Le nostre carceri sono disumane. Il Governo pure di Glauco Giostra Il Domani, 23 luglio 2024 Non esistono interventi risolutivi, ma quando ci si rifiuta di incrementare la prevista riduzione di pena per i condannati meritevoli, impedendo anche a questo refolo di speranza di insinuarsi nell’aria stagnante e marcia dei penitenziari, si resta increduli. È almeno dall’inizio di questo millennio che la situazione carceraria italiana è indegna di un paese civile. L’attuale governo è riuscito nell’ardua impresa di peggiorarla. Ma quel che più risulta inaccettabile è la sordità etica e politica rispetto all’incessante grido di sconforto, di solitudine e di paura che proviene da quel mondo socialmente rimosso; rispetto a quei commoventi, disperati tentativi di restituire umanità e dignità alla propria vita, togliendosela. Speranza negata - Non esistono, beninteso, interventi risolutivi, ma quando ci si rifiuta di incrementare la prevista riduzione di pena per i condannati meritevoli, impedendo anche a questo refolo di speranza di insinuarsi nell’aria stagnante e marcia dei penitenziari, si resta increduli. Letteralmente sconcertati, poi, quando si conoscono le ragioni del rifiuto: lo stato in tal modo dimostrerebbe debolezza. A parte che se si aumentasse di un paio di settimane l’attuale riduzione semestrale di pena conseguente ai progressi di riabilitazione sociale dimostrati non si elargirebbe alcuna regalia, ma si adeguerebbe doverosamente lo sconto di pena al maggiore, illegale coefficiente di indebita afflittività che la sua esecuzione da tempo comporta. L’immagine dello Stato - Piuttosto, a chi afferma di aver tanto a cuore l’immagine dello stato verrebbe da chiedere cosa è stato fatto per cercare di rendere meno inguardabile l’immagine di uno stato condannato quasi cinquemila volte in un anno per trattamento inumano e degradante delle persone che tiene recluse; di uno stato in cui più di centomila condannati sono liberi (cosiddetti “liberi sospesi”) in attesa di sapere se debbono scontare la loro pena in carcere o con misure extracarcerarie; di uno stato nei cui penitenziari si suicidano dieci detenuti al mese e si registrano numerosissimi gesti di autolesionismo e tentativi di suicidio (per non parlare del contesto ostile e mortificante in cui debbono operare gli agenti di custodia); di uno stato che ha già subito due mortificanti condanne dalla Corte europea del diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante delle persone detenute (caso Sulejmanovic del 2003; caso Torreggiani del 2013) e che si appresta - con sconfortante cadenza - a subirne una terza. Principio autoritario - La risposta si trova, più che in qualche dichiarazione di circostanza, in alcuni provvedimenti con cui si è ritenuto di affrontare la tragica situazione: un’assunzione di mille agenti di custodia, l’introduzione del reato di rivolta carceraria, la proposta di eliminare il reato di tortura, la costruzione di nuovi penitenziari, l’”esportazione” di alcuni condannati nei loro paesi di origine. Quello che si vuole, dunque, è riaffermare l’immagine di uno stato autoritario, in grado di imporre nello stabulario penitenziario ordine e obbedienza. Una concezione della pena non lontana da quella enunciata baldanzosamente dal direttore del carcere nel film Fuga da Alcatraz: “Noi non creiamo buoni cittadini. Però creiamo dei buoni detenuti. Alcatraz è stata fatta per tenere tutte le uova marce in un paniere solo; e io sono stato scelto appositamente per garantire che non fuoriesca la puzza, da questo paniere”. Contro la Costituzione - Se poi in tal modo ci si pone in aperto contrasto con la Costituzione, alla cui stregua “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 comma 3), vorrà dire che si dovrà ridisegnare, coerentemente, l’art. 27 della Costituzione, in modo da evitare che continui a essere “il grimaldello culturale di chi ha lentamente eroso la certezza della pena facendo leva su gargarismi garantistici a scapito del valore di difesa sociale e di prevenzione generale della pena” (onorevole Andrea Delmastro Delle Vedove). È questo l’aspetto democraticamente più insidioso di un tale orientamento politico, che viene disinvoltamente sintetizzato con stucchevole psittacismo nell’ambigua espressione “certezza della pena”. Ottica ingannevole - Non sappiamo se per calcolo o per erronea convinzione si è riusciti a far passare l’idea che la chiusura ermetica dei condannati nel contenitore carcere sino all’ultimo giorno di pena da scontare sia una garanzia di sicurezza sociale. Tutte le esperienze e gli studi al riguardo dimostrano, al contrario, che la prospettiva di un meritato, graduale ritorno in libertà della persona detenuta, unitamente a un sostegno e a un controllo nella delicata fase della “convalescenza sociale” subito dopo le dimissioni dal carcere, è la migliore garanzia contro la recidiva. Un’ottica ingannevole quella che contrabbanda per sicurezza sociale il divieto di abbassare qualsiasi ponte levatoio tra carcere e società nel corso dell’espiazione della pena: prima o poi il detenuto dovrà tornare definitivamente in libertà e non dipenderà da quando, bensì da come vi farà ritorno la sua propensione a delinquere ancora. Ma, come insegnava Christa Wolf nella Medea, “non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci”. Abbiamo invano sperato che un piccolo varco in questa ottusità securitaria potessero aprirlo le scultoree parole espresse dal presidente Sergio Mattarella nel suo ultimo discorso di insediamento dinanzi al parlamento “dignità è un paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Un discorso tanto diligentemente applaudito, quanto scrupolosamente ignorato. Impiccati al carcere. La brutale semplificazione che affida ogni problema alla giustizia penale di Carlo Fusi La Ragione, 23 luglio 2024 In Italia è in atto una carneficina tanto plateale quanto intollerabile. È quella dei suicidi in carcere. Quest’anno finora ce ne sono stati 58, uno ogni tre giorni. Vanno aggiunte sei guardie carcerarie che si sono tolte la vita: una al mese, vittime di un circuito tremendo e crudele, esistenze sacrificate sull’altare della pena di chi custodisce e di chi è custodito. à un massacro che promette di non arrestarsi e che si nutre di spietatezza soprattutto adesso, in estate, quando il caldo rende la detenzione una abominevole tortura: secondo il Garante dei detenuti, il sovraffollamento carcerario ha raggiunto il 130%. Cifre, aride e agghiaccianti. Che però, per quanto appaia inverosimile, non sono l’elemento più grave. Che è un altro: l’indifferenza. Di quel che succede negli istituti di pena non importa infatti a nessuno, tranne ai Radicali di ieri e di oggi. Non ai cosiddetti operatori di giustizia, che spediscono dietro le sbarre fiumane di persone allargando le braccia: che possiamo fare, c’è la legge che lo impone e l’azione penale è obbligatoria. Poi succede che una valanga di indagati - quasi sempre i più deboli, quelli che non possono permettersi un avvocato, gli stranieri - dopo aver passato mesi o addirittura anni in restrizione vengano prosciolti o assolti. Segnati per sempre da una esperienza intrisa di ferocia, nel corpo e nell’anima. Ma tanto chi se ne frega, no? Non importa a una opinione pubblica mai sazia di sangue vendicativo, che pulisce (col vetriolo, pazienza) la coscienza dei “buoni”; eccitata da invettive che arrivano dall’alto e dal basso verso chi deve ‘marcire in prigione’. Un sentiment a sua volta attizzato alla grande dai media, che esultano quando possono dire che il killer (con l’aggiunta di “presunto”, per una insopportabile forma di ipocrisia) è uscito di galera, che il corrotto è finito in manette, che il personaggio pubblico è nei guai giudiziari. Un accanimento - quello di giornali, tv e social - tanto generico quanto illimitato, privo di bilanciamento: se parte l’accusa, titoloni e strombazzamenti; se arriva il verdetto di innocenza, un trafiletto e meglio ancora niente, tanto nessuno paga. Se poi arriva una misura “svuota-carceri”... lasciamo perdere. La presunzione di innocenza, fulcro di una civiltà che ripudia la legge del taglione, è un trastullo da dibattiti tv. Il precetto costituzionale della rieducazione del reo, un orpello da bruciare sul falò della punizione esemplare. I tre gradi di giudizio, un soffocante laccio burocratico. I processi arrivano anni dopo le indagini, mentre la macchina del fango spappola vite, reputazioni, onorabilità. Perché ci siamo ridotti così? Le ragioni sono tante e affondano le radici nella brutale e assassina semplificazione che negli ultimi cenni ha avvolto l’Italia come un raccapricciante sudario: l’iperpenalizzazione, convinzione che serva una legge - non importa di che genere - per risolvere d’incanto i mali del Paese e che l’affidamento al circuito giudiziario del compito di bonificare le piaghe della società sia la mossa che monda e salvifica. E scarica le responsabilità. Così nelle celle si celebra la liturgia dell’idoneo castigo. Ragazzi vengono messi a contatto con mafiosi e ‘ndranghetisti e molti scelgono di impiccarsi. Un muto grido di angoscia che non vogliamo sentire, meglio andare al mare. Organismo forense: umanizzare le carceri sia priorità del Governo Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2024 Per Elisabetta Brusa, Componente del Dipartimento Pari Opportunità e Uguaglianza di OCF: “le recenti misure sono certamente apprezzabili ma assolutamente insufficienti per affrontare le emergenze”. L’Organismo Congressuale Forense (OCF) continua ad appellarsi al Governo, alle forze politiche e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria affinché si adottino urgenti soluzioni per migliorare le condizioni del sistema penitenziario del Paese. Le richieste diventano sempre più pressanti alla luce del grave fenomeno dei suicidi in carcere (54 dall’inizio dell’anno, uno ogni due giorni), del sovraffollamento (gli istituti penitenziari ospitano circa il 130% della loro capienza regolamentare) e della crisi generale del sistema carcerario. Il recente decreto-legge adottato dal Consiglio dei Ministri, recependo le richieste di intervento sollecitate anche dall’Organismo Congressuale Forense è un primo passo, ma è ritenuto insufficiente dall’organismo espressione dell’Avvocatura italiana. “L’assunzione di mille unità del Corpo della polizia penitenziaria e l’incremento del personale operativo in ambito penitenziario e minorile, e l’istituzione dell’elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale per i detenuti senza domicilio idoneo sono certamente misure apprezzabili, ma non è un provvedimento assolutamente sufficiente per affrontare le attuali emergenze” - Elisabetta Brusa, Componente del Dipartimento Pari Opportunità e Uguaglianza di OCF. “L’OCF propone al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - continua Brusa - di individuare, in ogni istituto penitenziario, una figura professionale di riferimento nell’area giuridico-pedagogica. Questo referente potrà essere contattato dagli avvocati per segnalare criticità relative ai propri assistiti che necessitano di un intervento immediato. Torniamo a chiedere con ancora più decisione che di fronte alle condizioni disumane e allarmanti delle carceri italiane, il Governo si impegni a velocizzare le procedure per la concessione e l’ottenimento del beneficio della liberazione anticipata o di misure alternative per i condannati, in conformità con le leggi vigenti e i principi costituzionali più volte richiamati dall’avvocatura. Inoltre, si richiede l’adozione urgente di misure che umanizzino le condizioni di vita nelle strutture carcerarie, vigilando sui diritti dei detenuti e contribuendo a contenere il rischio di suicidi”. Lettera del Presidente Arci a sostegno della legge Giachetti di Walter Massa* L’Unità, 23 luglio 2024 L’Arci è attiva nelle carceri con operatori e volontari, tocchiamo con mano la disperazione dei detenuti. Servono provvedimenti urgenti. Gentilissime, gentilissimi, com’è noto, la situazione delle persone private della libertà detenute nel nostro Paese è davvero al limite per le condizioni disastrose dovute al sovraffollamento e al mancato investimento in ammodernamento delle strutture, nell’aumento di operatori per il sostegno psicologico e medico, nello scarso utilizzo delle pene alternative alla reclusione. Il numero terribile di persone che si sono suicidate in carcere è il segnale chiaro e drammatico di quanto la situazione sia arrivata al limite. L’Arci è attiva con i suoi operatori e volontari in diversi istituti di pena e tocchiamo con mano ogni giorno quale sia la disperazione dei detenuti e delle loro famiglie ma anche l’estrema difficoltà del personale penitenziario a rispondere prontamente alle emergenze quotidiane. Per questo ci associamo ai Garanti territoriali per i Diritti dei Detenuti, alle Camere Penali, alle tante associazioni di volontari e di famigliari delle persone ristrette, perché si definiscano provvedimenti urgenti per migliorare la situazione, oltre alle misure in discussione previste dal decreto cosiddetto “Carcere Sicuro”. Vi scrivo questa lettera a nome di tutti i volontari, operatori, soci dell’Arci che hanno a cuore la dignità di tutte le persone e la tutela dei diritti umani, soprattutto per quelle donne e uomini che stanno scontando una pena o sono in attesa di giudizio e che sono prese in custodia dallo Stato italiano negli istituti di pena di ogni ordine e grado. Vi scrivo per chiedervi di sostenere positivamente la proposta di legge il cui primo firmatario è l’Onorevole Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale “Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di concessione della liberazione anticipata, e disposizioni temporanee concernenti la sua applicazione” (552)”. La proposta di legge può essere riassunta sinteticamente in due punti fondamentali: detrazione di pena, ai fini della liberazione anticipata, passerebbe da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata; prevede per i due anni successivi alla data di entrata in vigore della legge l’ulteriore elevazione della detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 60 a 75 giorni. Questo provvedimento non risolverà ogni problema del nostro sistema carcerario ma contribuirà efficacemente a migliorare la situazione di drammatica urgenza e darà una speranza alle persone private della libertà che hanno scontato la loro pena. Vi ringrazio dell’attenzione e vi auguro un buon lavoro. *Presidente nazionale dell’ARCI Il piccolo Giacomo non vivrebbe a Rebibbia se ci fosse la legge Siani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2024 La norma prevedeva la custodia negli Icam solo in casi eccezionali, privilegiando le case famiglia per le madri detenute con figli al seguito. Ma in Parlamento c’è il dl sicurezza. La storia del piccolo Giacomo (nome di fantasia), un bambino di soli due anni recluso nel carcere di Rebibbia insieme alla madre, ha riportato all’attenzione pubblica il delicato tema della detenzione di minori nelle carceri italiane. Un articolo di Alessandra Ziniti su La Repubblica ha evidenziato questa problematica, sollevando questioni etiche e urgenti necessità di riforma del sistema penitenziario. Secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dap al 30 giugno, ci sono 23 detenute madri con 26 minori al seguito. Giacomo non corre e quasi non parla: “apri” e “chiudi” sono le due parole che ripete, oltre a “mamma” e “pappa”, quelle che sente dire di più dentro la cella nella quale sta crescendo e nella quale è recluso ormai da dieci mesi insieme alla sua mamma, una 30enne italiana accusata di reati minori. Anche il papà è detenuto e Giacomo lo incontra una volta a settimana nell’altra ala dell’istituto. Di lui si occupa una volontaria dell’associazione “A Roma insieme-Leda Colombini” che tre volte a settimana lo accompagna in un nido, dove può incontrare altri bambini. La situazione carceraria in Italia è da tempo oggetto di critiche per diverse ragioni, tra cui il sovraffollamento, la mancanza di adeguati percorsi di reinserimento e la sicurezza insufficiente per gli agenti penitenziari. La presenza di bambini dietro le sbarre aggiunge un ulteriore elemento di preoccupazione a questo quadro già complesso. Ora all’esame in Parlamento c’è il disegno di legge Sicurezza che fa venir meno l’obbligo delle misure alternative per donne con figli minori di un anno. Ma Forza Italia, che ha già presentato al provvedimento 9 emendamenti e un ordine del giorno, fa sapere, attraverso il suo capogruppo Maurizio Gasparri, di essere pronta a discutere della norma. In risposta al caso di Giacomo, un gruppo di senatori del Partito Democratico - Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando, Walter Verini e Cecilia d’Elia - ha annunciato una visita ispettiva al carcere di Rebibbia. I parlamentari hanno espresso la loro preoccupazione e sottolineato la necessità di porre fine a questa pratica, proponendo alternative come le case famiglia. Il pensiero va inevitabilmente alla proposta di legge Siani della scorsa legislatura, che purtroppo non ha visto luce. La deputata Serracchiani del Pd l’ha ripresentata nell’attuale legislatura, ma è stata di fatto affossata con emendamenti peggiorativi da parte della Lega e alla fine è stata ritirata. La legge avrebbe consentito la custodia in istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam), solo in casi di eccezionale rilevanza, privilegiando invece l’uso di case famiglia. La proposta prevedeva anche modifiche al codice di procedura penale, rafforzando il divieto di detenzione per madri con bambini piccoli e regolamentando l’uso degli Icam. Inoltre, si proponeva di obbligare il ministero della Giustizia a individuare strutture idonee come case famiglia protette e di impegnare i comuni nel reinserimento sociale delle detenute dopo l’espiazione della pena. La proposta di Legge Siani mirava a garantire il rapporto tra il bambino e la propria madre in un ambiente non detentivo. Tale ambiente non può che essere la casa famiglia, di cui purtroppo ne esistono soltanto due in Italia: una a Roma e l’altra a Milano, grazie soprattutto agli enti privati, e ognuna può ospitare sei adulti e otto bambini. Questo perché è escluso qualsivoglia onere a carico del ministero della Giustizia. La proposta affossata, invece, responsabilizzava il ministero ad erogare risorse. Le case famiglia hanno la peculiarità di trovarsi in località dove è possibile l’accesso ai servizi territoriali, socio-sanitari e ospedalieri, e possono fruire di una rete integrata a sostegno sia del minore sia dei genitori. Le strutture hanno caratteristiche tali da consentire agli ospiti una vita quotidiana ispirata a modelli comunitari, tenuto conto del prevalente interesse del minore. L’Icam, l’istituto a custodia attenuata, non è adatto perché prevede restrizioni come un carcere vero e proprio: sono cinque (Cagliari, Lauro, Milano, Torino e Venezia) e hanno una capienza di 60 posti. Non ha le sembianze di un penitenziario, ma è pur sempre una struttura detentiva con tutte le criticità che esso comporta. Il resto dei bambini è in carcere. Di fatto, è impensabile che un bambino libero debba mettere piede dentro un carcere e vivere lì accanto alla madre, in un luogo che è sempre di detenzione, senza ricevere quei normali stimoli esterni, con il rischio di contrarre malattie che lo segneranno per il resto della sua vita. I bambini in carcere sono una vergogna da cancellare partitodemocratico.it, 23 luglio 2024 “Siamo andati nella sezione nido del carcere di Rebibbia femminile per incontrare di persona ‘Giacomo’, innocente assoluto di due anni e sua madre. Un’esperienza drammatica, com’è sempre la visita al nido di un carcere. Al momento in quello di Rebibbia ci sono tre bambini, che abbiamo incontrato e di cui dalle madri abbiamo ascoltato le storie, molto diverse fra di loro. Ma simile è la sofferenza. È inaccettabile che ci siano bambine e bambini nelle nostre carceri. Sulla situazione particolare di Rebibbia verificheremo con i garanti territoriali quali possono essere le soluzioni da perseguire. Da questa settimana come senatori saremo impegnati nella discussione del decreto carceri, che inizia il suo iter a Palazzo Madama. Un decreto vuoto, che non affronta l’emergenza carceri e il sovraffollamento. I nostri emendamenti intervengono per umanizzare davvero le carceri, per riempire quel vuoto e anche per liberare finalmente i bambini dal carcere. Continueremo la nostra battaglia per abolire questa situazione crudele, aumentare le case famiglia e gli istituti a custodia attenuata. Ci auguriamo che le forze di maggioranza accolgano queste nostre proposte, che sono proposte di civiltà”. Così la senatrice Cecilia D’Elia e il senatore Walter Verini, i parlamentari del Pd che, insieme a Gianni Cuperlo, hanno visitato il piccolo e la madre nel carcere di Rebibbia. Il caso del bambino recluso con sua madre nel carcere romano era stata portata alla luce da un articolo di Repubblica, ma l’attenzione del Partito democratico su questo tema non nasce oggi. Già nella passata legislatura, era stata presentata una proposta di legge, a prima firma Paolo Siani, a tutela dei bambini costretti a vivere tra le sbarre insieme alle madri detenute, prevedendo destinazioni presso le case famiglia o gli istituti a custodia attenuata. Il testo, però, approvato a Montecitorio, non era approdato al Senato a causa della fine anticipata della legislatura. Di nuovo presentata all’inizio della corrente legislatura, era stato poi ritirato a seguito delle modifiche apportate in Commissione Giustizia dalla maggioranza di governo, che snaturavano del tutto la proposta originaria. La destra si spacca sulla proposta Giachetti di Stefano Iannaccone Il Domani, 23 luglio 2024 Il voto segreto sul testo che facilita gli sconti di pena, per combattere il sovraffollamento, preoccupa la maggioranza. Al Senato pericoli paralleli sul decreto che per Nordio deve “umanizzare le carceri”. A dispetto delle garanzie sull’unità di intenti, le condizioni nelle carceri contrappongono la rigidità di Fratelli d’Italia e della Lega al garantismo di Forza Italia. Ancora una volta, comunque, lo scontro più acceso è tra il partito di Matteo Salvini e quello di Antonio Tajani, con Giorgia Meloni a metà del guado per cercare di placare i bollenti spiriti dei compagni di viaggio a palazzo Chigi. Rischio incidente - A Montecitorio la maggioranza rischia di ballare come mai è capitato in questa legislatura. Mercoledì dovrebbe iniziare l’esame in aula della proposta di legge del deputato di Italia viva, Roberto Giachetti, che punta ad aumentare le detrazioni della pena per anticipare il ritorno alla libertà dei detenuti che seguono una buona condotta. Per regolamento sarà possibile chiedere il voto segreto sugli emendamenti. Con tutte le conseguenze del caso. Molti deputati di FI, in privato, hanno manifestato apprezzamento verso l’iniziativa di Giachetti, che ha rilanciato la questione: “Dobbiamo risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri”. Un ragionamento sui cui, dal punto di vista culturale, i berlusconiani doc convergono. E nel segreto dell’urna non avrebbero problemi a votare il testo. Certo, numeri alla mano, il Movimento 5 stelle potrebbe paradossalmente aiutare la maggioranza, bocciando gli emendamenti più delicati. D’altra parte si stanno valutando dei ragionamenti tattici: nessuno saprà cosa accade durante le votazioni. Così, per evitare incidenti di percorso, la destra può cercare il blitz e votare per il rinvio della proposta di legge in Commissione. Ma anche in questo caso si andrebbe verso una spaccatura nella maggioranza. Forza Italia, sul tema rappresentata dal deputato Pietro Pittalis, è contraria al nuovo slittamento. Sul ritorno in Commissione restano solo Lega e FdI, che hanno la concreta possibilità di finire sotto. Un rovescio che avrebbe risvolti pesanti, non solo in termini di immagine. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha comunque fatto - nel corso del Cdm di ieri - un punto sul decreto Carceri per cui è previsto oggi l’inizio delle votazioni in Commissione al Senato. Al netto delle intenzioni, tuttavia, il provvedimento non è riuscito a disinnescare la proposta di Giachetti. Anche perché il testo del governo ha un obiettivo diverso: non alleggerire la condizioni delle carceri, ma punta a una “umanizzazione carceraria”, secondo la definizione del Guardasigilli, introducendo misure come l’assunzione nei prossimi anni di mille agenti. Il decreto non è esente da tensioni: ci sono da votare almeno 200 emendamenti e Forza Italia ha già lasciato intendere di voler portare avanti la battaglia per migliorare il contenuto. Le proposte depositate dai forzisti Pierantonio Zanettin e Maurizio Gasparri vanno in una direzione garantista, provocando l’irrigidimento della Lega e di Fratelli d’Italia. Difficile immaginare che gli emendamenti di FI possano essere approvati, tanto che è in corso un tentativo informale di far ritirare le proposte di modifiche, così da evitare possibili incidenti di percorso o comunque situazioni di scontro. E non è solo la giustizia ad alimentare la tensione. Un altro fronte che si è aperto negli ultimi giorni riguarda la revisione del codice della strada. La riforma è una delle bandiere di Salvini, che si è intestato la battaglia fin dai primi passi della legislatura. Dopo un lento iter, la Camera ha approvato il testo nei mesi scorsi. Tutto fatto? Macché. Al Senato Forza Italia ha annunciato la volontà di fare delle modifiche, provocando un rallentamento sull’entrata in vigore. In caso di ritocchi il provvedimento dovrebbe tornare a Montecitorio per la terza lettura. Il via libera finale slitterebbe ulteriormente. Oltre il decreto “Caivano”: storie di minori che riparano il danno (fuori dal carcere) di Martina Cataldo lavialibera.it, 23 luglio 2024 Ci sono modi diversi di trattare i giovani autori di reato, diversi dalla spinta verso le carceri minorili che arriva dal decreto Caivano, che sta aumentando il numero di giovanissimi reclusi. Lo dimostrano alcune storie che, dietro garanzia di anonimato, lavialibera ha raccolto. Storie come quella di Roberta, che ha condiviso con noi la sua esperienza di riparazione: ha 20 anni, convive con il suo compagno e lavora come receptionist, ma ha alle spalle un passato tormentato. “Quando avevo 16 anni ho rubato alla mia famiglia i soldi e l’oro che tenevano in casa convinta dal mio fidanzato di allora - racconta a lavialibera - sono anche arrivata a ferirlo con un’arma quando mi sono accorta che l’unica cosa che voleva da me erano i soldi”. Lui infatti l’aveva convinta a sottrarre i beni alla sua famiglia per sostenerlo economicamente. Complici un sentimento di assoggettamento totale al fidanzato e una famiglia dalla quale voleva scappare perché era previsto per lei un matrimonio combinato, Roberta è stata denunciata per furto aggravato. “Inizialmente nessuno pensava fossi stata io, poi dopo il secondo furto lui è stato denunciato, ha fatto il mio nome e quindi ci sono entrata anche io”. Comincia così un lungo percorso di fronte alla giustizia minorile. Il giudice ordina per lei la sospensione del processo a patto che superi la “messa alla prova” di un anno: in questi casi il minore viene affidato ai servizi sociali per essere letteralmente messo alla prova e, se l’esito è positivo, il reato viene “estinto”, il processo si interrompe. Roberta è stata accompagnata nel percorso dalla Cooperativa Progetto 92 nella provincia di Trento. Qui entra in contatto con i concetti di responsabilizzazione e riparazione. “Ho fatto un percorso che mi ha fatto capire quanto in realtà io sia fortunata”, dice oggi. Anche Giulio, 18 anni, racconta il suo percorso. Accusato di lesioni aggravate per aver fatto da “palo” durante il pestaggio di un coetaneo nel 2023, ha affrontato un anno di messa alla prova al termine del quale viene ritenuto idoneo per partecipare a un percorso di giustizia riparativa sempre con la Cooperativa Progetto 92. Dopo un incontro con la vittima, grazie alla mediazione penale “che è servita più a lui per capire cosa fosse successo che a me”, dice Giulio, inizia a svolgere attività in una fattoria didattica dove scopre che per lui il contatto con la natura è fondamentale. Questi sono solo due degli oltre 400 minori inseriti nel circuito penale presi in carico negli ultimi tre anni grazie al progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto”. “L’inserimento in un contesto carcerario per i minori è l’ultima spiaggia. Noi agganciamo i ragazzi già alla prima udienza proprio per evitare la carcerazione; quindi, bisogna cercare di tenerli fuori il più possibile - dice Riccardo Pavan, referente coordinatore dell’area penale minorile del Coordinamento nazionale Comunità di accoglienza (Cnca), nonché uno dei fondatori del progetto rivolto ai giovani che commettono reati tra i 16 e 21 anni che vengono inseriti in un percorso di riparazione -. È su questo che scommette il progetto ‘Tra Zenit e Nadir’, su modelli che non si caratterizzano per la mera punizione, ma che scommettono sull’idea dell’umanizzazione dell’altro”. Una scommessa non da poco considerando che il decreto “Caivano” ha invertito completamente la rotta, perseguendo una politica del “punire per educare”. L’effetto è stato il sensibile aumento dei detenuti minorenni. Agli inizi del 2024, secondo i dati dell’ultimo rapporto di Antigone, associazione per i diritti delle persone detenute, il numero di minori in carcere è pari a 500, una cifra che non si raggiungeva da oltre 10 anni. “Quando entrano in carcere non è quasi mai il primo reato, ma c’è stata prima una sorta di escalation - prosegue Pavan -. Se nessuno interviene in quelle fasi e poi commettono il fattaccio, vengono sbattuti dentro e basta”. Una conferma parziale viene dai dati pubblicati da Transcrime, centro di ricerca interuniversitario su criminalità e innovazione dell’Università Cattolica di Milano: sul territorio di Milano il 40 per cento dei ragazzi presi in carico dall’Ufficio di servizio sociale per minorenni (Ussm) è stato coinvolto in più di un procedimento penale. “L’idea è quella di contrastare la carriera deviante dei giovani”, spiega Pavan a lavialibera. La costruzione di percorsi alternativi al carcere, la responsabilizzazione dell’autore del reato, il riconoscimento delle vittime e la ricostruzione dei legami sociali, sono i tasselli fondamentali del progetto “Tra Zenit e Nadir”. Nato nel 2021, frutto della collaborazione tra la Fondazione Don Calabria e del Cnca e finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini, coinvolge oggi oltre 60 partner pubblici in Veneto, Lombardia e Trentino-Alto Adige. Non è un’alternativa alla carcerazione, poiché i giovani possono essere entrare a far parte del percorso lungo tutte le fasi del procedimento penale. Come spiega Alberto dal Pozzo, coordinatore della cooperativa Arimo di Milano (tra i partner del progetto): “Io vengo contattato dal servizio sociale per minori che sottopone la storia del ragazzo o della ragazza. Poi insieme a tutti i partner capiamo se possiamo offrire qualcosa di buono”. Inizia così il percorso riparativo, “nell’ottica di riavvicinare il ragazzo o la ragazza alla società, di lavorare immediatamente con loro, di non rinchiuderli, ma dare loro la possibilità di avere una seconda chance”. Ricucire e responsabilizzare - Importantissimo è il lavoro “sartoriale” - come viene definito da chi opera nel settore -, ovvero l’idea di cucire su misura progetti che rispondano alle esigenze e ai bisogni dei ragazzi presi in carico. “Noi vogliamo che i ragazzi rielaborino la propria esperienza e facciano percorsi mirati per sviluppare passioni e competenze”, rimarca Pavan. La storia di Giulio è andata proprio in questa direzione. Alla conclusione del suo percorso ha scritto una lettera destinandola proprio “alla messa alla prova” nella quale scrive: “Ho conosciuto un po’ me stesso, la connessione con la natura per esempio è qualcosa che servirebbe a ogni persona per conoscersi meglio, ti dà un senso di pace indescrivibile”. Dal canto suo, rispetto al primo contatto con la sua educatrice, Roberta ha percorso molta strada: “Roberta ha fatto un percorso incredibile, oggi convive, ha un lavoro e ha sempre detto che grazie all’esperienza svolta con noi si è sentita considerata per la prima volta”, spiega Cristina Stroppa, referente sul progetto “Tra Zenit e Nadir” per la Cooperativa Progetto 92. Una volta iniziata l’attività di volontariato con persone con difficoltà sociali o personali, infatti, ha superato lo scetticismo iniziale provando gratitudine nell’aver ricevuto questa opportunità. “A parte essermi resa conto di aver sbagliato, ho compreso quante persone sfortunate e bisognose ci siano - racconta -. Nonostante tutto, io sono fortunata e in quei mesi ho contribuito a fare stare meglio quelle persone”. Un cammino di consapevolezza - Queste attività sono fondamentali nell’ottica di ricucire la relazione tra chi compie il reato e la comunità. Anche Felipe ha una storia simile. Dopo aver commesso una rapina a mano armata e aver passato un periodo al penitenziario minorile “Beccaria” di Milano, è arrivato al centro diurno diffuso della cooperativa Arimo, nato proprio come modello alternativo alla comunità grazie al progetto “Tra Zenit e Nadir”. All’inizio non comprendeva la gravità dell’atto compiuto, “giustificato” dalla volontà di aiutare economicamente la madre e la sorella, affette da patologie psichiatriche. “A un certo punto durante le attività, entrando in relazione con le altre persone, ha cominciato a riflettere - dicono i suoi educatori -. Le persone con le quali lavorava erano in condizioni altrettanti gravi. Questo lo ha portato a ripensare al suo reato e a mettersi anche nei panni degli altri”. Il centro diurno diffuso di Arimo ha visto passare anche Alice. Processata per un’aggressione a un’anziana signora, ha svolto un’attività che le consentisse di riparare in modo diretto al danno arrecato: volontariato in un servizio per anziani con sindrome di Alzheimer. Nel 2022 nel modello di presa in carico dei ragazzi autori di reato entra una nuova parola: vittima. “Bisogna occuparsi anche della vittima”, sono le parole di Sabino Montaruli, responsabile del servizio sociale della Zona Nord del Comune di Brescia, riportate sulla pagina web del progetto. Seppur con ancora diverse criticità - lentezza dei servizi sociali territoriali e il rischio di una visione ancora incentrata solo su chi compie il reato - l’incontro tra la vittima e l’autore del reato attraverso la mediazione penale è uno dei cardini sui quali poggia il concetto di giustizia riparativa. “Le vittime non vogliono sentirsi chiedere scusa, non è che basta esprimere dispiacere e la storia si chiude lì - dice Marco Vincenzi, mediatore penale di Cooperativa sociale Insieme -, ma vogliono capire perché la persona ha compiuto il gesto, dalla rapina al furto all’aggressione”. Giulio, all’inizio del suo percorso di riparazione, ha incontrato la sua vittima: “Voleva capire perché e quale ruolo avessi avuto nella rissa”, dice a lavialibera. Quando qualcuno subisce un reato, le conseguenze non sono solo quelle direttamente visibili, come la sparizione del portafoglio o il dolore fisico di aver subito un’aggressione. Alla vittima rimane un senso di impotenza, di paura e incomprensione. “Ricordo un incontro che ho mediato tra una ragazza che aveva subito una rapina di notte e il suo aggressore - dice Vincenzi -. Lei voleva fargli capire quanta paura le avesse lasciato addosso. Lui le ha spiegato che dopo tre anni di percorso era una persona diversa, era profondamente imbarazzato di averle causato quel dolore”. Troppi veleni al Csm, Mattarella chiama a rapporto Pinelli di Mario Di Vito Il Manifesto, 23 luglio 2024 Incontro serale al Colle sullo scandalo della laica di Fdi Natoli. La destra vuole evitare le dimissioni: troppi rischi in Parlamento. E Taormina minaccia ancora: cresce il timore che abbia altre rivelazioni da fare. L’incastro è di quelli complicati, da professionisti dei giochi di palazzo. Lo scandalo scatenato dalla laica Rosanna Natoli ha investito l’intero Csm, con la totalità dei togati che si è convinta della necessità delle sue dimissioni. Nel tardo pomeriggio di ieri il vicepresidente dell’organo di autogoverno dei giudici Fabio Pinelli è andato al Quirinale per parlare con il suo unico superiore: Sergio Mattarella. A quanto si apprende, il presidente avrebbe posto l’accento sulla questione istituzionale che si è aperta dopo la diffusione da parte dell’avvocato Carlo Taormina dell’audio dell’incontro privato andato in scena lo scorso 3 novembre a Paternò tra Natoli e la giudice Maria Fascetto Sivillo, oggetto di svariate inchieste disciplinari a palazzo Bachelet. Mattarella, ovviamente, non è arrivato a chiedere direttamente le dimissioni della consigliera ma non ha fatto granché per nascondere il suo sconcerto per una vicenda che mette in dubbio il prestigio e l’autorevolezza di tutto il Csm, quasi il seguito del caso Palamara che lo portò a parlare di “modestia etica”. E qui arriva l’incastro: se le dimissioni di Natoli appaiono a chiunque come un atto dovuto quantomeno per motivi di sensibilità istituzionale, le forze politiche che detengono la maggioranza in parlamento sanno bene che un eventuale addio della consigliera aprirebbe un problema serio. La quota dei 3/5 necessaria per eleggere un membro del Csm non è più certa come lo era nel gennaio del 2023, in uno dei momenti di massima vicinanza tra la destra e i centristi di Renzi e Calenda. Allora le opposizioni accettarono di far fare al governo quello che voleva con i laici senza battersi troppo, adesso invece potrebbero tranquillamente giocare tutt’altra partita, puntando allo stallo o quantomeno all’indicazione di un nome tecnico e il più possibile super partes in grado di trovare ampie convergenze. Natoli, va detto, sin qui non ha fatto intuire di volersi dimettere e certo molto peserà il parere del suo nume tutelare, Ignazio La Russa, che l’ha piazzata al Csm in quota FdI dopo la mancata elezione alla Camera nel 2022. La linea difensiva che si sta costruendo per Natoli è tutta politica: mercoledì della settimana scorsa, il giorno dopo lo scoppio dello scandalo, il Csm ha nominato procuratore di Catania Francesco Curcio, che con 13 voti è riuscito a prevalere sul concorrente Giuseppe Puleio, fermo a quota 12 e che in caso di pareggio sarebbe passato in virtù della maggiore anzianità. Natoli non ha partecipato alla seduta e il suo voto sarebbe stato decisivo. Ecco qui allora che da destra si parla di pressioni di non meglio precisati togati per non farla presenziare e decidere così la nomina di Curcio, ma in realtà la questione è ben diversa: il voto mancante a Puleio, infatti, non è stato quello di Natoli, ma quello di un altro laico, Michele Papa, scelto dal M5s. Nessuno si aspettava una sua astensione. Un altro voto considerato certo e invece andato perduto è stato quello del togato di Magistratura indipendente Dario Scaletta, che al momento decisivo si è allontanato dall’aula. Su questa partita incombe Carlo Taormina, avvocato di Fascetto e responsabile dell’esplosione dello scandalo con la diffusione della conversazione incriminata. Domenica pomeriggio, l’ex sottosegretario si è fatto sentire su X: “Domani salta il Csm”, ha scritto minaccioso. Forse pure troppo, perché ancora nulla è saltato, ma molti hanno capito qual è il messaggio sottinteso: forse c’è altro materiale. Cioè c’è altro fango pronto a schizzare in ogni direzione. A dirla tutta, però, la vicenda Fascetto, di per sé, non sembra preoccupare troppo il Csm: dopo la richiesta avanzata da Taormina di ricusare la commissione disciplinare, è stato costituito un nuovo collegio che dovrà decidere il da farsi. Una procedura formale di scarso rilievo per l’opinione pubblica. I fari sono puntati su Natoli e, quasi di conseguenza, su tutti i membri laici del Csm. Gratuito patrocinio, due misure di Ilaria Li Vigni Italia Oggi, 23 luglio 2024 Deve certificare i redditi prodotti all’estero lo straniero che intende avvalersi del gratuito patrocinio in Italia. Ad affermarlo la Corte costituzionale con la sentenza n. 110 dell’11 luglio 2024. A sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 79, comma 2, Dpr 115/2002, è stato il Tribunale di Firenze con l’ordinanza del 26 ottobre 2023. I giudici fiorentini, in particolare, si sono concentrati nella parte in cui si richiede ai cittadini di Stati non appartenenti alla Ue, per i redditi prodotti all’estero, di corredare l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato con la certificazione dell’autorità consolare competente. La Corte ha ritenuto infondate le preoccupazioni sulla violazione del principio di uguaglianza, sostenendo che la richiesta di documentazione aggiuntiva occorre per verificare le effettive condizioni reddituali dei cittadini extra Ue. Per i giudici delle leggi questo requisito non viola il diritto di difesa né il principio di uguaglianza, in quanto è possibile presentare una dichiarazione sostitutiva se non si riesce ad ottenere la certificazione consolare. Il giudice ha poi la possibilità di valutare altre prove come il tenore di vita e le condizioni personali e familiari. Lazio. Nelle carceri immigrati e poveri sono i più penalizzati di Lucandrea Massaro romasette.it, 23 luglio 2024 Sono di fatto esclusi dalle alternative alla detenzione Il Garante regionale dei detenuti Anastasìa: “Sovraffollamento peggiorato. I suicidi, il sintomo più grave”. C’è un numero importantissimo da cui iniziare: 56. Cinquantasei sono i detenuti che dall’inizio dell’anno, cioè meno di 7 mesi, si sono già suicidati in carcere. La conversazione con il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, parte da questo dato. “I suicidi sono il sintomo più grave di una condizione molto diffusa che è data dal sovraffollamento - riflette Anastasìa -. Condizione peggiorata dopo la pandemia e che ci riporta al 2014, quando fummo condannati dalla Corte europea dei diritti umani per il sovraffollamento. All’epoca il governo Letta adottò un provvedimento che comprendeva uno sconto di pena per i detenuti che si comportano bene e contribuì a migliorare la situazione”. Per capirci, attualmente nelle carceri italiane ci sono oltre 61.500 detenuti, quanti ce n’erano nel 2014, come se gli ultimi dieci anni fossero passati invano, visto quante persone sono in carcere per reati minori, a volte con pene di appena sei mesi, per le quali le strutture carcerarie non sono in grado di offrire nessun percorso di riabilitazione. In generale ci sono 15mila detenuti con pene di due anni o meno. Per non parlare di chi è in carcere in attesa di giudizio. “Oggi un provvedimento analogo a quello del 2014 è proposto alla Camera dall’onorevole Giachetti, ma è stato ulteriormente rinviato mentre è stato presentato quello del governo al Senato, che però non affronta il tema della pena”. Di cosa si occupa, allora? “Dal punto di vista sostanziale - spiega il Garante -, cioè dell’effettiva diminuzione delle persone in carcere, non dice nulla perché l’unica cosa che prevede è l’istituzione di questo Albo delle Comunità, che va benissimo, ma che non aveva bisogno di un decreto per essere istituito, bastava un provvedimento amministrativo, e prevede l’inserimento in comunità a valere sulle disponibilità finanziarie della Cassa delle Ammende, e anche questo non si doveva fare per decreto, se lo poteva fare direttamente la Cassa delle Ammende per un totale di 206 persone. Noi abbiamo un sovraffollamento di 14mila persone e il governo propone un provvedimento che forse, quando sarà istituito l’Albo, se i giudici di sorveglianza saranno favorevoli farà uscire 206 persone”. Nel frattempo ne saranno entrate altre mille. La Conferenza dei Garanti territoriali lunedì 15 luglio al Senato, in un incontro con la stampa, ha chiesto ai senatori di introdurre nella norma in discussione un provvedimento come la “liberazione anticipata speciale” che porterebbe, per i detenuti meritevoli, uno sconto di pena di 60 giorni ogni 6 mesi di carcere contro gli attuali 45 giorni. “Parliamo di 3-4mila persone che potrebbero uscire un po’ prima alleviando la situazione”, dice ancora Anastasìa, che prosegue: “L’attuale regime della sanzione sostitutiva della riforma Cartabia prevede che la persona abbia un domicilio idoneo presso cui stare, una serie di condizioni che praticamente tagliano fuori tutta l’area della marginalità sociale”. Immigrati e poveri sono, di fatto, automaticamente esclusi dalle alternative al carcere. Accanimento sulla marginalità che colpisce anche i migranti irregolari nei Cpt, dove possono stare anche per 18 mesi per un reato amministrativo, in attesa di un rimpatrio che in 3 casi su 4 non accadrà mai, senza poter uscire, senza avere nessuna attività da poter svolgere, ristretti senza colpa. A febbraio a Ponte Galeria un suicidio anche tra di loro. Bologna. Suicida in carcere, aspettava la perizia psichiatrica di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 23 luglio 2024 La Procura aveva incaricato un consulente: la vittima era accusata di tentato omicidio. Si è tolto la vita domenica pomeriggio nella sua cella della Dozza Lullim Musta, 48enne albanese in carcere per tentato omicidio. La Procura ha disposto l’autopsia, ma non c’è alcun dubbio che si sia trattato di un suicidio. L’uomo soffriva di depressione anche se non aveva dato segni di particolare insofferenza, era in attesa di perizia psichiatrica. I sindacati della Penitenziaria denunciano le condizioni di sovraffollamento e annunciano una protesta. Un altro suicidio in carcere. Il cinquantottesimo detenuto a togliersi la vita dietro le sbarre dall’inizio del 2024 è Lulzim Musta detto Luli, albanese di 48 anni. Domenica pomeriggio, nel pieno di una giornata irrespirabile ancor più per chi è dentro un istituto penitenziario sovraffollato come lo sono tutte le carceri italiane, Musta è stato trovato impiccato nella sua cella della Dozza. L’intervento della polizia penitenziaria non è bastato a salvargli la vita. Aveva atteso che il compagno di cella uscisse per portare a compimento la sua ultima volontà. L’uomo si trovava in cella da due mesi, in attesa di giudizio, dopo che a maggio aveva accoltellato, apparentemente senza motivo, la sua ex titolare all’hotel “Il Gallo” di Castel San Pietro, dove aveva lavorato come tuttofare. Arrestato per tentato omicidio, si trovava in carcere ma la Procura aveva disposto una perizia psichiatrica e aveva già incaricato un consulente che doveva accertarne la capacità di intendere e di volere ma anche la compatibilità della sua situazione con il carcere. Esame che non c’è stato il tempo di fare, perché “Luli” si è tolto la vita. Domenica la Procura si è subito attivata per verificare cosa sia successo esattamente. Il pm di turno Nicola Scalabrini è andato in carcere insieme al medico legale e alla polizia Scientifica. Sono stati sentiti sia i compagni di detenzione che gli agenti della Penitenziaria, tutti profondamente provati. Non c’è dubbio che si sia trattato di un suicidio, ma per motivi tecnici, e per prassi trattandosi di una morte in cella, è stato aperto un fascicolo con l’ipotesi tecnica di omicidio colposo per permettere di fare l’autopsia sul corpo. Sembra che Musta soffrisse di depressione ma non aveva dato alcun segno di insofferenza né c’erano campanelli d’allarme che potessero far pensare a un gesto del genere, anche se, visto il reato che aveva commesso, la Procura aveva deciso di approfondire la sua salute mentale. Dopo l’accoltellamento a maggio ai carabinieri che lo stavano ammanettando aveva sussurrato “Mi hanno detto di farlo”. La sua morte ha gettato nel dolore la comunità carceraria, di detenuti, poliziotti e dipendenti, già fortemente provata da un sovraffollamento che a Bologna conta 339 persone in più rispetto alle 450 previste. Una situazione esplosiva, che le temperature roventi rendono ancora più insopportabile. Ieri mattina il garante comunale delle persone private della libertà, Antonio Ianniello, ha fatto un sopralluogo alla Dozza. Intanto, mentre il presidente nazionale di Arci Walter Massa sollecita i deputati a sostenere la proposta di legge in discussione alla Camera, primo firmatario Roberto Giachetti (Iv), sulla liberazione anticipata speciale, i sindacati bolognesi, con Salvatore Bianco della Fp-Cgil, propongono di dare vita “ad un presidio sotto la sede del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna o davanti al carcere”. Perché la misura è colma, scrive il sindacato in una nota. E Giovanni Battista Durante del Sappe fa notare che “questi eventi, oltre a costituire una sconfitta per lo Stato, segnano profondamente gli agenti che devono intervenire”. A marzo un’altra detenuta si era tolta la vita alla Dozza. Salerno. Tunisino ucciso in cella dal suo “piantone”, giallo e autopsia di Carmine Landi La Città di Salerno, 23 luglio 2024 Omicidio volontario. Provvisoria ipotesi di reato per la quale è indagato Ayoub El Jamili, il 24enne marocchino (difeso dall’avvocato Lucia Miranda) accusato d’aver assassinato Khalil Trabelsi, compagno di cella tunisino, nella stanza 14 della semi-sezione 1B della prima sezione della casa circondariale a Fuorni di Salerno. Indagini, quelle coordinate dal pm Simone Teti e delegate agli agenti della polizia penitenziaria, agli ordini del dirigente aggiunto Carolina Arancio, tutt’altro che chiuse. Decisive saranno le risultanze dell’esame autoptico: domattina il pm conferirà l’incarico al medico legale Francesco Consalvo. La dinamica del presunto omicidio, infatti, non è ancora chiara. Oltre al possibile sgozzamento, infatti, emerso nelle primissime ore, è spuntata pure l’ipotesi d’una lite, una spinta e un possibile primo rifiuto delle cure ospedaliere. Fare chiarezza sull’accaduto spetterà agli organi inquirenti, che nelle scorse ore hanno convalidato il sequestro di tutto ciò che è stato rinvenuto all’interno della cella, alla quale pure sono stati apposti i sigilli. Firenze. Orrore carcere, gli avvocati: “Sfacelo non più tollerabile” di Emiliano Benedetti firenzetoday.it, 23 luglio 2024 “Lo sfacelo del nostro sistema carcerario non è più tollerabile e le misure recentemente adottate, ultimo in ordine di tempo il decreto Legge 92 del 4 luglio (il cosiddetto ‘decreto carcere’ fortemente voluto dal ministro della giustizia Carlo Nordio, ndr) sono assolutamente insufficienti e non coerenti con i principi costituzionali sulla funzione rieducativa della pena”, si legge in una nota diramata dal consiglio dell’ordine degli avvocati di Firenze, dove si legge che lo stesso consiglio ritiene “che l’istituzione forense debba far sentire la propria voce per dire un chiaro e netto ‘ora basta’“. Giovedì prossimo dunque, 25 luglio, iniziativa pubblica degli avvocati all’Auditorium Zoli del Palazzo di Giustizia di Novoli, tra le 10 e le 12, per ribadire ancora una volta un appello a governo e parlamento per intervenire in una situazione da tempo fuori controllo. Quasi sessanta suicidi - Il ministro Nordio del resto si è a parole più volte impegnato a migliorare le disumane condizioni di vita carcerarie nelle quali vivono moltissimi reclusi e che ricadono ovviamente sul lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. Nei fatti però il 2024 per le patrie galere è un anno allucinante: ad oggi si contano già in Itala 58 suicidi, l’ultimo proprio ieri alla Dozza di Bologna. A Firenze ha fatto scalpore il caso di Fedi, ragazzo di 20 anni che si è impiccato in cella giovedì 4 luglio: era dentro per “rapina con estorsione”, aveva rubato un cellulare e chiesto alcune decine di euro per riaverlo indietro. L’ultima goccia, dopo mancanza di acqua nonostante le temperature bollenti, cimici, topi, sovraffollamento, che aveva portato ad una lunga protesta dei detenuti di Sollicciano. Anche sul fronte della polizia penitenziaria numeri tragici, con già sei suicidi negli ultimi sei mesi, l’ultimo a Roma il 7 luglio. Chiunque operi nelle carceri - che siano volontari, assistenti sociali, psicologi - racconta una situazione oltre il limite della decenza, di fatto una violazione costante del dettato costituzionale, che va avanti da anni e che pare non fermarsi mai. Venerdì sera sotto Sollicciano c’è stato l’ennesimo presidio, con una grafica prodotta dai Giovani Palestinesi di Firenze (altra questione, quella della strage in Palestina, lasciata colpevolmente ai margini da quasi tutti), al quale hanno aderito numerose sigle, tra cui Cpa, Ex Macelli, Cara, Rifondazione comunista, Sinistra progetto comune, Giovani Palestinesi, Genuino clandestino. Il vicepresidente vicario del consiglio comunale di Firenze, Alessandro Draghi di Fratelli d’Italia - lontanissimo dal mondo delle sigle elencate qui sopra - ha esplicitato al primo consiglio dell’epoca Funaro, lunedì scorso, l’auspicio che entro Natale si svolga un consiglio comunale in carcere. In passato è già successo, non è cambiato molto. Firenze. L’inferno nel carcere di Sollicciano. Perde la figlia e resta ancora dentro di Stefano Brogioni La Nazione, 23 luglio 2024 Si allontana l’ipotesi dell’ospitalità in una cooperativa, perché la donna non sta scontando una pena definitiva. Non vede ancora la fine del tunnel Boschra Mejri, la detenuta marocchina che ha scoperto di essere incinta dopo il suo ingresso a Sollicciano e durante la sua permanenza in carcere ha perso la figlia che portava in grembo. Il suo legale, Samuele Zucchini, non ha ancora la disponibilità di una sistemazione promessa da una cooperativa sociale, condizione necessaria per presentare una nuova istanza al giudice. Gli assistenti sociali che seguono il caso non hanno ancora fatto visita alla detenuta. Ed il fatto che la donna si trovi in custodia cautelare, e non in regime di detenzione definitiva, complica la già non facile operazione. Tuttavia, potrebbe esserci una parrocchia con una sistemazione più adatta alla situazione. Ma anche questa strada non è in discesa. Finora, quello di Boschra è stato un percorso tortuoso, che ha visto l’alternanza di più legali senza tuttavia che si giungesse a una soluzione per la 27enne. Il calvario di Boschra è iniziato nel novembre dell’anno scorso. La nordafricana è stata arrestata con una valigia piena di droga e, pochi giorni dopo il suo arrivo nel penitenziario fiorentino, ha scoperto di essere in stato interessante. Da quel momento è iniziata la spasmodica ricerca di una sistemazione alternativa al carcere, ma finora ogni tentativo è stato un fallimento. Ogni domicilio che i legali sono riusciti a trovare e che sono stati posti all’attenzione dei giudici, non sono stati ritenuti idonei. A marzo, le complicazioni hanno imposto lo stop della gravidanza. Ma Boschra, da allora, non è mai uscita. L’ultimo tentativo è fallito alcune settimane fa, quando il gip, Fabio Gugliotta, ha respinto l’istanza con cui Boschra faceva richiesta di essere posta in misura cautelare in un’abitazione in una frazione di Dicomano. Alloggio che il giudice ha ritenuto troppo piccolo per due persone, soprattutto perché l’altro domiciliato è una persona con pregiudizi simili a quelli della donna. Ennesima dimostrazione della difficoltà di coniugare esigenze “umanitarie” a quelle di giustizia. In questi mesi, poi, è precipitata anche la situazione del carcere. Alcune settimane, il suicidio di un detenuto 20enne che ha fatto molto rumore. Giovedì, al palagiustizia di Novoli, iniziativa del consiglio dell’Ordine degli Avvocati per “ far sentire la propria voce per dire un chiaro e netto ‘Ora basta!’”. “Dopo aver partecipato alla “maratona oratoria” organizzata dall’Unione delle Camere penali italiane - spiegano - il Consiglio dell’Ordine ha chiamato le Dirigenze degli Uffici giudiziari a condividere un’iniziativa rivolta all’opinione pubblica per sottolineare che le Istituzioni di Avvocatura e Magistratura, congiuntamente, invocano interventi effettivi e sostanziali che pongano fine a questa barbarie”. All’appuntamento, dalle ore 10 alle ore 12, all’Auditorium Zoli, “tutti i soggetti della Giurisdizione incontreranno gli organi di informazione per dire al Governo ed al Parlamento, che lo sfacelo del nostro sistema carcerario non è più tollerabile e che le misure recentemente adottate (ultimo in ordine di tempo il Decreto Legge 92 del 4 luglio) sono assolutamente insufficienti e non coerenti con i principi costituzionali sulla funzione rieducativa della pena”. Parteciperanno Sergio Paparo, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, Alessandro Nencini, Presidente della Corte d’Appello, Ettore Squillace Greco, procuratore generale presso la Corte d’Appello, Marilena Rizzo, presidente del Tribunale, Filippo Spiezia procuratore della Repubblica, Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza, Silvia Chiarantini, presidente del Tribunale per i minori, Roberta Pieri, procuratore della Repubblica del Tribunale per i minori. Roma. Arrestati due dei tre minorenni evasi dal carcere di Casal del Marmo La Stampa, 23 luglio 2024 Ancora in fuga il terzo, un quindicenne. I due giovani catturati alle stazioni ferroviarie de L’Aquila e Roma Termini. Due dei tre detenuti di origine tunisina evasi dal carcere minorile di Casal del Marmo, sono stati catturati nel pomeriggio. Hanno entrambi 17 anni. La polizia della questura de L’Aquila ha arrestato uno dei fuggiaschi, Mohamed R. alla stazione de L’Aquila, che aveva raggiunto da Roma in treno. Il detenuto era stato collocato nell’istituto di pena di Casal del Marmo per reati commessi proprio a L’Aquila. Rintracciato anche un secondo evaso, quest’ultimo alla stazione Termini di Roma. Il minorenne è stato intercettato dai poliziotti del commissariato Viminale. Si trova ora negli uffici della polfer per il foto-segnalamento. La fuga dei tre è avvenuta poco dopo le 17,30 di ieri, durante una sommossa che era scoppiata all’interno del penitenziario tra giovani detenuti. Gi evasi, approfittando dei momenti di tensione all’interno dei corridoi e nelle celle sono riusciti a scappare utilizzando per scavalcare il muro di cinta un armadietto metallico. Durante la fuga, uno di loro è rimasto ferito ad un piede, ma claudicante, è riuscito comunque a scappare. Poco dopo uno dei tre ricercati era stato avvistato in un supermercato della zona della via Trionfale dove aveva provato a rubare del cibo, ma anche lì era riuscito a scappare. Sia i tumulti scoppiati nel penitenziario che la rocambolesca evasione sono stati ripresi dalle telecamere di video sorveglianza dell’istituto di pena e attualmente sono al vaglio della procura dei minorenni e di quella ordinaria di piazzale Clodio. “Ora manca il terzo, per chiudere il cerchio”, ha dichiarato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Si tratta di un ragazzo di 15 anni. In una nota si legge: “Per una serie di ragioni, non avevamo e non abbiamo molti dubbi sul fatto che i fuggiaschi di ieri, tutti minori, vengano ripresi e ricondotti in carcere in breve tempo. Di solito questi ragazzi non godono di appoggi esterni e non di rado sono gli stessi familiari che li inducono a costituirsi. Questo, però, non cancella le falle del sistema le quali, al contrario, vengono ancor più evidenziate dalla certificazione che non si tratti di fughe organizzate. Insomma, basta deciderlo estemporaneamente e si può evadere con evidente facilità. Occorrerebbe poi interrogarsi su quanto costa un’evasione anche in termini di spese per le ricerche e tutto ciò che ne consegue. Somme che, evidentemente, sarebbe più proficuo investire in politiche di potenziamento della sicurezza, a partire dagli organici della Polizia penitenziaria mancanti di 18mila unità”, aggiunge la nota. Monza. Istituito Garante diritti detenuti con accordo tra Comune, Provincia e Casa circondariale Il Giorno, 23 luglio 2024 Un Garante dei diritti dei detenuti. Hanno trovato un accordo per istituirlo - valido fino al 28 giugno 2027 - Comune, Provincia e Casa circondariale. La necessità di individuare questa figura era stata già condivisa da un voto unanime del Consiglio comunale di Monza nel 2019, ma di fatto non era mai stata attivata. Ora la mossa dell’assessore al Welfare Egidio Riva: coinvolgere nell’operazione anche la Provincia oltre a Comune e Casa circondariale. Il Garante - per la cui selezione verrà effettuato un avviso pubblico - sarà nominato dal sindaco fra persone di prestigio e notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani e delle attività sociali. La Provincia mette a disposizione, a propria cura e spese, un ufficio in via Grossi, e supporterà la nuova figura nel facilitare percorsi di integrazione sociale dei detenuti attraverso l’inserimento lavorativo. La Casa circondariale si impegna a collaborare per garantire l’effettivo esercizio delle attività del Garante dei diritti delle persone private della libertà. Il Garante creato nel 2013, ha lo scopo di vegliare sulle condizioni di vita dei detenuti e sull’eventuale mancato rispetto dei diritti individuali, sul rispetto della Costituzione in merito alla pena inflitta, coordinandosi con l’Istituzione carceraria per assicurarsi che il periodo detentivo dei carcerati sia effettivamente volto alla loro riabilitazione e al ritorno alla comunità. “Questo accordo - osserva Riva - rappresenta un ulteriore passo verso la nomina del Garante per i detenuti di Monza e individua nella collaborazione tra istituzioni la via indispensabile per vigilare e garantire il rispetto dei diritti delle persone private della libertà”. Gorizia. Rivolta in carcere nella notte, agenti e detenuti intossicati per fumo ansa.it, 23 luglio 2024 L’incendio di alcuni materassi in una cella, poi l’intervento dei vigili del fuoco. La situazione tornata lentamente alla normalità. Nel corso della notte, poco prima delle ore 3, un detenuto nel carcere di Gorizia ha appiccato il fuoco ai materassi all’interno della sua cella. Gli agenti della polizia penitenziaria, accortisi dell’incendio, hanno immediatamente chiamato i vigili del fuoco del comando locale che sono intervenuti con gli estintori in pochi minuti. Tuttavia in un’ala della casa circondariale si è addensato un fumo acre che ha provocato alcuni malori tra i presenti. Una decina di persone, tra detenuti e agenti di polizia, sono state portate in ospedale per intossicazione. Nessuno è in gravi condizioni. I vigili del fuoco, dopo aver definitivamente spento le fiamme, hanno verificato che il livello di monossido nell’aria non fosse alto. La situazione nel corso della notte è andata progressivamente normalizzandosi. Proprio ieri, lunedì 22, la deputata del PD Debora Serracchiani, già presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, a seguito di una visita ispettiva al carcere di Gorizia, aveva parlato di “una situazione di sovraffollamento a fronte di posti praticamente raddoppiati rispetto a quelli regolamentari”. “Questa è una struttura molto delicata - aveva aggiunto - ci sono anche i cosiddetti “detenuti protetti”. La gestione è complessa”. Rimini. “Comunità Educante con i Carcerati”, ecco la vera alternativa al carcere Il Resto del Carlino, 23 luglio 2024 Tre piccole realtà della Valconca da cui è partita una grande rivoluzione pacifica, quella dell’alternativa al carcere per migliaia di detenuti. In una settimana che ha visto l’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna consegnare ai detenuti di tutta la Regione il nuovo “Codice ristretto” per i diritti dei detenuti, la presidente Emma Petitti ha avuto l’occasione di visitare, invitata dalla ‘Papa Giovanni XXIII’ e dal coordinatore Giorgio Pieri, una delle tre “Comunità educante con i carcerati” (Cec) riminesi, a Montefiore Conca (le altre sono a Saludecio e Coriano), insieme al Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri. In dieci anni si è passati da una pionieristica sperimentazione per poche persone in Valconca a un progetto di livello nazionale, che ha portato alla creazione di dieci strutture in Italia con ben quattromila detenuti ospitati: attualmente sono circa 300 quelli presenti, a cui viene offerto un percorso educativo e di reinserimento sociale alternativo al carcere. “Siamo voluti venire di persona - dice Petitti - ad ascoltare le straordinarie esperienze e storie nate in queste piccole realtà riminesi grazie all’impegno della ‘Papa Giovanni XXIII’ e dei suoi volontari. Le istituzioni sono necessarie - come assemblea ci siamo da sempre connotati come casa dei Garanti e dei diritti dei cittadini - ma da sole non bastano, e dalla Valconca negli anni si è sviluppata una alternativa al carcere annoverata oggi tra le migliori pratiche a livello europeo”. Dalla pena al recupero, quali sono i vantaggi? “L’abbattimento della recidiva, il risparmio economico e i benefici sociali - risponde la presidente dell’assemblea legislativa regionale -. Se nelle carceri la tendenza a commettere di nuovo dei reati - la cosiddetta recidiva - è del 70% dei casi, nelle Cec dove i detenuti fanno esperienza di servizio ai più deboli i casi arrivano al 15%. Si calcola che il costo per ognuno dei detenuti accolti nelle comunità è di 50 euro al giorno, contro i 140 euro dell’amministrazione penitenziaria”. Una vera e propria comunità educante, insomma. “Il territorio - continua Petitti - è parte attiva del progetto rieducativo, nella comunità che abbiamo visitato ci sono 13 fra volontari e tirocinanti universitari i quali seguono ciascuno un detenuto e i detenuti lavorano al fianco di ragazzi con handicap nelle cooperative di agricoltura biologica. A Saludecio si è recuperato l’ex caseificio, con una storia incredibile, quella di Antronello, il casaro del ‘formaggio del perdono’, impastato dai detenuti in maniera biologica, e consegnato a Papa Francesco in Vaticano”. È stata anche una lezione personale, perché “ritrovare lo spirito di servizio ai più deboli e alla propria comunità è una lezione per tutti coloro che si interessano di politica e occupano incarichi istituzionali”. Caserta. Detenuti al lavoro nell’area industriale, il capo del Dap in visita all’Asi casertanews.it, 23 luglio 2024 Russo: “A Caserta realizzato un modello che offre gli strumenti per rientrare in società”. Alla presenza del capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, Giovanni Russo, e della presidente del Consorzio Asi Caserta, Raffaela Pignetti, si è riunito il tavolo tecnico di coordinamento e programmazione istituito con il protocollo d’Intesa che attua il progetto “Mi riscatto per il futuro”. La presidente Pignetti ha illustrato il secondo progetto avviato da Asi Caserta e Dap, al Questore di Caserta Andrea Grassi, al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Lucia Castellano e alle rappresentanze degli istituti penitenziari di S. Maria Capua Vetere, Aversa e Carinola per attivare da settembre i nuovi cicli di formazione dei detenuti e le attività lavorative che saranno svolte all’esterno. E’ prevista anche la costituzione di una piattaforma digitale per incrociare offerta e domanda di lavoro da parte del settore produttivo. Lo sportello lavoro sarà finalizzato all’orientamento e all’avviamento del detenuto al mondo del lavoro una volta scontata la pena e consentirà anche di portare avanti percorsi formativi per far acquisire le competenze specifiche tecnico-professionali effettivamente spendibili nel mercato del lavoro. Il capo del Dap Russo ha dichiarato: “Sono orgoglioso di quanto abbiamo realizzato a Caserta sperimentando un modello operativo che offre ai detenuti gli strumenti per rientrare in società. L’azione che si attua con questo protocollo qualifica professionalmente il detenuto offrendogli tutte le potenzialità di vita che un lavoro può dargli. Questa è, d’altronde, la finalità che la Costituzione ci impone e che impronta tutta l’azione dell’Amministrazione Penitenziaria”. La presidente Raffaela Pignetti ha ringraziato l’amministrazione penitenziaria: “Siamo orgogliosi di aver svolto i lavori del Tavolo operativo alla presenza del presidente Russo. La prosecuzione di questo progetto ha una grande rilevanza sociale ai fini dell’azzeramento della recidiva e della conseguente lotta alla criminalità. La realizzazione della piattaforma digitale consentirà un percorso autentico di reinserimento lavorativo della popolazione detenuta a vantaggio dell’intera comunità”. Dopo la riunione la presidente Pignetti ha guidato la delegazione del Dap in visita all’area industriale, in particolare presso il Great Center e il Centro Orafo Il Tarì dove erano presenti anche l’imprenditore Pasquale Orofino, il presidente Vincenzo Giannotti e il sindaco di Marcianise Antonio Trombetta. Firenze. La vita fuori dal carcere riparte da… un museo novaradio.info, 23 luglio 2024 La storia (con finale ancora da scrivere) di una ex detenuta di Sollicciano. Chissà se davvero, come scriveva Dostoevskij, la bellezza salvare il mondo: certamente può essere l’ispirazione per chi cerca di salvare sé stesso dagli errori del passato e dare un senso nuovo alla propria esistenza. Quella che raccontiamo è la storia di due ex detenute del carcere di Sollicciano, che alla cultura si sono rivolte per avere una speranza di reinserimento. Le chiameremo Elena e Lila - come le due protagoniste della saga “L’amica geniale”. Elena, trentenne, è uscita alcuni mesi fa e ha iniziato positivamente percorso di reinserimento lavorativo e sociale. La seconda, ventenne, più fragile e con alle spalle un’esperienza di dipendenza, è uscita poche settimane fa dopo una lunga detenzione e si è trovata spaesata nel dare una direzione alla sua nuova vita da libera. Si è allora rivolta ad Elena, che aveva conosciuto in carcere, e e con lei ha deciso di ricominciare proprio dalla cultura, presentandosi “alle porte” di… un museo: il Museo di Preistoria di Firenze, lo stesso che nei mesi precedenti le aveva coinvolte, grazie al progetto “Educare alla bellezza”, in una serie di laboratori sulla ceramica in carcere culminati, a fine maggio in un incontro al Museo Galileo, una mostra di elaborati e una visita al museo di Preistoria che ha coinvolto una mezza dozzina di detenuti tra cui proprio Lila. A raccontarlo è Maddalena Chelini, una delle educatrici museali del Museo di Preistoria e tra le organizzatrici del progetto, frutto della collaborazione tra la rete “Welcome to Florence” che raggruppa 7 realtà museali fiorentine con il Centro per l’istruzione degli adulti 1 d Firenze (che organizza i corsi scolastici a Sollicciano) e il carcere. “Lila - spiega a Novaradio - mi aveva detto che le sarebbe piaciuto tornare, ma non ci speravo. Tanta è stata la sorpresa quindi, quando ci ha contattati, ma ancor più la soddisfazione di aver fatto, con il nostro lavoro, qualcosa di importante”. Un episodio piccolo, ma da grande significato, che non deve essere disperso: “Adesso - spiega ancor Chelini - assieme agli altri sette musei die cercando di capire come poter coinvolgere Lila in attività anche fuori dal carcere, magari nella vendita dei manufatti che i detenuti realizzano nei laboratori. Speriamo che anche dalla Regione, che finanzia i progetti di Welcome to Florence, arrivi un aiuto”. Torino. “Morire di carcere”: in Sala Rossa il ricordo di detenuti e agenti suicidatisi di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 23 luglio 2024 Il carcere Lorusso e Cutugno, come molti penitenziari italiani, è alle prese con sovraffollamento, carenze di personale e problemi strutturali. Breve ma intensa cerimonia, in Sala Rossa, per ricordare i suicidi verificatisi nell’ambito del sistema carcerario quest’anno, suicidi di persone detenute o appartenenti al personale di custodia. Di queste persone (58 detenuti e 6 agenti di custodia) i consiglieri e le consigliere, con l’aula in piedi, hanno letto a turno i nomi - non i cognomi, per evidenti ragioni di privacy - e le date del decesso. L’iniziativa, battezzata “Morire di carcere”, è stata introdotta dalla presidente Maria Grazia Grippo, la quale ha ricordato come “il tasso di suicidi nei luoghi di pena sia di 18 volte superiore a quello del mondo dei liberi”, spiegando come l’iniziativa sia stata intesa per condividere con la cittadinanza l’estrema preoccupazione per le condizioni delle carceri italiane, per non parlare di quella dei CPR, dove sono rinchiuse persone che non hanno ricevuto sanzioni per aver commesso un reato. Grippo ha poi rievocato le parole del Capo dello Stato, il quale nel marzo scorso aveva richiamato all’indispensabilità di affrontare con urgenza la grave situazione delle carceri, per rispetto dei valori della Costituzione, di chi ci lavora e dei detenuti, Un momento della commemorazione in Sala Rossa - La presidente dell’Assemblea elettiva di Palazzo Civico ha poi ricordato l’impegno in questo senso della Città e dei suoi organi, Consiglio, Giunta e Ufficio della Garante per i diritti dei detenuti, una ragione di speranza di poter davvero contribuire a invertire la rotta delle vite che ancora possono essere salvate. La Garante per i diritti dei detenuti della Città di Torino, Maria Cristina Gallo, ha ribadito come occorrano provvedimenti urgenti per tutta la comunità penitenziaria. La Garante ha ribadito la situazione di sovraffollamento e di scarsità di risorse umane dedicate a sorveglianza e assistenza. Ci sono 61.000 detenuti in Italia, ha sottolineato Gallo, con un sovraffollamento del 130%. Quest’anno già 127 detenuti e 6 operatori si sono suicidati o sono deceduti in carcere per cause naturali, ha evidenziato la Garante, ricordando che anche il Ferrante Aporti è sovraffollato e auspicando un’ancor maggiore attenzione verso un carcere definito invivibile, dove la situazione peggiora di giorno in giorno. La vicesindaca Michela Favaro, che ha recentemente assunto la delega per i rapporti con il sistema carcerario, ha da parte sua ricordato come ogni suicidio sia un fallimento delle istituzioni. Favaro ha ribadito come anche nei penitenziari vada tutelato il rispetto della legalità, a fronte dei problemi di deficit strutturali e di pianta organica, come di assistenza sanitaria. Il carcere, che è parte integrante della comunità cittadina, deve essere un luogo di legalità, per chi vi è detenuto e per chi vi lavora, questa è una delle sfide più difficili, ha concluso la vicesindaca. Roma. L’Asl avvia un Tavolo di lavoro dedicato alla sanità penitenziaria garantedetenutilazio.it, 23 luglio 2024 Anastasìa: “La condivisione delle criticità è il primo passo per l’individuazione di soluzioni efficaci nella tutela della salute in carcere”. Si è tenuto ieri presso il Salone del Commendatore, nella sede legale dell’Azienda sanitaria capitolina Roma 1, il primo incontro del Tavolo tecnico sulla sanità penitenziaria della Asl Roma 1. Una riunione fortemente auspicata dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, che ha visto tra i partecipanti Claudia Clementi, direttrice della Casa circondariale Regina Coeli insieme al Comandante di Reparto della stessa Casa circondariale, Francesco Salemi, e Claudio Marchiandi per il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise. Il Tavolo, con i direttori di distretto, della medicina penitenziaria e del Dipartimento di salute mentale (Dsm) ha affrontato le importanti tematiche connesse alla gestione del servizio sanitario all’interno delle sedi penitenziarie dislocate sul territorio della Asl. Anastasìa ha sottolineato che “grazie alla disponibilità del Commissario straordinario Giuseppe Quintavalle, oggi abbiamo potuto condividere con la dirigenza sanitaria e penitenziaria le principali criticità nella tutela della salute dei detenuti a Regina Coeli, dall’assistenza specialistica interna ed esterna alla presa in carico dei detenuti con problemi di salute mentale, alla valorizzazione dell’ex-centro clinico. La condivisione delle criticità è il primo passo per l’individuazione di soluzioni efficaci nella tutela della salute in carcere”. “Da parte nostra faremo il possibile per garantire le priorità d’accesso anche nel limitrofo Pronto Soccorso di Santo Spirito in Sassia e inizieremo a lavorare da subito al miglioramento della presa in carico, con nuovi gruppi di “Peer supporter” che sono un grande strumento per osservare i segnali di possibile disagio e disinnescare il ciclo della violenza auto o etero diretta che sia, così come abbiamo già fatto con l’aggiornamento della valutazione dei rischi. È importante che questo Tavolo si aggiorni con costanza e che agisca in modo sinergico a garanzia dell’equità delle cure”. Così il Commissario straordinario della Asl Roma 1, Giuseppe Quintavalle. Claudio Marchiandi ha concluso asserendo che “il Provveditorato concorda su quanto emerso dall’incontro. Si condivide la necessità che il Tavolo si aggiorni periodicamente per porre in essere tutte le iniziative possibili al fine di garantire la tutela della salute della popolazione detenuta. Per quanto attiene la difficoltà nel garantire l’effettuazione di visite o accertamenti diagnostici in luoghi esterni verranno intrapresi tutti gli interventi necessari affinché tali problematiche siano il più possibile risolte”. Verona. Tosi e Bisinella consegnano 11 tonnellate di piastrelle al carcere di Montorio cronacadiverona.com, 23 luglio 2024 Flavio Tosi ha consegnato alla casa circondariale di Montorio, a Verona, 11 tonnellate di piastrelle per il rifacimento della pavimentazione e delle pareti di tutti i blocchi delle docce dei detenuti . Questi ultimi ne avevano fatto espressa richiesta, assieme alla Polizia Penitenziaria, durante uno dei precedenti sopralluoghi di Tosi. Con Tosi anche la Capogruppo di Fare! in Consiglio comunale Patrizia Bisinella. Il quantitativo è stato reso disponibile dalla generosità dell’impresa Ceramica Senio di Ravenna, che l’ha fornito a prezzo di costo, quindi meno della metà del prezzo di mercato, ed è stato consegnato con un camion. Ma hanno contributo alla riuscita di questa operazione di solidarietà anche l’associazione La Fraternità, che ha fatto da tramite per perfezionare l’iter necessario al buon esito della fornitura, e alcuni imprenditori veronesi che hanno aderito all’iniziativa. I commenti - “Era doveroso muoversi concretamente per migliorare alcuni aspetti logicistici della struttura e quindi innalzare le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro della polizia penitenziaria - dichiarano Tosi e Bisinella. Detenuti, ricordiamo, che stanno scontando il loro debito con la giustizia, ma che meritano comunque un trattamento dignitoso e civile. E non era dignitoso dover fare la doccia in blocchi di cemento grezzo: una situazione poco civile, poco igienica e anche pericolosa”. Tosi e Bisinella hanno poi promesso che “non sarà l’ultima iniziativa che prenderemo a favore del penitenziario, cercheremo di dare un’ulteriore mano sui costi di manutenzione degli impianti. Detenuti e polizia penitenziaria sono uniti in questa battaglia di civiltà”. I volti del riscatto nelle storie delle carceri di Milano di Rosalba Reggio e Livia Zancaner Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2024 Il podcast. Le mura che circondano la casa di reclusione di Bollate sono alte, al suo interno ampi edifici rettangolari da cui si affacciano numerose finestre protette da sbarre in A ferro scuro. Sono gli uffici della polizia penitenziaria, degli educatori, del personale amministrativo e tecnico, delle numerose persone che ruotano intorno ai detenuti. Oltre le mura, altre mura che conducono al cuore dell’istituto penitenziario alle porte di Milano, lì dove la vita di molti uomini e donne sembra interrompersi, sotto il peso di una condanna di cui non si vede la fine, di una realtà che li isola dal mondo circostante. Ma nel luogo in cui tutto sembra perso, il germoglio della speranza si schiude sostenuto dalla strada maestra della riabilitazione: il lavoro. Allora gli spazi del carcere si trasformano in call center, magazzini di riparazione, imballaggio, controllo qualità. E le sue porte si aprono, per consentire ai detenuti di lavorare all’esterno. Alessio le varca ogni giorno, per raggiungere la sede di Hunters Group a Milano, dove è stato assunto come consultant presso la divisione JHunters. “Sono entrato in carcere che ero solo un ragazzo - spiega - ma dopo aver toccato il fondo ho deciso di riprendere in mano la mia vita. Un percorso lungo e faticoso. In carcere la prima risposta è sempre no, ma questo mi ha insegnato che per raggiungere i propri obiettivi bisogna fare sacrifici. Una grande lezione che ho portato nella mia vita professionale”. Lavoro, ma anche arte, bellezza, creatività. Come nel carcere di Opera, dove nel laboratorio di liuteria e falegnameria i legni dei barchini dei migranti diventano strumenti musicali. Viole, violini e violoncelli arrivati anche sul palco del Teatro alla Scala di Milano e suonati da Sting. Un progetto di nome “Metamorfosi”, che trasforma le barche in strumenti e i detenuti in falegnami. Ma le attività sono molteplici. Dal giornale “Cronisti in Opera” alla sartoria, dal magazzino che assembla aspiratori ai corsi per operatori socio sanitari. Storie di riabilitazione raccontate nel quarto episodio della serie podcast 24 reportage, a cura degli inviati de Il Sole 24 Ore e Radio 24, dal titolo “Milano, dalle carceri i volti del riscatto”, in uscita mercoledì 24 luglio sul sito del Sole 24 Ore, di Radio 24 e su tutte le piatteforme di streaming. Sospesi tra sentenze e (vuoti di) legge: quale diritto dovrà regolare il fine vita? di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 23 luglio 2024 La Corte costituzionale nell’ordinanza 207/2018, nella sentenza 42/2019 e ora nella sentenza n. 135, preceduta dal Comunicato del 18 luglio 2024, raccomanda la necessità di un intervento del legislatore che possa riempire i “vuoti” inevitabili presenti nella regolamentazione delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242/2019 e garantire le persone, evitando pressioni sociali indirette che possono indurre i più fragili e vulnerabili a farsi da parte. Inoltre, ribadisce che “resta naturalmente in pregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del “giudice penale”, di tutti i requisiti del reato compreso l’elemento soggettivo (paragrafo 9)”. Siamo dunque in una situazione che è possibile definire incerta, tra la più volte invocata legislazione e la giurisprudenza. La società è portata a domandarsi quali siano gli interventi a cui fare ricorso: leggi nella forma di regole generali imperative o invece una legislazione mite di garanzia che indichi i principi generali, non negoziabili, garantiti dalla Costituzione integrata dall’intervento del giudice nella forma equitativa delle decisioni argomentate caso per caso. Tanto più che nella fattispecie dei trattamenti di sostegno vitale, come in altre situazioni della sentenza, siamo di fronte a pazienti che presentano molteplici situazioni cliniche. Nell’arco di questi anni l’aiuto al suicidio medicalizzato non si è potuto avvalere di una legislazione e pertanto è stato inevitabile l’intervento giurisprudenziale nei diversi casi critici. Tutto ciò non è un’eccezione nel nostro Paese. È frequente il richiamo ad un intervento giurisprudenziale in sostituzione di regole legislative. I tribunali, la Corte di Cassazione, la Corte Costituzionale si sono dovuti pronunciare più volte su problemi sollevati dalle biotecnologie in questioni di inizio e di fine vita, di PMA, di contratti di maternità, esercitando il loro compito istituzionale di supplire alle condizioni di stallo e di difficoltà degli organi legislativi nell’affrontare problemi nuovi eticamente difficili per la società. Così, a fronte dell’assenza di una specifica normativa che disciplini i possibili vuoti lasciati dalla Corte, si è ricaduti in un diritto giurisprudenziale, peraltro ritenuto in questo genere di vicende bioetiche da molti preferibile a quello legislativo. Si evidenzia come la legge nella sua struttura ordinaria si presenti come scelta definitiva tra valori, ideologie, interessi in conflitto con un sacrificio definitivo di alcuni a favore di altri. La sentenza, la decisione giudiziaria, di contro, non è mai scelta definitiva, limitandosi a una fattispecie e non alla generalità dei casi ed è pur sempre suscettibili di mutamento, di ripensamento a favore della fattispecie soccombente. Tuttavia, va detto che gli interventi dei giudici nei cosiddetti casi difficili, fintanto che non si è avuto per alcuni di questi l’intervento del legislatore (consenso informato, rifiuto delle cure salvavita, testamento biologico, procreazione medicalmente assistita, sperimentazione sugli embrioni, donazione o commercio degli organi, ecce.) non sono riusciti a creare orientamenti sufficientemente certi in grado di risolvere in modo coerente conflitti tra il rispetto della persona e il progresso della scienza, tra gli interessi individuali (tutela della persona) e gli interessi collettivi (salute pubblica). La regolamentazione di quello che è l’aiuto al suicidio medicalizzato risulterà così quale un insieme composito, fornito da parte di elementi conoscitivi fino ad un certo punto ordinati dalle disposizioni normative che lo qualificano e dall’altra da fattori valutativi. Se così stanno le cose, appare altresì legittimo domandarsi se questa tecnica, che vuole in alcuni settori la duplicazione delle fonti di diritto (legge e giurisprudenza), sia soddisfacente. In via molto generale si può ricordare che i risultati della tecnica sopramenzionata (duplicazione delle fonti di diritto) sono condizionati dalla qualità dell’amministrazione della giustizia e dall’onestà, professionalità e razionalità del giudice. E per ragione del giudice deve intendersi non l’impulso emotivo dell’etica del singolo magistrato né la volontà di interpretare o correggere l’ordinamento in forza di una tavola di valori marcatamente ideologica, bensì una ragione perfezionata con mezzi artificiali attraverso un attento studio, osservazione ed esperienza, una ragione che scaturisce da una condizione di civiltà politica e giuridica. Non si dimentichi che la legge è primariamente promulgata per regolamentare la convivenza al di fuori dei tribunali. Al contrario il processo, con i suoi riti e con tutti gli elementi imponderabili che lo caratterizzano, non ultima oggi la intelligenza artificiale, può richiedere una soluzione particolare che non deve essere una regola, anche se gli operatori del settore se ne impadroniscono troppo rapidamente per discuterla come tale. Suicidio assistito: non ancora un diritto di Salvatore Curreri L’Unità, 23 luglio 2024 Ampliato il concetto di “trattamento di sostegno vitale” nato dalla sentenza del 2019 sul caso di dj Fabo. Il vuoto normativo rimane: la decisione spetterà non al giudice ma alla politica. Lo scorso giovedì la Corte costituzionale si è pronunciata su un tema di costituzionalità, che prende avvio dalla sentenza del caso dj Fabo, riguardo le quattro condizioni in cui ricorrere al suicidio assistito non è punibile. Al centro della richiesta del gip vi era la definizione che si intendeva per trattamenti sanitari di sostegno vitale (Tsv). La Corte ha così definito come il rifiuto di ricorrere a una cura non imposta per legge non si traduca in un’assoluta e discrezionale libertà di accesso al suicidio assistito. Infatti, la decisione finale spetta al legislatore, che dovrà bilanciare la necessità di tutelare la vita umana con il diritto all’autodeterminazione di chi vuole scegliere come porre fine alla propria vita quando la ritiene non degna di essere vissuta sulla base di una nozione soggettiva della sua dignità. Dunque, se da un lato non può certamente costringere nessuno a vivere contro la propria volontà, dall’altro deve evitare che questa libertà possa divenire un mezzo di abuso ai danni di persone malate, anziane e fragili. Con tale sentenza la Corte dà un’interpretazione più estesa dei trattamenti di sostegno vitale, ampliando così la platea di coloro che da domani possono ricorrere al suicidio assistito, mentre il suicidio assistito ancora non viene riconosciuto come un diritto. Cosa deve intendersi per trattamenti sanitari di sostegno vitale (Tsv)? Solo quelli - estremi - elettromeccanici, invasivi e sostitutivi delle funzioni vitali, come l’idratazione e l’alimentazione artificiali e la ventilazione assistita tramite respiratore? Oppure - in senso più esteso - ogni cura cui è sottoposto chi, pur non avendo la malattia raggiunto uno stato terminale, è affetto da una patologia irreversibile (ad esempio la sclerosi multipla) causa d’insopportabili sofferenze fisiche o psicologiche? Era questa la drammatica questione di costituzionalità, sollevata dal gip di Firenze, su cui la Corte costituzionale si è pronunciata giovedì (sentenza n. 135/2024), chiarendo così la ratio di una delle quattro condizioni poste nella famosa sentenza n. 242/2019 sul c.d. caso dj Fabo-Cappato. In quell’occasione, infatti, i giudici di palazzo della Consulta stabilirono la non punibilità (e non, si badi, il diritto) del suicidio assistito se si tratta di un paziente: 1) capace di prendere decisioni libere e consapevoli; 2) affetto da patologia irreversibile; 3) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e - giustappunto -; 4) dipendente da trattamenti di sostegno vitale. La Corte ha respinto tutte le eccezioni d’incostituzionalità sollevate in riferimento a quest’ultimo requisito. Innanzi tutto non vi è alcuna disparità di trattamento nell’accesso al suicidio assistito tra pazienti sottoposti o meno a Tsv perché solo i primi, rifiutando le cure, possono provocare in tempi brevi la propria morte: si tratta, dunque, di situazioni diverse. Inoltre, il paziente ha certamente il diritto costituzionale di rifiutare qualunque cura non imposta per legge, anche quando salva-vita, ma - contrariamente alle conclusioni di altri giudici costituzionali (in Germania, Austria, Spagna, Canada, Colombia e Ecuador) - ciò non può tradursi in una assoluta e discrezionale libertà di accesso al suicidio assistito. Un simile “salto di livello”, infatti, esporrebbe al rischio di possibili abusi o indebite pressioni sociali, magari indirette, in danno delle persone più deboli e vulnerabili, la cui vita umana è dovere della Repubblica tutelare. Il suicidio assistito e l’omicidio del consenziente restano reati non perché la vita sia un bene indisponibile in nome di una sua concezione sacrale o funzionale al supremo interesse della collettività alla conservazione della vita dei suoi concittadini. La nostra Costituzione, infatti, considera la persona un valore in sé e non un mezzo per soddisfare interessi altrui. Piuttosto tali reati trovano giustificazione costituzionale perché funzionali allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare la vita delle persone che a causa di interferenze di ogni genere potrebbero essere indotte a scelte estreme e irreparabili. È allora compito del legislatore bilanciare il dovere di tutelare la vita umana con il diritto all’autodeterminazione terapeutica di chi vuole scegliere su come porre fine alla propria vita quando la ritiene non degna di essere vissuta sulla base di una nozione soggettiva - anziché oggettiva - della sua dignità alla quale la Corte significativamente si dice “non affatto insensibile”. In tale bilanciamento il legislatore, seguendo la strada indicata dalla Corte, deve rifiutare le tesi opposte di chi vuole il suicidio assistito: sempre e comunque vietato, perché contrario alla vita come dono di Dio o funzionale ad interessi collettivi; oppure sempre e comunque ammesso, in nome del diritto di ognuno di autodeterminarsi nella propria vita privata. Piuttosto il legislatore statale, in forza del “considerevole” margine di apprezzamento che ha in materia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13.6.2024 Karsai c. Ungheria), se da un lato non può certamente costringere nessuno a vivere contro la propria volontà, di contro deve evitare che questa libertà possa prestarsi ad abusi in danno di persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e sole, le quali potrebbero essere facilmente indotte da altri o dalla propria stessa disperazione a scelte autodistruttive. Sbaglierebbe però chi da queste premesse concludesse per una Corte insensibile alla questione sottoposta. Pur respingendo tutte le eccezioni d’incostituzionalità sollevate, la Corte si dà carico di dare una sorta di interpretazione autentica della ratio della nozione di Tsv indicata nella sua sentenza del 2019, includendovi quei trattamenti sanitari anche non complessi o invasivi come - e qui l’esemplificazione non è né casuale né inopportuna - l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, la cui “omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”. Tutti trattamenti che possono essere compiuti anche da personale non sanitario, come i familiari o i caregivers, e che vanno ugualmente considerati di sostegno vitale purché ovviamente determinino in tempi brevi e prevedibili la morte del paziente. Inoltre, puntualizza la Corte, al suicidio assistito possono accedere non solo quanti sono già sottoposti a tali Tsv ma anche coloro che sono in procinto di esserlo e che possono già sin dall’inizio rifiutarli in quanto non imposti per legge. Ciò per evitare il drammatico paradosso, purtroppo già verificatosi, che per poter accedere al suicidio assistito si sia di fatto costretti a sottoporsi ad un trattamento di sostegno vitale (nel caso in questione il sondino per la nutrizione artificiale) cui invece non ci si vorrebbe sottoporre. La Corte infine ribadisce la responsabilità del Ssn (il servizio sanitario nazionale) di verificare le suddette quattro condizioni, previo parere del comitato etico territorialmente competente e la necessità che a tutti i pazienti sia garantito l’effettivo accesso alle cure palliative su tutto il territorio nazionale. In definitiva, con tale sentenza la Corte, sensibile alle questioni sottoposte, ha dato una interpretazione più estesa dei trattamenti di sostegno vitale, ampliando così la platea di coloro che da domani possono ricorrere al suicidio assistito (o possono farne oggetto di disposizioni anticipate di trattamento). Così facendo la Corte si è spinta fino alle colonne d’Ercole oltre cui può navigare solo il legislatore, com’è giusto che sia in materie così delicate ed eticamente sensibili in cui non è il giudice ma la politica che deve decidere, fissando regole uguali per tutti. Peccato però che, nonostante le ripetute sollecitazioni di una Corte capace di fare sintesi al suo interno (da qui l’inedita scelta di due giudici relatori e redattori), questa politica, vittima dei propri radicalismi, ha finora dimostrato di non averne né la capacità, né la forza. Parole, politica e pallottole: la violenza non è solo made in Usa di Andrea Casadio Il Domani, 23 luglio 2024 Il ventunenne che ha tentato di assassinare Donald Trump era forse un pazzo, ma sicuramente non isolato. Molte ricerche dimostrano che negli Usa un numero sempre maggiore di cittadini giustifica l’uso della violenza per raggiungere i propri obiettivi politici. E potrebbe accadere anche da noi. Molti pensano che Thomas Matthew Crooks, il ventunenne che durante un comizio politico nei pressi di Butler, in Pennsylvania, ha tentato di assassinare l’ex presidente degli Usa, Donald Trump, fosse un pazzo isolato spinto da un impulso irrazionale di vendetta. Forse era un pazzo, ma sicuramente non era isolato: l’uso delle armi per eliminare un avversario politico non è un evento straordinario nella storia degli Usa, è accaduto spesso in passato e accadrà ancora in futuro. E potrebbe capitare anche da noi. Nell’autunno del 2016, poche settimane prima delle elezioni presidenziali di quell’anno, mi trovavo a Pittsburgh, capitale della Pennsylvania, per assistere a una manifestazione organizzata da gruppi di estrema destra americana in sostegno di Donald Trump. Salirono sul palco molti oratori, e quasi tutti inneggiarono apertamente alla violenza: “Questa è una guerra, e per vincerla dobbiamo usare ogni mezzo necessario!”, qualcuno urlò. Molti degli spettatori, quasi tutti operai o agricoltori, sfoggiavano armi - chi un revolver alla cintola, chi un fucile a tracolla - perché in Pennsylvania, come nella maggior parte degli stati Usa, è in vigore la legge “open carry”, in base alla quale chiunque è autorizzato a portare un’arma in bella vista. Quando chiesi a un tranquillo signore barbuto perché tenesse una Colt alla cintura, lui mi rispose serafico: “Perché il nemico mi può assalire ovunque”. Intendeva un nemico politico, cioè un democratico. Charles Homans, giornalista del New York Times, ha raccontato che nell’agosto del 2022 si trovava a un raduno di militanti di estrema destra che si teneva a Bloomburg, in Pennsylvania, a pochi chilometri da dove hanno cercato di assassinare Trump. Si erano riuniti perché pensavano che Trump avesse vinto le elezioni del 2020 ma che i democratici gliele avessero rubate con l’inganno, e volevano decidere cosa fare. Guerra permanente - Il primo a parlare fu un pastore evangelico il quale raccontò la storia di un pastore che aveva combattuto a fianco dei membri della sua congregazione durante la Rivoluzione americana. “Ecco un predicatore che insegna ai fedeli che bisogna combattere contro la malvagità e la miscredenza, e contro la dittatura. Dobbiamo imbracciare le armi, se necessario! Sapete bene come me che, con quel che sta accadendo ora, probabilmente ci toccherà farlo! E penso che il secondo emendamento ce lo consenta!”. Si riferiva al secondo emendamento della Costituzione, che recita: “Nessuno può limitare il diritto del cittadino a possedere e portare un’arma”. Nella folla, un uomo agitava un cartello con sopra disegnate una bandiera Usa e una croce con in mezzo un fucile, e sopra la scritta “Dio, armi, e coraggio! Manteniamo l’America libera!” Tra tutte le democrazie mondiali, gli Stati Uniti sono quella più abituata alla violenza politica. Gli Usa sono nati da una guerra civile, e nel corso della loro storia le maggiori rivoluzioni sociali - le lotte per i diritti civili, la fine della segregazione razziale - sono state accompagnate e spesso favorite da scontri violenti in cui era comune l’uso delle armi. In fondo, sono il paese in cui il presidente Thomas Jefferson ha pronunciato la frase: “L’albero delle libertà deve essere rinfrescato di tanto in tanto con il sangue dei patrioti e dei tiranni”, e Malcolm X ha sentenziato che libertà, giustizia e uguaglianza devono essere raggiunte “con ogni mezzo necessario”. Parole e opere - Il presidente Joe Biden, parlando del tentato assassinio di Trump, ha dichiarato che “non c’è posto per questo tipo di violenza in America”. Ma la sua frase è suonata ipocrita e falsa. Il presidente John Fitzgerald Kennedy è stato assassinato, suo fratello Robert è stato assassinato, Ronald Reagan ha rischiato di essere ucciso in un attentato. E la lista continua. Gli Usa sono un paese dove il linguaggio della violenza sta sempre più permeando la politica. Uno dei partecipanti al comizio di Trump a Butler subito dopo la sparatoria ha dichiarato a un giornalista della Bbc: “Hanno sparato loro per primi! Questa è una fottuta guerra!”. E qualche giorno dopo, il capo ufficio stampa del deputato democratico Bennie Thompson è stato licenziato perché aveva scritto su Facebook: “Io non condanno la violenza, ma la prossima volta per favore prima prendi qualche lezione di tiro così non manchi il bersaglio”. Nathan Kalmoe - professore di scienze sociali all’Università di Madison in Wisconsin - e Lilliana Mason - professoressa di scienze politiche alla Johns Hopkins University di Washington DC - hanno condotto un ampio studio per esplorare l’atteggiamento dei cittadini Usa verso la violenza politica. Hanno trovato che il 20 per cento dei cittadini - cioè circa 40 milioni di americani - pensa che la violenza politica sia in qualche modo giustificata. A giugno, hanno ricontattato molti dei partecipanti, gli hanno rifatto le stesse domande, e così hanno scoperto che il 60 per cento di loro ritiene che la violenza politica sia giustificata se qualcuno dell’altro partito politico commette per primo un atto di violenza, mentre un anno fa era solo il 40 per cento, cifre quasi identiche tra democratici e repubblicani. Nel 2022, Kalmoe e Mason hanno scritto un libro intitolato Militanza politica radicale in America, in cui giungono a conclusioni sconfortanti: “Piuttosto che chiedersi se gli americani siano a favore della violenza politica sarebbe meglio chiedersi quando sono a favore di essa”. Perché ciò accade? E di chi è la colpa? Dopo il tentato assassinio di Trump, i repubblicani danno la colpa del clima di violenza a Biden, che in un comizio di pochi giorni prima aveva dichiarato: “È giunto il momento di mettere Trump al centro del bersaglio”. I democratici la danno a Trump, che definisce Biden “un fascista”, ripete ossessivamente che le elezioni del 2020 sono state un furto, e accusa il presidente di “guidare una cospirazione per rovesciare la democrazia”. Nel febbraio del 2021, Kalmoe e Mason hanno chiesto ad un campione di americani se per il membro di un partito fosse giustificabile uccidere il leader del partito avversario al fine di perseguire i propri obiettivi politici. Il 12 per cento dei repubblicani e l’11 per cento dei democratici ha risposto di sì. “Generalizzando questi risultati per l’intera popolazione americana” - hanno scritto - “significa che circa 20 milioni di americani approvano l’idea di assassinare un leader politico”. Molte ricerche dimostrano che, a partire dagli anni Novanta, gli americani hanno cominciato a identificarsi in due campi ideologici e sociali ben distinti - ricchi contro poveri, bianchi contro neri, cittadini contro immigrati, cristiani contro non cristiani - divisi da precise linee di appartenenza politica. Chi sta da una parte pensa che chi sta dall’altra non sia più un essere umano, ma solo un nemico. Nel 2017, Kalmoe e Mason hanno scoperto che il 60 per cento dei repubblicani e dei democratici pensava che l’altro partito fosse “una minaccia”, il 40 per cento che fosse “il male”, il 20 cento che fosse composto da “non umani”. Tutte queste percentuali sono aumentate di molto sotto la presidenza Trump, più tra i repubblicani che tra i democratici. Disimpegno morale - Il risultato di tutto questo è un clima che Kalmoe e Mason definiscono di “disimpegno morale”. Se pensi che il tuo avversario politico sia un subumano, qualcuno inferiore a te, allora è più facile pensare che sia giusto annientarlo in ogni modo. Il disimpegno morale non è violenza, ma è un precursore essenziale per la violenza politica. Ha modificato in profondità il linguaggio e il comportamento della politica negli Usa, e sta cominciando a farlo anche negli altri paesi del mondo. Molte ricerche sociologiche e sociali dimostrano che la violenza politica è in enorme aumento in tutto il mondo. Soprattutto i leader politici dovrebbero stare attenti a come usano le parole perché poi alle parole seguono i fatti, cioè le pallottole. Ansioso e identitario, ecco il profilo del perfetto complottista di Simona Siri La Stampa, 23 luglio 2024 Nell’ormai lontano 2009 lo scienziato cognitivo Stephan Lewandowsky iniziò a studiare le origini del negazionismo climatico ovvero perché alcune persone rifiutavano di accettare le prove schiaccianti che il pianeta si stava riscaldando e che gli esseri umani ne erano responsabili. Durante le sue ricerche lo studioso scoprì che il negazionismo di molti non si limitava al clima, ma comprendeva anche una serie di altri complotti stravaganti, come l’idea che lo sbarco sulla Luna del programma Apollo fosse una bufala creata dal governo americano. “Molti dei discorsi che queste persone facevano su Internet erano totalmente cospiratori”, ricorda. Nel 2013, con la pubblicazione delle sue scoperte su Psychological Science, i cospirazionisti, offesi dalle sue affermazioni, incominciarono ad attaccare la sua integrità e a chiederne il licenziamento. Non solo, mentre lo attaccavano, queste persone che già credevamo in folli teorie, ne creavano di nuove proprio su di lui, prima quasi innocue, come l’aver falsificato le risposte al questionario, poi sempre più violente, fino alle minacce di morte. La storia di Lewandowsky è solo un esempio: dal 2009 a oggi le teorie complottiste invece che diminuire sono aumentate e sono state accompagnate da morte e violenza. La più recente riguarda il tentato assassinio di Donald Trump. A parte gli evangelici ultra conservatori che credono che il proiettile sparato da Thoams Crooks sia stato intercettato dalla mano di Dio, a sinistra dello spettro politico in molti pensano a un finto attentato messo inscena per favorire Trump e farlo passare per vittima, come dimostra l’ondata di hashtag del tipo #staged, #fakeassassination e #stagedshooting che ha invaso i social già pochi minuti dopo il fatto. Nel 2012, subito dopo la strage della scuola Sandy Hook, dove 20 bambini e sei adulti furono uccisi da uno squilibrato, il personaggio radiofonico Alex Jones incominciò a diffondere la teoria secondo la quale fosse tutta una messinscena del governo federale per spingere una legge sul controllo delle armi. Nel 2016 un tizio convinto della veridicità della teoria secondo la quale alti funzionari del Partito Democratico facevano parte di un giro di sesso minorile, entrò nella pizzeria che secondo la teoria era il quartier generale del giro di pedofilia e si mise a sparare. Per arrivare alla madre di tutte le teorie cospirazioniste, quella secondo la quale le elezioni presidenziali del 2020 erano truccate, con tutto un corollario di teorie accessorie: le macchine conta voti contraffatte, i voti dei deceduti, le valigie piene di voti. Ma se prima si poteva affermare che le credenze cospirazioniste fossero prevalentemente a destra, oggi bisogna ammettere che nessuna parte politica ne è immune. Dopo il Covid e l’ondata di scetticismo che ha scatenato, è diventato normale per un gran numero di persone dubitare della visione condivisa dai più e interpretare gli eventi in un modo che razionalizzi la propria visione del mondo. “Le teorie del complotto non si limitano a una convinzione politica”, ha affermato Imran Ahmed, amministratore delegato del Center for Countering Digital Hate al quotidiano The Guardian, aggiungendo che tali punti di vista sono un tentativo di “collocare gli eventi in una narrazione che abbia senso per noi” e che “rafforzano le nostre convinzioni e i nostri pregiudizi”. Le teorie del complotto provenienti da persone con tendenze di sinistra o liberali hanno dato origine al termine “Blueanon”, riferito al colore ufficiale del partito democratico blu. Il termine è una derivazione di “QAnon”, l’infondata teoria del complotto di destra pro-Trump secondo cui il mondo e Washington sarebbero in mano a una élite satanica che gestisce un giro di abusi sui minori. Con l’aumentare delle teorie, sono cresciuti anche gli studi psicologici che cercano di capire i tratti psicologici di coloro che a queste teorie credono: l’osservazione empirica di Lewandowsky secondo la quale se si crede a una, facilmente si crederà anche ad altre, oggi ad esempio ha un nome e si chiama “pensiero complottista” o “mentalità complottista”. Secondo una delle ricerche più recenti sull’argomento, pubblicata nel 2023 dalla American Psychological Association, le persone possono essere inclini a credere nelle teorie del complotto a causa di una combinazione di tratti e motivazioni della personalità, tra cui fare forte affidamento sul proprio intuito, provare un senso di antagonismo e superiorità verso gli altri e percepire minacce nel proprio ambiente. “Non tutti i teorici della cospirazione sono persone ingenue e mentalmente malate, un ritratto che viene abitualmente dipinto nella cultura popolare”, spiega Shauna Bowes, dottoranda in psicologia clinica alla Emory University e principale autrice dell’articolo scientifico intitolato “La mente cospiratoria: una revisione meta-analitica delle correlazioni motivazionali e personologiche” pubblicato su Psychological Bulletin. “Molti, invece, si rivolgono alle teorie del complotto per soddisfare bisogni motivazionali privati e dare un senso all’angoscia e all’ansia”. Se le ricerche precedenti avevano per lo più esaminato separatamente la personalità e la motivazione, lo studio di Bowes esamina insieme questi fattori per arrivare a un resoconto più unificato. Per fare ciò, i ricercatori hanno analizzato i dati di 170 studi che hanno coinvolto oltre 158.000 partecipanti provenienti da Stati Uniti, Regno Unito e Polonia. I ricercatori hanno scoperto che le persone erano motivate a credere nelle teorie del complotto dal bisogno di comprendere e sentirsi al sicuro nel proprio ambiente e dal bisogno di sentire che la comunità con cui si identificavano fosse superiore alle altre. Anche se molte teorie del complotto sembrano fornire chiarezza o una presunta verità segreta su eventi confusi, il bisogno di chiusura o un senso di controllo non sono stati i fattori motivazionali più forti per sostenere tali teorie. Invece, i ricercatori hanno trovato che le persone erano più propense a credere a specifiche teorie del complotto sulla spinta delle relazioni sociali. Ad esempio, i partecipanti che percepivano minacce sociali erano più propensi a credere in teorie cospirative basate sugli eventi, come la teoria secondo cui il governo USA avrebbe pianificato gli attacchi terroristici dell’11 settembre, piuttosto che in una teoria astratta secondo cui, in generale, i governi pianificano di danneggiare i cittadini per mantenere il potere. “Questi risultati si adattano in gran parte a un recente quadro teorico che sostiene che motivi di identità sociale possono far sì che le persone siano attratte dal contenuto di una specifica teoria della cospirazione, mentre le persone che sono motivate dal desiderio di sentirsi uniche hanno maggiori probabilità di credere in teorie cospirative generali su come funziona il mondo”, dice Bowes. I ricercatori hanno anche scoperto che le persone con determinati tratti della personalità come un senso di antagonismo verso gli altri e alti livelli di paranoia, erano più inclini a credere ai complotti. Quanti credevano fortemente nelle teorie del complotto avevano anche maggiori probabilità di essere insicuri, paranoici, emotivamente volatili, impulsivi, sospettosi, ritirati, manipolatori, egocentrici ed eccentrici. I cinque grandi tratti della personalità (estroversione, gradevolezza, apertura, coscienziosità e nevroticismo) avevano una relazione molto più debole con il pensiero cospiratorio. Medio Oriente. Torture e isolamento per i “combattenti illegali” palestinesi, violato il diritto internazionale di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2024 La prima volta che un governo israeliano usò l’espressione “combattenti illegali” rendendola oggetto di una legge risale al 2002: l’obiettivo era consentire la detenzione prolungata, senza accusa né processo, di due cittadini libanesi, che in quanto tali non erano sotto la giurisdizione israeliana. Ma dal 7 ottobre 2023, a seguito degli orribili attacchi di Hamas e di altri gruppi palestinesi nel sud d’Israele, la Legge sui combattenti illegali è diventata d’uso quotidiano. Gli effetti sono descritti in una ricerca di Amnesty International basata, tra l’altro, sulle testimonianze, raccolte in prima persona, di 27 ex detenuti e detenute, trattenuti anche per 140 giorni. Inizialmente, l’esercito israeliano aveva chiesto l’applicazione della normativa per arrestare persone sospettate di aver preso parte agli attacchi del 7 ottobre, ma in breve tempo ne ha ampliato l’uso per effettuare arresti di massa di palestinesi della Striscia di Gaza e trattenerli, senza contatti col mondo esterno, a tempo indeterminato senza accusa né processo. L’esercito israeliano ha arrestato i detenuti in varie località della Striscia di Gaza, tra le quali Gaza City, Jabalia, Beit Lahiya e Khan Younis. I detenuti sono stati presi all’interno di scuole adibite a rifugi per sfollati interni, nel corso di irruzioni in abitazioni e ospedali e durante i controlli ai posti di blocco. Tra loro, medici arrestati negli ospedali per aver rifiutato di abbandonare i loro pazienti, madri separate dai loro figli mentre cercavano di fuggire attraverso i cosiddetti “corridoi sicuri” da nord a sud della Striscia di Gaza, difensori dei diritti umani, operatori delle Nazioni Unite, giornalisti e ulteriori civili. Il Servizio israeliano delle prigioni ha confermato all’organizzazione non governativa israeliana Hamoked che, alla data del 1° luglio 2024, 1402 palestinesi erano detenuti ai sensi della Legge sui combattenti illegali. Questa cifra esclude coloro che sono trattenuti per il periodo iniziale di 45 giorni senza ordinanza formale. Nel dicembre 2023 è stato approvato un emendamento temporaneo che ha ulteriormente inasprito le norme della Legge sui combattenti illegali. Viene esteso dalle iniziali 96 ore (aumentabili fino a sette giorni) a 45 giorni il periodo in cui l’esercito israeliano può trattenere i palestinesi arrestati senza un’ordinanza di detenzione. Aumenta da 14 a 75 giorni il periodo di tempo in cui una persona può essere detenuta senza essere portata di fronte a un giudice e da 21 giorni fino a sei mesi, in seguito ridotti a tre, quello in cui non può incontrare un avvocato. Le prove su cui si basa la detenzione non sono rese note ai detenuti (né ai loro avvocati), che dunque per mesi non hanno la minima idea dei motivi della detenzione, in violazione del diritto internazionale, completamente isolati dalle loro famiglie e dai loro cari e nell’impossibilità di contestare l’ordinanza di detenzione. Due ex detenuti hanno raccontato ad Amnesty International di essere stati portati due volte davanti a un giudice senza poter parlare o fare domande. Gli è stato semplicemente comunicato che la loro detenzione era stata rinnovata per altri 45 giorni. Non sono mai stati informati circa le basi legali del loro arresto o le prove che lo avessero giustificato. A seguito di un ricorso alla Corte suprema israeliana da parte di Hamoked per conto di un radiologo di Khan Younis in carcere, nel maggio 2024 lo stato israeliano ha informato i giudici che gli avvocati possono fare richiesta d’incontrare i loro clienti di Gaza trascorsi 90 giorni dalla detenzione. Da allora, è stato approvato un numero molto esiguo di richieste. Oltre a essere privati dei contatti coi loro legali, i detenuti sono anche isolati dalle loro famiglie. Queste hanno descritto ad Amnesty International il senso di agonia derivante dall’essere separate dai loro cari e dal vivere nella costante paura di scoprire che sono morti in carcere. Maltrattamenti e torture - I 27 ex detenuti intervistati da Amnesty International hanno descritto in modo coerente di essere stati sottoposti almeno una volta alla tortura. Rappresentanti dell’organizzazione hanno osservato segni di tortura su almeno otto ex detenuti intervistati personalmente e hanno anche esaminato referti medici riguardanti due ex detenuti, che hanno corroborato le denunce di tortura. Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha verificato e geolocalizzato almeno cinque video di arresti di massa, avvenuti nel nord della Striscia di Gaza e a Khan Younis, di detenuti filmati mentre venivano obbligati a denudarsi e lasciati in mutande. L’obbligo di rimanere nudi in pubblico per lunghi periodi di tempo viola il divieto di maltrattamenti e torture ed equivale a violenza sessuale. I palestinesi trasferiti al famigerato centro di detenzione militare di Sde Teiman, nei pressi di Beersheba, nel sud d’Israele, hanno dichiarato di essere rimasti bendati e ammanettati per tutta la durata della loro detenzione, di essere stati costretti a rimanere per molte ore in posizioni che procuravano dolore senza poter parlare tra loro o alzare la testa. Questi racconti sono coerenti con le conclusioni di altre organizzazioni per i diritti umani e di organismi delle Nazioni Unite così come con le testimonianze di whistleblower e di ex detenuti. Said Maarouf, un pediatra di 57 anni arrestato nel dicembre 2023 dai soldati israeliani durante un’incursione nell’ospedale battista di al-Ahli di Gaza City, detenuto per 45 giorni a Sde Teiman, ha raccontato ad Amnesty International di essere stato tenuto bendato e ammanettato per l’intera durata della detenzione, ripetutamente picchiato, ridotto alla fame e costretto a stare inginocchiato per lunghi periodi di tempo. Il 1° gennaio 2024 l’esercito israeliano ha arrestato un ragazzo di 14 anni nella sua abitazione di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. È stato detenuto per 24 giorni a Sde Teiman insieme ad altri 100 detenuti adulti. Ha riferito ad Amnesty International che gli addetti agli interrogatori lo hanno preso a calci e a pugni sul collo e alla testa e lo hanno ripetutamente bruciato con sigarette. Quando Amnesty International l’ha intervistato, il 3 febbraio, in una scuola di Gaza per sfollati interni, i segni delle bruciature e di altre ferite erano ancora visibili. Nel corso della detenzione, il ragazzo non ha potuto telefonare ai suoi familiari né vedere un avvocato ed è stato tenuto bendato e ammanettato. Il 3 giugno l’esercito israeliano ha confermato al quotidiano Haaretz che erano in corso indagini sulla morte di 40 detenuti, 36 dei quali deceduti o uccisi a Sde Teiman. Non c’è stata finora alcuna incriminazione. Quella cifra non comprende i detenuti deceduti o uccisi nelle strutture penitenziarie dirette dal Servizio israeliano delle prigioni. Le detenute - Tra le persone tornate in libertà intervistate da Amnesty International ci sono anche cinque ex detenute rimaste senza contatti col mondo esterno per oltre 50 giorni. Inizialmente, sono state trattenute nel centro di detenzione militare per sole donne di Anatot, situato in un insediamento illegale nei pressi di Gerusalemme, nella Cisgiordania occupata. In seguito, sono state portate nella prigione femminile di Damon, nel nord d’Israele, gestita dal Servizio israeliano delle prigioni. Nessuna di loro è stata informata circa le basi legali dell’arresto o portata di fronte a un giudice. Hanno denunciato che durante i trasferimenti venivano picchiate. Una di loro, arrestata il 6 dicembre 2023 nella sua abitazione nella Striscia di Gaza, ha raccontata di essere stata separata dai suoi due figli, di quattro anni e nove mesi, e detenuta inizialmente insieme a centinaia di uomini. I soldati israeliani le dicevano che faceva parte di Hamas, la picchiavano e la obbligavano a essere fotografata senza il velo. La donna ha anche descritto il tormento della finta esecuzione del marito: “Il terzo giorno di detenzione ci hanno gettato in una fossa e hanno iniziato a riempirla di sabbia. Un soldato ha sparato due colpi in aria e mi ha detto che avevano ucciso mio marito. Sono scoppiata a piangere e l’ho supplicato di uccidere anche me, per porre fine a quell’incubo”. “Ero terrorizzata tutto il tempo per i miei bambini”, ha raccontato ad Amnesty International un’altra ex detenuta, dato che le sue richieste di sapere qualcosa sui suoi figli erano ignorate dagli agenti penitenziari che ridevano e la prendevano in giro. Dopo tre settimane trascorse nella prigione di Damon, le è stato detto che sarebbe stata scarcerata. È stata bendata, ammanettata mani e piedi e portata in un’altra località. Qui, anziché essere scarcerata, è stata violentemente denudata dagli agenti penitenziari, che hanno usato un coltello per strapparle i vestiti. È poi stata trasferita nuovamente ad Anatot, dove è rimasta per altri 18 giorni. “Ti faremo quello che Hamas ha fatto a noi, ti rapiremo e ti uccideremo”. Così una detenuta ha raccontato ad Amnesty International di essere stata minacciata dagli agenti penitenziari. Amnesty International ha pertanto sollecitato le autorità israeliane ad abrogare la Legge sui combattenti illegali, una violazione clamorosa del diritto internazionale. Coloro che sono sospettati di crimini di diritto internazionale dovranno essere sottoposti a procedimenti rispettosi degli standard del giusto processo, mentre tutti i civili detenuti arbitrariamente senza accusa né processo dovranno essere immediatamente scarcerati. *Portavoce di Amnesty International Italia Sudan. Inferno africano: omicidi, violenze etniche e sessuali contro i civili inermi La Repubblica, 23 luglio 2024 Medici Senza Frontiere: “È urgente fermare gli attacchi contro le persone e le strutture sanitarie e favorire accesso agli aiuti”. Il costo umano del conflitto. In Sudan la popolazione civile è vittima di violenze indiscriminate di ogni genere, tra omicidi, torture e violenze sessuali ed etniche. Gli operatori sanitari e le strutture mediche sono oggetto di continui attacchi nonostante nel paese sia in atto una delle peggiori crisi umanitarie degli ultimi anni, con più di 24 milioni di persone - tra cui più della metà sono bambini - che hanno bisogno di assistenza umanitaria, circa 10 milioni di sfollati interni e più di 2 milioni di persone che hanno cercato salvezza nei paesi vicini. È quanto emerge dal nuovo rapporto internazionale pubblicato oggi da Medici Senza Frontiere (MSF) intitolato “A war on people. Il costo umano del conflitto e della violenza in Sudan” che descrive le orribili violenze perpetrate dalle Forze Armate Sudanesi (SAF) e dalle Forze di Supporto Rapido (RSF) e dai loro sostenitori sulla popolazione civile in tutto il paese. Bombe su ospedali, mercati e case. Dall’inizio della guerra nell’aprile 2023, i combattimenti hanno avuto un impatto catastrofico, con ospedali attaccati, mercati bombardati e case rase al suolo. Le stime delle persone ferite o uccise dall’inizio del conflitto variano, ma solo nell’ospedale Nao di Omdurman, nello stato di Khartoum, supportato da MSF, sono state curate 6.776 persone vittime di violenze tra agosto 2023 e aprile 2024, con una media di 26 persone al giorno. I team di MSF, che lavorano in otto diversi stati del Sudan, hanno curato migliaia di pazienti con ferite causate dal conflitto in tutto il paese, la maggior parte dovute a esplosioni, colpi di arma da fuoco e accoltellamenti. Gli arrivi nei presidi sanitari di Msf. “Sono arrivate circa venti persone e sono morte subito dopo, alcune erano già morte all’arrivo. La maggior parte di loro arrivava con braccia o gambe già gravemente ferite o amputate” racconta un operatore sanitario dell’ospedale Al Nao dopo un bombardamento in una zona residenziale della città. “Alcuni avevano solo una piccola parte di pelle che teneva insieme due arti. Un paziente è arrivato con una gamba amputata, insieme a una persona che lo assisteva e aveva in mano l’arto mancante”. Violenze sessuali e di genere. Sono scioccanti le testimonianze di violenze sessuali e di genere, perpetrate soprattutto in Darfur. Un’indagine condotta da MSF su 135 donne sopravvissute a violenza sessuale, assistite dalle équipe di MSF tra luglio e dicembre 2023 nei campi profughi in Ciad al confine con il Sudan, ha rilevato che il 90% di loro ha subito abusi da parte di una persona armata, il 50% ha subito abusi nelle proprie case e il 40% è stata violentata da più aggressori. Questi dati sono coerenti con le testimonianze riportate dalle persone sopravvissute che sono ancora in Sudan, che dimostrano come la violenza sessuale continui ad essere perpetrata contro le donne nelle loro case e durante la fuga dagli scontri, un segno distintivo di questo conflitto. Scompaiono persone. “Due giovani ragazze di Sariba, il nostro quartiere, sono scomparse. Quando mio fratello è stato liberato dopo essere stato rapito ha detto che le due ragazze erano nella stessa casa dove era detenuto e che erano lì da due mesi. Ha raccontato che aveva sentito fare loro delle brutte cose, di quelle che vengono fatte alle donne” ha raccontato un paziente di MSF, descrivendo quanto accaduto a Gedaref a marzo scorso. Violenza etnica. Alcune testimonianze raccolte da MSF e riportate nel rapporto descrivono episodi di violenza etnica contro la popolazione del Darfur. Le persone hanno raccontano che a Nyala, in Darfur meridionale, nell’estate del 2023 le RSF e le milizie alleate hanno saccheggiato casa per casa, ucciso e picchiato le persone, prendendo di mira i Masalit e altre persone di etnia non araba. “Sono stato accoltellato molte volte”. “Gli uomini erano armati di pistole e vestiti con la mimetica della RSF… Sono stato accoltellato molte volte e sono caduto a terra. Quando sono usciti di casa mi hanno guardato sdraiato a terra, ero appena cosciente. Li ho sentiti dire ‘Morirà, non sprechiamo proiettili’, mentre uno di loro mi premeva il piede addosso” ha raccontato ai team di MSF un paziente a Nyala. Ospedali attaccati - I continui saccheggi. In oltre un anno di guerra, gli ospedali in Sudan sono stati regolarmente saccheggiati e attaccati. A giugno l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che nelle aree difficili da raggiungere solo il 20-30% delle strutture sanitarie del paese è funzionante, ma anche in questo caso a livelli minimi. Le équipe di MSF hanno documentato almeno 60 episodi di violenza e attacchi contro il proprio personale, beni e infrastrutture. Tra questi, l’ospedale Al Nao di Omdurman, supportato da MSF, è stato bombardato in tre diverse occasioni, mentre l’ospedale pediatrico Baker Nahar di El Fasher è stato costretto a chiudere dopo che un’esplosione causata da un attacco aereo ha fatto crollare il tetto della terapia intensiva, uccidendo due bambini. La burocrazia e il sistema sanitario. Nonostante le difficoltà del sistema sanitario di soddisfare adeguatamente i bisogni della popolazione, alle organizzazioni umanitarie e mediche è stato spesso impedito di fornire supporto. Sebbene le autorità abbiano iniziato a rilasciare più facilmente i visti per il personale umanitario, i tentativi di fornire cure mediche essenziali sono ancora regolarmente ostacolati da limiti burocratici, come il rifiuto di rilasciare permessi di viaggio per consentire il passaggio di persone e forniture essenziali. Il blocco dell’assistenza umanitaria. “La violenza delle parti in conflitto è aggravata da ulteriori ostacoli: se l’assistenza umanitaria viene bloccata quando le persone ne hanno più bisogno, in Sudan un semplice timbro o una firma possono diventare mortali quanto i proiettili e le bombe” dichiara Vickie Hawkins, direttrice generale di MSF. “Chiediamo a tutte le parti in conflitto di facilitare l’aumento degli aiuti umanitari e, soprattutto, di fermare questa insensata guerra contro le persone cessando immediatamente gli attacchi contro la popolazione, le infrastrutture civili e le zone residenziali”. Medici Senza Frontiere in Sudan. MSF attualmente lavora in circa 30 strutture sanitarie in 8 stati del Sudan, in aree controllate da entrambi le parti in conflitto. Dall’aprile 2023, più di mezzo milione di persone hanno richiesto consultazioni mediche presso gli ospedali e le strutture dove lavorano i team di MSF. I casi di malaria. Le équipe di MSF hanno visto più di 100.000 casi di malaria, curato più di 2.000 persone per il colera e visto molte migliaia di casi di morbillo. Nell’ultimo anno, MSF ha assistito più di 8.400 parti e ha effettuato 1.600 parti cesarei. MSF ha sostenuto le cure per oltre 30.000 bambini con malnutrizione acuta in un anno. MSF sta rispondendo anche in Ciad e in Sud Sudan, dove oltre un milione di persone si sono rifugiate dall’inizio della guerra in Sudan. #TalkAboutSudan è l’hashtag lanciato a livello globale da MSF per continuare a parlare di questa crisi dimenticata.