“Il carcere italiano è al collasso. Siamo in piena emergenza umanitaria” di Simone Alliva L’Espresso, 19 luglio 2024 La denuncia dei Garanti contro le misure “ordine e disciplina” del governo Meloni che peggiorano problemi cronici come il sovraffollamento. Intanto il numero di suicidi negli istituti di pena sale a 57 tra i reclusi. A cui si aggiungono sei guardie penitenziarie. “Il carcere è al collasso. Siamo in piena emergenza umanitaria, sia sulle problematiche carcerarie degli adulti sia sul tema della giustizia minorile”. L’allarme arriva dal portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale e Garante Campano Samuele Ciambriello nella giornata di mobilitazione promossa da tutti i Garanti per affrontare le diverse problematiche del sistema carcerario. Se ne parla “in un acceso dibattito politico e sociale ma sul quale la politica, purtroppo non dà risposte concrete”. In uno sforzo di sintesi e di chiarezza i garanti elencano: oltre i suicidi anche le forme di autolesionismo, la mancanza di figure sociali, di ascolto come psicologi, assistenti sociali, psichiatri, mediatori linguistici. Ricordano che sono “trascorsi ormai quattro mesi dall’appello ‘Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti’ con cui il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, invitava la classe politica del nostro Paese ad adottare, con urgenza, misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiani”. Ma il decreto-legge sul carcere, del 4 luglio 2024, per la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale è “una vera e propria scatola vuota, non in grado di porre un argine immediato alle drammatiche condizioni in cui versano gli Istituti di pena italiani. Preoccupante è l’indice di sovraffollamento che, ad oggi, è arrivato ad essere pari al 130%. Ci sono 7.027 persone detenute che devono scontare meno di un anno di carcere. Dati allarmanti, conseguenti anche a scelte di politica penale che, in un’ottica puramente repressiva e securitaria, hanno portato all’introduzione di nuove fattispecie di reato, all’innalzamento della durata di pene detentive per alcune fattispecie di reato, all’inasprimento dell’applicazione di misure cautelari, anche per reati di lieve entità”. Il Governo continua una politica tutta ordine e disciplina, sottolineano i garanti, con conseguenze catastrofiche: “L’assunzione di 1.000 unità della Polizia penitenziaria, a discapito delle esigenze dell’area educativa o del trattamento e/o dell’Uepe; modifiche all’Istituto della Liberazione anticipata. Ciò rappresenta solo apparentemente una semplificazione, che potrebbe portare a contenere ritardi nella decisione in merito al calcolo dei semestri via via maturati. Il lavoro del magistrato di sorveglianza diventerà più impegnativo, in quanto si prevede che rimane ferma la sua competenza nell’accertare la sussistenza dei presupposti per la concessione della liberazione anticipata in occasione di ogni istanza di accesso alle misure alternative alla detenzione o ad altri benefici analoghi”. Ci sarebbe delle possibilità di manovra, uscire da un modello che faccia respirare quelle carceri che oggi sono una polveriera: “Ci auguriamo che il Parlamento inserisca un emendamento sulla liberazione anticipata speciale; l’aumento delle telefonate da 4 a 6. L’aumento dei colloqui telefonici rappresenterebbe l’unica misura apprezzabile di questo provvedimento normativo, tuttavia la norma, che prevede l’aumento delle telefonate, non è immediatamente operativa”. Se non bastano gli allarmi, restano i numeri a fotografare “la sostanziale indifferenza della politica”. Eccoli: 57 quest’anno le persone suicide di cui una all’interno del Cpr di Ponte Galeria, a cui è doveroso aggiungere il numero dei 6 agenti di polizia penitenziaria che, nello stesso arco di tempo, pure hanno deciso di togliersi la vita. E ancora: “I casi di autolesionismo e il dilagare di fenomeni di violenza e di tortura che si consumano nelle carceri italiani, come testimoniato anche dalle recenti indagini giudiziarie riguardanti i fatti consumati nel carcere di Reggio Emilia o, ancor più drammaticamente, l’inchiesta sulle violenze in danno di minori, reclusi presso l’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano. Il 64% delle persone che si sono tolte la vita negli ultimi due anni aveva commesso reati contro il patrimonio; il 60% dei suicidi si è verificato nei primi sei mesi di detenzione; il 40% di suicidi si è consumato oltre i primi sei mesi, con una percentuale elevata nell’ultimo periodo di detenzione e l’interessamento di molti detenuti senza fissa dimora. Il circuito più interessato dai suicidi è, non a caso, quello di ‘media sicurezza’. Le persone con patologie psichiatriche che si sono tolte la vita sono meno del 10%”. Il sovraffollamento, ad oggi, è arrivato a essere pari al 130%. I detenuti sono 61.480 a fronte di una capienza effettiva di 47.300 posti. “Se si analizzano i dati per singoli contesti regionali, si evince poi che ci sono contesti in cui tale indice è nettamente superiore al 150% (Puglia 169,7%; Basilicata 160,2%; Lombardia 153,5%; Veneto 152,3%)”. Sconfortanti sono anche i dati ricavabili da un’analisi, non solo quantitativa, ma qualitativa della popolazione detentiva italiana: 41.529 sono le persone che stanno scontando una pena definitiva; 7.027 sono le persone che devono scontare meno di un anno di carcere; 21.075 sono infine le persone che stanno scontando un residuo di pena da 0 a 3 anni; 19.951 sono le persone la cui condanna non è ancora definitiva, di cui circa 9.500 sono in attesa di primo giudizio. Numeri di una visione “puramente repressiva e securitaria” con l’introduzione di nuove fattispecie di reato, l’innalzamento della durata di pene detentive per alcuni reati e l’inasprimento dell’applicazione di misure cautelari. Il Decreto Caivano ha poi determinato un ulteriore sovraffollamento degli Istituti minorili e fatto registrare una più cospicua presenza negli Istituti di pena per adulti dei giovani-adulti. Il riferimento va anche al ddl recante ‘Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento’ presentato alla Camera il 22 gennaio 2024, con cui si intende introdurre la nuova fattispecie di reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, con cui si intende punire anche la resistenza passiva all’esecuzione degli ordini impartiti commessa da tre (o più) persone, prevedendo, come sanzione, una pena sproporzionatamente elevata (da 3 a 8 anni di reclusione). Una disposizione analoga, è proposta anche per le proteste che dovessero scoppiare all’interno delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti. Per i Garanti sarebbe doveroso agire subito su “misure immediatamente deflattive del sovraffollamento, e facilmente applicabili, partendo dall’unica posposta, al vaglio della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, presentata dall’on. Roberto Giacchetti, quale primo firmatario (AC 552), con cui si intende introdurre l’istituto della liberazione anticipata speciale”, riconoscendo al detenuto 60 giorni (al posto degli attuali 45) per ogni semestre di buona condotta. Tale misura potrebbe addirittura rappresentare un concreto incentivo per i detenuti a comportarsi sempre meglio e ad allentare le tensioni tangibili nella quotidianità della vita carceraria. Una misura questa, ammettono i Garanti, che da sola non basterà a migliorare la vivibilità nelle carceri perché è “necessario superare concretamente la visione carcero-centrica del sistema di esecuzione penale e far sì che la detenzione in carcere sia davvero una extrema ratio, rendendo più snello e veloce il procedimento volto a garantire l’accesso alle misure alternative ai detenuti che, tra quei circa 30 mila che stanno scontando una pena o un residuo di pena inferiore ai tre anni, si trovano nelle condizioni di potervi accedere”. Bisognerà comunque, se si vuole il carcere un luogo di riscatto, rieducazione e speranza, favorire il lavoro intramurario; investire in importanti opere di ristrutturazione degli Istituti penitenziari per migliorare le condizioni di abitabilità e igienico-sanitarie degli stessi ambienti; assumere più personale esperto nel prevenire e gestire il disagio psicologico troppo diffuso in carcere. Infine, è necessario dare seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024, per fare in modo di favorire l’esercizio dell’inviolabile diritto all’affettività in carcere”. Sia il Parlamento a trovare il coraggio di andare oltre il decreto carcere di Paola Balducci Il Dubbio, 19 luglio 2024 Aumento del personale di polizia penitenziaria, creazione di un albo delle strutture residenziali di accoglienza e semplificazione delle procedure per la concessione dei benefici penitenziari: sono queste, in estrema sintesi, le novità del decreto legge n. 92/ 2024 in materia carceraria, approvato recentemente dal Consiglio dei ministri e ora all’esame dei due rami del Parlamento per la conversione in legge. Sulla spinta della situazione di grave sovraffollamento che affligge le carceri nazionali, l’Esecutivo ha preferito fare ricorso allo strumento legislativo più veloce anziché procedere alla tanto auspicata riforma organica del sistema penitenziario. Pur condividendo le ragioni di tale scelta deve tuttavia ammettersi che nessuna delle misure previste dal decreto legge può definirsi “svuotacarceri”. Del resto, i promotori della riforma hanno messo ben in guardia sulle motivazioni che hanno spinto alla sua approvazione: nessuno sconto di pena, nessun tentativo di “aggirare” la funzione, afflittiva e rieducativa, della pena. Si tratta, infatti, di misure per lo più volte a snellire le procedure dell’esecuzione penale e quelle poche novità che potrebbero astrattamente incidere positivamente sul numero delle presenze in carcere, non sono di immediata applicazione. Come dire: si apprezza lo sforzo ma meno il risultato! È possibile evidenziare una nota sicuramente positiva del decreto: la presa di coscienza che il carcere non sia l’unico luogo in cui scontare la pena. Il provvedimento ha previsto infatti l’istituzione di un albo contenente un elenco di strutture accreditate che potranno accogliere alcune tipologie di reclusi: ad esempio, coloro con un prossimo fine pena, i tossicodipendenti e i condannati per alcuni particolari reati. L’assenza di un domicilio idoneo al fine di poter fruire delle misure alternative si presenta da sempre come il grande ostacolo alla possibilità di eseguire la pena in modalità alternative a quelle detentive, “costringendo” tutti quei detenuti che potrebbero scontare la pena all’esterno - sia in vista del percorso rieducativo che per condizioni di incompatibilità con la detenzione inframuraria - a rimanere in cella, contribuendo ad aumentare il tasso del sovraffollamento carcerario. Tuttavia, come anticipavo, l’operatività di tale novità viene differita nel tempo al fine di emanare un regolamento che contenga la disciplina relativa alla formazione e alla tenuta dell’elenco, e pertanto nessun vantaggio si potrà avere nell’immediatezza. Altre novità riguardano specificamente le procedure dell’esecuzione penale. Il decreto, per quanto concerne la concessione delle misure alternative per le pene detentive brevi inferiori ai diciotto mesi, prevede che esse potranno essere decise non più unicamente in via provvisoria, ma anche definitiva, dal magistrato di sorveglianza, non demandando quindi la decisione finale all’organo collegiale. Anche dal punto di vista della liberazione anticipata, non si è venuti incontro alle richieste di aumentare il numero di giorni da detrarre per ciascun semestre di pena espiata ma si è tentato di velocizzare la procedura per la concessione della misura che attualmente grava in maniera considerevole sulla magistratura di sorveglianza. La riforma prevede che sia lo stesso pubblico ministero ad effettuare in via astratta il calcolo delle detrazioni fruibili dal condannato già in sede di ordine di esecuzione. Una sorta di “avvertimento” al condannato, il quale, se terrà una condotta positiva di adesione al trattamento rieducativo potrà beneficiare della detrazione calcolata e indicata dalla Procura. Spetterà poi alla magistratura di sorveglianza verificare, al momento della fine della pena o in occasione della concessione di benefici penitenziari, la realizzazione effettiva dei presupposti di meritevolezza del beneficio. Anche in questo caso il giudizio sull’efficacia della misura introdotta dal Governo resta tutta da verificare nel lungo periodo. Con favore infine va accolta la disposizione che va ad aumentare il numero delle telefonate di cui possono fruire i detenuti, utile soprattutto a mitigare il senso di solitudine e di isolamento che si vive all’interno delle strutture carcerarie. Le strutture penitenziarie rimarranno invece invariate, contrariamente al personale in servizio al loro interno: sono previste infatti nuove assunzioni nella polizia penitenziaria e a livello dirigenziale, al fine di attuare un più efficiente collegamento gestionale all’interno delle carceri. In definitiva, pur nella prospettiva di umanizzazione della pena, rimane evidente come in una situazione penitenziaria oggettivamente sempre più tragica, costellata da 56 suicidi dall’inizio dell’anno, il sistema carcerario italiano abbia bisogno di riforme più incisive sulla dinamica inframuraria. Ancora una volta è stata dimostrata la contrarietà a provvedimenti emergenziali di clemenza come l’amnistia e l’indulto, da più parti invocate al fine di alleggerire la pressione sulle carceri. Tuttavia, sarebbe ancora possibile un atto di coraggio del Parlamento volto proprio a percorrere questa strada, al fine di ridare dignità e speranza a quanti si trovano in condizioni precarie e drammatiche negli istituti penitenziari, magari dopo essere stati condannati solo per reati minori o di scarsissimo allarme sociale. Un intervento diretto, necessario ad alleggerire la pressione del sovraffollamento in aggiunta al percorso di riforma iniziato con il recentissimo decreto. Non dunque un “liberi tutti”, come ha paventato il ministro Nordio, ma un provvedimento previsto dalla nostra Costituzione che guardi alla realtà carceraria come una realtà da stravolgere e supportare, per il tramite di riforme anche poco popolari. Bisogna permettere alla pena di svolgere la sua vera funzione: la rieducazione del condannato, il reinserimento sociale, non dimenticando inoltre come la nostra Costituzione affermi che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Sovraffollamento nelle carceri, perché Nordio è contrario all’emendamento Zanettin di Paolo Comi L’Unità, 19 luglio 2024 Il senatore di FI ha proposto di alzare da 6 mesi a 4 anni il residuo di pena per accedere alla semilibertà: un modo per alleggerire sul serio la pressione nelle prigioni. Apriti cielo! Allarmato dagli anatemi di Travaglio il Guardasigilli si è affrettato a dire che i suicidi non c’entrano nulla col sovraffollamento. Inevitabile il ritiro dell’emendamento. Un articolo del Fatto Quotidiano ha costretto ieri il governo ad una immediata retromarcia circa le soluzioni per risolvere il drammatico problema del sovraffollamento nelle carceri. Il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama, aveva presentato questa settimana un emendamento al dl “Carcere sicuro”, attualmente in fase di conversione, che andava a modificare l’articolo 50 dell’ordinamento penitenziario in tema di “semilibertà”. Al momento è consentito al detenuto, condannato con sentenza definitiva, di espiare la reclusione in regime di semilibertà se la pena non è superiore a sei mesi e se egli non è già affidato ai servizi sociali. L’emendamento, in particolare, alzava la soglia da sei mesi a quattro anni, aggiungendo che il conteggio si sarebbe applicato alla parte rimanente della pena a patto che il detenuto avesse già scontato almeno un terzo di essa oppure metà nei casi più gravi. La decisione sul punto sarebbe stata, come sempre, affidata al magistrato di sorveglianza. Una previsione di assoluto buon senso che avrebbe alleggerito significativamente la pressione nelle carceri in un periodo come questo dove durante il giorno si registrarono al loro interno temperature insopportabili. Va ricordato, inoltre, che dall’inizio dell’anno si sono suicidate in carcere cinquantasei persone. “Si tratta di un dato elevato rispetto allo stesso mese di luglio del 2023 in cui si registrarono trentasette (con un aumento di diciassette decessi) e 2022 in cui si registrarono trentasei suicidi”, ha affermato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, L’emendamento a firma Zanettin, che aveva avuto anche l’avallo del vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, anch’egli di Forza Italia, non aveva però fatto i conti con Marco Travaglio che ieri, come detto, ha dettato subito la linea titolando: “Tutti in semilibertà: FI vuole svuotare le carceri”. Immediata quindi la reazione del Guardasigilli Carlo Nordio che, dove aver esercitato una “moral suasion” sui forzisti, è intervenuto in Aula al Senato gettando acqua sul fuoco e affermando che “non esiste un rapporto causale diretto tra il problema dei suicidi in carcere e quello del sovraffollamento”. E a chi gli chiedeva allora che soluzione avesse pensato, il Guardasigilli ha tirato fuori dal cilindro la carta del commissario straordinario. Essendo sostanzialmente impossibile con le regole attuali realizzare in Italia qualsiasi opera pubblica, pena finire iscritti nel registro degli indagati o sotto la scure di Tar, Corte dei conti, anticorruzione e altre decine di organismi di controllo, ecco quindi il più classico degli ever green: il commissario straordinario con il compito, parole di Nordio, “di attuare in tempi brevissimi il piano nazionale di interventi per l’aumento dei posti detentivi e per la realizzazione di nuovi alloggi destinati al personale di polizia penitenziaria”. “Questo programma edilizio sarà imponente e sarà realizzato speditamente”, ha puntualizzato il Guardasigilli. L’ennesima struttura commissariale è stata subito stroncata dal Pd. “Il ministro dovrebbe applicare ciò che dice di aver scritto per anni nei suoi libri - ha commentato la senatrice Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd - perché sta facendo l’esatto contrario: qualche festa e qualche incontro di partito in meno, ma entri in carcere e veda le reali condizioni di vita e di lavoro in quei luoghi. Non è solo un problema di contenitore e di spazi - ha ricordato Serracchiani, rivolgendosi alla maggioranza presente in Aula - non si tratta solo di costruire nuove carceri per cui ci vorrà tempo, voi state disapplicando le riforme Cartabia, disincentivando le misure alternative, impedendo la giustizia riparativa”. Ad oggi, va sottolineato, il governo ha varato un decreto che non prevede nulla per il sovraffollamento, nulla sulla liberazione anticipata semplificandone solo la procedura che si rivelerà ancora più complicata e burocratica. Al termine del dibattito è comunque intervenuto lo stesso Zanettin: “Con i nostri emendamenti offriamo soluzioni chirurgiche che rientrano nell’istituto della semilibertà, della messa alla prova e della detenzione domiciliare, che escludono automatismi. Ci affidiamo alla sintesi che verrà offerta a livello di maggioranza”. “Sono emendamenti ai quali teniamo, verrà fatta una riflessione nella maggioranza e a livello di Ministero”, ha concluso il senatore vicentino. Ma pare molto difficile una sintesi se il ministro e tutto il suo staff sono sulle barricate. Inevitabile, allora, il ritiro dell’emendamento. Intanto il prossimo 23 luglio sarà discussa alla Camera la proposta di legge del deputato di Italia viva Roberto Giachetti che punta alla modifica del sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti (da quarantacinque a sessanta giorni per ogni semestre di pena scontata). La misura è anche contenuta in un emendamento al citato decreto e Forza Italia ha già manifestato il suo apprezzamento. Condono, amnistia, indulto: la demonizzazione semantica di Dimitri Buffa L’Opinioe, 19 luglio 2024 Ora che servirebbero come l’aria per fare spazio nelle nostre carceri medievali, concetti come “amnistia” e “indulto” sono pressoché invendibili alla pubblica opinione a causa della “demonizzazione semantica” che i media - più o meno ammiccanti al manettarismo di “Mani pulite” e, in seguito, al populismo plebeo para-grillino - ne hanno fatto negli ultimi tre decenni. E anche il termine “condono” sarebbe tabù, se non servisse persino a quelli di sinistra, da ultimo lo stesso Partito democratico di Elly Schlein. Questa demonizzazione mediatica e terminologica ha ovviamente creato dei paradossi mostruosi: amnistia e indulto sono previsti dalla Costituzione. E anche la sciagurata decisione di aumentare il quorum per la loro approvazione a due terzi dei membri del Parlamento non rende questi due istituti solo virtuali, se la politica accettasse di prendersi le proprie responsabilità di fronte a questa epidemia suicidaria, sia dei detenuti ristretti sia delle guardie carcerarie che li sorvegliano e lavorano, a loro volta, in ambienti “disumani e degradati”. Oltre che degradanti. È una vecchia ma ancora importantissima battaglia radicale portata avanti per decenni da Marco Pannella. Tanto è vero che i vari esponenti della galassia che fu radicale ancora per quello si battono. Da Rita Bernardini e Sergio D’Elia di “Nessuno tocchi Caino” a Maurizio Turco e Irene Testa del Partito radicale vero e proprio. Se si vanno a leggere i lavori preparatori della Costituzione, il consenso quasi unanime all’istituzione dell’amnistia e dell’indulto, di emanazione parlamentare - al contrario del regime fascista che li prevedeva, anche piuttosto spesso, ma di emanazione governativa e quindi soggetti a tutte le arbitrarietà immaginabili - veniva motivato così: gli umori della magistratura e della giurisdizione “sono come un pendolo”. Le carceri si svuotano o si riempiono “a seconda della direzione di questo pendolo”. La scoperta dell’acqua calda, se vogliamo, ma la politica di allora aveva il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e di decidere di conseguenza. Fregandosene altamente degli editoriali indignati dei sepolcri imbiancati dell’epoca, che pure esistevano numerosi. Oggi no. Se qualcuno accarezzasse di avvalersi dei due istituti - previsti dalla Costituzione - per deflazionare il sovraffollamento carcerario, sa già che dovrebbe fare i conti con i giornali che ammiccano per convenienza al populismo, a destra e a sinistra, con i talk-show montati ad hoc. E, soprattutto, con una classe politica tremebonda, che si riconosce nell’urlo bracardiano “in galera!”. Risultato? I condoni si fanno a “umma umma” perché giovano anche alla sinistra, mentre amnistia e indulto non si faranno mai, poiché tutta la politica teme la perdita del consenso. Ed è meglio che perdano la vita coloro che si suicidano - agenti o detenuti che siano, secondo questa ottica un po’ infame - che i voti dei partiti. Vuoi di opposizione, vuoi di Governo. Ciò che il suicidio in carcere di un femminicida mette a nudo di Diletta Belotti L’Espresso, 19 luglio 2024 Combattere contro la violenza di genere e volere la fine del carcere non sono cose in contraddizione. Il 12 luglio scorso, Fabiano Visentini si suicida in carcere tramite l’inalazione di una delle bombolette di gas che vengono usate per i fornellini da cucina in dotazione nelle celle. Pochi giorni prima aveva iniziato uno sciopero della fame per ricevere i farmaci antalgici che gli erano stati negati. Visentini era detenuto da undici anni nel carcere di Montorio per l’omicidio della sua convivente. Ogni suicidio in carcere è un omicidio di Stato. A chi immagina un mondo senza carcere si dice, beffardi: “Ah, scacco matto! Deciditi: o le carceri o i violenti a piede libero!”. Mentre serve il suicidio di un femminicida in cella per comprendere cosa significhi dominio nella nostra società. Una critica al sistema carcerario ci obbliga a un’analisi e a una critica al sistema economico, politico e sociale con cui è in relazione, quindi anche al potere che controlla le relazioni di genere. Riconoscere una società che sorveglia e punisce e un carcere che pulisce la società di tutti coloro che non producono, disobbediscono, trasgrediscono. Soprattutto coloro che commettono violenze contro le donne e contro i minori e questo di solito mette tutti d’accordo sull’utilità, anzi la centralità, del carcere nelle società odierne. Dieci anni fa, dunque, un uomo uccide la sua compagna. Chiedo alle mie sorelle di smettere di leggere qui, chiedo agli altri di continuare. Visentini uccide Alba Varisto a calci e pugni e le incide una x di 30 centimetri sul petto con un oggetto tagliente. Jude Doyle ne “Il mostruoso femminile” argomenta che forse l’interesse specifico di così tante donne per il noir derivi dal volerci preparare a tutti i modi in cui la cultura patriarcale può ucciderci. Pare che, all’arrivo dell’ambulanza, Visentini si accanisca sul corpo di Varisto, convinto che fosse ancora viva, che gli avesse parlato un attimo prima; mentre era morta da almeno venti ore. La stampa romanticizza l’uomo che ama troppo, preso dal raptus, ma poi pentito, disperato. Pensando a Visentini, a cui è stato poi riconosciuto il vizio parziale di mente, con un passato di tentativi suicidari, bisogna pretendere un accesso gratuito e capillare alle cure mediche e psichiatriche. Questo non esclude il ripetere, all’infinito, che “il femminicida, il molesto, lo stupratore non è malato, ma figlio sano del patriarcato”. L’aggressione nei confronti dei corpi femminilizzati ha il suo ruolo politico nel controllarli. La molestia, lo stupro e il femminicidio non sono disgrazie personali, ma un’esperienza di dominio condivisa da tutte le soggettività che semplicemente subiscono il patriarcato o che divergono da questo, che se ne sfilano e lo combattono. È un sistema di dominio che uccide tutti i suoi nemici e ne tiene in vita alcuni per mostrare il suo potere (quelle che in gergo chiamiamo “le maskie”). Infatti, il potere della cultura patriarcale (e capitalistica) sta nell’insinuarsi e dominare coloro che opprime e di renderle strumenti del suo stesso potere. Posso dire: “Aboliamo le prigioni”, mentre grido “giustizia per Alba”, mentre affermo “suicidio in carcere/omicidio di Stato”, mentre dico “sorella non sei sola”. Posso tenere le file di direzioni complesse, ostinate e contrarie e pretendere che si accordino nella mia visione del mondo. Perché la verità è che non esiste, ancora, un luogo sicuro, dentro e fuori le carceri, sotto questi sistemi di dominio, sotto la violenza istituzionalizzata e sistemica della povertà, della violenza di genere e del razzismo. Don Raffaele Sarno: “C’è più violenza tra i detenuti, anche per questo aumentano i casi di suicidio” di Andrea Milanesi Corriere della Sera, 19 luglio 2024 “Sono saltate le regole non scritte, il disgregamento esterno qui si moltiplica”. Don Raffaele Sarno è un sacerdote abituato a vivere in prima linea: frequenta il carcere di Trani da oltre 35 anni, prima come volontario e poi nella veste di cappellano, dal 1999 per la sezione maschile e dal 2021 anche per quella femminile. Quando ha cominciato operava soprattutto con i detenuti di alta sicurezza: “Per quanto possa sembrare paradossale, ogni attività si svolgeva nella più assoluta tranquillità, nonostante fossero reclusi di una certa pericolosità. Ora a Trani non si ragiona più in termini di alta o media sicurezza: sono saltate quelle che una volta venivano definite le regole “non scritte” del carcere e i detenuti sono diventati molto più arroganti, più esigenti e quella frammentarietà e quel disgregamento che ormai caratterizzano la società all’esterno si sono riversati totalmente anche all’interno. Soprattutto negli ultimi mesi ho visto comportamenti che in molti anni non si erano mai registrati: sono aumentati i casi di aggressione tra gli stessi carcerati, ma anche nei confronti degli agenti e degli operatori penitenziari (che vivono e lavorano anch’essi in situazioni altamente problematiche); e poi sconcerta la presenza di tanti giovanissimi, ragazzini di 19 e 20 anni che a volte entrano qui dentro con quell’atteggiamento un po’ navigato e strafottente di chi sembra aver vissuto chissà quali e quante esperienze nell’ambito della delinquenza”. Don Sarno è evidentemente anche allarmato per il crescente numero dei casi di suicidio, di autolesionismo e di persone affette da problemi psichiatrici che sicuramente non possono essere affrontati adeguatamente all’interno di una struttura carceraria: “Se poi guardiamo fuori, vediamo che mancano le condizioni per un inserimento nel mondo del lavoro e che sono attesi da un contesto sociale sfaldato, frammentato, che già li ha educati negativamente alla devianza ed è pronto a favorire nuovamente il ritorno alle condotte criminali, alla recidiva”. “Chi ha sbagliato non resti sbagliato”, ha detto Papa Francesco durante un incontro con alcuni detenuti nell’ottobre 2021, sottolineando come sia responsabilità di tutti offrire un gesto di speranza a chi risiede nell’ombra affinché possa tornare, un passo dopo l’altro, a camminare nella luce. Ed è nata proprio così l’iniziativa “Semi di tarassaco volano nell’aria”, attraverso cui il Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica e l’Ispettorato Generale dei cappellani delle carceri (sostenuti dalla Presidenza della CEI) hanno donato oltre 2.000 ventilatori a circa 30 istituti penitenziari sul territorio nazionale. Una settantina sono arrivati alla Casa Circondariale di Trani e, come ci racconta don Raffaele, la reazione da parte dei detenuti è stato un mix di attesa, meraviglia e anche riconoscenza: “Al di là di quel po’ di alleviamento che questi ventilatori possono portare alle condizioni disagevoli date dal caldo e dal sovraffollamento che si vive nelle celle del penitenziario, si tratta sicuramente di un gesto simbolico quanto mai salutare. La stragrande maggioranza dei nostri “ospiti” ha commesso reati che riguardano il patrimonio, lo spaccio o l’estorsione, crimini che potremmo definire un po’ predatori, commessi per aumentare il proprio benessere o soddisfare i propri bisogni (e dipendenze). Qualunque iniziativa dettata dalla gratuità spiazza il detenuto e la sua mentalità manipolatoria e utilitaristica, perché si accorge che esiste chi semplicemente gli vuole stare accanto per esprimergli del bene; e poi perché al di là di tutto il male che può aver compiuto è pur sempre una “persona”, ha un valore che si vuole far emergere, perché egli stesso poi possa fare scelte diverse per la sua vita”. Luigi Pagano: “Mani Pulite mi ha deluso. Il momento più duro? Il suicidio di Cagliari” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 19 luglio 2024 L’ex direttore di San Vittore (come di Pianosa e Bollate): “Quel giorno il carcere scoppiò, i detenuti protestavano e bruciavano quello che potevano. Ora andrebbe chiuso, non possono starci 1.000 persone. Ci dimentichiamo sempre che Dio non ammazzò Caino”. Abita a due passi da San Vittore ma dice che non è “sindrome di Stoccolma”, è perché “lì le case costano meno e non posso trasferirmi”. Luigi Pagano - napoletano premiato con l’Ambrogino d’oro - è il “direttore” per antonomasia. Un direttore “democratico”, uno che, come racconta Alfonso Sabella, se ne andava in giro per San Vittore cantando “Ma mi, ma mi, ma mi, quaranta dì, quaranta nott”. Pagano ha scritto anche un libro che si chiama così, Il Direttore (Zolfo editore). È stato a capo di San Vittore per 15 anni, dopo essere passato nelle carceri dure di Pianosa, Nuoro, Asinara e poi ancora Alghero, Piacenza, Brescia. Negli ultimi anni è stato Provveditore regionale e vice capo del dipartimento penitenziario. Ora è in pensione, anche se ha provato, per ora invano, a diventare garante delle persone private della libertà. Lo vede che è sindrome di Stoccolma? “È che a me piace. Sin dalla laurea volevo fare il direttore delle carceri. L’ho fatto per tutta la vita e non sono pentito. Ho ancora voglia di parlare di detenuti, se ne parla troppo poco”. Ora che è in pensione può parlarne liberamente... “A dir la verità, ho sempre detto, più o meno, quello che pensavo”. Anche sulla Monaca di Monza... “Ai tempi del liceo contestai il mio professore d’italiano che l’aveva definita come una peccatrice e una criminale. Ma la “sventurata”, come la chiamò Manzoni, aveva le sue ragioni” Partiamo da San Vittore. Carcere antico e sovraffollato. Che fare? “Io lo chiuderei. È una struttura vecchia, costruita nell’Ottocento. Ci sono 1000 detenuti. O si riducono a 200 o è meglio chiuderlo”. È una Casa circondariale: dovrebbe ospitare solo detenuti non condannati... “Ma non è mai stato così. Dal 1879 ci è passato di tutto. Solo di recente sono stati costruiti Opera e Bollate”. Quale è stato il momento più difficile vissuto nelle carceri? “Il più terribile fu l’uccisione di Francis Turatello, a Badu e Carros nel 1981. Quando mi avvisarono e accorsi, era già in una pozza di sangue, con Pasquale Barra e Salvatore Maltese che si accanivano sul corpo immobile. Poi Nino Faro gli sollevò la testa e gli tagliò la gola”. Il più triste? “La morte di Gabriele Cagliari, il dirigente dell’Eni. Quando si suicidò, mettendosi un sacchetto di plastica in testa, eravamo in piena stagione Mani Pulite. Ci fu una sollevazione generale dei detenuti. San Vittore letteralmente scoppiò. Tutti battevano sulle sbarre delle celle, gridavano, facevano esplodere le bombolette del camping, incendiavano cose. Quando, molte ore dopo, tornò la calma, trovammo morto un detenuto di 30 anni, Zoran Nicolic, condannato per scippo: si era impiccato”. Mani Pulite fu il punto più alto del giustizialismo. I magistrati pensarono di far pulizia in un sistema politico marcio... “Io sono sempre stato un garantista. Mani Pulite mi ha deluso. Non tanto per i magistrati, tutto il rispetto per Di Pietro e Davigo, quanto per i cittadini. Hanno riposto nella magistratura speranze eccessive. Non mi sono piaciuti i cortei, le scritte, l’esaltazione dei giudici. La rivoluzione non la devono fare i magistrati, le cose si possono e si devono cambiare attraverso le urne”. Nelle carceri italiane c’è un tasso di sovraffollamento medio del 129%. In 19 istituti supera il 180%. Quest’anno, mentre scriviamo, siamo a 44 suicidi. Quarantaquattro “Nicolic” di cui nessuno sa nulla. Da direttore si sentiva addosso la responsabilità di queste morti? “Si sente il peso, quando accade, ma non parlerei di fallimento personale. Il carcere, come dice anche il regolamento penitenziario, è strutturalmente patogeno. Lo scrisse anche il ministro fascista Alfredo Rocco: altro che mistico isolamento, stare chiusi in cella fa male e rafforza le tendenze antisociali. Il sovraffollamento peggiora le cose. Bisogna creare le condizioni perché le celle, chiamate appunto camere di pernotto, vengano usate solo di notte”. Lei fu tra i creatori di Bollate. Un carcere speciale, nel senso migliore del termine... “Non mi piace che lo si chiami speciale. Porta anche sfortuna: prima o poi le eccezioni vengono riassorbite. E comunque sto con Lucio Dalla: l’impresa eccezionale è essere normali”. Perché gli altri istituti non sono come Bollate, dove il tasso di recidiva è molto basso? “È più facile lavorare meglio in un carcere nuovo, con spazi adeguati per la socialità. E poi ci vuole la volontà di cambiare le cose, per non trattare le persone come oggetti, in modo indifferenziato. È il rispetto dei detenuti che fa la differenza”. La gente si indigna, chiede la punizione, la vendetta, più che il reinserimento... “Dopo tanti secoli siamo ancora all’occhio per occhio, al Dio vendicatore dell’Antico Testamento, che trovò poi sponda filosofica in Kant ed Hegel. Ma Dio non ammazzò Caino. E il mio senso del diritto si afferma nella ragione, non nel sentimento”. Lei è stato uno dei promotori della “sorveglianza dinamica”. Per qualcuno, però, aprire le celle porta a un aumento delle violenze contro gli agenti... “Lo confesso, sono stato io. Lo so, si dice sempre: tutta colpa della sorveglianza dinamica. Ma bisogna vedere poi cosa fai, quando apri le porte: non basta mettere i detenuti nei corridoi. Servono attività ricreative, lavoro, socialità”. Allargando troppo le maglie, qualcuno finisce per fuggire... “Due frasi mi hanno accompagnato nella carriera: “Si è sempre fatto così” e “Può succedere di tutto”. Se le ascolti, ti paralizzi. Ci sono rischi che si devono correre. Il mio maestro Alfredo Paolella, che fu ucciso da Prima Linea, diceva che l’unico modo per sapere se un detenuto fuggirà o meno, è lasciarlo libero. È una scommessa sulle persone, che va fatta”. Ma il carcere serve ancora? “Io sarei per abolirlo, ma temo sia ancora un’utopia. Nel frattempo, però, si può evitare che la pena sia contraria al senso dell’umanità”. Il carcere è ormai un sistema di welfare sociale. Più che criminali incalliti ci sono poveracci, immigrati, tossicodipendenti, persone con disturbi mentali. Tutti insieme... “È vero, ormai siamo al carcere della marginalità. Il penale è la valvola di sfogo della mancanza di risposte del sociale. Ci sono 20mila detenuti con pene sotto i 4 anni. Potrebbero andare ai domiciliari, in appositi istituti di cura, in affidamento. Se il sociale funzionasse, non sarebbero lì”. Sono frequenti le violenze, anche degli agenti. Gli 11 morti della rivolta di Modena del 2020 sono una macchia della nostra storia recente, poco raccontata e con molti punti oscuri. È difficile sapere cosa succede davvero, dentro i penitenziari, che sono istituzioni totali, chiuse, come diceva Erving Goffman... “Per questo bisognerebbe aprirli il più possibile. Nel 1989 Nicolò Amato, il teorico del carcere della speranza, propose di creare sale stampa. La legge prevede la possibilità di ispezioni da parte dei politici, ma in questi anni ne ho visti pochi in visita. Calamandrei, nel 1946, scrisse: bisogna vederle le carceri, bisogna conoscere il dolore per dargli valore”. Di giornalisti, invece, ne ha visti diversi. Nel libro racconta di Candido Cannavò, già direttore della Gazzetta... “Un uomo di enorme passione ed energia. Quando andò in pensione scrisse un libro su San Vittore e ci rimase per un anno. Aveva una sensibilità rara. Scoprì, come diceva lui, che quel mostro di cemento che era San Vittore, e che la frivola Milano voleva cancellare, aveva un’anima. La sua battaglia più grande fu per togliere i bambini dal carcere. Riuscimmo a mettere in piedi anche grazie a lui un Icam, un istituto a custodia attenuata. Ricordo che si mise a urlare contro un assessore che aveva promesso di realizzarlo in tempi troppo lunghi. Gli disse: qui faccio scoppiare la guerra se non si sbriga”. La soluzione a destra, compreso il ministro della Giustizia Carlo Nordio, è sempre la stessa: costruire nuovi istituti... “Aumentando le carceri, di solito, aumentano i detenuti. Bisognerebbe fare il contrario”. Qual è stato il miglior ministro della Giustizia? “Mino Martinazzoli. Una persona corretta, profonda, ironica. Era anche un periodo favorevole: era finito il terrorismo, ci fu la legge Gozzini e c’era Amato al Dipartimento. Ma lui fu uno dei migliori”. Lei sarebbe stato probabilmente un buon ministro della Giustizia. Gliel’hanno mai chiesto? “No. E neanche di fare politica. Ma io sono un amministratore. Più che a nuove leggi, bisognerebbe pensare di applicare quelle che ci sono, come l’articolo 27 della Costituzione e l’Ordinamento penitenziario del 1975”. È riuscito a portare a San Vittore Roberto Vecchioni, Claudio Baglioni, Renato Zero. Si può fare, dunque. Aprire il carcere al mondo esterno... “Sì, io ricordo con emozione soprattutto Ornella Vanoni e Giorgio Strehler. Giornate indimenticabili. Il primo fu Mario Merola, a Taranto. Una bolgia. Cantò “Chiamate Napoli 081” e “Tu ca non chiagne”. Scrissi io un articolo per conto di una giornalista che mi aveva messo in contatto con lui e che non poteva entrare. Nel titolo parafrasai Churchill: Lacrime e sudore, Mario Merola al carcere di Taranto”. A San Vittore venne più volte il cardinal Martini... “Quando arrivò in città, nel 1980, fece deviare il percorso per passare sotto le mura di San Vittore, che definiva il cuore di Milano. Tre anni dopo ci fece una visita, non di circostanza: volle salutare uno a uno i 1800 detenuti. La visita durò quattro giorni. Chiese di entrare anche nel reparto dove erano reclusi i detenuti per lotta armata. I brigatisti si arresero metaforicamente, pregando con lui. Qualche mese dopo un uomo entrò in Arcivescovado e lasciò quattro borse piene di armi”. Psicofarmaci, autolesionismi, tablet: la vita in carcere dei “cuori neri” minorenni di Enrico Caiano Corriere della Sera, 19 luglio 2024 La scrittrice Silvia Avallone, autrice di un romanzo dedicato a una ragazza, “Cuore nero”, è stata attiva come volontaria nell’istituto penale minorile di Bologna e lì è andata a presentare il suo libro: “Bisogna essere liberi nella testa o non lo si è mai, neanche fuori”. Lo hanno detto meglio di chiunque altro. D’altra parte, non si è giganti della letteratura a caso. Fedor Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Victor Hugo: “Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione”. Un secolo dopo, il simbolo della lotta per la libertà Nelson Mandela, una vita dietro le sbarre, ha chiuso il cerchio con una riflessione definitiva: “Un Paese non dovrebbe essere giudicato da come tratta i cittadini più in alto, ma quelli più in basso”. La scrittrice Silvia Avallone, oggi, quelle frasi le sottoscrive in blocco. O non avrebbe scritto “Cuore nero”, il suo ultimo romanzo per Rizzoli, scaturito dall’esperienza di volontaria nell’istituto penale per i minorenni di Bologna, sua città di adozione. Tra queste mura, che sono quelle di un convento quattrocentesco, ha ambientato le pagine carcerarie della storia di Emilia, la protagonista, e delle sue compagne di prigionia. Virando al femminile, con la licenza che è concessa alla letteratura, la realtà di un istituto di pena maschile. E proprio qui è tornata a presentare il suo lavoro ai ragazzi attualmente in cella, ormai quasi tutti diversi da quelli che lei ha seguito e a cui si è ispirata per le ragazze del libro, un successo editoriale fin dall’uscita nel gennaio scorso. Sotto le volte e i muri spessi che garantiscono una discreta protezione dall’afa bolognese, il direttore della struttura, Alfonso Paggiarino, nato come educatore, 42 anni di esperienza, alle soglie di un meritato pensionamento, per l’incontro con la scrittrice ha raccolto una ventina di giovani, quasi tutti stranieri. Molti di loro, tunisini, non capiscono l’italiano ma si fanno aiutare dai compagni che lo masticano e comunque sia si lasciano trascinare dall’energia contagiosa di Avallone, dalla gestualità potente che usa per spiegare con foga genuina quanto sia importante credere nella parola come strumento di emancipazione di sé stessi, come via d’uscita da prigioni non solo fisiche ma mentali. Le frasi di Avallone echeggiano forti davanti a sguardi attenti e interrogativi (“Bisogna essere liberi nella testa o non lo si è neanche fuori”; “Siamo tante persone in una, e possiamo cambiare sempre”; “Per pensare ci vogliono le parole”). Ma quando si arriva alle domande sulla loro quotidianità, sulle loro speranze, le parole di rimando rotolano stentate, c’è disincanto, fatica. “Ci sentiamo soli e non ci aiutano” dice un ragazzo alle soglie dei 18 anni. Un altro, appena maggiorenne, apre uno squarcio che si preferirebbe non aver ascoltato: “Sono tutti razzisti qui. Anche in carcere non siamo tutti uguali”. Infine, la considerazione da brividi: “C’è solo corruzione attorno a me. Ho provato, ma non ci sono tante strade”. I tunisini sono sempre di più. Qui e negli altri 16 istituti sparsi per l’Italia. Sono loro quei minori non accompagnati che approdano sulle nostre coste dopo viaggi dell’orrore. C’è un mediatore culturale che ne affianca qualcuno e traduce, altri si fanno aiutare da compagni di cella in Italia da più tempo. Ma se sono marocchini, alcuni preferiscono non chiedere il loro aiuto. C’è separazione tra i due gruppi nordafricani, mi è stato fatto notare. A un certo punto uno se ne esce con: “Qui facciamo conoscenze, non amicizie”. E improvvisamente tutto si fa molto chiaro. Il direttore Paggiarino racconta di ragazzi che usano i tablet e i telefoni appositi per fare videochiamate ai genitori: “Dai tempi del Covid è stata introdotta questa possibilità e il ministero della Giustizia l’ha mantenuta”. Spiega che al ritorno dal pranzo fa “un sacco di colloqui con loro, 4 o 5 al giorno chiedono di parlarmi”. Tanti, sul totale: sono in 46 dietro le sbarre, il numero massimo sarebbe 40. La nota dolente però riguarda gli agenti di polizia penitenziaria chiamati a sorvegliarli: due! Uno per piano. Certo, si attendono rinforzi: “Il dipartimento ora ci manderà un gruppo di agenti in missione per una settimana/dieci giorni”. Poi se ne andranno però. E allora ecco i palliativi. La divisione notturna tra piani: “I maggiorenni (nell’istituto minorile si può stare sino ai 25 anni e poi si passa al carcere normale; ndr) vanno a dormire al secondo piano, i minorenni stanno al primo. Prima succedeva magari che c’era il tunisino 15enne che voleva stare con il connazionale 23enne perché con gli italiani non si trovava. Ma non andava bene, ora è molto meglio”. Resta il sovraffollamento. Che è l’emergenza delle carceri “per adulti” e negli istituti di pena per minori lo sta diventando. A fine febbraio erano 532 gli under 25 reclusi. A fine 2023 erano 496 contro i 381 del 2022. Un’impennata del 30%, con un salto in su di un punto: in carcere stanno ora il 3,8% di minori e giovani in carico ai servizi della giustizia minorile, dice il rapporto di Antigone. Due anni fa erano il 2,8. Il decreto Caivano del 15 settembre scorso non è l’unica ragione del balzo in avanti (il numero di ingressi in cella nel 2023 è da record assoluto: 1.143) ma ci ha messo del suo. Il direttore dell’Ipm bolognese lo lascia intendere: “Varie leggi sono cambiate e potrebbe essere anche questo il motivo dell’affollamento negli istituti”. Più di così... Quel decreto ha infatti ampliato la possibilità del ricorso al carcere in fase cautelare e ha ridotto l’utilizzo dell’istituto di messa alla prova, uno dei vertici di eccellenza del codice di procedura penale minorile varato nel 1988 e che l’Europa ha sempre considerato all’avanguardia: indica come residuale il ricorso al carcere e si proietta su modelli educativi in grado di ricondurre con successo i giovani nella società, seguendo l’articolo 27 della nostra Carta, quello che recita “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (“Io quell’articolo lo rispetto tantissimo”, chiosa il direttore Paggiarino, “o lo si rispetta o lo si deve abolire. E non voglio parlare neanche di rieducazione ma di educazione”). Se si ascolta un’assistente sociale di lungo corso (l’anonimato è obbligatorio, per parlare con nome e cognome ci vogliono autorizzazioni del ministero dai tempi lunghissimi) si capisce che la rieducazione non è più in cima ai pensieri di chi legifera: “Si vuole dare subito una sanzione sperando nell’effetto di deterrenza della stessa. Ma chi lavora nelle carceri minorili sa che si va da un’altra parte rispetto all’effetto deterrenza per cambiare le cose. Il collocamento in comunità potrebbe essere uno strumento molto più praticato ma si sceglie la detenzione perché è più facile”. Un giudice minorile di grande esperienza è colpito dal fatto che il primo contatto “di questi ragazzi stranieri con una forma organizzata di Stato sia la più opprimente, non c’è mediazione”. Nel romanzo di Avallone la protagonista le cose le cambia, come direbbe l’assistente sociale di prima: in carcere si laurea. A Bologna in 5 ci sono riusciti, un motivo d’ orgoglio per il direttore. Come lo è la trattoria creata nel carcere proprio “per introdurre i ragazzi nel mondo del lavoro: si chiama Brigata del Pratello (in gergo bolognese è il carcere minorile e prende il nome dal quartiere; ndr), la cosa più bella che ho fatto in questa città”. Un ragazzo marocchino di 23 anni, seduto ad ascoltare la scrittrice che è stata una delle sue volontarie, è anche lui laureato. E ha cominciato proprio dagli studi dell’alberghiero di cui la trattoria è fiore all’occhiello: “Nelle carceri minorili siamo in pochi a riuscirci. Io ce l’ho fatta perché avevo una condanna lunga”, dice senza ironia, “per i tanti reati cumulati. Di solito tra i ragazzi prevalgono quelle brevi. Ho cercato di dare un senso alla mia carcerazione, di non buttare il mio tempo. Un’educatrice mi ha detto “perché non ci provi?”. Quella frase è stata come un seme. Che è fiorito. Dopo il diploma mi son detto che potevo tentare l’università. Con tanta forza di volontà ce l’ho fatta”. Ma non pensate sia un esempio per tutti i ragazzi “dentro”: “Lo sono per una minoranza. Qui i “valori” sono altri: denaro, successo, potere. E anche se seguendo quella strada hanno sbagliato e sono qui, dove è davvero dura, continuano a seguirla”. Quando parla di carcere “davvero duro”, viene in mente che spesso il modo per alleviarne l’impatto e per ovviare ai numeri ridicoli degli agenti penitenziari - sono loro a garantire spostamenti ed attività dentro il carcere - è la somministrazione di psicofarmaci. “Era così ma ora va un po’ meglio”, spiega il ragazzo. “Lo chiamano strumento di contenimento e viene usato per evitare che le persone si taglino o brucino la cella. Erano di moda Rivotril e Lyrica ma ora non ci sono più. A volte però gli stessi ragazzi chiedono i farmaci. Perché vogliono sballarsi, evadere mentalmente”. A sentire ancora il giudice minorile, la realtà non è proprio così rosea: a Bologna come al Beccaria, come in tutti gli altri Ipm: “La situazione non è cambiata. Anzi i dati ci dicono che il ricorso agli psicofarmaci è a livelli mai finora raggiunti”. Come continuano le rivolte, l’autolesionismo. Ma torniamo al bicchiere mezzo pieno, al 23enne laureatosi per e con l’aiuto della sua famiglia: “Mi amano tanto. Ho la fortuna di averla, una famiglia: altri non sono così fortunati”. Già. E viene la pelle d’oca a sentire il coro a mezza bocca che risponde alla domanda di Silvia: “Chi vi manca di più qui dentro?”. Marocchini, tunisini, italiani, tutti lì vanno: una parola sola, con sincerità disarmante: “Mamma, ci manca la mamma”. Madri detenute e bambini in carcere, qual è la situazione in Italia? di Letizia Giangualano Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2024 Sono 23 le madri recluse in Italia con i loro 26 bambini. In aprile, in una visita dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione nel carcere di Rebibbia femminile a Roma era stata trovata anche una donna in avanzato stato di gravidanza, in attesa di giudizio, in un istituto dove la ginecologa è presente solo due volte alla settimana e dove, di conseguenza, il supporto medico non è garantito con costanza come si richiederebbe in queste fasi. Una situazione, questa, rinvenuta anche in altri istituti e sezioni femminili. Qual è a oggi la riflessione sul tema delle madri detenute o future madri in attesa? I numeri, dalla pandemia di Covid-19 in poi, sono sensibilmente scesi, passando dalle circa 50 presenze alle attuali 23. Numeri bassi, che però non possono significare scarsa attenzione. Su questi numeri si potrebbero infatti attuare soluzioni tutto sommato facili, non massive, come per esempio le case famiglia: a oggi ne esistono solo due. Le strutture di detenzione Quali strutture prevede lo Stato, in cui le madri possano scontare le loro pene, vivendo con i figli in un ambiente che non sia propriamente carcerario? Da una parte abbiamo appunto le case famiglia protette, affidate ai servizi sociali e agli enti locali: al momento l’amministrazione penitenziaria ha stipulato due convenzioni relative all’attivazione di case famiglia, una a Roma e l’altra a Milano, per una capacità ricettiva totale di 6 adulti e 8 minori, secondo i dati del ministero della Giustizia. Dall’altra abbiamo gli Icam, Istituti a Custodia Attenuata per Madri che fanno capo all’amministrazione penitenziaria: sono carceri ma colorate, senza sbarre, né armi, né uniformi, nei quali i figli delle detenute possono rimanere fino ai sei anni, non più i tre previsti dalla precedente normativa. Il primo Icam era stato costruito in via sperimentale nel 2007 a Milano, altri Icam sono stati aperti a Venezia, a Torino e ad Avellino. Gli istituti penitenziari ordinari Vi sono poi altri luoghi che ospitano donne detenute con figli a seguito: non istituti appositi, ma aree interne ad istituti penitenziari ordinari. I luoghi adibiti a tale scopo sono in primis le cosiddette sezioni nido, piccole aree detentive collocate all’interno dell’istituto. Si tratta solitamente di ambienti separati dal resto della sezione, con stanze più ampie e curate, con mura colorate e attrezzatura per la cura dei bambini (culla, fasciatoio etc). Alcuni nidi sono più attrezzati di altri, con spazi interni ed esterni per il gioco, biblioteche con libri per bambini e piccoli ambulatori. Un esempio di sezione nido è quella della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, che ha al suo interno quattro camere di pernottamento, ampie e dotate di cancello in vetrocemento, meno oppressivo di una porta blindata. Sono poi presenti ambienti quali una sala comune per i pasti e i giochi dei bambini, un’area verde attrezzata e una cucina con uno spazio per consumare i pasti insieme. Oltre agli spazi appositi, il nido ha anche servizi pensati per i minori come un pediatra chiamato all’occorrenza e dei volontari che di sabato portano i bambini all’esterno e organizzano eventi all’interno della sezione. La fotografia della situazione viene raccontata dall’osservatorio di Antigone, con l’ultimo approfondimento del 2023. L’osservatorio spiega inoltre che la penuria di asili nido all’interno delle sezioni femminili rischia di amplificare ulteriormente il problema della lontananza tra il luogo di residenza e quello di detenzione per le madri detenute; di conseguenza spesso anche la lontananza con altri figli fuori dal carcere, magari troppo grandi per seguirle nel contesto di custodia. Bambini in carcere - Gli asili nido funzionanti sono passati dai 18 del 1993 a 11 nel 2023 (dato della serie storica semestrale condivisa dal ministero della Giustizia). Vero è che sono sensibilmente diminuiti anche i bambini con età inferiore ai 3 anni in istituto (da 61 a 20), ma l’assenza dei nidi può presupporre che vi siano bambini ospitati in luoghi interni al carcere non pensati per loro, ma attrezzati alla bene e meglio per accoglierli. Si tratta di reparti femminili con solo alcuni ambienti (spesso solo una stanza) dove vengono eventualmente collocate le donne con figlio a seguito. La permanenza in tali ambienti deve essere di brevissima durata, in attesa di trasferimento in altra struttura o di differimento della pena. Ma Antigone ha rilevato nel 2023 il caso di una donna detenuta insieme alla figlia di due anni nel carcere di Lecce, entrambe ospitate per diversi mesi in una zona dell’istituto separata dal resto della sezione femminile e allestita con una culla, un fasciatoio e alcuni giochi. In assenza di spazi adeguati e di attività per madri con figli, grazie al supporto di alcune volontarie la bambina è stata comunque accompagnata tutti i giorni in un asilo esterno e, all’occorrenza, un pediatra si recava presso l’istituto. “L’interesse supremo del minore a mantenere il contatto con la madre e a vivere in un luogo più adatto al suo sviluppo è l’unico tema che riguardi il penale e il penitenziario che mette d’accordo tutti da sempre. Altra cosa è poi realizzare le condizioni migliori affinché questo avvenga” commenta Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone: “Non si tratta solo di strutture, che pure si auspica vengano potenziate sul territorio, ma soprattutto di cambiare la mentalità: a parità di norme, studiando caso per caso, si possono trovare soluzioni adeguate a garantire l’interesse del minore. Lo abbiamo visto con il Covid, quando la magistratura di sorveglianza ha considerato il pericolo del contagio per i bambini e con le leggi già esistenti ha reso possibile il più consistente calo delle presenze dei minori in carcere negli ultimi trent’anni”. Detenute in gravidanza - Per quanto riguarda le donne in gravidanza, la normativa attuale prevede l’obbligo del rinvio della pena, anche per le madri che hanno un figlio di età inferiore a un anno. Le cose potrebbero cambiare con il cosiddetto “ddl sicurezza” ossia il Disegno di legge n. 1660/C recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. Fermo da tempo alla Camera, ha raccolto soprattutto negli ultimi mesi nuovi emendamenti, tra cui quello proposto dalla Lega volto a fermare lo sfruttamento della gravidanza da parte di borseggiatrici e delinquenti, passato con il sostegno del centrodestra. “Norma dall’evidente contenuto simbolico, finalizzata a reprimere un particolare gruppo sociale, connotato sul piano culturale, ossia le donne rom”, ha dichiarato nell’audizione del 17 maggio il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, che ha presentato un documento redatto con ASGI. E ha proseguito: “È con misure di welfare comunale e di dialogo sociale, non criminalizzando le persone, che un Governo dovrebbe agire di fronte a comportamenti che affondano le proprie radici nella disuguaglianza sociale ed economica”. Il carcere raccontato da chi lo vive da anni, tra malattie e disumanità di Marco Casonato* Corriere Fiorentino, 19 luglio 2024 Qui dentro funziona soltanto il volontariato, in maniera stupefacente nonostante le difficoltà. In buona parte è cattolico, ma c’è anche quello musulmano. Sono sempre i volontari gli unici presenti, anche a Ferragosto Caro direttore, ho avuto modo di apprezzare la doppia pagina del Corriere Fiorentino dello scorso 6 luglio dedicata al carcere ed anche a quanto aveva invano cercato di comunicare il giovane detenuto che a 20 anni si è impiccato. Poiché tra le varie voci manca quella di un detenuto - se non il morto - confido che voglia concedermi spazio in quanto detenuto. La prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, afferma che “non hanno funzionato tutti i presìdi previsti”. Il problema è che non funzionano mai e che nessuno tra “chi di dovere” se ne interessa. Per esempio non viene neppure consegnata la sintesi del regolamento a ogni nuovo detenuto, come previsto dalla legge, e se immaginiamo un detenuto non italiano capiamo che dovrebbe essere scritta anche in arabo, in inglese, in francese. In genere non viene neppure permesso di consultare il regolamento dell’istituto in biblioteca, o perché non è stato redatto e firmato o perché viene “tenuto segreto” anche se è previsto dalla legge. Prima presidente, in precedenza presidente della Corte d’Appello di Firenze, dice candidamente “non sono in grado di comparare (le carceri) perché non ho una visione completa del panorama nazionale”, ma un’altissima autorità che manda le persone in prigione non sa in che posti le manda? Anche la polizia penitenziaria di Sollicciano ne parla malissimo, neanche a loro piace lavorare tra topi ed escrementi di piccione, nel sudicio; se la presidente si ritrovasse un fascicolo rosicchiato da un topo come reagirebbe? Cassano ricorda poi che Sollicciano era nato “per essere una struttura parte integrante della città”. Ma che parte di città può essere se è rigidamente chiusa? In Inghilterra dopo la Thatcher le carceri in centro città sono stati venduti dato l’enorme valore dei terreni e le celle trasformate in monolocali per operatori di Borsa (una sorta di legge del contrappasso) o giovani coppie, e col ricavato sono state costruite carceri nuove igieniche e a norma fuori città. Inoltre per lo Stato un carcere in centro costituisce una fonte di infezione pericolosa per i cittadini che vivono nelle vicinanze. L’ho constatato durante il Covid, ma abbiamo avuto la scabbia in certe zone, cimici, malattie tropicali, tre tipi di meningite, persino la lebbra ha fatto la sua comparsa. Anche i topi neri (quelli delle pestilenze del Medioevo) fanno capolino. Tutto tenuto nascosto ai cittadini, oltre ad una variegata scelta di pantegane, topi e topolini, oltre a scarafaggi grossi e medi, lenti e veloci. La riforma Cartabia di grande importanza nell’abbandonare una visione carcere-centrica, ha avuto scarso rilievo pratico poiché è avversata dalla magistratura di sorveglianza, dai servizi sociali Uepe ed anche dai cosiddetti educatori, che in virtù di un accordo sindacale sono divenuti funzionari: “costituiscono ciò che è stato chiamato dal filosofo una “polizia speciale”, che è conseguentemente senza regole. Le eccezioni non mancano, ma si tratta di poche persone eroiche che osano andare contro-corrente. Sulla sanità carceraria stendiamo un velo pietoso, perché richiederebbe un’analisi a parte, diciamo che a Gaza si gode di miglior assistenza medica. Last but not least, tutti le carceri sono piazze di spaccio contese tra gang, ove con facilità e indicibili complicità si può trovare tutto ciò che è vietato, basta pagare. Si creano peculiari effetti psichiatrici, condotte patologiche e sovente non controllate che alimentano il caos, vengono risolte con trasferimenti che non risolvono, ma passano la patata bollente ad altri. Consiglio infine alla dottoressa Cassano di consumare un pasto dei detenuti a Sollicciano all’interno del ventre del carcere in una sezione, dal carrello come si usa dire, e dopo pranzo chiedere di visitare la cucina. Raramente la carne puzza, talvolta le verdure sono quelle che si usano per alimentare gli asini, le cotolette forse sono stampate in 3D: sperimentiamo il futuro Transumano. Infine gli enti locali: la Regione e il Comune non forniscono neppure mensilmente un servizio anagrafe, i patronati non vengono in carcere. Un incubo amministrativo. Il volontariato esiste, funziona in maniera stupefacente nonostante le difficoltà, in buona parte cattolico, esiste anche musulmano che consegna copie del Corano e tappeti per la preghiera, e volontari di altre religioni o laiche. Anche per occasioni di lavoro esterno funziona solo il volontariato, sono sempre i volontari gli unici presenti a Ferragosto, quando anche nel mondo libero ci sono più suicidi. Norme contraddittorie e di scarsa attuabilità di Mario Chiavarlo Avvenire, 18 luglio 2024 “Riforma della giustizia”. Un’etichetta di stile, ormai tante volte ripetuta, nei titoli dei media e generosamente concessa anche alla legge voluta dal ministro Nordio e recentemente varata dal Parlamento, contenente un ennesimo gruppo di interventi particolari - taluni, a dire il vero, non di poco rilievo- sul tessuto di codici (quello penale e quello di procedura) sempre più consunti. Applausi e critiche, a partire dal mondo politico, li ha attirati specialmente l’abrogazione della norma che sanzionava penalmente l’abuso d’ufficio. E su ciò continua a dirsi e ascriversi tutto e il contrario di tutto, non senza giravolte di prese di posizione di singoli e di partiti. Non minor attenzione meritano comunque altre norme della legge, tra le quali ve ne sono alcune che coinvolgono la delicatissima tematica delle misure limitative di libertà messe in opera prima ancora di una condanna. La prima è quella che introduce il principio della collegialità per l’adozione di ogni provvedimento che porti una persona in carcere, in via, come dice il codice di procedura penale, cautelare. In prospettiva, dunque, nessuno dovrebbe più essere “custodito” dietro le sbarre se non sulla base della valutazione di un collegio di tre giudici, a garanzia - si spera - di una maggior ponderazione della decisione. In prospettiva, si diceva. Perché questa parte della riforma si presenta, in tutta evidenza, come un investimento ad alto costo quanto ad impiego di risorse umane. E di conseguenza la stessa legge Nordio ne ha rinviato di due anni l’applicazione; ma, ad esser franchi, ce da dubitare che due anni bastino. Oltretutto, una rete di “incompatibilità giudiziali” limita pesantemente - ancorché, in via di principio, ragionevolmente - la libera utilizzabilità dei magistrati per lo svolgimento di funzioni differenti nell’ambito dello stesso procedimento penale: così, ad esempio, chi si è pronunciato sul merito dell’accusa in sede, appunto, cautelare, non può, di regola, sedere poi come giudicante nell’eventuale dibattimento successivo. Donde il rischio che, se non vi saranno incrementi di personale giudiziario e amministrativo ben più solleciti e ben più robusti di quelli avviati o ventilati, la nuova regola concorra a mandare in crisi, più ancora di oggi e fino alla paralisi, interi uffici giudiziari, specialmente se di piccole dimensioni. Altra norma-bandiera della legge Nordio è l’introduzione di un “interrogatorio preventivo da effettuare prima della pronuncia di provvedimenti che infliggano all’indagato la sottoposizione a una qualsiasi di quelle che vanno sotto il nome di misure cautelari personali (non, dunque, la sola custodia carceraria, ma anche misure più lievi, quali il ritiro del passaporto, l’obbligo di firma in un ufficio di polizia, gli arresti domiciliari...). Si ha così un anticipo dell’interrogatorio cui già oggi si deve procedere a tempi brevi dall’esecuzione della misura. Questa, si badi, è una riforma a partenza immediata e trova la sua ispirazione di fondo in suggerimenti sovente venuti negli da anni da larga parte della cultura processual-penalistica, non poco severa sul fatto che interventi destinati a lasciare per molto tempo segni negativi, anche gravi, su una persona potessero venire effettuati senza dare modo alla difesa di far valere con cognizione di causa le proprie ragioni attraverso un adeguato contraddittorio. A lasciare perplessi può però essere il modo in cui la riforma appare congegnata. Quando si lanciavano quelle proposte, si era infatti soliti precisare che il contraddittorio preventivo non avrebbe dovuto aversi con l’indagato necessariamente a piede libero, dato il rischio che la previa conoscenza della richiesta del pubblico ministero, diretta a far adottare la misura, ne stimolasse la fuga o altri comportamenti scorretti. Suggerimento strettamente complementare era dunque quello di imitare ciò che si era fatto in Francia, dove l’indagato esercita il primo contraddittorio davanti all’istruttore quando è già in “garde-à-vue” (una sorta di ciò che da noi si chiama “fermo”): “pre-cautela” di durata limitatissima, ma sufficiente per scongiurare quel rischio. E, forse meglio ancora, si era alternativamente prospettato che il giudice, alfine di ascoltare la persona fatta oggetto della richiesta del pm, spiccasse un ordine di “accompagnamento coattivo di efficacia temporale non meno limitata ma a sua volta capace di scongiurare un lasciapassare per fughe o inquinamenti probatori. Nulla di tutto ciò nella nuova legge, che preferisce configurare un rimedio a monte, apparentemente ancora più drastico, consentendo al giudice di evitare l’interrogatorio preventivo e di continuare a disporre le misure cautelari “a sorpresa” se vi è pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. Ma, se quei pericoli non ci sono, il problema di sottoporre la persona a una misura cautelare non dovrebbe neppure porsi... Sarà in ogni caso difficile che il giudice, una volta lette le carte del pubblico ministero, si sottragga a un dilemma comunque inquietante: o riconoscere l’esistenza di quei pericoli, senza ascoltare la difesa, e allora la riforma sarà come non ci fosse mai stata; oppure ritenere che al momento essi concretamente non ci siano e però proprio così potrà alimentarli avvisando della richiesta l’indagato... Insomma, o tanto rumore per nulla o una soluzione che, dopo aver molto parlato di cautele e pre-cautele, mi si perdonerà, spero, di qualificare come incauta. Col pacchetto Sicurezza si va verso uno Stato autoritario, ma chiedo: di chi è la colpa? di Fabio Balocco* Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2024 Violenza, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale e violenza e minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi componenti. Sono gli articoli 336-338 Codice Penale che puniscono il normale cittadino che in qualche modo si ribella al potere dello Stato, in particolare alle forze dell’ordine. Norme che negli anni sono state utilizzate per contrastare le lotte sociali, anche quelle a bassa intensità. Norme che, anche se pare incredibile, il regime repubblicano ha rafforzato in questi decenni, alla faccia del confronto e della collaborazione tra stato e cittadinanza. Come bene afferma il collega avvocato Claudio Novaro: “In breve, non solo abbiamo un codice che risale al ventennio fascista, ma il legislatore repubblicano è riuscito a peggiorarlo ulteriormente”. E questo è avvenuto con qualsiasi governo, di destra o di sinistra, ammesso che questa locuzione abbia ancora un senso compiuto. E il peggioramento è avvenuto con gli articoli codicistici successivi, ossia 339 e 339 bis, che prevedono le circostanze aggravanti. Ossia se la violenza o minaccia è esercitata nel corso di manifestazioni in luogo pubblico, o, ancor peggio, se violenza o minaccia sono esercitate da più di dieci persone anche senza uso di armi (aggravante già prevista dal Codice Rocco, di epoca fascista), o, peggio ancora, se si utilizzano corpi contundenti. Tutte circostanze aggravanti che non fanno che assommarsi alla pena base, che è da sei mesi a cinque anni. Ma evidentemente queste pene non erano sufficienti per contrastare il fenomeno di chi partecipa a manifestazioni di contrasto nei confronti dello Stato, ed ecco un’aggravante ancor più specifica, che si viene ancora a sommare a quelle precedenti, ossia quella di contrastare un’opera pubblica o un’infrastruttura strategica. È questa la norma che vuole introdurre nell’ordinamento giudiziario la Lega, per mano di tale Igor Iezzi, primo firmatario, diplomato al liceo scientifico e noto fino ad oggi per aver tentato di picchiare il deputato Donno (M5) alla Camera e per essersi messo in testa un velo a mo’ di burqa per protestare contro l’apertura di un centro islamico a Milano. La norma è contenuta nel cosiddetto “pacchetto sicurezza”, un disegno di legge attualmente in discussione in Parlamento. Il risultato di tutte queste circostanze aggravanti sarebbe che chi commette questo reato può andare incontro ad una pena pari a 25 anni di detenzione. Perché queste norme del tutto spropositate nella loro entità rispetto ai fatti commessi, posto che uno dei principi costituzionali è la proporzionalità della pena rispetto al fatto commesso? Perché lo Stato repubblicano in questi decenni ha mandato avanti una massiccia operazione di opere cosiddette “di pubblica utilità” che spesso hanno sollevato le proteste sì anche violente da parte della cittadinanza, anche perché queste opere sanno tanto di utilità privata (leggasi Webuild che oggi detiene il monopolio delle opere pubbliche, e suoi predecessori) piuttosto che di utilità pubblica. Madre di tutte queste battaglie - a mio avviso - sacrosante il Tav Torino-Lione. Ma la norma di Iezzi ha adesso anche un carattere preventivo visto che si vuole realizzare il famoso “ponte”, e si possono immaginare le proteste di piazza. Siamo di fronte a uno stato (“non siamo stato noi”) che, tramite un uso spregiudicato del Codice Penale, vuole blindare gli enormi favori che fa all’industria delle costruzioni, distraendo a favore di essa soldi dei cittadini che ben più proficuamente potrebbero essere dirottati su salute, scuola, cultura. Ma il ddl di cui prima non si ferma qui, perché può anche capitare che ad esempio il poliziotto sia un po’ nervoso di fronte a questa gente che sbraita, insulta, minaccia, e magari può anche capitare che ci scappi qualche manganellata, ci scappi un ferito, ohibò, e nell’ipotetico procedimento penale successivo il poliziotto decida di avvalersi per la difesa anziché dell’Avvocatura dello Stato (gratuita), di un avvocato privato. In tal caso il ddl, sempre per mano leghista, prevede che lo stato anticiperà fino a 10.000 euro per la difesa. Ma perché dicevo “ipotetico procedimento penale”? Perché a memoria mia nessun singolo operatore delle forze dell’ordine che abbia pestato dei manifestanti è mai andato a processo, ad eccezione per il caso eclatante della scuola Diaz nel 2001, mentre non si contano i manifestanti andati a processo. Ma questo accade anche per un semplice motivo, perché il nostro Stato repubblicano, il nostro Stato democratico, non ha ancora deciso di far dotare le forze dell’ordine di una misura sacrosanta (a memoria dell’art. 3 della Costituzione), cioè di un codice identificativo, come ad esempio invece accade in Francia, dimodoché si può pestare in libertà, pressoché certi dell’impunità, perché non si è in grado di risalire a nome e cognome di chi opera così diligentemente a favore dello stato. Il 19 settembre 2001 il Consiglio d’Europa ha approvato con una raccomandazione il “Codice etico europeo di Polizia”. Questo documento invitava gli Stati membri a far sì che, nel corso di manifestazioni pubbliche, ciascun agente di polizia fosse riconoscibile e identificabile. L’Italia ha finora fatto orecchie da mercante. Quanto sopra serve anche a dimostrare che stiamo andando sempre più verso uno Stato autoritario, ma che non si deve parlare di nuovo fascismo, perché a quello che sta diventando lo Stato hanno contribuito pesantemente tutti i governi che hanno preceduto quello inguardabile attuale. *Scrittore in campo ambientale e sociale Amici e compagni: perché linciate Toti cantando Faber? di Piero Sansonetti L’Unità, 19 luglio 2024 Non si era mai vista una manifestazione di piazza dell’opposizione contro un carcerato. E poi cantano De Andrè. Ma lo hanno mai ascoltato? Ieri l’opposizione è scesa in piazza, a Genova, contro un detenuto. Nella stessa giornata nella quale la Procura si è accanita proprio contro quel detenuto, spedendogli un nuovo ordine di cattura sempre per lo stesso reato: finanziamento del partito. Parliamo di Giovanni Toti. Avevamo rivolto un appello ai capi dell’opposizione perché desistessero. Non ci hanno ascoltato. Così per la prima volta, credo, almeno nel dopoguerra, vince l’idea maramalda del linciaggio come strumento politico. La folla che si raduna perché vuole punire un prigioniero è esattamente la ripetizione del rito del linciaggio. Era molto diffuso negli Stati americani del Sud, in Alabama, in Mississippi, nell’Ottocento. Allora la vittima era quasi sempre un nero. Il linciaggio era la forma più degenerata di una idea marcia di democrazia e di populismo. Però era un’idea di democrazia. “Decide il popolo, Giudica il Popolo. È il popolo che punisce. Datelo a noi”. Oggi è così a Genova. Dicono i capi dell’opposizione: non sappiamo se è colpevole, non ci interessa la giustizia: ma va punito. Punito da noi. Scacciato. Indicato al ludibrio pubblico perché noi sappiamo che è salito sulla barca di un imprenditore. Ieri mattina il popolo anti-Toti si è riunito in piazza. Cantava una canzone bellissima di De Andrè, l’ultima di un disco fantastico ribelle e assolutamente illegalista, “storia di un impiegato”, la quale è la condanna assoluta e totale delle prigioni e del giustizialismo. C’è un verso che dice: “Vagli a spiegare che è primavera, e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera…”. E poi dice: “di respirare la stessa aria di un secondino non mi va…”. Ho pensato: poverelli. Cantano ma non sanno cosa cantano. Amano De Andrè ma non sono in grado di ascoltarlo. De Andrè è un poeta. Non è facile capire i poeti. Mi sono ricordato di un episodio meno poetico ma molto simile. Inverno 2002. Un giorno a Parigi viene arrestato Paolo Persichetti (con un trucco che serve ad aggirare la dottrina Mitterrand) e estradato in Italia; intanto viene scarcerato un vecchio collaborazionista, un certo Papon, novantenne. La sinistra, soprattutto la sinistra italiana, degli esuli, scende in piazza e forma un corteo. Grida: “Persichetti libero, Papon in galera”. Arriva in piazza. Parla Oreste Scalzone, mitico leader del Sessantotto romano. Si rivolge alla piazza. Avverte: “dirò qualcosa che non vi piace”. Poi spiega: “io non sempre stato per l’abolizione delle carceri, non chiederò mai che qualcuno vada in galera. Persichetti libero e basta”. Inaspettatamente viene sommerso dagli applausi. Il corteo riparte. E cosa grida? “Persichetti libero e Papon in galera”. Le parole di Scalzone evaporate. Quando non capisci niente non c’è niente da fare: non capisci niente. E canti De Andrè a un raduno di giustizialisti. De Andrè: che chiese il perdono per i rapitori che lo avevano tenuto imprigionato per mesi nei boschi del Supramonte! Via D’Amelio, dopo 32 anni certa “antimafia” vede crollare i suoi dogmi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2024 Per oltre 30 anni è esistito un fronte granitico di una certa antimafia, non priva di personaggi grotteschi - si pensi all’uomo con le stimmate che parla con gli esseri di luce provenienti dal Sole - che ha sponsorizzato le teorie più disparate sulla strage di Via D’Amelio, ciclicamente riproposte come novità. Questo fronte è però andato in cortocircuito quando, per la prima volta, Fiammetta Borsellino, la figlia più piccola del giudice trucidato dalla mafia, è “scesa in campo” ricordando il ruolo, poco esplorato, dei magistrati inquirenti sulla gestione del pentito farlocco Scarantino. Non solo: la goccia che ha mandato in isteria l’antimafia da palcoscenico è stata quando ha indicato la questione del dossier mafia- appalti e la sua gestione da parte della Procura di Palermo di allora. E questo non le verrà mai perdonato. Un duro colpo al fronte unico e interessato lo ha dato l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Borsellino e rappresentante legale dei figli. Da quando ha articolato con minuzia di particolari la via crucis del giudice in quei cinquantasette giorni che separano la morte di Falcone dalla sua, e soprattutto smontando le manipolazioni, è partita la macchina della denigrazione. Incredibile è stato il comportamento di alcuni deputati del Pd, in particolare Walter Verini, che nella commissione Antimafia guidata da Chiara Colosimo ha contribuito a delegittimare l’audizione dell’avvocato Trizzino. Come non ricordare quando, in audizione, il legale dei figli di Borsellino ha ricordato la singolare richiesta da parte dell’allora magistrato Gioacchino Natoli volta alla distruzione dei brogliacci e alla smagnetizzazione delle bobine relative alle sue indagini - secondo l’attuale procura di Caltanissetta guidata da Salvatore De Luca - ‘apparenti’, scaturite dalla nota giunta dal procuratore Augusto Lama di Massa Carrara sul ruolo dei fratelli mafiosi Buscemi con la Ferruzzi- Gardini, individuati dall’allora maresciallo della finanza Franco Angeloni. Ruolo delineato anche dal dossier dei Ros, già depositato. Ebbene, subito Natoli si fa intervistare dal Fatto Quotidiano. A seguito di quell’intervista, il deputato Verini chiede di farlo sentire in Antimafia, per le “ricostruzioni scarsamente credibili, che hanno messo perfino in discussione ruoli e comportamenti posti in essere da un magistrato di valore e di coerente impegno nel contrasto alla mafia come Gioacchino Natoli”. Secondo Verini, la ricostruzione dell’avvocato Trizzino, voce dei figli di Borsellino, era “scarsamente credibile”. Forse, così scarsa non è, visto che Natoli stesso è stato raggiunto da un avviso di garanzia e, per ora, legittimamente si è avvalso della facoltà di non rispondere. È comprensibile che il M5S, che ha tra le sue fila gli ex magistrati Roberto Scarpinato e Cafiero De Raho, si opponga ferocemente alla ricostruzione dell’avvocato Trizzino, ma è singolare che lo faccia il Pd. Forse Elly Schlein, la quale anche per questioni anagrafiche è fuori, per dirla come Giovanni Falcone, da quel “gioco grande”, potrebbe intervenire. Un cambiamento ci vuole, perché la problematica politica è antica. Mentre Chiara Colosimo è contrastata dai commissari che sono all’opposizione (tranne Italia Viva, + Europa e almeno per adesso anche l’alleanza Verdi e Sinistra, i quali hanno dimostrato di avere rispetto per il legale dei figli di Borsellino) - un contrasto particolarmente significativo data l’inspiegabile interruzione dell’audizione dell’avvocato Ugo Colonna, legale del collaboratore Maurizio Avola -, alla fine degli anni 90 si verificò un precedente singolare. Ottaviano Del Turco, all’epoca presidente della commissione Antimafia, incontrò l’opposizione della sua stessa maggioranza di centrosinistra quando portò in audizione l’allora maresciallo Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino. La motivazione ufficiale era che all’epoca Canale era sotto inchiesta (poi definitivamente assolto), ma la verità è che egli osò affermare che Borsellino non aveva piena fiducia in alcuni colleghi della procura di Palermo. Su consiglio dello stesso Del Turco (per proteggerlo dalle inevitabili ripercussioni), Canale non fece i nomi. All’epoca scoppiò il bubbone di mafia- appalti. Ne nacque una polemica fra Ros e l’allora procura di Palermo che aprì la sequenza di processi contro il generale Mario Mori, e lo scontro si spostò sui giornali, dove le parti della procura furono sostenute da Repubblica e Unità e quelle del Ros da Peppe D’Avanzo, allora al Corriere della Sera. Ci furono indagini a seguito delle querele vicendevoli tra l’allora Ros De Donno e alcuni dell’allora procura palermitana. Addirittura scoppiò il caso della gestione del pentito Angelo Siino da parte dei magistrati palermitani, quando per questioni di opportunità non potevano farlo visto che c’erano indagini in corso sulla questione della fuga di notizie e corruzione. Le accuse vicendevoli si conclusero con l’archiviazione dell’allora Gip Gilda. Lo Forti. Sul fatto di Siino, la corrente Unicost chiese al Csm di aprire una procedura contro alcuni togati palermitani. Ovviamente non fu dato seguito a tale richiesta. E in quel contesto c’era appunto Del Turco come presidente della commissione Antimafia. Ma la procura di Palermo di allora era intoccabile, guai a muovere critiche. La storia in qualche modo si ripete, ma forse ci sarà un finale diverso. Dopo 32 anni di tesi fuorvianti, non è ammissibile che tutto ritorni come prima. Al netto delle varie ricostruzioni, bisogna partire da un dato di fatto. Borsellino si era insediato nel nuovo ufficio di procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo nel gennaio del 1992 e il suo arrivo era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato che il suo arrivo avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco (l’allora capo della procura, ndr)”. Non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal giudice Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo. A tale proposito le plurime sentenze del tribunale di Caltanissetta hanno ricostruito, anche sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla moglie del magistrato e da alcuni suoi stretti collaboratori e colleghi, le ragioni del contrasto fra Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, ricordando come tale delega, più volte sollecitata da Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita. Borsellino, inoltre, aveva mostrato particolare attenzione, dopo la morte del collega e amico Giovanni Falcone, per le inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa Nostra nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale. Come dichiarato, nell’ambito del procedimento Borsellino ter, dai testi Mario Mori e Giuseppe De Donno, il magistrato aveva loro proposto - nel corso di un incontro dedicato che aveva avuto luogo il 25 giugno 1992 presso la caserma dei Carabinieri Carini di Palermo - la costituzione, presso il Ros dei Carabinieri, di un gruppo coordinato da De Donno che avrebbe dovuto sviluppare le indagini in tema di mafia e appalti. L’interesse mostrato dal giudice Borsellino per quel settore di indagini, unitamente all’incarico che ricopriva quale Procuratore Aggiunto e alla prospettiva che venisse nominato Procuratore Nazionale Antimafia, costituivano ragioni idonee, per Cosa Nostra, a far ritenere necessaria l’accelerazione (sia Borsellino che Falcone erano condannati a morte fin dagli anni 80) e la determinazione della sua eliminazione. Anche perché, a quel punto, avrebbe avuto la forza di coordinarsi con Antonio Di Pietro e allargare la questione di tangentopoli alla mafia. Che Borsellino, negli ultimi giorni di vita, stesse lavorando sugli appalti, emerge dai verbali desecretati dalla attuale commissione Antimafia. Qualcuno, all’interno della procura, aveva remato contro. E non poteva essere solo Giammanco. Salerno. Detenuto uccide il compagno di cella, ha sgozzato l'uomo con una lametta ansa.it, 19 luglio 2024 Omicidio nel carcere di Salerno dove un detenuto magrebino armato di una lametta ha aggredito e sgozzato un connazionale. L'aggressore è stato bloccato dagli agenti della polizia penitenziaria. "E' da tempo che denunciamo lo stato di abbandono delle carceri campane; questo è un episodio gravissimo; non abbiamo più parole per definire la confusione gestionale da parte di chi governa le carceri in Campania". Lo afferma il sindacato di polizia penitenziaria Uspp. "In questo marasma generale - affermano i segretari Auricchio e Del Sorbo - a farne le spese sono i poliziotti penitenziari, lasciati soli, in un silenzio assordante, senza strumenti idonei. Come sindacato abbiamo più volte denunciato il sovraffollamento del carcere di Salerno che ha il tasso più elevato in regione oltre che una carenza di organico che si attesta sulle 70 unità di personale di polizia penitenziaria. Nonostante le gravi difficoltà il personale di Salerno con enormi sacrifici riesce comunque a garantire l'ordine e la sicurezza interna; tuttavia in queste condizioni estremamente precarie, di degrado, sovraffollamento e complessità dell'utenza, alcune tragedie non sono altro che cronaca di morti e gravi eventi critici più volte annunciati". Sappe, inerzia dell'amministrazione - "E' l'ennesimo episodio gravissimo di violenza presso gli istituti campani". Lo afferma il segretario regionale del Sappe Tiziana Guacci, secondo cui il sindacato "da tempo denuncia lo stato di abbandono delle carceri in Campania" dove "si continua ad assistere a continue aggressioni non solo al personale di polizia penitenziaria ma anche alla popolazione detenuta". "Di fronte a tali denunce - continua la sindacalista - riscontriamo una inerzia del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria rispetto ad interventi concreti e risolutivi. Siamo molto preoccupati non solo per l'incolumità del personale di polizia penitenziaria ma della stessa utenza che vuole scontare la propria pena in maniera serena". Napoli. Carceri al collasso, è emergenza umanitaria Il Roma, 19 luglio 2024 Don Battaglia indice una conferenza per il rispetto e la dignità dei detenuti e delle loro famiglie. La Chiesa di Napoli, con il suo Vescovo don Mimmo Battaglia, “ascolta il grido dei detenuti e delle loro famiglie, e vuole farsi voce di sostegno e di speranza affinché ci siano risposte serie e urgenti nel rispetto delle leggi e a favore della dignità umana” e così promuove per il prossimo venerdì 19 luglio una conferenza al centro Diocesano di Pastorale carceraria. All’incontro parteciperanno don Franco Esposito, direttore dell’ufficio di Pastorale carceraria; padre Alex Zanotelli, missionario Comboniano; Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti, don Tonino Palmese garante comunale dei detenuti. “La situazione delle nostre carceri le parole di don Franco Esposito diventa di giorno in giorno sempre più drammatica, il sovraffollamento, la carenza di operatori, il dramma dei suicidi, le criticità del sistema sanitario, rendono questi luoghi invivibili e ledono i diritti fondamentali della persona “Il carcere è al collasso. Siamo in piena emergenza umanitaria sia sulle problematiche carcerarie degli adulti sia sul tema della giustizia minorile. La situazione richiede un’azione rapida e precisa da parte del legislatore e del Governo” afferma il portavoce dei garanti territoriali e garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, in occasione della giornata di mobilitazione promossa dai Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, che denuncia come “il decreto legge sul carcere, del 4 luglio 2024, per la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali dei detenuti è una scatola vuota, non in grado di porre un argine immediato alle drammatiche condizioni in cui versano gli istituti di pena italiani”. Ciambriello definisce “preoccupante” l’indice di sovraffollamento che riferisce “ad oggi è arrivato al 130 per cento: ci sono 7.027 persone detenute che devono scontare meno di un anno di carcere. Sono dati allarmanti afferma conseguenti anche a scelte di politica penale che, in un’ottica puramente repressiva e securitaria, hanno portato all’introduzione di nuove fattispecie di reato, all’innalzamento della durata di pene detentive per alcune specie di reato, all’inasprimento dell’applicazione di misure cautelari, anche per reati di lieve entità”. Nella nota i Garanti esprimono l’auspicio che al testo ci siano “emendamenti migliorativi in sede di discussione al Senato e alla Camera e chiediamo un incontro urgente con il ministro Nordio”. Torino. I detenuti non rientrano nelle celle di Massimo Massenzio Corriere Torino, 19 luglio 2024 Non si fermano le proteste nel carcere di Torino, dove la situazione è sempre più “esplosiva”. Dopo le rivolte, gli incendi e le aggressioni dei giorni scorsi, nella giornata di giovedì 270 detenuti (su 470) del padiglione C si sono rifiutati di rientrare in cella, rimanendo nel cortile fino alle 18. A scatenare la nuova contestazione, ci sarebbero le condizioni di degrado del Lorusso e Cutugno e la presunta lentezza burocratica delle procure e della magistratura di Sorveglianza. Durante la protesta non si sono registrati scontri, ma i manifestanti hanno chiesto colloqui con il garante nazionale dei detenuti, con i rappresentanti di governo e del Tribunale di Sorveglianza. Gli agenti di polizia penitenziaria sono rimasti in allerta 10 ore per gestire la situazione. Il sindacato Osapp invoca, ancora una volta, l’intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Da tempo segnaliamo le gravissime criticità del carcere di Torino e di altri istituti, tanto che la situazione sta diventando sempre più grave e pericolosa con rischio per l’incolumità fisica di tutti - dichiara il segretario generale Leo Beneduci -. Sollecitiamo il ministro Nordio ad assumere concreti interventi, oramai le carceri sono un inferno dove “comanda la criminalità organizzata”, mentre i detenuti “spadroneggiano”. E chiediamo alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni di dichiarare lo stato di emergenza perché il sistema penitenziario è allo sfascio”. Brescia. Carcere, detenuti e sindaca senza risposte da Roma di Manuel Colosio Corriere della Sera, 19 luglio 2024 Esasperati e delusi, ma comunque alla ricerca di dialogo. Sono i detenuti del più sovraffollato carcere d’Italia, il Nerio Fischione di Brescia, protagonisti del “Mandela Day” che si è tenuto anche qui, come accade ogni 18 luglio in tutto il mondo. La giornata a sostegno di quelle che sono conosciute come le “Nelson Mandela Rules”, le norme che fissano gli standard minimi di tutela in materia di trattamento penitenziario dei detenuti fatte proprie dalle Nazioni Unite nel 2015, ha avuto due momenti distinti: alle 18.30 all’esterno dell’invivibile carcere cittadino e di Verziano decine di persone hanno letto gli scritti dei reclusi e con cartelloni appesi ai loro corpi hanno chiesto che quelle buone pratiche, attualmente lontane dall’essere rispettate, possano diventare la prassi anche in Italia e Brescia ed invertire la rotta che ha provocato in Italia un record di suicidi: 56 dall’inizio dell’anno. Questa drammatica situazione necessita di risposte urgenti, soprattutto per ridurre il cronico sovraffollamento nel quale versano gli istituti di pena. Non c’è più tempo da perdere, anche perché dentro le mura del carcere la situazione, oltre che drammatica, comincia a farsi difficile anche sul fronte della convivenza tra chi ha intrapreso una via di dialogo con le istituzioni e chi crede che, alla luce delle risposte che non arrivano, sia necessario dare un segnale più incisivo. Lo si legge tra le righe di uno degli scritti ripresi anche ieri durante l’iniziativa firmato dai detenuti del “Mir” (acronimo di “manifestiamo insieme responsabilmente”) che ammettono come “non tutti i detenuti, anche qui a Brescia, sono d’accordo con la strada che noi abbiamo scelto. Alcuni vorrebbero adottare strategie diverse, anche eclatanti. Noi, per quel che possiamo, ci impegniamo quotidianamente per promuovere il dialogo con le Istituzioni e la richiesta pacifica di risposte urgenti”. I detenuti protagonisti di questa lettera, inviata anche a Mattarella e Meloni, ricordano come la loro scelta dialogante non stia dando i frutti sperati. “Mantenere giorno dopo giorno questo impegno non è facile, abbiamo bisogno di risposte per poter convincere anche chi non crede in questa strategia che i risultati possono arrivare solo dalla condivisione di obiettivi e azioni. In questo modo altri Istituti di pena potrebbero seguire il nostro esempio e abbandonare ogni forma di azione pericolosa e lesiva dei diritti di tutti” continuano nella lettera, che non è comunque la prima che inviano. Attivi già nel 2022, questi detenuti ricordano che la loro scelta di dialogare invece che protestare sia dovuta al “senso di responsabilità e la sincera volontà di utilizzare il tempo della pena in maniera positiva ed essere elementi, oltre che proclamati, visibili anche attraverso gesti coerenti con le nostre parole”. Due anni dopo però le loro condizioni non sono migliorate, ma “sono andate sempre più deteriorandosi fino a raggiungere oggi la situazione che è evidente a tutti, caratterizzata da un intollerabile numero di suicidi e da un sovraffollamento che ci sta togliendo dignità e speranza”. Un vero e proprio grido di aiuto che giunge da dentro le mura di Canton Mombello e che ha trovato ieri riscontro anche fuori grazie all’iniziativa organizzata dall’ufficio della Garante dei detenuti, associazioni, cooperative, Camera Penale ed Uepe. A promuovere l’evento anche il Comune di Brescia, che in una nota della sindaca Laura Castelletti ha ribadito il proprio impegno “nel chiedere un intervento concreto del Governo, il solo che ha il potere e la giurisdizione per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri”. Ricordando di avere spinto per una più moderna e funzionale struttura penitenziaria a Verziano, Castelletti ricorda che le sollecitazioni inviate “restano senza risposta” e ribadisce che “Canton Mombello va definitivamente chiuso, perché non più in grado di rispondere alla funzione di recupero e risocializzazione di chi sta scontando la pena. Il solo trasferimento di una parte dei detenuti a Verziano è un’opzione inadeguata per rispondere a una criticità che, come sottolineato anche recentemente dalla Garante dei detenuti, è ormai intollerabile. Ma da Roma non arrivano indicazioni da mesi”. Si chiedono quindi atti concreti prima che altre vite umane paghino una condizione che nulla a ha che fare con quel “senso di umanità” che la nostra Costituzione prescrive. Bologna. Zuppi al carcere della Dozza: “Più misure alternative” di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 19 luglio 2024 L’arcivescovo ha incontrato i detenuti in occasione della presentazione di “Codice ristretto”, un vademecum sui diritti delle persone detenute. “Servono più misure alternative al carcere”. Lo ha detto il cardinale Matteo Zuppi che ieri ha visitato il carcere della Dozza che come molti altri istituti in Italia è sovraffollato. Basterebbe un numero e nessun’altra parola. “È arrivato il 57esimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno, 57 persone che vanno ascoltate. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di commentare questo dato ma almeno va letta l’emergenza; perché è chiaro come ci siano dei meccanismi che non funzionano”. Riconoscere i malfunzionamenti dell’amministrazione carceraria per poi cercare di trovare soluzioni, a partire dalle misure alternative, è il primo e più forte appello del cardinale e presidente della Cei, arcivescovo Matteo Zuppi, che ieri ha incontrato i detenuti della Dozza di Bologna in occasione della consegna del nuovo Codice ristretto, una guida sui diritti delle persone detenute - in primis l’ottenimento delle misure alternative al carcere - distribuita in tutti gli istituti penitenziari della regione. “Nella Costituzione non si parla di carcere, ma di pene - ha proseguito Zuppi - nemmeno di pena. Ecco, che venga preservato almeno il plurale”. Plurale che riguarda appunto anche le misure alternative e i benefici ai quali in alcune condizioni si può accedere, oggetto proprio del vademecum voluto dal garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, dalla Camera penale di Bologna e dalla commissione per la Parità e i diritti dell’Assemblea legislativa (presenti ieri i rappresentanti di tutte queste realtà).”Tutti gli indicatori dicono che le misure alternative danno maggior sicurezza e riducono i rischi di recidiva - ha aggiunto l’arcivescovo -. Piuttosto che “buttare via la chiave”, come spesso si sente dire, meglio tenerla e girarla al momento opportuno”. Promuovere la cultura dei diritti dei detenuti, come azione in sé, non risolverà i diversi problemi delle carceri emiliano-romagnole e non solo, dal sovraffollamento (a Bologna 339 persone in più rispetto alla capienza massima di 450 circa) al sottodimensionamento del personale, ma un passo verso un cambio di prospettiva potrebbe farlo compiere: “Le carceri cambiano se a cambiare sono le attività”, ha ribadito Zuppi, auspicando una reazione di tutto il sistema, anche esterno. Basti pensare, come ha ricordato sempre l’arcivescovo, la carenza di alloggi protetti: “Ci sarebbe bisogno di molte più iniziative simili a Casa Corticella”, che è la Don Nozzi, la comunità per detenuti in misura alternativa con otto posti inaugurata un paio di anni fa. Lo stesso potrebbe dirsi per le attività lavorative e imprenditoriali: il valore di Fid-Fare impresa in Dozza - l’azienda costruita all’interno del carcere per dare un riscatto lavorativo e una prospettiva futura - è stato ricordato anche da Igor Taruffi, l’assessore regionale al Welfare presente ieri, che ha poi aggiunto “la programmazione di due milioni di euro all’anno nel triennio per il reinserimento sociale” e, ancora, l’importanza del fare rete anche con le istituzioni religiose. Tra i membri della delegazione, oltre ai consiglieri regionali Marco Mastacchi, Silvia Piccinini e alla vicepresidente dell’Assemblea legislativa, Silvia Zamboni, anche il presidente dell’Ucoii, Yassine Lafram. “Le comunità islamiche italiane sono da tempo attente alla situazione delle carceri e al loro sovraffollamento. Ci occupiamo di mediazione linguistica e in questo modo facciamo prevenzione vera alla radicalizzazione. Difficoltà linguistiche e di conservazione dei rapporti familiari hanno riflessi negativi sul percorso di risocializzazione e sull’applicazione di misure quali lavoro esterno, permessi premio, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà, liberazione anticipata”. Bisognerebbe “considerare questo mondo del carcere, che sembra fuori dal mondo, dentro al mondo”, è la conclusione di Silvia Zamboni. Catanzaro. Il Garante dei detenuti: “La politica non dà risposte concrete” Gazzetta del Sud, 19 luglio 2024 “Oggi è una giornata di mobilitazione promossa dai Garanti territoriali delle persone private della libertà personale - scrive Luciano Giacobbe, Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale - Per questo la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali ha indetto una quarta giornata d’iniziative di denuncia e sensibilizzazione. Il sistema carcerario per i Garanti è al centro di un acceso dibattito politico e sociale, purtroppo la politica non dà risposte concrete. Sono trascorsi ormai quattro mesi dall’appello “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti” con cui il Presidente della Repubblica invitava la classe politica del nostro Paese ad adottare, con urgenza, misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiani, causato principalmente dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e dall’inefficienza dell’assistenza sanitaria intramuraria e dalle Circolari del DAP sul trattamento penitenziario. Il Decreto-Legge sul carcere, del 4 luglio 2024, per la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale è una vera e propria scatola vuota, non in grado di porre un argine immediato alle drammatiche condizioni in cui versano gli Istituti di pena italiani. Preoccupante è l’indice di sovraffollamento che, ad oggi, è arrivato ad essere pari al 130%. Ci sono 7.027 persone detenute che devono scontare meno di un anno di carcere. Dati allarmanti, conseguenti anche a scelte di politica penale che, in un’ottica puramente repressiva e securitaria, hanno portato all’introduzione di nuove fattispecie di reato, all’innalzamento della durata di pene detentive per alcune fattispecie di reato, all’inasprimento dell’applicazione di misure cautelari, anche per reati di lieve entità”. Il Garante comunale di Catanzaro evidenzia che siamo in piena emergenza umanitaria, sia sulle problematiche carcerarie degli adulti sia sul tema della giustizia minorile. Nell’inerzia delle Istituzioni, si sta allungando l’elenco delle persone detenute che, da gennaio 2024 ad oggi, si sono tolte la vita: al momento in cui si sta scrivendo, sono 57 le persone suicide di cui uno all’interno del Cpr di Ponte Galeria, a cui è doveroso aggiungere il numero dei 6 agenti di polizia penitenziaria che, nello stesso arco di tempo, pure hanno deciso di togliersi la vita. Altrettanto preoccupante è l’aumento dei casi di autolesionismo e il dilagare di fenomeni di violenza e di tortura che si consumano nelle carceri italiani, come testimoniato anche dalle recenti indagini giudiziarie riguardanti i fatti consumati nel carcere di Reggio Emilia o, ancor più drammaticamente, l’inchiesta sulle violenze in danno di minori, reclusi presso l’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano. Così come allarmanti sono i casi di proteste, anche violente, che, in conseguenza delle condizioni di detenzione che ledono la dignità umana, si stanno registrando in diversi Istituti Italiani, come la protesta scoppiata a Viterbo il 10 luglio scorso, dopo che un detenuto è stato trovato privo di vita nella sua cella o come quanto accaduto l’11 luglio u.s. nell’Istituto di Trieste, come protesta per la mancata previsione di rimedi per contenere le temperature eccessivamente alte di questo periodo, in un ambiente detentivo caratterizzato da prolungato sovraffollamento. Luoghi comuni, etichette e stereotipi impediscono di vedere la reale dimensione del fenomeno. Non si tratta tanto o solo di comprendere le diverse cause che generano i suicidi in carcere (sovraffollamento, carenze di organici, fragilità psicologica, strutture fatiscenti), ma di accettare che sono soprattutto le fasce più deboli ad essere sopraffatte e “schiacciate”. Lo dicono i numeri: il 64% delle persone che si sono tolte la vita negli ultimi due anni aveva commesso reati contro il patrimonio; il 60% dei suicidi si è verificato nei primi sei mesi di detenzione; il 40 % di suicidi si è consumato oltre i primi sei mesi, con una percentuale elevata nell’ultimo periodo di detenzione e l’interessamento di molti detenuti senza fissa dimora. Il circuito più interessato dai suicidi è, non a caso, quello di “media sicurezza”. Le persone con patologie psichiatriche che si sono tolte la vita sono meno del 10%. È evidente dunque che i suicidi e gli atti di autolesionismo in carcere coinvolgono persone vulnerabili, detenuti che hanno commesso reati di bassa o media gravità, alla prima esperienza di detenzione, ovvero in procinto di essere dimessi, ma senza reti familiari o sociali che possano favorirne il reinserimento. Numeri e fatti impressionanti, che richiedono, nell’immediato, l’adozione di soluzioni che rendano le carceri luoghi davvero rispettosi della dignità umana e vivibili, sia per chi vi è recluso sia per chi ci lavora. La situazione, pertanto, richiede un’azione rapida e precisa da parte del legislatore e del Governo e per questo la Conferenza dei Garanti chiede di essere ascoltati dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio, in considerazione del nostro ruolo, della nostra funzione, del nostro sguardo inclusivo, del nostro vedere il carcere da diversi punti di vista. Come già affermato in diverse occasioni pubbliche, indignarsi non basta più. Serve praticare l’impegno e tradurlo in soluzioni giuridiche immediate per ridare a più di 60 mila persone speranza e dignità, quelle che, oggi, il Legislatore - anche in conseguenza della scarsa adeguatezza del recente Decreto Legge ad incidere nell’immediato sulle drammatiche condizioni detentive - sta svilendo. Luciano Giacobbe Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Storie di genitori in carcere, i loro racconti nel podcast “Una finta giornata di sole” La Stampa, 19 luglio 2024 “Una finta giornata di sole - Storie di genitori in carcere”, si può ascoltare sulla piattaforma RayPlay Sound (https://www.raiplaysound.it/playlist/unafintagiornatadisole-storiedigenitoriincarcere) ed è legato a un laboratorio di produzione che si è svolto all’interno della biblioteca della casa circondariale Lo Russo e Cotugno. Il progetto (della Fondazione Circolo dei Lettori e delle Biblioteche Civiche Torinesi) ha previsto, fra fine gennaio e inizio febbraio 2024, cinque giornate di laboratorio di produzione, condotte da Francesca Berardi, giornalista e autrice di storie audio, con il contributo di Luca Morino, musicista, sound designer e autore delle musiche. Il laboratorio è stato in prima battuta un’occasione di far conoscere come si costruisce un podcast: “Volevo raccontare cos’è l’audio documentario, in modo che chi partecipava avesse pieno possesso di ciò che sarebbe avvenuto poi” dice Francesca Berardi. Questo aspetto di consapevolezza è stato molto importante perché gli incontri, mi racconta, “hanno preso una piega imprevedibile”. Il laboratorio ha assunto la forma di sessioni di racconto e ascolto: i partecipanti si facevano avanti e si narravano agli altri “in una chiave intima e privata che non era mai stata condivisa in quell’ambito carcerario”. Il tema scelto, la genitorialità, ha sicuramente facilitato il racconto: “Ho pensato a un argomento che trascendesse la condizione carceraria e potesse avere una dimensione vitale”, spiega ancora Francesca. Marco Monfredini, responsabile della biblioteca, che si è occupato della formazione del gruppo e degli incontri preliminari, sottolinea anche come queste testimonianze siano capaci di portare verso l’esterno “storie che non parlano del carcere nella solita maniera”. Noi di San Patrignano attori e registi: diventa il film la vita di comunità di Enea Conti Corriere della Sera, 19 luglio 2024 “Sospesi” è il titolo della pellicola che sarà proiettata al Giffoni Film Festival, ideata nel progetto “SanPa Cine Lab” diretto da Paolo Ruffini e realizzato da 28 ospiti. Non racconta storie di droga o dipendenza, ma la vita insieme e la collaborazione tra i suoi abitanti. Quando una ragazza o un ragazzo, un uomo o una donna, varcano la soglia della comunità di San Patrignano, a Coriano, sulle colline intorno a Rimini lo fanno per mettersi alle spalle una vita fatta di dipendenze: che sia dalle droghe o dall’alcool non importa. Loro sanno che il percorso che li attende impone prima di tutto uno stacco dalla quotidianità e una routine, con la speranza di vederla allontanarsi sempre di più volgendo all’indietro lo sguardo. È una lunga pausa di riflessione, di sospensione che anche per le sfumature malinconiche, a tratti drammatiche, necessità di un atto di coraggio per essere rivelata. Accadrà al Giffoni Film Festival, giunto quest’anno alla sua 54esima edizione e partito giovedì 19 luglio: “Sospesi”, non a caso, è il titolo del primo film, un cortometraggio d’autore di 45 minuti scritto, diretto e interpretato dai ragazzi e dalle ragazze di San Patrignano, prodotto da Vera Film e San Patrignano, in collaborazione proprio con Giffoni Film Festival, pensato e ideato nel progetto SanPa Cine Lab, laboratorio di cinematografia sperimentale diretto da Paolo Ruffini, che in cinque mesi ha insegnato ai partecipanti l’arte del fare cinema: scrivere sceneggiature, utilizzare i linguaggi base del film making, cenni anche ai legami tra cinema e industria cinematografica (produzione, realizzazione, promozione). L’anteprima - È un film interamente in bianco e nero, quasi ad evocare una storia senza tempo ed epoche. L’anteprima nazionale è andata in scena nell’auditorium di San Patrignano, alla presenza proprio di Ruffini, applauditissimo, nel pomeriggio di mercoledì 17 luglio. E l’auditorium è solo una delle 17 location della comunità - che è un po’ come una città nella città - che propone questo viaggio cinematografico: ci sono un palazzetto per l’equitazione, una piscina semi olimpionica, un teatro, l’immensa sala da pranzo, la lavanderia, il canile, il deposito del fieno, e ancora, le vigne, gli allevamenti, il laboratorio delle decorazioni, hanno fatto da sfondo alle riprese (coinvolte circa 800 comparse, tutte appartenenti alla comunità, in più di 60 scene per un totale di oltre 330 ciak battuti). Ventotto le persone della comunità impiegate nel cuore della produzione, suddivise in due classi, quella degli attori, che ha seguito le lezioni del docente di recitazione Gabriele Colferai e quella dei pensatori che ha seguito le indicazioni del docente di sceneggiatura Stefano Ascari. Un set inclusivo - “Il valore del valore svolto a San Patrignano - ha detto Paolo Ruffini - è immenso. I ragazzi hanno provato a fare i registi, gli attori, gli elettricisti di scena. San Patrignano è stato un set inclusivo. Abbiamo lavorato molto sul neorealismo, la scelta di usare il bianco e nero è stata presa proprio dai ragazzi. Raccontiamo quattro storie d’amore che abbiamo incrociato: due nei confronti del prossimo e due noi confronti di noi stessi, ambientate qui all’interno della comunità, in questo tempo di sospensione”. Sotto la guida dei docenti i ragazzi hanno lavorato anche alla sceneggiatura del cortometraggio, scrivendo battute e dialoghi. Una premessa è d’obbligo: in “Sospesi” non vengono raccontate storie di droga o dipendenza, ma tutto ruota attorno alla vita di comunità e alla reciproca collaborazione tra i suoi abitanti. La Consulta dal volto umano respinge l’attacco sui temi etici di Donatella Stasio La Stampa, 19 luglio 2024 Laura Santi era arrivata alla Corte costituzionale alle 9,00 in punto del 19 giugno. Una missione quasi impossibile, la sua. Non perché fosse inchiodata a una sedia a rotelle ma perché la battaglia per conquistare il diritto di parola nel processo sul suicidio assistito sembrava persa fin dall’inizio. Dall’esito di quel processo sarebbe dipeso il suo commiato da una vita che, già da molto tempo ormai, non è più vita. Perciò non poteva e non voleva restare fuori dalla porta. Laura ha 49 anni, è giornalista, vive a Perugia ed è malata di sclerosi multipla, come Martina Oppelli, sua coetanea e architetta triestina. Insieme hanno combattuto per “intervenire” nel processo davanti alla Consulta, nato dalla vicenda di un altro malato di sclerosi multipla, Massimiliano, andato a morire in Svizzera con l’aiuto di Marco Cappato perché l’Italia gli ha rifiutato il diritto di accedere alla procedura di fine vita stabilita nel 2019 dalla Corte. Perciò, il 19 giugno, Laura e Martina si presentano a Palazzo della Consulta, la prima fisicamente, la seconda collegata in streaming, non potendosi allontanare da Trieste. E contro ogni pronostico, vincono. Entrano nel processo e portano la loro voce, la loro sofferenza, le loro ragioni, vincendo anche la battaglia finale perché, con la sentenza 135 depositata ieri, la Corte ha non solo stoppato i tentativi di restringere il perimetro del suicidio assistito disegnato nel 2019 ma quel perimetro lo ha persino ampliato. E se quest’ultimo esito era prevedibile, non lo era affatto il primo, sull’ammissibilità dell’intervento, che ci dice molto di una giustizia costituzionale dal volto umano, specie se chiamata a decidere sui temi etici. “La Corte deve essere carne e sangue del corpo sociale” diceva l’ex presidente Aldo Sandulli e non c’è dubbio che da anni la Corte sia consapevole di questo ruolo. Laura e Martina hanno mostrato i loro corpi e la loro sofferenza. Hanno chiesto di essere guardate e ascoltate. E hanno rivendicato il diritto di potersi accomiatare dalla vita quando, per le sofferenze della malattia, non sarà più una vita dignitosa. Fino a quel 19 giugno, la latitanza del legislatore e una maligna interpretazione burocratica e ideologica delle condizioni fissate nella sentenza 242/2019 avevano impedito alle due donne di accedere alla procedura per il suicidio assistito in quanto non dipendenti da “trattamenti di sostegno vitale”. Non restava, dunque, che la Corte costituzionale, unica speranza, unico approdo possibile in tempi brevi, quali sono quelli di una malattia degenerativa. Di qui la richiesta di intervenire nel processo sul caso di Massimiliano e la decisione di esserci, fisicamente, virtualmente: eccoci, siamo noi la sofferenza, la non-vita, guardateci e ascoltateci. Richiesta azzardata e coraggiosa. Le regole del processo sono ferree, e quelle sugli “interventi” nel processo costituzionale sono molto restrittive. Dura lex, sed lex. Non si scappa. Ma Laura e Martina sono combattenti vere, la vita le mette alla prova ogni giorno, e perciò quel 19 giugno accettano la sfida dell’impossibile e con lo stesso spirito attendono il verdetto della Corte. Da novembre 2023, la Corte lavora con 14 giudici perché il Parlamento, oltre ad essere latitante sul suicidio assistito, lo è anche sulla sostituzione del 15° giudice. Sei giudici si sono già occupati di fine vita e tra loro Franco Modugno e Francesco Viganò, un laico e un cattolico, che hanno firmato la sentenza di ieri. Nel 2020, Viganò registrò un podcast importante e toccante sul suicidio assistito, nel quale, oltre a spiegare la sentenza 242/2019, si soffermava sui sentimenti e sulle emozioni dei giudici, sulle notti insonni, sulla compassione che aveva guidato il collegio verso quella decisione, ovvero la condivisione di un’umana sofferenza, “che - dice Viganò - non può e non deve mai essere estranea all’esperienza del diritto”. Quelle parole e quell’esperienza ci aiutano a immaginare che cosa sia accaduto il 19 giugno, quando la Corte, a sorpresa, ha deciso di ammettere gli interventi di Laura e Martina. In base alla costante giurisprudenza costituzionale, le due richieste di intervento non avevano scampo, erano inammissibili perché la sentenza del processo nato dal caso di Massimiliano non avrebbe avuto effetti “immediati e diretti” nei confronti di Laura e Martina. Forse c’era già una bozza di verdetto negativo. Ma che senso aveva quel pezzo di carta dopo aver visto Laura, la sua forza e la sua fragilità, e dopo aver ascoltato gli argomenti delle due donne illustrati dall’avvocata Benedetta Liberali? Sembra di vederli quei 14 giudici, seduti attorno al lungo tavolo ovale, silenziosi, pensosi, consapevoli di avere a che fare con vite umane e con la sofferenza. E allora ecco che quella paginetta finisce nel cestino e un’altra prende corpo, il corpo di Laura e Martina. Il diritto si fa giustizia, si cala nel mondo reale e apre le porte del processo alle due donne, ora, subito, perché non c’è tempo. Attorno al tavolo gli sguardi si incrociano, le parole si spezzano ed ecco la decisione: una deroga, sì, la giustizia è anche questo, soprattutto questo, farsi carico della vita delle persone, dare sostanza al diritto di difesa, guardare la realtà negli occhi prima di decidere e non perdere mai la dimensione empatica del giudicare. Questo deve fare una Corte costituzionale “carne e sangue del corpo sociale”. La nostra Corte lo sa, lo ha già sperimentato sul campo e non ha avuto paura di dare corpo e voce all’umanità della giustizia. Una postura che si ritrova anche nella sentenza depositata ieri: i principi già affermati nel 2019 vengono ribaditi con fermezza, per sgombrare il campo da interpretazioni restrittive, furbizie ed equivoci, prevaricazioni e vessazioni verso i malati, e ancora una volta senza invadere il campo del legislatore. Che a questo punto, però, non ha più giustificazioni né credibilità. Ma torniamo a quel 19 giugno. La Corte rientra nell’aula di udienza. Il presidente Augusto Barbera legge l’ordinanza. Una lunga premessa fatta di precedenti contrari, così tanti che lo stesso Barbera nemmeno li cita. “E tuttavia…”. Eccolo il segnale della svolta. Un avverbio. L’impossibile diventa possibile. L’umanità dei giudici restituisce a Laura e a Martina il diritto di combattere per difendere la dignità della loro esistenza, e ora la battaglia è vinta. Chi le ha viste, dopo quella prima vittoria, racconta di lacrime di commozione. Finalmente, lacrime di gioia. Sul fine vita la Consulta allarga il campo. E richiama la politica di Francesca Spasiano Il Dubbio, 19 luglio 2024 Confermati i requisiti di accesso al suicidio assistito, tra cui il sostegno vitale. Ma la Corte invita il legislatore e il servizio sanitario a interpretarlo correttamente. Sul fine vita la Corte costituzionale non “corregge” se stessa. Ma bussa ancora alla porta della politica sorda, e invita tutti a rispettare le regole di accesso al suicidio assistito stabilite cinque anni fa. Regole che restano invariate, spiega la Corte, ma reinterpretate per ciò che riguarda il criterio dei “trattamenti di sostegno vitale”. Ovvero uno dei quattro requisiti sanciti nel 2019 con la sentenza 242 sul caso Cappato Dj/Fabo, il nodo sul quale la Corte era chiamata nuovamente a pronunciarsi per estenderne o restringerne l’interpretazione. Oppure, per superarlo. Con la sentenza 135 depositata oggi, i giudici delle leggi decidono di conservarlo. Ma al contempo di ampliarlo, spiegando nel dettaglio cosa bisogna intendere per sostegno vitale: non necessariamente un “macchinario”, dunque, ma un trattamento sanitario da cui dipende la vita del paziente. “La Corte ha, anzitutto, escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti”, si legge nel comunicato di presentazione della sentenza. Con la quale la Consulta ha dichiarato “non fondate” le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal gip di Firenze sull’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), così come modificato dalla sentenza 242, nella parte in cui subordina la non punibilità dei soggetti coinvolti al requisito del sostegno vitale. Il caso in esame riguardava Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto l’8 dicembre 2022 in una clinica in Svizzera. Lo hanno accompagnato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che si sono autodenunciati al loro rientro in Italia, rischiando il processo e una pena dai 5 ai 12 anni di carcere. La procura aveva chiesto l’archiviazione, che per il gip era impossibile accogliere senza un ulteriore intervento della Corte. Che alla fine è arrivato. “Nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia”, sottolinea la Consulta, la guida da seguire resta la sentenza Cappato. La quale prevede che le richieste di accesso al suicidio assistito arrivino da un malato affetto da una patologia irreversibile che sia capace di autodeterminarsi e che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. “Tutti questi requisiti”, dice però la Corte, devono essere correttamente accertati dal servizio sanitario nazionale, ed eventualmente dai giudici, con le modalità procedurali stabilite con la 242. Soprattutto per ciò che riguarda il concetto di “trattamenti di sostegno vitale”, che “si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività”. Anche nell’eventualità che non sia ancora sottoposto a quei trattamenti. Tra i quali bisogna includere anche “procedure quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o ‘caregivers’ che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”. I giudici delle leggi, dunque, allargano la platea di persone che potranno accedere alla procedura. Ma secondo una prima lettura della sentenza fornita dall’Associazione Coscioni, resterebbero esclusi i malati oncologici. Come l’attrice romana Sibilla Barbieri, morta in Svizzera nel 2023 dopo il no della Asl. Difficile dire, invece, se la nuova interpretazione avrebbe permesso a Massimiliano di morire in Italia: la decisione ora spetta al tribunale di Firenze, e da quella dipenderà anche la sorte dei tre indagati. Intanto La Consulta “ha espresso il forte auspicio che il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati. E ha ribadito lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza”. In mezzo c’è la volontà della persona e la tutela della sua dignità. Da bilanciare, sottolinea la Corte, con la tutela della vita umana, per evitare “la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una “pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte. Al riguardo - si legge nella sentenza - occorre qui sottolineare come compito di questa Corte non sia quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa”. “Proseguiremo con le azioni di disobbedienza civile fino al pieno riconoscimento del diritto della persona malata di non dover subire condizioni di tortura”, commenta Cappato. Che legge comunque nel nuovo intervento della Corte un positivo passo avanti. In attesa della nuova decisione che potrà seguire al vaglio di costituzionalità richiesto dal Gip di Milano per uno dei 6 procedimenti che lo coinvolgono. Anche il gip di Bologna potrebbe fare lo stesso. E ogni giudice, da ora in poi, dovrà attenersi al giudicato costituzionale: l’ultima parola spetta a loro. Sempre che la politica non decida di riprendersela, dopo i ripetuti moniti della Consulta rimasti inascoltati da cinque anni. Migranti. A bordo della nave di Emergency: “Facciamo quello che gli Stati europei non fanno” di Simone Bauducco Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2024 La Life Support è ormeggiata al porto di Civitavecchia. Ha appena salvato 178 persone nel Mediterraneo centrale ma è già pronta per ripartire per la sua ventiduesima missione. Da quando ha iniziato la sua attività nel dicembre 2022, la nave umanitaria di Emergency ha recuperato 1856 persone. “Noi facciamo quello che gli Stati non fanno - racconta a ilfattoquotidiano.it l’advocacy manager della ong Francesca Bocchini - Non è possibile voltarsi indietro e far finta di non vedere gli oltre 800 morti che ci sono stati nel Mediterraneo nei primi sei mesi del 2024”. Una media di cinque al giorno. E se si allarga lo sguardo agli ultimi dieci anni il numero dei decessi supera i 29mila. “Il vuoto lasciato dalla chiusura di Mare Nostrum non è mai stato colmato” prosegue Bocchini. E la tendenza consolidata degli Stati europei è quella di “esternalizzare” le frontiere. Prima con gli accordi con la Turchia, poi con la Libia e di recente con la Tunisia. Una strategia che si è già dimostrata “crudele e fallimentare” secondo Emergency. Eppure la presidente del Consiglio Meloni sembra voler tirare dritto verso quella strada. Lo ha ribadito da Tripoli mercoledì. “Siamo di fronte a un approccio securitario che vede tutte le persone come delle possibili minacce - commenta Bocchini - ma quello che noi proponiamo è un approccio sui diritti umani”. Una visione condivisa anche dall’Alto Commissario per i Diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Türk che nei giorni scorsi ha sottolineato come in Libia i migranti sono vittime di “gravi e diffuse violazioni dei diritti umani” perpetrate su “larga scala e impunemente” e ha invitato la comunità internazionale a rivedere e, se necessario, “sospendere”, la cooperazione in materia di migrazione e asilo con queste autorità. Le testimonianze raccolte dall’equipaggio della Life Support nel corso delle ultime missioni lo confermano. “Le storie che sentiamo dalle persone che salviamo ci dicono che la Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove concludere le operazioni di ricerca e soccorso in mare” racconta Miriam Bouteraa, mediatrice a bordo della Life Support. Un esempio? “Un ragazzo siriano che ha tentato la traversata del Mediterraneo quattro volte, le prime tre è stato respinto e riportato indietro in Libia - aggiunge Bouteraa - lì ha vissuto in condizioni disumane e ha visto persone morire per le condizioni delle carceri dove era detenuto”. Eppure nel corso di uno degli ultimi soccorsi, una motovedetta della guardia gostiera libica si è avvicinata alla Life Support. “Nonostante non sia intervenuta durante le operazioni, è comunque preoccupante la sua presenza in acque internazionali, in una zona dove dovrebbe essere Malta a coordinare i soccorsi e non la Libia - ha commentato Anabel Montes Mier, capomissione della Life Support - negli ultimi giorni due ong hanno testimoniato l’interferenza, anche violenta, della guardia costiera libica. La Libia non è un posto sicuro per terminare le operazioni di soccorso altrimenti diventa un respingimento e questo comporta una violazione del diritto internazionale.” Ma c’è un altro grande ostacolo che devono affrontare le navi come la Life Support. La politica dei “porti lontani” inaugurata con il Decreto Piantedosi a gennaio dell’anno scorso. Di che si tratta? Una prassi di assegnazione alle navi delle ong di porti molto distanti dalle aree in cui viene effettuata l’operazione di soccorso. E così la Life Support si è vista assegnare nell’ultimo anno e mezzo porti come Brindisi, Civitavecchia, Livorno, Marina di Carrara, Napoli, Ortona, Ravenna e Taranto. Cinquantasei giorni di navigazione in più che si sarebbero potuti evitare. “Ogni giorno speso per raggiungere un porto lontano è un giorno tolto all’attività di ricerca e soccorso” commenta con amarezza Bocchini. E per questi giorni di navigazione non necessari Emergency ha dovuto sostenere una spesa di 938.248 euro. Per questo la ong chiede che sia assicurata “l’assegnazione del porto di sbarco più vicino e disponibile per ridurre inutili e ulteriori sofferenze per i sopravvissuti e garantire il loro rapido accesso ai servizi di base, ma anche per evitare che le navi subiscano ritardi ingiustificati e oneri finanziari”. In attesa di ripartire, la Life Support si prepara alla prossima missione di ricerca e salvataggio. “I diritti sono di tutti, altrimenti chiamateli privilegi” si legge sulle murate della nave. Una frase di Gino Strada e che rappresenta anche un appello all’Italia e all’Europa. “Serve ripartire da un approccio basato sui diritti umani” conclude Emergency che chiede di “interrompere ogni azione che supporta l’intercettazione e il respingimento di naufraghi verso la Libia e la Tunisia” e di istituire una zona Sar europea “per soccorrere e tutelare le vite delle persone in movimento e la creazione di canali legali e sicuri di ingresso in Europa”. Salviamo Maysoon Majidi e Marjan Jamali di Luigi Manconi La Repubblica, 19 luglio 2024 Le due donne iraniane, giunte in Italia nel 2023, sono accusate di scafismo. Speriamo che, finalmente, vengano almeno ascoltate. Ponete mente a queste parole: “Andremo a cercare gli scafisti lungo tutto l’orbe terracqueo” (Giorgia Meloni, Cutro, 26 febbraio 2023). Fu, quella, una delle più meste manifestazioni dell’attuale governo. Dopo il naufragio e la morte di 94 persone, in una esibizione di rara “irreligiosità” istituzionale, senza un solo atto di partecipazione al lutto, la presidente del Consiglio - a chi le chiedeva se avrebbe incontrato i familiari delle vittime - rispondeva: “Ho finito adesso, dopodiché io… ci vado volentieri”. E non ci andò. Neanche il programma di lotta senza quartiere ai trafficanti di esseri umani ha avuto un seguito concreto. Ma è riuscito, va detto, a produrre ingenti danni sulle vite di tanti innocenti: migranti e richiedenti asilo che, dopo aver raggiunto le coste italiane per cercarvi scampo e tutela, si sono visti accusare di “scafismo”. È il caso di Maysoon Majidi e Marjan Jamali, due giovani donne iraniane giunte in Italia nel 2023 e sottoposte a provvedimenti di custodia cautelare in quanto accusate di aver violato l’art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione. Una norma destinata in teoria a combattere i trafficanti di esseri umani, ma che presenta contorni talmente indefiniti da potersi imputare a chiunque giunga a bordo di una imbarcazione e sbarchi sulle coste italiane. E le cose, ahinoi, sono destinate a peggiorare ulteriormente, dal momento che, a seguito del “decreto Cutro” (20/2023), vengono inasprite le pene già previste per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e viene introdotto il nuovo reato di “morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione”, con una pena fino a 30 anni. Marjan Jamali si trova oggi agli arresti domiciliari, mentre Maysoon Majidi è reclusa nel carcere di Reggio Calabria. La donna, 27 anni, è in una condizione di gravissima depressione e debilitazione, pesa attualmente 38 kg e si è vista rifiutare la visita di una psicologa di fiducia. Il castello di accuse contro di lei e contro Marjan Jamali è, in tutta evidenza, assai fragile e traballa a ogni seria verifica. In particolare, la persona che guidava l’imbarcazione dove si trovava Maysoon, e che ha ammesso il proprio ruolo, ha negato il coinvolgimento della donna nell’operazione; e i due testimoni indicati dall’accusa hanno ritrattato quanto precedentemente riferito, affermando di aver ricevuto pressioni da membri delle forze di polizia. I due, dichiarati irreperibili dalla magistratura, sono stati agevolmente raggiunti dalla difesa e intervistati da alcuni giornalisti. Un’altra circostanza indicata dalla Procura - il fatto che Maysoon avrebbe distribuito cibo a chi si trovava sull’imbarcazione - risulta totalmente smentita dal semplice fatto che a bordo non si trovavano generi alimentari. Infine, Maysoon e il fratello, che viaggiava assieme a lei, hanno pagato ciascuno 17 mila euro per imbarcarsi verso l’Italia. Come si conciliano questi fatti con l’accusa di aver avuto un ruolo organizzativo in quel viaggio? È assai più probabile che tutto ciò sia l’esito di un’indagine superficiale e di errori cui non si vuole porre riparo, oltre che di una campagna ideologica, tutta giocata sull’allarme sociale e sul panico morale, contro chi vorrebbe “invadere il nostro Paese”. In altre parole, si spara nel mucchio, ricorrendo a strumenti normativi grossolani e - come sempre accade nella storia umana - a pagare sono i più fragili. Il 24 luglio inizierà il processo contro Maysoon Majidi davanti al Collegio del Tribunale di Locri, si può solo sperare che, finalmente, la donna curdo-iraniana venga ascoltata: e questa volta con l’ausilio di un interprete professionale. In passato, la trascrizione scorretta di una intercettazione telefonica ha portato alcune persone innocenti a trascorrere decenni (decenni!) in carcere. Ora, una traduzione approssimativa e un ascolto distratto e torpido possono fare male, molto male. Dal carcere, Maysoon scrive a Mattarella di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 19 luglio 2024 L’intellettuale curdo-iraniana arrestata a dicembre con l’accusa di essere una scafista, invia una lettera al capo dello Stato, professandosi innocente: “Presidente, le chiedo giustizia e umanità”. “Vi prego di non lasciarmi sola, la vostra azione può fare la differenza tra la speranza e la disperazione, tra la libertà e la prigionia”. Sono le ultime righe dell’accorata lettera-appello inviata al capo dello Stato Sergio Mattarella dall’attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi. La ventottenne, intellettuale e registra teatrale in fuga dall’Iran per aver contestato il regime e giunta in Italia su un barcone, è stata arrestata a Crotone il 31 dicembre scorso con l’accusa d’essere una scafista. Poi è stata trasferita nel carcere di Castrovillari (Cosenza) dove ha attuato lo sciopero della fame e infine spostata nel penitenziario di Reggio Calabria. “Le chiedo, presidente, che la mia situazione venga risolta con giustizia e umanità” - Nella lettera - diffusa ieri alla Camera dai deputati Laura Boldrini (Pd) e Marco Grimaldi (Avs) nel corso di una conferenza stampa - la donna ribadisce la propria innocenza, lamentando che l’accusa si fondi su dichiarazioni “poi smentite” di due testimoni, Inoltre chiede, in attesa del giudizio, la libertà provvisoria o la detenzione alternativa. “Sono solo una dei richiedenti asilo che fuggono da situazioni d’acuta sofferenza - scrive Maysoon -. Il mio arresto e la mia detenzione credo siano non solo un’ingiustizia, ma un’ombra sulla tutela di quei diritti umani che l’Italia ha sempre affermato”. L’appello è indirizzato al Quirinale: “Mi rivolgo a Lei, presidente della Repubblica, e al popolo italiano con la speranza che la mia voce venga ascoltata e la mia situazione venga risolta con giustizia e umanità”. La fuga dal regime - Le incongruenze relative al suo caso sono state ricordate durante la conferenza stampa da Grimaldi e Boldrini, affiancati dall’ex senatore Luigi Manconi, presidente di “A Buon Diritto Onlus”, da Parisa Nazari, attivista del movimento ‘Donna, vita, libertà” e da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International. Maysoon è andata via una prima volta dall’Iran nel 2019, dopo essere stata arrestata per via del suo attivismo e dopo aver subito - secondo i suoi legali - maltrattamenti in carcere. Per qualche anno, ha vissuto insieme al fratello nel Kurdistan iracheno, collaborando come attivista con l’associazione Hana, impegnata sul fronte della difesa dei diritti umani. Poi, però, le autorità irachene avrebbero respinto la sua richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno e lei è stata rimpatriata in Iran. A quel punto, lei e il fratello hanno deciso di lasciare definitivamente il Paese, spostandosi in Turchia e poi salendo su un barcone approdato a dicembre 2023 sulle coste calabresi. Il costo dei loro “biglietti” d’imbarco, diverse migliaia di euro, sarebbe stato versato dal padre, che lavora come docente in Iran. La traversata, l’accusa e l’arresto - Ma, dopo cinque giorni di pericolosa traversata in mare, all’approdo a Crotone, Maysoon è stata arrestata, dopo essere stata indicata da due dei 70 migranti a bordo (ma i due poi avrebbero ritrattato quanto affermato) fra gli scafisti dell’imbarcazione. Formalmente, l’accusa con cui da sette mesi Maysoon è trattenuta in carcere, in custodia cautelare preventiva per un ipotizzato “pericolo di fuga”, è quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dopo l’inasprimento delle pene stabilito dalla legge “Cutro”, rischia una condanna fino a 16 anni di detenzione, oltre a una sanzione pecuniaria di 15mila euro per ogni persona trasportata e al rimpatrio a Teheran, dove secondo i suoi avvocati potrebbe andare incontro a ulteriori persecuzioni e al rischio della vita. Lo sciopero della fame - Per denunciare la propria situazione e portarla all’attenzione dell’opinione pubblica, Maysoon ha attuato uno sciopero della fame che l’ha prostrata, facendole perdere decine di chili. I suoi avvocati ribadiscono da mesi come le testimonianze su cui si fonda l’accusa non siano particolarmente attendibili. Laura Boldrini, presidente del Comitato per i diritti umani della Camera dei deputati, nei mesi scorsi è andata a visitarla in carcere e ha preso a cuore il suo caso: “Dalla lotta ai trafficanti, oggi siamo passati alla ricerca di un capro espiatorio purchessia... - conclude, non senza amarezza, la deputata dem -. E ora Maysoon, per un equivoco, rischia di vedere rovinata la propria vita”. L’ipocrisia di condannare ogni violenza ma odiare il tuo nemico con tutto te stesso di Walter Siti Il Domani, 19 luglio 2024 Noi occidentali siamo i moderati e quel che possono fare i moderati è sapere che, se le cose cambiano, non possono che cambiare a loro sfavore. La nostra parola d’ordine preferita è “proteggerci”: urliamo, scendiamo in piazza con intenzioni bellicose ma senza mai trascendere, senza turbare troppo l’ordine pubblico, condannando “senza se e senza ma” le teste calde. Che la politica in Occidente si stia progressivamente polarizzando è conclamato, per non vederlo si dovrebbe essere ciechi. Le cause del fenomeno ormai tutti le snoccioliamo stancamente come grani di un rosario: 1) i social ci abituano a ritmi binari, pollice in su o in giù, ci inseriscono in bolle anche a nostra insaputa, le echo chambers eccetera; 2) la divaricazione economica si fa sempre più ampia, l’ascensore di classe è bloccato, qualcuno si trova davanti un muro insormontabile e qualcun altro dal medesimo muro si sente difeso; 3) la domanda “che fare?” sempre più spesso sembra non avere risposte e la mancanza di vie d’uscita scatena la rabbia, hanno fatto esperimenti in questo senso sui topi; 4) la sinistra è stupita che i poveri non la votino più, vede minacce ovunque e si rimprovera di aver forse trascurato i diritti sociali per evidenziare quelli civili, mentre la destra deve ancora smaltire un rancore pregresso che la attanaglia; 5) l’analfabetismo creato dall’eccesso di informazione ha coinvolto anche la democrazia in quanto istituto, il populismo e la disintermediazione portano a pensare che il rapporto tra maggioranza e opposizione sia solo un rapporto tra chi vince e chi, avendo perso, deve abbozzare; 6) quelli che la pensano diversamente da noi non sono considerati avversari con cui discutere, e sui quali (troppa fatica) dialetticamente prevalere, ma nemici da annientare; 7) spettacolarizzare la politica fa la gioia dei media e ne riempie i portafogli, i conduttori di talk sanno che i discorsi complicati, capaci di riconoscere le ragioni dell’altro, dopo un po’ fanno morire di noia; 8) la presenza sempre più massiccia della religione nel conflitto politico (resurrezione di tempi andati, nulla scompare mai nella Storia) ha recuperato la terribile espressione “Dio lo vuole”, declinata a seconda delle circostanze (“questa terra ce l’ha data Dio”, “Allah è grande”, “è stato Dio che mi ha salvato”, o il dittatore di turno chiamato “un dono di Dio”). Condannare la violenza - Data la polarizzazione per scontata, salta agli occhi la prima contraddizione: ci troviamo ad avere, almeno qui in Occidente, due fazioni sempre più nemiche che però, all’unisono, condannano ogni forma di violenza. Non ci si risparmia nel demonizzare l’avversario (il corrotto, il mafioso, il pericolo per il Paese, il negatore delle libertà, il lobbysta ebreo senza scrupoli, il complottista dei vaccini, il brutale sprezzatore dei migranti), ma al primo che lo schiaffeggia scatta il coro di solidarietà. La reazione fisica deve essere esecrata sempre e comunque; quelli dell’altra parte sono considerati un bersaglio, ma guai a colpirli. Nessuno si assume la responsabilità di una violenza che considera giusta e che rivendica (nelle rivoluzioni o nei tirannicidi, per esempio) - la violenza è sempre quella esercitata dagli altri. Oppure si lascia che ci sia molta violenza libera in giro, utile ad alimentare esigenze securitarie; chi esercita violenza politica è sempre un lupo solitario, un traumatizzato e un bullizzato, un “fuori di testa”. O un tagliagole fanatico. Ci si dimentica troppo spesso che la non violenza vissuta davvero richiede un enorme coraggio personale. Fuga dal centro - Durante la Rivoluzione francese, i deputati che alla Convenzione Nazionale sedevano al centro venivano chiamati la Pianura, o più spregiativamente la Palude. Al centro ci dovrebbero stare i mediatori, coloro che impediscono per l’appunto la polarizzazione delle fazioni armate l’una contro l’altra; tutti i cittadini dabbene oggi si dichiarano contro i fomentatori d’odio, ma poi al centro non ci vuole stare nessuno perché lì i consensi scarseggiano. Il centro lo si corteggia solo nel caso dei “barrages” provvisori per impedire a una delle due fazioni estreme di salire al potere: lo fecero i democristiani nel 1949 quando contro i comunisti chiesero alla Vergine Maria di pellegrinare e di piangere, lo fece Berlusconi nel 1993 sdoganando la destra per paura di quelli che lui ancora chiamava “comunisti”, l’hanno fatto in diversi momenti i vari Fronti popolari contro l’ascesa al governo dei fascisti (o presunti tali). Dio non abita in Centro: lì abita piuttosto Cristo, campione di carità e di accoglienza (per quanto, i mercanti del Tempio non furono contenti che lui rovesciasse i loro banchetti, né gode di molta popolarità la sua affermazione di non essere venuto a portare la pace ma la spada). Gesù primo democratico, come una volta si diceva primo socialista. L’illusionismo del Potere - Poi succede (miracolo!) che i capi di una fazione estrema, una volta arrivati al comando, si trovino a compiere atti tutt’altro che radicali, o che debbano scendere a compromessi con la classe sociale di cui sono soprattutto espressione, classe che spesso non cerca nient’altro che conservare lo status quo. Nasce il sospetto che la polarizzazione sia un illusionismo del Potere per consentire al vero Centro di attuare la volontà dei privilegiati d’Occidente, cioè agire il meno possibile. Conservatori mascherati da nostalgici dei regimi totalitari, o socialdemocratici travestiti da irriducibili gauchisti. Autoconvincimenti, apparenze. Capita sempre più spesso che il grido “pace, pace!” voglia dire “per favore non qui” - diamo le armi (difensive, ci mancherebbe) agli eroici ucraini perché si sacrifichino al posto nostro, che muoiano e vedano sventrate le loro case dietro la promessa vaga che alla fine li risarciremo. Noi occidentali siamo i moderati e quel che possono fare i moderati è sapere che, se le cose cambiano, non possono che cambiare a loro sfavore. La nostra parola d’ordine preferita è “proteggerci”: urliamo, scendiamo in piazza con intenzioni bellicose ma senza mai trascendere, senza turbare troppo l’ordine pubblico, condannando “senza se e senza ma” le teste calde. La stella polare - Le parole più consolatorie, che ci rilassano e ci favoriscono la digestione, sono quando al telegiornale sentiamo annunciare che questo o quel conflitto si è ricomposto, e che la Borsa ha ripreso a macinare i suoi utili. Fin che i soldi girano, tanto grave non può essere. Ci abbandoniamo al circolo vizioso di odiare chi predica l’odio - ma non li si odia davvero, li si detesta perché non ci lasciano tranquilli. La stella polare del moderatismo non è (come dovrebbe) il progetto, ma la paura. Quel che la politica ha dimenticato è la “nuda vita” delle persone - che è fatta di molta paura, appunto, ma anche di desideri erotici, di soddisfazioni parziali, di competizioni magari grette, di ambizioni materiali per i figli, di divertimenti scemi: non di soli diritti vive l’uomo. L’inclusione è un ideale meraviglioso ma non può essere confuso con l’entropia; che “ciascuno è differente a modo suo” non può in nessun caso voler dire che “niente fa la differenza”. Non so perché, ma mi torna in mente il romanzo di Saramago che si intitola Saggio sulla lucidità (quasi un sequel di quel Saggio sulla cecità che in Italia è tradotto semplicemente con Cecità); nel libro i cittadini a un certo punto si ribellano alla politica - dovendo scegliere tra un partito di sinistra, uno di destra e uno di centro, non si astengono: si recano in massa a votare, ma allo spoglio si verifica con sorpresa che più dell’80 per cento delle schede sono bianche. Quel bianco diventa pian piano l’ossessione dei capi al potere, la metafora di un vuoto che nessuno è riuscito a riempire. I cittadini, recandosi compatti alle urne, hanno compiuto il loro dovere democratico o lo hanno contestato alla radice? Il Potere arriva a proibire la parola “bianco” in pubblico, e a inscenare un attentato clamoroso per punire la popolazione di un complotto che in realtà nessuno ha ordito. Il governo si allontana dalla città e la gente continua a vivere la propria vita. La “nuda vita” di noi occidentali non può essere che conservativa: non è colpa della politica, è colpa nostra se abbiamo bisogno di gridare “al lupo!” per sentirci al sicuro nella tana (sempre più artificiale e ingannevole) della democrazia. Quante volte si è sentito dire “è scandaloso che questo accada nel…” e poi un anno recente, nell’ingenua convinzione che la modernità garantisse di per se stessa il miglioramento. Eppure una seria critica del progresso dovrebbe esserci, nella cassetta degli attrezzi.