta di giudizio immediato arrivata dal pm Massimiliano Siddi. La prima udienza del processo è stata fissata per il prossimo 28 ottobre, alla Corte d’Assise di Viterbo. A difendere la famiglia, che si costituirà parte civile nel corso del processo, l’avvocato Giacomo Pillitteri, che già seguiva Salvaggio stesso mentre era detenuto. L’omicidio in cella - Alessandro Salvaggio, uomo di 49 anni, è stato ucciso strangolato lo scorso 20 dicembre in cella. Accusato dell’omicidio il compagno di cella, il ventenne Krasmir Tsvetkov. È stato proprio lui a chiamare gli agenti della polizia penitenziaria dopo l’omicidio. “Venite, ho fatto una stupidaggine: ho stretto le mani al collo di Alessandro ed è morto”, avrebbe urlato, confessando il delitto. A confermare quanto dichiarato l’autopsia sul corpo del detenuto ucciso: secondo quanto emerso nel corso degli esami, Salvaggio è morto per soffocamento. I due compagni di cella - Sia Alessandro Salvaggio che Krasmir Tsvetkov sarebbero stati rilasciati nel 2026. Il primo, quarantanovenne, si trovava in carcere per questioni legati agli stupefacenti. Il compagno di cella, invece, per reati contro il patrimonio. Secondo quanto emerso dalle indagini, il movente sarebbe da ricercare nei debiti che il quarantanovenne aveva contratto nei confronti dell’altro: non sembra, invece, che fra i due ci fossero problemi pregressi. Varese. Richiedenti asilo ed ex detenuti. Occasioni di lavoro con le aziende di Rosella Formenti Il Giorno, 24 luglio 2024 Confindustria Varese e le parti sociali firmano protocolli per l’inserimento lavorativo di richiedenti asilo e detenuti, sottolineando l’importanza delle imprese nel contrastare l’emarginazione. Firmati da Confindustria e dalle altre parti sociali varesine due protocolli per favorire l’inserimento socio-lavorativo dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale e per promuovere e sostenere il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute e in esecuzione penale esterna. “Le imprese hanno un ruolo fondamentale nel fare da argine alle ancora troppe forme di emarginazione che frenano il vero progresso di cui abbiamo bisogno - ha detto il presidente di Confindustria Varese, Roberto Grassi -. È con questa convinzione che firmiamo i due protocolli d’intesa fortemente voluti dal prefetto Salvatore Pasquariello per favorire l’inserimento socio lavorativo dei richiedenti asilo, da una parte, e dei detenuti, degli ex carcerati e delle persone in semi-libertà, dall’altra. Fronti di impegno che già coinvolgono punte avanzate e particolarmente sensibili della nostra imprenditoria che dobbiamo, però, ereggere a regola e non più a eccezione positiva. Favorire la collaborazione tra imprese, divulgare le iniziative, orientare i percorsi formativi, diffondere le migliori prassi per dare vita a una contaminazione tra aziende, favorire occasioni di incontro tra domanda e offerta di lavoro: queste le attività che porteremo avanti insieme alle altre parti sociali, alle istituzioni e agli enti del terzo settore”. Ha commentato Stefania Filetti, segretario generale Cgil Varese: “In entrambi i protocolli, al centro ci sono persone con le loro fragilità; nel caso dei detenuti, è necessario dare loro una seconda possibilità, un’occupazione di qualità. Nel caso di coloro che fuggono da Paesi in guerra o in difficoltà, abbiamo il dovere di accoglierli, garantire loro una formazione, dare loro un lavoro positivo”. “Il caso Yara”: lo scontro innocentisti-colpevolisti è la chiave del successo di Paolo Carelli Il Domani, 24 luglio 2024 La serie Netflix “Il caso Yara - Oltre ogni ragionevole dubbio” è l’ultimo esempio del filone true crime, storie di delitti che hanno attraversato le biografie di una nazione riproposte in forma serializzata. Funzionano perché alimentano in noi un meccanismo profondo. Un documentario per riannodare i fili di una vicenda inquietante e dolorosa o il tentativo di instillare nello spettatore più di un dubbio sull’esito giudiziario? Un prodotto d’inchiesta per fare memoria (la ricostruzione di un fatto di cronaca nera della storia recente italiana) oppure orientato a modificare la percezione dell’opinione pubblica? La docu-serie “Il caso Yara - Oltre ogni ragionevole dubbio”, distribuita su Netflix, è una mescolanza di generi, approcci e prospettive; un lungo viaggio in cinque episodi che prova a mettere ordine in un caso oscuro, segnato da errori e colpi di scena, sullo sfondo di una comunità incredula. La vicenda della giovane Yara Gambirasio è nota: la tredicenne di Brembate Sopra, piccolo comune della provincia di Bergamo, esce di casa nel tardo pomeriggio del 26 novembre 2010 per recarsi alla vicina palestra (distante circa ottocento metri) nella quale è solita allenarsi come promessa della ginnastica ritmica. Non farà più ritorno a casa e il suo corpo verrà ritrovato solamente tre mesi dopo in un terreno di Chignolo d’Isola, a una decina di chilometri. Al termine di una surreale vicenda giudiziaria, il colpevole viene individuato nel muratore Massimo Giuseppe Bossetti, condannato all’ergastolo. La docu-serie, realizzata da alcuni degli artefici del successo di SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano (la casa di produzione Quarantadue, la regia di Giancarlo Neri, Carlo Gabardini tra gli altri alla scrittura), procede con l’andamento ormai rodato delle produzioni di genere di Netflix Italia: un impressionante lavoro di scavo e d’archivio, una notevole mole di interviste e testimonianze, tra cui quella esclusiva con lo stesso Bossetti, dal carcere, che continua dopo anni a professarsi innocente, e quella della moglie Marita Comi; un montaggio serrato che diventa il narratore ultimo della storia, rinunciando a qualunque figura di mediazione. Il racconto della storia (e della cronaca) in tv non è mai asettico; l’articolazione dei tempi e dei temi risponde a specifiche esigenze narrative, riflettendo l’inevitabile parzialità dello sguardo. Eppure, Il caso Yara si sforza di non lasciare per strada nessuna tessera di un puzzle complesso, talvolta ai limiti dell’immaginabile; quella dell’omicidio di Brembate è una storia in cui si mescolano crudeltà ed errori giudiziari, silenzi e tradimenti, innovazioni scientifiche nelle indagini e voyeurismo giornalistico. Un caso perfetto - come in effetti fu - per occupare i palinsesti pomeridiani e serali di trasmissioni televisive nazionali e locali, per stimolare la classica divaricazione tra innocentisti e colpevolisti, per sfrugugliare i tratti più reconditi di una comunità chiusa, stretta tra le valli e i capannoni industriali. La docu-serie sembra non tralasciare nulla: dal primo incriminato - il tunisino Mohammed Fikri - erroneamente incolpato a causa di una traduzione sbagliata dall’arabo al rinvenimento di Dna maschile sugli indumenti della vittima, dall’indagine a tappeto condotta sull’intera popolazione della valle alle intuizioni dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo (tra le persone intervistate), fino al ruolo sempre più centrale dell’avvocato difensore Claudio Salvagni, tra le voci che maggiormente emergono nella narrazione. E, naturalmente, la scoperta del cosiddetto “Ignoto 1”, riconducibile a quel Giuseppe Guerinoni scomparso nel 1999 di cui vengono a galla vizi, scappatelle, liaisons segrete con le donne della zona, tra cui Ester Arzuffi, madre di Bossetti che nel giro di poche ore scopre di essere figlio illegittimo e accusato di omicidio. Allo stesso tempo, vengono riproposti scenari che parevano dimenticati, come il ruolo dell’allenatrice Silvia Brena o del custode Valter Brembilla, entrambi non ascoltati a fondo dagli inquirenti secondo le teorie degli innocentisti. Quello di Yara Gambirasio è stato un delitto che ha alimentato morbosità, stupore, destato istinti e pettegolezzi, giocato letteralmente sul corpo di un’adolescente divenuta suo malgrado emblema di una psicosi collettiva e di una spietatezza incomprensibile. Facile immaginare che i media l’avrebbero cavalcata. E, infatti, Il caso Yara è anche un’operazione, peraltro già riuscita altre volte alle docu-serie originali della piattaforma Netflix, che senza voler giudicare riesce comunque a offrire uno spaccato impietoso del ruolo dell’informazione, “il male necessario” come lo definisce un giornalista Mediaset intervistato nella serie: tra le immagini d’archivio scorrono i Vespa, i Mentana, i Telese (tra gli intervistati “illustri”, lui che si occupò ampiamente del caso ai tempi di “Matrix” su Canale 5), i giornalisti e conduttori delle tv locali, a loro volta vittime inconsapevoli di manipolazioni più o meno esplicite, come il video del furgoncino di Bossetti ripreso nei pressi della palestra, “costruito ad arte” dalla procura per orientare la stampa. Nel mezzo di una vicenda che non sfigurerebbe come sceneggiatura di un romanzo noir (tanto da aver ispirato un episodio della celebre serie statunitense Law & Order), si scontrano mondi diversi: quello composto e religioso della famiglia Gambirasio, con i messaggi struggenti della madre alla segreteria telefonica della figlia, quello di Bossetti con le sue manie estetiche, al punto da apparire più preoccupato che si scopra la sua passione per le “lampade” abbronzanti che per le conseguenze future, oppure ancora quello della pm Letizia Ruggeri, con i suoi sorrisi che suonano beffardi, la sua ostinazione che al fondo rivela anche una lunga catena di errori e ritardi, al punto che, come dice Telese, “a un certo punto serviva la parola “fine”, serviva un colpevole”. Siamo nell’era dell’ossessione per il true crime, le storie di cronaca e delitti che hanno attraversato le biografie di una nazione e che oggi vengono riproposte in forma serializzata attraverso linguaggi diversi: libri, podcast, documentari, talk show, pillole social. Il true crime funziona perché innesca la nostra emozione più profonda, la paura, ha scritto Scott Bonn in Why we love serial killers (Perché amiamo i serial killers). La storia della “povera” Yara non poteva sfuggire a questa nuova riattualizzazione; e come spesso accade, la vittima sembra scivolare progressivamente in secondo piano, relegata sullo sfondo di un male che non ha spiegazione e a cui non riusciremo mai a dare una vera risposta. Migranti. Strage di Cutro, omissioni e silenzi: per i pm “si poteva evitare” di Simona Musco Il Dubbio, 24 luglio 2024 Chiuse le indagini sulla catena dei soccorsi: i magistrati di Crotone mettono sotto accusa sei uomini della Guardia costiera e di finanza per il naufragio di almeno 98 migranti sulla costa calabrese. Morti evitabili. Con un po’ di accortezza, la strage di Cutro non sarebbe mai stata raccontata, semplicemente non sarebbe avvenuta. È questa la conclusione a cui è giunta la procura di Crotone, che ha chiuso le indagini sulla catena dei soccorsi dello sbarco del 26 febbraio 2023, quando l’impatto della “Summer Love” contro una secca a pochi passi dalla riva costò la vita ad almeno 98 migranti, molti dei quali giacciono ancora sul fondo del mare. Per il pm Pasquale Festa e il procuratore Giuseppe Capoccia, i sei indagati avevano “tutti e indistintamente il prioritario, fondamentale e ineludibile obbligo di salvaguardare la vita in mare”. Con la Guardia di Finanza che aveva l’obbligo di comunicare (e la Capitaneria di Porto di acquisire) “tutte le informazioni idonee ad incidere sulla valutazione dello scenario operativo”. Cosa che non è avvenuta, causando una delle peggiori stragi che il Mediterraneo ricordi. L’accusa è pesantissima: naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. A finire sul registro degli indagati G. G., capo turno della sala operativa del Comando provinciale della Guardia di Finanza e del Roan di Vibo Valentia: A. L., comandante del Roan di Vibo Valentia, che aveva il compito di monitorare ed intercettare il “Summer Love” e il potere di avocare le operazioni; A. L., ufficiale in comando tattico e controllo tattico presso il Roan di Vibo Valentia; N. V., comandante del Gruppo aeronavale di Taranto, deputato a impartire ordini al pattugliatore Barbarisi, dislocato sul territorio di Crotone; F. P., ufficiale di ispezione in servizio presso il Comando generale delle Capitanerie di Porto a Roma e N. N., ufficiale di ispezione in servizio la notte tra il 25.02.2022 e il 26.02.2023 al Comando generale di Reggio Calabria. Stando a quanto ricostruito dalle indagini, Frontex aveva segnalato, il 25 febbraio, la presenza di un natante “verosimilmente adibito al trasporto di migranti clandestini”, diretto verso le coste calabresi e intercettato a circa 38 miglia nautiche da Le Castella, in condizioni di “buona galleggiabilità”. Il comando generale della Guardia costiera ha qualificato l’intervento come operazione di polizia, attribuendo la competenza al Reparto operativo navale delle Fiamme Gialle di Vibo Valentia. Che, scrive il pm, avrebbe dovuto “effettuare il monitoraggio occulto del “target” in avvicinamento, per poi intervenire direttamente alle 12 miglia”, come previsto da decreti e accordi, secondo cui la priorità è sempre quella di salvare vite. La Guardia costiera aveva dato la disponibilità ad impiegare, autonomamente o in ausilio, “assetti certamente operativi e che potevano navigare senza alcune difficoltà”. Ma per “grave negligenza, imprudenza, imperizia, in violazione del regolamento Ue 656/2014” e delle norme tutto ciò non è avvenuto. Ad ognuno la procura contesta singoli comportamenti che legati a quelli degli altri (o alle loro omissioni) avrebbero portato alla tragedia. Nello specifico l’ufficiale in comando tattico del Roan, una volta ricevuta la segnalazione da Frontex, ha spedito in mare un’unità che non avrebbe potuto navigare date le condizioni meteo marine - mare forza 4 e vento burrasca da sud forza 7 con previsioni in peggioramento -, cosa di cui era “perfettamente conscio”. Ma non solo: pur allertando Reggio Calabria per un eventuale supporto, ha omesso di assicurarsi che la Capitaneria fosse informata delle condizioni di navigazione, ignorando le offerte di aiuto arrivate dalla Guardia costiera, nonostante la vedetta fosse già rientrata in porto. La nave, da un certo punto in poi, non è stata più monitorata e l’ufficiale avrebbe atteso “inerte” che N. V. ordinasse l’impiego del pattugliatore Barbarisi “all’ultimo momento utile per intercettare il target in prossimità della costa, anziché all’ingresso delle acque territoriali”. Dal canto suo, il comandante del Roan avrebbe potuto, in ragione del ritardo accumulato, avocare a sé l’operazione, cosa che però non ha fatto. Nessuno ha comunicato a Reggio Calabria le difficoltà di navigazione - “diciamo che per il momento è un’attività di polizia che gestiamo”, era stato riferito -, nonostante l’unità della Finanza stesse già rientrando in porto, “celando negligentemente informazioni che, se conosciute, avrebbero (o avrebbero dovuto) comportare l’attivazione del piano Sar”. Il Barbarisi, dal canto suo, è stato mandato per mare solo alle 2.05, accumulando un ritardo di oltre due ore, il tutto per la “precisa e negligente scelta operativa di impartire l’ordine di navigazione all’ultimo minuto”. Nessuno, dai posti di controllo, ha approfondito i ritardi, le condizioni meteo, le attese, le scelte che hanno impedito che quelle persone venissero salvate, scelte che, secondo la procura, ne hanno provocato la morte. Se qualcuno avesse agito come dovuto, la Guardia di Finanza avrebbe messo in mare mezzi “sicuramente idonei a navigare in sicurezza, servendosi dei quali personale dello Stato avrebbe, una volta acquisito a vista il “target”, constatato la presenza di almeno 180 persone a bordo del caicco “Summer Love”, numerose delle quali minori e neonati, con conseguente applicazione del piano Sar scenario Detresfa, impedendo in tal modo che il caicco fosse incautamente diretto dagli scafisti verso la spiaggia di Steccato di Cutro e, in prossimità dell’approdo, si sgretolasse, urtando contro una “secca” a seguito di una manovra imperita del timoniere, così non impedendo l’affondamento del natante e la conseguente morte di almeno 98 persone, decedute tutte per annegamento”. Morti che nessuno avrebbe mai dovuto piangere. La ricostruzione della strage - Il caicco che si era schiantato su una secca a pochi metri dalla costa, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023. Secondo la ricostruzione, Frontex, nella tarda serata di sabato, avvisa il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo della presenza del barcone a 40 miglia dalle coste calabresi. L’agenzia europea parla di un uomo solo sul ponte, ma anche di una significativa risposta termica dai boccaporti aperti a prua e di una telefonata satellitare dalla barca alla Turchia, elemento che fa ipotizzare che si tratti di una imbarcazione di migranti. Una comunicazione arriva poi anche dalla Guardia di Finanza, che spedisce due motovedette in mare. Ma si tratta di un’operazione di polizia, dunque non adeguata al salvataggio, che si conclude poco dopo per vie delle avverse condizioni meteo. Fino a questo momento nessuno apre un evento Sar, che consentirebbe il salvataggio dei migranti. Una volta rientrate in porto le motovedette, la Finanza contatta via radio la Capitaneria di Porto di Reggio Calabria. Ma nemmeno in questo caso vengono “segnalate situazioni critiche” tali da far scattare “un’operazione di emergenza”. Alle 4.10 arriva al 112 una telefonata da un numero internazionale, in inglese. E a quel punto i Carabinieri si precipitano in spiaggia, dove già affiorano i primi corpi. Il vicebrigadiere Gianrocco Tievoli e il carabiniere Gioacchino Fazio si gettano in acqua, salvano cinque migranti, ma tutto attorno ci sono corpi, compreso quello di un neonato di sei mesi. La lezione norvegese per migliorare il disumano sistema penitenziario italiano di Enrico Varrecchione linkiesta.it, 24 luglio 2024 In Norvegia, il tasso di recidiva dei detenuti è significativamente più basso rispetto all’Italia. Era già passata la mezzanotte che separava l’undici e il dodici luglio, quando la rivolta nel carcere di Trieste si era placata. Dopo il caos, le coperte incendiate dai detenuti e il gas lacrimogeno adoperato dalla polizia, rimaneva un quarantottenne a terra nella propria cella. Overdose di metadone. La storia ricorda i numerosi episodi di rivolta nelle carceri a ridosso dell’emergenza Covid, con tredici vittime e settantadue casi di evasione. Non è una storia recente, la questione della sostenibilità delle carceri italiane è una delle questioni più vecchie nel dibattito politico e non è necessario andare fino al “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Ancora il 24 maggio 1901, in un commento su La Stampa adiacente alla notizia del suicidio (oggi considerato presunto) del regicida Gaetano Bresci, comparivano queste righe. “La dimora nel carcere cellulare peggiora queste influenze, sia provocando”… “il cosiddetto delirio carcerario” … “sia acuendo la tendenza suicida”…”Recentemente, l’illustre Canevalli, il direttore delle carceri italiane, ha con un dotto studio dimostrato l’immensa prevalenza della pazzia del suicidio o della pazzia nelle carceri cellulari in rapporto alle comuni”. Queste righe erano frutto della mente di Cesare Lombroso, non certo un garantista, le cui teorie sono state ampiamente smentite, e che nonostante tutto aveva individuato una caratteristica della detenzione ancora comune oggi, quella del disagio che contribuisce all’aumento dei suicidi. La questione entrerà nel vivo del confronto politico solo con l’avvento della Repubblica, e una delle prime ispezioni della Commissione Parlamentare apposita, istituita per volontà del liberale Giovanni Persico, conclude la sua relazione nel 1951, con l’auspicio di umanizzare la pena per i detenuti. Non è una faccenda di facile risoluzione, perché fra la necessità di migliorare le condizioni di vita nelle carceri e la attuazione, si pongono in mezzo quesiti di natura etica, legale e politica: è difficile, se non impossibile, imbastire un dibattito sulla riforma carceraria quando una freccia all’arco di chi si oppone sono le condizioni di vita di numerosi italiani incensurati, ed è ancora più difficile in considerazione della presenza di organizzazioni mafiose ricche di risorse, spietate e che non si sono fatte remore nel dichiarare guerra allo stato, alla legalità e ai cittadini che la mettono in pratica. Il perché questo dibattito assume costantemente rilevanza lo spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione per l’organizzazione non governativa Antigone: “Nei paesi democratici le persone non vanno in carcere perché sono cattive, nei paesi democratici non c’è infatti la polizia morale. Si va in carcere perché si sono violate le leggi, e proprio per questo è importantissimo che il carcere, struttura pericolosamente opaca, rispetti le proprie stesse leggi. Cosa già non facile, ma che da sola non basta”. Poi si pone una serie di quesiti: “A cosa mirano queste leggi? Qual è in un certo ordinamento la funzione della pena, e in particolare della pena detentiva?” Ogni tanto, in quelle redazioni che faticano a trovare contenuti originali e sono costrette a scartabellare i video più popolari su TikTok, riciccia fuori la storia della prigione di Halden, ovvero un carcere di alta sicurezza in Norvegia, la cui struttura è improntata al recupero dei detenuti, anche in virtù dell’assenza dell’ergastolo dal codice penale norvegese, circostanza che, almeno in teoria, potrebbe permettere al terrorista di estrema destra Anders Behring Breivik (responsabile di settantasette morti) di uscire di prigione nel 2032 a cinquantatré anni, e il fanatista islamico Zaniah Matapour (autore di due omicidi durante il Pride del 2022) nel 2052 a settantatré anni, in questo caso perché la pena massima per atti terroristici è stata aumentata da ventuno a trenta anni. In entrambi i casi, una commissione potrà disporre la prosecuzione del carcere qualora fosse evidente il rischio di reiterazione. Al di là dei due casi più famosi, le carceri norvegesi, come quelle italiane e di buona parte del pianeta, sono caratterizzate dalla presenza di piccoli criminali, spesso con problemi di tossicodipendenza, con situazioni familiari borderline e senza molte risorse per poter uscire da questa spirale. Ma se le caratteristiche della popolazione carceraria sono simili, cosa rende diversa la Norvegia? Cosa permette a questo paese di poter fare a meno dell’istituto dell’ergastolo, e soprattutto quali sono le conseguenze di un sistema carcerario ritenuto a misura d’uomo? Un motivo che spiega perché questo fenomeno sia interessante, sta nei numeri: secondo le statistiche delle Nazioni Unite per ogni centomila abitanti, la Norvegia ha una media di 0.55 omicidi all’anno (un dato simile a quello italiano), una trentina di aggressioni con lesioni gravi, un dato in calo costante da quasi due decenni (in Italia è un dato spesso superiore al centinaio), circa settanta detenuti (in Italia sono circa novanta) e una delegazione del Ministero della Giustizia Italiano, nel 2015, ha stimato il tasso di recidiva entro i quattro anni del trentacinque per cento (in Italia il dato complessivo è quasi il doppio). Ancora Scandurra: “In Italia, in base all’art. 27 della Costituzione, le pene devono sempre tendere alla rieducazione del condannato. Una finalità che in pochi contestano, anche a tutela della sicurezza di tutti noi, ma i dati sulla recidiva di chi esce dal carcere citati sopra ci dicono come stanno effettivamente le cose. E su questo probabilmente il nostro paese ha molto da imparare da alcune esperienze straniere”. Per capire se questo sistema è applicabile all’Italia, e se può essere giustificato da elementi che vanno oltre la semplice vivibilità di un istituto penitenziario, è necessario verificare sul campo, e farlo, possibilmente, con chi conosce bene l’ambito in un paese, la Norvegia, che sta affrontando proprio in questo periodo un allarme legato alla criminalità organizzata gestita nei quartieri ad alta concentrazione di immigrati e spesso legata alla vicina di casa Svezia, dove il fenomeno è pressoché fuori controllo ed è già costato la vita a numerose persone innocenti. Le tre puntate successive in questa serie di articoli coincideranno con lo stesso percorso ipotetico di un detenuto, partendo con l’attività criminale e la relativa condanna, la fase di detenzione e infine il riottenimento della libertà e le opportunità e le sfide che questa persona si potrebbe ritrovare ad affrontare una volta fuori dal carcere. In queste puntate interverranno criminologi, volontari, funzionari delle organizzazioni di riferimento, detenuti ed ex detenuti. A fare compagnia, il sottofondo di un esperimento che va avanti ormai da sette anni, ovvero quello di una trasmissione radiofonica, oggi diventata podcast, che racconta il proprio quotidiano fra le mura di un carcere o di chi ci è appena passato e che è diventato uno strumento di grandissima importanza per misurare la qualità della vita sulla base di elementi a volte dati per scontati, come la presenza di un amico, di un partner, di un buon piatto o di posate per poterlo consumare. Racconta di un luogo dove il tempo si ferma (è forse l’unico luogo al mondo dove hanno ancora senso di esistere le riviste pornografiche), e, quando arriva il momento di uscire, l’impatto con la realtà può essere straniante. A volte è una nuova tecnologia che non esisteva fino a qualche tempo prima, a volte può essere un’organizzazione di volontariato pronta all’accoglienza. E con il prezioso contributo di Alessio Scandurra, sarà possibile mettere di fronte la proposta norvegese al contesto italiano.