Carcere sicuro o fuorilegge? Tutte le aspettative frustrate di Ornella Favero* Il Riformista, 20 luglio 2024 Nel decreto “Carcere sicuro” di misure migliorative c’è forse qualcosa che riguarda il reinserimento sociale delle persone detenute e poi un incremento del personale di polizia penitenziaria e dirigenziale. Ma com’è scritto? E come risponde alle esigenze dei detenuti? Parlare del decreto legge denominato “Carcere sicuro” significa innanzitutto analizzare due questioni che sembrano marginali, ma non lo sono: la prima è come è scritto, la seconda se e come risponde alle aspettative delle persone detenute, che sono altissime perché c’è in tutti la consapevolezza che le istituzioni non stanno facendo il loro dovere nel garantire una carcerazione “costituzionale”. Ma come è scritto il decreto? Facciamo un esempio concreto: per dire che ci saranno due (misere) telefonate in più al mese, non si dice che le telefonate passano da 4 a 6, ma si parla di “incremento del numero dei colloqui telefonici settimanali e mensili equiparando la relativa disciplina a quella di cui all’art. 37”. Bisogna essere esperti del linguaggio di certa burocrazia per capire che si equipara il numero delle telefonate al numero dei colloqui (art. 37 Regolamento di esecuzione O.P.), cioè 6 al mese! La lettura poi della disciplina della liberazione anticipata richiede di essere un esperto giurista, che dovrebbe poter spiegare, per esempio alle persone detenute, qualcosa che assomiglia al nulla, ma un nulla complicatissimo per gli stessi magistrati di sorveglianza che lo dovranno applicare. Quanto alle aspettative, erano e sono più che legittime, perché anche il cosiddetto “sconto di pena” in cui tutti sperano ma che non è stato concesso perché secondo il Governo sarebbe “una resa dello stato”, in realtà si configurerebbe solo come una compensazione alle violazioni continue della legge da parte delle istituzioni (un detenuto mi ha detto oggi: se io violo la legge pago, e non poco, possibile che lo Stato possa farlo impunemente?). In questo decreto di misure migliorative c’è forse qualcosa che riguarda il reinserimento sociale delle persone detenute, ma dico forse perché l’istituzione dell’elenco delle strutture di reinserimento di cui si parla è ancora vago e inconsistente, e poi un incremento del personale di polizia penitenziaria e dirigenziale, per il resto lasciamo ai magistrati di sorveglianza l’analisi dei complicatissimi meccanismi che rischiano di rendere la liberazione anticipata ancor più difficile da conquistare. Sono altre le misure possibili per prevenire in qualche modo i suicidi, che poi sono tutte quelle misure in grado di rafforzare i legami famigliari e le relazioni, fra cui la liberalizzazione delle telefonate (con relativo ridimensionamento delle pene smisurate per chi utilizza telefoni cellulari non consentiti, anche se lo fa esclusivamente per chiamare la madre o i fi gli o la compagna), l’estensione al massimo dei colloqui famigliari e l’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale che permette finalmente anche nel nostro Paese i colloqui intimi. Far fronte a questo stillicidio di suicidi è possibile anche mettendo mano ad alcune delle questioni più spinose della vita detentiva: • La chiusura di molte sezioni, dovuta alla Circolare sulla media sicurezza, ha portato insofferenza, conflitti, rabbia, e ha posto fine a quella “attenzione reciproca” che si può esercitare se le persone non sono chiuse in cella, e hanno almeno da parte delle Istituzioni quella piccola prova di fiducia che è la possibilità di girare “liberi” negli spazi comuni. • Le procedure relative alle questioni disciplinari sono spesso inique e non consentono di fatto una difesa, e di frequente danno il via a conseguenze pesanti proprio per il rischio suicidi, come l’isolamento e i trasferimenti punitivi. Si dovrebbero affrontare questioni disciplinari e conflitti anche con l’intervento di mediatori esterni all’Istituzione. • L’ampliamento delle attività PROPRIO d’estate, quando il carcere è “morto” e la desertificazione affettiva di cui parla la Corte Costituzionale diventa desertificazione di tutte le relazioni e di tutte le attività • Ripensare la presenza del personale dell’area educativa, riconsiderando la vecchia circolare che parlava di una loro più stabile presenza nelle sezioni. Il decreto “Carcere sicuro” con quelle due telefonate in più non propone davvero niente per far sentire le persone detenute ascoltate e per aiutarle a prendersi cura dei propri affetti. Questo è un carcere che di fatto azzera le relazioni umane, e crea nuovi “orfani”, come racconta nella sua testimonianza una persona detenuta che la vita da orfano l’ha conosciuta davvero. I figli dei detenuti mi fanno ripensare a quando ero in orfanotrofio di Jorge Martinez Sono nato in un orfanotrofio in Honduras, e fino agli 8 anni ho pochissimi ricordi. Credo che si tratti di una difesa della mia mente, che per non impazzire ha preferito dimenticare la tanta sofferenza vissuta. A 8 anni, assieme a tre miei compagni di dolore, decidemmo di scappare, per cercare le nostre famiglie, ma ci ritrovammo invece in una condizione di bambini soli e abbandonati. Fui fermato dalla polizia e portato in un altro orfanotrofio, stavolta in Messico, senza più nemmeno la compagnia dei tre bambini che erano fuggiti con me. Scappai nuovamente, ma solo e senza alcun obiettivo né speranza per il futuro, decisi di farla finita. Non ci pensai due volte, e mi buttai da un ponte. Mi svegliai dopo 9 giorni di coma, con le flebo attaccate al braccio in un letto d’ospedale. Se provo a ricollegare la mia infanzia in orfanotrofio alla mia attuale vita in carcere, trovo una strana coincidenza. In orfanotrofio potevo ricevere le cosiddette “visite familiari” tre volte l’anno. Anche in Italia la somma dei colloqui - 6 ore al mese - è di tre giorni l’anno, ma quando si parla di affetto e di amore in un Paese civile come l’Italia, non si dovrebbe essere così avari. Non avendo mai avuto nessuno che si occupasse di me, nella mia vita non ho mai sperimentato l’amore. Tante volte mi sono domandato cosa fosse, se davvero esistesse, e ho trovato la risposta soltanto quando ho conosciuto la donna che è diventata la mia compagna, la mia unica famiglia, così importante per me che non smetterei mai di ringraziarla: per il bene che mi dimostra, per il fatto che non mi giudica. Ogni volta che la sento al telefono, mi sento finalmente parte di una famiglia. Ogni volta che viene a colloquio, e che vedo i figli degli altri detenuti, ripenso a quando ero in orfanotrofi o. Questi bambini non sono orfani, ma li fanno sentire tali, perché il tempo per stare con i loro padri è troppo poco, e a colloquio non possono fare nulla che li faccia sentire parte di una famiglia completa. Una cosa, proprio non riesco a capire fino in fondo: in America Latina ho sentito parlare dell’Italia come di un Paese evoluto, ma allora come è possibile che chi è privato della libertà venga privato anche dell’amore? Ma allora l’amore è qualcosa di sbagliato? Ecco un piano per svuotare le prigioni di Franco Corleone L’Unità, 20 luglio 2024 Le carceri scoppiano a causa della detenzione sociale: è questa che va affrontata e risolta. Non con la demagogia ma con l’intransigenza. Case di reinserimento sociale, applicazione massiccia delle misure alternative, amnistia e indulto: un’agenda ambiziosa di azioni non negoziabili. Il decreto “Carcere sicuro” è un insulto alla condizione di vita dei detenuti. Viene il sospetto che si vogliano provocare rivolte. La tragedia dei suicidi nelle carceri italiane appare inarrestabile e rappresenta uno stillicidio inaccettabile. Colpisce l’insensibilità di una classe politica che ha partorito contemporaneamente un disegno di legge sulla sicurezza zeppo di misure odiose e degne dell’epoca di Scelba (perfino la detenzione per le donne incinte peggiorando il Codice Rocco e prevedendo l’aumento dei bambini che oggi sono ben 26) e un decreto legge denominato “carcere sicuro” che non solo non ha le caratteristiche di necessità e urgenza, ma soprattutto rappresenta un insulto alla condizione di vita dei detenuti. Addirittura viene il sospetto che si vogliano provocare rivolte che hanno come conseguenza morti e feriti tra i prigionieri. A Trieste i detenuti si sono ribellati di fronte a un sovraffollamento che determinava l’alloggiamento su materassi per terra con la fastidiosa compagnia di nugoli di cimici, e come accadde a Modena all’inizio del Covid hanno dato l’assalto non all’armeria bensì all’infermeria per ingozzarsi di metadone. È la rappresentazione icastica di quella che Alessandro Margara stigmatizzava come detenzione sociale. Molte iniziative di denuncia sono state organizzate dai Garanti regionali e comunali e ultimamente dalle Camere penali attraverso maratone oratorie per coinvolgere la società civile. La temperatura è calda in tutti i sensi e il generale agosto si avvicina minaccioso. L’Osservatorio di Ristretti Orizzonti certifica i suicidi nel numero da record di 57, più due morti in seguito a un digiuno. Il rischio che intravedo è che anche le proteste assumano un sapore rituale e di stanca ripetitività. Troppe espressioni tratte dal repertorio della retorica e della demagogia lamentano la sorte dei “tossicodipendenti” e la presenza di detenuti con “malattia mentale”. Mi è capitato molte volte di dire, a voce o in scritti, che sul carcere sappiamo tutto, almeno dal numero speciale del 1949 del Ponte, la rivista di Piero Calamandrei, e che il problema è cambiare le cose. Il motto Pensiero e azione è davvero attuale. Il 2024 si presenta con caratteristiche di preoccupante novità. Le presenze in carcere aumentano di quattrocento persone al mese e a fine giugno si è toccata la cifra di 61.480, di cui 2.682 donne, rispetto alla capienza regolamentare di 51.234; i non italiani sono 19.213 con numeri significativi di appartenenti all’Albania (2008), al Marocco (4018), alla Nigeria (1148), alla Romania (2151), alla Tunisia (2039), all’Egitto (850), all’Algeria (463), al Gambia (403). Il ministro Nordio blatera di espulsioni o di esecuzione della pena nel paese di origine, ma non c’è un progetto di rimpatrio assistito. Quando mi è capitato di avere responsabilità di governo misi in moto azioni di riforma e insieme ad Alessandro Margara scrivemmo il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, entrato in vigore nel 2000 e in quei cinque anni, tra il 1996 e il 2001, forse l’unica stagione coerentemente riformatrice, furono approvate leggi significative come la Simeone-Saraceni per eliminare disparità di classe nell’accesso a possibili misure alternative, la legge Smuraglia sul lavoro, la legge Finocchiaro per le detenute madri, la legge per l’incompatibilità con la detenzione per i malati di Aids e altre gravi patologie. Furono avanzate anche proposte per superare gli Opg (realizzata finalmente nel 2017 dopo l’approvazione della legge 81 e grazie al lavoro del Commissario unico per la chiusura dei sei manicomi giudiziari) e per la riforma della legge Iervolino-Vassalli sulle droghe. La Commissione Grosso elaborò il miglior testo di un nuovo Codice penale per archiviare il Codice Rocco, architrave dello stato etico del fascismo, tuttora in vigore dal 1930. Certo non va trascurata l’approvazione successiva della legge sulla tortura che oggi viene messa in discussione e va tenuto presente íl valore della sentenza Torreggiai emessa dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) nel 2013 che ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti. Ora con il Governo Meloni che ha come orizzonte lo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione occorre una prova di verità. Anche se può apparire un paradosso proprio in questo momento va lanciato un progetto di riforma radicale. Bisogna assumersi la responsabilità di avere perduto occasioni irripetibili e presentare un programma di cambiamento non timido che costituisca lo spartiacque tra i garantisti e i punizionisti. Occorre la forza e l’originalità di riuscire a mettere in rete e sinergia migliaia di realtà, associazioni e sindacati, consapevoli che su un fronte così difficile l’ordine sparso, gli orticelli, gli editoriali dei grilli parlanti non aiutano. Va ripresa con intransigenza la concezione del carcere come extrema ratio. L’innovazione della legge Cartabia che prevede la possibilità di concessione delle misure alternative da parte del giudice dalla cognizione, ad esempio, potrebbe favorire meno ingressi in carcere, ma al momento trova scarsa applicazione e si scontra con dati terribili. Oltre ai 728 detenuti al 41bis quanti sono oggi i detenuti in alta sicurezza, nelle sue varie forme? Circa 12.000? Sono numeri che spazzano via il vaniloquio (interessato) sulle necessità di nuovi istituti e sulla mancanza di personale di polizia penitenziaria. Occorre una riflessione sulla composizione sociale dei detenuti per capire logiche e comportamenti che spingono a dipingere i reclusi come tossici e matti, proponendo soluzioni reazionarie come il ritorno ai manicomi o alle comunità terapeutiche chiuse e mettendo in discussione la competenza del diritto alla salute affidata al Servizio sanitario pubblico. I problemi sono enormi, ancorché non nuovi. Da dove partire? Dalla consapevolezza che il carcere è il sostituto autoritario delle politiche di welfare, è il campo di concentramento per i poveri, a dispetto delle retoriche sulla “cultura della legalità” che hanno imperato negli ultimi decenni, sottraendo capacità di analisi e di proposta. Poi, chiarito il contesto e lo scenario, bisogna scrivere un’agenda delle ferite aperte, a cominciare dalle previsioni non realizzate del Regolamento del 2000 che prevedeva cinque anni per la loro realizzazione: diciotto anni di ritardo costituiscono un reato di omissione di atti di ufficio? Sicuramente qualche azzeccagarbugli sosterrà che il termine non era perentorio ma ordinatorio, ma io affermo a chiare lettere che siamo di fronte a un crimine politico, che va immediatamente sanato. Una citazione parziale delle inadempienze: servizi igienico sanitari, mense e refettori, spacci per la vendita dei prodotti essenziali per abbattere il sistema dell’affidamento a imprese del malaffare del vitto e del sopravvitto, locali per i previsti colloqui lunghi in attesa dell’affermazione del diritto alla affettività e sessualità. Occorre dire alto e forte che il sovraffollamento è provocato dalla detenzione sociale: è questa che va affrontata e risolta. In concreto, si tratta del prodotto della legge proibizionista sulle droghe, di quella sull’immigrazione, della persecuzione dei poveri. Vanno approfonditi gli effetti della legge Iervolino-Vassalli del 1990 sulla giustizia e sul carcere. Il 26 giugno è stato presentato il 15° Libro Bianco redatto dalla Società della Ragione e da un cartello di associazioni tra cui Forum Droghe, Antigone, Cnca, Associazione Luca Coscioni, che ha come titolo Il gioco si fa duro. Il 34,1% dei detenuti presenti nelle 189 prigioni del nostro Paese, è causato dalla violazione dell’articolo 73 del Dpr 309/90 per detenzione o piccolo spaccio (19.000 persone) e il 28,9 è dovuto a quelli che sono definiti grossolanamente “tossicodipendenti” (17.405 individui). Calcolando una area di sovrapposizione possiamo con certezza affermare che oltre il 50% dei detenuti vanno ascritti a una questione sociale. Sfido Alfredo Mantovano, esponente di spicco del Governo Meloni e responsabile del Dipartimento Antidroga a coltivare la sua ossessione contro la canapa senza il supporto del codice penale e della comminazione di pene spropositate per un reato senza vittima. Giochi la partita dell’astinenza sul piano culturale ed educativo e non della persecuzione fisica e morale. Si faccia promotore di un ridimensionamento delle sanzioni (salvaguardando le previsioni per le ingenti quantità e per le organizzazioni criminali) in modo che per i malcapitati siano accessibili le misure alternative. Sarebbe facile liberare il carcere di più di trentamila corpi ammassati e utilizzare la vasta gamma di alternative, dall’affidamento in prova alla detenzione domiciliare, dalla semilibertà ai lavori di pubblica utilità. Già oggi più di 25.000 soggetti utilizzano le misure di comunità, cioè la “Messa alla prova” che all’esito positivo del progetto cancella il processo stesso. Si potrebbe anche sperimentare la attivazione delle “Case di reinserimento sociale” per le pene sotto i dodici mesi che già riguardano oltre settemila prigionieri, strutture di piccole dimensioni affidate alla direzione dei sindaci e alla progettazione dei servizi sociali e del volontariato. La proposta è depositata alla Camera dei deputati dall’on. Magi come primo firmatario con il numero 1064, ha la caratteristica di non avere un carattere premiale. Una pratica non correzionalista e fondata sulla autonomia e la responsabilità. Le risorse ci sono. Mi riferisco a quelle di Cassa Ammende, che vanno utilizzate non per progetti burocratici ma con affidamenti agli enti locali e al terzo settore. Occorre una pratica di welfare ex post, almeno, vista l’assenza di un intervento di prevenzione sociale. È indispensabile un’applicazione massiccia delle misure alternative per tutti coloro che hanno un fine pena fino a tre anni, si tratta di 22.680 persone (7.648 fino a un anno, 8201 tra uno e due anni, 6831 tra due e tre anni) per cancellare una contraddizione ingiusta e di classe tra chi può usufruire di misure senza entrare in carcere o accedere alla Messa alla Prova e chi invece è destinato a stare fino all’ultimo giorno in carcere, uscendo incattivito e destinato alla recidiva quasi certa. Per realizzare questi obiettivi minimi, occorre un movimento di pensiero e di lotta, dentro e fuori dal carcere. La riforma carceraria del 1975 si ottenne con una grande discussione pubblica e la legge Gozzini del 1986 fu discussa e in alcuni punti elaborata nelle carceri. In questi anni si è sviluppata una rete straordinaria di associazioni del volontariato che hanno ben presente la necessità di affermare nell’istituzione totale i valori della Costituzione e il sistema dei diritti fondamentali di cittadinanza. Vi sono le condizioni per decidere una strategia che deve vedere come controparte il parlamento, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria, le regioni titolari della sanità. In questi tempi torbidi si è accesa una luce. La Corte Costituzionale a gennaio ha sancito con una sentenza storica che il diritto alla affettività e a colloqui riservati in carcere rappresenta un diritto inalienabile. Un diritto immediatamente esigibile: da questa vittoria costruita in tanti anni di impegno e da ultimo con un Appello di sostegno alla iniziativa del magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, redatto dal costituzionalista Andrea Pugiotto con l’iniziativa della Società della Ragione, può partire una mobilitazione per rivendicare diritti, dignità e umanità. Il ministro Nordio e la sua corte di sottosegretari è impegnato a impedire la realizzazione di un principio diffuso in tutti i Paesi. Occorre chiamare lor signori a rispondere per il reato di omissione i di atti di ufficio ma soprattutto bisogna metterli sul banco degli imputati per insulto alla Costituzione. Occorre ripartire con un orizzonte alto e con l’ambizione dettata dall’ottimismo della volontà anche se con la consapevolezza del pessimismo della ragione. Non è dilazionabile la revisione dell’art. 79 della Costituzione che rende assolutamente impraticabile la misura dell’amnistia e dell’indulto (proposta di legge n 156). La cancellazione delle incostituzionali misure di sicurezza che penalizzano trecento persone rinchiuse nelle cosiddette case lavoro è un altro obbiettivo irrinunciabile (proposta di legge n. 158). Obiettivi ambiziosi ma percorribili, costruendone pazientemente le condizioni politiche e culturali, le alleanze, il progressivo consenso. Sfuggendo il massimalismo inconcludente e sterile, così come l’affiancamento complice a politiche e amministrazioni artefici dell’attuale disastro. Un disastro umanitario e culturale. Non è tempo di semplice testimonianza: occorrono atti di disobbedienza civile e azioni dirette e nonviolente da parte dei garanti, dei volontari, degli avvocati, delle famiglie dei carcerati. Subito. Dignità e diritto, l’architettura dell’affettività in carcere da San Marino a Padova di Cesare Burdese* L’Unità, 20 luglio 2024 Nel 2016 ho progettato per la Serenissima Repubblica di San Marino un carcere “contemporaneo”, in sostituzione del vecchio situato nell’antico Convento dei Cappuccini. Il mio committente volle specificatamente che nel nuovo carcere prevedessi uno spazio per il “ricongiungimento familiare” dei detenuti, costituito da un soggiorno con angolo cottura, una camera da letto matrimoniale, un servizio igienico e una loggia. Nulla di carcerario, ma un ambiente di tipo domestico, dove peraltro le garanzie di sicurezza non sarebbero venute meno. In quello spazio, la persona detenuta avrebbe potuto condividere con i propri familiari o il partner della vita, per un tempo significativo, momenti di intimità, nel pieno rispetto della privacy, fuori del controllo visivo e auditivo del personale di custodia. Progettai il carcere come mi era stato richiesto, nel solco di quanto da tempo avviene nelle nazioni più rispettose della dignità e dei diritti delle persone detenute. A consegna avvenuta del progetto, subentrò un nuovo governo che accantonò l’idea di costruire il nuovo carcere; il mio progetto fu cestinato. Ho appreso che nel 2023 sono iniziati lavori di migliorie nel vecchio carcere, ma non ho avuto notizie in merito al destino del locale per il “ricongiungimento familiare”. Questa vicenda dimostra come l’ideologia del governante di turno possa, progettisticamente, nel bene o nel male, incidere sul rispetto della dignità e dei diritti fondamentali delle persone coinvolte nella vicenda penale. A qualche centinaio di chilometri da San Marino, a Padova, oggi mi ritrovo ad affrontare progettisticamente la stessa questione. Le circostanze sono altre, ma il tema e i valori sono gli stessi. Tutto ha inizio con la sentenza n.10/2024 della Corte Costituzionale che “qui e ora”, oltre alla generica valorizzazione del diritto all’affettività, introduce di fatto in carcere “la possibilità di utilizzare il tempo del colloquio con il/la partner per rapporti intimi anche di tipo sessuale”. Con intento collaborativo, Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia, lo scorso febbraio, ha avviato un confronto su come costruire uno spazio per l’intimità degli affetti, al Carcere Due Palazzi di Padova, dove da decenni opera. Nell’ambito della Giornata nazionale di studio Io non so parlar d’amore…, organizzata da Ristretti Orizzonti il 17 maggio scorso, nel solco dell’iniziativa avviata, mi sono messo a disposizione, per dare vita ad una attività progettistica condivisa con i detenuti. Le testimonianze delle persone detenute e dei loro famigliari intervenuti quel giorno, hanno dato ulteriore valore all’iniziativa e a questo inedito cimento progettuale. Il progetto oggi è stato redatto, con i collaboratori detenuti di Ornella Favero: la struttura progettata si chiama “Il Roseto” e coniuga architettura e arte contemporanea, per l’apporto dell’artista torinese Eraldo Taliano. Essa è prevista collocata in un’area detentiva attualmente libera, in prossimità dell’ingresso del carcere, ma potrebbe sorgere analogamente in numerose altre carceri. “Il Roseto” si compone di quattro piccoli padiglioni, che contengono ciascuno un soggiorno dotato di angolo cottura, una camera da letto per due, un servizio igienico e zone esterne coperte per la permanenza all’aperto. I padiglioni circondano una piccola piazza che contiene una vasca con l’acqua, per il gioco dei bambini. Il tutto è immerso in un roseto; le persone detenute potranno avvicendarsi nella cura delle rose. “Il Roseto” dovrebbe essere realizzato con il coinvolgimento di persone detenute - coadiuvate da maestranze qualificate - sulla scorta di esperienze analoghe condotte in altre carceri italiane. Solo per citare i casi più significativi, ricordo “Il Giardino degli incontri” nel carcere di Sollicciano, la “Casetta Rossa” nel carcere di Bollate, la “Casa per l’affettività” MA.MA nel carcere di Rebibbia. Questi edifici sono l’espressione architettonica di principi e concetti di civiltà sanciti dalla nostra Costituzione. A seguito del pronunciamento della Consulta, è stato costituito presso il DAP un apposito tavolo multidisciplinare che si prefigge, tra il resto, di definire i requisiti architettonici dei nuovi locali che la sentenza prefigura. L’auspicio è che quel tavolo di lavoro possa rappresentare un momento di crescita, morale e culturale, e che vi sia spazio per un ampio confronto con quanti si occupano di carcere e di architettura, nella più totale coerenza costituzionale. *Architetto, esperto di architettura penitenziaria Personale, affollamento e liberazione anticipata: conversazione sul carcere con Monica Amirante di Marianna Caiazza* Il Riformista, 20 luglio 2024 Il primo obiettivo che persegue il D.L. 92/2004, lo dice il suo Articolo 1, è quello di aumentare i livelli di sicurezza, operatività ed efficienza delle carceri. E lo fa incidendo sulle carenze organiche del corpo di Polizia Penitenziaria. È solo questo il personale di cui gli istituti penitenziari necessitano? Gli istituti penitenziari soffrono un’enorme carenza di personale, in primis di quello di polizia. Non prendiamo il problema sottogamba: un sotto organico che va in stress pregiudica anche il benessere dei detenuti. Tutelare l’uno significa tutelare anche l’altro, vanno di pari passo. Ottima, quindi, l’idea di incrementare l’organico, ma purtroppo non si avranno, di fatto, benefici immediati. Parliamo delle altre esigenze che l’emergenza carceraria esplicita. Il sovraffollamento sembra essere affrontato con una parziale modifica di un istituto che esiste già: la liberazione anticipata, ora legata inscindibilmente alla domanda di un beneficio penitenziario o di una misura alternativa oppure alla esatta determinazione del fi ne pena se di prossima scadenza. È uno stravolgimento? Non dimentichiamoci l’origine dell’istituto. La liberazione anticipata è nata dall’esperienza carceraria, dalle rivolte che andavano contenute, dai malumori che andavano alleviati. Serve ad impiantare un seme di speranza e a mantenerlo vivo in chi, ristretto, si abbandona allo sconforto, non vede una fine. Ma se così è, il messaggio che manda questa riforma strutturale della liberazione anticipata è opposto: mi occupo di te solo quando è necessario o quando è il tuo turno. E non è un bel messaggio. La nuova procedura introdotta dal Decreto Carceri vorrebbe rendere più efficiente e rapida la concessione della liberazione anticipata, affidando ai Magistrati di Sorveglianza un controllo spontaneo ed ex officio della sussistenza dei presupposti. Si semplifica l’accesso al beneficio? Se possibile la nuova procedura, più che semplificare, rallenta. Introduce un meccanismo farraginoso che coinvolge più soggetti - Procure, Direttori delle carceri e Magistratura di Sorveglianza - e di fatto tende ad allentare quella prossimità tra magistrato e soggetto ristretto. In più il Decreto non fa i conti con la vetusta informatizzazione di tutta la fase esecutiva: il nostro SIES è arcaico, con la conseguenza che non consente un calcolo rapido ed agevole del fi ne pena. E allora dovrebbero venire in aiuto i Direttori degli istituti penitenziari, che però scontano eguali problemi. Ad essere sovraffollate, in ogni caso, non sono solo le carceri, ma anche le comunità. Il Decreto Carceri interviene anche su queste, accreditando le strutture già esistenti e stanziando 7 milioni annui per garantire l’accesso ai non abbienti. Una soluzione “a metà”? Un intervento sulle comunità non può che essere salutato con gioia, perché dimostra l’intento di rendere più effettivi e concreti i dettami dell’art. 27 Cost., certamente “mal digerito” in Italia, dove fa paura l’idea che il detenuto esca dal carcere e torni alla vita. Trovo però allarmante questa tendenza alla privatizzazione del settore: di fatto si va sempre più verso una gestione privata dell’esecuzione penale esterna, come se lo Stato si spogliasse di quella che è una funzione fondamentale. Altra esigenza primaria in questo periodo buio per la situazione carceraria in Italia è di far fronte al drammatico fenomeno dei suicidi. Il D.L. sembra affrontare in parte il tema della condizione psicologica dei detenuti aumentando il numero di colloqui telefonici consentiti. È un aiuto concreto? Di cosa ha bisogno chi è ristretto oggi in Italia? Già dopo l’emergenza Covid è stato consentito ai Direttori degli istituti di aumentare il numero di colloqui, quindi qualcosa era già in atto. Ma in ogni caso non basta, e il problema della solitudine di chi è ristretto non si affronta così. Va cambiato l’approccio complessivo, occorre creare percorsi veri di risocializzazione, e così spogliare il detenuto del timore di essere dimenticato dal mondo. È questa la vera paura. Tiriamo le somme… Di fronte ad una situazione così esplosiva e drammatica come è quella delle carceri italiane non si avrà alcun beneficio significativo rispetto all’obiettivo originario del Decreto, che doveva affrontare concretamente i problemi del sovraffollamento e dei suicidi. *Avvocato penalista I Garanti: “Indignarsi non basta più”. Altro morto a Salerno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 luglio 2024 “Il carcere è al collasso. Siamo in piena emergenza umanitaria!” Queste parole del Garante campano Samuele Ciambriello risuonano come un grido d’allarme sulla drammatica situazione delle carceri italiane. Giovedì si è registrato l’ennesimo episodio tragico, questa volta nel carcere di Salerno-Fuorni. Nella serata un detenuto di 24 anni magrebino avrebbe ferito alla gola con una lama ricavata da una lametta per la barba usa e getta il suo compagno di cella, un connazionale di 30 anni. Subito c’è stato l’intervento degli agenti della Polizia penitenziaria che hanno bloccato l’aggressore ed è stato disposto l’immediato trasporto in ospedale del ferito che, dopo qualche ora, nella prima mattinata di ieri, è deceduto. Quello di Salerno è il terzo omicidio in cella dall’inizio dell’anno, i due precedenti ci sono stati a Poggioreale il 4 gennaio e a Opera- Milano il 20 aprile. Ma un’analisi approfondita del recente documento della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, di cui il portavoce è Ciambriello, rivela uno scenario ancora più allarmante di quanto si possa immaginare. Il documento offre uno spaccato impietoso della realtà carceraria italiana, evidenziando come le recenti misure adottate dal governo siano del tutto inadeguate ad affrontare quella che viene definita una vera e propria “emergenza”. I numeri sono scioccanti: dall’inizio dell’anno si contano già 57 suicidi tra i detenuti, più uno in un Centro di Permanenza per i Rimpatri, a cui si aggiungono 6 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli critici, con 61.480 detenuti a fronte di una capienza effettiva di soli 47.300 posti, portando l’indice di sovraffollamento al 130%. In alcune regioni la situazione è ancora più drammatica, con picchi del 169,7% in Puglia, 160,2% in Basilicata e oltre il 150% in Lombardia e Veneto. Ma non è solo una questione di numeri. Il documento denuncia il dilagare di fenomeni di violenza e tortura, come testimoniato dalle recenti indagini sui fatti di Reggio Emilia e Milano. Le proteste, anche violente, si moltiplicano in diversi istituti, conseguenza diretta di condizioni detentive che “ledono la dignità umana”. Un’analisi più dettagliata rivela aspetti ancora più preoccupanti. Dei 61.480 detenuti, ben 19.951 sono in attesa di giudizio definitivo, di cui circa 9.500 addirittura in attesa di primo giudizio. Inoltre, 21.075 persone stanno scontando un residuo di pena da 0 a 3 anni, e 7.027 devono scontare meno di un anno di carcere. Questi dati sollevano serie questioni sull’efficacia e l’equità del sistema giudiziario italiano. In questo contesto, il recente decreto- legge n. 92 del 4 luglio 2024, presentato dal ministro Nordio come un provvedimento per “umanizzare” l’esecuzione della pena, viene duramente criticato dai Garanti. Le misure contenute sono giudicate “completamente inadeguate” rispetto alle proporzioni dell’emergenza carceraria. Il decreto viene definito una “scatola vuota”, incapace di fornire soluzioni immediate. Le critiche si concentrano su diversi aspetti. L’aumento del personale riguarda solo la polizia penitenziaria (1.000 nuove unità), trascurando le esigenze dell’area educativa e di trattamento. Inoltre, la formazione di queste nuove unità viene ridotta da 6 a 4 mesi, sollevando dubbi sulla loro preparazione. L’aumento delle telefonate da 4 a 6 a settimana viene giudicato una “misera concessione”, per di più non immediatamente operativa. Il documento dei Garanti sottolinea come questa misura sia ben lontana dalle raccomandazioni di precedenti commissioni e dalle pratiche di altri paesi europei. La creazione di un elenco di strutture residenziali per detenuti viene vista con scetticismo, temendo una “privatizzazione dell’esecuzione penale”. Inoltre, la misura non è immediatamente applicativa, richiedendo ulteriori decreti ministeriali. Le modifiche all’istituto della liberazione anticipata sono considerate poco incisive sul fronte del sovraffollamento. Il documento critica il fatto che queste modifiche potrebbero addirittura complicare il lavoro dei magistrati di sorveglianza. I Garanti chiedono misure immediate e concrete, a partire dall’approvazione della proposta di legge sulla “liberazione anticipata speciale”, che potrebbe portare a uno sconto di pena di 2 mesi per ogni anno scontato. Si sottolinea inoltre la necessità di superare la visione “carcero- centrica” del sistema penale, rendendo più accessibili le misure alternative alla detenzione. Il documento affronta anche la questione della circolare Dap n. 3693/6143 del 18 luglio 2022 sul riordino del circuito di media sicurezza, evidenziando come la sua applicazione abbia paradossalmente portato a un ritorno al regime di “custodia chiusa” per la maggior parte dei detenuti, aggravando ulteriormente le tensioni. Infine, i Garanti sollecitano l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 sul diritto all’affettività dei detenuti, lamentando l’inerzia del legislatore su questo fronte. Il documento si conclude con un appello accorato: “Indignarsi non basta più. Serve praticare l’impegno e tradurlo in soluzioni giuridiche immediate per ridare a più di 60 mila persone speranza e dignità”. La situazione descritta dai Garanti è a dir poco allarmante. Il sistema carcerario italiano appare sull’orlo del collasso, incapace di garantire i diritti fondamentali dei detenuti e di assolvere alla funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. Le misure adottate dal governo sembrano inadeguate a fronteggiare l’emergenza, mentre il sovraffollamento, i suicidi e le violenze continuano ad aumentare. La palla passa ora al governo e al parlamento. La sfida è immensa: trasformare le carceri italiane da luoghi di sofferenza e degrado in spazi di rieducazione e reinserimento sociale. Il tempo stringe e l’emergenza si fa sempre più acuta. La domanda è: saranno in grado le istituzioni di rispondere con l’urgenza e l’efficacia richieste dalla gravità della situazione? Il destino di oltre 60.000 persone, e la credibilità stessa del sistema giudiziario italiano, dipendono dalla risposta a questa domanda. E forse una risposta potrebbe venire dalla proposta di legge Giachetti/ Bernardini sulla liberazione anticipata speciale. Così come, potrebbe venire da un emendamento presentato dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, subito attaccato ferocemente dal giornale reazionario de Il Fatto Quotidiano con il risultato che il ministro Nordio ha chiesto il ritiro. Alla fine vince la visione carcerocentrica che unisce gli illiberali. La politica dei segnali di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 20 luglio 2024 Una politica della Giustizia che lancia segnali finalmente liberali, dopo due anni di cambiali pagate al diffuso elettorato giustizialista e populista della maggioranza di Governo, tra reati di rave-party, ostatività a go-go e atti di resistenza passiva in carcere equiparati alla rivolta, è di per sé una buona notizia. E di segnali il DDL Nordio ne ha mandati senza dubbio: rafforzamento della inviolabilità delle conversazioni tra difensore e cliente, attenzione ai terzi coinvolti nelle intercettazioni, tipizzazione del traffico di influenze, sullo sfondo - finalmente - di un rilancio, almeno apparente anche se certamente assai tardivo, della separazione delle carriere, sono passi avanti importanti. Però una disamina onesta del contenuto effettivo delle misure varate deve pur farsi, se non vogliamo svilire la politica dei segnali (che, lo ripeto, è comunque una cosa seria) in pura e semplice propaganda. E qui, quando andiamo a sfogliare il testo, cominciano i dolori. PQM se ne era già occupato nel corso dell’iter parlamentare, ma dopo l’approvazione occorre ritornarci su. Qualche esempio? Ci dicono sia stato introdotto l’interrogatorio preventivo rispetto alla emissione della ordinanza cautelare. Beh, sostanzialmente non è vero. Sono tali e tante le deroghe, le eccezioni e le limitazioni, per di più interamente rimesse alla discrezionalità di PM e GIP, e soprattutto non sanzionabili in caso di arbitrio motivazionale, che le buone intenzioni saranno prevedibilmente spazzate via. Intanto, l’ipotesi si riferisce solo ai reati di assai contenuta gravità. Poi, esso è escluso se ricorrono le esigenze cautelari del pericolo di fuga e dell’inquinamento delle prove, il quale ultimo, come sa anche un praticante avvocato alle primissime armi, non si nega davvero a nessuno. Non basta: l’interrogatorio preventivo non potrà avere luogo ove PM e GIP ritengano che l’atto debba essere “a sorpresa”, e qui siamo quasi alle comiche. Più o meno analoghe limitazioni vanno riferite al tanto decantato giudizio collegiale dei gip nella emissione della ordinanza cautelare in carcere; norma che peraltro entrerà in vigore almeno tra due anni, quando avremo messo in ruolo la bellezza di 250 GIP (campa cavallo). Grandi ed entusiastici proclami anche per l’abolizione dell’appello del PM, ma la novità riguarda solo i reati bagatellari, fi no a quattro anni di pena massima, cioè riguarda sentenze che abitualmente, già ora, i PM non impugnano praticamente mai (parliamo di numeri risibili). Vedete che non ho parlato della novità più discussa, cioè l’abolizione del reato di abuso. A noi penalisti questo è un tema che non ha mai scaldato il cuore; e la ragione la leggerete illustrata magistralmente nell’articolo del prof. Giunta (l’abuso dell’azione penale con il pretesto dell’abuso in atti di ufficio, è divenuto intollerabile, ma ha senso rispondere a questa patologia abrogando il reato?). Peraltro, con la mano sinistra, in un diverso provvedimento viene reintrodotto (aumm aumm, diremmo noi campani) il reato di peculato per distrazione, che era stato abrogato molti anni fa proprio perché ritenuto assorbito dal reato di abuso. Ed infine, a proposito di segnali, come non dire che la risposta alla tragedia delle carceri sovraffollate e dei suicidi continua ad essere cocciutamente minimalista e gravemente inadeguata, in nome di una intollerabile idea forcaiola e carceraria della certezza della pena, che fa rivoltare nella tomba Cesare Beccaria? Perciò, leggete con attenzione questo numero, che è un contributo importante di verità e di competenza tecnica. Evviva i “segnali liberali”, e lo diciamo davvero; ma quando è che la Politica riuscirà a legiferare senza il “contributo”, e dunque le interferenze tecniche e politiche, della magistratura massicciamente dislocata in via Arenula? Eccola, piuttosto, la riforma liberale della quale davvero questo Pese ha una necessità vitale. Donne, carceri, povertà. Vi sembra la strada giusta? di Barbara Rosina huffingtonpost.it, 20 luglio 2024 Le norme impattano sulla pelle delle persone, chi fa politica non può limitarsi a scrivere leggi, decreti, altisonanti “riforme epocali” deve abbassare lo sguardo sulla realtà e vedere se quelle misure siano state in grado di tutelare davvero le persone in situazioni di fragilità e vulnerabilità. Le scelte europee e quelle di casa nostra tra riduzione delle spese, autonomia differenziata, Legge di Bilancio difficile. Guardiamo a quello che sta succedendo e, da assistenti sociali, ci facciamo e facciamo delle domande perché la poca attenzione alle persone - interventi di sostegno, tutela dei diritti - e il risicato spazio di ascolto per le professioni di cura, non ci fanno ben sperare. Vorrei mettere a fuoco alcuni temi per noi importanti che emergono poco nell’agenda politica e in quella mediatica a meno che la cronaca non lo imponga. Comincio dalla violenza contro le donne. Secondo i dati rilasciati dalla direzione centrale del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, in questo arco di anno, le donne sono il 34% delle vittime degli omicidi volontari. Sono aumentati i maltrattamenti contro familiari e conviventi e le segnalazioni a carico dei presunti “autori noti”. Se pensiamo al Codice rosso introdotto ormai da cinque anni - che prevede che i delitti contro le donne abbiano la stessa priorità e gravità dei reati di criminalità organizzata - possiamo parlare di ampliamento delle tutele per le donne vittime di violenza e in termini percentuali i dati ci dicono che c’è un aumento delle denunce. Stiamo quindi rafforzando, sebbene ancora soltanto in sede giudiziaria, strumenti per contrastare e prevenire il fenomeno. Ma quel 34% e il ripetersi di femminicidi come la carenza endemica di consultori familiari, ci induce a chiedere come siano state utilizzate le risorse destinate nella Legge di Bilancio 2024 al rafforzamento della rete dei servizi pubblici e privati di prevenzione, all’assistenza, al sostegno e all’accompagnamento delle donne, alle iniziative di formazione per operatori di polizia e per le altre professionalità. Numeri che diano risposte a queste domande, possono essere utili per capire se si è fatto quel che si deve, se le donne che hanno avuto il coraggio di ribellarsi e di denunciare abbiano avuto risposte. Mi sposto alle carceri. Condizioni di detenzione inumane denunciate da più parti, sovraffollamento, assenza di personale, assenza di attività rieducative. I dati dei suicidi tra detenuti oscillano tra 50 e 56 nei primi sei mesi del 2024, ma poi ci sono anche sei agenti penitenziari che hanno deciso di togliersi la vita. Con il decreto “carcere sicuro”, a inizio luglio, si è intervenuti per aumentare la sicurezza e l’efficienza degli istituti di pena, ma questi numeri confermano che non si affronta il nodo del trattamento dietro le sbarre, l’umanizzazione della pena, delle condizioni di vita delle persone detenute. Ci scandalizziamo, reagiamo ad ogni nuovo suicidio o rivolta, ma poi? E veniamo alle misure di sostegno al reddito. Nonostante gli sforzi immani che come assistenti sociali facciamo per garantire il diritto alle prestazioni a tutti coloro che hanno i requisiti per l’accesso all’AdI, il nostro istituto di statistica conferma quello che noi tocchiamo con mano: la povertà aumenta e cambia volto, coinvolge e trascina in situazioni di disagio anche chi ha un lavoro, magari fisso, ma non retribuito nel modo giusto. Famiglie, persone sole, anziani e bambini sono sempre più in difficoltà. A sei mesi dall’abolizione del Reddito e della Pensione di Cittadinanza - lo dice l’Osservatorio Statistico dell’Inps - la misura di contrasto della povertà ha perso il suo carattere di universalità indirizzandosi verso particolari categorie di persone individuate in base all’età, alla disabilità o a particolari situazioni di svantaggio. Lasciando soli e senza sostegno in molti. Le norme impattano sulla pelle delle persone, chi fa politica non può limitarsi a scrivere leggi, decreti, altisinonanti “riforme epocali” deve abbassare lo sguardo sulla realtà e vedere se quelle misure siano state in grado di tutelare davvero le persone in situazioni di fragilità e vulnerabilità. Donne, carceri, povertà… Vi sembra di essere sulla strada giusta? A noi no! Abuso di ufficio, vi spiego perché l’abrogazione è stata la scelta giusta di Giorgio Altieri Il Riformista, 20 luglio 2024 Nel 2021, a fronte di oltre 5.400 procedimenti, ci sono state appena 9 condanne dibattimentali e 35 sentenze di patteggiamento. E il danno alla collettività e all’economia è in gran parte irrisarcibile. Leggendo le cronache e i commenti successivi all’approvazione definitiva del cosiddetto disegno di legge Nordio, che abroga il reato di abuso d’ufficio, si ha l’impressione che si voglia ingenerare un sentimento di preoccupazione nell’opinione pubblica portata a credere che si sarebbe inteso favorire alcuni e, specificamente, i cd ‘colletti bianchi’ e gli ‘amministratori pubblici’ e, soprattutto, che si andranno a creare aree di impunità nell’agire della pubblica amministrazione. Nulla di tutto ciò è vero. Addirittura, c’è chi ha paventato che con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non saranno più perseguibili i magistrati che abbiano avvantaggiato o danneggiato intenzionalmente un imputato. Ciò oltretutto in contraddizione con l’orientamento dell’area politica che ha approvato l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e che da sempre vuole contrastare l’irresponsabilità dei magistrati che operano non correttamente. Vorrei chiedere quanti processi che vedano imputati magistrati per abuso d’ufficio si conoscono e sia possibile censire negli ultimi trent’anni. Senza entrare troppo nei tecnicismi, l’abuso d’ufficio, nella sua originaria formulazione del codice penale, era una previsione di illecito cd residuale, ossia andava a sopperire ad eventuali carenze di repressione di illeciti non coperti dai reati tipici a tutela del corretto andamento dell’attività della pubblica amministrazione. Era un illecito piuttosto indeterminato, che lasciava un amplissimo margine di discrezionalità e di interpretazione, spesso (purtroppo) anche a seconda di chi era l’imputato di turno. Il precetto normativo è stato quindi oggetto di ben tre riforme in poco più di trent’anni, tutte finalizzate a restringere e delimitare i presupposti perché potesse essere effettivamente integrato quel reato. Quegli interventi normativi sono stati approvati dai governi più svariati. Il primo nel 1990 da uno dei governi Andreotti, il secondo nel 1997 dal governo Prodi, il terzo nel 2020 dal governo Conte, in epoca covid per tutelare - così disse la vulgata dell’epoca - la classe medica che era il presidio rispetto all’emergenza pandemica. Il risultato, secondo gli ultimi dati disponibili sono che, solo nel 2021, a fronte di oltre 5.400 procedimenti ci sono state appena 9 condanne dibattimentali e 35 sentenze di patteggiamento per abuso d’ufficio. Praticamente quasi il nulla di condanne, a fronte di oltre 5.400 procedimenti, ossia indagini. C’è da domandarsi quanti procedimenti amministrativi siano stati parallelamente prima sospesi e poi si sono persi a causa di quel “quasi nulla di condanne”? E quale danno è stato fatto alla collettività e all’economia? Un danno oltretutto per la maggior parte irrisarcibile. E non va dimenticato il danno di quanti altri procedimenti amministrativi parallelamente sono stati arenati dal fenomeno della cd “fuga dalla firma” degli amministratori e dei tecnici, soprattutto locali, che non hanno mandato avanti i procedimenti amministrativi più svariati solo per il timore di finire sotto indagine. Il punto è che spesso si trascura che già solo la conoscenza della pendenza di un’indagine penale blocca di fatto il procedimento amministrativo. Quella pendenza è poi di per sé stessa una sanzione per chi si trova coinvolto nell’indagine, oltre che una spesa che non verrà mai risarcita. Ciò accade poi spesso a carico di amministratori e tecnici locali che non hanno stipendi da nababbi e, quindi, sono ancor più intimoriti dal poter essere destinatari di un avviso di garanzia. Ciò determina altresì un danno enorme anche per il ‘sistema economico’ e l’allontanamento di investitori, pure stranieri, che si domandano perché investire in un Paese dove la denuncia di un concorrente o anche solo di un soggetto che sia insoddisfatto rispetto alla specifica iniziativa amministrativa, magari supportato da un’associazione di tutela di un qualche interesse, possa bloccare il procedimento amministrativo per anni e restare impunito, se poi la sua denuncia si rivelerà infondata o peggio strumentale. La risposta di alcuni rispetto alla sorte minima di condanne per le contestazioni di abuso d’ufficio è addirittura che i colpevoli l’hanno fatta franca. La risposta del nostro ordinamento è che la giustizia deve fare il suo corso e, se verrà accertata la correttezza, l’indagine verrà archiviata oppure verrà ottenuta l’assoluzione all’esito del processo. Ma queste risposte non tengono in conto o fingono di non tener conto che troppo spesso il malcapitato o i malcapitati di turno hanno dovuto subire anche uno o più gradi di processo, ossia anni di stigma sociale e di perdita o sospensione magari del posto di lavoro e l’arenarsi o il venir meno del provvedimento amministrativo avuto di mira che sarebbe stato invece lecito. Per non considerare quei casi in cui si matura la prescrizione, che può essere anche peggio dell’archiviazione o dell’assoluzione, in quanto, non essendo mai facile - dopo anni di calvario di indagine e processi - decidere di rinunciarci, il malcapitato accetta la prescrizione e, per quanto normativamente è un proscioglimento, resta il dubbio sulla persona nell’ambiente lavorativo o professionale e certamente, in quel caso, il procedimento amministrativo sotteso alla vicenda penale non sarà mai più ripreso, perché nessuno vorrà tornare a correre un qualsivoglia rischio analogo per una vicenda che non è stata definitivamente chiarita. Sia ben chiaro. Non si intende in nessun modo avallare comportamenti illeciti. È senz’altro doveroso sanzionare l’operato illecito degli amministratori pubblici e dei loro concorrenti, ma con fattispecie di reato tipiche e non residuali, come appunto l’abuso d’ufficio. Il paradosso delle riforme che negli anni hanno interessato il precetto normativo dell’abuso d’ufficio è stato che ne hanno sempre più ristretto e vincolato l’area di applicabilità, ma non sono intervenute sulla possibilità di contestazione. L’intervento sul precetto penale ha determinato quei risultati minimali di condanne sopra ricordati e non ha espunto la possibilità di contestazione eccessiva del reato: troppe indagini per quasi nessuna condanna, con i conseguenti gravissimi danni causati alla collettività e al Paese. Dal che mi sembra inevitabile la conclusione del rigetto dell’opzione di provare a restringere nuovamente e ulteriormente il perimetro del reato di abuso d’ufficio, opzione che già in passato e più di recente non ha funzionato. Senz’altro più opportuna ed efficace la radicale abrogazione di quella fattispecie di reato e lasciare la repressione di eventuali illeciti abusivi di rilevanza penale ai reati tipici a tutela della correttezza dell’attività della pubblica amministrazione. È stato fatto notare dallo stesso ministro Nordio come esista nel nostro sistema penale un’”arsenale” di illeciti tipici, dalla corruzione alla concussione, dal peculato all’omissione di atti d’ufficio, dalla rivelazione del segreto d’ufficio alla turbata libertà delle gare o del procedimento di scelta del contraente e ancora tanti altri illeciti che possono senz’altro reprimere meglio condotte illecite nell’interesse del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione. Il corposo elenco delle fattispecie tipiche di reato nelle quali può essere ricondotta l’attività abusiva della pubblica amministrazione dimostra di per sé stessa che non si tratta affatto di un’abrogazione di un illecito che determina la creazione di un’area di impunità. Anzi, a volerla dire tutta, non è stato neppure fatto - contrariamente a quello che si afferma - un favore agli amministratori pubblici e/o ai colletti bianchi e ai loro concorrenti, in quanto tutte le fattispecie di illecito sopra ricordate prevedono, per la maggior parte, delle pene ben più alte dell’abuso d’ufficio, che è sanzionato con la pena nel massimo di quattro anni di reclusione. Quindi, il rischio semmai è che, ricondotto il fatto alla fattispecie sua tipica, le sanzioni da ora in poi saranno più elevate. Anche chi volesse denunciare sarà chiamato da ora in poi ad assumersi la responsabilità di ricondurre la sua doglianza ad un’ipotesi di fattispecie tipica e non limitarsi semplicemente a denunciare che ci sarebbe stato un abuso che poi non si rivelerà tale. Alcuni sostengono che residuerebbero però delle aree di impunità perché non tutte le condotte o le omissioni abusive potrebbero essere ricondotte alle fattispecie tipiche del sistema, ciò anche a seguito di alcune recenti interpretazioni giurisprudenziali che avrebbero escluso alcuni fatti dal reato tipico e lo avrebbero ricondotto alla più generale fattispecie dell’abuso d’ufficio. A prescindere dal fatto che gli orientamenti giurisprudenziali si evolvono nel tempo, di certo di fronte a così tanta insipienza e danno che la sola esistenza della fattispecie di abuso d’ufficio causa, sarebbe miope e auto-distruttivo persistere nel mantenerla in vita o pretendere nuovamente di precisarla meglio, non comprendendosi che si va ad esasperare il paradosso di consentire l’avvio di miglia di indagini, con tutte le loro ricadute nefaste, a fronte di condanne del tutto irrisorie, anche solo nel numero complessivo che si registrano. È evidente che se ci fossero realmente alcune situazioni che non potrebbero essere agevolmente ricondotte ad alcuna delle fattispecie tipiche, ci potranno essere altri strumenti di tutela in via amministrativa o disciplinare, dovendosi anche uscire dall’impostazione che ogni tutela deve trovare a tutti i costi risposta nella repressione penale. Da ultimo, a smentita pure del fatto che con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio si sarebbe creata un’area di impunità rispetto alla normativa europea, che impone la repressione delle condotte del pubblico uffi ciale o dell’incaricato di pubblico servizio non immediatamente appropriative, ma di mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche, non tutti i commentatori hanno riportato correttamente che, pressoché parallelamente all’approvazione dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, è stato introdotto nel codice penale il reato di peculato per distrazione a profitto proprio o altrui, le cui condotte, a seguito della riforma del 1990, erano state espunte dalle fattispecie di peculato e la giurisprudenza le aveva però ricondotte nell’alveo dell’abuso d’ufficio. Si può contestare sul punto probabilmente la tecnica legislativa per cui le due riforme, quella dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio e l’introduzione del peculato per distrazione, siano maturate in provvedimenti di legge differenti. Si può forse contestare che il peculato per distrazione sia stato introdotto con un decreto legge di urgenza (il cd decreto Carceri). Si può ancora contestare che la nuova previsione normativa non è forse impeccabile nella descrizione della fattispecie. Si può contestare infine che, se quella condotta fosse rimasta sanzionata in via interpretativa con l’abuso d’ufficio, sarebbe stata sanzionata fi no a quattro anni di reclusione e ora, invece, con la nuova fattispecie sarà sanzionata nel massimo con tre anni di reclusione. Quel che conta però è la sostanza. Il peculato per distrazione, in linea alla direttiva europea del 2017, che richiede agli Stati membri di punire i pubblici ufficiali incaricati di gestire beni e fondi pubblici che li usano per scopi diversi da quelli prescritti, è oggi anch’essa e di nuovo una fattispecie tipica di illecito sanzionata dal nostro ordinamento e non più rimessa ad un’interpretazione giurisprudenziale - opinabile - dell’abuso d’ufficio. In conclusione, la direzione è chiara e condivisibile. I reati dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio sono quelli a fattispecie determinata e tipica e sono per la maggior parte sanzionati anche più severamente dell’abuso d’ufficio. Ciò che non rientra in quelle fattispecie tipizzate non può essere più ricondotto nell’alveo di una fattispecie penale che, oltretutto nello sforzo di precisarla e limitarla, ha dimostrato la sua totale inefficienza. Anzi, ha arrecato danni a molte delle persone alle quali l’abuso d’ufficio è stato contestato e che per la maggior parte, dopo anni di ingiusto calvario, sono state prosciolte. Soprattutto la tecnica legislativa di salvare quell’illecito cercando di limitarne e perimetrarne la rilevanza non ha impedito che continuasse ad essere contestato in un numero di casi eccessivo rispetto all’esiguità di casi in cui poi l’accusa ha trovato conferma, con danni incalcolabili all’economia e al sistema Paese. Inevitabile quindi la sua abrogazione. *Avvocato, Tonucci & Partners Campania. Ogni mese c’è un suicidio in carcere: la messa per chi si è tolto la vita di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 20 luglio 2024 L’iniziativa del Centro pastorale, diretto da don Esposito, insieme ai Garanti per i reclusi. Una messa per i detenuti che si sono suicidati in carcere in Campania. Sarà celebrata oggi alle 18.30 presso il Centro di Pastorale carceraria in via Buonomo 39, alla Sanità, dove si trovano numerosi carcerati in affidamento in regime di pena alternativa. Una scelta significativa, frutto di un percorso intrapreso da don Franco Esposito, direttore del Centro, che presiederà anche la celebrazione durante la quale si pregherà tra gli altri, per Musco Tedorico, 39 anni, che si è tolto la vita a Poggioreale, Andrea Pojoca, 31 anni, suicida a Secondigliano, Luciano Gilardi 24 anni, Andrea Napolitano di 33 e Mohmoud Ghoulam di 38, ma l’elenco è lungo. Ci saranno i parenti, i volontari, gli ospiti della casa di accoglienza, e tutti coloro che vorranno unirsi alla preghiera. Il significato lo spiega don Franco che ieri ha organizzato anche un incontro durante il quale ha indossato, insieme ai due garanti per i detenuti, il regionale Ciambriello e il comunale Palmese, e a padre Alex Zanotelli, una fascia nera al braccio, in segno di lutto. “Di carcere si continua a morire - dice - i suicidi sono la punta di un iceberg perché ci sono anche le morti sospette e l’autolesionismo; il 30% delle persone detenute ha disturbi psichici, un altro 30 è tossicodipendente. Ogni volta che accadono suicidi si va alla ricerca della motivazione: depressione, attacco di panico, paura di affrontare la vita, problemi psichiatrici, ma in realtà il colpevole è sempre il carcere. Bisogna che qualcuno arresti questo carcere perché è socialmente pericoloso”. Al 30 giugno in Campania c’erano 7.518 detenuti di cui 317 donne, 915 stranieri e 173 semiliberi. 94 detenuti hanno un’età compresa fra i 18 e i 20 anni, 308 tra i 21 e i 24, 143 detenuti 70 anni e oltre. L’incremento delle presenze dei giovanissimi è dovuta al decreto Caivano. Sono alcuni dei dati forniti dal garante Ciambriello. In Campania si sono verificati complessivamente 6 suicidi dall’inizio dell’anno, di cui 3 a Poggioreale, 1 a Secondigliano, 1 a Carinola e 1 ad Ariano Irpino. Per fronteggiare la situazione il garante regionale ha chiesto interventi urgenti sia per fronteggiare la calura estiva che per l’annoso problema del sovraffollamento, strettamente legato al tema dei suicidi. Un rimedio potrebbe essere quello di far uscire i 7.000 reclusi in Italia che devono scontare meno di un anno. Sardegna. La presidente di Sdr: “L’Isola non può essere deposito per detenuti problematici” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 luglio 2024 Un allarmante caso di omofobia e violenza si è verificato nella Casa Circondariale di Cagliari- Uta, come riportato da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”. Protagonista dell’episodio un giovane detenuto straniero di 25 anni, identificato come T. P., ergastolano trasferito dalla Sicilia a metà maggio. L’episodio è avvenuto durante un incontro finalizzato a discutere le opportunità offerte dall’istituto per migliorare la sua detenzione. Inizialmente, il colloquio sembrava procedere in modo costruttivo, con T. P. che esprimeva le sue richieste per un lavoro stabile e una cella singola. Tuttavia, la situazione è degenerata rapidamente quando gli sono state presentate alcune clausole comportamentali riguardanti la convivenza con altri detenuti. In preda a un accesso d’ira, T. P. ha rovesciato il tavolo sulla Responsabile dell’Area Educativa e ha inveito contro tutti gli operatori presenti, utilizzando pesanti epiteti omofobi. Ha inoltre distrutto un monitor e si è impossessato di un bastone prima di essere bloccato dagli agenti e trasferito in isolamento. Caligaris sottolinea come questo episodio metta in luce diverse problematiche del sistema carcerario. In primo luogo, questiona la decisione di trasferire in Sardegna un detenuto che aveva già manifestato seri problemi comportamentali in altre strutture. Inoltre, evidenzia il persistente gap culturale all’interno dei circuiti detentivi, specialmente quando mancano adeguati interventi riabilitativi basati sul rispetto della persona. La presidente di Sdr critica aspramente la pratica del Dap di utilizzare gli istituti penitenziari sardi come ‘deposito’ per detenuti problematici, senza fornire il personale e le risorse necessarie per gestirli adeguatamente. Questa situazione è ulteriormente aggravata dal sovraffolla-mento del carcere di Ca-gliari- Uta, che ha supera-to il 119% della sua capacità regolamentare. Caligaris conclude sottolineando come le difficili condizioni attuali - tra cui il caldo intenso, il sovraffollamento e la riduzione delle attività tratta-mentali per l’estate - non facciano che peggiorare la situazione, rendendo la detenzione più difficile per i reclusi e complicando il lavoro degli operatori penitenziari. Salerno. Omicidio in carcere, trentenne ucciso dal compagno di cella di Alessandro Orfei La Nazione, 20 luglio 2024 Viveva nel Perugino con la madre. Sarebbe uscito di galera nel 2026, invece è morto ieri mattina all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno, dov’era stato ricoverato d’urgenza giovedì sera dopo l’aggressione subita nella cella della sezione detenuti comuni, nella quale era rinchiuso per spaccio di sostanze stupefacenti e rapina. La profonda ferita alla gola, inferta con una lametta da barba, non gli ha lasciato scampo. A provocarla il compagno di cella al culmine di una lite, causata da futili motivi. La vittima aveva aveva trent’anni ed era nata in Tunisia, mentre il presunto assassino è un marocchino di 23 anni. L’omicidio è avvenuto in una delle carceri più affollate della Campania, dove a fronte dei 400 posti disponibili ne accoglie, invece, circa 600. Gli agenti della penitenziaria hanno immediatamente trasferito il ferito nel pronto soccorso dove è arrivato già in stato di incoscienza. Ieri mattina, alle 11, la conferma del decesso. Il ventitreenne marocchino accusato ora di avere ucciso il suo compagno di cella claudicante e con problemi di deambulazione è in attesa di giudizio. Secondo il segretario del Spp, Aldo di Giacomo, si tratta del terzo omicidio in carcere da inizio anno: gli altri due i a Napoli-Poggioreale, il 4 gennaio, e a Opera-Milano il 20 aprile. Suicidi e omicidi, sottolinea Di Giacomo, “sono il segno più evidente che lo Stato ha ammainato bandiera bianca: non ci resta che rivolgerci alla Corte Europea dei diritti dell’uomo”. Situazione esplosiva dalla quale, tra l’altro, non sono esenti gli istituti umbri. Carceri dove è in corso lo stato di agitazione degli agenti aderenti al Sappe. Sindacato autonomo che ha recentemente confermato che non parteciperà all’incontro indetto dal nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria. Un modo per evidenziare la contrarietà ad alcune scelte, aveva spiegato il sindacato, fatte a scapito degli istituti umbri, come l’aver posticipato a settembre l’arrivo di nuovo personale, 15 agenti, a fronte delle difficoltà a organizzare turnazioni tanto più in occasione delle ferie estive. Sovraffollamento, sottodotazione del personale di polizia e concentrazione di detenuti psichici sono i punti dolenti su cui i sindacati si battono da tempo. Ivrea. (To). Si suicidò in carcere: otto indagati per omicidio colposo di Andrea Scutellà La Sentinella del Canavese, 20 luglio 2024 Psicologi, psichiatri, funzionari di area pedagogica. Tutti sotto inchiesta per aver sottovalutato il rischio suicidario nonostante le richieste di aiuto. Dalle notazioni: “Piange e dichiara di non stare bene psicologicamente”. Ennesima scossa sulla gestione del carcere di Ivrea, dopo le inchieste per tortura e lesioni, ridimensionate dalla Cassazione. La procura di Ivrea ha notificato nei giorni scorsi l’avviso di chiusura indagini delle indagini per otto indagati che dovranno rispondere di omicidio colposo per la morte di un uomo di 39 anni che si è tolto la vita in carcere, il 26 settembre 2021 a Ivrea, nel penitenziario di corso Vercelli. Il detenuto, Alexandro Vito Riccio, nove mesi prima di suicidarsi, il 20 gennaio, aveva ucciso la moglie e il figlio di 5 anni, a Carmagnola. Stavolta a finire sotto la lente della pm Valentina Bossi, è il lato medico-psichiatrico-pedagogico e gestionale del carcere. Secondo la magistrata eporediese gli indagati, in sostanza, avrebbero sottovalutato i campanelli d’allarme che hanno portato al suicidio di Riccio. L’uomo aveva già tentato di uccidersi subito dopo il duplice omicidio, prima di essere arrestato, bevendo della candeggina e lanciandosi dal secondo piano. Dopo l’arresto, Riccio venne prima portato nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino e poi in quello eporediese, dove aveva chiesto una visita psichiatrica, viste le sue condizioni. Secondo la procura il 39enne, nonostante il tentato suicidio, non sarebbe stato sorvegliato adeguatamente. Avrebbero quindi ignorato gli allarmi, al punto che la scheda del rischio suicidio del detenuto venne modificata e il livello declassato da alto a medio. Per i primi due mesi, inoltre, non fu visto da alcuno psicologo, secondo quanto accertato dai magistrati eporediesi. Il primo colloquio venne fissato il 14 giugno, nonostante fosse a Ivrea dal 19 aprile. Nella cartella clinica, il 29 aprile, si scrive che l’uomo viene accompagnato in infermeria “per umore deflesso. Piange”. Il 13 maggio, di nuovo, la psicologa scrive che il “detenuto dichiara di non stare bene psicologicamente, pensa alla sua vita di prima” e ancora “si sente perseguitato”. E ancora, nonostante la richiesta gli viene negata una visita psichiatrica. Dunque dopo le varie annotazioni, scrive la pm Bossi nella chiusura indagini, che non viene presa alcuna contromisura, né tantomeno quelle previste contro il rischio di suicidio in carcere. L’uomo in sostanza sarebbe stato abbandonato e avrebbe vissuto sei mesi di gravi sofferenze. Riccio si tolse la vita il 26 settembre 2021 usando i pantaloni della tuta per impiccarsi nel bagno della cella. Firenze: A Sollicciano “Condizioni severamente critiche, ma nessuno risolve i problemi” di David Allegranti La Nazione, 20 luglio 2024 Il Tribunale di sorveglianza accoglie i reclami dei detenuti mettendo nero su bianco la situazione. La denuncia della Camera penale: “Non tutti i magistrati sono uguali”. E non si fermano i nuovi ingressi. Un’ordinanza dopo l’altra, un detenuto alla volta. Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze sembra aver deciso di risolvere da solo gli atavici problemi sovrastrutturali di Sollicciano. Senza aspettare l’intervento della politica. La dottoressa Susanna Raimondo, magistrata dell’ufficio di sorveglianza presieduto dal dottor Marcello Bortolato, ha accolto il reclamo di un altro detenuto. Il secondo in pochi giorni. Anche in questa ordinanza Raimondo scrive nero su bianco che “le condizioni del carcere di Sollicciano possono considerarsi severamente critiche”. Da diversi punti di vista. Dalla presenza di muffa ai topi, alle cimici. L’8 luglio 2024, pochi giorni fa, la direzione della U.F.C. Igiene Pubblica ha visitato l’infermeria del Reparto Giudiziario su sollecitazione del medico del presidio interno dell’istituto, che aveva comunicato “un importante aumento di segnalazioni di morsicature da cimici nei letti da parte della popolazione detenuta”. Quanto alle penetrazioni d’acqua, la Direzione dell’istituto, nella relazione richiesta dall’ufficio di sorveglianza, “ha fatto pervenire una relazione dell’Ufficio Tecnico dell’istituto che conferma la presenza di infiltrazioni passanti dalla facciata obliqua o dalle coperture, le cui giunzioni sono in precario stato di tenuta”. Il funzionario dell’Ufficio Tecnico “rileva che tali problematiche necessitano di interventi di manutenzione straordinaria di risanamento e isolamento in facciata, gestiti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma e che avevano avuto anche una progettazione esecutiva e un primo avvio. I lavori si sono fermati nel febbraio 2023”. Anche per questo detenuto, come nell’altro caso raccontato da QN pochi giorni fa, “a causa delle condizioni degradanti dell’istituto, è gravemente compromesso il diritto alla salute ed il diritto ad una detenzione rispettosa del senso di umanità e della propria dignità”. E anche per questo detenuto vengono dati 60 giorni di tempo all’amministrazione penitenziaria per provvedere all’immediata ripresa degli interventi già programmati e alla adeguata disinfestazione di tutti i locali dell’istituto. In caso contrario, il ristretto - e qui sta il punto - sarà trasferito non in un’altra cella o in un’altra sezione, ma in un altro istituto “ove siano garantite le minime condizioni di vivibilità” che a Sollicciano mancano. Tuttavia “chi continua a non sembrare considerare ‘severamente critiche’ le condizioni di Sollicciano”, dice il professor Emilio Santoro de L’Altro Diritto, è “l’amministrazione penitenziaria, che a fronte di una magistratura di sorveglianza che ordina di trasferire i detenuti in altro carcere se in due mesi Sollicciano non viene risanato, continua a inserire nel carcere fiorentino non solo i nuovi arrestati, ma addirittura continua a trasferire a Sollicciano detenuti da altre carceri, in totale spregio del suo dovere di garantire condizioni di detenzione dignitose”. C’è più di un problema, insomma. Uno riguarda l’amministrazione penitenziaria, l’altro riguarda il fatto che non tutti i magistrati sono uguali, come osserva la Camera Penale di Firenze: “Firenze ha avuto la fortuna di poter apprezzare per lunghissimo tempo il lavoro, le opere e la lungimiranza del dottor Alessandro Margara al quale da oltre un anno è titolata l’aula del Palazzo di Giustizia dove si svolgono le udienze del Tribunale e dell’Ufficio di Sorveglianza”. Purtroppo, “dobbiamo constatare che questo ricordo viene, talvolta, dimenticato dall’opera di chi, probabilmente, non riesce a trarre lumi dai predecessori. Il 3 luglio 2024 infatti il dottor Caretto, magistrato di sorveglianza” ha risposto alle richieste di un detenuto “sostenendo che ‘la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere’. Se non avessimo letto tutto ciò in un provvedimento firmato da un magistrato di sorveglianza avremmo pensato che si fosse trattato del solito refrain di qualche sostenitore del ‘buttiamo via le chiavi’”, dice ancora la Camera Penale di Firenze. “Lo stesso magistrato non è nuovo all’uso di tali toni. Per il dottor Caretto infatti un detenuto rom, in quanto tale, potrebbe di nuovo commettere condotte di reato senza rendersi pienamente conto della gravità. Sempre lo stesso magistrato anni addietro aveva ritenuto non compatibile con l’opera di rieducazione un tentativo di impiccagione del detenuto”. C’è magistrato e magistrato, insomma. Firenze. Suicida a Sollicciano, l’ispezione: “Né cimici né topi nella sua cella” di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 20 luglio 2024 I controlli (14 giorni dopo) disposti dal pm. Ora nel resto del carcere. Nessuna cimice, nessun topo. E nemmeno una blatta. Nella cella 18 del carcere di Sollicciano, dove Fedi Ben Sassi scontava la pena e si è tolto la vita il 4 luglio, non vi è traccia di parassiti e di roditori. È quanto emerge da un sopralluogo eseguito, su incarico della Procura fiorentina, il 18 luglio dalla Synema sas, la ditta a cui il ministero della giustizia ha affidato in appalto la disinfestazione e la derattizzazione della casa circondariale di Firenze. L’accertamento è stato disposto dalla pm Ornella Galeotti nell’ambito dell’inchiesta aperta per il suicidio del giovane di 20 anni che si è impiccato annodando le lenzuola. Ma è solo il primo passo: adesso saranno ispezionate anche le celle delle altre sezioni. Il ragazzo, nel febbraio scorso, aveva protestato per le condizioni di vita degradanti nella struttura e, assistito dal professore Emilio Santoro del Centro di documentazione Altro Diritto, aveva presentato un reclamo al Tribunale di Sorveglianza per chiedere il “ripristino delle condizioni di salubrità in cella, in cucina e nei bagni”. Aveva seguito l’esempio di altri detenuti che invece erano riusciti ad ottenere uno sconto di pena. Fedi, in cinque pagine aveva raccontato la sua vita nella cella della sezione 2 Giudiziaria, aveva denunciato la presenza di ratti nella sezione e nella cella: dopo aver catturato in una bottiglia un esemplare lo aveva mostrato agli agenti e al personale medico nel novembre 2023. Aveva lamentato di essere stato morso anche dalle cimici, si legge nel reclamo, annidate nei materassi, nei tessuti, nelle crepe delle pareti. E quell’attacco, gli aveva provocato lesioni, gonfiore e prurito. Nei giorni scorsi, la Procura ha disposto l’accertamento per verificare in quali condizioni vivesse Fedi. Dopo la morte del ragazzo e la protesta che ne è seguita, la cella è rimasta chiusa, fino al 18, proprio perché prima gli investigatori della polizia scientifica e poi i tecnici della Synema potessero svolgere indagini e ispezioni. E se le indagini e l’autopsia hanno confermato che Fedi si è tolto la vita e non ha subito alcun tipo di violenza fisica da parte di terzi, per capire cosa ha scatenato il gesto, è stato necessario controllare anche il luogo dove ha vissuto gli ultimi tempi. Due giorni fa, sono entrati in azione i tecnici della ditta di disinfestazione. Per un’ora, hanno analizzato centimetro per centimetro quella stanzetta. Sul pavimento, sui balconi e sulla mobilia della cucina ancora prodotti alimentari e suppellettili distrutte. Gli specialisti hanno controllato il telaio dei letti, la mobilia, i due materassi e il cuscino, anche spruzzando un “insetticida stanante” ma non hanno trovato cimici vive. Hanno passato al vaglio anche le pareti, comprese le crepe, le scaglie di tinta sovrapposte e lo spazio sotto i poster: è stata rilevata la presenza di escrementi vecchi, ma non recenti. E anche qui, nessun parassita vivo. Non è stata rilevata la presenza di topi e scarafaggi. I tecnici hanno trovato moscini delle fognature e della frutta. Nelle prossime settimane, i controlli scatteranno per le altre celle. Ieri sera intanto, proprio sotto il carcere, in centinaia hanno partecipato al presidio organizzato da Sinistra Progetto Comune in solidarietà ai detenuti. Palermo. Sciopero della fame in carcere, il Garante dei detenuti: “All’Ucciardone forte degrado” sicilianews.it, 20 luglio 2024 Molti dei reclusi con i quali il Garante ha colloquiato “manifestavano particolari disagi mentali, che in alcuni casi apparivano particolarmente gravi”. Il Garante regionale per i detenuti, Santi Consolo ha effettuato una visita all’Ucciardone di Palermo dopo lo sciopero della fame di quattro reclusi nella nona sezione dell’istituto, dove si trovano coloro che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare e destinatari di provvedimenti disciplinari. Lungo il percorso per giungere alla nona sezione, spiega l’ufficio del Garante, “si percepiva cattivo odore, in corrispondenza delle aree limitrofe alle cucine, determinato dall’evidente stato di degrado del sistema di scarico della struttura, che provocava il riversamento di parte dei liquami reflui al livello del piano di calpestio delle aree circostanti la cucina”. Giunto all’interno della nona sezione, il Garante ha constatato la protesta in atto, con urla e toni accesi. Nel corso della visita, un detenuto ha accusato un malore ed è stato soccorso e trasportato su un’autoambulanza. In quasi tutte le stanze per il pernottamento, sono allocati due detenuti con due brande a castello, ma tutte le stanze appaiono di superficie inferiore ai 9 mq. Gli ambienti “sono fatiscenti e i bagni privi di docce”. Molti dei reclusi con i quali il Garante ha colloquiato “manifestavano particolari disagi mentali, che in alcuni casi apparivano particolarmente gravi”. Le principali richieste dei detenuti erano relative alla cessazione del regime di sorveglianza speciale nel quale si trovavano e al trasferimento in un istituto più vicino al proprio nucleo familiare (molti provenivano dalla provincia di Catania). Rispetto ai quattro detenuti che avevano intrapreso lo sciopero della fame, uno in particolare lo aveva sospeso, ma ha riferito che lo avrebbe ripreso a breve se non avesse avuto notizia dell’esito dell’istanza dell’affidamento in prova al servizio sociale già decisa, a suo dire, il 2 luglio. Ha riferito anche che in precedenza aveva beneficiato di liberazione anticipata e che, se gli fossero stati concessi gli ulteriori due semestri, il suo fine pena sarebbe maturato nel mese di ottobre: “Tale detenuto merita particolare attenzione proprio per l’insistito proposito di voler fare qualche gesto grave e inconsulto”, sottolinea il Garante. Di “particolare gravità” anche la condizione di un detenuto straniero che si era cucito le labbra con dei pezzi di fil di ferro e aveva intrapreso lo sciopero della fame e della sete. Un quinto detenuto ha riferito poi che avendo intrapreso lo sciopero della fame, lo avrebbe continuato fino a quando non sarebbe stato ritrasferito alla settima sezione. Lamentele sono state raccolte per la mancanza di distribuzione di prodotti igienici, la chiusura dei blindi a sera, che impediva il ricambio d’aria nelle notti afose, l’impossibilità per alcuni di acquistare ventilatori stante l’assoluta mancanza di disponibilità economiche, nonché la riduzione delle ore d’aria, che dovrebbero essere complessivamente 4 nell’arco della giornata, ma che, per carenze di organico del personale di polizia, si riducono con ritardi nel trasferimento ai passeggi e anticipazioni nei rientri. Il Garante ha poi chiesto di visitare la terza sezione che si sviluppa in tre piani per complessive 36 stanze circa. La sezione era vuota, ma presentava stanze di superficie superiore ai 9 mq, con contiguo bagno più ampio e dotato di doccia. Chiesti chiarimenti, si è appreso che sarebbero in corso piccoli lavori di adeguamento, quali il cablaggio e la videosorveglianza, da realizzare tramite ditta esterna e con l’utilizzo di manodopera detenuti. Infine, si è appreso anche che in molte aree destinate ai passeggi “non sono state apportate modifiche a bassissimo costo, che sarebbero di grande sollievo per i detenuti durante la calura estiva”. Varese. Il lavoro oltre il carcere: firmato il protocollo d’intesa ilbustese.it, 20 luglio 2024 Il fine del protocollo è quello di creare le migliori condizioni affinché siano trasmesse le competenze e le professionalità necessarie per garantire continuità lavorativa nel momento del ritorno in libertà, restituendo dignità e desiderio di rimettere in gioco la propria vita personale Il lavoro oltre il carcere: firmato il protocollo d’intesa per promuovere il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute ed in esecuzione penale esterna. Ieri, 19 luglio, presso la sala consiliare della Provincia di Varese, è stato siglato, tra Prefettura, Enti, Uffici, Associazioni e Organizzazioni Sindacali, il Protocollo d’intesa per promuovere il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute ed in esecuzione penale esterna. La firma del protocollo è frutto del lavoro conseguente alle iniziative illustrate in occasione del Convegno tenutosi a Varese il 29 maggio 2023, dal titolo “Carcere e lavoro: Diritto, Rieducazione, Opportunità”, tematiche riproposte nella successiva tavola rotonda tenutasi a Ispra il 22 marzo 2024. Durante le iniziative era emersa la necessità di predisporre un protocollo d’intesa volto a promuovere e sostenere la realizzazione di una rete sul territorio, necessaria ad elaborare progetti concreti orientati a favorire l’inserimento socio-lavorativo delle persone detenute, ex detenute ed in esecuzione penale esterna, anche tramite la promozione di percorsi formativi e opportunità di lavoro in diversi settori. Il fine del protocollo sottoscritto è quello di creare le migliori condizioni affinché siano trasmesse alle persone detenute, ex detenute e in esecuzione penale esterna, le competenze e le professionalità necessarie per garantire continuità lavorativa nel momento del ritorno in libertà, restituendo loro dignità e desiderio di rimettere in gioco la propria vita personale attraverso le opportunità offerte dal mondo imprenditoriale, il quale, grazie alla legge 22 giugno 2000, n. 193, “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”, cosiddetta “legge Smuraglia”, può fruire delle seguenti agevolazioni : riduzione del 95% delle aliquote previste per l’assicurazione previdenziale e assistenziale e di un beneficio fiscale attualmente fino a 520 euro e/o di 300 euro al mese come credito d’imposta per ogni persona detenuta o in regime di semilibertà. Il protocollo mira quindi a incentivare la dimensione lavorativa sia come alternativa concreta alla pena, a partire dalla fase della detenzione, sia come elemento di rieducazione, e fino alla fase post-detentiva, al fine di escludere il ricorso al crimine quale unico mezzo di sussistenza, attraverso la realizzazione di percorsi che favoriscano l’effettivo reinserimento socio-lavorativo al termine della pena. I beneficiari sono individuati tra detenuti e soggetti in esecuzione penale esterna a cui la normativa vigente consente di esercitare un’attività lavorativa. Le situazioni personali sono vagliate dalle figure professionali preposte, con riferimento alle potenzialità, alle caratteristiche e alle competenze che meglio si adattano agli interventi per l’inserimento socio-lavorativo previsti dall’accordo in argomento, anche garantendo pari opportunità tra uomini e donne. Ciascun firmatario si è assunto, attraverso il protocollo, compiti specifici, integrando quelli degli altri attori coinvolti. In generale le parti si sono impegnate a collaborare in varie iniziative e a sperimentare nuove azioni congiunte, nell’ambito delle proprie prerogative. “Il protocollo promosso dal Prefetto di Varese Pasquariello e siglato stamani sull’inserimento socio lavorativo di richiedenti e titolari di protezione internazionale rappresenta un impegno necessario della rete socio sanitaria territoriale in particolare per il rilascio delle tessere sanitarie - ha sottolineato Salvatore Gioia, direttore generale di ATS Insubria, tra gli Enti firmatari dell’accordo - Salute, lavoro e sicurezza sono pilastri per lo sviluppo della società: continueremo a lavorare con la rete e gli stakeholder per garantire i diritti dei cittadini più fragili”. Milano. Le amarene più famose d’Italia, da “Carosello” a San Vittore di Ilaria Dioguardi vita.it, 20 luglio 2024 Al via corsi di gelateria all’Icam di Milano con il progetto nazionale “Si sostiene in carcere” per il reinserimento di detenute. Promosso da Soroptimist International d’Italia, gode del sostegno di Fabbri 1905, marchio popolare, i cui famosi spot spopolavano negli anni 70. Dopo il capoluogo lombardo e Genova, prossime tappe della formazione saranno le sezioni femminili delle carceri di Vigevano, Bollate, Mantova e Bologna E partito dall’Icam, casa di reclusione a custodia attenuata di San Vittore, il progetto nazionale “Si sostiene in carcere” di Soroptimist International d’Italia, che vede rinnovata la partnership con Fabbri 1905 per il reinserimento in società di detenute attraverso corsi professionali di gelateria artigianale. Per Fabbri 1905 rappresenta un nuovo tassello dell’impegno a favore delle pari opportunità e dell’imprenditorialità femminile. La seconda tappa del percorso formativo ha avuto luogo nella casa circondariale Pontedecimo di Genova, le prossime tappe saranno in programma nelle sezioni femminili delle carceri di Vigevano, Milano Bollate, Mantova e Bologna. Immaginare e costruire una possibilità di futuro dopo il carcere grazie al gelato. È il sogno offerto alle detenute di sei istituti penitenziari italiani grazie al progetto nazionale “Si sostiene in carcere”, nato nel 2017 con l’obiettivo di favorire il reinserimento nella società attraverso l’acquisizione di competenze concretamente spendibili sul mercato del lavoro, come quelle in gelateria, particolarmente apprezzate non solo per le potenzialità occupazionali, ma anche per l’utilizzo del gelato all’interno dei menù quotidiani degli istituti detentivi. Chi impara un mestiere ha molte più chance di farcela una volta uscito dal carcere: secondo un recente rapporto curato dal Cnel, solo il 2% dei detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale torna a commettere reati, contro una media che sfiora il 70%. Nel caso delle donne, il lavoro rappresenta un’ulteriore arma di “libertà”, di emancipazione da condizioni di marginalità che spesso rappresentano una gabbia anche fuori dal carcere. La prima tappa del percorso di formazione professionale in gelateria artigianale, tenuto da Rosa Pinasco, titolare di una gelateria di Genova e da otto anni “ambassador” Fabbri 1905 e formatrice della scuola professionale internazionale Fabbri Masterclass, è partita lo scorso giugno da Milano, all’Icam - casa di reclusione a custodia attenuata di San Vittore. Qui vivono detenute madri con i loro bambini (fino ai sei anni). Hanno partecipato al corso cinque giovani mamme, tutte straniere, che durante le tre giornate di formazione hanno appreso i fondamenti teorici e pratici del mestiere, con dimostrazioni one-to-one per realizzare un gelato: dalle preparazioni delle basi bianche, basi frutta, vaniglia, variegato, nocciola, sorbetti, fino alla presentazione e porzionatura dei gelati con coni e coppette. Al termine del percorso le partecipanti hanno ricevuto un attestato Fabbri Master Class, spendibile nel settore della ristorazione e della gelateria, sempre aperto a nuove assunzioni anche stagionali. Scoprirsi capaci di realizzare qualcosa di concreto “Si tratta di un’esperienza molto forte, che lascia il segno”, ha detto l’insegnante Rosa Pinasco. “All’inizio le ragazze sono partite in maniera piuttosto scettica, poi tutto è cambiato perché hanno capito che qualcuno stava investendo su di loro e si sono scoperte capaci di realizzare qualcosa di concreto. Un’allieva, in particolare, mi ha colpito: è partita apparentemente disinteressata, poi man a mano che le lezioni progredivano si è mostrata sempre più coinvolta. Alla fine del corso aveva imparato a memoria le ricette di 12 gusti, ma soprattutto era in grado di fare le proporzioni a mente meglio di me. Ha scoperto di avere un talento e questo ha cambiato radicalmente il suo modo di vedere le cose”. Il sogno: vendere il gelato fuori dal carcere - L’impegno in gelateria non si esaurisce con il corso. Grazie alla macchina professionale donata dai due Club Soroptimist di Milano, le detenute prepareranno d’ora in avanti il gelato per i loro bambini, donando loro un momento di felicità e spensieratezza. Ma il sogno è un altro. “Il nostro desiderio”, ha spiegato Paola Pizzaferri, referente Soroptimist e coordinatrice del progetto nazionale, “sarebbe quello di vendere il gelato fuori dal carcere a tutti i milanesi, sfruttando la posizione centrale dell’Icam e realizzando un piccolo punto vendita aperto al pubblico. Ci lavoreremo nei prossimi mesi. Il progetto ha, infatti, il suo punto di forza nel protocollo istituzionale sottoscritto con il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero Giustizia, Dap, che ha come fine ultimo quello di offrire un percorso di empowerment, di crescita e di auto sufficienza alle donne ristrette, che solo nel lavoro e nell’autonomia economica possono trovare una libertà di scelta, una volta uscite dal carcere”. Sei appuntamenti fino a novembre - Il tour per formare nuove professioniste della gelateria prosegue. La seconda tappa si è svolta dal 15 luglio, presso la casa circondariale Pontedecimo di Genova. Sarà poi la volta, dal 22 luglio, della casa di reclusione di Vigevano. A seguire, due gli appuntamenti di ottobre: dal 7 alla casa di reclusione di Milano Bollate e, dal 28, alla casa circondariale di Mantova. Si chiuderà, infine, l’anno scolastico dall’11 novembre alla casa circondariale di Bologna. Azienda a forte trazione femminile - La parità di genere è da sempre una cifra distintiva di Fabbri 1905, un’azienda a forte trazione femminile, dove il numero di impiegate e impiegati è oggi quasi sovrapponibile. Un’attenzione che, negli anni, si è concretizzata anche attraverso progetti creativi e spesso fuori dal coro di sostegno all’imprenditorialità? e all’occupazione. Come Lady Amarena, dal 2015 l’unico concorso internazionale riservato alle barlady da ogni angolo del pianeta, che negli anni ha visto la partecipazione di professioniste della mixology da tutto il mondo. È uno degli aspetti che emerge nel nuovo Bilancio di sostenibilità di Fabbri 1905, il secondo per l’azienda bolognese, che anticipa così di due anni l’obbligatorietà di legge. “Il protagonismo della Consulta è frutto di una crisi generale del sistema” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 luglio 2024 Fine vita, intervista a Gaetano Azzariti. Per il costituzionalista “il protagonismo della Corte Costituzionale è frutto di una crisi generale del sistema. La decisione su come regolare il fine vita spetta al Parlamento entro i parametri posti dalla Consulta, ma questo non decide nulla”. La nuova sentenza della Consulta che conferma e spiega le regole di accesso al suicidio assistito si presta al dibattito: siamo di fronte a una svolta o a una posizione “conservativa”? Per Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto Costituzionale alla Sapienza di Roma, il punto è un altro: per la terza volta in sei anni la Corte richiama il legislatore alla responsabilità, garantendo per quanto possibile la facoltà del singolo di decidere della propria vita. “Il protagonismo della Corte Costituzionale è frutto di una crisi generale del sistema - dice al Dubbio -. La decisione su come regolare il fine vita spetta al Parlamento entro i parametri posti dalla Consulta, ma questo non decide nulla”. Dunque, professore, lei come legge la nuova pronuncia della Consulta? A me sembra che ci sia un forte richiamo all’effettività della tutela e alla esigibilità di un diritto che la Corte Costituzionale, già da tempo, nel 2019, aveva stabilito. È, ahimè, una reazione necessaria a una situazione di perdurante paralisi. Lo dice la stessa Corte nella parte finale: la paralisi è dovuta essenzialmente a due fattori, l’inerzia del legislatore e i troppi ostacoli o silenzi che si sono frapposti da parte del servizio sanitario nazionale. Ma potrei aggiungere un ulteriore fattore. Quale? Siamo di fronte alla terza sentenza che si pone in assoluta continuità con le precedenti. La prima, l’ordinanza del 2018, con la quale la Corte ha dato un anno al Parlamento per legiferare. Poi c’è la sentenza obbligata del 2019, la 242 (sul caso Cappato/ Dj Fabo, ndr). E infine quest’ultima, con la quale la Consulta è trascinata, dall’inerzia del legislatore, su un terreno che non le dovrebbe competere, quello della definizione dei casi concreti. Come nelle due precedenti decisioni, c’è un forte responsabilità del legislatore silente. Questa sentenza è definita tecnicamente una “interpretativa di rigetto”. Cosa vuol dire? In realtà è una “interpretativa di rigetto anomala”, di cui bisogna enfatizzare proprio l’anomalia. Perché le sentenze interpretative, sia quelle di rigetto e ancor più quelle di accoglimento, interpretano una norma che risulta oscura. Qui la Corte è costretta a interpretare se stessa, e cioè una sua precedente sentenza, confermando i quattro requisiti stabiliti con la 242 del 2019. Li ribadisce, e non ne aggiunge di ulteriori. Ma ne specifica uno, quello legato ai trattamenti di sostegno vitale, attraverso una interpretazione estensiva, che però non si pone come un nuovo criterio. Un requisito che la Corte decide di non superare, ma di “allargare”... La Corte è chiamata a operare un bilanciamento necessario tra il diritto alla scelta autonoma sul proprio corpo e il dovere di tutelare la vita. Che, in fondo, è lo stesso tema sollevato quando ha stabilito l’inammissibilità dei referendum sul suicidio assistito. Bisogna evitare, argomenta la Consulta, il rischio di una “pressione sociale indiretta” che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi”. E dunque prevale il diritto all’autodeterminazione, alla luce del giudicato costituzionale? A me sembra che, con tutte le cautele del caso, la Corte riaffermi per la terza volta il diritto di scelta sul proprio fine vita, che è il principio fondamentale. Quello che lega tutto, è la Corte a dirlo, è il rispetto della dignità della persona, che però deve essere di volta in volta rapportato alla situazione della persona in concreto. Voglio dire che la dignità della persona deve portare al rispetto della scelta, formata autonomamente, di porre fine alla propria vita, ma anche del dovere di tutelare la vita delle persone più deboli e vulnerabili. È questo il principio che dovrebbe indirizzare il legislatore a regolare simili situazioni. Un principio costituzionale “laico”. Che prevale su quelli che inducono a tutelare la vita “a prescindere”, qualunque sia la condizione data. In caso il limite è data dal fatto che la Corte, che è un giudice, non può sostituirsi al legislatore, e deve allora assumere le proprie decisioni in base ai singoli casi e non in via generale e astratta. Questo, forse, è il vero problema. E ciò vale soprattutto per quanto riguarda il requisito del sostegno vitale. Che per la Corte non va inteso esclusivamente come macchinario. Ma anche come procedure quali “l’evacuazione manuale” o “l’inserimento di cateteri” da parte di familiari e caregivers... È interessante la ricostruzione che la Corte fa di questa categoria, ma ancora una volta non mi stupirei se domani intervenisse un’ulteriore condizione imprevista, perché la casistica è infinita. Lo sforzo della Corte, ripeto, è di dare effettività a un diritto di fronte all’inerzia degli altri soggetti: il legislatore e il servizio sanitario nazionale. La cui indecisione è intollerabile in condizioni drammatiche e complesse. Poi c’è un terzo soggetto: il giudice, al quale spetta la decisione caso per caso. Con il rischio di creare disparità sul territorio nazionale? Come accade anche per il riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali... Lo ripeto ancora: occorre una legge, nel rispetto della sentenza della Corte. La quale scandisce ancora con forza l’auspicio che il legislatore e il servizio sanitario intervengano prontamente per assicurare la concreta attuazione dei principi fissati. Ferma restando, dice la Consulta, la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina. Ogni nuova proposta di legge, dunque, dovrà partire da questi assunti della Corte... Non c’è dubbio. C’è chi sostiene che la Corte abbia “invaso” il campo della politica, mostrando eccessivo protagonismo nella sfera “sociale”. Cosa ne pensa? Il protagonismo evidente della Corte Costituzionale è frutto di una crisi generale del sistema costituzionale. Un atteggiamento che risale nel tempo e di cui la stessa Corte Costituzionale si lamenta. Proprio perché un giudice costituzionale, essa ha l’ultima parola e non può sottrarsi al giudizio. Da sempre, in alcuni casi con sentenze storiche assai importanti, ha dovuto sistemare quel che il legislatore aveva mal scritto, non scritto o scritto contro la Costituzione. È successo persino quando l’irrazionalità ha riguardato norme di rango costituzionale: la riforma del Titolo Vi è il caso più noto. Da ultimo tramite una tipologia di sentenze che non avevamo mai avuto prima, quelle di rinvio della decisione a una data certa. Come quella sul fine vita, ma anche in materia di ergastolo ostativo, sul quale alla fine non è intervenuto il Parlamento, bensì il governo. Sintomo di una vera e propria patologia, di fronte alla quale dovremmo chiederci se non sia il caso di rafforzare la capacità di far leggi del Parlamento. Ne va della salvaguardia della nostra democrazia. Migranti. Maysoon e gli altri, chiusi in prigione senza un perché di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi Il Manifesto, 20 luglio 2024 La lettera. Dopo la lettera inviata da Maysoon Majidi, detenuta nel carcere di Reggio Calabria, al Capo dello Stato Sergio Mattarella. A leggere la lettera inviata da Maysoon Majidi, detenuta nel carcere di Reggio Calabria, al Capo dello Stato viene in mente una parola: catastrofe. Così veniva chiamato l’evento che, in un’epoca e in un mondo non definiti, aveva sconvolto l’esistenza di quaranta donne. Rinchiuse in un sotterraneo, guardate a vista da tre guardie, le prigioniere avevano ormai smesso di domandarsi quale fosse la ragione di quella ingiusta detenzione. Poi, a un certo punto, una di loro - soprannominata la piccola - inizia a crescere, ad ascoltare il battito del cuore per scandire il tempo e, infine, a raccontare. Il libro di Jacqueline Harpman, “Io che non ho conosciuto gli uomini” (Blackie Edizioni, 2024) è considerato un romanzo distopico ma suona brutalmente realistico nei mesi in cui Majidi prova a comprendere la ragione della sua reclusione. Lei, come Marjam Jamali, e come centinaia e centinaia di altre persone in Italia, sono oggi accusate di essere trafficanti di esseri umani. La frase ricorrente, ripetuta da Majidi a chi in questi mesi va a trovarla, è una: non capisco perché mi hanno rinchiusa. Che parole si possono usare per spiegare a una ragazza di ventotto anni, scappata dall’Iran perché perseguitata in quanto attivista e appartenente a una minoranza etnico-linguistica, che il paese che ti soccorre è, in realtà, il paese che ti accusa? Che parole si possono usare per spiegarle l’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, che dopo il cosiddetto Decreto Cutro ha assunto contorni ancora più arbitrari? Quali parole per riuscire a spiegarle che i suoi presunti accusatori, due persone migranti che viaggiavano sul suo stesso barcone, sfiniti e terrorizzati dal viaggio, hanno rilasciato dichiarazioni utilizzate strumentalmente contro di lei? Quali parole per riuscire a spiegarle che, nel suo caso, per ottenere gli arresti domiciliari, non è sufficiente l’insussistenza del pericolo di fuga, di manipolazione delle prove e di reiterazione del reato? Che parole si possono usare per spiegarle che la direzione di un carcere le ha rifiutato la visita di una psicologa di fiducia perché aver perso 14 kg in pochi mesi, arrivare a pesarne 38, non riuscire a comunicare agevolmente con nessuno poiché in un paese straniero, sola e senza famiglia, tutto sommato, non l’ha resa in condizioni di assoluta necessità? Sono capitati altri momenti nella storia in cui il carcere ha mostrato tutta la sua crudele inutilità e in questa torrida estate il dolore è talmente esasperato e trasversale che le storie come quelle di Majidi sono risucchiate da altre, in una sorta di spirale dell’orrore di cui non si vede la fine. Eppure, le parole che fuori faticano a essere pronunciate, le scrivono Majidi e Jamali, le scrivono le persone detenute nel carcere di Regina Coeli che raccontano di un uomo di 78 anni recluso con loro che ormai non ha più cognizione di sé e del luogo dove si trova, le scrivono le detenute del carcere di Venezia e i reclusi dell’istituto di Alessandria. “Le rare volte in cui le donne si sono decise a raccontarmi alcuni episodi delle loro vite, evocavano avvenimenti, andate e ritorni, uomini: io invece sono ridotta a chiamare ricordo il sentimento di esistere in uno stesso luogo, con le stesse persone, facendo sempre le stesse cose, ossia mangiare, evacuare, dormire. Per parecchio tempo le giornate si sono svolte in modo simile, poi ho cominciato a pensare e tutto è cambiato. Prima non c’era altro che la ripetizione di gesti sempre uguali e il tempo sembrava immobile, anche se confusamente mi rendevo conto che io crescevo e lui passava. La mia memoria ha inizio con la rabbia”. (J.H.) Gran Bretagna. Liberazione anticipata per ridurre subito il rischio di sovraffollamento domani di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 20 luglio 2024 Il contatore del sovraffollamento carcerario italiano segna numeri che si rincorrono al rialzo, a una velocità sempre maggiore. La situazione è fuori controllo e il timer si surriscalda fino a farne temere l’esplosione. Eppure, a voler fare bene le cose - strada semplice che però inspiegabilmente ci si ostina a non percorrere - bastava ascoltare il Consiglio d’Europa per il quale se il tasso di occupazione carceraria supera il 90% della sua capacità, allora siamo di fronte a un imminente sovraffollamento. Vale a dire in una situazione altamente rischiosa che dovrebbe preoccupare le autorità in modo che prendano misure volte a evitare un ulteriore congestionamento. Nel Regno Unito, che non fa più parte dell’UE ma è Stato parte del Consiglio d’Europa, con una popolazione detenuta che in maggio contava 87.505 detenuti per una capacità di 88.895 posti (cioè un sovraffollamento del 98%), si cercano e si parla da tempo e per tempo di soluzioni. Lo hanno fatto i conservatori avanzando proposte di vario tipo, dalle richieste rivolte alla polizia di fare meno arresti o consentire l’uso delle celle dei commissariati, contemplando anche forme di rilascio anticipato. Non grandi cose, 70 giorni prima del fine pena previsto per certi reati. Sta di fatto che con Rishi Sunak oltre 10.000 detenuti sono stati rilasciati anticipatamente tra ottobre del 2023 e giugno di quest’anno. Poi sono arrivati i laburisti di Keir Starmer che manifestano maggior determinazione. Nella sua prima conferenza stampa da Primo Ministro ha sottolineato come le carceri siano una priorità politica per il suo Governo. Dicendo “abbiamo troppi detenuti, non abbastanza carceri”, ha tracciato la linea politica di come intende intervenire. Ha innanzitutto chiarito di volere un rinnovato impegno per ridurre la recidiva. E ha scelto James Timpson come Ministro delle Prigioni. Parliamo di un imprenditore alla guida di un impero che conta ben 2.100 negozi di calzoleria, duplicazione chiavi, stampa fotografica e tintoria. Fervente credente nel diritto a una seconda possibilità, convinto fautore del reinserimento sociale e attore convinto della riduzione della recidiva, Timpson è stato il primo grande imprenditore ad assumere un numero significativo di ex detenuti. Tra i 5.600 dipendenti del suo gruppo, quasi il 10% viene dal carcere. Ha pubblicamente dichiarato che “solo un terzo dei detenuti dovrebbe davvero stare in carcere”. Magari questo non è esattamente il pensiero anche di Starmer che però vuole subito un intervento per prevenire gli atti di violenza con armi da taglio da parte di ragazzi evitandogli di trascorrere una vita tra le porte girevoli del carcere. James Timpson, questo filantropo che nei suoi negozi offre servizi gratuiti ai clienti in difficoltà, sa di cosa stiamo parlando perché di carcere se ne occupa da tempo. Ha lavorato con i conservatori per riformare il sistema penitenziario ed è stato Presidente del Prison Reform Trust fino alla data della sua designazione a Ministro. Così, mentre l’Associazione dei direttori di carceri, che esiste in Gran Bretagna e rappresenta il 95% della categoria, si mobilita e ribadisce la preoccupazione dell’imminente esaurimento dei posti entro pochi giorni, il nuovo Governo interviene annunciando la liberazione anticipata dei detenuti (fatte salve alcune esclusioni in ragione del reato commesso) che abbiano già scontato il 40% della loro pena, rispetto all’attuale 50%. Nel presentare la misura come intervento emergenziale e non strutturale che dovrebbe da settembre riguardare oltre 5.500 detenuti, la Ministra della Giustizia Shabana Mahmood ha detto di voler far fronte “alla minaccia imminente di un collasso del sistema della giustizia penale e alla preoccupazione per il mantenimento dell’ordine e della legge”. Sì, ha detto proprio così: una misura di liberazione anticipata per mantenere l’ordine e la legge. Nella consapevolezza che le troppe persone detenute e che il tempo troppo lungo della loro detenzione siano l’effetto del diffuso sentimento del punire, James Timpson aveva parlato di una condizione di dipendenza tossica dal condannare, di drogati del punire. Guardando al Regno Unito vediamo allora affacciarsi innanzitutto un’opera di disintossicazione dalla droga del punire, che include l’idea del mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’insegna della prevenzione e non della punizione. È vero che la Ministra della Giustizia non ha preso le distanze dalle idee di costruire nuove carceri ma se la dovrà vedere con il Ministro delle Prigioni che su questo ha idee diametralmente opposte. E questa è la più grande novità. Almeno per me che vivo in un Paese dove il sovraffollamento ha di gran lunga superato la soglia d’allarme del 90%, dove la gente orami muore per pena in carcere mentre la ragionevole e buona proposta di legge per aumentare i giorni di liberazione anticipata di Roberto Giachetti resta l’unica concreta e praticabile proposta istituzionalmente incardinata che attende di essere approvata per mantenere appunto l’ordine e la legge. Medio Oriente. La Corte internazionale di Giustizia dichiara illegali gli insediamenti di Israele di Cristina Martinengo Il Domani, 20 luglio 2024 La Corte Internazionale di Giustizia ha dichiarato con una sentenza che gli insediamenti di Israele in territori palestinesi “violano il diritto internazionale”, per Netanyahu sono “menzogne”. In una nota diffusa dal presidente della Corte internazionale di giustizia, si legge che i territori palestinesi occupati da Israele “violano il diritto internazionale”. Pertanto, la stessa Corte richiede che si ponga fine all’occupazione. La sentenza arriva dopo una richiesta di un parere consultivo, che non è giuridicamente vincolante, ma ha autorità morale e può dare forma al diritto internazionale. La nota arriva per voce del presidente della Corte, il giudice Nawaf Salam, che, come riportato dalla Cnn, ha affermato che la Corte ha osservato che “la confisca su larga scala delle terre e il degrado dell’accesso alle risorse naturali privano la popolazione locale dei suoi mezzi di sussistenza di base, inducendola così ad andarsene”. I territori a cui si fa riferimento nella sentenza sono quelli che si trovano in Cisgiordania e Gerusalemme Est. In merito alla città di Gerusalemme la corte ha rilevato che la decisione di istituire Gerusalemme come capitale di Israele ha contribuito a “rafforzare il controllo di Israele sul territorio palestinese occupato”. Inoltre, la Corte ha affrontato anche la questione dei coloni, definendo il loro atteggiamento come violento. Secondo la Corte l’incapacità di Israele di prevenire e di punire l’uso della forza da parte dei coloni crea un “ambiente coercitivo contro i palestinesi”. Le reazioni - Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha reagito alla sentenza duramente, dicendo che è piena di falsità. Come riportato sul Times of Israel, Netanyahu ha detto: “Il popolo ebraico non è occupante nella propria terra, né nella nostra capitale eterna Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria”. Ha poi aggiunto che “nessuna falsa decisione all’Aja distorcerà questa verità storica, così come non può essere contestata la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria”. Anche il ministro degli Esteri Israel Katz ha condannato il parere consultivo della Corte, dicendo che esso è “fondamentalmente distorto, unilaterale e sbagliato”. Il ministero degli Esteri israeliano ha a sua volta respinto il parere, dicendo che questo “contraddice” il principio secondo cui la pace può essere raggiunta solo attraverso “negoziati diretti”, accusando l’Autorità nazionale palestinese di tentare di indebolire Israele attraverso i tribunali internazionali, secondo quanto riportato da Haaretz. Anche da parte palestinese le reazioni non si sono fatte attendere: il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha accolto con favore la decisione della corte, definendola una “vittoria per la giustizia”. Abbas ha dichiarato: “La presidenza palestinese esorta la comunità internazionale a esigere che Israele, in quanto potenza occupante, ponga fine all’occupazione e si ritiri incondizionatamente”. Stop europeo - Intanto la questione della possibile soluzione della guerra a Gaza è stato oggetto di discussioni anche al Consiglio Affari esteri dell’Unione Europea di oggi. L’Ungheria ha bloccato una dichiarazione dei 27 dopo il voto alla Knesset contro la soluzione a due Stati. Medio Oriente. “Ora azioni politiche serie: la palla passa all’Onu” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 luglio 2024 “È la prima volta che un tribunale internazionale afferma l’illegalità dell’occupazione israeliana in quanto tale con la conseguenza che, per porre fine all’illecito, Israele deve ritirarsi dai territori”. Così la giurista Alessandra Annoni, associata di diritto internazionale all’Università di Ferrara, riassume la storicità di quanto sentito ieri all’Aja. Un parere storico, dunque. Quello del 2004 sul muro di separazione israeliano riguardava una questione puntuale: la legittimità della costruzione del muro in Palestina. La Corte ne aveva affermato l’illegittimità e come conseguenza l’obbligo per Israele di smantellarlo. Non trasse però conseguenze sull’illegittimità dell’occupazione in quanto tale, non era l’oggetto della domanda dell’Assemblea generale. Stavolta, a domanda dell’Assemblea su un oggetto molto più ampio, la Corte ha affrontato in modo coraggioso ogni aspetto, valutando l’occupazione e le politiche israeliane alla luce dell’insieme delle norme di diritto internazionale, concludendo che l’occupazione è illegittima. La Corte ricostruisce l’intera struttura amministrativa, giuridica e militare dell’occupazione, mette insieme i pezzi e parla di annessione di fatto... È molto puntuale e presenta affermazioni per niente scontate, come quella che riguarda l’apartheid. La Corte riconosce la violazione dell’articolo 3 della Convenzione contro la discriminazione razziale che vieta la segregazione razziale. L’annessione di fatto si traduce in automatico in apartheid nel momento in cui priva di diritti una parte della popolazione presente sul territorio? Non necessariamente le due cose sono collegate, si tratta di violazioni distinte. L’annessione di fatto estende l’applicazione della legge israeliana a territori che non sono parte dello Stato di Israele. Non è un’annessione formale come quella che della Russia con il Donbass per capirci. La violazione relativa alla discriminazione nei confronti dei palestinesi e all’instaurazione di un regime di apartheid è distinta: dipende dall’applicazione di misure come le strade separate, il doppio standard legale, il diverso riconoscimento della maggiore età eccetera. Misure che sono pratiche discriminatorie. Esiste un’occupazione legittima per il diritto internazionale, se limitata nel tempo e dettata da particolari urgenze? Il diritto internazionale non definisce nessuna occupazione militare come legittima o illegittima. Il regime di occupazione regola una situazione di fatto nella quale, nel corso di un conflitto armato, una parte occupa il territorio dell’altra. Le norme sull’occupazione si preoccupano di regolare tale situazione, ma non si pronunciano sulla sua legittimità né stabiliscono dei limiti temporali. È vero però che un’occupazione particolarmente prolungata come questa può accompagnarsi all’adozione di misure, prassi e pratiche. Quello che la Corte spiega è che ciò che rende l’occupazione israeliana illegittima sono tutte le altre violazioni: colonie, trasferimento di propria popolazione, discriminazione razziale, confische. Quali obblighi hanno gli Stati terzi? Dalle violazioni derivano una serie di conseguenze non solo per lo Stato che le compie ma anche per gli Stati terzi. Prima di tutto il divieto di riconoscimento, ovvero il divieto di riconoscere come lecita la modifica territoriale o dello status di determinati territori. Spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, ad esempio, comporta un implicito riconoscimento della legittimità del potere israeliano su Gerusalemme est. In secondo luogo il divieto di prestare assistenza, militare, politica o di altra natura, ovvero fornire armi e strumenti che possono essere utilizzati per mantenere l’illegittima occupazione israeliana. Infine, l’obbligo di cooperare per porre fine all’occupazione illegittima, il più difficile da concretizzare. Qui la Corte è molto chiara nel dire che la responsabilità nello stabilire quali siano i modi migliori per arrivare rapidamente alla fine dell’occupazione ricade sull’Assemblea generale delle Nazioni unite. Si tratta però di un parere non vincolante. L’Assemblea generale ha comunque un obbligo a intervenire? È l’Assemblea che ha richiesto questo parere e le valutazioni di diritto che la Corte internazionale di giustizia compie sono vincolanti per gli organi delle Nazioni unite. Se il tuo organo giudiziario ti dice che questo è il diritto, l’Assemblea generale e il Consiglio di Sicurezza ne devono trarre le dovute conseguenze. In sei mesi abbiamo assistito a un nuovo protagonismo del diritto internazionale, prima la sentenza sul genocidio plausibile a Gaza e adesso questo parere sull’occupazione. Avranno effetti concreti? Gli organi di giustizia internazionale stanno facendo la loro parte. La Corte internazionale di giustizia sta analizzando con scrupolo le questioni che le vengono sottoposte. Ma, come ha scritto uno dei giudici in una delle opinioni separate sulla vicenda Sudafrica contro Israele, “court is just a court”, la corte è solo una corte. Alla valutazione giuridica di quello che è il contenuto del diritto internazionale deve seguire un’azione da parte degli Stati che hanno l’obbligo di tradurre queste valutazioni in azioni politiche serie. Russia. Il giornalista Usa Gershkovich dovrà scontare 16 anni di carcere Il Dubbio, 20 luglio 2024 Il Wsj: “Condanna vergognosa”. La condanna del giornalista americano del Wall Street Jourrnal Ewan Gershkovic a 16 anni di prigione per spionaggio, da scontare in una colonia penale di massima sicurezza in Russia, sta indignando il mondo. I pubblici ministeri avevano chiesto una condanna a 18 anni in un caso giudiziario che Washington definisce una farsa. Il processo, che si è svolto al tribunale di Ekaterinburg a porte chiuse, era iniziato il 26 giugno. Gershkovich, 32 anni, è stato arrestato nel marzo 2023 mentre era in viaggio per un reportage nella città di Ekaterinburg, negli Urali, con l’accusa di spionaggio per conto degli gli Stati Uniti e da allora è dietro le sbarre. È stato il primo giornalista statunitense arrestato con l’accusa di spionaggio dopo Nicholas Daniloff nel 1986, all’apice della Guerra Fredda. L’arresto di Gershkovich ha scioccato i giornalisti stranieri in Russia, anche se il Paese ha emanato leggi sempre più repressive sulla libertà di parola dopo l’invio di sue truppe in Ucraina. L’amministratore delegato di Dow Jones ed editore del Wsj, Almar Latour, e la direttrice Emma Tucker, in una nota hanno definito “scandalosa” la condanna che “arriva dopo che Evan ha trascorso 478 giorni in prigione, detenuto ingiustamente, lontano dalla sua famiglia e dai suoi amici, impossibilitato a riferire, tutto per aver fatto il suo lavoro di giornalista”. “Continueremo a fare tutto il possibile per fare pressione per il rilascio di Evan e per sostenere la sua famiglia - prosegue il comunicato - Il giornalismo non è un crimine e non ci fermeremo finché non sarà rilasciato. Tutto questo deve finire ora”. Molto duro anche il commentop del presidente Usa, Joe Biden: “Oggi Evan Gershkovich è stato condannato a 16 anni di reclusione in una prigione russa, pur non avendo commesso alcun reato. Piuttosto, è stato preso di mira dal governo russo perché è un giornalista e un americano. Stiamo spingendo molto per il rilascio di Evan e continueremo a farlo. Come ho detto da tempo e come ha concluso anche l’Onu, non c’è dubbio che la Russia stia detenendo Evan ingiustamente, il giornalismo non è un crimine. Continueremo a difendere con forza la libertà di stampa in Russia e nel mondo e a contrastare tutti coloro che cercano di attaccare la stampa o di colpire i giornalisti”. Biden ha ricordato poi come “fin dal primo giorno della mia amministrazione, non ho avuto altra priorità che quella di chiedere il rilascio e il ritorno in sicurezza di Evan, Paul Whelan e di tutti gli americani ingiustamente detenuti e tenuti in ostaggio all’estero”. Anche Josep Borrell, Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, su X critica la decisione del tribunale russo: “L’Unione europea condanna fermamente la condanna a 16 anni di carcere per Evan Gershkovich. La Russia usa il suo sistema legale politicizzato per punire il giornalismo. L’Ue chiede di liberare Evan e tutti gli altri prigionieri politici”. Secondo alcuni osservatori la conclusione del processo potrebbe spianare la strada per uno scambio di prigionieri fra Mosca e Washington. Mercoledì, infatti, il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, parlando alle Nazioni unite, aveva detto che Mosca e i “servizi speciali” di Washington stavano discutendo di uno scambio che coinvolgeva Gershkovich.