Carceri a rischio, suicidi e armi nelle celle, richiedono un urgente compromesso di Liana Milella La Repubblica, 1 luglio 2024 In aula alla Camera il 17 luglio la “liberazione anticipata”. Possibile un asse che esclude Lega e M5S per farla passare? Potreste anche non crederci. E sbagliereste, perché è la verità. Ossessionato, lui, il suo staff, i suoi sottosegretari, dalle fughe di notizie su decreti o disegni di legge, Nordio ha imposto a chi maneggia le carte di distinguere sempre le copie distribuite ai partner della maggioranza, anche cambiando furbamente solo qualche parola, aggiungendo una virgola o un segno particolare, in modo da riconoscere subito, in un’eventuale anticipazione giornalistica, l’autore della rivelazione. Trucchi da ex pm, evidentemente. Di sicuro una trovata che gli consente di essere il solo a poter rivelare le novità sulle sue, benché rare, mosse. L’ultima riguarda il decreto suicidi. Ignaro com’è dei lavori parlamentari lo annuncia già il 20 giugno, e insiste pure il 23. Ma non se ne fa nulla. In quel momento i suicidi sono 44, nel giro di pochi giorni però diventano 48. Un record. E lui cosa propone per decreto? Di “aumentare il personale penitenziario”, di “costruire nuovi padiglioni”, di “semplificare la procedura della liberazione anticipata”. E aggiunge perfino che toccherà a tre gip anziché uno solo dare il via libera agli arresti grazie al ddl sull’abuso d’ufficio. A suo dire, così il numero dei detenuti “sarà sensibilmente ridotto”. Peccato che, nell’ordine, il personale penitenziario non si aumenta da un giorno all’altro; l’eventuale via libera sulla liberazione anticipata dato dal pm richiederà del tempo; infine i tre gip entreranno in vigore solo tra due anni. Quanto alle cooperative per far scontare fuori dalle prigioni le pene residue brevi siamo ancora alla verifica sul campo su chi scegliere. Peraltro l’affastellamento dei decreti alla Camera prima di Ferragosto rende difficile farne altri. Ma il suo solerte sottosegretario leghista Andrea Ostellari insiste, vanta le telefonate mensili che passerebbero da quattro a sei (sic!) e ipotizza addirittura un decreto “a fine luglio”. Nel frattempo, come documenta il segretario della Uilpa Gennarino De Fazio, nel carcere di Teramo viene trovato un arsenale di armi, coltelli d’ogni tipo, tra cui anche quelli da sub che misurano ben 40 centimetri. A Frosinone, il 27 giugno, in cella si suicida un giovane di 21 anni. Non stava bene. E chi, come Riccardo Arena, autore della trasmissione Radio carcere su Radio radicale, vive di carceri, lo definisce “un caso gravissimo ed emblematico”. Tutto questo per dire che abbiamo sotto gli occhi un’emergenza pesantissima, che non può più essere ignorata. A non farlo è il vice presidente forzista della commissione Giustizia Pietro Pittalis che a Repubblica dice “non possiamo più far finta di nulla e girare la testa dall’altra parte”, e annuncia che il suo partito voterà a favore della “liberazione anticipata speciale” di Roberto Giachetti, deputato di Iv, e Rita Bernardini, la presidente di Nessuno tocchi Caino, due pannelliani da sempre. Una soluzione che porta da 45 a 60 giorni la “liberazione” ogni sei mesi ben scontati. Questo dovrebbe fare, anche per decreto legge, una maggioranza responsabile. Ma la novità politica sta proprio qui. Il 17 luglio, alla Camera, una maggioranza potrebbe esistere se, avvertendo tutti i rischi di una situazione drammatica ed esplosiva, un potenziale agosto segnato dalle rivolte, Fratelli d’Italia fosse disposta a sottoscrivere la proposta della liberazione anticipata, lasciando isolata sia la Lega, sia M5S, che la considerano come un favore alla mafia. Per essere certi che non lo sia - proprio come lo stesso Pittalis propone - basta escludere i reati gravi. Proprio come si è sempre fatto per l’amnistia e per l’indulto. Mai così tanti minori in carcere: l’effetto perverso del decreto Caivano di Alessandra Ziniti La Repubblica, 1 luglio 2024 Con la stretta del provvedimento del governo, il ricorso alla custodia cautelare è aumentato del 60 %. Istituti sovraffollati e giovanissimi detenuti gestiti con dosi massicce di psicofarmaci, come nei Cpr. All’Ipm Ferrante Aporti di Torino dieci ragazzi dormono su brandine da spiaggia, cinque o sei per stanza. I 46 letti sono già tutti pieni. L’istituto è sovraffollato, come tutti gli altri in Italia. Effetto immediato del decreto Caivano che, a sei mesi dalla sua entrata in vigore, è riuscito a far aumentare del 10 per cento i minorenni che, invece di intraprendere percorsi di recupero o essere gestiti con pene alternative, finiscono in un carcere. E in condizioni di detenzione che non fanno che peggiorarne la situazione. Cinquecento quarantasei, tanti al 31 maggio sono gli ospiti delle carceri minorili in Italia. Al 31 dicembre erano 495. Ma i numeri assoluti che sembrano contenuti (a fronte di circa 14.000 ragazzi presi in carico dalla giustizia minorile non devono trarre in inganno. “Perché in Italia - spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio minori dell’associazione Antigone - la misura della reclusione è stata sempre residuale, nell’ordine del 3 %, rispetto al possibile ventaglio di opzioni per prendere in carico i minori accusati di reati, adesso invece le misure cautelari stanno nettamente crescendo”. Il paradosso dei reati attribuiti ai minori che calano - Effetto non dell’aumento dei reati attribuiti ai minori, che anzi sono calati del 4 % tra il 2022 e il 2023, ma dell’aumento delle pene per reati come la detenzione di droga, contestabili già dai 14 anni e che quindi fa più facilmente scattare la carcerazione preventiva per i ragazzi tra i 14 e i 17 anni. Che infatti, in questi primi sei mesi del 2023, sono finiti in carcere in numero ben maggiore rispetto all’aumento complessivo della popolazione degli istituti di pena minorile: il numero degli under 18 entrati negli Ipm infatti è aumentato del 67 %, compensato dal passaggio ai penitenziari per adulti di tanti giovani al compimento dei 18 anni, mentre prima veniva consentito di rimanere con i minori fino al compimento dei 25 anni per completare un percorso di rieducazione che nelle carceri per adulti non esiste. Cambia la tipologia di detenuti: più stranieri e tossicodipendenti - Risultato: la decisione del governo di rispondere con il pugno duro alla criminalità minorile ha portato ad uno stato di emergenza negli istituti di rieducazione, sovraffollati oltremisura e dove cominciano a verificarsi (vedi Beccaria di Milano) episodi di violenza, evasioni, tentativi di suicidio. Anche perché la tipologia dei ragazzini che finiscono reclusi è assai diversa: sempre più stranieri, per i quali non si riesce a trovare sistemazioni alternative, sempre più spesso soggetti con dipendenze da droghe e alcol che - così come avviene nei Cpr - vengono gestiti con dosi massicce di psicofarmaci. Dosi massicce di psicofarmaci e punizioni in cella - “Purtroppo anche la vita dentro gli istituti minorili sta cambiando - dice ancora Susanna Marietti - prima, durante le nostre visite, apprezzavamo comunque una relazione individuale tra i minori e gli educatori, tutti chiamati per nome, le loro storie personali conosciute e seguite. Ora questa relazione non la percepisci più. Vedi minori stranieri soli con vite faticose alle spalle e problemi psicologici che andrebbero gestiti e invece si va avanti con dose massicce di psicofarmaci, punizioni, isolamento e altri carichi penali. I ragazzi entrano magari con un’accusa di furto e si ritrovano con le accuse di rissa se si azzuffano con un compagno, danneggiamento se prendono a calci un armadietto, oltraggio a pubblico ufficiale se insultano un agente. E non escono più”. L’allarme della Garante dell’infanzia e dei procuratori - I numeri raccontano l’evidenza: ad aprile 2024 i detenuti negli istituti minorili hanno toccato la cifra record di 571, mai stati così tanti negli ultimi 25 anni. Dal 2020 al 2022, in Italia si è viaggiato su una media di 320-350 reclusi. Poi l’improvviso balzo in avanti, spinto ancor di più dal decreto Caivano, come non mancano di sottolineare i procuratori per i minori di tutti i distretti italiani. E anche la garante dell’infanzia Carla Garlatti, nella sua relazione al Parlamento, dedica un capitolo al giro di vite impresso dai nuovi provvedimenti legislativi che, ben lontano dall’avere alcun effetto di deterrenza, riesce solo ad interrompere percorsi di recupero e rieducazione. Difficili ma possibili. Baby gang, l’allarme del Viminale: in crescita rapine e violenze sessuali di Alice D’Este Corriere del Veneto, 1 luglio 2024 Non solo la tragedia di Udine: da Treviso a Verona, ecco chi sono i ragazzi padroni delle piazze. Italiani o stranieri di seconda generazione, con un basso grado di scolarizzazione (o con una tendenza all’abbandono scolastico). Quasi sempre maschi tra i 14 e i 24 anni (anche se la presenza delle ragazze è in aumento). Si radunano, di norma, nei fine settimana nelle piazze, nelle stazioni ferroviarie o nei centri commerciali in piccoli gruppi di una decina di persone. E quando lo fanno si “dedicano” a bullismo, risse, percosse e lesioni, atti vandalici e disturbo della quiete pubblica. In alcuni casi arrivano al furto e allo spaccio di sostanze stupefacenti con un incremento importante, proprio nell’ultimo anno, delle attività più “violente”, come la rapina e la violenza sessuale. L’attività di gran lunga predominante rimane tuttavia quella delle vessazioni nei confronti di coetanei che spesso sfocia in risse e pestaggi. Lo studio - La fotografia delle gang giovanili, emerge dal Servizio Analisi Criminale che ha recentemente condotto uno studio finalizzato ad aggiornare la mappatura sistematica della presenza e delle attività delle gang giovanili che si sono rese responsabili di comportamenti devianti e criminali sul territorio italiano utilizzando le informazioni degli uffici territoriali della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri. Nel biennio 2022-2023, 73 province italiane hanno registrato attività violente legate proprio alle gang giovanili. Dallo studio emerge come le stesse siano presenti nella maggior parte delle regioni italiane, con una leggera prevalenza nel Centro Nord rispetto al Sud. C’è tuttavia un dato comune per tutti i giovani coinvolti: la provenienza. Alle spalle di questi ragazzi ci sono situazioni di marginalità o disagio socio-economico mai colmato. “Le minori opportunità, la disoccupazione giovanile e la carenza di modelli positivi potrebbero contribuire alla formazione di tali gruppi che, spesso, catalizzano l’attenzione dei media e delle autorità locali a causa delle loro attività criminali e del loro impatto sulla comunità” si legge nel rapporto. A Nordest - Tra il 2022 e il 2023, le segnalazioni di minori denunciati o arrestati a Nordest e in particolare nella città metropolitana di Venezia hanno subito un decremento significativo (-18,45%). Sono diminuite le segnalazioni per lesioni dolose mentre i reati di minaccia percosse e rissa sono aumentati. Preoccupante anche l’aumento delle segnalazioni per violenza sessuale. Nel 2023 i casi sono stati più del doppio rispetto al 2022. I casi provinciali - Nel rapporto nazionale del Ministero tra i casi limite viene ricordato in particolare l’episodio risalente a luglio 2022, quando a Verona, la Polizia di Stato aveva eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 16 persone di cui 6 giovani maggiorenni e 10 minori per rapina, estorsione, furto, ricettazione, violenza privata e lesioni. Gli indagati appartengono tutti alla nota banda QBR (Quartiere Borgo Roma), nome che deriva dal quartiere dove i giovani erano particolarmente attivi o residenti. Non è l’unico caso. In Veneto nel 2023 sono stati molti gli episodi di questo tipo, a partire da Treviso con un diciottenne accoltellato a Montebelluna in gennaio durante una rissa tra baby gang passando per la rapina a volto coperto in febbraio a Sant’Antonino e per gli incendi nella piazzetta del teatro Giorgio Gaber (lì erano stati identificati cinque ragazzi delle scuole medie). Sono trevigiani anche i tre autori dell’omicidio di Shimpei Tominaga, pestato brutalmente in centro ad Udine sabato scorso. Intanto in Italia a fronte di un aumento delle segnalazioni di minori denunciati o arrestati per rapina pari al 7,69%, si riscontra un decremento dell’11,73% per quelle relative al reato di furto e del 6,11% per quelle relative all’estorsione. Nello stesso periodo anche a livello nazionale è esploso invece il dato relativo alla violenza sessuale. i minori denunciati o arrestati nel 2023 per questa ragione sono aumentati dell’8,25%. La nazionalità - Tra i giovani segnalati alle forze dell’ordine la maggioranza è di cittadinanza italiana. Ad avvicinare i ragazzi alle baby gang è quasi sempre il contesto sociale. “Rapporti problematici con le famiglie o con il sistema scolastico” spiega il rapporto. Ad avere un ruolo rilevante sono anche i social network che vengono quasi sempre utilizzati per filmare le “azioni” (i pestaggi vengono poi diffusi online) creando poi anche un seguito tra i coetanei. Zaia: “Baby gang, abbassare l’età della punibilità. E inasprire le pene” di Andrea Pasqualetto Corriere del Veneto, 1 luglio 2024 Il governatore del Veneto dopo il caso di Shimpei Tominaga: “Ci vuole una legge speciale per fermare la violenza o rischiamo il Bronx. Un 17enne di oggi non è un 17enne di 50 anni fa, va trattato da adulto”. Tra il 2020 e il 2022 i reati commessi da minorenni sono cresciuti del 39%. L’imprenditore giapponese massacrato a Udine da tre ragazzi veneti; la baby gang di quindicenni che a Verona ha messo a segno rapine a mano armata; lo scontro fra bande di trapper padovane e milanesi. Ragazzi che uccidono, rubano, picchiano, spacciano. Presidente Zaia, cosa sta succedendo a Nord Est? “Innanzitutto non ne farei una questione territoriale. Basti pensare al delitto commesso a Pescara da due sedicenni la scorsa settimana. No, i social hanno accorciato le distanze e queste cose succedono dappertutto. Le do due dati: tra il 2010 e il 2022 i reati commessi da minorenni in Italia sono aumentati del 39% e nel 2022 gli arrestati del sono cresciuti del 25% sul 2021”. Le cause? “Alla base ci sono problemi di varia natura: familiari, educativi, di disagio, di rapporti e di rispetto. Premesso che la stragrande maggioranza dei giovani non è criminale ed è una foresta silenziosa che cresce, è intollerabile che la minoranza violenta spaventi i nostri quartieri. Udine è stato qualcosa di atroce. Le chiamano baby gang ma queste sono gang e basta. In genere si tratta di criminali in erba che nel tempo potrebbero diventare sempre più problematici. Insomma, è arrivato il momento di fare qualcosa, anche per tutelare i molti ragazzi che studiano, lavorano e rispettano le leggi”. Cosa farebbe lei? “Dovremmo essere tutti un po’ meno ipocriti e guardare in faccia la realtà. Un 17enne che stupra non può essere punito diversamente da un 18enne. I tempi sono cambiati, il minorenne di 50 anni fa non è il minorenne di oggi. Ha una conoscenza del mondo molto più ampia. E quindi anche la legge va cambiata”. Una legge speciale? “Sì, propongo di abbassare l’età della punibilità. Chi stupra, chi uccide, chi va in giro per le strade a picchiare cittadini inermi dev’essere trattato come un delinquente adulto. E penserei anche a un inasprimento delle pene”. Gli adolescenti come gli adulti? “Non è mancanza di rispetto per i giovani ma non può nemmeno passare l’idea dell’impunità. Interverrei anche sui social, che talvolta disumanizzano e creano fenomeni emulativi”. Le pene ci sono anche per i minorenni “Ma sono poco efficaci, troppe attenuanti”. A quanto porterebbe l’età? “Questo lo devono decidere gli esperti”. È una proposta che va nel senso della repressione. Non è meglio prevenire? “La prevenzione non può mancare, soprattutto per le situazioni di disagio familiare che vanno subito intercettate. Ma non può essere l’unica soluzione e soprattutto le famiglie non possono chiamarsi fuori dalle responsabilità. Non può essere sempre colpa delle istituzioni. C’è una parte di educazione indelegabile. Per non parlare della scuola”. Cioè? “Ci arrivano racconti di insegnanti eroici. Che devono fare i conti con padri capaci dire “tu con mio figlio non alzi la voce”. C’è chi è stato picchiato. Se io prendevo un brutto voto passavo dei brutti momenti a casa ma i miei non si sarebbero mai pensati di incolpare il docente. Questo è diventato invece un Paese nel quale se il figlio viene bocciato scatta il ricorso al Tar”. I trapper, le gang. Come la vede l’ex pr di discoteca? “Ho lavorato per 13 anni di notte nei locali. La devianza c’è sempre stata e devo dire che le teste calde di allora le ho riviste poi arrestate. Ma ora girano le bande e c’è l’ostentazione della violenza. Se non si corre ai ripari finiremo in un grande bronx”. “Corruzione percepita”. Toghe italiane più severe dei colleghi stranieri, ma evitiamo gli harakiri di Errico Novi Il Dubbio, 1 luglio 2024 Dalle “verifiche” di Transparency international sul tasso di corruzione nei singoli Paesi l’Italia è ai vertici (in negativo) tra gli Stati del mondo progredito. Anzi se la batte con il Ruanda. In Italia l’azione penale è obbligatoria. E resterà tale, anche dopo la separazione delle carriere. Se ritengono ve ne sia motivo, i pm hanno sempre il dovere di procedere e di invocare la condanna di un imputato. Di certo gli inquirenti italiani non guardano in faccia a nessuno. Neanche al cosiddetto interesse nazionale. Al punto da avviare un’indagine e sollecitare un rinvio a giudizio anche quando il sospettato è una compagnia “strategica” e le ipotesi d’accusa non sono esattamente di granito, tanto da non reggere alla prova del processo. È andata così con l’Eni: una ricerca ostinata della condanna per i presunti illeciti commessi dai vertici del colosso petrolifero per ottenere una super- commessa in Nigeria. Ricerca tanto ostinata che, secondo quanto ipotizzato nel successivo processo che vede tuttora sotto accusa gli stessi pm milanesi, questi ultimi avrebbero deliberatamente occultato prove a favore della difesa. Ciò che conta, certo, è l’inflessibilità della magistratura italiana nel perseguire i reati, per carità. In Francia o in altri Paesi - e non solo lì dove la magistratura requirente è assoggettata all’Esecutivo - col cavolo che un pubblico ministero si mette sulle tracce di reati il cui accertamento danneggerebbe gli interessi geoeconomici del proprio Paese. Pensate: è cosi inflessibile, la magistratura italiana, soprattutto nel perseguire la corruzione, da aver suscitato nell’opinione pubblica la percezione che da noi il malaffare alligni ovunque, costituisca un male pervasivo, subdolo, aggressivo e onnipresente. E quando Transparency International conduce le proprie “verifiche” sul tasso di corruzione nei singoli Paesi - verifiche basate sulla percezione, cioè su sondaggi, anziché su parametri un minimo più attendibili - guarda caso l’Italia schizza puntualmente ai vertici (in negativo) tra gli Stati del mondo progredito. Anzi se la batte con il Ruanda. Ora, il fatto che i pm, da Roma a Milano passando per le implacabili Procure calabresi, non facciano sconti e diano la caccia anche alle nostre grandi compagnie, portatrici di interessi strategici per il Belpaese, è sì un caso limite del cosiddetto “controllo di legalità”, ma è comunque commendevole. Ciononostante, che l’Italia debba poi pagare questa tenacia, questa certamente apprezzabile operosità e intransigenza del proprio apparato penale con uno score terzomondista nei “ranking percettivi” delle agenzie internazionali - che magari, come Transparency, hanno sede nella guarda caso irreprensibile Berlino - è, diciamolo, un po’ una beffa. Siamo severi, implacabili ma anche screditati: forse è troppo. In realtà nel gergo un popolare si dice in un altro modo. Si dice cornuti e mazziati. Ecco, se quando si tratta di misurare la corruzione, riuscissimo a evitare - come ora cerca di fare il ministro Carlo Nordio - di farci pure “mazziare”, sarebbe già qualcosa. Contro il cybercrime intercettazioni con indizi “sufficienti” e più tempo per condurre le indagini di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2024 Si applicano i mezzi di contrasto investigativo usati per mafia e terrorismo. Assimilare, a livello di contrasto investigativo, la criminalità cyber alla criminalità organizzata e al terrorismo. È il risultato a cui approdano le norme processuali contenute nella nuova legge in materia di cybersicurezza nazionale e di reati informatici. Intanto, nelle già estese competenze in materia di reati informatici delle Procure distrettuali vengono fatti rientrare quelli (ora riformulati) di “detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico” e di “danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblico interesse”, nonché il delitto di falso e omissione in materia di sicurezza nazionale cibernetica previsto dal decreto legge 105/2019. La disciplina speciale sulla proroga dei termini e la durata massima delle indagini preliminari prevista per criminalità organizzata e terrorismo viene estesa ai reati informatici - a esclusione delle nuove cyber estorsione e truffa - a condizione che siano commessi “in danno di sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico”. Anche le disposizioni in materia di intercettazioni previste per la criminalità organizzata e il terrorismo vengono estese ai reati informatici indicati dall’articolo 371-bis, comma 4-bis, del Codice di procedura penale, consumati in danno di sistemi informatici e telematici dello Stato, di suoi organi, di enti pubblici, di imprese esercenti sevizi pubblici o di pubblica necessità, o comunque, in generale, di sistemi informatici e telematici interesse pubblico. In questi casi, per procedere con le intercettazioni, da adesso basterà che gli indizi di reato siano “sufficienti” e non “gravi”, come accade per gli altri reati; inoltre, le attività di intercettazione potranno essere svolte nel domicilio anche se non vi è motivo di ritenere che vi sia stia svolgendo l’attività criminosa. Vengono poi previsti benefici penitenziari per chi collabora con la giustizia, in base al decreto legge 8/1991; il collaboratore di giustizia potrà accedere anche alle misure di protezione e assistenza straordinarie previste per i reati di mafia, terrorismo e pedofilia. Viene rafforzata la collaborazione, nella fase delle indagini, tra magistratura e Agenzia per la cybersicurezza nazionale, attraverso il Csirt (Computer Security Incident Response Team), organo il cui compito è il monitoraggio preventivo degli incidenti informatici, e la conseguente risposta ai medesimi. Il Pm dovrà informare senza ritardo il Procuratore antimafia e antiterrorismo in caso di attacco ai sistemi informatici o telematici utilizzati dallo Stato, da un ente pubblico o da imprese esercenti servizi pubblici o di pubblica utilità. In modo corrispondente, il Csirt dovrà essere informato dal Pm delle notizie di reato che riguardino questi fatti e di eventuali accertamenti tecnici irrepetibili o di un incidente probatorio, con diritto di partecipare al conferimento dell’incarico e agli accertamenti medesimi. Inoltre, il Pm dovrà accertarsi che gli accertamenti urgenti vengano svolti in modo compatibile con le attività del Csirt. Padre e figlio al 41 bis possono avere almeno un colloquio visivo all’anno tusciaweb.eu, 1 luglio 2024 Padre e figlio, entrambi boss mafiosi detenuti in regime di carcere duro, hanno diritto ad avere almeno un colloquio visivo all’anno anche se tutti e due in regime di carcere duro. Al centro della vicenda Giuseppe Cammarata, boss 47enne di Riesi, in provincia di Caltanissetta, figlio del boss Vincenzo. È stato bocciato dalla Cassazione il ricorso del Ministero della giustizia contro l’ordinanza con cui, l’11 maggio 2023, il tribunale di sorveglianza di Roma aveva rigettato il reclamo contro l’accoglimento, da parte del magistrato di sorveglianza di Viterbo, del reclamo proposto a sua volta da Giuseppe Cammarata, cui la direzione del carcere Nicandro Izzo, in località Mammagialla, aveva negato almeno un colloquio visivo all’anno con il genitore Vincenzo, anche lui detenuto in regime di carcere duro. Secondo il ministero della giustizia, il tribunale di sorveglianza, nel rigettare il reclamo, non aveva tenuto conto del fatto che la stessa direzione distrettuale antimafia competente aveva espresso parere contrario alla concessione del colloquio, e che “in base alla giurisprudenza di legittimità, non può configurarsi un diritto dei detenuti sottoposti al regime differenziato del 41 bis ad effettuare colloqui visivi con familiari sottoposti allo stesso regime”. “La giurisprudenza di legittimità - si legge nelle motivazioni della sentenza dello scorso 5 dicembre, pubblicate il 20 maggio - ha spiegato che il detenuto sottoposto a regime differenziato può essere autorizzato ad avere colloqui visivi con i familiari - in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare i colloqui in presenza - mediante forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza, secondo modalità esecutive idonee ad assicurare il rispetto delle cautele imposte dal 41 bis”. In conclusione, l’impugnata ordinanza del tribunale di sorveglianza “rispettosa di tale principio anche nel precisare che il colloquio venga espletato secondo i tempi e le modalità ritenuti più opportuni e congrui dall’amministrazione penitenziaria, è immune dai vizi lamentati”. Paola (Cs). Detenuto di 21 anni si toglie la vita nel carcere di Francesco Frangella cosenzachannel.it, 1 luglio 2024 Un drammatico evento ha scosso la Casa circondariale. Un detenuto di 21 anni, originario di Salerno, si sarebbe impiccato all’interno della sua cella. Secondo le prime indiscrezioni, l’uomo si sarebbe impiccato all’interno della sua cella. Il tragico ritrovamento è stato effettuato dal personale della polizia penitenziaria durante il consueto giro di controllo notturno. Purtroppo, tutti i tentativi di rianimazione da parte dei soccorritori sono stati vani, e all’arrivo del medico di turno, non è rimasto altro da fare se non certificare il decesso. La notizia ha gettato nello sconforto l’intera struttura, sollevando interrogativi sulla gestione dei detenuti con disturbi mentali e sulle misure di prevenzione del suicidio in carcere. Le autorità competenti hanno immediatamente avviato un’indagine interna per fare luce sull’accaduto. Nel frattempo, la direzione del carcere si è premurata di informare i familiari del giovane detenuto, i quali sono stati contattati per ricevere la tragica notizia. Questo gesto di comunicazione tempestiva, sebbene doloroso, si inserisce nel dovere di trasparenza e rispetto nei confronti dei parenti del defunto. Il suicidio in carcere è un fenomeno che continua a destare grande preoccupazione in Italia, evidenziando la necessità di un maggiore supporto psicologico per i detenuti e di un rafforzamento delle misure preventive all’interno degli istituti penitenziari. Il caso di Paola non è purtroppo isolato e sottolinea l’urgenza di interventi mirati a tutela della salute mentale dei reclusi. Le organizzazioni per i diritti umani e i sindacati della polizia penitenziaria chiedono da tempo un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri e maggiori risorse per affrontare le problematiche psichiatriche. Questo tragico evento, che ha visto la perdita di una giovane vita, rappresenta un ulteriore monito sulla necessità di interventi concreti e tempestivi. Mentre si attendono gli esiti dell’inchiesta, resta il dolore per una morte che forse poteva essere evitata, e la speranza che da questa tragedia possa nascere una maggiore consapevolezza e impegno nella tutela dei diritti e della salute mentale dei detenuti. Milano. “Lavoro, mediatori e psichiatri. All’Ipm Beccaria il clima è cambiato” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 1 luglio 2024 Il direttore Ferrari: “In breve tempo arriveranno tre mediatori, uno psichiatra e quattro educatori in più”. Ogni domenica la messa aperta a tutti. Una messa bella e partecipata, celebrata dal vicario episcopale Giuseppe Vegazzi con i cappellani don Gino Rigoldi e don Claudio Burgio in occasione della ricorrenza di San Basilide, santo patrono del corpo di polizia penitenziaria, celebrate domenica mattina nella chiesa dell’Ipm Beccaria. In prima fila le istituzioni, il direttore Claudio Ferrari e il comandante di reparto Daniele Alborghetti, e dietro gli agenti, le famiglie del quartiere e alcuni ragazzi detenuti, per lo più di religione musulmana. “Adesso ogni domenica mattina, con la messa aperta a tutti, l’istituto offre un servizio alla cittadinanza - dice don Claudio -. Oggi in particolare la preghiera è per il carcere e per i ragazzi ma anche per il duro lavoro degli agenti che in aggiunta al resto devono essere testimoni credibili di solidarietà e di valori”. Dopo le note vicende giudiziarie e di cronaca (con l’inchiesta della Procura su presunti maltrattamenti e torture sfociata nell’arresto di 13 agenti e nella sospensione di altri otto), la messa di domenica per San Basilide acquista significato ulteriore: “Gli agenti passano la maggior parte del tempo con i ragazzi, devono avere un altissimo livello di pazienza, forza, intelligenza e capacità educativa. Io chiedo a chi comanda, in questo caso non al Cielo ma al Ministero, di supportare la struttura e mantenere le promesse fatte - aggiunge don Gino -. I ragazzi che assistono alla messa sono i primi a insegnarci che Dio è uno solo ma abbiamo incontrato in queste settimane vari imam. È importante che si uniscano a noi nell’invitare gli adolescenti ristretti alla preghiera che dà un senso profondo ai pensieri e alle giornate”. Grazie al supporto del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, in un mese “il clima in istituto è completamente cambiato - spiega il direttore, che sta cercando di fare lavoro di squadra -. Grazie al cospicuo contributo economico dei fondi Fami in breve tempo arriveranno tre mediatori, uno psichiatra e quattro educatori in più. Questi ultimi potranno così coprire anche il pomeriggio e la sera, cercheremo di implementare programmi educativi sempre più personalizzati”. Di grande aiuto sono stati gli agenti esperti e autorevoli arrivati qualche tempo fa come rinforzo temporaneo: “L’8 luglio entreranno in servizio 31 nuovi agenti maschi e 13 agenti donne, inseriti come figure stabili dopo l’ultimo corso di formazione”. Sul campo e tramite l’affiancamento acquisteranno esperienza specifica nel minorile. All’Ipm, in breve tempo, i ristretti sono passati da 92 a 49 e per il momento non è in programma un nuovo aumento di detenuti anche perché dopo i disordini degli ultimi mesi le sezioni devono essere manutenute e ripristinate. “I lavori - prosegue il direttore - sono in corso e anche gli stessi ragazzi, che avevano iniziato con volontari di Kayros a dipingere le pareti, si stanno dando da fare”. Il capitolo dei volontari è cruciale, complementare a quello degli educatori, “ne servono molti”, tanto più adesso che sono finite le scuole. In prima linea ci sono Fondazione Rava e Csi e settimana scorsa sono entrati in azione i dipendenti di Mediobanca che hanno dato un decisivo apporto al “Summer camp multisport”. Ulteriore leva è il lavoro, si potrebbero moltiplicare anche al Beccaria gli “articolo 21” (persone ristrette che escono per lavorare e tornano poi in carcere, ndr). Ragiona il direttore Ferrari: “Già diversi ragazzi hanno impieghi fuori ma ogni ponte costruttivo con il mondo esterno, a maggior ragione nel minorile, è un’opportunità”. Le valutazioni sono complesse, i ragazzi devono guadagnare la fiducia: ma quando si inizia è una scommessa condivisa, “cui partecipa anche il territorio”. Firenze. Il Coa denuncia: “La grave carenza di organico blocca il Riesame” di Tiziana Roselli Il Dubbio, 1 luglio 2024 Gli Ordini forensi toscani sollecitano l’intervento del Csm e del ministero della Giustizia. Il Coa di Firenze ha lanciato un accorato appello per affrontare l’emergenza di carenza di organico che sta paralizzando il Tribunale distrettuale del riesame di Firenze. La situazione, che ha raggiunto livelli critici, ha portato alla sospensione de facto delle trattazioni degli appelli relativi alle misure cautelari personali, con gravi ripercussioni sui diritti degli indagati. Il 19 giugno 2024, il Coa di Firenze ha deliberato di presentare una specifica istanza al Csm e al ministero della Giustizia, chiedendo interventi immediati per risolvere la situazione. In questa delibera, sono state documentate le comunicazioni del Presidente del Tribunale distrettuale del riesame, risalenti al 31 gennaio e al 9 aprile 2024, che segnalavano il rinvio di numerosi procedimenti non sottoposti a termini perentori a causa della carenza di magistrati. La situazione ha portato alla sospensione della fissazione dei procedimenti, anche per quelli con imputati detenuti. La gravità della situazione è ulteriormente sottolineata dalle richieste di intervento extra distrettuale avanzate dal Presidente della Corte di Appello di Firenze il 19 marzo 2024, rimaste senza esito. Il Coa di Firenze, tramite del suo Presidente, l’avvocato Sergio Paparo, ha quindi presentato un atto di significazione al Csm e al ministro della Giustizia, sollecitando con estrema urgenza tutte le iniziative necessarie per garantire la tempestiva copertura dei posti vacanti di magistrati. Il 20 giugno 2024, l’Unione distrettuale degli ordini forensi della Toscana ha accolto l’appello del Coa di Firenze. In una nota inviata lo stesso giorno, il Coordinatore delle Camere Penali toscane ha sollecitato un intervento urgente da parte di tutti gli Ordini toscani, evidenziando le conseguenze disastrose della carenza di personale sul funzionamento del Tribunale. L’Udoift ha aderito formalmente alla richiesta avanzata dall’Ordine di Firenze, sostenendo le iniziative volte a sensibilizzare gli organi competenti affinché si ponga urgentemente rimedio alla grave inoperatività dell’Ufficio Giudiziario Distrettuale. Inoltre, ha invitato il Presidente della Corte di Appello e il Procuratore Generale di Firenze a rappresentare l’urgenza degli interventi necessari nelle sedi deputate. La condizione di grave sofferenza in cui versa il Tribunale distrettuale del riesame di Firenze determina un grave pregiudizio per gli utenti e gli operatori di giustizia del Distretto di riferimento. Questa situazione non può che riverberarsi negativamente sui diritti delle persone e sulla capacità complessiva del sistema giudiziario di offrire adeguati livelli di tutela. L’appello unanime degli Ordini Forensi Toscani rappresenta un grido d’allarme per un sistema giudiziario in sofferenza, che rischia di compromettere i diritti fondamentali delle persone e l’efficienza della giustizia nel Distretto di Firenze. L’intervento delle autorità competenti non può più essere rimandato: è necessario agire con decisione per ristabilire un livello accettabile di funzionalità del Tribunale distrettuale del riesame e assicurare così una giustizia tempestiva e adeguata a tutti i cittadini. Catania. Il capomafia ergastolano: “Ho sbagliato tutto nella mia vita, voglio dirlo ai giovani” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 1 luglio 2024 Giovanni Piero Salvo, boss del clan Cappello, vive ormai su una sedia a rotelle. Ha anche incontrato il presidente del tribunale per i minorenni: “A 14 anni fui il portavoce della spaccatura fra le famiglie”. “Signor giudice, a me l’hanno rubata l’adolescenza”. Ha un inizio drammatico la lettera che Giovanni Piero Salvo, capomafia del clan Cappello condannato all’ergastolo per la strage di Catenanuova, ha spedito nei giorni scorsi al giudice Roberto Di Bella, il presidente del tribunale per i minorenni di Catania. “A 14 anni mi ritrovai già ad essere il portavoce della spaccatura del 1992 - racconta. All’epoca, ero davvero solo un ragazzino, ma avevo un cognome importante e tutti mi consideravano un grande”. È la lettera di un mafioso irriducibile, testimone dell’avanzata degli “scissionisti” Cappello Pillera, che mai ha voluto collaborare con la giustizia, però ora dice di aver preso le distanze dall’organizzazione mafiosa: “Sto pagando il mio conto - scrive al giudice - anche attraverso la malattia che mi affligge e che mi costringe a muovermi su una sedia a rotelle”. Giovanni Piero Salvo, il figlio di Pippo “u carruzzeri”, il fondatore del clan Cappello, ha oggi 47 anni, 25 li ha trascorsi in carcere. E, adesso, vuole fare un gesto forte, raccontare la sua vita drammatica piena di fallimenti ai ragazzi detenuti: “Ho avuto la forza e l’intelligenza di capire che era tutto sbagliato, tutto uno schifo - ha scritto ancora al giudice Di Bella - e adesso voglio aiutarla nel suo lavoro prezioso per togliere altri ragazzi dalla strada. Chi meglio di me potrebbe fargli capire che devono indirizzare la loro vita nella legalità e nel lavoro? Potrei far capire soprattutto che persone come me, che loro vedono come miti, non sono affatto tali, ma invece rovinano la propria vita e quella degli altri”. Dopo la lettera, il presidente del tribunale per i minorenni di Catania ha incontrato il boss. “Le sue parole mi sono sembrate molto importanti - dice Roberto Di Bella - il racconto dell’adolescenza negata che fa Giovanni Piero Salvo mi ha molto colpito, è di grande attualità, anche oggi molti giovani restano imbrigliati nelle maglie della criminalità organizzata. Valuteremo la sua proposta di fare incontri con i ragazzi detenuti”. L’avvocato del mafioso, Giorgio Antoci, racconta: “Ormai da anni, il mio assistito sta facendo un particolare percorso di revisione della sua vita - dice - e, adesso, con la richiesta avanzata al presidente Di Bella, non intende chiedere alcun beneficio. Anche perché sta già scontando in detenzione domiciliare la pena a cui è stato condannato. Per motivi di salute”. Nella sua lunga lettera, Giovanni Piero Salvo racconta soprattutto la sua adolescenza negata: “Non ancora quindicenne, fui arrestato per la prima volta. A sedici anni, mi arrestarono nuovamente, venni portato all’istituto per minorenni di Acireale per circa sette mesi. E da lì in poi è stato un crescendo”. Era un predestinato, Giovanni Piero Salvo. Figlio di uno dei mafiosi più importanti di Cosa nostra catanese, anche lui ormai all’ergastolo. “Purtroppo - è scritto ancora nella lettera - l’avere un cognome pesante ha facilitato la mia carriera criminale, rendendo tutto praticamente automatico. Senza che me ne sia accorto, mi sono trovato coinvolto in tutto”. Parole accorate, anche se Giovanni Piero Salvo non cita mai chiaramente la parola mafia. E tramite il suo legale ribadisce di non voler collaborare con la giustizia. Dice ancora l’avvocato Antoci: “Il mio cliente è fuori da quel contesto ormai da anni, gli stessi giudici rilevano che non c’è più un’attualità della sua pericolosità sociale”. Attualmente Salvo chiede che gli venga sospesa l’esecuzione della pena per lo svilupparsi della malattia. Il tribunale di Catania ha confermato per due volte la detenzione domiciliare e per due volte la Cassazione ha annullato, chiedendo di indicare “elementi concreti” di un’eventuale pericolosità sociale. Intanto il boss scrive in un altro passaggio della lettera: “Fra tante cose sbagliate della mia vita, sono stato invece fortunato ad avere una moglie speciale che mi ha aiutato ad allontanarmi da tutto ciò, e nei periodi di mia assenza è riuscita ad educare egregiamente e a tenere lontani i miei figli, che oggi sono il mio orgoglio”. Ora ribadisce di volere aiutare i ragazzi finiti in carcere. “Giovanni Piero Salvo riconosce l’importanza del protocollo “Liberi di scegliere” - dice il presidente Di Bella - dobbiamo impegnarci tutti per offrire un’alternativa ai figli dei mafiosi. Per questo sarebbe anche importante varare una legge, per assicurare risorse stabili al progetto”. È l’impegno che ha preso la presidente della commissione antimafia Chiara Colosimo, il gruppo di lavoro che sta predisponendo il progetto di legge è presieduto dalla senatrice Pd Enza Rando, già vice presidente di Libera: “Un segnale importante - dice il giudice Di Bella - tutti uniti per salvare i nostri ragazzi”. Verona. “Ergastolani come fratelli”, i redenti di Frate Lupo: un viaggio lungo 60 anni di Fabio Finazzi Corriere della Sera, 1 luglio 2024 Quei “fine pena mai” convertiti in volontari dal religioso Beppe Prioli. Una vita nelle carceri accanto a condannati come Pietro Cavallero. Il risveglio dal coma e la richiesta: “Portatemi a trovarli di nuovo”. Ci sono quelli che “chiudeteli in prigione e buttate via la chiave”. Poi c’è fra Beppe Prioli, da Bonaldo di Zimella, Verona: da 60 anni batte meticolosamente gli anfratti di ogni galera italiana in cerca delle chiavi gettate. Per tutti è Fratello Lupo, dal titolo di un libro che racconta la sua missione di pioniere francescano nelle carceri, partita nel 1963 da un moto di ribellione a un articolo giornale: “Giovane di vent’anni condannato all’ergastolo. Fine pena mai”. “Fine pena mai? Ma come, quel ragazzo ha la mia età, potrei esserci io al suo posto…”. Da questa scintilla, la stessa che indusse San Francesco ad affrontare e ammansire il lupo di Gubbio, inizia il suo incredibile viaggio attraverso la Cronaca Nera italiana in carne e ossa, negli abissi della coscienza dei crimini più indicibili. Un’attrazione più patologica che fatale, verrebbe da dire, se non fosse per le storie di riscatto e - a volte - di impensabili riconciliazioni, insieme certo a qualche fallimento e a tante fatiche, che costellano la sua originalissima biografia. E ci sarà pure un motivo se don Luigi Ciotti ha scritto di lui: “Per me è un amico la cui irruenta amicizia nei confronti dei detenuti, specie di coloro sul cui cuore pesano le colpe più gravi, contribuisce a farmi sentire più giovane e ottimista”. La lista degli ergastolani che si sono trovati a fronteggiare Fratello Lupo è molto lunga. Ma due storie sono più esemplari di altre. È il 1966, carcere di Porto Azzurro, all’epoca il peggior serraglio d’Italia. La riforma penitenziaria è di là da venire. Normale che ad Alfredo Bonazzi, rinchiuso nella cella di punizione sotto il livello del mare, quel ragazzo con il saio sia sembrato “un’allucinazione”. Gli riserva l’accoglienza che si merita: “Sei venuto a rompere i coglioni pure tu adesso? Non sai che mi chiamano la Belva di viale Zara?”. Risposta: “Per gli altri sarai una belva, per me sei un fratello”. Bonazzi è all’ergastolo per avere ucciso a colpi di cric il custode di una tabaccheria di viale Zara, a Milano. Nessuno lo aveva mai chiamato fratello. È un elettrochoc emotivo. Una crepa nella coscienza che diventa squassante rimorso e poi fiume in piena di creatività: un premio di poesia dopo l’altro, si trasforma in caso letterario e infine, graziato dal presidente Leone, in volontario della Fraternità (l’associazione fondata da fra Beppe) fino alla sua morte, nel 2015. Un percorso interiore lucidamente descritto da Pietro Cavallero: “Fu la carica di umanità di persone come lui a sbloccarmi: tu dai uno schiaffo, l’altro ti perdona. E allora capisci finalmente tutto il male fatto: ti senti sconfitto, veramente sconfitto. La repressione può piegarti, ma solo esternamente. Certi uomini, invece, ti disarmano davvero”. Cavallero, il pericolo pubblico numero uno a capo della banda che mise Milano a ferro e fuoco, disarmato da un saio. Anche per lui si apre una crepa, inizia un lungo percorso di riabilitazione senza sconti (non è il perdono “prêt-à-porter” la specialità di fra Beppe e dei veri pentiti) che lo porterà a diventare volontario fino alla sua morte, nel 1997, al Sermig di Ernesto Olivero. L’irriducibile Fratello Lupo oggi ha 81 anni, costretto in carrozzina in una casa di riposo dei frati francescani. Un grave malore, mesi di coma, il risveglio insperato. Il secondo, per la precisione. Già nel 1997 era stato tra la vita e la morte, dopo una caduta accidentale in casa. Riaperti gli occhi aveva chiesto a Emanuela Zuccalà, penna brillante e delicata, di scrivere un altro libro. Titolo: “Risvegliato dai lupi”. Perché, diceva, era stata l’onda di affetto delle lettere giunte a centinaia da tutte le carceri d’Italia a riportarlo in vita. Seguirà nel 2008 una nuova fatica letteraria: “Quarant’anni tra i lupi”, con i diari della “Fraternità”. Oltre a trovare la forza di declinare le sue tre parole d’ordine (“Ascolto, confronto, accoglienza”), ci confida che ora gli resta ancora un sogno. “Vorrei essere accompagnato, in carrozzina, tra le celle del carcere di Verona per salutare i detenuti uno a uno”. Vuoi mai che qualcuno abbia buttato via le chiavi. Milano. A cena con Péguy e la sua speranza nella Casa di reclusione di Opera di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 1 luglio 2024 Una consuetudine sì, ma fuori dall’ordinario, il “Pranzo senza maschere” organizzato dall’Associazione Incontro e Presenza nel Carcere di Opera. Molti che leggeranno questo contributo riconosceranno le parole di Péguy e forse si chiederanno che cosa possa c’entrare con l’ambiente dal quale provengono queste righe, la Casa di Reclusione di Opera. Invece, è proprio lì che sono state portate dall’Associazione Incontro e Presenza che, com’è ormai consuetudine, ha organizzato il “pranzo a tema” rivolto a tutti i detenuti che frequentano i volontari che spendono il loro servizio con loro. Nella parola “consuetudine” c’è un tocco di ripetizione, di ordinarietà, di già visto, che potrebbe far pensare che questo momento sia magari piacevole come tutte le riunioni conviviali, ma che finisca lì, in qualche ora passata insieme con leggerezza. Si badi che già questo sarebbe - ed è! - molto, in un posto come questo; e se anche fosse tutto lì ci sarebbe da ringraziare chi prepara e conduce una simile occasione. Ma non è affatto “tutto lì”. È davvero una consuetudine stra-ordinaria questo “Pranzo senza maschere”. Perché mentre si mangia (davvero bene, va detto pure questo. Il cibo è confezionato all’esterno delle mura, con cura e dedizione, da mani esperte e generose che si danno da fare con perizia, per cui arrivano pietanze curate: un grazie speciale a chi ha lavorato per questo!) si conversa. Non si chiacchiera, non ci si perde in mille rivoli di discorsi banali, non si fa rumore… si conversa. Parola forte e del tutto improbabile in questi luoghi, dove normalmente non lo si fa: qui si grida molto, si litiga un po’, si scherza e si ridacchia, si scambiano informazioni, si racconta dell’ultima frizione con le autorità… ma conversare, no; non accade quasi mai. Invece, al “Pranzo senza maschere” viene lanciato un tema che possa riguardare tutti i presenti e poi si interviene per dire che cosa è germogliato nella mente e nel cuore. Sotto l’esperto governo di Guido Boldrin, maestro di cerimonie per l’occasione, sia i volontari che gli “ospiti” dicono la loro e - qui s’annida il primo livello di straordinarietà - si ascoltano reciprocamente. Con pazienza, con attenzione, con interesse. Persone pochissimo abituate a dar retta agli altri, lo fanno e ci si impegnano. Così il discorso fluisce, ogni intervento si aggancia al precedente, anche l’eventuale disaccordo è motivato, illustrato, argomentato. Ha dell’incredibile. Quest’anno il tema della speranza, lanciato e stimolato dal passo di Péguy, era stato annunciato in precedenza: gli invitati avevano ricevuto un foglio con il passo dell’autore francese e hanno avuto il tempo di pensarci. Un argomento piuttosto arduo, per nulla scontato, una vera “provocazione” com’era scritto in quel foglio preparatorio, cui in molti hanno dedicato tempo in anticipo - e questo è il secondo livello di straordinarietà -, riflettendo prima del pranzo. Cosi s’è discusso sul vero significato di questo concetto, dalle speranze materiali e di breve respiro a quelle più grandi e alte; si è detto come sia difficile sostenere il peso delle disillusioni, anche di quelle piccole; si è visto il rapporto tra la speranza e la libertà, o il tempo. Ancora, s’è cercato di chiarire come la speranza vera sia quella che si augura l’avvenire del proprio vero essere, quella soddisfazione del desiderio interiore che ci fa compiuti e che rispecchia il disegno di Dio. Probabilmente, di speranza si potrebbe ancora dire molto; qualche intervento ha lanciato piste che avrebbero meritato più approfondimento, qualcuno è andato un po’ fuori tema. Al termine delle due ore, cioè quanto la direzione del carcere concede per questo evento, ci sarebbe ancora stato bisogno di sentire e commentare. Ma la prova sicura che l’occasione è stata ben spesa è nel “dopo”. In parecchi hanno continuato a parlarne, hanno ripreso l’argomento, hanno riflettuto… non accade spesso ed è un segno: il “pranzo senza maschere” lascia sempre una traccia. Catanzaro. Arriva al capolinea il progetto “La Forza delle Parole” Corriere della Calabria, 1 luglio 2024 L’associazione Cam Gaia traccia il bilancio dell’attività svolta a tutela delle vittime di reato. È arrivato al capolinea “La Forza delle Parole”, progetto portato avanti dall’associazione Cam Gaia, con sede legale a Catanzaro, che ha fornito durante l’evento conclusivo, il bilancio del lavoro svolto a supporto delle vittime di reato, sostenute a 360 gradi nei loro vissuti emozionali e materiali con l’attivazione gratuita di punti di ascolto per un incontro diretto con le vittime, fornendo assistenza legale e psicologica. Un progetto, realizzato con il contributo del Dipartimento per gli Affari di Giustizia- Ministero di Giustizia, affidato dalla Regione Calabria, che si è avvalso della collaborazione del Centro Giustizia minorile della Calabria, del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria della Calabria, e dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna della Calabria, formato da una equipe specializzata, che ha consentito di offrire alle vittime, informazioni e assistenza sui loro diritti, sui servizi specialistici di settore, consigli finanziari, un gruppo qualificato presente, prima, durante la denuncia-querela e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale. A moderare l’incontro la presidente dell’associazione Cam Gaia Alessandra Mercantini, che ha presentato un parterre di eccezione del mondo istituzionale e professionale, presente, via web, al tavolo dei lavori e che ha contribuito a realizzare il progetto, ciascuno secondo le proprie specializzazioni, a partire da Maria Scalzo, referente del progetto nella Regione Calabria, Valeria Cavalletti dirigente del Centro giustizia minorile della Calabria, Rocco Scicchitano dell’Uipe Calabria, la vicepresidente di Cam Gaia Maria Assunta Bonanno insieme alla squadra dell’associazione “La Forze delle Parole” Elvira Petrosillo, Nunzia Procida, Lidia Bauckeneth, Sara Barbuto. E ancora Tindara Avellino, assistente sociale Ussm Catanzaro, Sergio Gaglianese, referente sociale “la Tazzina della Legalità”, Stefania Figliuzzi, referente per l’associazione “Attivamente Coinvolte”, Valentina Fusca referente per l’associazione “Valentia” nonché assessore del Comune di Ionadi e Isabella Mastropasqua già dirigente del Centro giustizia minorile della Calabria. Ad entrare nel vivo dei risultati conseguiti con “la Forza delle Parole” la sociologa Bonanno, che ha tracciato i dati finali del progetto che si è concretizzato con l’apertura di tre sportelli a Vibo, Cosenza e Crotone, che ha consentito di seguire da vicino le vittime di reato al di là del contatto telefonico, lavorando in stretta sinergia con il Centro servizi volontariato e la cooperativa Kroton Community, con webinar informativi, attività con le scuole, utilizzando ogni forma di comunicazione, social inclusi, perchè nessuna vittima di reato potesse mai sentire sola. “Per quanto riguarda la tipologia di utenti - ha affermato la vice presidente dell’associazione Cam Gaia- abbiamo seguito vittime di reato per l’80% maggiorenni e per il 20 minorenni, prevalentemente donne e di nazionalità italiana. Le persone che si sono rivolte a noi hanno subito conflitti di vicinato, familiari, scolastici, diffamazioni, furti e danneggiamenti. Le casistiche riportate dal Sole24ore ci parlano di vittime che hanno fatto i conti con minacce, incendi, tentati omicidi, cercheremo di raggiungere e aiutare anche queste persone, ampliando il raggio di azione. Siamo riusciti a creare, con i partner, una rete, dal Cvs, dagli enti del Terzo settore, che ci ha permesso di realizzare un progetto complesso, aiutati anche dal Comune di Ionadi, abbiamo coinvolto altri Comuni come quello di Catanzaro, ma nonostante le varie interlocuzioni non si è mai arrivati ad una conclusione per problemi burocratici”. L’assessore di Ionadi Fusca ha garantito che il progetto non finisce qui, assicurando l’apertura di un quarto sportello e di uno ulteriore, itinerante, “presidi di legalità”. Un’idea sposata dalla presidente Mercantini che punta sull’ascolto attivo e sulla collaborazione: “nasciamo come equipe di mediazione itinerante, il mediatore va nel luogo dove è accaduto il fatto, lo sportello itinerante è lo strumento ideale per affrontare insieme con le vittime le loro storie dolorose”. Drammi, alcuni dei quali raccontati, nel corso dell’evento conclusivo dalla viva voce dall’avvocato mediatore Elvira Petrosillo, a cui sono state sottoposte vicende destabilizzanti derivanti da separazioni. “Spesso dopo un divorzio si resta incastrati in dinamiche difficili, si pensa che il divorzio sia un bene di lusso che implica l’allontanamento dai figli e grazie al progetto “La forza delle Parole” è stato possibile fornire informazioni realistiche per affrontare questo tipo di percorso. Penso al caso di una ragazza proveniente dalle favelas brasiliane che aveva subito da piccola abusi e mutilazioni indicibili, adottata all’età di 6 anni da una famiglia in Italia, non preparata ad accogliere una figlia con un vissuto drammatico. Un rapporto difficile con genitori adottivi, fatta di fughe, ma siamo riusciti a recuperare un dialogo tra genitori e figlia”. Occhi puntati sulla sensibilizzazione e promozione della cultura del sostegno alle vittime di reato e l’associazione Gam Gaia su questo fronte ha ottenuto un riscontro notevole aiutando anche le famiglie dei detenuti, non tutelate, costrette a subire i pregiudizi della gente, etichettate e pagarne il prezzo più alto sono figli e mogli dei carcerati, che non riescono più a far fronte alle spese di mantenimento. Emblematico i casi di un figlio disabile, la cui mamma è stata edotta sui servizi offerti o del detenuto che non vedeva da due anni suo figlio e attraverso la mediazione è stato possibile attivare un dialogo, strumenti resi possibili attraverso il progetto “La Forza della Parole”, dall’associazione Cam Gaia. Può avere ancora efficacia la punizione come risposta a un reato? di Valentina Stella Il Dubbio, 1 luglio 2024 “Punizione” (edito da Il Mulino, pagine 178, euro 14) è il nuovo libro di Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale nell’Università di Palermo, già componente laico del Consiglio superiore della magistratura e Garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia. Punizione è parola drammatica che ogni epoca tenta di riscrivere. Un tema controverso che oggi più di ieri è attraversato da incertezze e contraddizioni. “Può avere ancora efficacia la punizione come reazione a un reato?”, si chiede l’autore. “Se negli ultimi decenni ha prevalso una tendenza antiautoritaria e antirepressiva, incline a contestarne l’utilità anche in campo educativo, le forti ventate di populismo politico della nostra contemporaneità hanno alimentato pulsioni collettive, favorevoli a una concezione emotiva della punizione come vendetta pubblica. Ciò in totale contraddizione con quella “crisi della pena” che i giuristi non si stancano di denunciare, e con quella finalità educativa che ne connota la visione costituzionale”. Come ricorda lo stesso autore, il noto sociologo Didier Fassin etichettò la punizione come una “passione contemporanea”, derivata “da spinte emotive e da sentimenti individuali e collettivi di frustrazione, rabbia e risentimento che si diffondono specie nei momenti di crisi socio-economica”. Secondo Fiandaca non mancano voci autorevoli che muovono critiche ai fenomeni di punitivismo irrazionale e rabbioso che tendono a crescere nella nostra società. E cita la filosofa statunitense Martha Nussbaum, secondo la quale “un legislatore razionale dovrebbe rifiutare il modo in cui il dibattito sulla gestione dei reati viene generalmente impostato, cioè come dibattito sulla giustezza della pena. In realtà io sono incline a pensare che la cosa più razionale sia rifiutare del tutto o per parecchi anni l’uso del termine pena, visto che restringe la mente, inducendo a pensare che il solo modo di riportarsi al crimine sia qualche guaio, come dice Bentham, inflitto al reo. La questione che ci sta di fronte è come affrontare l’intero problema degli atti delittuosi, non come punire le persone che ne hanno commesso uno”. Fiandaca riprende anche un pensiero del filosofo Umberto Curi: “Si emettono sentenze, si definiscono sanzioni, si dispongono misure restrittive della libertà personale come se non vi fosse nulla di cui dubitare, come se il lavoro di giuristi e magistrati potesse essere davvero come una prudente applicazione di alcuni principi solidissimi e incrollabili e non l’espressione di una logica probabilistica, ai limiti della congettura o del vero e proprio azzardo”. L’autore poi si concentra sul concetto di rieducazione: prospettiva che “non ha mai ricoperto nella prassi una posizione preminente all’infuori dei ristretti ambiti della magistratura di sorveglianza e del personale a vario titolo addetto ai percorsi trattamentali. Mentre nel contesto politico culturale esterno e negli orientamenti della pubblica opinione l’idea rieducativa tende per lo più a ricevere adesioni retoriche o di facciata, a fronte di un tendenziale predominio di pulsioni retributive e di istanze di prevenzione generale”. Ma l’autore si chiede anche cosa dobbiamo intendere per rieducazione del condannato. “Gli stessi giudici costituzionali, che pure tendono sempre più a valorizzare il principio in parola si astengono dal fornire al riguardo puntuali definizioni contenutistiche. Ciò non a caso. Quello di rieducazione è infatti un concetto che può essere riempito di vari contenuti: quasi un concetto fai da te, suscettibile di usi differenti a seconda delle lenti e delle finalità con cui lo si approccia, condizionato da presupposti scientifico culturali non meno che da premesse politico-ideologiche”. Quale sarebbe, ad esempio, la migliore forma di rieducazione per i cosiddetti colletti bianchi che si macchiano di qualche reato? La risposta la troverà chi leggerà il libro, che nel capitolo successivo affronta quello che Fiandaca definisce “il grande paradosso”, ossia “la coesistenza, nell’attuale momento storico, di due tendenze di fondo opposte: da un lato, una contingente deriva punitivista, figlia di un populismo politico che tende appunto a canalizzare in chiave repressivo-ritorsiva sentimenti di rabbia, indignazione, risentimento e frustrazione diffusi nei settori sociali più svantaggiati; dall’altro, un’accresciuta consapevolezza, da parte di molti esperti a vario titolo di questioni penali, che le forme tradizionali di pena forniscono una risposta sempre meno adeguata e soddisfacente in termini sia di giustizia che di efficace contrasto alla criminalità”. Fiandaca poi termina con una polemica: “Incombe in maniera ricorrente il rischio - tanto più concreto quando sono al governo forze politiche di orientamento fortemente repressivo-securitario - di un possibile depotenziamento o ridimensionamento del ruolo dei garanti. Se ciò avvenisse, il nostro Paese regredirebbe ulteriormente quanto a livello di civiltà penitenziaria e, più in generale, di effettiva garanzia dei diritti delle persone in esecuzione di pena”. Milano, 1996. Sangue e politica sul palcoscenico di Tangentopoli di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 1 luglio 2024 Riportiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore e dell’autrice, un estratto di “Delitto al Pirellone. Un giallo milanese”, di Tiziana Maiolo (Edizione Milieu, 2024, 288 pagine). “7 Dicembre 1995 - La bacchetta del maestro si abbassa sulle ultime battute del Flauto Magico, seguite dall’applauso del popolo della Prima. La Scala è in tripudio, come ogni 7 dicembre. Nel Palco Reale gli smoking austeri delle autorità. E Lei, sfolgorante in bianco, che sorride come se il trionfo non fosse di Mozart né di Muti, ma solo il suo. Adelaide Floriani è la vera fata della festa. Cresciuta in un ambiente pieno d’amore, allevata come una ragazza dell’ottocento tra letteratura, recitazione, danza e filosofia, quando ha voluto la politica e il potere, ha saputo prendersi anche quelli. Ha scalato da sola, con la forza del proprio carisma, del saper vendere parole e promettere futuro, i trenta piani del Pirellone, l’opera geniale di Gio Ponti, diventando la prima donna presidente della Regione Lombardia. E ora tutto il teatro è girato a guardare lei. E lei sorride, come Maria Callas, la prima donna su quel palcoscenico nel 1951, e poi la più applaudita nel 1960 con un abito bianco e una piccola cappa di visone sulle spalle. Sembra Madame de Pompadour, che divenne amante e consigliera politica dell’uomo più potente di Francia, il re. È il pensiero fuggevole di Tancredi de Blanc, il suo ex marito, mentre le lancia uno sguardo complice dalla platea. Non regge il confronto la sua nuova compagna Stella Rossetto, appesa al suo fianco. Poche fila più avanti un altro ammiratore, che tutti chiamano il Professore, si inchina in direzione del Palco Reale e le manda un bacio soffiando nella mano. È uno dei pochi ad aver ignorato gli abiti da cerimonia. Inoltre la moglie Isabel Alva de la Torre, una peruviana dallo sguardo tagliente con una lunga treccia lungo la schiena, ha osato quel che alla Scala non si osa mai, indossando un abito rosso. La presidente enigmatica, potente, desiderata. Lo pensa l’intera città. E Adelaide si offre maestosa questa sera, la prima occasione pubblica di prestigio dopo le elezioni di aprile, nel tempio della lirica che rese famose Maria Callas e Renata Tebaldi, Giuseppe Di Stefano e Tito Schipa. Mostra le mani bianche aperte e tese in avanti, come se contenessero il mondo che lei ha saputo far suo, l’impresa e la cultura, la moda e la società intera. Lo sguardo di Adelaide si allunga verso il palcoscenico. Sorvola la platea e il lampadario scintillate con le sue 383 lampadine. Sorride, ne ricorda il numero. Là in fondo, in un palco di proscenio detto “barcaccia”, due giovani donne che paiono indifferenti al lusso, ai gioielli sfolgoranti e a un mondo fatto di successi di cui Adelaide ormai fa parte, continuano ad applaudire e a guadarsi intorno felici. In un modo diverso, anche loro sono donne di successo. Un magistrato, Rosella Traverso, e una giornalista, Rosa Rossi, affiancate l’anno precedente in una vicenda di politica giudiziaria che le ha viste, ciascuna con il proprio ruolo, uscire vincenti. Adelaide Floriani scalatrice, e anche navigatrice. Ho attraversato un oceano, sta dicendo il suo sorriso, vi ho mostrato che cosa può fare una donna che non è un Capo di Stato, ma può stipulare contratti con Capi di Stato. Pensa al Presidente del Perù, alla sua ansia di accordarsi sulla sicurezza. E a quei fili che lei sta tessendo con gli altri Paesi del Sudamerica. La sua forza nell’impegno quotidiano di un lavoro al vertice della Regione che le sta dando già grandi soddisfazioni in quel palazzo simbolo, così alto e solitario, da cui lei domina la città e la Regione fino alle Alpi che si vedono sullo sfondo nelle belle giornate. Le hanno detto che quel colore grigio e giallastro dei pavimenti del Pirellone di Gio Ponti è dovuto all’impasto che il grande architetto ha voluto si realizzasse con gli avanzi delle macerie rimaste a terra dopo i lavori di costruzione del grattacielo. Lei ha subito reso una notizia di bassa manovalanza in qualcosa di alta cucina. Ha voluto trasformare sé stessa da regina del castello in amica dei lavoratori. “Mi casa es tu casa”, ha detto al presidente del Perù, e anche all’ultimo degli impiegati del suo palazzo. Le mie porte sono aperte, recita ancora tra sé, mentre il foyer del teatro si sta svuotando e tutti corrono verso le cene private che in quantità celebreranno anche quel 7 dicembre del 1995. Anche a casa di Adelaide Floriani quella sera gli ospiti erano molto selezionati. E ciascuno di loro aveva buoni motivi per odiarla, pur amandola. Chi con il cuore, chi con smodata passione. SINOSSI - Milano, 28 marzo 1996. Un delitto atroce sconvolge la città. Un personaggio reduce da una clamorosa vittoria elettorale verrà trucidato con un’arma da taglio dalla strana forma a mezzaluna. È un Tumi peruviano, che contiene un misterioso messaggio. E mentre si indaga sui legami tra il mondo della sovversione italiana e quello dei narcos sudamericani, emerge il ricordo di una cena del dopo- Scala del 7 dicembre 1995 in cui sarebbe maturato il delitto. Le indagini hanno due protagoniste, una cronista di quelle toste e una magistrata scrupolosa, entrambe si troveranno a operare in ambienti maschili abituati a trascurare il loro operato. A condurre l’inchiesta anche questa volta non ci sono i soliti poliziotti più o meno insofferenti al sistema, ma delle donne, combattive, testarde e controcorrente, proprio come l’autrice. Tra realtà e immaginazione, Tiziana Maiolo torna con un legal thriller che rievoca le ambientazioni milanesi degli anni novanta, periodo di grandi sconvolgimenti politici da Tangentopoli all’ascesa di Berlusconi. Una stagione di passaggio, quando la città di Milano e i suoi palazzi del potere erano al centro della vita nazionale. Vittime e carnefici, umanità e nichilismo L’orrore del Bataclan come un romanzo di formazione civile di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 1 luglio 2024 In “V13” lo scrittore Emmanuel Carrère ci porta dentro la carne viva delle stragi, lungo il filo narrativo di un processo penale che somiglia a una catarsi. V13: così è chiamato in codice il processo degli attentati terroristici avvenuti venerdì 13 novembre 2015 a Parigi. Centotrenta vittime, falciate a colpi di kalashnikov nelle terrazze dei caffè del X e XI arrondissement e nella sala concerto del Bataclan, più il fallito attentato allo Stade de France. E così si chiama la cronaca giudiziaria dello scrittore Emmanuel Carrère che per nove mesi ha seguito tutte le udienze, tutte le testimonianze, tutte le arringhe fino al verdetto finale della Corte di assise. La prima parte di V13 è dedicata ai racconti delle parti civili, pagine strazianti, fitte di dettagli atroci, di disperazione e di eroismo. Parlano i sopravvissuti e i familiari delle vittime, intrecciano i ricordi di quella notte, provano a ricostruire la trama, serrata e dolente dei momenti fatali che hanno portato alla morte dei propri cari. C’è Maia che al caffé Carillon ha visto morire il marito Amine, due giovani architetti innamorati e pieni di progetti per il futuro. Lei se l’è cavata con delle ferite alle gambe, protetta dal corpo di un uomo crivellato di colpi: “Ho sentito il suo respiro meccanico, i suoi ansimi, i suoi ultimi istanti di vita”. Ci sono Aristide e Alice, fratello e sorella, due sportivi, giocatore di rugby lui, ginnasta lei; sono usciti vivi dalla sparatoria al bar Petit Cambodge, ma sono rimasti entrambi handicappati e hanno dovuto rinunciare all’attività sportiva. Aristide è entrato in depressione e lo hanno ricoverato in un ospedale psichiatrico per diversi mesi. Poi c’è il teatro principale dei massacri, il Bataclan. Sono le 21.30 quando i terroristi irrompono nella sala interrompendo il concerto del gruppo Usa Eagles of death metal; esplodono decine di raffiche di kalashnikov, in particolare verso la “fossa”. Nei primi minuti massacrano decine di persone, nel teatro ce ne sono più di mille. “Avevamo paura di venire falciati dai mitra ma soprattutto di morire calpestati dalla folla”. Commoventi gli episodi di solidarietà tra quei ragazzi; come Bruno che rinuncia a fuggire per restare accanto a Edith una sconosciuta che non poteva muoversi. O Clarisse che riesce a scappare in galleria e sfonda un controsoffito permettendo a decine di persone di salvarsi. Quasi tutti affermano di non cercare vendetta, di non provare rabbia perché non vogliono “diventare come i terroristi”, lo slogan ripetuto fino allo sfinimento è: “Non avrete il nostro odio”. Poi, improvvisamente, uno squarcio, una macchia che va a sporcare il quadretto idilliaco di questa postura virtuosa, riparativa, quasi catartica. È la testimonianza di Patrick Jardin un uomo corpulento dai modi sgraziati che ha perso la figlia nella “fossa” del Bataclan: Jardin non vuole perdonare, non vuole capire, vuole solo vendetta, afferma che gli imputati dovrebbero venire fucilati, e si dice disgustato dal fatto che molti familiari delle vittime abbiano rinunciato all’odio per i carnefici. “Mi accusano di spargere odio ed è vero signor presidente, sono pieno di odio”, ammette Jardin. Carrère naturalmente si sente a disagio, per il “furore arcaico” che pretende la legge del taglione e ignora lo Stato di diritto, ma a suo modo gli è grato, perché quelle parole ruvide in qualche modo introducono un principio di realtà, spezzano la narrazione unanime, quasi ipnotica, con cui le vittime tentano di elaborare il lutto in modo non del tutto sincero: “Credo sia una buona cosa che, almeno una volta su 250, possiamo ascoltare una voce morosa e priva di perdono”. La seconda parte di V13 è invece consacrata agli accusati e Carrè re non nasconde la sua delusione; di fronte a crimini così grandi si aspettava, se non altrettanta malefica grandezza almeno un minimo di consapevolezza politica. Rimarrà colpito dalle personalità insipide, vuote, di questi ragazzi accusati di essere coinvolti a diverso titolo nelle stragi, diventati jihadisti quasi per caso. Sono venti alla sbarra e la “star” è Salah Abdelslam, unico superstite del commando. Doveva farsi esplodere, ma non l’ha fatto, forse perché la cintura era difettosa, forse perché ha avuto, paura, forse perché non voleva uccidere degli innocenti. Per sei anni è stato in isolamento, sorvegliato h24 da una telecamera. Ci sono alcuni amici di infanzia di Salah, dei combattenti dell’Isis, dei piccoli delinquenti, un falsario. Diciannove di loro saranno condannati, Salah avrà l’ergastolo ostativo. L’ultima parte è dedicata alla Corte, i presidenti della giuria, i procuratori, gli avvocati difensori. Carrère è colpito dall’”altissimo livello” di tutti i protagonisti; dall’accusa che raramente deraglia nel giustizialismo ma resta sobria e puntuale, dai giudici che accompagnano con imparzialità e senso del diritto tutti i passaggi del processo (anche se contesta l’ergastolo a Salah) dalla tenacia della giovane Olivia Ronen, avvocata di Salah: “È stata veemente e ispirata, bisogna renderle omaggio”. Edith Bruck: “In Italia uno tsunami di antisemitismo, con questo governo saltati i freni inibitori” di Niccolò Carratelli La Stampa, 1 luglio 2024 Edith Bruck vede abbattersi in Italia e in Europa uno “tsunami di antisemitismo”. Per questo la 93enne scrittrice ungherese, testimone diretta della Shoah, assicura di non essere rimasta stupita nel leggere le frasi razziste pronunciate dai ragazzi “meloniani” di Gioventù nazionale. “Non c’è nulla di cui meravigliarsi, tanto più con questo governo di destra - spiega - da quando sono arrivati al potere sono saltati gli argini, non ci sono più freni inibitori, si sentono autorizzati a dire di tutto”. Perché sanno di godere di una copertura politica? “Basta vedere quali sono state le reazioni dopo l’inchiesta di Fanpage. La premier se l’è presa con i giornalisti, come se fossero delle spie, perché hanno mostrato ciò che era meglio tenere nascosto. Poi c’è stata una condanna solo delle frasi antisemite, mentre sugli slogan nazisti e i richiami al fascismo hanno sorvolato. Come se fascismo e antisemitismo siano due cose che si possono tenere distinte. Ma, d’altra parte, su questo punto Giorgia Meloni non ha mai dato una risposta adeguata”. In che senso? “Non ha mai preso una distanza netta dal fascismo, ogni volta si arrampica sugli specchi. Mostra due facce, forse tre, rivolta sempre la frittata. In questo caso, vuole far credere che lei non sapeva niente di cosa pensano e dicono i suoi ragazzi, ma ovviamente non è così. Sono sue creature, cresciuti in un liquido amniotico simile al suo. E non sono pochi casi isolati”. Intende i pochi che verranno allontanati? “Vogliono farci credere che sono 4 o 5 esaltati, ma in realtà sono centinaia e sono lo specchio di un pezzo di Italia, che ha votato Meloni e il suo partito”. Questo significa che c’è un pezzo di Italia razzista e antisemita? “Non c’è dubbio. E che non ha fatto i conti con il proprio passato, non lo rinnega, anzi lo rivendica con orgoglio. Ma questo non avviene solo in Italia, ora vediamo la Francia, c’è una nuvola nera che incombe sull’intera Europa. Io sono ungherese, ora ci tocca vedere Orban presidente di turno dell’Unione europea, un uomo che dice cose agghiaccianti sulla supremazia della razza ungherese. Non a caso, grande amico di Meloni”. Tornando all’antisemitismo, è un fenomeno che appare in crescita: perché? “Stiamo assistendo a uno tsunami antisemita, legato anche alla protesta contro il governo israeliano per quello che avviene a Gaza. Ma voglio dire che noi ebrei non c’entriamo nulla con quello che sta facendo Netanyahu contro i palestinesi, tutto questo odio non ha senso”. Ha l’impressione di essere tornata indietro? “Ricordo fin da bambina questa generalizzazione nei nostri confronti: un ebreo ruba, tutti gli ebrei sono ladri. Vale solo per noi ed è sempre difficile da accettare. Sì, vedo segnali di un ritorno indietro, è doloroso. Ma io non ho paura, anche in questi tempi bui continuerei a uscire di casa con la mia stella gialla al collo, se solo non avessi problemi a una gamba”. Liliana Segre ha espresso la sua amarezza, per un impegno di testimonianza che sembra essere stato vano… “Capisco Liliana, ma io non credo che tutti i nostri sforzi siano stati vani. Io da 64 anni vado nelle scuole, incontro gli studenti, racconto e mi confronto con loro. Mi ascoltano, a volte piangono con me. Credo sia necessario continuare a parlare, fosse anche per far cambiare idea solo a 2 o 3 persone”. Allora cosa direbbe a quei ragazzi di Gioventù nazionale? “Li incontrerei sicuramente, parlare con chi non ti ama è l’unica strada per provare ad avvicinarsi. I ragazzi spesso studiano poco e male, poi è facile che vengano condizionati da cattivi maestri. Forse tutto questo è voluto, bisognerebbe rivedere i libri di storia adottati nelle scuole, qualche pagina in meno sul Medioevo e qualcuna in più sul secolo scorso. A proposito di scuola, però, le racconto una cosa”. Prego... “Tempo fa in un liceo, al termine di un incontro con gli studenti, mi si avvicina il loro professore di storia e mi dice che, parecchi anni prima, anche lui da studente aveva partecipato a un incontro con me. Ecco, quella è la mia speranza, riuscire a gettare un seme per il futuro”. Migranti. Dieci anni dopo l’operazione “Mare nostrum” il Mediterraneo è un cimitero di Duccio Facchini Altreconomia, 1 luglio 2024 Dall’interruzione nel 2014 dell’ultima “vera” operazione di ricerca e soccorso in mare, il bilancio è di 30mila morti e dispersi accertati. Una strage prevedibile che mostra il volto disumano e gli obiettivi delle politiche dell’Unione europea e dell’Italia. Dove chi documenta le violazioni, al di là del numero esiguo di persone che riesce faticosamente a salvare, è fatto fuori. Un neonato in un fagotto giallo, l’altro in uno blu. Chissà dove saranno oggi, dieci anni dopo lo sbarco avvenuto il 30 giugno 2014 a Pozzallo, in provincia di Ragusa, i due più piccoli naufraghi di quell’imbarcazione soccorsa nel Mediterraneo dalla nave Grecale della Marina militare italiana, nell’ambito dell’operazione “Mare nostrum”. Un “barcone” di trenta metri con dentro 590 vivi e 30 morti, per asfissia da calpestamento o per intossicazione da gas di scarico. “Mai vista tanta gente in così poco spazio”, riferì ai giornalisti il comandante della fregata. Pochi mesi dopo, al grido di “costa troppo”, quella missione verrà fermata, sostituita da altre di diversa natura e con tutt’altri obiettivi: non più salvare le persone ma bloccare i “traffici”, cioè impedirne l’arrivo, a qualsiasi costo. Dieci anni dopo eccoci qui, con il “risultato” di 30mila morti e dispersi nel Mediterraneo ufficialmente registrati tra 2014 e metà 2024 dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Una strage avvenuta sotto i nostri occhi. Quanti uomini, donne e bambini, ancora, dovranno affogare in acqua o morire di stenti a bordo delle navi sotto gli occhi dell’Europa? Se lo è chiesto l’11 giugno di quest’anno Medici senza frontiere a seguito dell’ennesimo e drammatico soccorso, tessendo la scritta “Europe, how many more?” su alcune lenzuola stese poi sul fianco della nave Geo Barents con undici giubbotti appesi a ciondolare. Il fine settimana precedente, infatti, 17 corpi erano stati avvistati galleggiare in mare dall’alto dal velivolo della Ong Sea-Watch. Corpi in avanzato stato di decomposizione, anche di donne, abbandonati da almeno una settimana. Undici sono stati recuperati da Msf. “Ne abbiamo individuati altri che sono ancora in mare”, ha detto Tamino Böhm, membro del team di monitoraggio che ha fatto la terribile scoperta. “Non si è trattato di un incidente imprevedibile ma del risultato di decisioni calcolate da parte dell’Unione europea: ecco come si presenta la politica europea dei confini”. Invece di salvare le persone e rimettere in piedi un meccanismo di ricerca e soccorso smantellato da dieci anni, il nostro Paese, per mezzo dell’Ente nazionale per l’aviazione civile, quei voli di monitoraggio di Sea-Watch sta tentando invece di proibirli, contrastarli, sanzionarli. “Se questo tentativo avrà successo non ci saranno più testimoni di queste morti”, ha continuato Böhm. Perché questo era ed è il punto fondamentale: far fuori chi vede e documenta la strage, al di là del numero esiguo di persone che riesce faticosamente a salvare. Una strategia disumana e illegittima. Il Tribunale di Reggio Calabria, a inizio giugno, ha annullato il fermo amministrativo di 60 giorni imposto dalle autorità italiane a danno della Sea-Eye 4 in base al cosiddetto “decreto Piantedosi” di inizio 2023 (il primo decreto legge licenziato quell’anno dal Governo Meloni, a proposito di priorità). In trenta pagine la sentenza del giudice Dionisio Pantano smonta una per una le tesi delle autorità italiane in quanto palesemente infondate o non provate e offre, come ha sottolineato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, “interessanti spunti di riflessione giuridica e sulle modalità con le quali le autorità italiane utilizzano le informazioni ricevute dalla cosiddetta guardia costiera libica allo scopo di limitare le capacità di soccorso delle persone nel Mediterraneo”. C’è però poco da festeggiare. Tra febbraio 2023 e aprile 2024 la norma che porta il nome dell’attuale ministro dell’Interno (nel 2014 era vicecapo della polizia) ha comportato 21 fermi di navi di soccorso civile e multe fino a 10mila euro, per 446 giornate di fermo complessive, sprecate così al posto di salvare. A questo bilancio se ne aggiunge un altro, rielaborato dalla Ong Sos Humanity: nel 2023 le navi di soccorso civile hanno perso 374 giorni di permanenza nell’area operativa, percorrendo un totale di 154.538 chilometri su rotte evitabili a Nord e a Est dell’Italia in direzione dei porti “lontani” strumentalmente assegnati da Roma. Tre volte e mezzo il giro del mondo. Chissà dove saranno oggi quei neonati sbarcati a Pozzallo nell’estate 2014. E chissà dove siamo stati noi in questi dieci anni. Migranti. Come è stata nascosta una strage di Stato, è bastato non mostrarne le bare di Memoria mediterranea L’Unità, 1 luglio 2024 Silenzio, opacità e omissioni da parte di governo, Guardia costiera e Prefettura. Informazioni arrivano solo da comunicati striminziti e incoerenti. Il Porto di Crotone, all’arrivo di alcune salme, inaccessibile ai giornalisti. Il numero dei corpi recuperati, 36, è l’unico dato certo. La notte tra il 16 e 17 giugno scorso al largo del Mar Jonio, un’imbarcazione partita dal porto di Bodrum in Turchia con circa 67 persone a bordo (di cui 26 minori) è naufragata a circa 120 miglia dalle coste della Calabria. La barca era rimasta alla deriva per diversi giorni, con uno scafo semi affondato, probabilmente a seguito dell’esplosione di un motore. Secondo le persone sopravvissute, diverse imbarcazioni sarebbero passate in quell’arco di tempo senza intervenire: la barca è stata soccorsa solo il 17 giugno dopo il lancio del “mayday” da parte di una nave francese che aveva intercettato il veliero affondato. sono state tratte in salvo 12 persone, tra cui una donna poi deceduta prima di arrivare a terra, che sono state portate in salvo a Roccella Jonica, nella provincia di Reggio Calabria. Il numero dei sopravvissuti, 11, è attualmente l’unico certo. Imprecise sono state le informazioni circa il numero dei corpi totali recuperati, che in data odierna è stato confermato essere 36, di cui quello di una donna deceduta dopo i soccorsi del 17 giugno scorso. Le 35 salme recuperate in mare appartengono a 10 uomini, 9 donne, 15 minori e 1 non noto. Le nazionalità delle persone che viaggiavano a bordo dell’imbarcazione dovrebbero essere: Afghanistan, Iran, Iraq, Siria, Pakistan. All’indomani della strage, la Guardia Costiera avrebbe iniziato le ricerche in mare recuperando a più riprese i corpi. Decine sarebbero le persone ancora disperse, in un naufragio che ricorda per certi versi quello di Steccato di Cutro del 26 febbraio 2023, dove morirono almeno 94 persone: stessa rotta, numerose vittime e la possibilità di una sottovalutazione da parte delle autorità nell’autorizzazione al soccorso dei naufraghi. Infatti, il 16 giugno Alarm Phone aveva allertato il Cmrcc di Roma avvisando di aver ricevuto richieste di aiuto relative alla barca in difficoltà nello Ionio e aveva fornito alle autorità competenti la posizione esatta dell’imbarcazione in pericolo affinché le persone a bordo potessero essere soccorse. *** Diverse organizzazioni della società civile sono state allertate da quei familiari che nei Paesi di origine ma anche in Italia cercavano informazioni circa le sorti dei loro congiunti e che - per mancanza di comunicazioni chiare da parte delle autorità italiane - non riuscivano a comprendere né i luoghi né gli uffici preposti a gestire le conseguenze del naufragio. Mem.Med, ricevute diverse segnalazioni dall’Afghanistan, dalla Siria e dall’Iran, si è recata in Calabria per dare supporto ai familiari in arrivo e monitorare quanto accade. *** In queste ore le operazioni di ricerca e recupero delle salme in mare stanno proseguendo. La comunicazione delle istituzioni su queste operazioni è stata fin da subito carente e in alcuni casi fuorviante: le informazioni fornite sono state dosate in brevi comunicati che spesso sono risultati incompleti e incoerenti. C’è scarsa trasparenza sui numeri e sugli spostamenti delle salme delle vittime. Il blocco del lavoro dei giornalisti ha impedito di documentare correttamente e tempestivamente gli arrivi delle salme, giunte sempre in piena notte e distribuite su diversi porti della regione Calabria, tra cui Roccella Ionica e Gioia Tauro. Gli ultimi 5 corpi sono arrivati a Crotone la notte del 24 giugno, in un posto blindato e chiuso ai giornalisti. I corpi delle salme dovrebbero essere stati collocati nelle camere mortuarie di diversi ospedali calabresi, tra questi sappiamo esserci Locri, Polistena, Soverato, Siderno, Gioia Tauro, Reggio Calabria. Tuttavia, anche su questo, le informazioni fornite dalle autorità non sono state chiare e ulteriori camere mortuarie di altri ospedali potrebbero essere state utilizzate con questo scopo. Le procedure attivate nei giorni immediatamente successivi al naufragio hanno riguardato, in mare, le manovre per il recupero dei corpi da parte della Guardia Costiera; in terra, l’apertura di un punto informativo nel Porto delle Grazie di Roccella Ionica dove i familiari potessero recarsi per ricercare o identificare i propri parenti. Tale punto informativo dovrebbe restare attivo e operativo fino alla fine del mese di giugno. Sono stati attivati dei canali di comunicazione telefonica e mail dedicati alle famiglie alla ricerca, gestiti dalla Prefettura di Reggio Calabria e dal progetto Restoring family links della Croce Rossa. Le persone sopravvissute Le persone sopravvissute - curdo irachene, curdo iraniane, siriane - sono state destinate a ricoveri prolungati in diversi ospedali del territorio regionale, in attesa di individuare una struttura di accoglienza che eviti il passaggio in luoghi non idonei (come è stato per il naufragio di Cutro quando i sopravvissuti furono collocati all’interno delle strutture fatiscenti del Cara di Isola Capo Rizzuto). Tra i sopravvissuti c’è Nalina, la bambina di 10 anni irachena che ha perso tutta la sua famiglia nel naufragio. Nalina si è ricongiunta con la zia materna, proveniente dalla Svezia insieme al marito. Tra gli altri sopravvissuti noti ci sono anche Ismail, siriano di 22 anni e Wafa, curdo di 20 anni. Identificazione dei corpi All’interno del punto informativo al porto, oltre ai rappresentanti della Prefettura di Reggio Calabria e della Polizia scientifica, stanno lavorando le operatrici di Croce Rossa Italiana, Medici Senza Frontiere e Save The Children che offrono supporto ai sopravvissuti e ai loro congiunti. Dopo alcuni giorni dal naufragio è stato attivato anche il servizio Restoring Family Links della Croce Rossa il cui team è impegnato nella raccolta dati utile all’identificazione dei corpi. Da quanto riportato, fin dall’inizio un campione del Dna è stato prelevato da tutte le salme recuperate, quasi tutte in avanzato stato di decomposizione. Successivamente è stato autorizzato anche il prelievo di un campione del Dna dei parenti consanguinei giunti a Roccella. Questa pratica, che sappiamo non essere mai scontata né automatica, è molto importante per garantire un’effettiva identificazione anche a distanza di tempo, per corpi che non sono più riconoscibili visivamente. Bisognerebbe garantire ai familiari che si trovano nei Paesi di origine e sono impossibilitati a recarsi in Italia di effettuare il prelievo e l’invio in Italia del Dna utile alla comparazione con quello delle vittime. *** Al momento di tutti i corpi recuperati solo una salma è stata identificata: quella di Akbari Sobhanullah, afghano di 29 anni. Delle operazioni di rimpatrio della salma non si farà carico lo Stato italiano e neanche quello del Paese di origine. La famiglia accorsa a Roccella, due cugini e uno zio della vittima, stanno in queste ore attendendo il rilascio del certificato di morte e delle autorizzazioni necessarie allo spostamento della salma, documenti richiesti insistentemente dalla famiglia che deve ripartire. Come sempre accade, è lasciato alle famiglie e alla società civile che le sostiene l’onere di dover gestire e pagare i costi per il ritorno a casa dei parenti morti mentre attraversavano i confini degli Stati europei. *** In questi giorni, mentre camminiamo sulla spiaggia adiacente al porto dove la prima vittima è stata depositata, riflettiamo sull’assenza di qualunque segno materiale di quella strage. Non ci sono resti dell’imbarcazione - ancora inabissata in alto mare - non sono visibili oggetti dei sopravvissuti o delle vittime, non ci sono messaggi di solidarietà. A malapena ci sono notizie di stampa che raccontano le mere vicende attorno alle morti. Il naufragio del 17 giugno, al contrario di Cutro, è stato completamente ignorato. Nessuna camera mortuaria con file di bare ha occupato la televisione pubblica, nessun cordoglio delle istituzioni, nessun commento delle cariche di governo e dello Stato. Da un punto di vista mediatico, dove non si sono potuti vedere i corpi, le bare, il dolore straziante, la narrazione si è ritratta lasciando un grande vuoto. A Roccella Ionica si nota il tentativo di frammentare: i sopravvissuti in diversi reparti di ospedali, i corpi distribuiti in diversi obitori di tutta la regione. I familiari, sono stati disorientati dall’assenza di informazioni certe: in queste ore stanno giungendo a Roccella da varie parti d’Europa per riconoscere i propri congiunti e, nel disbrigo delle procedure frammentate a cui sono costretti, devono spostarsi continuamente tra i diversi luoghi individuati dalla Prefettura di Reggio Calabria per le procedure di riconoscimento, identificazione e rimpatrio: porto, camera mortuaria, ospedali, comuni, luoghi di alloggio e di ristoro distribuiti in più province. Con la dispersione di corpi e famiglie su tutta la regione, è stata evitata l’incontro e la coesione tra i familiari e la costruzione di un luogo unico di ritrovo collettivo, di condivisione e di preghiera come è stato il Palamilone di Crotone, dove la sala sportiva aveva avuto funzione non solo di camera mortuaria per le 94 vittime, ma anche di luogo strategico per famiglie e società civile di riconoscimento reciproco, di condivisione, di rivendicazione di diritti, di memoria collettiva. Invece, a Roccella Jonica la strategia della dispersione esprime la volontà di affermare una gestione dell’evento, della morte e dei corpi che eviti il piano pubblico: impedire la circolazione di notizie ufficiali, la visibilità mediatica e politica del naufragio e limitare la diffusione delle parole dei familiari sembra essere la direzione che la Prefettura e le istituzioni da cui essa dipende hanno assunto. Questa strategia non è nuova: certamente è costante il tentativo di ostacolare la denuncia delle necropolitiche che caratterizzano il regime di frontiera. Come monitoriamo in Sicilia, in Sardegna, in Tunisia, nei piccoli naufragi che non fanno notizia e che vengono chiamati “minori”, nelle morti nei centri di detenzione o lungo le frontiere interne dell’Ue, si tende a nascondere voci, lotte, storie e memorie, anche attraverso l’impedimento di quegli incontri fisici tra persone, associazioni, territori, comunità. *** Nonostante questo silenzio assordante, la sera del 22 giugno una cerimonia interreligiosa organizzata dalla Chiesa locale ha attraversato il lungomare di Roccella Ionica fino a raggiungere il porto. Centinaia di cittadini calabresi e diversi familiari delle persone decedute o scomparse nel naufragio hanno marciato con delle candele in mano fino al luogo di primo approdo dei corpi. Qui si è consumato l’unico atto pubblico attorno alla strage, tra preghiere di diversi credi religiosi, parole di cordoglio e di denuncia dei sindaci locali, deposizione di fiori da parte dei volontari della Croce rossa locale. Il timore fondato è che l’attenzione su queste morti e su questi eventi cali rapidamente grazie all’occultamento politico e alla mancanza di una presa di posizione e di una mobilitazione pubblica. Il silenzio più preoccupante non è quello delle istituzioni, su cui si fonda la gestione migratoria di questi eventi, percepiti e raccontati come fatti di cronaca: bensì quello dell’opinione pubblica sempre più abituata alla morte per mano delle frontiere. Oltre i minuti di silenzio, bisogna continuare a stare su tutte le frontiere interne ed esterne, a fare rumore, a indagare le dinamiche di queste morti, a ribadire le responsabilità dietro queste stragi, i ruoli delle guardie costiere e delle polizie di frontiera, gli accordi europei con i Paesi terzi. Soprattutto, bisogna continuare a sostenere e diffondere le parole e le azioni delle persone protagoniste di queste violenze, coloro che reclamano verità e giustizia, i sopravvissuti e le famiglie che ricordano le vittime delle frontiere, le storie che rappresentano, le rivendicazioni che incarnano, sfidando i confini e le violazioni degli stati. I familiari di Akbari Sobhanullah - unico viaggiatore della barca ad oggi identificato - hanno chiesto più volte aiuto nelle procedure di rimpatrio: “vogliamo riportare a casa il corpo, è nostro diritto, questa morte è un dolore straziante per tutta la famiglia, vogliamo almeno riportarlo a casa dove lo reclamano le persone che lo amano, la sua famiglia. Aiutateci a far sì che il corpo di Sobhanullah torni a casa”. Anche diversi familiari di vittime della strage di Cutro, che hanno appreso della sorte di molti dei loro connazionali nel naufragio del 17 giugno scorso, hanno mandato messaggi di solidarietà e vicinanza ai parenti afghani, iraniani, curdi che - come loro stessi un anno fa - sono alla ricerca di verità e giustizia. Tra questi messaggi, ci sono le parole di Shahid Khan, pakistano, che ha perso nel naufragio di Cutro suo fratello Rahim Ullah Khan e che nella sua testimonianza inviataci dal Pakistan ha dichiarato: “non è la prima volta che un’imbarcazione che trasportava migranti affonda in mare. Conosco personalmente la condizione delle famiglie delle vittime, perché quel periodo è duro e insopportabile per loro. Chiedo ai membri della famiglia della vittima di sopportare questo momento difficile e di pregare per i vostri cari, perché loro non possono tornare da noi ma un giorno lasceremo questo mondo (…) vorrei dire al governo italiano che la migrazione irregolare nel vostro Paese è un problema internazionale. Per salvare l’umanità e il mondo, il governo dovrebbe rilasciare dei visti legali per i diversi Paesi (..)”. Non possiamo che condividere le parole della famiglia Akbari, di Shahid e delle madri, sorelle, fratelli e padri delle vittime del regime di frontiere. In particolare, alla luce dei problemi riscontrati nell’accesso alle informazioni e sulla base delle mancanze sistemiche che sono state monitorate in questi anni rispetto alla gestione delle morti e delle scomparse delle persone migranti e straniere, le associazioni Mem.Med Memoria Mediterranea e l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione hanno provveduto a inviare una comunicazione ufficiale alle autorità competenti regionali e nazionali raccomandando di porre attenzione ad una serie di questioni rilevanti regolamentate da normative nazionali e internazionali. In particolare si sollecita che: continuino le operazioni di ricerca in mare per il recupero dei corpi; che si continui a prelevare il Dna sia dalla salme che dai familiari, unitamente alla raccolta dei dati ente e post mortem utili all’identificazione delle salme; che sia garantita la possibilità, anche posteriormente, di identificare i corpi e di seppellirli secondo la volontà e il credo espresso dalle famiglie; che la sepoltura sia tracciabile e disposta con assoluta certezza del luogo; che sia agevolata ogni procedura necessaria al trasferimento dei corpi nei paesi di origine; -che le famiglie possano essere informate debitamente e tempestivamente riguardo alle procedure in corso per il recupero di corpi, riguardo al luogo di conservazione delle salme, riguardo ai risultati della comparazione del Dna, riguardo alle procedure relative alla tumulazione e al rimpatrio; - che venga garantita adeguata accoglienza alle persone sopravvissute e ai familiari che in queste ore si stanno recando a Roccella Jonica. “Prima le donne e i bambini”. Ma non in guerra di Nicoletta Dentico Altreconomia, 1 luglio 2024 Il netto peggioramento della violenza organizzata in molte aree del mondo ha preso di mira nel 2023 soprattutto l’infanzia. Da Gaza a Khartum. Quando incombe una situazione di pericolo e occorre mettersi in salvo, la consuetudine vuole che sia lanciato l’urlo “prima le donne e i bambini”. La pedagogista e scrittrice Elena Gianini Belotti attribuiva questo scatto quasi istintivo al fatto che i bambini sono la nuova vita e le donne le riproduttrici della vita stessa. Antichi codici di un comportamento che stila selettivi criteri di priorità tra gli umani funzionano indiscussi nelle circostanze dell’emergenza. Ma non trovano applicazione negli scenari di guerra, quando le priorità si fanno distorte e disumane, quando le popolazioni civili diventano senza volerlo bersagli d’elezione, e le vittime innocenti -donne, ma soprattutto bambini e bambine- si ritrovano esposte, private di ogni rispetto consuetudinario. A Sarajevo, Grozny, Ghouta, Mariupol, Gaza, l’urlo non si è mai sentito, perché non viene lanciato quando l’umanità è alle prese con il mestiere delle armi. Le violenze contro i bambini legate ai conflitti armati hanno raggiunto “livelli estremi” nel 2023, soprattutto nella Striscia di Gaza e in Sudan, sostiene un recente rapporto delle Nazioni Unite che ha inserito gli eserciti d’Israele e del Sudan nella lista nera. I bambini sono reclutati da gruppi armati ed esposti al rischio della radicalizzazione. Sono imprigionati per farne dei collaborazionisti, in un gioco sulla paura infantile che riempie le carceri israeliane di ostaggi palestinesi: “le sfide quotidiane che un bambino palestinese deve affrontare sotto l’occupazione, in una complessa rete di difficoltà e ingiustizie, possono sembrare insormontabili e sono profondamente traumatiche. Soprattutto nel contrasto inquietante con i vicini privilegiati che li hanno espropriati e che non perdono occasione per abusare di loro e umiliarli”, scrive la Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, nel suo libro “J’accuse”. Sono 400 milioni i bambini e le bambine (uno su cinque) che nel mondo hanno vissuto o sono fuggiti da zone di conflitto nel 2023. Oltre 30.700 episodi gravi di violenza hanno segnato l’anno passato: tra questi, 5.301 omicidi, 6.348 ferimenti, 8.655 reclutamenti forzati, 5.205 negazioni dell’accesso umanitario e 4.356 rapimenti (Fonte: Nazioni Unite, giugno 2024) Bambine e bambini sono sistematicamente uccisi, feriti, mutilati, rapiti. A loro è negato l’accesso agli aiuti umanitari. E poi c’è la conta dei morti, visto che sono presi di mira dai belligeranti: 13mila bambini uccisi in Siria in dodici anni di conflitto, quasi duemila in Ucraina dall’inizio dell’invasione russa, mentre il conflitto tra Israele e Hamas ha portato a un aumento senza precedenti delle uccisioni. Dal 7 ottobre a oggi sono stati uccisi più bambini a Gaza che in tutti i conflitti avvenuti nel mondo negli ultimi quattro anni. “Questa guerra è una guerra contro i bambini, la loro infanzia e il loro futuro”, ha dichiarato il Commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi in Palestina nel vicino Oriente (Unrwa), Philippe Lazzarini. I meccanismi tramite cui la guerra influenza la mortalità infantile sono molteplici, legati ovviamente alla salute materna compromessa duramente nel conflitto, ma anche alle migrazioni forzate che rendono bambini e bambine più vulnerabili. Spesso l’eccesso di mortalità infantile è causato dalla fame -con fenomeni di arresto della crescita- e soprattutto da malattie concomitanti come la febbre tifoide e il colera, alle quali si associa spesso l’insorgere di malattie infettive, visto che la guerra costringe le persone a vivere in condizioni di affollamento. Per chi non muore, l’impatto psicologico della guerra è semplicemente devastante e in larga misura per nulla considerato. “La parola negoziare è coraggiosa”, ha detto papa Francesco. Serve a salvare i bambini. Il futuro del mondo. Julian Assange è libero e il prezzo è la libertà di stampa di Loretta Napoleoni Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2024 Julian Assange è libero e il prezzo è la libertà di stampa. Assange ha ammesso di aver commesso un reato inesistente e assurdo, spionaggio giornalistico? Lo ha fatto per tornare libero e certamente non lo si può giudicare negativamente per questo. Ma il precedente creatosi, l’ammissione da parte di un giornalista di aver infranto la legge per rendere pubblici fatti realmente accaduti, è un fatto gravissimo, che potenzialmente mette a repentaglio quei pochi veri giornalisti investigativi rimasti, gente che rischia la vita tutti i giorni per la verità. Abilissimi gli avvocati che hanno trovato la soluzione ad un problema per anni irrisolvibile, abilissimi anche i negoziatori australiani, guidati dal primo ministro Antony Albanese, che hanno capito che era arrivato il momento giusto per convincere l’amministrazione Biden a trattare, abili anche i pubblici ministeri che con questa formula hanno cucito la bocca a future fughe di notizie ‘scomode’. Chi esce vincitore da questa battaglia non è però l’Assange di Wikileaks ma Julian Assange l’uomo, intrappolato per anni in una rete internazionale tessuta dalle grandi potenze occidentali. Vincitori sono anche tutti coloro che vogliono mettere il bavaglio alla stampa vera, quella che ci racconta la verità. E perdenti siamo tutti noi perché l’ammissione di reato di Assange ci allontana ancora di più dalla realtà e ci avvicina a quel mondo di illusioni che i politici abilmente ci costruiscono intorno. Un giorno felice quello della scarcerazione per Assange e triste per la libertà di stampa, insomma. Giorgia Meloni, che con i giornalisti neppure ci parla, se ne sarà rallegrata. Giorno tristissimo anche per i Cypherpunk, il gruppo di matematici, hacker, programmatori di computer e attivisti di cui Assange faceva parte con lo pseudonimo Proff. Nato negli anni Novanta nella Bay Area, il gruppo si costituì per proteggere nel web gli individui dallo stato, il cui scopo era spiarli. A tal fine i Cypherpunk dedicarono gran parte del loro tempo allo sviluppo di un codice crittografico indistruttibile. Nel 1976, due matematici di Stanford, Whitfield Diffie e Martin Hellman, lo avevano inventato, si chiamava “crittografia a chiave pubblica”, ma Washington era intervenuta per bloccarne la divulgazione. Prima che Diffie e Hellman potessero pubblicarlo, la National Security Agency (NSA) li aveva messi in guardia che farlo avrebbe costituito un reato federale. Con l’Arms Export Control Act del 1976, infatti, il Congresso aveva de facto messo al bando la distribuzione e l’esportazione di armi verso altri paesi senza licenza, e la crittografia era stata classificata come “arma strategica”. La pena per la violazione era fino a dieci anni di carcere o una multa fino a 1 milione di dollari. L’Arms Export Control Act segna l’inizio delle “guerre crittografiche” negli Stati Uniti: la battaglia legale e di pubbliche relazioni combattuta tra la comunità dell’intelligence e gli attivisti della privacy informatica, compresi i Cypherpunk. Il campo di battaglia era il diritto dei cittadini a utilizzare la crittografia per scopi personali, ovvero a rimanere anonimi online. Fino all’inizio degli anni 90, la crittografia a chiave pubblica rimase dominio esclusivo del governo degli Stati Uniti, che ha costruito una serie di legislazioni attorno ad essa per garantire alle istituzioni governative l’accesso alla privacy crittografica dei cittadini. All’inizio del 1991, il Senato degli Stati Uniti introdusse una legge che obbligava i fornitori di servizi di comunicazione elettronica a consegnare i dati personali degli utenti alle autorità statali. L’approvazione della legge fu promossa dall’allora senatore Joe Biden, oggi presidente degli Stati Uniti. Nel 1993, il governo degli Stati Uniti ha introdotto il “Clipper chip”, un sistema di crittografia standard per Internet, le cui tutte chiavi sono detenute dalla National Security Agency. Negli anni Novanta, la risposta dei Cypherpunk è stata creare e pubblicizzare un sistema crittografico a chiave pubblica. Lo fece l’attivista antinucleare e programmatore di computer Phil Zimmermann. Zimmermann è l’inventore del software Pretty Good Privacy, meglio conosciuto come PGP, che rese accessibile a tutti online e gratuitamente. Da quel momento in poi è diventato possibile per due individui comunicare senza alcun rischio che i loro messaggi venissero intercettati e decifrati da qualcun altro. PGP ha aperto le porte al futuro dell’e-commerce ed è stato il nonno delle criptovalute e di Wikileaks. Gettò anche le basi del dark web, uno sviluppo che Zimmermann non aveva previsto e che anni dopo lo portò a pentirsi di averlo divulgato. L’ammissione di reato di Assange è l’ultima sconfitta subita dai difensori delle libertà individuali online e la prigionia di Assange è l’ultima battaglia delle guerre crittografiche. Una sconfitta che rende più debole la protezione del sistema crittografico a chiave pubblica online, una sconfitta anche per la libertà dell’individuo dentro e fuori del web. La resistenza climatica passa dai tribunali: 230 azioni legali contro le aziende di Ferdinando Cotugno Il Domani, 1 luglio 2024 Dal 2015 sono state avviate 230 azioni legali contro aziende del settore fossile, e i due terzi di queste sono partite negli ultimi quattro anni. La notizia di azione per il clima più importante della settimana ce l’hanno portata tredici minorenni (il più piccolo ha nove anni) delle isole Hawaii, quasi tutti indigeni, e arriva ancora una volta dalle aule di tribunale. Anzi, in questa occasione il caso non è nemmeno arrivato in tribunale. Lo stato americano, visti anche i precedenti legali sfavorevoli, ha scelto di dare ragione ai giovani senza nemmeno arrivare a processo. La causa è stata coordinata dalla ong Our Children’s Trust (di cui sentiremo ancora parlare, visto che di recente hanno vinto un altro caso simile in Montana) e ha costretto le Hawaii a trasformare la sua generica agenda climatica sui trasporti in un piano dai tempi precisi, eseguibile e soprattutto vincolante. Sono due gli aspetti interessanti del caso. Il primo è che le Hawaii sono considerate uno degli stati americani più attenti al clima, ma la loro agenda di transizione a lungo termine era ancora vaga e non vincolante, prima di questo accordo stragiudiziale. La strategia dell’attivismo è questa ora: mettere pressione anche alle amministrazioni più ecologiste, il ruolo dei movimenti è alzare l’asticella sempre e comunque. Il secondo aspetto degno di nota è che questo era un contenzioso climatico “settoriale”, rivolto soltanto ai trasporti e al relativo dipartimento dello stato delle Hawaii. Uno dei punti cruciali era l’espansione della rete autostradale, che a questo punto viene seriamente messa in discussione. L’accordo copre tutti i mezzi interni allo stato (mare, terra e aria) e vincola legalmente le Hawaii alle zero emissioni nei trasporti entro il 2045, dirottando gli investimenti verso trasporti pubblici e l’elettrificazione. Come ha spiegato Denise E. Antolini della University of Hawaii, una delle massime esperte di questo tipo di processi al mondo, “questo accordo è una cosa enorme, fa tutta la differenza del mondo, quella che c’è tra una promessa e la realizzazione di un piano”. Tutto questo accade in uno degli stati americani simbolo della crisi climatica: un anno fa gli incontrollabili incendi a Maui hanno fatto più di cento vittime e cinque miliardi di dollari di danni. Lo studio - Questa settimana è uscito anche un nuovo studio della London School of Economics sulla lotta ai cambiamenti climatici che passa dai tribunali. È una fotografia interessante di uno strumento che continua ad affilarsi. In sintesi: stanno aumentando le cause contro le aziende (quando per anni sono state principalmente portate avanti contro gli stati e i governi), stanno aumentando le cause che potremmo definire “controclimatiche”, delle aziende contro le ong, e stanno aumentando le cause nel Sud globale. Dal 2015 sono state avviate 230 azioni legali contro aziende del settore fossile, e i due terzi di queste sono partite negli ultimi quattro anni. Incremento notevole. Escludendo gli Stati Uniti, quattro cause climatiche su dieci aperte nel mondo sono contro il settore privato, tra queste c’è quella di Greenpeace e ReCommon contro l’italiana Eni, che la settimana scorsa si è fermata per volere delle ong in attesa di un parere della Cassazione. È un segnale generale importante: la società civile ha registrato qual è il nodo di resistenza principale a una transizione veloce e giusta, i consigli di amministrazione delle aziende. Solo nel 2023 nel mondo sono partite 47 nuove cause contro il greenwashing. Sono 30 invece quelle che si ispirano al principio: chi inquina paga, con gigantesche richieste di risarcimento per danni climatici (in questo caso quella di più alto profilo è della California contro sei gruppi petroliferi che hanno operato nello Stato). “Sono il settore in più rapida espansione”, si legge nel rapporto. Cittadini contro il business fossile: oggi è questo il fronte più promettente della lotta contro i cambiamenti climatici. E funziona. Più della metà delle cause per greenwashing arrivate in giudizio (54 su 77) tra il 2016 e il 2023 è stata vinta. E poi c’è la controreazione: 50 cause contro le politiche ambientali e gli obblighi di incorporazione del rischio climatico nel processo decisionale, oppure azioni strategiche contro la partecipazione pubblica. Infine, sono in crescita quelle nei paesi del Sud globale: oggi sono 200 su 2.666, l’8 per cento del totale. Ucraina. Detenuti scarcerati se accettano di andare al fronte La Repubblica, 1 luglio 2024 Le forze armate, per supplire alla carenza di soldati, hanno iniziato ad arruolare i carcerati. Già tremila i casi. L’Ucraina sta espandendo la leva per far fronte alle gravi carenze sul campo di battaglia da più di due anni nella lotta contro l’invasione su vasta scala della Russia. E i suoi sforzi di reclutamento si sono rivolti, per la prima volta, alla popolazione carceraria del Paese. Una misura speculare a quella presa già da tempo in Russia, dove la liberazione in cambio dell’arruolamento nelle forze armate è ormai prassi da quasi due anni. Anche se l’Ucraina non annuncia alcun dettaglio sul numero delle truppe schierate o sulle vittime, i comandanti in prima linea riconoscono apertamente di trovarsi ad affrontare seri problemi di manodopera mentre la Russia continua ad accumulare forze nell’Ucraina orientale e a ottenere guadagni incrementali verso ovest. Più di 3.000 prigionieri sono già stati rilasciati sulla parola e assegnati a unità militari dopo che tale reclutamento è stato approvato dal parlamento in un controverso disegno di legge sulla mobilitazione il mese scorso, ha detto all’Associated Press il viceministro della Giustizia ucraino Olena Vysotska.