“Una delusione bruciante. Il decreto carceri può aggravare i problemi anziché risolverli” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 luglio 2024 Cristina Ornano, presidente del Tribunale di sorveglianza a Cagliari, dà voce allo sconforto delle toghe dopo il provvedimento di Nordío: “Non riduce il sovraffollamento, rischia di aggravarlo. Sulla liberazione anticipata pendono 200mila procedimenti e noi siamo 230”. “Il personale amministrativo ha scoperture medie del 50%. Introdurre, nei calcoli sulla detenzione, il ‘fine pena virtuale’ può allungare i tempi. E lo scoramento dei reclusi potrebbe accrescere le tensioni che alimentano le violenze”. Le attese erano alte, perciò la delusione prodotta dal decreto legge del Governo sulle carceri è ancora più bruciante”. In magistratura da11993, dopo esser stata giudice civile e aver ricoperto tutte le funzioni nel settore penale, da due anni Maria Cristina Ornano è la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari. E i faldoni sulla sua scrivania le confermano ogni giorno quanto siano necessari interventi per migliorare la situazione nei penitenziari italiani. Nei giorni scorsi, è stata ascoltata in Senato dalla Commissione Giustizia. E ora ragiona con Avvenire delle implicazioni legate al pacchetto di norme varate dall’esecutivo. “Una delusione bruciante”, lei dice, presidente Ornano. Per quali ragioni? A fronte di 58 detenuti suicidi nella prima metà dell’anno, di carceri al collasso in cui sono ristretti 61.480 detenuti, a fronte dei numeri elevatissimi e crescenti di reclusi affetti da tossicodipendenza e da gravi patologie psichiatriche, era legittimo attendersi dal Governo un intervento certo non risolutore, ma tale da dare almeno qualche, efficace, risposta al grave disagio nel quale stanno vivendo le persone detenute. E invece? E invece non è avvenuto. Se pensiamo che inizialmente era stato annunciato come “svuota-carceri” e poi più modestamente lanciato come “Carcere sicuro”. Ora, a mio parere, l’unica cosa sicura è che il decreto non servirà a ridurre il sovraffollamento carcerario. Anzi, rischia di aggravarlo. Addirittura. E perché? Intanto, perché non semplifica, ma complica proprio la procedura di accesso alla liberazione anticipata e, con essa, alle misure alternative e ai benefici penitenziari. E ciò mentre, paradossalmente, è in discussione in Parlamento la proposta Giachetti, che vorrebbe ampliare la portata del beneficio per alleggerire le presenze negli istituti. Parliamo delle misure varate. In concreto, nel decreto legge, cosa non la convince? Ad esempio, la modifica dei meccanismi per la liberazione anticipata. Faccio una premessa. Chi conosce il carcere sa bene che le persone detenute tengono moltissimo alla liberazione anticipata, perché consente una riduzione di 45 giorni ogni semestre di pena espiata, a condizione che si sia tenuto un comportamento corretto. Si consente al detenuto, calcolando i semestri trascorsi in carcere, di prospettarsi le detrazioni di pena di cui potrebbe fruire. Ciò contribuisce alla sua rieducazione, ma ha una ricaduta positiva anche sui nostri uffici, perché la progressiva e tempestiva maturazione delle liberazioni anticipate semplifica la loro gestione. Allora perché cambiare, se il sistema funziona? A onor del vero, anche adesso ha dei problemi. Ma non dovuti al meccanismo normativo, quanto al numero elevato di procedimenti pendenti - secondo stime ufficiose, oltre duecentomila - e ai tempi lunghi dell’istruttoria: talora il detenuto attende molti semestri prima di richiedere il beneficio, perché bisogna chiedere alle diverse carceri in cui è stato le informazioni necessarie, non disponibili informaticamente. In più, c’è il nodo della scarsità di magistrati di sorveglianza e di personale amministrativo: noi siamo poco più di 230; il personale ha scoperture medie del 40/50%. Ma nessuna risorsa è stata assegnata ai nostri uffici dal Pnrr, nonostante l’informatizzazione nel processo esecutivo e di sorveglianza sia all’anno zero. E il decreto, anziché stanziare risorse aggiuntive, cosa fa? Modifica radicalmente la procedura, gravando anzitutto le Procure dell’onere di indicare nell’ordine di esecuzione, accanto al fine pena reale, quello virtuale derivante dal totale degli sconti di pena che il detenuto avrebbe, ove gli fosse concesso il beneficio della riduzione anticipata. In più, pur prevedendo che la liberazione anticipata sia concessa di regola d’ufficio, il decreto la collega a determinati snodi processuali (istanza di misura alternativa o di altro beneficio e scarcerazione definitiva), e solo in modo residuale all’istanza di parte. Ciò potrebbe creare degli “imbuti”, dilatando i tempi delle istruttorie. Peraltro, faccio notare un aspetto per me sconcertante. Quale? Il governo ragiona come se il sistema informatico a disposizione delle procure, del magistrato e dei direttori degli istituti fosse in grado di darci in tempo reale atti disciplinari e relazioni comportamentali, di fornire dati, di tenere scadenze e fare calcoli sul fine pena virtuale. Non è così, oggi certi calcoli vengono fatti “a mano” dal singolo magistrato. E introdurre certe variabili significa allungare i tempi, non sveltirli. E i detenuti? Per loro cosa accadrebbe? Le ricadute della riforma su di loro mi preoccupano ancor di più. Soppiantare il calcolo per semestre con un altro “virtuale” legato a meccanismi più complicati, potrebbe produrre una profonda frustrazione, come nel caso di detenuti a pene pesanti, vent’anni o più. Il mio timore è che quei sentimenti di scoramento possano accrescere le tensioni che alimentano le violenze in carcere. Tensioni di cui a fare le spese sarebbe, oltre ai detenuti, il personale che ci lavora, a partire dalla Polizia penitenziaria. E le altre norme del provvedimento? Dalla sua trincea quotidiana, come le valuta? Non mi pare che la pretesa “umanizzazione della pena” possa avvenire con certe misure. Anche perché i loro effetti, se mai vi saranno, sono rinviati all’adozione di regolamenti di là da venire. Penso a l’aumento delle telefonate o all’assunzione di mille unità di personale di Polizia penitenziaria, che non vedremo in servizio prima del 2027/2028, e all’istituzione degli elenchi regionali delle strutture terapeutiche. La verità sa qual è? Noi magistrati di sorveglianza affrontiamo ogni santo giorno, prima ancora della carenza di strutture, molti altri problemi. Potrebbe fare degli esempi? Certo. La mancanza di servizi in carcere, come i Serd, o l’assenza di rete col territorio, che rendono difficili i programmi riabilitativi terapeutici individuali. In molte Regioni non ci sono le articolazioni di tutela della salute mentale, per la presa in carico di detenuti con gravi patologie psichiatriche che, perfino in fase acuta, devono essere gestiti nelle sezioni ordinarie. E pure la novità di strutture per l’accoglienza di soggetti indigenti avrebbe bisogno di finanziamenti adeguati per creare una solida rete socio-assistenziale. Ma di tutto ciò, nel decreto “carcere sicuro”, davvero non c’è assolutamente nulla. Troppi suicidi in carcere: sempre peggio le condizioni di detenzione di Nicoletta Benatelli enordest.it, 21 luglio 2024 Originario di San Donà di Piave, 37 anni da poco compiuti, detenuto per vari reati connessi allo spaccio di stupefacenti, una settimana fa, è stato trovato impiccato con il lenzuolo nella sua cella della Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia. A nulla sono valsi i soccorsi. Salgono così a 56 i morti suicidi in quello che appare come un bollettino di guerra, ma che è invece il tragico conteggio di persone nelle mani dello Stato e che lo Stato non riesce a tutelare. A questi bisogna poi aggiungere i sei appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Una mattanza irrefrenabile”. Così Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, commenta l’ennesimo suicidio nelle carceri del Paese. Una maratona per i suicidi in carcere - Il 10 luglio la Camera Penale Veneziana, nell’ambito delle iniziative promosse dall’Unione delle Camere Penali, ha organizzato anche a Venezia, in campo S. Margherita, una maratona oratoria - che ha visto la partecipazione di avvocati, giornalisti, volontari e rappresentanti di numerose associazioni - per sensibilizzare alle condizioni sempre più difficili nelle carceri italiana, che provocano un altissimo numero di suicidi. Sul tema abbiamo intervistato l’avvocato Annamaria Marin, Responsabile della Commissione Carcere della Camera Penale Veneziana. Avvocato Marin, in carcere è una strage di suicidi senza fine, cosa sta succedendo? “Quello dei suicidi in carcere non è il solo problema del carcere e certamente è la conseguenza di molteplici problemi e criticità. La maratona oratoria che abbiamo organizzato vuole essere un segnale inequivocabile: innanzitutto, perché la società non può voltarsi dall’altra parte. La riflessione parte dal sapere da chi è composta oggi la popolazione carceraria”. Ci può descrivere chi sono le persone detenute oggi nelle carceri italiane? “Una moltitudine di senza dimora costretti a reati per lo più di sopravvivenza, uomini e donne che la società ignora o addirittura respinge, dimenticando i sacrosanti principi dell’inclusione e delle opportunità per tutti e strumentalizzando sulla loro pelle il principio della sicurezza. Una moltitudine di stranieri, con il sogno di poter essere cittadini del mondo e conquistare una vita migliore, ma condannati ad una sopravvivenza nell’emarginazione. Tantissimi tossicodipendenti e individui con problemi psichiatrici: il carcere non fa certo per loro, recupero e cura avrebbero bisogno di trattamenti terapeutici mirati in strutture idonee…e in carcere il consumo di psicofarmaci è altissimo, anche tra i non tossici e i non certificati psichiatrici”. Tra i detenuti sta crescendo anche il numero dei minorenni? “Sì, si sta verificando un aumento consistente di detenuti minorenni: in particolare, dopo l’entrata in vigore del cd. decreto Caivano (che prevede nuove misure di contenuto sanzionatorio nei confronti dei minorenni, in particolare l’ampliamento dei presupposti di applicazione dei provvedimenti restrittivi cautelari), gli istituti penitenziari minorili registrano un’impennata di ingressi, senza che vi sia nessun investimento per un effettivo recupero rivolto a questi giovani che rappresentano anche un futuro migliore per il nostro paese”. Come Camere Penali denunciate la mancanza di visione culturale, con un uso del carcere in forma meramente repressiva: possiamo fare un esempio? “Un numero sempre maggiore di detenuti, in attesa di processo o in esecuzione pena, per i reati del cd. codice rosso (relativo alla disciplina dei reati di violenza domestica e di genere): come se la piaga sociale della violenza contro le donne non fosse un problema culturale. La questione del rispetto tra i generi e il contrasto alla violenza contro le donne viene trattato invece ancora prevalentemente in termini soltanto repressivi, con il mero innalzamento delle pene, modalità comprovatamente inutile a produrre un’inversione di tendenza”. Per rendere il carcere luogo di recupero servono investimenti di tipo sociale con un numero adeguato di operatori: qual è la situazione? “Vi è un numero largamente insufficiente di operatori dell’area educativa e dell’area sanitaria, di psicologi e di mediatori. Ad ogni detenuto si riesce perciò a dedicare solo pochi minuti di attenzione, con risposte derivate dall’emergenza, senza l’attivazione di progetti di inserimento sociale condivisi”. La piaga dei suicidi riguarda anche gli agenti di polizia penitenziaria, perché? “Un numero sempre maggiore di poliziotti penitenziari è in sofferenza, perché lavorare nell’inferno di un carcere mina la resistenza psicologica degli individui. La carenza di organico inoltre stressa gli agenti che vedono spesso prolungati i propri turni di lavoro per coprire le necessità emergenti”. Come avvocati che richieste fate per arginare la piaga dei suicidi? “Se questo è il quadro delle condizioni di detenzione, dobbiamo sensibilizzare l’opinione pubblica per chiedere la piena applicazione dei principi previsti all’art. 27 della Costituzione. Sovraffollamento, istituti fatiscenti, la mancanza di validi percorsi ed opportunità di abitazione/terapia/studio/lavoro, l’espiazione dell’intera pena in carcere senza l’attivazione di misure alternative risocializzanti (per carenze oggettive e non per demerito dei singoli), sono un danno per i condannati e una vergogna per l’intera collettività”. Il Parlamento si sta occupando dell’emergenza carcere? “La politica insiste a non voler accogliere la proposta di liberazione anticipata speciale (proposta Giachetti-Bernardini, con riconoscimento anche retroattivo di 75 giorni - anziché gli ordinari 45 giorni - di riduzione pena per ogni semestre espiato con buona condotta). Non si tratta di un provvedimento di clemenza generalizzato, ma una risorsa amministrata, com’è giusto che sia, dalla magistratura di sorveglianza, indispensabile per ridurre in fretta il numero illegale dei detenuti in carcere nel ns. Paese, perché non c’è più tempo”. E il Governo che dice sui suicidi in carcere? “Per i detenuti che legittimamente protestano per le proprie condizioni (che la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha ripetutamente censurato perché inumane e degradanti), è stato recentemente introdotto il reato di “rivolta in istituto penitenziario”, che arriva a punire anche comportamenti di mera disobbedienza pacifica. E infine il D.L. 92/2024 è assolutamente inadeguato e totalmente lontano dal fornire risposte all’urgenza dei problemi. L’art. 5 “interventi in materia di liberazione anticipata” introduce più macchinose procedure per il riconoscimento dello “sconto” di pena già previsto dall’Ordinamento Penitenziario, che graveranno sugli organici perennemente insufficienti delle Cancellerie e degli Istituti di pena, rallenteranno la concessione di misure alternative alla detenzione e che, ciò che è più grave, sottraggono funzioni alla Magistratura di sorveglianza per attribuirle alle Procure, secondo una logica che non ha nulla di trattamentale e premiale, piuttosto di stampo autoritario. L’art. 8 “disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”, nell’illusione di nuove risorse, in realtà prevede solo l’istituzione di un elenco nazionale delle strutture esistenti. Ogni ulteriore commento è superfluo”. Storia di Giacomo, che a due anni vive nel carcere di Rebibbia e dice solo “apri e chiudi” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 luglio 2024 “Apri”, “Chiudi”. Giacomo (lo chiamiamo così per proteggere la sua identità) non ha neanche due anni e mezzo e, di fatto, non parla. Dice “si”, “no”, “mamma”, “pappa” e quasi niente altro. Ma quelle due parole che sente ripetere così spesso in quella che è diventata la sua tragica routine dietro le sbarre, quelle le ripete puntualmente ogni volta che entra ed esce dal carcere. A Rebibbia, nella sezione nido, Giacomo è recluso ormai da dieci mesi insieme alla sua mamma che - diciamolo subito - non è una delle borseggiatrici rom sempre incinte contro cui la Lega invoca misure di massimo rigore (e pazienza se ci vanno di mezzo i bambini), ma è una trentenne italiana che sta scontando una pena per reati minori. Come il suo compagno, padre del bimbo, anche lui recluso a Rebibbia. E così dietro le sbarre è finito anche Giacomo. Sì, sbarre, perché la stanza in cui il bambino sta con la mamma, pur avendo una portafinestra di vetro, ha pur sempre le sbarre. Alle quali il piccolo si attacca con il nasino schiacciato sul vetro aspettando ogni mattina l’arrivo di una delle volontarie dell’associazione “A Roma insieme-Leda Colombini” che hanno dato alla direzione di Rebibbia la disponibilità a portare Giacomo ad un nido esterno la mattina e a riportarlo in carcere il pomeriggio. Da ottobre scorso, quando sua madre è stata arrestata, Giacomo è il solo bimbo che sta a Rebibbia. Nessuno con cui parlare, giocare, interagire, nessuno degli stimoli di cui un bambino a quell’età avrebbe bisogno. Tanto che Giacomo ha maturato un ritardo nello sviluppo psico-motorio dovuto proprio alle condizioni in cui è costretto a vivere. Non parla, non corre, è sovrappeso, porta ancora il pannolino. La sua storia, alla vigilia dell’esame in aula del disegno di legge sicurezza che fa venir meno l’obbligo delle misure alternative per donne con figli minori di un anno, spiega cosa significa condannare un bambino a vivere recluso. A raccontarci le giornate di Giacomo dietro le sbarre è una delle volontarie che tre volte la settimana va a prenderlo a Rebibbia “Lui è contentissimo di andare al nido - dice - io entro con l’auto dentro il carcere, quando salgo a prenderlo lo trovo dietro il vetro di sicurezza con le sbarre che mi aspetta. Mi vede e gli si illumina il viso. Scendiamo insieme i 16 gradini che portano all’atrio e provo a fargli ripetere i numeri. Poi quando in auto aspettiamo che le guardie aprano il cancello, lui cominciare a dire: “Apri, apri, apri”. Giacomo, sei contento di andare a scuola? “Si”. “Di vedere la tua maestra? “Si”, “E i tuoi compagni? “Si”. Non dice altro ma fa dei gridolini indicando una moto, una bici, un parco, immagini estranee alla sua realtà quotidiana. “Quando ci avviciniamo a Rebibbia e lui riconosce le mura di cinta, allora dice sempre “mamma” - racconta ancora la volontaria - capisce che lo sto riportando da lei. E mi si stringe il cuore quando, dopo aver varcato il grande cancello di ferro con le sbarre, Giacomo dice ‘chiudi’. Sa che le guardie ce lo richiudono subito alle spalle”. Per il resto della giornata, la tv con i cartoni animati è il suo principale passatempo. C’è un piccolo giardinetto nella sezione nido con dei giochi, ma è pieno di zanzare. Non corre mai come fanno tutti i bimbi della sua età, mangia quel che passa il convento e quello che la mamma gli compra allo spaccio. Una volta a settimana viene portato dall’altro lato ad incontrare il padre. Ma come è possibile che un bimbo di due anni sia in carcere da nove mesi, perché la mamma non è in una casa famiglia? Giacomo è purtroppo vittima anche della burocrazia, di una lunga attesa di una valutazione. E nel frattempo continua a ripetere “apri” e “chiudi”. Ida Teresi (Anm): “Separato dai giudici, il pm sarà succube della politica” di Carlo Tecce L’Espresso, 21 luglio 2024 La magistrata per un decennio alla direzione distrettuale antimafia di Napoli ed esponente dell’Associazione nazionale magistrati spiega cosa c’è di grave nella riforma della giustizia del ministro Nordio: “Si indebolisce anche il controllo di legalità”. Proponiamo la versione estesa dell’intervista alla dottoressa Ida Teresi, magistrata ed esponente dell’Anm, pubblicata nel numero in edicola il 12 luglio 2024. Ida Teresi è una magistrata di esperienza nella lotta alla criminalità organizzata e nei reati economico-finanziari e contro la pubblica amministrazione. Ha in carriera già un decennio alla direzione distrettuale antimafia di Napoli e un costante impegno con l’Associazione nazionale magistrati, e difatti ne presiede la giunta locale come esponente del gruppo AreaDG. Nel dibattito avviato dall’Espresso sulla riforma del ministro Carlo Nordio, aspramente contestata dall’Anm, l’avvocato Fabrizio Siggia è stato perentorio: “La separazione delle carriere è, a mio avviso, un passaggio obbligato per ristabilire l’equilibrio processuale tra le parti, che, forse, per colpa di pochi, risulta oggi fortemente compromesso a scapito del sacrosanto diritto al giusto processo e all’effettiva terzietà del giudicante”. Dottoressa Teresi, come si smonta la ferma posizione di Siggia? “C’è confusione concettuale nelle posizioni di alcuni penalisti italiani: contraddizioni interne che non sarebbe rispettoso imputare a incompetenza tecnica e che dunque dobbiamo pensare siano dovute a una deriva ideologica che induce a ripetere slogan che manifestano la loro inconsistenza alla prova di un confronto ragionato e lucido. E le dichiarazioni da lei riferite lo dimostrano. Ad esempio, se il tema è l’equilibrio processuale è facile controbattere che il piano regolativo è quello del processo penale -cioè delle procedure- e non quello ordinamentale, che disciplina la figura del magistrato. Ancora, significativa è l’affermazione secondo la quale “per colpa di pochi” oggi sarebbero compromessi il giusto processo e la terzietà del giudice: a parte la discutibilità di una invettiva tanto generica e grave, osservo che a eventuali errori di singoli (da indicare e dimostrare) non si reagisce con stravolgimenti strutturali addirittura di rilievo costituzionale. Sarebbe come dire che a causa della corruzione di alcuni politici o pubblici funzionari riformiamo funditus dal punto di vista ordinamentale il Parlamento o l’apparato della pubblica amministrazione italiana, locale o centrale. In realtà il fulcro delle motivazioni dei penalisti ruota attorno alla generalizzante e offensiva critica rivolta non verso i pubblici ministeri ma verso la professionalità e l’indipendenza dei giudici italiani, che sarebbero incapaci di fare il loro mestiere, decidere con imparzialità. Non si comprende allora perché intervenire sui pm: per di più per peggiorarne lo statuto, formalizzandone una politicizzazione che abbiamo sempre ritenuto patologica e pericolosa, e legittimandone una deriva corporativistica che porrebbe il pm in una posizione di strapotere sugli stessi avvocati oltre che su quei giudici che sarebbero oggi appiattiti sul pm. Una vera e propria eterogenesi dei fini, con un indebolimento della terzietà del giudice e una assente ponderazione dei rischi di deriva illiberale paradossalmente avallata da chi si dichiara (ed è storicamente) espressione di una categoria intrisa di valori democratici e che esercita una fondamentale funzione di tutela della libertà del cittadino. Né è vero che l’unità della giurisdizione introdotta con la Costituzione repubblicana si fondasse sul rito inquisitorio allora vigente e che ora non sarebbe più giustificata: l’esigenza era evitare in futuro le storture e le tragedie del controllo dell’esecutivo sulla magistratura inquirente esercitato durante la dittatura. Pure dire che il rito accusatorio “vuole” necessariamente il pm separato è un falso storico: non esiste al mondo un unico modello di rito accusatorio né di statuto del pubblico ministero; e c’è una chiara spinta delle Corti internazionali verso un accrescimento della indipendenza del pm in tutti i riti accusatori”. Lo stesso Siggia ha aggiunto che “seguire la carriera da requirente piuttosto che da giudicante equivale a mantenere una univoca impostazione, senza che, nel cambio di funzioni, possa residuare quella forma mentis accusatoria che, spesso, contraddistingue i pubblici ministeri, i quali, in una sorta di passaggio tra porte comunicanti, possono essere sia giudicanti sia requirenti”. Questa sembra la convinzione più o meno esplicitata del governo, il sottotesto di ogni testo normativo o semplicemente politico. Un errore? “A parte che è noto che il cambio di funzioni oggi è talmente restrittivo da ridursi a poche decine di casi a fronte di un organico della magistratura di più di 9.000 magistrati, cosa che saprà anche l’avvocato e che dimostra l’inconsistenza dell’argomento, osservo che è complicato rispondere in maniera tecnica a chi parla di forma mentis nel senso di ottuso pregiudizio. Non conosco la base antropologica, gli studi sociali o di psicologia umana che ne costituiscono il fondamento. Altra cosa è la formazione culturale unitaria di giudici e pm, che la riforma vuole annullare e che noi vorremmo preservare come valore prezioso in funzione di tutela del cittadino poichè garantisce un pm “giudice”, parte imparziale in quanto pubblica, impegnato nell’accertamento della verità e non nel raggiungimento di un risultato. Capace di dirigere con rispetto la polizia giudiziaria ma mantenendo il necessario distacco, funzionale e culturale, da organi che hanno inevitabilmente diversa formazione e differenti obiettivi: non per nulla le forze dell’ordine sono tutte sottoposte ai ministeri. È questo che intendiamo dire quando contrastiamo il pericolo di un pm “super poliziotto”, protetto e diretto dalla politica e culturalmente intriso di logiche securitarie e non giurisdizionali”. Perché a suo avviso i governi di centrodestra cominciano a voler riformare la giustizia partendo sempre dalla separazione delle carriere... “Prescindo dal colore politico. Osservo che intervenire sull’autonomia del pm realizza una ingerenza della politica su chi fa le indagini che si traduce in una ingerenza sulla giurisdizione nel suo insieme. Al giudice arriva ciò che il pm ricostruisce e propone attraverso l’esercizio dell’azione penale: controllare il pm vuol dire di fatto controllare i giudici con uno sbilanciamento dell’equilibrio costituzionale in favore dell’esecutivo che contrasta con un principio basilare delle moderne democrazie liberali. Quello che recenti studi internazionali definiscono “impacchettamento delle Corti”: una compressione dell’autonomia e della indipendenza della magistratura che riduce il controllo di legalità”. C’è davvero la volontà del governo, seppur smentita, di controllare l’operato e minare l’autonomia dei magistrati e soprattutto, a prescindere dalla volontà, il decreto va in questa direzione? “Esatto, prescindo dalle intenzioni e valuto i fatti: la separazione delle carriere comporta indefettibilmente l’attrazione del pm sotto il potere esecutivo, come dimostrato dalla storia e dall’attualità; e si traduce in un potere di indirizzo politico sull’organo che fa le indagini a discapito dell’uguaglianza dei cittadini e a detrimento dei loro diritti di fronte al potere. Non esiste alternativa, in nessuna epoca e a nessuna latitudine: il pm o è autonomo e indipendente, inserito nella giurisdizione e parte pubblica imparziale, o è sottoposto alla maggioranza di governo, e dunque parte parziale. Gli altri Paesi guardano a noi come a un modello virtuoso; noi abbiamo deciso di fare un passo indietro: il pm era sottoposto al Ministro durante la monarchia e sotto il regime fascista”. In che modo, esaminando il testo di riforma, l’esecutivo potrebbe condizionare l’attività del magistrato? “In primo luogo, come detto, sottraendolo alla formazione e alla carriera comune con i giudici, e dunque alla indipendenza di cui quelli godono. Inoltre, istituendo due CSM, uno per i pm e l’altro per i giudici, nei quali viene anche aumentato il peso della componente espressione della politica e viene abolito il diritto di elettorato attivo e passivo soltanto per i magistrati, scelti attraverso il sorteggio: anche così si alimenta l’interferenza. Ancora, sottraendo al CSM il potere disciplinare mediante la costituzione di un’Alta Corte, composta poi da soli cassazionisti: un ritorno alla magistratura verticistica del secolo scorso, e una Corte che non garantisce pluralismo e indipendenza e soprattutto non è necessaria poiché l’attuale sistema disciplinare assegnato al CSM funziona benissimo, dati alla mano. Il vero obbiettivo è allora trasmettere un messaggio intimidatorio a chi sia più coraggioso e incline ad esercitare il controllo di legalità anche verso il potere; e indurre comportamenti difensivi”. Come potrebbe spiegare a un cittadino i pericoli della riforma Nordio? “Indebolire il controllo di legalità significa indebolire la possibilità di garantire l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e tutelare i diritti a prescindere dai desiderata della maggioranza di governo. Il disegno si chiude con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio: il ladro di generi alimentari al supermercato o il piccolo spacciatore di marjuana andranno in galera; chi saccheggia il denaro pubblico e lede il diritto dei cittadini a servizi essenziali efficienti abusando del suo potere resterà impunito. Con un grande favore anche alla criminalità organizzata, che ha sempre largamente contato suoi favori dei pubblici ufficiali infedeli. Non è senza significato che alcuni illustri avvocati sostenitori della riforma affermino che così non accadrà più quanto successo con “mani pulite”: il potere pubblico vuole impunità”. Crede che il governo aumenti la sfiducia popolare nei confronti della magistratura? “Anche in questo caso poco conta quello che credo: i fatti dimostrano una organizzata e ripetuta operazione di denigrazione. Una narrazione fondata sulla mistificazione della realtà proveniente da chi ha maggiore accesso ai mezzi di comunicazione di massa e che probabilmente ha una limitata consapevolezza della gravità dei possibili effetti, poichè l’offesa reiterata a una istituzione o a singoli suoi esponenti ne produce l’indebolimento in termini di autorevolezza. Potrebbero saltare i fondamenti dello Stato di diritto qualora ad esempio un cittadino condannato decidesse che una sentenza non vada rispettata, che o una Corte meriti di essere aggredita o insultata”. Siccome c’è molto da aggiustare pure nel sistema giudiziario, da che punto si dovrebbe muoversi? “In primo luogo, bisognerebbe migliorare l’efficienza, che davvero importa al cittadino ma che non pare interessare molto a coloro i quali dovrebbero garantirla assicurando risorse umane e materiali e leggi con procedure snelle e razionali. La situazione del personale amministrativo è disastrosa e le infrastrutture informatiche e tecnologiche sono completamente inadeguate; per non parlare della incongruità di un rito penale farraginoso e irrazionale, e di troppe e inutili norme incriminatrici: occorrerebbe una seria depenalizzazione per perseguire ciò che davvero merita sanzione penale lasciando alla regolamentazione amministrativa ciò che le spetta e che invece delegato impropriamente al penale. Sarebbe auspicabile una seria assunzione di responsabilità da parte del decisore politico”. I giovani ribelli della mafia: “Meglio pentiti che boss” di Riccardo Arena e Giuseppe Legato La Stampa, 21 luglio 2024 Da Torino a Palermo sempre più spesso i rampolli dopo anni di omicidi e narcotraffico scelgono di pentirsi e collaborare. Lo stragista del Gargano: “Sogno un futuro per mio figlio”. Ci sono due narcos (oltre che affiliati di rango) che hanno spostato tonnellate di cocaina e hashish per i principali cartelli della ‘ndrangheta dai porti di Santos e Paranagua verso l’Italia, passando dagli scali commerciali di Rotterdam e Anversa. C’è un rampollo del clan Palermiti di Japigia finito nella maxi retata che a marzo ha scatenato un putiferio politico a Bari alla vigilia delle elezioni comunali ed europee, ma anche il killer della mafia etnea. Ci sono - ancora - l’ex capo stragista della Mafia Garganica e il figlio (e nipote) del grande boss di Limbadi, roccaforte della malavita calabrese in provincia di Vibo Valentia. La generazione dei trentenni - Tutti hanno tra i 30 e i 40 anni. Alcuni di loro sarebbero stati le colonne del futuro, sono diventati invece la dinamite per far saltare in aria almeno un pezzo di passato. Profili e pesi specifici diversi, ma tutti hanno seguito il copione scelto da Domenico Agresta di Volpiano (Torino) che nel 2016 ha aperto il libro mastro delle cosche e si è pentito di fronte alla Dda di Torino a 28 anni appena compiuti. Se fosse un film sarebbe “Le mafie tradite dai figli più giovani”, ma questa è una storia vera e racconta come il fenomeno del pentitismo, negli ultimi tempi, viva una stagione particolare (o comunque rara) che conta sempre più rampolli, poco più (o poco meno) che trentenni nei ranghi di chi collabora con lo Stato. Bando a trionfalismi inopportuni (i numeri non sono rivoluzionari e continua ad esserci una richiesta di ingresso nella malavita), tantomeno ad analisi sociologiche complesse e figlie - comunque - di spinte eterogenee, ma è un fatto che il vincolo di omertà con organizzazioni chiuse che di questo (dell’omertà) hanno fatto per un secolo e mezzo il principale muro di contenimento a defezioni e voltaspalle, vacilli di più all’ombra delle generazioni giovani. Diranno, i boss ancora in pectore, che “non ci sono più i mafiosi di una volta” e che i giovani “non reggono più il carcere, non se lo vogliono fare” (dichiarazioni agli atti di inchieste), ma appare limitante (e fin troppo interessata) l’analisi in questi termini. Qualcosa di più dell’esclusiva propria convenienza (che pure esiste) si intravede dietro queste scelte: in alcune c’è forse un filo che non è più “corda” e che si rompe. Che non regge alle spinte della modernità e che tradisce per prima la mafia calabrese così visionaria nella gestione avanguardistica degli affari, così incapace di flettere la propria ancestralità per trasportarla nei tempi contemporanei. Ve ne è ampia traccia in un testo del saggista Arcangelo Badolati edito da Luigi Pellegrini editore. Convenienza e famiglia - L’ultimo in ordine di tempo è Vincenzo Pasquino, 34 anni, nato a Volpiano, provincia di Torino, ma con salde radici a Platì, capitale delle cosche nel mondo. Se - lo scorso maggio - si è pentito perché ha accolto in ritardo le richieste della moglie non si sa ancora. Certo è che i suoi primi tre verbali depositati dall’Antimafia sono più di un presagio del futuro che attende le cosche del Torinese, in Lombardia e Calabria. Memorabile la sua (intercettata) professione di fede di fronte alla consorte che lo metteva in guardia dal farsi “usare” dai boss di Volpiano: “Non mi chiedere di scegliere tra te e loro perché se lo fai allora caccio te. Questi mi hanno cresciuto! Quando non avevo 5 euro per le sigarette loro c’erano”. Agresta, il più giovane padrino della ‘ndrangheta pentito, dice a La Stampa da una località segreta che per cambiare vita davvero “serve che fuori dalla mafia ci sia qualcosa che ti affascina di più, che ti appassiona al tal punto da farti lasciare indietro finte regole e pseudo valori. Può essere un amore, una moglie, un figlio. Io ho scelto la mia libertà”. E in nome di una catarsi di questo tenore (almeno negli intenti) si è pentito lo stragista del Gargano Marco Raduano. Il 24 febbraio 2023 era clamorosamente evaso dal supercarcere Badu e Carros. Il video era diventato virale sui social sulle note della canzone “Maresciallo non mi prendi”. Una beffa in mondovisione. Ricatturato dai carabinieri del Ros guidati dal colonnello Massimo Corradetti e dal procuratore di Bari Roberto Rossi, ha fatto trascorrere poche settimane e ha scritto una lettera agli inquirenti. Nel carcere dell’Aquila, lo scorso 20 marzo dice ai magistrati di aver maturato questa scelta “per dare un futuro a mio figlio, per cambiare vita e anche perché sono stato vittima di diversi tentativi di omicidio, perché vorrei condurre una vita da normale cittadino e perché sono pentito e dispiaciuto per quello che ho fatto”. Si è autoaccusato di 5 omicidi “ma sono coinvolto in altri 10”. “Mio padre sempre in carcere” - Ed è di due anni fa una eloquente intervista a uno speciale del Tg1 di Emanuele Mancuso, 36 anni, figlio di Pantaleone “L’Ingegnere” e di Luigi alias “Il Supremo” principale imputato della più grossa inchiesta contro la ‘ndrangheta nella storia, Rinascita Scott (445 imputati): racconta che lui decise di saltare il fosso “quando mancavano 7 giorni alla nascita di mia figlia e io ero in carcere”. Aggiunse: “Volevo un maschio per continuare la tradizione ‘ndranghetista, ma poi quando è nata mia figlia ho sentito qualcosa dentro che mi ha convinto a pentirmi. Ho vissuto - ha detto - un’infanzia difficile. Nemmeno il tempo di uscire che mio padre già era in carcere, avrò trascorso due o tre festività con la mia famiglia. Mia figlia non deve vedere quello che ho visto io, non deve vivere come me”. Ovvero? “Stavo sempre alla finestra e piangevo, i carabinieri andavano e venivano da casa mia: era un incubo”. E sempre di famiglia parla nei primi verbali l’ultimo - in ordine di tempo - collaboratore della mafia barese Michelangelo Maselli. Sta chiarendo in prima battuta alcuni omicidi del passato: c’è tempo per raccontare come i clan Palermiti e gli alleati Parisi abbiano inquinato i gangli vitali del capoluogo pugliese. La decisione dopo gli arresti - Ha solo 27 anni e fa parte di uno dei clan più sanguinari irriducibili di Catania: Salvatore Privitera, nel suo ambiente conosciuto come Sam, si è pentito da pochi giorni, dopo avere rimediato una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Enzo Timonieri, detto Caterina o il Ballerino, assassinato nel 2021, quando “Sam” aveva solo 24 anni. La scelta di parlare con i magistrati è legata alla prospettiva di trascorrere in carcere tutta la vita, dopo la condanna alla massima pena. La famiglia di Sam Privitera fa parte del gruppo dei Nizza, legato ai Santapaola-Ercolano, i signori della mafia etnea, legati - in particolare don Nitto Santapaola, in cella al 41 bis dal 1993 - agli stragisti corleonesi della Sicilia occidentale. Nonostante il collegamento con l’élite di Cosa nostra catanese. Il suo prozio, omonimo, aveva già intrapreso la strada della collaborazione circa trent’anni fa. Le sue orme ora sono state seguite dal pronipote, classe 1997, che all’epoca non era nemmeno nato. Da un anno e mezzo collabora con i magistrati della Dda di Torino Vittorio Raso, 42 anni, narcos di livello internazionale di stanza in Spagna legato mani e piedi (“È il loro Vangelo”) alle potenti famiglie Crea egemoni nel Torinese. Nella doppia veste di boss e broker, ha - per anni - inviato in Italia tonnellate di droga soprattutto hashish, ma anche cocaina. Il suo “pentimento” arriva all’esito di una complessa indagine della squadra Mobile di Torino: viene fermato sull’Avenida dels Banys, località a cinquanta metri dalla spiaggia di Castelldefels, comune in provincia del capoluogo catalano dimora di vip e di numerosi giocatori del Barcellona calcio. A luglio 2023 la procura chiude una grossa inchiesta della polizia: arrestano fiancheggiatori e fedelissimi, i poliziotti gli sequestrano quasi 2 milioni di euro in contanti nascosti dentro una giara dell’olio e imbustati insieme a chicchi di riso per non ammuffire sottoterra. Ha sul groppone una condanna a 18 anni ormai definitiva. L’11 agosto atterra all’aeroporto di Caselle e la Mobile lo aspetta ai piedi della scaletta, lui in quel momento ha già deciso. Vuole parlare col pm Valerio Longi: “Non voglio più stare lontano da mio figlio”. E ha “tradito” anche lui. Violentò compagna di classe, i genitori condannati a risarcire la vittima: “Non lo hanno educato” di Cristina Balbo Il Giornale, 21 luglio 2024 Il Tribunale di Firenze ha condannato ad un risarcimento di circa 27mila euro i genitori di un ragazzo - all’epoca 16enne - che aveva violentato una compagna di classe in uno sgabuzzino della scuola. I giudici hanno, infatti, ritenuto responsabili i genitori del giovane, all’epoca dei fatti ancora minorenne, di non averlo educato bene. Il principio è quello della “culpa in educando”, articolo 2048 del codice civile sulle responsabilità genitoriali. I genitori, infatti, devono dare ai figli un bagaglio educativo che impedisca loro di avere comportamenti dannosi nei confronti di terzi, e correggere gli aspetti del carattere che portino a determinati atteggiamenti. La vicenda - I fatti risalgono al 2015, quando il ragazzo, dopo aver trascinato la compagna di classe in un ripostiglio di Siena, l’ha violentata. La vittima, dopo l’accaduto ha raccontato ai suoi genitori dello stupro subito, manifestando, inoltre, anche sin da subito disturbi da sindrome post traumatica da stress. È per questo che i medici, le avevano certificato ben 18 mesi di inabilità temporanea, durante i quali si è dovuta sottoporre a specifiche cure per traumi di questo tipo. Per fortuna, la ragazza, ad oggi - stando al resoconto processuale - dopo 9 anni, è riuscita a rifarsi una vita, si è sposata, lavora ed è anche in attesa di un bambino, seppur non abbia smesso di soffrire di ansia generalizzata. La condanna - Nel 2022, il ragazzo era stato condannato per violenza sessuale aggravata e, dopo la condanna, i genitori della vittima avevano chiesto un risarcimento di 100mila euro di danni al ragazzo, ai genitori, alla scuola e al ministero dell’Istruzione. La chiamata in causa del ministero ha determinato il trasferimento del processo a Firenze, competente per giurisdizione quando tra chi si difende è coinvolta l’avvocatura dello Stato come rappresentante legale, la cui sede si trova nel distretto fiorentino. Il giudice Massimo Maione Mannamo del Tribunale di Firenze, preso atto della sentenza penale di condanna e dei fatti avvenuti, ha ordinato una perizia medico-legale per quantificare il danno. Ha, così, stabilito la responsabilità esclusiva del ragazzo e dei suoi genitori, ritenuti colpevoli di non aver vigilato sul comportamento del figlio tramite un’educazione adeguata basata sul rispetto degli altri e delle donne in particolare, come indicato nella sentenza. Ha, invece, escluso qualsiasi responsabilità dell’istituto scolastico e del ministero. Alla ragazza, spetta, inoltre, anche la liquidazione degli interessi per il “danno da ritardo” nel pagamento che saranno conteggiata sulla somma liquidata a partire dal 30 aprile 2020, nonché una data intermedia tra il fatto (2015) e la sentenza (2024). Il commento del ministro Valditara - A intervenire sulla sentenza, anche il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara che ha commentato la vicenda su X: “Molto importante questa decisione giurisprudenziale che chiama i genitori a rispondere civilmente per violenze gravi commesse dai figli. Va nella stessa direzione della norma contenuta nel ddl sulla #condotta che prevede multe per chi aggredisce gli insegnanti”. Infine, ha concluso: “La #scuola e la società debbono sempre più fondarsi sulla responsabilità individuale”. Palermo. Celle torride e invivibili: al carcere Ucciardone detenuti in sciopero della fame di Alessia Candito La Repubblica, 21 luglio 2024 La protesta di quattro detenuti. Uno straniero si è cucito la bocca con il fil di ferro. Il Garante: “Quella sezione del carcere va chiusa”. Quattro detenuti in sciopero della fame, della sete o delle terapie di cui per settimane nessuno, neanche il Tribunale di sorveglianza, ha saputo nulla. Un’intera sezione dell’Ucciardone di Palermo con celle minuscole, di certo più piccole dei nove metri quadrati considerati soglia minima di vivibilità, con un bagno microscopico privo di porta e senza doccia. Sono costrette a viverci almeno due persone per stanza, in larga parte occupata da due brande a castello, e d’estate lì sotto si raggiungono temperature insopportabili. “Ai detenuti è stato detto che devono provvedere da sé a comprare i ventilatori, ma molti non hanno la possibilità economica. Uno di loro mi ha chiesto: perché ci devono anche torturare? Non basta la pena?”, dice il Garante cittadino per le persone private della libertà personale Pino Apprendi, che per primo ha denunciato la situazione con un’informativa urgente al Garante regionale Santi Consolo e al Tribunale di sorveglianza. “Particolarmente preoccupante era la situazione di un detenuto straniero - spiega Apprendi - Si è cucito la bocca con il fil di ferro”. Non è stato facile comprendere le motivazioni della sua protesta. Neanche di fronte al Garante ha voluto togliersi quel morso che gli serra le labbra. Un po’ a gesti, un po’ aiutato da un compagno di sezione ha spiegato di essere stato escluso dal ristretti che hanno il permesso di lavorare. “Chiedeva di esporre le proprie ragioni di fronte al magistrato di sorveglianza”. Nei giorni successivi alla denuncia di Apprendi, l’incontro finalmente c’è stato. Ma perché la sua richiesta superasse le mura del carcere ci sono volute settimane, un’ispezione del garante cittadino, seguita a stretto giro da una visita di quello regionale. E non è l’unico grido di aiuto che arriva da quella sezione. Un altro detenuto, a cui restano da scontare non più di 4 o 5 mesi, ha smesso di bere e mangiare perché per settimane è rimasto in attesa dell’esito della richiesta di affidamento in prova al servizio sociale. Una situazione che “merita particolare attenzione - sottolinea nella nota Consolo - proprio per l’insistito proposito di voler fare qualche gesto grave e inconsulto”. Felpata perifrasi per dire suicidio. E non sarebbe stato l’unico a minacciarlo, né ipotesi peregrina per chi è recluso lì: molti soffrono di disturbi psichiatrici anche gravi. L’intera sezione appare una polveriera. È quella in cui finiscono i detenuti sottoposti a sorveglianza speciale o a provvedimenti disciplinari. “In situazione di grave disagio psichico, senza adeguate cure - osserva Consolo - si può incorrere con frequenza in infrazioni disciplinari o, peggio in commissione di reati che aggravano la durata della pena”. E in quella sezione, tutto, a partire dalle condizioni in cui sono costretti a vivere, rischia di mettere a dura prova la salute mentale di chi è costretto a starci. Mancata distribuzione dei prodotti igienici, chiusura dei blindo la sera, che rende le celle ancor più soffocanti, mentre anche le ore d’aria sono state ridotte per mancanza di personale. “Quella sezione deve essere chiusa, è indegna di un Paese civile”, tuona Apprendi. Paradosso, poco distante ce n’è una vuota, ma in condizioni assai più dignitose. Peccato non si possa usare perché manca la videosorveglianza. A breve dovrebbero iniziare i lavori, nel frattempo c’è chi sconta la pena in un inferno. Torino. Continua protesta in carcere: per il terzo giorno 250 detenuti non rientrano dall’ora d’aria Corriere di Torino, 21 luglio 2024 Continua la protesta dei detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, ormai tra agitazioni più lunghe e strutturate nel penitenziario torinese. Anche ieri sera, venerdì, secondo quanto raccontato in una nota dall’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, circa 250 detenuti su 430 del Padiglione C, non sono voluti rientrare nelle rispettive sezioni restando nel cortile dei passeggi per alcune ore. I detenuti protestano per le condizioni definite fatiscenti della struttura e chiedono di parlare con il garante nazionale e con un rappresentante del tribunale di sorveglianza. Proteste che vanno ad aggiungersi a quelle dei giorni precedenti, dove diversi agenti di polizia penitenziaria sono rimasti feriti e intossicati. “La situazione sta veramente degenerando al punto che sono i detenuti a decidere modalità e a dettare i tempi in perfetta autogestione - spiega il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci - mai vista una situazione così surreale. Ancora una volta rimarchiamo quanto sia urgente l’intervento del Guardasigilli perché è davvero a rischio l’incolumità fisica di tutti oltre che la sicurezza e gravemente minata. L’inferno del carcere Torinese è un vero e proprio colabrodo dove i detenuti spadroneggiano a loro piacimento pressoché indisturbati”. Roma. Il carcere di Regina Coeli “vicino al collasso”: rivolte, risse e agguati di Alessia Marani Il Messaggero, 21 luglio 2024 Venerdì notte l’ultimo episodio di una serie di atti vandalici e proteste. La prognosi per Marco Casamatta, presunto killer di Cristiano Molè, massacrato di botte nella sua cella a Regina Coeli martedì scorso, resta riservata. Chi ha avuto modo di vederlo lo racconta così, senza troppi fronzoli: “L’hanno sbriciolato”. La testa fracassata, le braccia spezzate, poche ossa si sarebbero salvate. Chi lo ha picchiato lo ha fatto con ferocia inaudita. La stessa che lui avrebbe adoperato non solo quando si trattò - secondo l’accusa - di sparare a Molè affiancato a bordo del suo Suv al Corviale la sera del 15 gennaio scorso o di tentare di ammazzare come un cane Massimiliano Pacchiarotti, alias “er Porpetta”, a Casetta Mattei, ma anche nelle varie spedizioni legate al “recupero crediti” nel mondo della droga o nelle tante liti di cui sarebbe reso protagonista nel passato. Del resto quando le teste di cuoio dei carabinieri nella serata del primo luglio irruppero nel b&b del Casaletto dove si era asserragliato, aveva detto: “Se entrano faccio finta di arrendermi e poi sparo a tutti”. Niente remore e, non a caso, nelle sue disponibilità aveva un autentico arsenale. Insomma, non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno avesse cercato, a suo modo, con le proprie mani o per mezzo di emissari, la vendetta dietro le sbarre. Possibile invece che qualcuno lo abbia voluto mettere a tacere per non farlo parlare? Nulla è escluso secondo gli inquirenti dell’Antimafia, anche se l’indole stessa del 41enne non lo lascerebbe presupporre. Ma che cosa sta succedendo nella “polveriera” Regina Coeli, carcere record per sovraffollamento in Italia? Venerdì notte l’ultimo episodio di una serie di atti vandalici e proteste, alcune delle quali, nel giro di un mese, sono sfociate in veri e propri tentativi di rivolta. Venerdì sera un marocchino ha dato fuoco al materasso nella sua cella. Sono stati momenti concitati, l’agente intervenuto per primo ha rischiato di rimanere intossicato. Ma nulla rispetto alla maxi-rivolta esplosa il 27 giugno nella terza sezione con il coinvolgimento di 200 persone, seguita da altre faide interne addirittura riprese con i telefonini dai detenuti in cella e fatte girare su TikTok: “Vai che je stamo ad allaga’ una sezione...”, le voci accostate a musica neomelodica come colonna sonora delle immagini che documentano l’esplosione di una sorta di bomba carta e l’acqua che scorre. Una situazione vicina al collasso più volte denunciata dai sindacati di polizia penitenziaria: “Gli incendi dei detenuti all’interno di Regina Coeli sono purtroppo all’ordine del giorno, la distruzione di suppellettili e quant’altro da soggetti sempre più ingestibili stanno mettendo in grave difficoltà operative gli agenti della polizia penitenziaria costretti ad intervenire respirando fumi e altro costringendo gli stessi a doversi recare al pronto soccorso”, dichiara Daniele Nicastrini, segretario regionale Uspp Lazio. Quando martedì Casamatta è finito a terra in un lago di sangue nell’intera sezione della Massima sicurezza dov’era ristretto era in servizio un solo agente. La carenza di personale è drammatica se rapportata poi alla presenza massiccia di detenuti. Il picco dei reclusi, secondo l’ultimo report del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sarebbe stato raggiunto a fine giugno con un indice di sovraffollamento, per Regina Coeli, addirittura del 184 per cento, rispetto alla media nazionale del 130%. In questi ultimi giorni, dopo le denunce, l’amministrazione penitenziaria si sarebbe data da fare per fare scendere l’indice. “Ma non basta - aggiungono dall’Uspp - occorre rafforzare l’organico e garantire la sicurezza degli operatori anche rispetto alla legge 626”. Marco Casamatta non è l’unico ad avere patito sulla sua pelle la “legge” non scritta del carcere. L’argentino Raul Esteban Calderon fu picchiato nel cortile di Rebibbia dopo appena un mese dall’arresto per l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik. Mentre in ambienti vicini alla Procura si era parlato di un presunto pestaggio avvenuto in un carcere siciliano del potente boss albanese Elvis Demce, anche lui amico del Diablo. Circostanza che però non ha avuto conferme ufficiali. Da registrare a Regina Coeli altre pericolose scintille. Come quelle che hanno infiammato la disputa tra Giuseppe Moccia, noto criminale di Torbellamonaca, e alcuni marocchini. Insulti, qualche schiaffone e la promessa incrociata di “mandargli una fibbia” (da stringere al collo). Proprio su alcuni marocchini si concentrano i primi sospetti degli investigatori in relazione al pestaggio di Casamatta. Per ora solo voci di “radio carcere” al vaglio di chi indaga. Rimini. Carcere, situazione oltre al tollerabile di Ivan Innocenti* Ristretti Orizzonti, 21 luglio 2024 Sono 170 le persone detenute nella Casa circondariale riminese. Il dato è di giovedì 18 luglio rilevato dal Garante Regionale Roberto Cavalieri. Sono 118 i posti regolamentari. C’è sovraffollamento del 145%. Il Ministero indica in 165 la capienza tollerabile (che possiamo interpretare come “tortura tollerabile”, si traduce in 3 metri quadri a detenuto per non incorrere nella sentenza Torreggiani, in tema di violazione dei diritti umani). Siamo oltre al tollerabile, la spia rossa si accende e si interviene per sfollare il carcere. Dove è finita questa spia rossa? Si è fulminata come l’umanità residua della nostra comunità? Le parole del Garante Regionale sono ferite. Descrive un grado di sofferenza intollerabile. Dei sei detenuti con cui ha avuto colloquio giovedì ben due hanno dichiarato una situazione insopportabile e il pensiero ricorrente di farla finita con il suicidio. Il nostro carcere già con una capienza regolamentare di 118 persone è giudicato da AUSL Romagna a rischio salute e dal Magistrato di sorveglianza violare la dignità dei detenuti causa trattamenti inumani e degradanti. Se desideriamo il campo di concentramento cittadino con 170 detenuti ristretti siamo sulla buona strada, mentre la Corte di Giustizia Europea ritiene la cosa già raggiunta. Cosa aspettiamo? Nuovamente la disperazione di Aziz che ad agosto di due anni fa si tolse la vita nell’istituto riminese? Poi ci assolveremo nuovamente con le parole del nostro Assessore Kristian Gianfreda che all’epoca dichiarò: “La sua era, purtroppo, una situazione particolare, che non mi sento, però, di legare a quella della vita in carcere”. Disagio psichiatrico, sovraffollamento e degrado umano non devono essere patrimonio del carcere. Come dobbiamo poi giudicare l’attività del Garante delle persone private della libertà del Comune di Rimini Avv. Galavotti? Il regolamento riminese prevede una relazione da sottoporre al Consiglio comunale e alla comunità ogni sei mesi. Ne sono passati oltre 16 dalla sua nomina e non ne abbiamo ricevuta alcuna. Ogni giorno di ritardo della relazione è un atto di omissione della conoscenza della realtà del supplizio del carcere riminese. Il Garante con la sua omissione non onora la funzione di cui si è preso onere e l’Amministrazione non dovrebbe essere indifferente e avvallare questa omissione. È necessario che il Sindaco di Rimini Jamil Sadegholvaad si faccia promotore, coinvolgendo anche i Consiglieri regionali del territorio, di una visita nell’istituto. Che attivi le sue prerogative in tema di salute pubblica e con AUSL Romagna termini questa grave situazione di disperazione a duemila metri dalla costa festante riminese. Va poi intrapreso un tavolo politico che veda la partecipazione dei diversi attori eletti dalla comunità a livello comunale, regionale, e nazionale per definire una strategia comune per portare a soluzione questa vergognosa situazione che pesa sulla nostra comunità. Parte di questo lavoro è stato già fatto e si sono raccolte disponibilità. Ricordo che sono oltre 56 le persone che dall’inizio dell’anno hanno deciso di evadere da questa situazione carceraria italiana seguendo l’esempio del detenuto riminese Aziz. Suicidandosi. Un invito poi ad aderire alla Campagna nazionale del Partito Radicale rivolta a detenuti, familiari e avvocati per denunce di massa al Ministro di Giustizia e al Magistrato di sorveglianza e richiesta di grazia al Presidente della Repubblica. Campagna rivolta anche ai Sindacati della Polizia penitenziaria per le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare e ai Magistrati di sorveglianza per la mole di lavoro accumulata a cui è tecnicamente impossibile dare risposta. Rimini possiede tutti questi tristi requisiti. È dovere della nostra comunità emanciparsi ed emancipare la Casa circondariale da questa situazione. *Consiglio Generale Partito Radicale Torino. “Morire in carcere”, incontro a Palazzo Civico iltorinese.it, 21 luglio 2024 La sempre più drammatica situazione del sistema carcerario italiano è da tempo all’attenzione dell’assemblea elettiva di Palazzo Civico, dell’Amministrazione comunale e della Garante dei diritti delle persone private della libertà della Città di Torino. Lunedì 22 luglio alle ore 14,30, in concomitanza con la consueta seduta del Consiglio comunale, si terrà in Sala Rossa un momento di riflessione e di commemorazione sul tema “Morire di carcere”. Nell’occasione, verranno ricordate le persone, detenute o appartenenti al personale di custodia, che si sono tolte la vita. Interverranno la presidente del Consiglio comunale Maria Grazia Grippo, la Garante dei diritti delle persone private della libertà Monica Cristina Gallo e la vicesindaca Michela Favaro. L’Aquila. Gli ex detenuti con Flavio Insinna nella pièce “Dalle sbarre alle stelle” di Sabrina Dei Nobili Il Centro, 21 luglio 2024 Per i Cantieri dell’Immaginario, il Teatro Stabile d’Abruzzo presenta, oggi alle 19 all’Auditorium del Parco, lo spettacolo /Dalle sbarre alle stelle,/ adattamento teatrale di Ariele Vincenti e Fabio Masi tratto dal libro /Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle/, scritto dallo stesso Masi e dal detenuto Attilio Frasca. A portarlo in scena, il regista Ariele Vincenti e la compagnia della cooperativa sociale Al di là dei sogni, con la partecipazione straordinaria di Flavio Insinna. “Lo spettacolo”, spiega il regista Vincenti, “racconta la vita criminale di Frasca, dai primi reati alla lunga carcerazione. Una vicenda intervallata dalle lettere scritte da lui e da due suoi amici fraterni, anch’essi reclusi, che da varie carceri arrivano a casa di un altro loro amico, Massimo, interpretato da Flavio Insinna”. /Dalle sbarre alle stelle/ è stato adattato alla realtà campana e tradotto in dialetto napoletano dagli stessi attori, tutti soci della cooperativa Al di là dei Sogni: ex detenuti e persone con difficoltà psichiatriche, oltre a ragazze e ragazzi del Comune di Cellole. Tra loro, i giovani rapper che hanno scritto le musiche originali dello spettacolo e le giovani ballerine protagoniste delle coreografie. La commistione di queste diverse generazioni ed estrazioni sociali rende il progetto un vero e proprio esperimento aggregativo in una realtà difficile come quella della provincia di Caserta. /Dalle sbarre alle stelle/ è il risultato di un percorso teatrale, sostenuto dal Tsa e dal direttore artistico Giorgio Pasotti, durato sette mesi e tenuto dal regista Ariele Vincenti, in collaborazione con l’autore e regista Fabio Masi. La Spezia. La musica di strumenti realizzati dai detenuti con il legno delle barche dei migranti cittadellaspezia.com, 21 luglio 2024 Si terrà da sabato 27 luglio 2024 a domenica 4 agosto la 48^ edizione della Festa di Avvenire a Lerici, intitolata “Oltre i lacci dell’indifferenza”, che prevede come ogni anno un ricco calendario di appuntamenti. Si parte il 27 luglio alle 18.30 con la consueta santa messa di inizio festa presieduta dal vescovo Luigi Ernesto Palletti nella chiesa parrocchiale di San Francesco. Il 1° agosto alle ore 21.00 sul lungomare della Rotonda Vassallo, il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, sarà ospite della serata dal titolo “Onde sonore”, condotta da Lucia Bellaspiga, inviata di Avvenire. La presenza del cardinale Zuppi offrirà un’occasione di riflessione su temi di attualità quali la partecipazione come collante e cura della democrazia, lavoro e giovani, dignità della persona, pace e giustizia, migranti e sfruttamento, transizione ecologica. Nell’occasione, alternando la musica alle parole di Zuppi, i maestri Pietro Boscacci e Issei Watanabe faranno risuonare un violino e un violoncello realizzati dai detenuti del carcere milanese di Opera con i legni delle imbarcazioni dei migranti arrivate a Lampedusa: strumenti, ancora colorati come lo erano le barche, con cui eseguiranno celebri brani di Bach, Vivaldi, Haendel, Schubert, Beethoven. L’iniziativa si inserisce nell’ambito del progetto Metamorfosi, ideato dalla “Casa dello spirito e delle arti”, fondazione che dal 2012 offre un’opportunità di riscatto ai detenuti attraverso la creatività e i talenti di ciascuno. Al termine, la consegna del Premio Angelo Narducci al cardinale Zuppi da parte del vescovo Palletti. Il premio, istituito nel 1984, prende il nome dello storico direttore di Avvenire, alla guida del quotidiano dal 1969 al 1980, e rappresenta un riconoscimento nazionale per l’impegno al servizio delle persone, a partire dagli ultimi, e del bene comune. L’evento del 1° agosto sarà trasmesso in diretta Facebook sulla pagina di Avvenire e su TeleLiguriaSud. A contatto con i giovani detenuti, una “particolare” scuola di libertà di Lucia Capuzzi Avvenire, 21 luglio 2024 Wanda Marra nel libro “Cose che mi hanno salvato la vita” racconta l’approccio, fatto di domande scritte su dei fogli. “Lì dentro cadono tutte le maschere La reclusione rende tutto incredibilmente intenso”. sento il caos, le urla, pure le risate. L’energia compressa mi arriva senza rabbia. Sono chiusa dentro un carcere, ma paradossalmente la sensazione più forte è di libertà. Strana, estrema. Nuova. No. Forse antica. È la sospensione, uno spazio temporale in cui tutto è possibile, un altro dove l’esperienza si dilata”. Sono trascorsi oltre sei anni dalla sua “prima volta” dietro le sbarre. Wanda Marra, però, ricorda in modo nitido, concreto, quasi palpabile la sensazione provata quel giorno di inizio 2018 quando ha varcato la soglia di Casal del Marmo nell’ambito di un progetto di giustizia riparativa. Nell’istituto penale per minorenni alla periferia di Roma, la cronista politica si è ritrovata immersa in un concentrato di vita, di emozioni. In quell’istante, il mondo esterno è receduto sullo sfondo. Contavano solo i ragazzi e le ragazze che le si accalcavano intorno. “A volte penso che l’inferno somigli a una gabbia, fatta di doveri, abitudini, autodisciplina, gestione ferrea del tempo occupato (e pure di quello teoricamente libero). Un insieme di frammenti che fanno una giornata, poi una settimana, poi un mese. Poi una vita. Esattamente il contrario di quello che accade dietro le sbarre”, scrive in “Cose che mi hanno salvato la vita”, un racconto al confine tra giornalismo narrativo, autobiografia e romanzo, appena pubblicato da People. A cucire insieme i frammenti di episodi, ricordi, riflessioni, è proprio il carcere. O, meglio, i carcerati e le carcerate. Gli adolescenti di Casal del Marmo prima e i giovani adulti di Campobasso poi che, con le loro domande spiazzanti e le cicliche provocazioni, costringono l’autrice a spogliarsi di ogni rivestimento per trovarsi di fronte alla pura essenza delle cose e delle persone. “C’è un branco di ragazzi. Minacciosi di loro. Sono lì e mi guardano. E io devo parlare. Loro valuteranno quello che dirò. Sarò in grado di catturare il loro interesse? La domanda che mi rimbalza in testa è questa. Ho di certo più paura della mia inadeguatezza che di loro”. Per “cercare di tenere il gruppo”, allora, Wanda Marra distribuisce fogli di carta. “Faccio domande, cerco di non essere troppo diretta, ma neanche generica, di non comunicare curiosità, ma interesse e attenzione”. Insieme, detenuti e reporter-volontaria costruiscono itinerari di scrittura in cui si inoltrano insieme, fianco a fianco, scoprendosi a vicenda e riscoprendo la realtà che li circonda. Da centro di reclusione di esistenze, il carcere diviene scuola di libertà. La libertà di andare oltre le maschere proprie e altrui, le categorie fisse e immutabili: omicida, truffatore, ricettatore, spacciatore, giornalista. Ci sono solo esseri umani, fragili e forti, resilienti e smarriti. Come Lucia, finita in un reparto psichiatrico a 16 anni per un assassinio che non ricorda. O.C., un’asiatica apparentemente serafica condannata per un’aggressione che lei definisce autodifesa. B., reginetta della band e rapinatrice compulsiva. “La reclusione, che in quel momento condividiamo, rende tutto - scrive l’autrice - incredibilmente intenso e concentrato. È come se vedessi riflessa in uno specchio una parte di me che è rimasta solo in embrione, che non ha avuto né cittadinanza né spazio. È quello che non sono stata e non sono diventata, quell’energia oscura incanalata in altri percorsi e in altre esperienze”, conclude. Un mix di sensazioni difficile da dipanare. Di fronte al quale si può solo scrivere il grande racconto delle esistenze condivise: “L’unico modo per affrontare il caos. L’unica ragione per cui vale davvero la pena di affrontarlo e di attraversarlo”. Se la politica rinuncia alle sue responsabilità di Serena Sileoni La Stampa, 21 luglio 2024 Cosa hanno in comune il suicidio assistito e i tassisti? In una sola settimana, la Corte costituzionale è intervenuta con due importanti sentenze su questi due temi molto distanti tra loro per materia e per gravità, ma che hanno un punto in comune: una voluta, persistente mancanza di intervento delle maggioranze di governo. Nel caso del trasporto pubblico non di linea, la Consulta ha deciso di intervenire sollevando essa stessa dinanzi a sé la questione di illegittimità della sospensione delle autorizzazioni agli NCC. Nel 2018, il governo Conte 1 aveva condizionato le nuove autorizzazioni all’operatività di un archivio informatico pubblico delle imprese che non è mai nato, per inerzia del Ministero dei trasporti. Un’inerzia che, in realtà, ha radici molto più lontane e profonde nella volontà di proteggere un settore specifico e ben organizzato, quello dei tassisti, il quale tiene incomprensibilmente sotto ricatto le maggioranze di governo, davanti agli occhi increduli dei cittadini e dei turisti delle principali città italiane. Con la pronuncia sul suicidio assistito, la Corte ha ribadito i requisiti per l’accesso che essa stessa, in mancanza di un quadro normativo, aveva dovuto stabilire con una precedente pronuncia del 2019, originata dal caso Di Fabo-Cappato. In parole povere, il giudice delle leggi stavolta ha interpretato se stesso, perché l’attuale base normativa per comprendere quando è lecito e quando no assistere e accompagnare al suicidio una persona malata è stato stabilito, in mancanza di una legge, da una sua sentenza, che a sua volta fece seguito a una decisione in cui la Corte aveva provato a dare un anno di tempo al legislatore per rimediare al vuoto legislativo. Al di là delle importanti questioni sostanziali che sottostanno alle due decisioni e che meriterebbero una lettura anche da parte dei non addetti ai lavori, ad accomunarle è questo aspetto trasversale di voluta incapacità dei “rappresentanti del popolo” di fare almeno quel poco che dovrebbe fare bene: adeguare la realtà normativa a quella fattuale. Per gli NCC, da almeno dieci anni l’innovazione tecnologica ha consentito, nel concreto, il superamento della separazione tra taxi e noleggio con conducente, tanto che alcune società, tra cui la principale cooperativa taxi di Roma, hanno già integrato le loro applicazioni a quella di Uber. Per il fine vita, le scienze e le tecnologie mediche e sanitarie danno oggi possibilità di sopravvivenza imparagonabili rispetto anche solo a qualche lustro addietro. Per entrambi, in tutti questi anni Parlamento e governo sono rimasti nel silenzio o al più hanno balbettato. Tocca quindi ai giudici, non da ora e non solo quelli costituzionali, supplire a quella che la Corte stessa ha definito “una perdurante assenza” di una legge che disciplini il suicidio assistito e “una perdurante inoperatività” dell’archivio informatico delle imprese. Un atteggiamento frequente del nostro personale politico, soprattutto di quello parlamentare, consiste in una specie di vittimismo sornione che ne sottolinea la marginalizzazione rispetto a decisioni che vengono prese altrove: dalle Corti, dall’Unione europea, dalle istituzioni tecnocratiche come le banche centrali, persino dalla finanza. Il “ce lo chiede l’Europa” o “ce lo impongono i mercati” è giusto un gradino sotto lo spirito complottistico secondo cui ci sono sempre degli oscuri burattinai che da dietro le quinte tirano i fili delle nostre esistenze. Non voler disciplinare materie eticamente sensibili, che sono e devono essere una prerogativa dell’attività del Parlamento in quanto direttamente interprete delle sensibilità dei suoi elettori, e non voler adeguare la regolazione del servizio pubblico non di linea all’esistenza di un oggetto di uso comune come lo smartphone dovrebbe indurre a chiederci se questa sindrome da incompreso abbia poco a che fare con la limitatezza del ruolo loro assegnato, ma molto con la selezione della classe politica e, di conseguenza, con il suo senso di responsabilità. Non proprio “inclusiva”: così Milano ci costringe all’esilio di Jonathan Bazzi* Il Domani, 21 luglio 2024 Sono fuggito dalla periferia dove la città nasconde i poveri, ma sono finito in un appartamento di una stanza. Siamo in tanti a vivere così, stipati in case minuscole e indecenti. Ma il dramma abitativo è un grande rimosso. Un paio di mesi fa sono stato contattato da una nota rivista di architettura: volevano propormi un’intervista. Il classico articolo corredato da belle foto: scrittore raggiunto e immortalato nella sua elegante dimora. Salotto, tende, broccati. Luce vaporosa. Solo che io vivo in una specie di garage con problemi di muffa e i sanitari dai quali, quando piove troppo, torna su acqua: a ogni temporale rischiamo di allagarci. Quarantacinque metri quadrati così stipati di roba da ricordare le case degli accumulatori compulsivi esibite con sgomento a Chi l’ha visto. Con la famosa rivista ho provato a tergiversare, accampare scuse: hanno insistito, ci tenevano tanto. Sono venuti a conoscermi: un caffè nel bar davanti casa, un giro tra i cosiddetti loft di questo complesso industriale riqualificato, fino al sopralluogo - il più rapido possibile - nell’appartamento che occupo col mio ragazzo. “Allora ci aggiorniamo presto”. Da quel giorno sono scomparsi, volatilizzati: come avevo previsto la situazione è improponibile. Lo scenario che avevano in mente era un altro. Possibile che uno scriva romanzi, vinca premi, scriva su importanti giornali, e viva in queste condizioni? Sono scappato della periferia vergognandomi delle facciate scrostate coi balconi minuscoli, affollati di desolazione: quando mi riaccompagnavano a casa chiedevo sempre di essere lasciato lontano dal cortile, inventando ogni volta lavori in corso e deviazioni, affinché non mi associassero a quella carta d’identità istantanea. Sono scappato da uno di quei quartieri in cui il potere nasconde i poveri, ma Milano alla fine, con grande coerenza, mi ha rimesso al mio posto. Un loft o una grotta? - Vivo in questa casa da sei anni, col mio ragazzo e i nostri due gatti: lo chiamano “loft” ma è un’unica stanza con un piccolo soppalco in cui, fino a poche settimane fa, pioveva dentro. Anche Tananai stava qui prima di avere successo: ho trovato un’intervista in cui dice di aver vissuto in una grotta (questi appartamenti hanno finestre solo su un lato). Col mio ragazzo passiamo quasi tutto il tempo sullo stesso vecchio divano: io a scrivere da una parte, lui in call su Zoom dall’altra. Nessuno dei due ha una stanza tutta per sé. A me arrivano libri dalle case editrici, da presentare o recensire, lui per lavoro porta a casa scatoloni e valigie: a volte realizzo che il posto in cui siamo sembra un magazzino. Vorrei che le cose non stessero così, ma non ci sono alternative. Si parla troppo poco di quanto la casa sia il nostro secondo corpo, e quanto sia direttamente collegata alla salute mentale: scandisce la forma dei pensieri, modula il campo d’azione, dice qual è il nostro posto nel mondo, il nostro valore. Tutto il complesso in cui stiamo - oltre 200 appartamenti che formano una specie di villaggio vacanze - ha uno stesso proprietario: quando abbiamo provato a far presente all’amministrazione i disagi (dobbiamo otturare con stracci e spugne le tubature quando sentiamo che inizia a piovere forte) ci è stato risposto che è un problema anche di altri. Eterna, precaria giovinezza - Siamo arrivati qui in una situazione di emergenza, ma spostarci adesso è impossibile. Fino ad alcuni anni fa a Milano ce la si poteva cavare anche se instabili, precari: oggi la città è sprofondata in una spirale di speculazione immobiliare sfrenata. Per chi non sta al passo non c’è soluzione. Ora è normalissimo chiedere ottocento euro al mese per una stanza, e mille e sei/settecento per un bilocale. I trilocali, per la maggior parte delle persone che frequento, sono miraggi. Siamo incastrati, storditi, e la forza di reagire è sempre meno: siamo in molti a non avere idea di come sarà il futuro. A Milano è ormai è impossibile pensare di diventare adulti davvero: le condizioni che l’immaginario comune associa (se va bene) alla vita universitaria e (se va male) all’indigenza qui stanno diventando la norma, anche per chi ha quaranta o cinquant’anni e un lavoro ce l’ha. Per più di un decennio mi sono arrangiato, traslocando, subaffittando, dormendo su materassini gonfiabili: ma quando non hai più vent’anni, hai un compagno, una vita lavorativa intensa, degli animali o dei figli, hai bisogno di spazio e di un ambiente almeno decente, in cui smettere di sentirti stritolato e in balia degli eventi. Tutto questo Milano oggi non lo può più offrire, a meno che non si abbiano entrate straordinarie o una famiglia alle spalle in grado di elargire bonifici o eredità. È surreale, date queste premesse, leggere i dibattiti sulla natalità da far ripartire. Spinti all’esilio - Da Expo in avanti Milano ha deciso di essere una città “attrattiva”, davvero europea, ovvero di ingraziarsi i grandi flussi finanziari, aumentando in continuo il valore dei suoi immobili e mettendo alla porta molti suoi residenti. È la città che più somiglia ai social, preda com’è di una smania ininterrotta verso l’autorappresentazione e la competizione. Non potrò mai dimenticare la giornalista di un noto quotidiano che una volta mi ha detto: “Sono venuta a Milano pensando che questo fosse il posto in cui succedono le cose, ma da quando sto qui le cose le vedo da lontano: io non ho la possibilità di fare niente”. In passato, quando ho sollevato il tema, tanti mi hanno risposto: se non vi sta bene andate altrove. E non si capisce dove. Come se fosse per tutti possibile, come se fossimo tutti in smart working perenne. Questa è la mia città (sono nato al Niguarda): è molto diverso lasciare una tappa provvisoria o il luogo a cui si è svolta tutta la tua vita. Quello in cui c’è la tua famiglia, gli amici, tutto ciò che hai scoperto di te. Non potrei neppure tornare in periferia: l’accesso alle case popolari è bloccato e le case private ormai costato tanto anche a trenta o quaranta chilometri dal centro. Un trasferimento forzato, da che mondo è mondo, è una punizione: sono i condannati che storicamente vengono mandati in esilio. Ma spingere i meno abbienti ad andare via è esattamente il progetto implicito della direzione ultra-performativa che Milano ha intrapreso: una direzione violenta, che gioca con le operazioni di cosmesi sociale, sotto le quali lascia che la disperazione covi senza alcuna prospettiva o sollievo. Il tema della sicurezza, di cui tanto si parla, è strettamente connesso: Milano rivolge il suo sguardo verso i grattacieli, sempre più alti, eclatanti e internazionali. Ai piedi delle torri e dei mega-condomini, nei margini, il disagio delle vite che non contano si fa sempre più opprimente. E chi decide di rubare, scippare, aggredire - per soldi o per sfogare il senso di minorità - quasi sempre va a farlo nelle zone centrali. Enorme rimosso - Siamo in molti a vivere in queste condizioni, ma quello della casa è un tabù: tanti si vergognano di dire che non ce la fanno. Siamo stipati in case carissime e minuscole, spesso indecenti, per le quali, in modo perverso, ci sentiamo ormai pure di dover essere grati. La politica, per incapacità o strategia, non se ne occupa: il dramma abitativo è un enorme rimosso, un tema impronunciabile sia per la destra che per la sinistra. Parlare di “città inclusiva”, a questo punto, non ha molto senso: è vero, a Milano, da omosessuale, mi sono sentito meno bersaglio mobile rispetto ai cortili in cui sono cresciuto, ma aggravare a tal punto le differenze di classe - lasciando che i diritti siano privilegio di chi ha stipendi esclusivi - polverizza il valore di ogni apertura. Perché poco conta che tu sia etero, gay, cisgender o trans, se la città in cui vivi giorno dopo giorno ti sussurra nell’orecchio che sei troppo povero per meritartela. E che non ti resta, dunque, che far finta di niente, studiare meglio le inquadrature per Instagram, così da nascondere i segni dell’umiliazione. E rimandare all’infinito quell’invito a cena nel tuo loculo disgraziato, che finirai per dirottare in ristoranti dai prezzi micidiali. Aspettando che passi, che arrivino, chissà come, chissà da dove, tempi migliori. Sperando non scada, nel frattempo, il contratto dal canone fermo a quattro/cinque anni fa che ancora, a fatica, maledicendo tutto e tutti, riesci a pagare. *Scrittore Perché secondo la Corte Internazionale di Giustizia Israele deve lasciare i territori palestinesi di Paolo Busco e Filippo Fontanelli* Corriere della Sera, 21 luglio 2024 Nel suo parere non vincolante l’organo giudiziario delle Nazioni Unite considera l’occupazione illegale: equivale a un’annessione territoriale ottenuta con l’uso della forza in violazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Venerdì pomeriggio, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha emesso un parere relativo alla legalità internazionale dell’occupazione da parte di Israele dei territori palestinesi. La Corte ha risposto alle domande sollevate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 2022 (molto prima dell’inizio del conflitto attuale, che non costituisce il focus del parere). Semplificando, la Corte ha esaminato tre temi: il rispetto degli obblighi internazionali che incombono su Israele in quanto potenza occupante nei territori palestinesi; la legalità in termini generali di tale occupazione; e le conseguenze che scaturiscono dall’accertamento delle violazioni su questi due punti per Israele, per tutti gli altri Stati e per le Nazioni Unite. Il parere, reso a larga maggioranza e con l’adesione della giudice statunitense, è una censura totale della condotta israeliana. La decisione della Corte - Il parere si distingue da una sentenza, perché è reso su richiesta di un organo legittimato (in questo caso, l’Assemblea Generale), e non al termine di un contenzioso tra Stati. La Corte ha anzitutto accertato la propria competenza e l’opportunità di rispondere. Così facendo, ha reso il parere superando le riserve espresse da alcuni paesi, fra cui l’Italia e il Regno Unito, che avevano chiesto ai giudici di valutare con cautela l’opportunità di pronunciarsi, per non compromettere lo spazio di trattativa disponibile alle parti impegnate nella ricerca di una soluzione diplomatica alla questione palestinese. Nel merito, la Corte ha anzitutto valutato la legalità delle politiche israeliane nei territori occupati, cioè la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Il diritto internazionale non proibisce l’occupazione territoriale in quanto tale (questa può talvolta essere inevitabile, in situazioni di conflitto), ma impone in ogni caso alla potenza occupante il rispetto di alcuni diritti della popolazione civile dei territori occupati. La Corte ha chiarito anzitutto che Israele agisce come potenza occupante anche nella Striscia di Gaza, nonostante la demilitarizzazione e il ritiro dei coloni del 2005, in ragione dell’esercizio di un esteso potere di controllo sui confini, le risorse, l’amministrazione e la vita della popolazione locale. La Corte ha ritenuto poi che le pratiche e le politiche israeliane violino i diritti della popolazione palestinese. L’occupazione prolungata per più di 57 anni, secondo la Corte, si è trasformata in una amministrazione permanente che ha soppiantato le autorità e il diritto locali. Il supporto di Israele alle pratiche di colonizzazione ha poi, secondo i giudici, infranto il divieto di trasferire i propri cittadini nel territorio occupato (conversamente, l’imposizione di condizioni di vita insostenibili ha integrato il crimine di deportazione di massa, spingendo i palestinesi a trasferirsi altrove). Inoltre, la Corte ha censurato lo sfruttamento israeliano delle risorse dei territori palestinesi a discapito della popolazione locale, e ha riscontrato pratiche di discriminazione razziale sistematiche contro la popolazione palestinese. Significativamente, i giudici hanno accertato la commissione di gravi forme di segregazione razziale. L’insieme di queste misure e politiche, secondo la Corte, costituisce una violazione continuata del diritto fondamentale del popolo palestinese all’autodeterminazione. Duro e senza precedenti è stato anche il verdetto della Corte sulla legalità dell’occupazione in quanto tale. Mentre la Corte aveva già indicato, nel 2004, che certe politiche israeliane nei territori occupati - segnatamente la costruzione del muro di protezione in Cisgiordania - violavano il diritto umanitario, questa volta è andata oltre. Secondo la Corte, la presenza israeliana nei territori occupati (il riferimento è in particolare a Gerusalemme Est e alla Cisgiordania) è illegale tout court, perché la sua natura sostanzialmente permanente la rende equivalente a un’annessione territoriale ottenuta con l’uso della forza. Questa situazione rappresenta una violazione del divieto fondamentale su cui si fonda la Carta delle Nazioni Unite e la convivenza della comunità internazionale degli Stati, quello sull’uso della violenza armata nei rapporti internazionali. La Corte è stata molto ferma anche nel rispondere all’ultimo quesito, relativo alle conseguenze che discendono dall’accertamento di questi illeciti. Anzitutto, la Corte ha decretato che Israele deve ritirarsi al più presto da tutti i territori occupati, da cui devono anche evacuare tutti i coloni. Inoltre, il parere stabilisce un obbligo di riparazione delle violazioni del diritto internazionale umanitario compiute da Israele in quanto potenza occupante, che presumibilmente dovrebbe consistere in risarcimenti ingenti per i danni causati, oltre che alla restituzione di tutti i territori occupati. I giudici hanno anche riconosciuto l’obbligo per tutti gli Stati di cooperare con gli organi delle Nazioni Unite per dare pieno effetto al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e di non riconoscere nessun cambiamento nella struttura fisica o demografica dei territori occupati. È infine importante sottolineare come la Corte abbia espressamente vietato a tutti gli Stati “di aiutare o contribuire al mantenimento della situazione creata con la continua presenza di Israele” nei territori occupati. Possibili scenari - Israele non darà seguito all’opinione della Corte. Pochi minuti dopo la sua lettura, il ministro degli Esteri israeliano l’ha definita “fondamentalmente sbagliata”. Le opinioni della Corte non sono peraltro vincolanti in quanto tali, come lo sono invece le sentenze. La loro funzione principale è quella di chiarire punti controversi di diritto internazionale per consentire all’organo richiedente di svolgere il proprio mandato. In questo contesto, l’Assemblea Generale prenderà atto di questo parere, lo sosterrà e chiederà agli Stati di adeguarvisi. Probabilmente, sarà messa in discussione una risoluzione per chiedere al Consiglio di Sicurezza - in quanto garante principale della pace e sicurezza internazionali - di dare seguito in termini concreti alla decisione della Corte. La stessa Corte ha richiamato il ruolo del Consiglio di Sicurezza per l’identificazione degli ulteriori passi necessari per far terminare “la presenza illegale di Israele” nei territori occupati. Contrariamente alle attività dell’Assemblea Generale (che non possono produrre atti con forza vincolante), però, le decisioni del Consiglio di Sicurezza potrebbero essere bloccate dal diritto di veto dei membri permanenti alleati di Israele. Data la censura totale della condotta israeliana e il forte valore politico della pronuncia, è ragionevole attendersi iniziative statali anche esterne al contesto delle Nazioni Unite, come accadde nel 2004 dopo la prima opinione consultiva della Corte riguardo a Israele. Questo parere si somma alle decisioni preliminari rese dalla stessa Corte nei casi “Sud Africa contro Israele e Nicaragua contro Germania”, due controversie che pendono davanti ai giudici dell’Aja e sono incentrate sui fatti del conflitto ancora in corso. Questi altri casi, il primo relativo all’accusa di genocidio massa a Israele, il secondo a un’accusa di complicità per vari illeciti mossa alla Germania, si trovano ancora a una fase molto preliminare, ma nel primo la Corte ha già ordinato senza successo a Israele di interrompere l’offensiva militare a Gaza, nel maggio scorso, per evitare il rischio di un aggravamento della situazione. È quindi evidente che, in questo momento, la posizione di Israele è sotto scrutinio crescente, e che gli organi giudiziari internazionali hanno messo da parte ogni esitazione nel trattare quella che per decenni è stata considerata una questione di natura prevalentemente politica. A prescindere dagli effetti di queste pronunce, colpisce anche la risolutezza della Corte nell’adempiere al proprio mandato di stretta applicazione del diritto, mettendo da parte l’approccio diplomatico che a volte i tribunali internazionali adottano in dispute dall’elevato profilo politico. *Paolo Busco è avvocato internazionalista presso lo studio Twenty Essex di Londra; Filippo Fontanelli è professore di diritto internazionale all’Università di Edimburgo e alla LUISS Guido Carli di Roma Medio Oriente. Prima che sia troppo tardi di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 21 luglio 2024 Palestina occupata. Un atto d’accusa durissimo quello della Corte, ma anche un grido d’allarme nell’intercalare il monito “il prima possibile”, vale a dire “prima che sia troppo tardi”. Stavolta dobbiamo riconoscerlo, il diritto internazionale ha fatto la sua parte e, nonostante sia stato devastato in questi ultimi trenta anni da tante, troppe guerre fuori da ogni diritto dell’Occidente proprio in Medio Oriente, esiste ancora e prova ad avere un ruolo “a caldo” mentre il massacro di Gaza continua e raggiunge la cifra di 39mila morti e decine e decine di migliaia di feriti, per la maggiora parte civili inermi, donne, bambini, anziani, con la devastazione di ogni struttura umanitaria e di ogni risorsa vitale. Così abbiamo avuto la decisione del 26 gennaio scorso della Corte di giustizia internazionale delle Nazioni unite, la massima assise di giustizia al mondo, di incriminare lo Stato d’Israele per “plausibile genocidio”. Poi la decisione della Procura della Corte penale internazionale dell’Aja del 21 maggio di emettere un mandato di arresto per Netanyahu e per il ministro della difesa Gallant per “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” - stesso mandato d’arresto per Yahya Sinwar e altri tre leader di Hamas. Ecco ora l’atto d’accusa senza se e senza ma della sentenza “consultiva” della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni unite, richiesta dall’Assemblea generale dell’Onu nel dicembre 2022 in merito alla “presenza israeliana nei territori palestinesi”: “Lo Stato di Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile, di cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento, di evacuare tutti i coloni e di risarcire i danni arrecati”, sostiene la Corte. Precisando stavolta che anche la Striscia di Gaza è da considerare territorio occupato perché confini - sarebbe meglio dire margini sotto chiave - , sicurezza ed economia sono nelle mani d’Israele. Una illegalità - ricordava Chiara Cruciati ieri sul manifesto - che dura da 57 anni che hanno cancellato tra l’altro due Risoluzioni storiche delle Nazioni unite che imponevano a Israele il ritiro dall’occupazione. Il ritiro non c’è stato ma in questi più di 50 anni sono andate in onda nuove violenze, l’annessione di fatto, l’istituzione di un regime di apartheid, la costruzione del Muro di separazione, nuove colonie con la cacciata dei palestinesi diventati profughi a casa loro o in altri paesi mediorientali, dove sono stati raggiunti da tante altre stragi come quella in Libano di Sabra e Shatila, accordi di pace subito azzerati da una parte sola con l’uccisione del premier israeliano Rabin nel 1995 ad opera di un integralista ebreo, furto delle risorse primarie, dall’acqua alle colture agricole della terra. Per questa verità, storica e politica, si sono spese migliaia di esistenze e generazioni di palestinesi che sopravvivono - divisi e abbandonati dai “grandi” del mondo e dalle leadership mediorientali - senza diritti sulla loro terra negata. Ma anche le Ong dei diritti umani, come tanti pacifisti nel mondo e in Israele stessa, oltre che la sinistra delle comunità ebraiche nel mondo. Un atto d’accusa durissimo quello della Corte, ma anche un grido d’allarme nell’intercalare, il monito “il prima possibile”, vale a dire “prima che sia troppo tardi”. Perché i messaggi che la sentenza invia, a chi vuole intendere, sono tragicamente chiari e illuminano insieme le zone d’ombra del quotidiano massacro sanguinoso in corso, a Gaza e in Cisgiordania. In primo luogo, che persistendo l’occupazione illegale, fatta di massicci insediamenti militari e di altrettanti mega-nuovi insediamenti colonici, non è possibile alcuno Stato di Palestina: c’è un solo Stato, Israele, armato fino ai denti ed occupante dell’altro che non viene riconosciuto. In secondo luogo che il 7 ottobre 2023 - l’attacco criminale e la strage di Hamas di civili inermi e di militari con la cattura di ostaggi - va, come fu per la dichiarazione del segretario dell’Onu Guterres, collocato nel contesto storico della decennale occupazione israeliana dei territori palestinesi. Va dunque non certo giustificato ma collocato (usiamo due verbi con due funzioni diverse se non opposte) infine, che in assenza di una risposta “il prima possibile” della comunità internazionale, degli Stati, dell’Unione europea, dei parlamenti per sanzioni politiche ed economiche contro il governo israeliano, ma anche delle iniziative dal basso di mobilitazione e boicottaggio, dei campi larghi o stretti che siano delle residue sinistre, dei media e del giornalismo (p. s. Il Corriere della Sera relegava ieri la notizia della Corte Onu a pagina 13 in taglio basso con 40 righe) - l’interminabile litania di vittime che scorre ogni giorno davanti ai nostri occhi e le privazioni a cui sono sottoposti gli esseri umani che resistono, dentro gli occhi dei bambini tra le macerie in cerca di acqua e cibo, occhi che non dimenticano, saranno foriere di nuovi 7 ottobre, perché lì non c’è pace ma una condizione di guerra e oppressione permanente di un intero popolo. Basta con i due pesi e due misure: se per i territori occupati dalla Russia nel Donbass ci si mobilita in Alleanza con l’invio di miliardi in armi rischiando la Terza guerra mondiale, com’è possibile ormai tacere o peggio cancellare l’infamia della illegalità dell’occupazione militare dei territori palestinesi? Alla sentenza della Corte di giustizia internazionale dell’Onu così ha risposto il premier israeliano Benjamin Netanyahu: “Il popolo ebraico non è conquistatore nella propria terra, né nella nostra eterna capitale Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria. Nessuna falsa decisione dell’Aja - ha aggiunto - distorcerà questa verità storica, così come non si può contestare la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria”. Mai parole così integraliste, razziste, degne del fascista suo ministro Ben Gvir, messianiche, lontane da una visione laica sono state pronunciate a nostra memoria da un premier dello Stato d’Israele: i palestinesi semplicemente non esistono. Eppure sarà il “colono” Netanyahu ad essere invitato tra pochi giorni, il 24 luglio, a parlare a camere riunite negli Stati uniti, su invito bipartisan, democratico e repubblicano - meglio dire ormai di Trump e del Maga - per enunciare la sua strategia politica e militare. Ancora una volta come “Bibi” ha sempre fatto nella sua storia, influirà non poco sul destino della campagna elettorale Usa già ampiamente compromessa dalle difficoltà di Biden, che pure su Gaza ha vacillato condannando la vendetta criminale israeliana ma inviando armi a Tel Aviv, e soprattutto da Santo Trump che annuncia appeasement con il neo-zar Putin sull’Ucraina, ma soffia già nuovi venti di guerra in Medio Oriente e in Asia. Medio Oriente. Fine del tabù, ora il mondo deve agire di Riccardo Noury Il Manifesto, 21 luglio 2024 La parola apartheid non è un tabù: non lo è certo in Israele, mentre paradossalmente per molti versi lo è in Italia, dove la sua pronuncia è equiparata a un’espressione di antisemitismo. Due giorni fa la Corte internazionale di giustizia, la cui opinione era stata sollecitata alla fine del 2022 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è arrivata a una conclusione che non poteva essere più forte e chiara: l’occupazione e l’annessione da parte di Israele dei territori palestinesi sono illegali e le leggi e prassi discriminatorie israeliane contro i palestinesi violano il divieto di segregazione razziale e di apartheid. Si tratta di una rivincita storica per i diritti dei palestinesi, vittime di decenni di crudeltà e di sistematiche violazioni dei diritti umani derivanti dall’illegale occupazione israeliana. L’occupazione è un elemento fondamentale del sistema di apartheid con cui Israele domina e opprime i palestinesi e che è causa di sofferenze di massa: i palestinesi assistono quotidianamente alla demolizione delle loro case e all’esproprio delle loro terre per la costruzione e l’espansione degli insediamenti e subiscono soffocanti restrizioni che interferiscono in ogni aspetto della loro vita quotidiana, dalla separazione dei nuclei familiari alla limitazione della libertà di movimento fino al diniego dell’accesso alla terra, all’acqua e alle risorse naturali. Dall’autorevolezza dell’opinione della Corte dovrebbero derivare (uso il condizionale, data l’immediata reazione di Israele: nulla di sorprendente, considerando la totale mancata applicazione delle misure cautelari ordinate dalla stessa Corte per evitare il genocidio a Gaza) il ritiro dai Territori palestinesi occupati, Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est; la fine del dominio su ogni aspetto della vita dei palestinesi; la cessione del controllo delle frontiere, delle risorse naturali, dello spazio aereo e delle acque territoriali dei territori occupati; la fine del blocco illegale di Gaza e il diritto dei palestinesi di muoversi liberamente tra Gaza e la Cisgiordania. Starà allora agli stati, soprattutto a quelli alleati di Israele, intraprendere rapidamente azioni inequivoche per assicurare che Israele ponga fine all’occupazione, a partire dall’immediato stop all’espansione degli insediamenti e all’annessione di territori palestinesi e dallo smantellamento del brutale sistema di apartheid contro i palestinesi. Ricordiamo bene le conseguenze della mancata azione della comunità internazionale rispetto all’opinione della Corte nel 2004 sulla costruzione del muro di separazione all’interno dei Territori occupati: Israele venne incoraggiato a sfidare il diritto internazionale e a rafforzare la sua impunità. Non dev’esserci una seconda volta. Merita soffermarsi, infine, sulla menzione da parte dei giudici della Corte della parola apartheid: cioè di quel sistema israeliano di oppressione e dominazione ai danni dei palestinesi, tenuto in piedi e rafforzato dalla frammentazione territoriale, dalla segregazione e dal controllo, dalla confisca di terreni e proprietà e dalla negazione, tra gli altri, dei diritti economici e sociali. L’opinione della Corte è il sigillo giuridico ai rapporti di organizzazioni non governative internazionali quali Human Rights Watch e Amnesty International e dei gruppi israeliani per i diritti umani come Yesh Din e B’Tselem. A un paese avviato verso un sistema di apartheid in passato si erano riferiti, preoccupati, gli ex primi ministri Olmert e Barak, l’ex direttore dello Shin Bet Amihai Ayalon, l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair e l’ex ambasciatore israeliano in Sudafrica Alon Liel, probabilmente la persona che più sapeva di cosa si stesse parlando. La parola apartheid non è un tabù: non lo è certo in Israele, mentre paradossalmente per molti versi lo è in Italia, dove la sua pronuncia è equiparata a un’espressione di antisemitismo. Nel frattempo, nel mondo, di quella parola viene sollecitato un uso ancora più ampio. Amnesty ha chiesto che tra i più gravi crimini di diritto internazionale, dunque come crimine contro l’umanità, sia riconosciuto e inserito quello di apartheid di genere, dando seguito alle richieste che si levano da anni, ben a ragione, dalle attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan e Iran. *Portavoce di Amnesty International Italia Bielorussia. “Un cittadino tedesco nel braccio della morte del regime di Lukashenko” di Giuseppe Agliastro La Stampa, 21 luglio 2024 La notizia riportata dagli attivisti per i diritti umani è stata confermata da Berlino, ma la vicenda resta avvolta nel mistero. Il regime bielorusso ha condannato a morte un cittadino tedesco. La notizia, diffusa da un gruppo di attivisti per i diritti umani, ha subito sollevato un’ondata di sgomento ed è stata confermata a stretto giro dal governo di Berlino, fanno sapere i media internazionali. Ma per il resto si sa pochissimo di questa vicenda, che resta avvolta nel più fitto mistero in un Paese in cui le libertà e i diritti fondamentali vengono quotidianamente calpestati. Chi è la persona finita nel braccio della morte della dittatura bielorussa? E di cosa è accusata? Per ora non ci sono risposte certe a queste domande, ma soltanto ipotesi. Naturalmente non si può non sospettare che dietro questa condanna possano agitarsi le tensioni tra l’Occidente e la dittatura bielorussa, a sua volta stretta alleata del regime di Putin. Ed è giusto ricordare che il regime di Lukashenko prende regolarmente di mira i suoi oppositori con accuse di “estremismo” inventate di sana pianta. “Il caso è noto al ministero degli Esteri. Il ministero degli Esteri e l’ambasciata a Minsk forniscono supporto consolare alla persona interessata e stanno lavorando duramente per essa con le autorità bielorusse”, ha annunciato la diplomazia di Berlino senza rivelare il nome del cittadino tedesco. L’organizzazione per la difesa dei diritti umani Viasna - il cui fondatore Ales Bialiatski si trova in carcere per motivi politici ed è stato insignito del Nobel per la Pace - sostiene che si tratti di un operatore sanitario della Croce Rossa tedesca, e afferma inoltre che sia stato arrestato lo scorso novembre e condannato in primo grado meno di un mese fa, cioè il 24 giugno. Ma si tratta di informazioni al momento non confermabili, così come non è confermabile l’affermazione di Viasna secondo la quale il caso riguarderebbe in qualche modo anche il Reggimento Kalino?ski: un gruppo formato da bielorussi contrari alla dittatura di Aleksandr Lukashenko che combattono in Ucraina al fianco delle truppe di Kiev. Il reggimento da parte sua ha smentito qualunque legame col cittadino tedesco. “Non ha e non ha mai avuto nulla a che fare con il reggimento. È una cosa assolutamente falsa”, ha detto a Novaya Gazeta Europe un rappresentante del gruppo armato non escludendo che si tratti di un tentativo del regime di “screditare” il reggimento. Neanche le imputazioni sono chiare, anche perché pare che il processo si sia svolto praticamente in segreto e a porte chiuse. Secondo Viasna, la dittatura bielorussa accuserebbe il cittadino tedesco di “terrorismo” e “attività mercenaria” e lo avrebbe condannato con l’accusa di “organizzare un’esplosione per influenzare il processo decisionale delle autorità, intimidire la popolazione, destabilizzare l’ordine pubblico”. Non si capisce di che “esplosione” si parli e non c’è conferma che siano in effetti queste le imputazioni rivolte al cittadino tedesco condannato a morte. In ogni caso non si può non sottolineare come il regime di Aleksandr Lukashenko sia solito incarcerare i dissidenti con pretesti assurdi, tra cui appunto accuse infondate di “terrorismo”. Il regime di Minsk: “Ci stiamo consultando con Berlino” - La leader in esilio dell’opposizione bielorussa, Svetlana Tikhanovskaya, si è detta “preoccupata” per la vicenda. La diplomazia tedesca ha lasciato intendere che sta lavorando per cercare di sottrarre il suo cittadino dal braccio della morte del regime di Lukashenko. Minsk pare non aver chiuso del tutto la porta del dialogo, e oggi ha dichiarato che i ministeri degli Esteri di Germania e Bielorussia “stanno tenendo delle consultazioni su questo punto” e ha inoltre affermato di aver “proposto delle soluzioni concrete” al governo di Berlino. Amnesty: “Le condizioni dei condannati a morte in Bielorussia sono particolarmente crudeli” - La Bielorussia è l’unico Paese in Europa in cui la pena di morte non è stata abolita. E sarebbero ben 400 le condanne a morte eseguite da quando questa repubblica ex sovietica ha ottenuto l’indipendenza, nel 1991. “La pena di morte è una forma di punizione crudele e disumana che la Germania rifiuta in ogni circostanza. Stiamo lavorando in tutto il mondo per la sua abolizione e stiamo lavorando duramente contro la sua attuazione con tutte le persone colpite”, ha dichiarato il governo tedesco. Amnesty International da parte sua denuncia che “e condizione di detenzione dei condannati a morte in Bielorussia sono particolarmente crudeli”. L’organizzazione per la difesa dei diritti umani fa sapere che “non viene dato alcun avviso sulla data dell’esecuzione al prigioniero, ai suoi parenti o rappresentanti legali e nessun incontro finale è concesso alle famiglie”: ai detenuti - sottolinea sempre Amnesty International - “viene detto che saranno messi a morte solo pochi istanti prima di essere bendati, ammanettati, costretti a inginocchiarsi e fucilati alla nuca” e “il corpo non viene restituito” ai familiari, a cui non viene neanche detto il luogo della sepoltura. “Quasi 1.400 prigionieri politici nelle carceri del regime di Lukashenko” - Aleksandr Lukashenko governa la Bielorussia col pugno di ferro dall’ormai lontano 1994, e in questi trent’anni al potere è stato più volte accusato di terribili violazioni dei diritti umani tanto da essere soprannominato “l’ultimo dittatore d’Europa”. Ufficialmente, avrebbe vinto le presidenziali del 2020 addirittura con l’80% dei voti, ma questo risultato è considerato il frutto di massicci brogli elettorali ed è stato contestato da centinaia di migliaia di persone che per mesi sono scese in piazza sfidando il regime e la sua crudele repressione. Le proteste sono state soffocate a colpi di manganello e con un’ondata di arresti (si stima che i fermati furono 35.000), e la polizia bielorussa è anche accusata di torture in carcere contro migliaia di manifestanti. Gli oppositori bielorussi sono stati quasi tutti costretti a rifugiarsi all’estero o sono finiti ingiustamente dietro le sbarre, e secondo l’ong Viasna nelle carceri del regime ci sono attualmente quasi 1.400 prigionieri politici. Il regime di Lukashenko nel 2022 ha inoltre consentito alle truppe russe di attaccare l’Ucraina dal proprio territorio. Bangladesh. Il regime della premier Hasina soffoca nel sangue la rivolta degli studenti di Nadia Ferrigo La Stampa, 21 luglio 2024 Più di cento morti dall’inizio delle proteste contro il sistema di assegnazione degli impieghi nel settore pubblico. Centinaia di detenuti liberati dalle carceri, il governo schiera l’esercito. Spari sui manifestanti e carceri in rivolta in Bangladesh, dove le proteste studentesche delle ultime settimane si sono trasformate in un’insurrezione contro il governo. “Centinaia di detenuti”, come riportano le agenzie internazionali, sono stati liberati in un assalto violento contro un carcere nel distretto di Narsingdi, vicino alla capitale Dacca, che è stato poi dato alle fiamme. Sia nell’immensa megalopoli - 20 milioni di persone - che in buona parte dei 64 distretti in cui è suddiviso il Paese continuano le manifestazioni iniziate come protesta degli studenti universitari contro il sistema di assegnazione degli impieghi nel settore pubblico, contestato perché ritenuto discriminatorio e non meritocratico. Secondo una una legge degli anni Settanta in Bangladesh il 30 per cento di questi posti di lavoro è riservato ai familiari dei reduci della guerra di indipendenza dal Pakistan del 1971. Il governo ha tentato, inutilmente, di bloccare le proteste con un coprifuoco.Le forze di polizia hanno iniziato a sparare sulla folla, uccidendo oltre 100 persone in soli quattro giorni con un bilancio che è destinato ad aumentare di ora in ora. Anche questa mattina, sabato 20 luglio, la polizia ha sparato sulle migliaia di persone presenti nel quartiere residenziale di Rampura per una nuova manifestazione, organizzata nonostante coprifuoco e divieti. La situazione è precipitata dopo che la polizia ha annunciato l’arresto di Ruhul Kabir Rizvi Ahmed, uno dei leader del Bangladesh Nationalist Party (Bnp), il principale partito d’opposizione, che secondo la polizia deve rispondere di “centinaia di accuse”. Internet è stato disattivato, poi è stato dichiarato il coprifuoco generale su tutto il Paese di oltre 171 milioni di abitanti. L’esercito presidia le strade. Si tratta di una rivolta che sfida apertamente la prima ministra Sheikh Hasina, 76 anni, che in 15 anni di potere ininterrotto ha creato un regime autocratico nel quale - accusano gli oppositori - ogni spazio di dissenso è stato brutalmente cancellato. La rivolta contro il sistema di potere creato dalla premier. I manifestanti: “Vogliamo le dimissioni immediate di Sheikh Hasina. Il governo è responsabile delle uccisioni”. È una sfida che si ripete nelle piazze da mesi con cadenza quasi quotidiana e che ha preso di mira uno dei grimaldelli del potere di Hasina e del suo partito, l’Awami League, cioè le quote nella pubblica amministrazione riservate ai discendenti dei veterani della guerra di liberazione. Hasina, che a gennaio ha ottenuto il quarto mandato consecutivo dal 2009, è accusata di aver creato un sistema di potere che assomiglia a un fortino e che annovera fra le sue armi anche l’arresto illegale, il rapimento e l’uccisione extragiudiziale di critici, oppositori e attivisti in un Paese economicamente e socialmente disastrato, povero e sempre più colpito da alluvioni collegate alle piogge monsoniche. Il bilancio dei morti è ufficioso, trapelato da fonti ospedaliere in tutto il Bangladesh, che raddoppiava a intervalli durante la giornata di ieri, venerdì 19 luglio. “Non so quanti detenuti siano stati liberati (nell’assalto degli studenti al carcere), ma sono nell’ordine delle centinaia - ha raccontato un poliziotto all’Afp. “Abbiamo proibito ogni manifestazione, marcia o raduno oggi a Dacca per garantire la sicurezza pubblica” ha dichiarato il capo della polizia, Habibur Rahman. Ma la repressione, per quanto violenta, non sembra aver piegato i rivoltosi: “La nostra protesta continuerà - ha detto Sarwar, uno dei manifestanti che è rimasto ferito in forma lieve nei tafferugli seguiti alle cariche della polizia -. Vogliamo le dimissioni immediate di Sheikh Hasina. Il governo è responsabile delle uccisioni”. “Si tratta dell’esplosione di un malcontento della popolazione giovane che sobbolle da anni per una sottrazione continua di diritti economici e politici - commenta Ali Riaz, professore dell’Illinois State University - E le quote lavorative sono diventate il simbolo di un sistema marcio e rivolto contro di loro”.