Il Decreto Carceri è così inutile che anche Forza Italia vuole cambiarlo di Giulia Merlo Il Domani, 18 luglio 2024 I dem hanno presentato emendamenti per modificare il testo, alcuni simili a quelli degli azzurri. Nordio annuncia un commissario straordinario per costruire nuove strutture. L’unico punto su cui maggioranza e opposizione concordano è che il Decreto Carceri ha effettivamente il requisito di necessità e urgenza. Si sta avvicinando agosto, il mese più difficile per le condizioni di detenzione, e le carceri italiane scoppiano con 61.480 detenuti per una capienza standard di circa 48mila, un sovraffollamento medio del 120 per cento che tocca picchi del 200 per cento in alcune strutture e il numero record di 56 suicidi dall’inizio dell’anno, 6 anche di agenti della penitenziaria. Eppure, denunciano le opposizioni, il decreto legge voluto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio è “un guscio vuoto”, ha detto Alfredo Bazoli del Pd. Il testo ora in conversione al Senato, infatti, non offre strumenti pratici per ridurre la pressione del sovraffollamento e alleviare una situazione emergenziale e totalmente fuori controllo. Anzi, paradossalmente l’unico elemento concreto è quello che meno c’entra, ed è l’introduzione di un nuovo reato: il peculato per distrazione, inserito in fretta e furia nel dl per tentare di scongiurare la procedura di infrazione europea dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio approvata la settimana scorsa e ora sulla scrivania del Quirinale per la promulgazione. Un guscio vuoto - L’unica misura che dovrebbe avere una finalità deflattiva, infatti, prevede la semplificazione delle procedure per concedere la libertà anticipata ai detenuti che ne hanno diritto, ma solo nel caso in cui abbiano partecipato ad attività di rieducazione. Oltre a questo, il testo prevede l’assunzione di 1.000 agenti di polizia penitenziaria nei prossimi due anni, l’aumento del numero di telefonate per i detenuti e l’istituzione di un albo di comunità che potranno accogliere detenuti con residuo di pena basso e i tossicodipendenti, dove potranno scontare il fine pena. Proprio questo ultimo passaggio, in effetti, mette a fuoco uno degli aspetti più problematici: secondo i dati ministeriali del 2023, i detenuti per reati connessi agli stupefacenti sono oltre 20mila, circa il 35 per cento del totale, una parte dei quali è anche utilizzatore e dunque un detenuto non adatto al contesto carcerario perché avrebbe bisogno di trattamenti di disintossicazione. Eppure - senza entrare nel merito di una riforma della legislazione penale in materia di droga - l’istituzione di un albo delle comunità è una soluzione molto vaga, anche perché in Italia esistono un migliaio di strutture di cui meno di 800 anche residenziali e comunque non organizzate per la gestione di un alto numero di detenuti. “Non si capisce cosa intenda il ministro: quanti posti potrebbero esserci, quali strutture sarebbero e con quali modalità accoglierebbero un soggetto comunque detenuto”, commenta la responsabile Giustizia del Pd, Debora Serracchiani. Con un ulteriore problema: “Questo comporterebbe spostare su strutture sanitarie la gestione della detenzione? Ricordo che la sanità è di competenza regionale e stabilire una cosa del genere senza interpellare le Regioni poterebbe allo stesso caos provocato con il ddl sulle liste d’attesa”. Cosa farà FI? - Per questo il Pd ha presentato un pacchetto di un’ottantina di emendamenti che dovrebbe “colmare” i vuoti, ha spiegato la senatrice Anna Rossomando. Tra cui l’aumento dei giorni di liberazione anticipata (come già previsto da un ddl a firma di Roberto Giachetti, che porterebbe i giorni da 45 a 60 ogni semestre); uno sconto automatico di pena di un giorno ogni 10, se la pena viene espiata in condizioni degradanti; il ripristino delle misure introdotte con il Covid e che “hanno dato buona prova di sé ma sono state comunque sospese”, come i domiciliari nei casi di una pena residua inferiore ai 18 mesi. Un emendamento in particolare, però, potrebbe mandare in tilt la maggioranza. Il Pd, infatti, propone di portare a 4 anni il limite di pena per ottenere gli arresti domiciliari (oggi il limite è 6 mesi) e un emendamento molto simile è stato presentato anche da Forza Italia, a prima firma del capogruppo in commissione Pierantonio Zanettin. Un altro emendamento di FI prevede di incidere sulla pena residua, prevedendo che basterà aver scontato un terzo della pena (non più la metà) oppure la metà per i reati più gravi (e non più i due terzi) per accedere alle misure alternative a discrezione del giudice di sorveglianza. FI ha anche aperto alla proposta Giachetti di portare a 60 i giorni di liberazione anticipata, che appunto potrebbe confluire nel dl Carcere. “Noi diamo parere positivo a questi emendamenti”, ha detto Bazoli, lanciando però una sfida: “Vediamo se avranno il coraggio di votarli insieme alle opposizioni”. Se dunque gli azzurri sembrano essersi accorti che il dl Carceri non contiene davvero misure pratiche per un decongestionamento delle strutture detentive e hanno provato a intervenire, ora dovranno convincere gli alleati di Lega e Fratelli d’Italia a dire sì. Intanto, il ministro Nordio prosegue per la sua strada di interventi “a medio e lungo termine”: durante il question time alla Camera ha parlato dell’introduzione di un “commissario straordinario” per l’edilizia penitenziaria, per aumentare i posti detentivi e realizzare nuovi istituti in caserme dismesse. Nonostante ne parli da tempo, infatti, questo proposito è rimasto tale e ha trovato un inizio di realizzazione solo a Grosseto. “Certifica il fallimento di chi fino ad ora non ha fatto nulla”, è stato il commento di Serracchiani. Poi il ministro ha teorizzato che il sovraffollamento si ridurrà anche grazie all’intervento del governo per restringere l’utilizzo delle misure cautelari in carcere, che oggi “riguardano circa il 30 per cento dei detenuti”. Nel frattempo, però, il tempo stringe: il decreto Carceri sarà l’ultimo possibile per intervenire su una situazione già allo stremo da mesi: “Le elezioni le abbiamo alle spalle e su un tema sensibile come questo c’è l’occasione per dare risposte, non esaustive ma incisive”, è stato l’appello di Walter Verini del Pd. Visti i tempi di conversione del decreto, proprio questo passaggio al Senato sarà infatti l’unica occasione concreta per apportare modifiche. Mentre in Parlamento si discute, nelle carceri ogni giorno è un’emergenza. Nel penitenziario di Cagliari “oggi il termometro segnava 43 gradi e i detenuti erano stipati in celle da sei metri quadrati per due, quattro per cella”, è la denuncia della Garante per i detenuti sarda, Irene Testa. Una delle tante ancora senza risposta. Semilibertà e domiciliari over 70, Forza Italia si smarca dalla maggioranza sul Decreto Carceri di Gabriella Cerami La Repubblica, 18 luglio 2024 Gli azzurri presentano alcune proposte di modifica al decreto voluto da Nordio per alleggerire le prigioni. Da Lega e FdI nessuna apertura. Forza Italia si smarca dalla maggioranza e chiede di andare oltre il decreto Carceri approvato dal Consiglio dei ministri la prima settimana di luglio. Decreto, voluto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, che non pone rimedio al sovraffollamento delle prigioni, dove oggi vivono 14 mila persone in più rispetto agli spazi a disposizione e nei primi sei mesi e mezzo dell’anno 54 detenuti hanno deciso di farla finita dietro le sbarre. Quindi i senatori forzisti hanno presentato nove proposte di modifica al testo, che si trova all’esame della commissione Giustizia del Senato. Alcune di queste - se attuate - potrebbero consentire al detenuto di accedere anticipatamente a un regime di semilibertà. Tuttavia gli azzurri, in un secondo momento, hanno chiarito che le modifiche saranno comunque concordate con il dicastero. Quindi è tutto da vedere. Per adesso, in particolare c’è la norma secondo cui possono “essere espiate in regime di semilibertà le pene detentive, anche residue, non superiori a quattro anni”. Oggi invece il tetto limite è di sei mesi. Ciò consentirebbe al detenuto, per alcuni tipi di reato e previa autorizzazione del giudice, di lasciare la prigione. “In questo modo cerchiamo di far fronte al problema del sovraffollamento, ma - sottolinea il senatore azzurro Zanettin - non vi è alcun automatismo”. È previsto anche che, “se la pena originaria eccede questo limite”, il condannato possa “essere ammesso alla semilibertà dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena, oppure di metà”. Inoltre viene chiesta la detenzione domiciliare per il condannato di età pari o superiore ai settanta anni e per chi adduce gravi motivi di salute. “Il condannato, qualora non sia in grado di offrire valide occasioni di reinserimento esterno diverse dal lavoro, autonomo o dipendente, può essere ammesso, in sostituzione, ad un idoneo servizio di volontariato oppure ad attività di pubblica utilità, senza remunerazione”, si legge in un’altra proposta. Gli emendamenti sono stati decisi da Forza Italia nel corso di una riunione con il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, sensibile al tema, tanto da non aver escluso fin dall’inizio la possibilità di trovare un’intesa sulla proposta di legge presentata da Roberto Giachetti alla Camera, che prevede di alzare da 45 a 60 per ogni semestre i giorni per la liberazione anticipata speciale. Difficile però, per gli azzurri, convergere sul testo di Italia Viva. Quindi hanno virato su questi emendamenti al testo, che alleggerirebbero in parte le prigioni, anche se Fratelli d’Italia e Lega non sarebbe disposti a concedere alcuna apertura o modifica. Dopo l’astensione dei deputati di Forza Italia sull’emendamento, presentato dalla Lega al disegno di legge Sicurezza, per lasciare in carcere le donne in gravidanza e le madri di bambini di un anno, adesso si apre un altro fronte caldo quanto l’aria infuocata ad altissima tensione che si respira soprattutto in questo periodo dell’anno nelle carceri italiane: nei primi quindi giorni di luglio si contano ben sei suicidi. Situazione che porta Giachetti a dire che gli “inizia a venirmi il dubbio che il governo punti a una situazione di tensione nelle carceri. Tutti, direttori degli istituti, polizia penitenziaria, sostengono che la situazione è ormai insostenibile. Consegniamo al governo una testimonianza di quello che noi abbiamo visto in prima persona perché non possano in futuro, se succede qualcosa, dire che non sapevano nulla. Loro lo sanno e hanno il dovere di intervenire. Sono rimasto basito dalle dichiarazioni del ministro della Giustizia oggi al question time, che ha escluso un nesso causale tra sovraffollamento e suicidi”. Perché così infatti ha detto il titolare del dicastero, scatenando l’ira del Pd che ha depositato 79 emendamenti e si è detto disponibile a votare quelli di Forza Italia. Ammesso che gli azzurri non ci ripensino. Lo svuota-carceri di Forza Italia: semilibertà per oltre 25mila detenuti di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2024 Sono almeno 25mila i detenuti che beneficerebbero immediatamente dell’emendamento Zanettin: il provvedimento svuota-carceri allo studio della maggioranza che concederebbe la semilibertà a chi sta scontando pene fino ai quattro anni di carcere. La stima, basata sui dati ufficiali del ministero della Giustizia (secondo cui sono circa 60 mila i detenuti nelle carceri italiane), rischia tuttavia di essere molto al ribasso. Per come è stato pensato il provvedimento, proposto da Forza Italia, la possibilità di accedere alla semilibertà sarebbe estesa infatti anche a un’ulteriore platea, impossibile al momento da calcolare con numeri certi: tutti coloro che hanno già scontato almeno un terzo della pena. La semilibertà è un regime carcerario che consente ai detenuti di passare le giornate fuori dai penitenziari, obbligandoli a tornare ogni sera all’interno del perimetro carcerario. La leggina moltiplicherebbe di otto volte, da sei mesi a quattro anni (compresi i residui di pena ancora da scontare), il limite di pena che consente a un detenuto di accedere al beneficio, aumentando in modo molto significativo gli aventi diritto. Dai dati del ministero della Giustizia ci sono infatti 7.900 detenuti a cui rimane da scontare una pena di meno di un anno; 8.300 con pene comprese tra uno e due anni; 7.100 fra i 2 e i 3; altri 9.500 a cui restano fra i 4 e i 5 anni (e che andrebbero dunque valutati caso per caso). La ratio della proposta è spiegata nella relazione tecnica che l’accompagna: “La semilibertà è relegata a misura Cenerentola, pur costituendo il primo passaggio utile dalla detenzione alla libertà. L’elevazione del tetto di pena consente di far rientrare nella misura una fetta non trascurabile di condannati per reati di più modesto allarme sociale”. Una conclusione discutibile se si considera che i reati intercettati, con un aumento della platea dei candidati così importante, potrebbero non essere più così “modesti”. La soluzione al sovraffollamento carcerario, che porta la firma di Pierantonio Zanettin, arriva dopo la bocciatura di un altro provvedimento, il cosiddetto “indulto mascherato”, ipotizzato dal deputato renziano Roberto Giachetti. La proposta Giachetti prevedeva di aumentare lo sconto di pena per buona condotta dagli attuali 45 giorni a 60, o addirittura 75 giorni ogni 6 mesi. Una strada che però è stata bloccata da Giorgia Meloni. È in questo contesto che nasce dunque la proposta formulata da Forza Italia, che spera di trovare una convergenza con gli alleati della maggioranza ora che il testo sulle carceri arriva in Commissione Giustizia al Senato. Sull’emendamento c’è già il via libera informale del viceministro Francesco Paolo Sisto, ma manca ancora il parere di Fratelli d’Italia, alle prese con le pressioni in arrivo dal mondo carcerario, alle prese con una crisi di che sta assumendo toni drammatici, con il susseguirsi di suicidi e picchi di sovraffollamento come quello denunciato a Regina Coeli, che ospita il 180% di detenuti rispetto ai posti disponibili. Il Garante in Senato: “Misure urgenti per il dramma suicidi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 luglio 2024 In un’audizione di ampio respiro tenutasi lunedì scorso presso la II Commissione Giustizia del Senato, il Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha offerto un’analisi articolata del decreto- legge 4 luglio 2024, n. 92 (il cosiddetto “carcere sicuro”). Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio, componenti del Collegio, hanno presentato una dettagliata memoria, evidenziando sia gli aspetti positivi del decreto che le criticità ancora da affrontare nel sistema penitenziario. Il Garante ha accolto con favore l’incremento di 1.000 unità del personale di polizia penitenziaria previsto dal decreto. Questa misura, attesa da tempo, mira a colmare le persistenti carenze d’organico che hanno portato a turni di lavoro estenuanti e compressione dei diritti contrattuali degli agenti. Tuttavia, il Garante ha sottolineato la necessità di una distribuzione equilibrata del nuovo personale su tutto il territorio nazionale, tenendo conto delle diverse realtà penitenziarie e della consistenza numerica dei contingenti correlata alle necessità organizzative. “L’incremento del personale”, ha affermato D’Ettore, “deve essere interpretato come funzionale non solo al miglioramento delle condizioni lavorative degli agenti, ma anche all’umanizzazione della pena e al miglioramento delle condizioni dei detenuti”. Il Garante ha espresso preoccupazione per la riduzione della durata del corso di formazione per gli agenti di polizia penitenziaria. Pur comprendendo l’esigenza di rendere più veloce l’effettiva operatività dei neoassunti, l’organismo ha sottolineato l’importanza di mantenere una formazione completa, soprattutto sui temi dei diritti umani, degli standard europei e internazionali sulla privazione della libertà, e sulla gestione delle situazioni critiche. “È essenziale”, ha dichiarato Irma Conti, “garantire un adeguato spazio di formazione sulle tecniche di de- escalation e sulla prevenzione del rischio suicidario, aspetti cruciali per la gestione della vita carceraria”. Il Garante ha valutato positivamente l’aumento dei colloqui telefonici per i detenuti, misura che favorisce il mantenimento dei legami familiari. La norma prevede la parificazione del numero di colloqui telefonici a quelli in presenza (sei al mese, quattro per i reati di cui all’art. 4 bis O. P.). Tuttavia, è stata rilevata la necessità di un’applicazione omogenea di questa disposizione in tutti gli istituti penitenziari. Il Garante ha accolto favorevolmente le nuove disposizioni sulla liberazione anticipata, che prevedono una valutazione anticipata da parte del pubblico ministero. Tuttavia, ha suggerito di considerare anche l’applicazione dell’art. 35- ter dell’Ordinamento penitenziario per uno “sconto di pena in negativo” in caso di condizioni detentive non conformi agli standard. “Alla luce delle attuali condizioni critiche del sistema carcerario”, ha spiegato Mario Serio, “potrebbe essere opportuno considerare una più ampia applicazione dell’art. 35- ter, valorizzando il concetto di danno in re ipsa derivante dalle condizioni detentive inadeguate”. Il Garante ha presentato dati allarmanti sul sovraffollamento carcerario, con un tasso medio del 130,44% e punte del 224,78% in alcuni istituti. Ancora più preoccupante è l’aumento dei suicidi in carcere. Più di 50 persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane dall’entrata in vigore del decreto- legge 92 del 4 luglio 2024. Un dato allarmante, se confrontato con i 34 suicidi nello stesso periodo del 2022 e 2023. Si tratta di un aumento di ben 16 unità, che evidenzia una situazione drammatica e in peggioramento. Al 15 luglio 2024 (il giorno dell’audizione), il numero totale dei suicidi in carcere quest’anno sale a 54. A questo si aggiungono 13 decessi per cause ancora da accertare. I dati mostrano anche un preoccupante sovraffollamento, con una media nazionale del 130,44% e punte che sfiorano il 225% nella casa circondariale di Milano San Vittore. “Questi numeri”, ha commentato D’Ettore, “ci impongono una riflessione profonda e l’adozione di misure urgenti e concrete per migliorare le condizioni di vita nelle carceri”. Il decreto-legge introduce un’importante novità nel panorama delle “misure penali di comunità” con l’articolo 8, che mira a facilitare l’accesso a soluzioni alternative al carcere per coloro che non dispongono di un domicilio idoneo. Questa disposizione prevede la creazione di un registro presso il ministero della Giustizia per le strutture che, oltre a offrire una residenza, garantiscono servizi di assistenza, riqualificazione professionale e reinserimento socio- lavorativo. Queste strutture potranno accogliere anche persone con dipendenze da alcool e stupefacenti o con problematiche psichiatriche non gravi, nonché soggetti in regime di detenzione domiciliare. Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia sarà responsabile della gestione e dell’aggiornamento di questo elenco, nonché della vigilanza sulle strutture. Entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione, il ministro della Giustizia dovrà emanare un decreto che disciplini nel dettaglio la formazione dell’elenco, le modalità di recupero delle spese di residenza e i requisiti per l’accesso alle strutture. Per finanziare questa iniziativa, il decreto prevede uno stanziamento di 7 milioni di euro annui a partire dal 2024. Questa misura rappresenta un passo significativo verso la riduzione della popolazione carceraria, offrendo nuove opportunità a detenuti con problemi di dipendenza o in condizioni di indigenza. Tuttavia, il Garante Nazionale sottolinea la necessità di chiarire alcuni aspetti applicativi, in particolare per quanto riguarda i soggetti con problematiche di dipendenza o disagio psichico che potrebbero richiedere strutture specializzate. Inoltre, si suggerisce di valutare un aumento delle risorse stanziate, considerando il potenzialmente elevato numero di beneficiari. Il Garante solleva anche questioni cruciali sull’organizzazione di queste strutture, chiedendosi se replicheranno il modello carcerario o se svilupperanno approcci innovativi. Si sottolinea l’importanza di definire chiaramente i requisiti tecnici per l’iscrizione nell’elenco, le modalità di vigilanza e i criteri per garantire un’accoglienza residenziale efficace ai fini della riqualificazione professionale e del reinserimento socio- lavorativo dei residenti. Il Garante ha concluso ribadendo l’urgenza di ulteriori interventi strutturali per migliorare le condizioni detentive e garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone private della libertà. Ha inoltre invitato il Parlamento a considerare un aumento delle risorse stanziate per l’attuazione delle misure previste dal decreto, in particolare per quanto riguarda le strutture residenziali di accoglienza. Il Pd: “Il decreto è un guscio vuoto”. FdI e Lega: “Meno giustizia riparativa” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 luglio 2024 Sono all’incirca 225 gli emendamenti presentati al cosiddetto decreto carceri al vaglio della commissione Giustizia del Senato. Il numero più consistente di emendamenti viene dalle opposizioni. In particolare c’è una proposta sull’emergenza suicidi in carcere (prima firmataria la senatrice Ilaria Cucchi) che chiede l’autopsia obbligatoria sui detenuti morti in carcere “anche in assenza di sospetto di reato”. E un’altra per introdurre il diritto alla sessualità in carcere. Il Pd ne ha presentati 79 durante una conferenza stampa ieri a Palazzo Madama alla presenza del presidente dei senatori dem Francesco Boccia, della responsabile Giustizia Debora Serracchiani, del capogruppo in Commissione Alfredo Bazoli, di Walter Verini e della vice presidente del Senato Anna Rossomando. “Quello che doveva essere il governo più forte degli ultimi anni è il più debole visto che fa solo decreti e chiede sempre voti di fiducia” ha dichiarato Boccia. “Il decreto carceri è uno dei peggiori - ha incalzato Serracchiani - perché non affronta affatto l’emergenza. Siamo al 56esimo suicidio tra i detenuti e al sesto tra le guardie penitenziarie”. Ma il ministro Nordio, rispondendo al question time alla Camera, ha ribadito la sua posizione: “Non esiste un rapporto causale diretto tra i suicidi in carcere e il sovraffollamento”. “Questo decreto ci delude e ci indigna profondamente - ha aggiunto Serracchiani - non solo continua a non dare piena attuazione alla Cartabia, ma non fa nulla per il sovraffollamento”. “Hanno corso alla Camera per l’abuso d’ufficio mettendosi contro le normative internazionali e ora corrono ai ripari introducendo il reato di peculato per distrazione”. “Questo testo è un guscio vuoto ha detto invece Bazoli che ha spiegato come con le proposte di modifica del Pd intendano anche “rendere automatici criteri di riduzione della pena” e puntando a “ripristinare le misure previste durante il Covid che hanno dato ottima prova di sé”. Anche Anna Rossomando ha sottolineato come il problema del sovraffollamento carcerario non sia “proprio affrontato nel testo”. “Non ci limitiamo ad accogliere nei nostri emendamenti solo le proposte presentate da Roberto Giachetti sugli sconti di pena ma proponiamo anche misure per facilitare gli arresti domiciliari” e più fondi per le Case territoriali che dovrebbero ospitare i condannati che in questo modo potrebbero evitare di scontare la pena negli istituti penitenziari. Invece Italia Viva ha chiesto la soppressione dell’articolo 9 del decreto-legge, che introduce il cosiddetto peculato per distrazione. Nella maggioranza, gli emendamenti più numerosi sono quelli proposti da Forza Italia: 9, tra cui la norma che prevede che il regime di semilibertà (che consente di uscire dal carcere e rientrare la sera per attività di lavoro o sociali) possa scattare anche per i detenuti che abbiano pene residue non superiori a quattro anni (attualmente la legge lo prevede per le pene fino a 6 mesi). Si aggiungono 6 emendamenti dei leghisti (tra cui proposte sull’esclusione della giustizia riparativa per reati gravi, sulle cure mediche dei carcerati e sull’efficienza uffici) e uno di Fratelli d’Italia sull’aumento dei reati sottratti alla giustizia riparativa. “Sosteniamo la legge Giachetti per la liberazione anticipata dei detenuti”. Firma la petizione! di Mirko Federico L’Unità, 18 luglio 2024 Questa petizione nasce con l’obiettivo di dare sostegno alla proposta di legge presentata dall’on. Roberto Giachetti, proposta di legge che mira a modificare il sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti. Lanciata dal l’avvocato Aniello Mancuso a cura dell’associazione La Rinascita questa petizione nasce con l’obiettivo di dare sostegno alla proposta di legge che mira a modificare il sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti. La proposta di legge in materia di liberazione anticipata ha la finalità di affrontare il problema sovraffollamento nelle carceri e di contrastare in modo immediato i numerosi suicidi all’interno delle carceri italiane. Il numero dei suicidi negli istituti penitenziari italiani continua a salire. Solo giovedì 4 luglio le persone che si sono tolte la vita sono state tre: un detenuto a Livorno di 35 anni, un ragazzo di 20 anni nel carcere di Sollicciano a Firenze e un terzo a Pavia, anche lui di 20 anni. “L’anno con il numero più alto da quando si tiene questo triste conteggio è stato il 2022 con 84 suicidi Secondo gli ultimi dati, aggiornati al 12 giugno scorso, attualmente i detenuti sono 61.468. se questo però è il trend nella prima parte dell’anno, io credo che il 2024 sarà destinato a diventare l’anno con il primato”. A oggi infatti sono 54 i detenuti che si sono tolti la vita (compresi quelli all’interno dei Cpr), quasi 20 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando i suicidi, fino a giugno, erano stati 34 spiega il segretario diritto umani Mirko Federico. Con l’estate che arriva è molto probabile che il numero aumenti “I posti regolarmente disponibili ammontano a 47.067, rispetto alla capienza regolamentare di 51.221 - ha spiegato Federico - da un ulteriore approfondimento è sorto che tale criticità è dovuta all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento e in alcuni casi di intere sezioni detentive (come per esempio la Casa circondariale di Milano San Vittore, ove l’indice di sovraffollamento si attesta al 230,79% ed è l’Istituto che sui 190 detiene il primato). A livello nazionale la criticità sovra esposta determina un indice di sovraffollamento del 130,59%”. La proposta di legge può essere riassunta sinteticamente in due punti fondamentali: detrazione di pena, ai fini della liberazione anticipata, passerebbe da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata; prevede per i due anni successivi alla data di entrata in vigore della legge l’ulteriore elevazione della detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 60 a 75 giorni. Ed è per questo che anche la Democrazia Cristiana appoggia questa petizione sostenendo la proposta di legge dell’onorevole Roberto Giacchetti. Perché sostenere questa proposta? Perché siamo in Italia, un Paese che ha adottato una Carta Costituzionale “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Siamo arrivati ad oltre 54 suicidi di detenuti e 6 del corpo di polizia penitenziaria “Una carneficina, dal governo necessaria presa di coscienza”. Firma la petizione: https://chng.it/Y5V79pt8Xp Il carcere non è una discarica sociale di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 18 luglio 2024 I Garanti territoriali lanciano un appello al ministro Nordio sugli istituti penitenziari. Antigone: “C’è una sofferenza che può diventare esplosiva”. Sono i Garanti territoriali dei detenuti a bocciare il provvedimento in materia carceraria varato dal governo, lanciando un appello al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, affinché ascolti quanto hanno da dire sulla situazione degli istituti penitenziari, con suicidi e rivolte di detenuti che si succedono quasi quotidianamente. I garanti parlano di “un decreto minimale, inadeguato, vuoto rispetto alle proporzioni dell’emergenza carceri. È una scatola vuota. Solo le telefonate aumentano da 4 a 6. Una miseria”. Un dramma sottovalutato - “Chiediamo alla politica di analizzare, prevenire, intervenire. Il carcere è diventato un ospizio dei poveri e una discarica sociale”, ha affermato il portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali, Samuele Ciambriello, in conferenza stampa al Senato: “Chiediamo a nome degli 86 garanti in tutta Italia, di andare nelle carceri a vedere con i propri occhi”. “C’è una sottovalutazione - ha proseguito - sia sul peggioramento delle condizioni nelle carceri sia sul sovraffollamento, sul numero dei suicidi delle persone che potrebbero andare in misura alternativa perché devono scontare meno di un anno e non hanno nessun reato ostativo”. L’emergenza e i problemi strutturali - Ad Alessio Scandurra dell’associazione Antigone chiediamo se c’è un’attenzione in generale troppo bassa sulla situazione carceraria in Italia. Ci risponde ricordando che “siamo sempre un po’ schiacciati tra un’emergenza che, in quanto tale, richiederebbe risposte straordinarie, particolarmente energiche, che la politica spesso, in particolare questo governo, non se la sente di dare per la paura che abbia un costo in termini di consenso e perché banalmente non interessano a nessuno. L’emergenza è figlia della contingenza del periodo, ma soprattutto di problemi strutturali”. “Ora - prosegue - c’è un’emergenza in corso e quindi si risponde in modo emergenziale, cercando di far precipitare rapidamente i numeri e di contenere gli ingressi. In realtà da questo punto di vista sono state adottate norme che gli ingressi li fanno aumentare, non diminuire, e quindi l’emergenza si fa sempre più tragica. È una situazione abbastanza scoraggiante, perché non si sente discutere neanche in teoria di soluzioni in grado di affrontare il problema”. I suicidi, e quello che c’è sotto - Se si pensa all’elevato numero di suicidi in carcere, che hanno raggiunto il numero di 59 tra i detenuti in meno di sette mesi e 6 tra il personale carcerario, si può supporre che manchi il lavoro di prevenzione e di cura di chi ha profonde fragilità. Per Scandurra “i suicidi sono la punta dell’iceberg del livello di malessere, di sofferenza e dell’incapacità di dare risposte. Se si adottassero protocolli efficaci per intercettare i casi più drammatici e prevenire i suicidi, avremmo numeri di più bassi, ma il livello di malessere che riguarda decine di migliaia di persone resterebbe uguale. Per una persona che si toglie la vita e arriva sui giornali ce ne sono magari altre 500 che sono nella stessa identica situazione e non fanno quel gesto”. L’estate peggiora tutto - La stagione estiva poi peggiora le cose. “Il caldo, nelle situazioni di disagio mentale, aumenta le acuzie - dice il coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione degli adulti di Antigone -, perché le persone non dormono, c’è una rottura di tutte le routine che aiutano a mantenere un equilibrio. Tanti istituti non hanno nemmeno la facilità di aprire le finestre perché ci sono i letti a castello accatastati e a volte, oltre alle sbarre, ci sono le grate che impediscono la circolazione dell’aria. Il caldo e l’estate sono sempre un problema per il benessere psicofisico delle persone e in una comunità di detenuti, dove i livelli di sofferenza sono lontani dalla media nazionale, questi effetti diventano esplosivi”. Inoltre durante l’estate si interrompono le attività di istruzione e formazione professionale e una parte del personale carcerario va in ferie. “Questo vuol dire che anche il periodo di sofferenza diventa un periodo lungo, con i danni che ne conseguono - afferma Scandurra -. Senza le attività è anche più difficile accorgersi di chi a un certo punto rimane tutto il giorno chiuso in cella, sulla branda, dei cali di umore e di comportamenti anomali. Le situazioni di criticità sfuggono”. “Chi può, in estate, prende i permessi per stare con la famiglia - prosegue Scandurra -, ma chi non può si trova in uno stato di particolare solitudine, di isolamento, di frustrazione. Gli elementi psicologici pesano molto: chi è recluso è in una situazione di crisi e sa che nessuno se ne sta facendo carico e che la situazione di domani sarà peggio di quella di oggi. Anche per chi lavora nelle carceri venire a contatto con i suicidi o con situazioni di così profondo disagio ha un effetto deprimente”. La paura paralizzante di essere troppo buoni - L’unica soluzione è proprio quella di andare ad agire in maniera strutturale. Per Scandurra è evidente che questo governo non ha intenzione di farlo e l’ultimo provvedimento ne è la dimostrazione: “Si sa che la soluzione passa dalla liberazione anticipata, ma nonostante ciò le misure adottate non sono adeguate a ottenere il risultato. In Parlamento c’era un disegno di legge per aumentare i giorni di liberazione anticipata in maniera significativa e lì è rimasto. Un’altra cosa che si poteva fare a costo zero era allargare significativamente le possibilità di comunicazione con l’esterno, c’è invece stato un innalzamento abbastanza ridicolo delle telefonate che sono consentite alle persone detenute ed è stata lasciata la soglia di durata di 10 minuti che è un po’ bizzarra. Di nuovo - conclude - è stato fatto un provvedimento senza una vera ratio come presupposto, ma sempre con la paura di risultare troppo generosi e troppo buonisti con i detenuti”. Le zanzare, i topi e la scostumata richiesta di acqua calda in carcere di Adriano Sofri Il Foglio, 18 luglio 2024 La magistratura di sorveglianza fiorentina si è appena fatta conoscere con l’ordinanza in cui il desiderio di avere l’acqua calda in cella viene trattato come un’arbitraria pretesa. Magistrati che, se frequentassero la galera, saprebbero che spesso manca anche l’acqua fredda. Mia cara, penso a te. Penserei a te comunque, e per giunta succedono cose. La magistratura di sorveglianza fiorentina, quella che fu di Alessandro Margara, ha appena trovato il modo di farsi conoscere con l’ordinanza in cui il desiderio di avere l’acqua calda in cella viene trattato come un’arbitraria e scostumata pretesa: l’acqua calda è un diritto solo dei clienti degli alberghi (e da quante stelle in su?). La protervia e la meschinità sono attributi frequenti delle autorità competenti, e la circostanza conferma che a certi impieghi dai quali dipendono, pressoché alla lettera, vita e morte del prossimo - carcerieri, giudici, medici, infermieri, psicologi, badanti, donne e uomini… - ci si candida per tre motivazioni essenziali: o di passaggio, perché gli altri posti sono al momento occupati (insegnanti di sostegno, magistrati di sorveglianza, connotati essenzialmente dall’indifferenza, al male come al bene, non sono fatti loro, sono lì per andarsene); o per una vocazione alla simpatia e alla compassione per il prossimo, se non addirittura alla giustizia sostanziale, e allora sono persone benedette - nelle galere, nel sostegno scolastico, nelle case delle persone invalide, nelle corsie degli ospedali; o per una sentita e frustrata cattiveria, e allora sono persone basse, che infieriscono o si infastidiscono per la pretesa dell’acqua calda (prevista dal regolamento, come ha ricordato il professor Emilio Santoro) in un clima torrido fisicamente per un luglio accanito e torrido moralmente per un ragazzo di vent’anni che a Sollicciano si è appena ucciso. Ha scritto anche, l’Ufficio di Sorveglianza - chiamiamolo così, come se fosse un’entità astratta, disincarnata, dev’esserlo - per respingere una domanda di liberazione anticipata, prevista anche lei dal regolamento, anzi dalla legge, che “il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera educativa”. Se ti suicidi senza intoppi, la liberazione anticipata te la guadagni, e infatti è la strada che i detenuti hanno deciso di imboccare sempre più all’ingrosso. Siamo a 60. Se non ci riesci, ti giochi la liberazione anticipata al minuto, quella dei giorni. E il diavolo di sorveglianza si fa conoscere dai dettagli: “mediante impiccagione”, ha scritto; se ti squarci le vene a morsi l’affare si può riesaminare. Sono solo degli esempi, le punte dell’iceberg, come si dice, benché evocare iceberg faccia venire i brividi. Quella risposta sull’acqua calda la danno magistrati cui, se facessero il loro dovere e il carcere lo frequentassero anche nei luoghi e nelle ore di punta, non sfuggirebbe che non di rado a mancare è anche l’acqua fredda. Che a mancare sarebbe tutto, se non fosse che ci sono, nell’ordine, le zanzare, le cimici e i topi. Un detenuto esasperato o spiritoso a Sollicciano ne ha acchiappato uno e l’ha allevato in una bottiglia, così da esibirlo come corpo del reato dell’amministrazione penitenziaria. Dovrebbe essere liberato solo per questo - lui e il topo. Sollicciano, basta nominarla, e il ribrezzo chiude la gola. Io la conobbi due volte, a distanza di anni, ma solo per ore, il tempo di lasciare anche lì profilo e impronte ed essere trasferito a Pisa - vicino a te. Sono stato fortunato a non restarci, ma anche a esserci passato: sono stazioni della via crucis di ogni vita che vale la pena di sperimentare e immunizzarsi per sempre dalla lingua dell’ufficio di sorveglianza. La ragione per cui te ne scrivo è che a distanza di poco meno di un ventennio misuro il mio personale fallimento anche in questo chiuso e forzato fronte della continua lotta per migliorare il mondo. Mi diedi molto da fare, infatti, e anche prima e dopo, a piedi liberi. Ma la galera di oggi è molto più squallida e infame della galera di ieri. E sai perché? Perché è più squallido e infame anche il mondo di fuori. Basta guardare alla galera, per misurare il fuori. Quando, ogni giorno, ogni notte, da sveglio o in sogno, leggo le parole dei carcerati e dei carcerieri, ne ascolto i rispettivi suoni e rumori, grida, ferri battuti, stridor di denti, chi li ha conservati, unghie che scavano muri - e di là frasi stizzite per il rischio di macchiarsi la camicia bianca, ho il privilegio di capire bene che cosa significano, di saperlo. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” di Guido Vitiello Il Foglio Quotidiano, 18 luglio 2024 Sentite che bella frase ho inventato ieri: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Splendida, vero? Già vi sento: “Ma non è tua, pallonaro, è di…”. Beh, di chi è? Molti assicurano che è di Dostoevskij, e citano anche la fonte: “Memorie dalla casa dei morti”; altri - ma sono in minoranza - ribattono che non è Dostoevskij, è Voltaire; una quota ancora più piccola la attribuisce a Brecht. Non è obbligatorio scegliere, però. In un libro sul carcere di qualche anno fa, l’autore si compiaceva della coincidenza che tre così grandi ingegni - per giunta in tre secoli diversi - avessero formulato lo stesso pensiero con parole quasi identiche! Peccato che la frase non si trovi in nessuno dei tre. Da dove viene, allora? Il tentativo più erudito di rintracciarne la fonte lo ha condotto nel 2019 lo slavista Ilya Vinitsky. Non ha sciolto definitivamente l’enigma, ma ha lanciato una buona congettura. La frase proverrebbe dalla cerchia del commediografo ed ex galeotto canadese John Herbert, che negli anni Sessanta, presentando il suo dramma carcerario “Fortune and Men’s Eyes”, la ripeteva spesso nelle interviste, attribuendola a Dostoevskij. La pièce ebbe grande successo (centinaia di repliche, poi un film), e per qualche via la frase incriminata diventò uno dei motti dei movimenti americani per la riforma delle prigioni. Resta un dubbio: perché una citazione artefatta - ben poco in linea, oltretutto, con ciò che Dostoevskij pensava del carcere - ebbe tanta fortuna? Semplice: perché era bella, e perché era vera. Era vera nell’America degli anni Sessanta, è ancora più vera nell’Italia del 2024. Nordio: “Introdurre la figura di un Commissario straordinario per un piano edilizio imponente” Italpress, 18 luglio 2024 “Nella conversione del decreto Carcere sicuro, in corso al Senato, abbiamo proposto di introdurre la figura di un Commissario straordinario che avrà il compito di attuare in tempi brevissimi il piano nazionale di interventi per l’aumento del numero dei posti per i detenuti e per la realizzazione di nuovi alloggi destinati al personale di polizia penitenziaria: questo programma edilizio sarà imponente e sarà realizzato speditamente”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, al Question time della Camera. “Il sovraffollamento carcerario oggi si deve affrontare in tre settori. Innanzitutto la limitazione della carcerazione preventiva: abbiamo un 30% di detenuti che sono in attesa di giudizio e statisticamente la metà di questi alla fine viene assolto, quindi la loro carcerazione si rivela ingiustificata - ha aggiunto -. Poi la metà dei detenuti sono stranieri: occorre lavorare per consentire la detenzione di queste persone presso i loro luoghi di origine”. “I reati non sono tutti uguali, i rei non sono tutti uguali. Noi stiamo lavorando molto alacremente per cercare di differenziare l’esecuzione della pena, che deve essere certa e deve essere espiata, non sempre nella ristrettezza delle strutture carcerarie, ma anche attraverso misure alternative”, ha sottolineato Nordio. “Non esiste un rapporto causale diretto tra i suicidi e il problema del sovraffollamento carcerario”, ma “questo non significa affatto che sottovalutiamo i due problemi. I suicidi sono un fardello di dolore che noi abbiamo, ma sono eventi imprevisti e imprevedibili, che sono radicati nel mistero della mente umana. Il sovraffollamento carcerario aumenta il rischio del suicidio”, quindi “abbiamo potenziato l’opera di assistenza psicologica che secondo noi è l’unica che possa avere effetto immediato per ridurre, attenuare e individuare i fattori di rischio di questo fenomeno”. Consulta, la destra vuole più spazio e Nordio a sorpresa vede Barbera di Gabriella Cerami La Repubblica, 18 luglio 2024 Colloquio “riservato” tra il presidente e il ministro in corsa per un posto da giudice. Sono le sette di sera quando il ministro della Giustizia Carlo Nordio varca il portone della Corte Costituzionale. Ad attenderlo, due giorni fa nel suo ufficio, il presidente Augusto Barbera. L’incontro non viene ufficializzato, né Consulta né via Arenula danno notizia del colloquio e questo aspetto risulta singolare trattandosi di due figure apicali nel mondo della giustizia. Il faccia a faccia arriva però in un momento delicato dei rapporti tra Consulta e Parlamento. La Corte proprio nel pomeriggio di martedì si era riunita per discutere ed emettere una sentenza sul fine vita, tema delicato su cui il presidente Barbera ha più volte sollecitato un intervento delle Camere essendoci in Italia un vuoto normativo. Non solo. C’è un’altra vicenda che, in questi mesi, vede coinvolti Parlamento e Corte Costituzionale. Da otto mesi, da quando l’ex presidente Silvana Sciarra ha lasciato, manca uno dei quindici giudici di nomina parlamentare, nonostante la sostituzione debba avvenire entro un mese. Il presidente della Camera ha convocato cinque volte il Parlamento in seduta comune per procedere all’elezione ma gli scrutini, in mancanza di un accordo politico, sono andati a vuoto. E una sesta votazione non è stata ancora fissata. Ecco i due temi caldi che potrebbero essere stati trattati dal ministro Nordio e dal presidente Barbera, il quale in particolare sul fine vita ha da sempre una posizione molto netta. Tanto che nella conferenza stampa che ha fatto seguito alla lettura della relazione annuale della Consulta, nel marzo scorso, il numero uno della Corte aveva citato “Aspettando Godot”, capolavoro di Samuel Beckett, per dare l’idea di una Consulta chiamata ad esprimersi più volte su questo tema a causa di una “persistente inerzia legislativa”. Sul fine vita come sui figli di coppie omogenitoriali. Quindi — aveva avvertito — “se rimane l’inerzia del Parlamento sul fine vita, la Corte costituzionale a un certo punto non potrà non intervenire”. E il momento è arrivato. Tempi lunghi si prevedono invece per l’elezione del giudice costituzionale. La partita è profondamente politica e si lega alla scadenza, fissata per il 21 dicembre, di altri tre giudici della Corte. Secondo alcune indiscrezioni, la premier Giorgia Meloni punterebbe a una singola votazione in blocco, che le consentirebbe di comporre il puzzle come meglio ritiene. La prospettiva che circola in ambienti di governo vedrebbe tre eletti scelti dalla maggioranza e uno in quota opposizioni, che dovrebbe andare al Partito democratico. Di fatto, quando gli altri tre giudici arriveranno alla scadenza del loro mandato, la Corte lavorerà con solo undici componenti e basterà l’assenza di uno solo di questi per bloccare la giustizia costituzionale essendo necessario il quorum funzionale affinché una seduta sia valida. Eppure le questioni sul tavolo della Corte sono molte. L’ultima in ordine di tempo è il referendum sull’autonomia differenziata, presentato in Cassazione da tutti i partiti di opposizione e presto anche da cinque Regioni, ma ce ne sono anche molte altre come il decreto Caivano e il limite dei due mandati dei sindaci di grandi Comuni. In questo contesto di possibile stallo, che certamente causa apprensione al presidente della Corte, nonostante sia tra i componenti in scadenza a dicembre insieme a Franco Modugno e Giulio Prosperetti, si colloca l’incontro con il ministro Nordio, il cui nome negli ultimi tempi è stato tirato in ballo come possibile nuovo componente della Consulta, voluto dalla premier Meloni. Se così dovesse essere si libererebbe la casella del dicastero della Giustizia. Negli ultimi tempi, ad aver riportato questa indiscrezione è stato anche il lobbista Luigi Bisignani sul quotidiano Il Tempo, specificando però che il ministro non ha i requisiti e Palazzo Chigi starebbe studiando una norma ad hoc. Altro tempo che potrebbe far scivolare la Corte verso la paralisi. “Nessuna amnistia: l’abrogazione dell’abuso d’ufficio sanerà le ingiustizie” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 luglio 2024 Ddl Nordio: ne parliamo con l’avvocato Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano- Bicocca, che fa il seguente bilancio: “Certamente positivo è il cambio di passo rispetto alla stagione Cartabia, quando l’obiettivo era solo l’efficienza attuata con un taglio lineare delle garanzie. Oggi si parla apertamente di garantismo, ma l’impressione è che ci sia tanto fumo senza arrosto”. Professore cosa pensa del botta e risposta tra il professor Spangher e il presidente dell’Anm Santalucia in merito all’amnistia che si verrebbe a creare con l’abrogazione del reato di abuso di ufficio? Ho letto con interesse i loro interventi e credo che evocare il termine amnistia abbia un preciso significato demagogico. Ogni mutamento della legge penale sostanziale comporta delicate questioni di diritto intertemporale, per l’abuso d’ufficio accadrà esattamente quello che è sempre accaduto in passato per tutte le ipotesi di abrogazione del reato. Mi sembra che la polemica non tenga conto del fatto che l’abuso d’ufficio è da sempre un reato improbabile, ossia difficilmente dimostrabile proprio a causa del deficit di tassatività della fattispecie. Dovremmo quindi considerare anche la natura di quelle circa 3600 condanne passate in giudicato per fatti che sfuggono alla necessaria tipizzazione imposta dalla Costituzione. Forse l’abrogazione dell’abuso d’ufficio sanerà anche la sostanziale ingiustizia di quei pochi casi in cui si è giunti alla definitiva affermazione di responsabilità per un reato, come detto, improbabile. Sottolineo pochi casi perché le 3600 condanne sono una minima parte dei processi che normalmente si concludono con l’assoluzione. Reintrodurre il peculato per distrazione è stato un modo di mettere una pezza da parte del Governo? Purtroppo sì ed è la cifra politica di questa riforma che non ha il coraggio di operare scelte nette. Il peculato per distrazione è il passo del gambero, si torna a incriminare una indefinita condotta d’abuso con carattere patrimoniale. Una scelta sbagliata che creerà enormi problemi interpretativi in ordine alla presunta continuità normativa con la precedente incriminazione. Pessima scelta, in definitiva. Dal punto di vista metodologico come giudica il fatto che sia stato inserito nel decreto carceri? Mi sembra quasi canzonatorio introdurre una nuova fattispecie di reato in un decreto volto a contrastare l’inflazione carceraria, peraltro con strumenti palesemente inadeguati. È la riprova che la legislazione compulsiva di questo governo è entrata in confusione. Un altro aspetto controverso è quello dell’interrogatorio preventivo. Qual è il suo parere in merito? Sono contrario, non si può pensare di interrogare un indagato con la pressione psicologica della spada di Damocle di una richiesta cautelare. Mi sembra un atto di moderna tortura che ricorda molto da vicino la prassi degli interrogatori in transito di Mani Pulite. Il contraddittorio anticipato rispetto all’applicazione delle misure cautelari sarebbe una buona soluzione, ma dovrebbe essere un contraddittorio tecnico, un confronto fra pubblico ministero e difensore, con tutti gli atti sul tavolo, dinanzi al giudice che poi deciderà se emettere la misura. Ben diverso pretendere che sia il diretto interessato a convincere il giudice di non mandarlo in carcere, non ci vuole molto a capire che l’unico argomento convincente sarà la confessione accompagnata dal pentimento. Il caso Toti è emblematico. Per quanto concerne il collegio per decidere sulle misure cautelari condivide le posizioni di Santalucia per cui se va male all’indagato un provvedimento emesso da tre persone è maggiormente rafforzato? La collegialità è una garanzia, ma deve essere effettiva e, soprattutto, non deve pregiudicare il successivo riesame. Non mi convince la preoccupazione di Santalucia che un provvedimento applicativo del collegio diverrebbe inscalfibile. Anche le sentenze di condanna del tribunale collegiale vengono riformate in appello o sono annullate in Cassazione, non capisco sinceramente quale sarebbe la pericolosità insita nella collegialità. Temo, invece, che il riesame finisca per appiattirsi, soprattutto quando l’ordinanza venga emessa da giudici dello stesso tribunale distrettuale presso cui ha sede il tribunale della libertà. Bisognerebbe procedere con qualche aggiustamento sul piano ordinamentale. Quanto impatterà invece l’inappellabilità di alcune sentenze di assoluzione? Poco, perché nei procedimenti a citazione diretta il pm titolare del fascicolo non partecipa quasi mai all’udienza e meno che mai decide di impugnare. Sono procedimenti rispetto ai quali si registra un sostanziale disinteresse della procura. Il principio è giusto, ma l’applicazione, ancora una volta, troppo timida. L’appello del pm viola il Patto internazionale che riconosce al condannato un riesame nel merito. Quando viene appellata una sentenza di assoluzione, l’imputato rischia di essere condannato per la prima volta in appello, perdendo così il diritto al controllo di merito. L’appello del pm contrasta con norme internazionali costituzionalmente cogenti e va abolito, lasciando all’accusa solo la possibilità di ricorrere per Cassazione. Vorrei ricordare che questo decisivo argomento non è stato considerato dalla Corte costituzionale nella famosa sentenza sulla legge Pecorella. Nordio annuncia la riforma delle intercettazioni. È davvero la prossima priorità? Credo che si possa trarre un primo bilancio delle riforme finora varate da questo Governo. Certamente positivo è il cambio di passo rispetto alla stagione Cartabia quando l’obiettivo era solo l’efficienza attuata con un taglio lineare delle garanzie. Oggi si parla apertamente di garantismo, ma l’impressione è che ci sia tanto fumo senza arrosto. Parole, buone intenzioni tradotte in scelte legislative sbagliate e compromissorie, si enuncia un principio, ma contestualmente si introducono mille eccezioni che di fatto svuotano la regola. Un garantismo di facciata che viene attuato con strumenti normativi del tutto inadeguati. Sarebbe molto interessante sapere chi materialmente scrive le norme, dato che la Commissione ministeriale di cui faccio parte è quasi del tutto estromessa dal procedimento legislativo. Per rispondere alla domanda, se si devono toccare le intercettazioni con questa metodologia, meglio lasciar stare. Beni confiscati alle mafie, un errore tagliare fuori il Terzo settore di Vanessa Pallucchi* Avvenire, 18 luglio 2024 Nei giorni scorsi l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) ha siglato un accordo con il Ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (Masaf) che interviene in maniera inedita sulla gestione e valorizzazione dei terreni confiscati alle mafie. Per la prima volta si prevede che siano messi “a disposizione di giovani imprenditori agricoli” che dovranno esercitare l’attività imprenditoriale contestualmente alla “realizzazione di iniziative a favore di soggetti con disabilità e immigrati, nonché iniziative a carattere didattico e divulgativo”. Diversi aspetti di questo accordo non ci convincono. Innanzitutto, appare di fatto svuotato di senso il principio del riuso sociale dei beni confiscati contenuto nella legge 109 del 1996: è sufficiente, per affermarlo nel concreto, prevedere sui terreni agricoli alcune sporadiche attività sociali del tutto accessorie a quelle lucrative e imprenditoriali? A nostro avviso no, a maggior ragione non essendo previsti nessun vincolo o valutazione qualitativa delle attività. L’accordo Ansbc-Masaf riconosce ai privati l’esclusività nella valorizzazione dei beni, mettendo così fortemente in discussione una grande conquista degli ultimi decenni: il riconoscimento del riutilizzo sociale dei beni confiscati come leva di emancipazione del territorio in cui la criminalità organizzata si è infiltrata, come risorsa per superare ostacoli e perseguire le aspirazioni delle comunità, grazie anche alla capacità delle realtà di Terzo settore che lì operano. Al Terzo settore, invece, non fa alcun cenno l’accordo, che punta a mettere in campo strumenti alternativi rispetto a quelli identificati dalla normativa esistente e nello specifico dal Codice Antimafia, che già prevedono il coinvolgimento di soggetti di agricoltura sociale, imprese e cooperative sociali. La presenza capillare del Terzo settore e la sua capacità di generare valore sociale ed economico, anche a partire dalle ferite di territori e persone, rendono il suo contributo ineguagliabile per lo sviluppo delle comunità. Che l’attuale sistema di assegnazione al Terzo settore dei beni confiscati e la loro gestione abbiano limiti importanti è cosa nota: oltre a problemi burocratici, ciò che pesa di più è l’assenza di risorse per riqualificare e mettere in efficienza i beni. Senza queste, per realtà del Terzo settore o Enti locale è molto difficile poter prendere in carico un bene spesso abbandonato da anni o fatiscente, rimetterlo in uso e assicurare lo svolgimento di durature attività di interesse generale. E a poco serve la lodevolissima eccezione della Fondazione con il Sud che rappresenta, come al solito, una goccia nel mare dei bisogni. Eppure ci sono risorse cospicue che provengono proprio dai beni mobili sequestrati e confiscati alle mafie, che confluiscono nel Fondo Unico per la Giustizia e che potrebbero essere utilizzati, almeno in parte, per riqualificare questo immenso patrimonio. La risposta delle istituzioni, invece, sta andando in direzione opposta: la revisione del Pnrr nel 2023 ha tagliato i 300 milioni previsti per la misura dedicata a valorizzare i beni confiscati alle mafie, non prevedendo alcun meccanismo di rifinanziamento. E il recente accordo Anbsc-Masaf rischia di essere un ulteriore, preoccupante passo verso il disinvestimento sociale. C’è quindi bisogno di maggiore sostegno economico e politiche più efficaci per realizzare quel modello di sviluppo che integra economia, legalità e coesione sociale, a cui si ispira il riuso sociale dei beni confiscati così come concepito dalle nostre leggi e rappresentato da tantissime esperienze positive sul territorio. *Portavoce del Forum Terzo Settore Il caso Yara dimostra che in Italia la voglia di manette non è mai passata di Nicola Mirenzi Il Foglio, 18 luglio 2024 Ci voleva Netflix per dare una scossa al discorso pubblico sulla giustizia: “Io non so se Massimo Bossetti sia innocente oppure colpevole”, dice Gianluca Neri, ideatore e direttore della docuserie “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio”. “Quello che so è che in Italia si dimentica spesso l’articolo 533 del codice di procedura penale, secondo il quale è meglio avere un colpevole fuori che un innocente in galera. È il principio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio. E vale anche di fronte ad Hannibal Lecter. Farebbero bene a rileggerselo un po’ tutti i politici, a destra e a sinistra, a partire da quelli che oggi manifestano a Genova a favore della carcerazione preventiva, in questo caso di Giovanni Toti, ma vale per chiunque”. Le cinque puntate della serie (realizzata dallo stesso gruppo di lavoro che ha fatto “Sanpa, luci e ombre”) raccontano la scomparsa della tredicenne Yara Gambirasio e ciò che ne è seguito. “Un attacco diretto alla malapratica della malagiustizia”, ha scritto ieri Giuliano Ferrara. C’è l’angoscia dei genitori, le ricerche infruttuose, lo smarrimento degli inquirenti, le false piste, il ritrovamento del cadavere dopo tre mesi, il dna, ma anche il can can che intorno al caso è montato sui giornali e le televisioni. “Partecipando alle udienze del processo d’appello, ho avuto fin da subito l’impressione di trovarmi in un circo nel quale ognuno recitava la sua parte, con magistrati e media impegnati a costruire l’immagine del mostro”. È sconcertante scoprire che le immagini del furgone di Bossetti, trasmesse a reti unificate, erano state montate dalla procura appositamente per la stampa, al fine di mostrare che l’uomo girava ossessivamente intorno alla palestra in cui per l’ultima volta venne vista la bambina. “Peccato che fossero false, cioè ottenute tagliando e cucendo le riprese di diverse telecamere”. Colpi di scena, figli illegittimi, bugie, relazioni extraconiugali, incredibili errori investigativi, ufficiali che tentato di estorcere confessioni: già di per sé l’inchiesta e il processo del caso Yara sono pieni di fatti notevoli, ma scavando sotto la cronaca ci si accorge che c’è anche una questione personale. “Quando cominciai a studiare la vicenda, ero appena uscito da un caso giudiziario”. Neri era accusato di aver rubato e tentato di diffondere delle foto private di vip. “Mi vidi sbattuto in prima pagina. Additato come un delinquente. Persi il lavoro di autore e conduttore a Radio 2. Ci vollero sette anni per uscirne completamente assolto”. Nasce qui il desiderio di immergersi nella cronaca nera con la fiammella del ragionevole dubbio, consapevole che la cultura del sospetto è una questione più generale, politica. “Quando Bossetti venne arrestato, il clima era così esagitato che l’allora ministro dell’interno, Angelino Alfano, scrisse che era stato ‘preso l’assassinio di Yara’ ancor prima che arrivasse in caserma per l’identificazione”. Ma Neri pensa che una più grossa responsabilità - nel quadro complessivo - l’abbia l’altra parte politica. “Io sono un uomo di sinistra. Eppure credo che, con la caccia giudiziaria contro Silvio Berlusconi, la sinistra abbia consegnato alle procure le chiavi del paese, aprendo uno spazio enorme all’arbitrio dei magistrati, e alimentando il desiderio di manette del paese”. L’apice della serie è l’intervista a Bossetti, condannato in primo, secondo e terzo grado, dichiarandosi sempre innocente. “Appena si è seduto davanti alla telecamera, nel carcere di Bollate, è stato travolto da un attacco di panico. Tremava. Era come uno scolaro che per dieci anni si era preparato a un esame e arrivato davanti alla commissione non riusciva più ad aprire bocca”. Per calmarlo ci sono volute diverse ore e due giorni di riprese. “Incontrandolo ho pensato che nessuno ci autorizza a fare dei carcerati quello che vogliamo. Anche quando sono stati condannati per delitti atroci”. L’obiezione è che se fare un processo in tv è deplorevole, altrettanto dovrebbe esserlo rifarlo su Netflix. “Certo. Ma non è quello che volevamo fare”. Allora cosa volevate fare? “Raccontare un paese che si è dato delle regole per affrontare civilmente la giustizia e poi, quando si trova di fronte a un caso concreto, non ci pensa due volte a mettersele sotto i piedi”. Trieste. “Metadone letale”: giallo sulla morte di un detenuto di Luigi Mastrodonato Il Domani, 18 luglio 2024 Il corpo di Zdenko Ferjancic trovato dai suoi compagni di cella il giorno dopo una rivolta. Cosa è accaduto tra l’11 e il 12 luglio? Ora il legale ha preparato un esposto da mandare in procura. Il 12 luglio Zdenko Ferjancic, un detenuto del carcere di Trieste, è morto, secondo le prime ricostruzioni, per “overdose da metadone”. Il giorno prima c’era stata una rivolta nell’istituto, durante la quale alcuni detenuti avevano dato assalto all’infermeria. Ora ci si interroga su quello che è stato fatto, o non è stato fatto, per impedire quel decesso. E il suo avvocato ha presentato un esposto in procura. L’11 luglio, dunque, è il giorno in cui nel carcere di Trieste è scoppiata una rivolta, come nei giorni precedenti in altri istituti penitenziari italiani, segnati da condizioni sempre più precarie e da un numero di suicidi che nel 2024 ha già segnato la quota record di 56. A Trieste i detenuti hanno dato alle fiamme lenzuola e mobilio vario presenti nelle celle, mentre dalle finestre piovevano oggetti in strada. Alla rivolta hanno partecipato circa 130 detenuti, spinti dalle precarie condizioni in cui sono costretti a vivere. “Da mesi il numero delle persone detenute si aggira tra le 250-260 a fronte di una capienza regolamentare di 139 persone. A ciò vanno aggiunti il caldo di questi giorni e le cimici, che sono riaffiorate nonostante le disinfestazioni che vengono effettuate regolarmente”, spiega Elisabetta Burla, garante triestina dei diritti dei detenuti. Non è chiaro cosa abbia fatto precipitare la situazione, si parla anche di presunti abusi di potere nei confronti dei detenuti. La rivolta è andata avanti per qualche ora e i detenuti, tra le altre cose, hanno dato assalto all’infermeria. Dopo alcuni negoziati falliti, la polizia in tenuta antisommossa ha fatto ingresso nell’istituto, usando anche lacrimogeni. Ci sarebbero stati scontri con i detenuti, poi è tornato l’ordine. Il 12 luglio pomeriggio Zdenko Ferjancic, detenuto sloveno 47enne, è stato trovato morto nella sua cella. A lanciare l’allarme non sono stati gli agenti penitenziari, ma i detenuti con cui condivideva la cella: erano in nove, a proposito di sovraffollamento. Ferjancic era stato arrestato nel 2022 a Gorizia. Era accusato di spaccio di sostanze stupefacenti, “alcune cessioni irrisorie e isolate nel tempo avvenute nel 2019, in parallelo al suo lavoro principale”, spiega il suo avvocato Paolo Bevilacqua. Questo lo ha fatto finire in carcere, insieme alla compagna con cui convive da 15 anni. Ferjancic viveva a Nova Gorica, a 500 metri dal confine italiano, ma non ha potuto scontare la custodia ai domiciliari perché la legge italiana non permette di farlo all’estero. L’uomo ha così passato gli ultimi due anni in cella. In primo grado è stato condannato a sei anni, una pena che è aumentata con il decreto Caivano e che non ha dunque permesso di fare richiesta per la messa alla prova. A novembre ci sarebbe stato l’appello ma il 12 luglio Ferjancic è deceduto proprio in carcere, un luogo dove in Italia si muore 13 volte più che nel mondo libero. Ferjancic “aveva problemi latenti di tossicodipendenza e soffriva di depressione e disturbo bipolare, motivo per cui gli venivano somministrati psicofarmaci”, sottolinea il suo avvocato, che prospettava un percorso di affidamento al Serd, i servizi territoriali per le tossicodipendenze. Ora l’avvocato vuole vederci chiaro sul decesso. “Se fosse morto per overdose da metadone ci sarebbe una grossa responsabilità del carcere, non è ammissibile che succeda questo. Potrebbero esserci delle responsabilità attive e omissive”, sottolinea Bevilacqua, che ha firmato un esposto diretto alla Procura in cui si sottolinea che “il proprio assistito potrebbe essere deceduto in conseguenza dell’overdose di farmaci” e si chiede di fare luce sulla “corresponsabilità causale di quanti saranno ritenuti, a vario titolo, coinvolti nella produzione dell’evento, per aver omesso, ovvero, non correttamente vigilato l’ordine pubblico carcerario, ovvero, e comunque, causato materialmente la morte in cella del detenuto”. La storia ricorda quanto successo nelle carceri italiane nel 2020, quando tredici detenuti morirono nel corso di alcune rivolte per “overdose da metadone”, in circostanze mai del tutto chiarite e senza che sia mai stata accertata alcuna responsabilità. Se nel 2020 erano finite sotto accusa le modalità di conservazione della sostanza negli armadietti e le alte quantità stoccate, oltre che le mancate perquisizioni successive alle rivolte che avevano portato a decessi fino a due giorni dopo, ora la morte di Ferjancic a Trieste a 24 ore dalla rivolta e il ricovero di altri detenuti in overdose pongono gli stessi interrogativi e con l’esposto si chiede di accertare eventuali omissioni di soccorso, falle nella vigilanza e nella custodia dei farmaci. In attesa dell’autopsia per capire meglio cosa sia successo, l’avvocato Bevilacqua tiene aperte tutte le piste. “Potrebbe anche essersi trattato di un malore, non è detto che abbia assunto metadone dal momento che non risultava tra i partecipanti attivi alla rivolta”, sottolinea. “Quel che è certo è che Ferjancic era una persona in carcere da parecchio tempo senza una condanna definitiva, una persona molto fragile che per il suo profilo, e per quello di cui era accusato, non doveva stare lì”. E invece in carcere ci è morto in circostanze su cui andrà fatta luce, come non si è fatto con la strage di marzo 2020. Trieste. “Divorati da cimici e scarafaggi”, il racconto shock di un detenuto di Nicolò Giraldi triesteprima.it, 18 luglio 2024 Cosa è successo dentro al carcere del Coroneo in occasione della rivolta e nei giorni successivi? Per la persona detenuta che ha raccontato i fatti è stato garantito l’anonimato. La comunicazione è avvenuta tramite un telefono cellulare. “Siamo divorati dalle cimici, dalle formiche, dagli scarafaggi. Per poter chiamare a casa di norma ci vuole un mese e mezzo. Spesso la gente viene messa in isolamento per motivazioni sanitarie, ma non è come dicono i giornali. Tutto questo (la rivolta ndr) non è stato fatto solo per il caldo e il sovraffollamento, ma perché anche noi siamo esseri umani e abbiamo comunque i nostri diritti. La situazione è degenerata, non si voleva arrivare a tanto, l’obiettivo era di poter parlare con qualcuno che può far arrivare la nostra voce oltre queste mura, ma diciamo che non c’era motivazione per arrivare a distruggere l’infermeria, non c’entrava niente”. Il racconto esclusivo che TriestePrima è in grado di pubblicare è affidato ad una persona detenuta nel carcere del Coroneo a Trieste. Il mezzo attraverso il quale la persona rinchiusa alla Ernesto Mari (persona che manterremo anonima) descrive i fatti dello scorso 11 luglio è un telefono cellulare. “La polizia è molto arrabbiata, i colloqui con le famiglie bloccati” - “Non è soltanto la mia situazione - racconta -, bensì quella di molta gente come me all’interno delle carcere italiane. Dovremmo essere una persona per stanza, di norma invece ce ne sono due. Molte altre persone dormono in corridoio con i materassi buttati a terra. Nonostante le disinfestazioni che vengono fatte, ci sono cimici, formiche e scarafaggi. Dopo la protesta in qualche cella sono stati forniti dei ventilatori, per il resto non è cambiato molto, la situazione è tornata quella di prima. La polizia è molto arrabbiata perché sono stati fatti tanti danni. Per il momento i colloqui con i familiari restano bloccati, forse perché bisogna sistemare tutto, ma è una cosa che non ci è stata detta”. Le perquisizioni nelle celle - Dopo la rivolta, passeggiando nella via di fronte al Coroneo tutto sembra tranquillo: studenti che aspettano l’autobus, il borbottio delle automobili, qualche passante che si rinfresca la gola nei bar della zona. Dall’altro lato della strada, enorme e invisibile, il mondo delle sbarre di ferro. Inespugnabile, senza voce, all’apparenza impenetrabile. “Di nuovi detenuti ne arrivano di continuo - continua -, siamo prigione di confine”. Passeur, trafficanti, detenuti arrestati per droga, qualche rapina e reati “minori”, questo il quadro della casa circondariale triestina. Ci viene raccontato di come vi siano detenuti che “scontano la pena in giudicato, altri per reati minori, molti che hanno chiesto il trasferimento. Senza ricevere risposta”. Sul banco degli imputati, nel singolare tribunale del carcere, ci finisce la “lentezza dei processi. A volte, passa almeno un anno prima di poter fare l’udienza preliminare. Molti, così, rimangono in attesa”. Nei giorni scorsi si è diffusa la notizia di presunte perquisizioni nelle celle dei detenuti, ma da fonti interne è stato rassicurato trattarsi di “ordinaria amministrazione”. “Papa Francesco ha scritto una lettera, Dio è con noi” - “Sta venendo fatto di tutto, giustamente, per trovare le terapie sparite - così la testimonianza della persona detenuta -. Non c’era motivo di assalire l’infermeria. Non c’entrava niente”. A sparire, dai locali assaltati, anche molte boccette di metadone. La procura indaga per far luce sia sulla rivolta ma anche e soprattutto sulle cause che hanno portato al decesso di Zdenko Ferjancic, quarantottenne sloveno trovato morto nel suo letto il 12 luglio. Un decesso che si aggiunge, a livello nazionale, al numero dei detenuti morti nelle carceri italiane, la maggior parte suicidi. Da inizio anno, il numero di chi in Italia si è tolto la vita in carcere è ben oltre a 50. “Speriamo veramente che questa cosa sia servita - conclude la persona rinchiusa -, bisogna fare qualcosa per cambiare un po’ la situazione dei detenuti in generale. Anche Papa Francesco ha scritto una lettera al carcere per darci conforto. Dio è con noi”. Bolzano. Celle invivibili, i detenuti ora protestano di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 18 luglio 2024 Lenzuola appese e pentole sbattute contro le inferriate. La politica prende tempo. Lenzuoli appesi e pentole sbattute contro le inferriate. Al carcere di Bolzano va in scena la protesta dei detenuti: “Vogliono sensibilizzare sulle loro condizioni” spiega il direttore Monti. Non sono settimane facili per il carcere di Bolzano. Prima l’epidemia di scabbia risolta da poco, poi l’incertezza sui fondi e su una nuova struttura che si fa attendere ormai da troppo tempo. Una situazione non facile in primis per i detenuti, tanto che è arrivata una protesta plateale: lenzuoli appesi dalle finestre e pentole sbattute contro le inferriate. Nulla di violento, ma un gesto che chiede di riaccendere una luce: “Nessuna rivolta, non ci sono stati momenti di tensione o aggressività. Semplicemente, i detenuti volevano lanciare un segnale di sensibilizzazione all’esterno. La struttura è già sovraffollata, e l’arrivo dell’estate sta creando ancora più disagi e malessere nella popolazione penitenziaria” spiega il direttore del penitenziario bolzanino Giovangiuseppe Monti. L’azione dei detenuti dovrebbe andare avanti anche oggi con le stesse modalità. Per dare un’idea, al 17 giugno (ultimo aggiornamento sul sito del Ministero) c’erano 117 detenuti a fronte di 88 posti. La questione nel frattempo è diventata anche politica. Due partiti d’opposizione (Verdi e Pd) hanno presentato delle interrogazioni in merito, per fare luce sul progetto del nuovo penitenziario e soprattutto sui fondi messi a disposizione: “Recentemente abbiamo appreso che non si costruirà un nuovo edificio, ma si ristrutturerà il carcere esistente in via Dante. Le condizioni attuali del carcere sono considerate inadeguate e degradanti. Inoltre, un nuovo carcere lontano dalla società e dalla comunità carceraria potrebbe avere svantaggi. Nel 2011, un accordo tra Stato e Provincia prevedeva la costruzione di una nuova struttura penitenziaria a Bolzano, i cui costi sarebbero stati sostenuti dalla Provincia e detratti dal contributo annuale alle finanze pubbliche. Tuttavia, lo Stato deve ancora chiarire l’impegno finanziario, determinando se procedere con il progetto attuale o considerare alternative” si legge nel documento del partito ambientalista; “La decisione di non costruire più il carcere a Bolzano è direttamente collegata alla ventilata costruzione del Cpr a Bolzano Sud? E per quali ragioni il presidente Arno Kompatscher alza le mani in segno di resa, anziché difendere la necessità di un nuovo carcere?” chiedono i dem. Dal canto suo, il governatore continua a perorare la causa di un nuovo istituto. L’ultimo aggiornamento in tal senso si è avuto ieri mattina, in occasione di un incontro a Roma con i rappresentanti del Ministero della Giustizia. Il dialogo va avanti su due fronti: da un lato i lavori di rifacimento e manutenzione del carcere di via Dante, dall’altro il via libera per la nuova struttura. Nel primo caso, tutto pare procedere regolarmente, tanto che da Roma assicurano che “a fronte delle richieste del presidente, il Ministero ha rassicurato che in data 17 giugno (ieri ndr) è stato firmato il contratto tra il Provveditorato Interregionale alle opere pubbliche e l’impresa aggiudicataria dei lavori di riqualificazione dell’istituto penitenziario di Bolzano, che presto saranno attuati. I lavori riguarderanno la ristrutturazione delle coperture e delle facciate per un importo pari a 1,14 milioni di euro, e con una durata di 130 giorni naturali e consecutivi”. Nel secondo invece, non si intravede nulla di nuovo all’orizzonte: “Quanto al nuovo istituto, come richiesto dal presidente Kompatscher, è in corso una interlocuzione informale tra i massimi organi competenti che darà al più presto esiti” recita la nota diramata da via Arenula nella quale le parti “si dichiarano soddisfatte” e dicono di “rivedersi al più presto”. Nel frattempo, a portare solidarietà ai detenuti di via Dante sarà la manifestazione organizzata per domani “contro la violenza di Stato e la repressione, al fianco di chi si rivolta”. Gli organizzatori hanno messo nel mirino “un clima inedito” per la sicurezza in città: “Nel fatiscente e sovraffollato carcere di Bolzano, negli scorsi mesi si è verificata un’epidemia di scabbia, e la sezione semiliberi è stata chiusa perché pericolante. Nel frattempo, sotto la guida del Questore Paolo Sartori si è impennato il numero di arresti, espulsioni, fogli di via e altre misure nei confronti delle persone considerate indesiderate”. Il presidio (o “saluto solidale ai detenuti” come lo chiamano gli organizzatori) è in programma domani alle 17 sul lato del carcere che si affaccia lungo il Talvera. Roma. Carceri, il peggioramento in un anno di Mimmo Fornari L’Opinione, 18 luglio 2024 La situazione peggiore è a Regina Coeli, con “1.129 presenze contro i 628 posti disponibili e un tasso di sovraffollamento del 180 per cento”. Ma nel resto delle carceri circondariali non va meglio. La fotografia scattata nella Capitale fa riflettere, come spiegato da Valentina Calderone, Garante dei detenuti a Roma. “Dal marzo 2023 a oggi ho constatato un significativo peggioramento delle condizioni di vita nella maggior parte degli istituti. La maggior parte dei dati sono aggiornati a dicembre 2023, mentre alcuni dati sono aggiornati a giugno 2024, in particolare sul sovraffollamento, in costante e preoccupante crescita”. Illustrando la relazione nell’Aula Giulio Cesare, Calderone osserva che nella Città eterna “sono presenti quattro istituti a Rebibbia, poi ci sono Regina Coeli e il minorile di Casal del Marmo”. Nel dettaglio, tolta Regina Coeli, “Rebibbia nuovo complesso conta 1556 persone contro i 1170 posti disponibili con un tasso di sovraffollamento del 133 per cento. Rebibbia femminile ha 358 presenze contro i 272 posti, cioè il 132 per cento”. Vivere in un carcere sovraffollato, continua Valentina Calderone, “significa anche che il personale dell’area giuridico-pedagogica non riesce a svolgere le sue funzioni e questo vale anche per gli operatori sanitari e la polizia penitenziaria”. In questo quadro, non mancano le pessime condizioni strutturali, a volte persino fatiscenti. Parliamo, segnala Calderone, di “stanze da 2 che ospitano 5 persone”. A cui si aggiungono “infiltrazioni d’acqua, muffa alle pareti, lavandini che perdono, acqua calda che non funziona. Spazi scolastici e di socialità usati come stanze di pernotto e il caldo peggiora la situazione. A Regina Coeli - avverte - per via di un impianto elettrico troppo vecchio non si possono avere neanche i ventilatori in stanza”. Nell’istituto di Casal del Marmo, tra l’altro, la situazione si è aggravata: “Al 31 dicembre 2023 erano presenti 46 ragazzi e ragazze. Nel corso dei primi mesi del 2024 sono salite fino a quasi 70 persone anche per effetto del cosiddetto Decreto Caivano. È la prima volta da anni che abbiamo un sovraffollamento anche nelle strutture per minori”. Ma ci sono altri numeri che non passano inosservati. E che Calderone snocciola: “Tra le 2682 donne detenute in tutta Italia, 440 sono ristrette nel Lazio e la maggior parte sono a Rebibbia femminile. Le detenute madri con figli in tutta Italia, a giugno 2024, sono 23, di cui 16 straniere. I bambini sono 26. A Rebibbia le madri con figli al seguito sono al reparto nido, composto da 4 stanze con 4 posti ciascuna. Nella maggior parte dei casi l’uscita delle donne dal carcere avviene rapidamente con misure meno afflittive. È da segnalare però la situazione di una donna, reclusa da ottobre 2023 con un bambino di 3 anni”. Menzione a parte merita, per Valentina Calderone, “la buona pratica della Casa di Leda, immobile confiscato alla criminalità organizzata gestita dall’Asp Asilo Savoia, una casa protetta che può ospitare fino a sei donne con figli minori. Nei prossimi mesi - va avanti - anche per effetto di provvedimenti legislativi in corso di approvazione, potremmo assistere a un importante incremento di questi numeri. Sarà necessario dotarsi di strumenti, per prendere in carico le donne e i loro figli”. Brescia. I detenuti del Nerio Fischione scrivono a Mattarella: “Vogliamo risposte” di Eugenio Barboglio Brescia Oggi, 18 luglio 2024 In una nuova lettera al Presidente della Repubblica, gli ospiti del penitenziario cittadino raccontano le condizioni penose all’interno della struttura e chiedono interventi. “Abbiamo scelto la strada del dialogo”. Di lettere ne hanno scritte parecchie. Il tema, sempre lo stesso: il sovraffollamento, le condizioni disumane di detenzione, soprattutto d’estate. Risposte concrete, nessuna. Il nuovo carcere? Passano gli anni e appare sempre più un miraggio. Il Governo è riuscito a diffondere due volte la notizia dello stesso stanziamento pur di calmare le acque. Ma il Nerio Fischione è sempre lì, pieno come un uovo. I detenuti hanno scritto al Papa un paio di volte, al presidente della Repubblica, alla premier. Ora ancora una volta riprendono carta e penna e si rivolgono a Sergio Mattarella. “Siamo sovraffollati”, scrivono ad un certo punto della lettera. Sovraffollati, sostantivo plurale. Come fosse un dato di identità, come italiani, romeni, marocchini. Come carcerati. Ecco alcuni frammenti della lettera al presidente: “Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle e si appiccica sotto i vestiti”, comincia così la missiva. E poi qualche flash della vita tra celle e bracci di Canton Mombello: “Devo andare in bagno ma è occupato, altri 15 sono in fila”. “Un anziano ha una scarica di dissenteria, piange, ha 74 anni e sporca materasso e lenzuola. Piange perché si sente umiliato”. Esasperato un altro detenuto vorrebbe mettergli le mani addosso: “non lo fa per cattiveria - spiegano - ma solo per stress, anche lui è stanco arrabbiato, sofferente”. Lo calmano... “Le vecchie turche sono cocktail di germi e batteri”. Si fanno da mangiare in bagno, “dove si tira lo sciacquone, e schizzi e cibo si mischiano”. Non riescono a mangiare insieme, in 15 in cella, non si può nemmeno stare in piedi, “cimici e scarafaggi fanno anche loro la coda. “Abbiamo scelto di intraprendere la strada del dialogo con le istituzioni piuttosto che quella delle iniziative di protesta interne agli istituti”, commentano. “Lo facciamo perché crediamo che il senso di responsabilità e la sincera volontà di utilizzare il tempo della pena in maniera positiva debbano essere elementi, oltre che proclamati, visibili anche attraverso gesti coerenti con le nostre parole”, aggiungono. Precedenti appelli - Ricordano la lettera scritta nel 2022 per dire che nulla è cambiato: “Quella lettera potrebbe benissimo essere stata scritta oggi, ogni parola è estremamente attuale. In due anni le condizioni di vita sono andate sempre più deteriorandosi fino a raggiungere oggi la situazione che è evidente a tutti, caratterizzata da un intollerabile numero di suicidi e da un sovraffollamento che ci sta togliendo dignità e speranza”. Lamentano non solo l’assenza di risposte concrete, le nuove strutture promesse, ma risposte tout court: “Nonostante i tentativi fatti, solo in una occasione, il 17 giugno scorso, qualcuno è venuto a parlare con noi, qualcuno della politica, qualcuno nella posizione di aiutarci”. Dialogo o protesta? “Non tutti i detenuti, anche qui a Brescia, sono d’accordo con la strada che noi abbiamo scelto. Alcuni vorrebbero adottare strategie diverse, anche eclatanti”. Ma, confessano, non è una strada facile da seguire giorno dopo giorno: “Però altri istituti di pena potrebbero seguire il nostro esempio. Potremmo davvero inaugurare un’era di dialogo che non vuol dire scendere a patti con noi ma darci la possibilità di dirvi quali sono i problemi reali del carcere e quali strumenti potrebbero aiutarci a sopravvivere”. Ribadiscono la necessità di ascolto, di risposte, “di incontrarvi, di confrontarci. Lo potete fare? Qualcuno se la sente di parlare con noi e aiutarci a trovare soluzioni? Non chiediamo regali, come già detto più volte nei nostri scritti, ma solo di portare a termine la nostra condanna dignitosamente”. Terni. “In carcere ci sono 150 detenuti in più, si fatica a garantire un posto agli arrestati” di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 18 luglio 2024 Il carcere di Sabbione scoppia. Al punto che la neo comandante della Polizia penitenziaria, Vanda Falconi, ha deciso di interessare il prefetto Giuseppe Bruno. “All’istituto di Terni sono presenti 562 detenuti a fronte di una capienza di 422 presenze, la situazione non è più tollerabile sia per la dignità degli ospiti presenti che del personale in ogni comparto che quotidianamente si trova a fronteggiare una situazione inconcepibile. Proprio oggi - dice la comandante Vanda Falconi - abbiamo preparato una richiesta per il blocco delle assegnazioni sezioni media sicurezza e di sfollamento detenuti ex articolo 32 DPR 230/00 da ratificare nei prossimi giorni. Ho informato il prefetto - aggiunge - e ho chiesto il suo sostegno per garantire la sicurezza interna ed esterna”. I numeri riguardano una evacuazione di 50/60 detenuti per scendere ad uno sfollamento del 40 per cento. Una situazione implosiva per un istituto si diventato di primo livello ma che resta sempre una casa circondariale dove sono rappresentati quasi tutti i circuiti penitenziari. “Al momento si riesce a fatica a garantire gli arresti sul territorio per esecuzioni di arresti in flagranza o esecuzione di provvedimenti di custodia cautelare in carcere” dice la comandante Falconi. Cagliari. Temperature record al carcere di Uta, la Garante si rivolge al ministro Nordio di Luigi Alfonso vita.it, 18 luglio 2024 Irene Testa, Garante dei detenuti della Sardegna, ha fotografato i 44 gradi registrati dal termometro della struttura. Il sovraffollamento complica le cose e favorisce la diffusione delle malattie. Il caldo asfissiante, che in Sardegna nei mesi estivi non è certamente una novità, sta creando parecchi problemi negli istituti penitenziari dell’Isola. Oggi il termometro, all’interno del carcere di Uta (Cagliari) ha segnato i 44 gradi centigradi. Lo ha rilevato personalmente Irene Testa, Garante dei detenuti della Sardegna, in occasione di una delle sue periodiche visite alla Casa circondariale. “I detenuti erano stipati in celle da sei metri quadrati per due, per un totale di quattro detenuti per cella”, spiega. “A causa del sovraffollamento, di sicuro peggiorato da quando si stanno eseguendo imponenti trasferimenti dai penitenziari del Nord a quelli del Sud Italia, si è aggiunta in quasi tutte le sezioni una quarta branda”. Anche il personale di Polizia ormai è allo stremo delle forze, tanto che alcuni degli agenti più anziani ipotizzano di chiedere il pensionamento anticipato, a costo di rimetterci un po’ di soldi. “Oggi, a fatica, un ispettore è riuscito ad accompagnarmi nelle varie sezioni”, conferma Testa. “Malati psichiatrici, tossicodipendenti e disabili gravi sono allocati in celle non a norma, senza personale per l’assistenza. Far vivere la comunità penitenziaria in queste condizioni, senza sistemi di aria condizionata, senza ventilatori, con disabili gravi in celle non a norma, è scandaloso. Si punisce la malattia e si rinchiude il disagio. Siamo davanti ad una emergenza umanitaria che è a un punto di non ritorno. È in corso un processo di disumanizzazione e degrado, di privazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, venga a visitare le nostre carceri: per deliberare occorre conoscere, e conoscere bene, i problemi di chi ogni giorno vive in questo inferno”. Irene Testa poi parla di un altro problema, strettamente collegato al primo. “Il sovraffollamento non crea soltanto disagi legati alle altissime temperature, che condizionano non solo i detenuti ma anche coloro che lavorano in queste strutture”, spiega la Garante. “Creano le condizioni ideali per la diffusione di virus e malattie di vario genere. Proprio nelle scorse settimane ho denunciato un caso accertato di Tbc nel carcere di Bancali, a Sassari. Si trattava di tubercolosi polmonare attiva, che ora pare sia sotto controllo. Altri casi di positività sono stati trattati con le opportune terapie, per fortuna tempestivamente, ma la situazione desta una certa preoccupazione perché è una patologia che va ad aggiungersi al già lungo elenco di problematiche che denunciamo da anni. Tra l’altro, la maggior parte dei detenuti arrivato dalla penisola non aveva sostenuto le specifiche visite per la Tbc prima di giungere in Sardegna. E qui non ci sono le celle per isolare i pazienti malati, come imporrebbe la profilassi”. Massa Carrara. “Gravissima incuria igienica. Topi e odore di rifiuti in cella” di Melania Carnevali Il Tirreno, 18 luglio 2024 Un ratto nella cella, altri che frusciano fuori. E rifiuti appoggiati al muro sotto la finestra con l’odore di marcio che entra dentro. È la segnalazione di un detenuto del carcere di Massa depositata nei giorni scorsi nell’ufficio matricola, l’ufficio dove passano tutte le comunicazioni tra l’autorità giudiziaria e i reclusi, nonché il primo luogo in cui arriva ogni nuovo ospite, quello dove viene perquisito, misurato, fotografato e dove vengono prese le impronte digitali. La lettera ha la data del 12 luglio e arriva, a detta del detenuto rappresentato dall’avvocato Alessandro Maneschi, dopo diverse segnalazioni fatte direttamente “ai vari agenti di polizia penitenziaria” sull’ambiente “tanto degradato”. Sarebbero arrivate “rassicurazioni” ma “sono rimaste lettera morta”, si legge nell’atto consegnato. Il problema, dice, è l’igiene. Parla di “gravissima incuria igienica e sanitaria in cui versa la casa di reclusione di Massa”, in particolare la sua cella e l’area in cui si trova. “È necessario - si legge nella lettera - rendere formale la doglianza perché vengano presi adeguati provvedimenti che riparino lo stato attuale e che ripristino condizioni di vita dignitose per la popolazione detenuta”. La cella dell’uomo, da quello che si apprende dalla segnalazione, dà sull’esterno. Attaccati al muro vicino alla finestra vengono accatastati (“anche per tre giorni”) i rifiuti del carcere. L’odore di scarto imputridito entra nella cella. “Questa circostanza determina un primissimo problema di ordine odorigeno - scrive il detenuto - perché, soprattutto nella stagione estiva, la fermentazione e il deperimento dei rifiuti umidi produce odori forti e nauseabondi che, passando dalle finestre, invadono le celle”. Questo, sempre secondo quanto ricostruito dal detenuto, avrebbe favorito il proliferare dei ratti, tanto che nella notte tra l’1 e il 2 aprile un ratto è entrato anche nella sua cella. Lui ha chiamato l’agente della polizia penitenziaria che lo avrebbe ucciso “schiacciandolo. È possibile sostenere - continua - che l’intervento di cura prestato dall’amministrazione penitenziaria si sia fermato qui perché il giorno dopo non è stata fatta nessuna sanificazione e non vi è davvero bisogno di spiegare la pericolosità in termini infettivi di questi animali”. Il detenuto sostiene anche di sentire tutte le notti i roditori muoversi sotto la sua finestra “per cui è evidente che vi siano vere e proprie colonie che devono essere debellate con tecniche e prodotti specifici”. Nella sua segnalazione, il detenuto ricorda che “l’ordinamento penitenziario e la normativa sovranazionale impongono all’amministrazione di garantire alla popolazione detenuta condizioni sanitaria e di igiene che siano salubri e che garantiscano livelli minimi di vivibilità della struttura”. E chiede che la direzione della casa di reclusione di Massa prenda “le necessarie iniziative per debellare immediatamente un problema che mette in gravissimo pericolo la salute di tutti i reclusi”. Il detenuto, come detto, ha scelto di farsi assistere dall’avvocato Maneschi che quindi avrà “ogni potere inerente il mandato difensivo, compresa la facoltà di prendere visione dei propri dati personali al fine di utilizzarli secondo quanto ritenuto opportuno”. Fine vita, c’è la svolta. Apertura della Corte Costituzionale sul suicidio assistito di Liana Milella La Repubblica, 18 luglio 2024 I giudici intervengono per la prima volta dal 2019 andando a colmare l’inerzia del legislatore. A giorni le motivazioni. Sul fine vita la storia si ripete. Protagonista, ancora una volta, la Corte costituzionale. A fronte di un Parlamento silente dal 2018. E di un governo che fa dire all’Avvocatura dello Stato “giù le mani, è materia nostra”. La Corte invece “parla” con una decisione destinata a lasciare di nuovo una traccia decisiva nel cammino sofferto dei diritti. Con una sentenza freschissima, definita nelle virgole solo martedì, e di cui Repubblica anticipa le conclusioni. A breve potremo leggerla tutti. Tecnicamente è una sentenza “interpretativa di rigetto”, nel senso che precisa l’ampiezza della stessa decisione della Corte sui “trattamenti vitali di sostegno”. Il verdetto è un altro passo avanti nella storia sofferta di chi è stato condannato, per malattia o incidente grave, a perdere l’autonomia vitale, diventando schiavo di una macchina o di un’assistenza fisica che consente la sopravvivenza stessa. Qui s’innesta il passo avanti della Corte. Che interpreta le famose quattro condizioni fissate nel 2019 che hanno reso possibile il suicidio assistito. La terza stabiliva che a rivendicare questo diritto poteva essere chi è “tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”. Ed era capace, recitava la quarta, “di prendere decisioni libere e consapevoli”. Ora la Consulta allarga il riferimento ai “trattamenti di sostegno vitale”. Solo una macchina in caso di paralisi totale, come per chi è tetraplegico? Oppure anche l’indispensabile “sostegno” di un’assistenza continua per ogni minuscolo gesto quotidiano? Qui sta la svolta della Corte che affida alla figura del giudice il potere di stabilire il margine di sofferenza per quel “trattamento di sostegno vitale”, al punto da aprire la porta alla possibilità di mettere fine alla vita con un “io lo voglio”. Decisione difficilissima. Che leggeremo nelle pagine dei due giudici - il costituzionalista Franco Modugno e il penalista Francesco Viganò - che hanno firmato la sentenza. E per comprenderne al contempo valore e peso conviene citare le parole dello stesso Viganò contenute in un podcast edito dalla Consulta del dicembre 2020 che ripropongono Giuliano Amato e Donatella Stasio nel volume Storie di diritti e di democrazia per testimoniare l’importanza storica di quella decisione che oggi, nel silenzio delle Camere, si evolve. Ma sentiamo Viganò. “Si dice spesso che le decisioni della Corte possono cambiare la vita delle persone. Forse questo non è mai stato così vero come rispetto a quelle che riguardano il momento drammatico in cui la vita si conclude”. Un peso enorme. Come quando Dj Fabo in Svizzera aveva spinto, con l’unico dito che poteva muovere, il farmaco letale nel suo corpo. E aveva a fianco Marco Cappato. E ancora i casi di Mario che nelle Marche riesce a chiudere la sua vita il 17 giugno 2022. E Gloria che raggiunge lo stesso obiettivo il 24 luglio 2023. E siamo a oggi, all’aiuto che lo stesso Cappato, con Felicetta Maltese e Chiara Lalli, tutti dell’Associazione soccorso civile, hanno dato a Massimiliano, accompagnato in Svizzera a morire perché affetto da sclerosi multipla. Cappato, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, si autodenuncia. Rischia 12 anni di carcere per aver violato l’articolo 580 del codice Rocco che punisce “l’istigazione o l’aiuto al suicidio”. Non è la prima volta, tant’è che è indagato per altri casi dalle procure di Bologna, Milano e Roma. Ma qui cambia tutto dopo il ricorso alla Consulta del giudice di Firenze sul caso di Massimiliano. Ne fa un altro un giudice di Milano. Ma ce ne sono altri dieci che premono, seguiti dal team dalla Coscioni con la segretaria Filomena Gallo. Come nel 2019 la voce della Consulta cambia lo scenario. Ricordate? Il primo passo, nel 2018, quando la Corte concede un anno alle Camere per cambiare le regole del fine vita. L’anno passa, e non accade nulla. La Corte fissa le quattro condizioni per l’aiuto al suicidio. Ma la macchina burocratica è lentissima. Il Parlamento resta immobile. Si moltiplicano le richieste di chi, pur non legato a una macchina, vuole esercitare il suo diritto. Ora la Consulta apre una nuova porta. Affida ai giudici, tanto contestati dal governo, di stabilire i margini di un “trattamento di sostegno vitale”. Caso per caso sarà una toga a decidere il via libera dalla vita stessa. E chi lo accompagnerà in questo percorso non commetterà reati. Il baluardo della Costituzione: no alle botte che “educano” di Paolo Borgna Avvenire, 18 luglio 2024 La questione è sempre la stessa. Affinché integrazione non significhi colonialismo culturale è necessaria un’interazione tra culture, tra mores diversi. Una lenta e sapiente contaminazione di costumi. L’umanità è sempre andata avanti così. Ma fino a che punto tutto ciò è possibile senza che l’accettazione di costumi diversi intacchi i principi costituzionali di dignità della persona, uguaglianza e libertà? Una sentenza della Corte d’appello di Torino ha recentemente assolto i genitori Rom dal reato di maltrattamento delle figlie (percosse abituali ma anche percosse alla moglie in presenza delle minori - c. d. “violenza assistita”) in quanto gli imputati ritenevano che la violenza fosse “l’unico strumento disponibile per garantire ordine e disciplina in seno alla famiglia e nei rapporti tra le bambine” e in quanto il contesto (famiglia numerosa in un campo nomadi, “fisiologica esuberanza” delle bambine) fa sorgere dubbi sulla coscienza e volontà di sottoporre le figlie a qualsivoglia maltrattamento. Il substrato culturale avrebbe insomma indotto nei due genitori imputati una mancata consapevolezza della propria condotta oggettivamente violenta. Non c’è nulla di totalmente nuovo. Se si vanno a rileggere le discussioni che negli anni ‘60 accompagnavano l’applicazione delle norme (allora ancora in vigore!) del ratto a fine di matrimonio e del matrimonio riparatore - soprattutto quando questi fatti venivano commessi nelle città del nord da giovani immigrati dal meridione - si vedrà che gli argomenti usati pro o contro quegli articoli ritornano nelle nostre discussioni di oggi. Ai tempi in cui tutto era più semplice, vigeva l’antico e insormontabile brocardo ignorantia legis non excusat, scolpito nell’articolo 5 del codice penale: “nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”. Ma oggi le cose sono più complicate, perché la realtà (e spesso le norme) sono più complesse di come il Legislatore di un secolo fa aveva immaginato. La regola dell’articolo 5 può avere un temperamento quando la persona si è trovata in una situazione di “inevitabile ignoranza” del diritto. Vale a dire: quando vi sono divieti non riconoscibili e sanzioni non prevedibili. Così ha detto, nel 1988, una sentenza della Corte costituzionale. Ma queste eccezioni possono valere solo se l’imputato si trova in una totale mancanza di socializzazione (la romanzesca ipotesi dell’uomo vissuto sempre nella giungla) o quando il precetto legislativo sia totalmente oscuro. Non si può dire che questo sia il caso di nomadi che ben conoscono il contesto sociale in cui le proprie comunità operano. Né possono considerarsi astrusi precetti assai elementari che vietano di usare violenza. Da anni si discute del trattamento che devono avere i c. d. “reati culturalmente orientati” (ad esempio, minori costretti all’accattonaggio, matrimoni poligamici, mutilazioni genitali femminili) quando sono commessi da persone provenienti da Paesi in cui queste condotte sono ammesse. È noto, ai lettori di “Avvenire”, il confronto tra il modello multiculturalista anglosassone che, in nome di una uguaglianza sostanziale, tende al riconoscimento e a un diverso trattamento di culture diverse (i britannici Sharia Councils ne costituiscono l’espressione più ardita) e il modello assimilazionista, tendente ad una omogeneità culturale tra i residenti su uno stesso territorio e dunque alla rigida affermazione di regole valide per tutti. Basti qui ricordare che il fattore culturale, secondo alcuni, dovrebbe essere considerato come un’attenuante o addirittura far venir meno il dolo (come hanno sancito i giudici di Torino nel caso di maltrattamenti imputati ai genitori). Il Legislatore italiano, negli ultimi decenni, non ha attenuato il rilievo penale di certe condotte. Al contrario, le ha più severamente punite. Si pensi al reato di impiego dei minori nell’accattonaggio (art. 600 octies c.p., introdotto nel 2009) o alla ridefinizione dei reati di riduzione in schiavitù e di tratta delle persone (rimodellati, nel 2003, per colpire lo sfruttamento organizzato di minori e di donne avviate alla prostituzione). La Cassazione ha più volte negato che reati di maltrattamenti in famiglia siano esclusi (o comunque puniti meno gravemente) a causa delle condizioni socio-culturali dell’imputato intriso della cultura di “padre-padrone”. Ed è importante ricordare come, in una sentenza del 2013, l’esclusione viene motivata: l’imputato non può invocare la propria ignoranza della norma perché la sua condotta è caratterizzata da “palese violazione dei diritti essenziali e inviolabili della persona, quali riconosciuti e affermati dalla Costituzione”. Ancora una volta la Costituzione del 1948 è un baluardo insuperabile. Ci sembra, questa, la linea da seguire. Sui migranti in Albania il governo ha paura della Corte di giustizia europea di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2024 Il destino del cosiddetto decreto Cutro e di quanto il Governo si appresta a fare anche nei Centri per migranti in Albania, è legato a una questione giuridica a dir poco complessa, al centro dei rapporti tra le leggi italiane e quelle europee. Alcune delle novità introdotte dal governo Meloni per rendere operative procedure come quelle per l’esame “in frontiera” delle domande d’asilo e il relativo trattenimento dei richiedenti, attendevano il pronunciamento della Corte di giustizia europea, interpellata dalle Sezioni Unite civili della Cassazione dopo i ricorsi del ministero dell’Interno contro le ordinanze del tribunale di Catania che, l’anno scorso, aveva disapplicato il dl Cutro per incompatibilità con le norme Ue e liberato alcuni migranti trattenuti nell’hotspot di Pozzallo. In particolare, la Cassazione ha chiesto alla Corte Ue di esprimersi sulla cosiddetta “cauzione” da 5mila euro senza la quale i richiedenti privi di documenti non avrebbero potuto evitare il trattenimento. Con la norma sotto giudizio della Corte, anche i trattenimenti che l’Italia si appresta a fare in Albania non avrebbero potuto essere convalidati. Così a giugno il governo ha modificato la cauzione abrogano la precedente formulazione, se non altro ammettendo che era scritta male. Ma è stato soprattutto un modo di superare l’impasse e tornare operativi con le procedure in frontiera, a partire da quelle in Albania dove il governo, dopo una serie di rinvii, promette di partire il 10 agosto. Non è tutto. Cambiata la norma, il 16 luglio l’Avvocatura dello Stato per conto del Viminale ha rinunciato ai suoi ricorsi contro le ordinanze del tribunale di Catania, chiedendo che venga ritirata la questione pregiudiziale presentata alla Corte Ue. Ancora una volta: non per dare ragione alla vituperata giudice Iolanda Apostolico che aveva firmato le prime, odiate ordinanze. Ma per sterilizzare il procedimento ed evitare che la Corte di giustizia si pronunci, magari evidenziando altri profili di incompatibilità del dl Cutro con le norme europee. La rinuncia ai ricorsi apre ora a diversi scenari, a seconda di quanto deciderà la Cassazione. “Hanno timore che la Corte Europea possa pronunciarsi sui quesiti diversi dalla “cauzione” e detti un principio di diritto che impedisca le esternalizzazioni nei Paesi terzi”, dice al Fatto Rosa Emanuela Lo Faro, l’avvocata che rappresenta alcuni dei migranti protagonisti delle ordinanze di Catania e dei relativi ricorsi del Viminale. Opponendosi a quei ricorsi, Lo Faro ha presentato anche due contro ricorsi incidentali, ponendo alla Cassazione una serie di altre questioni relative alla nozione di Paese terzo sicuro, alla legittimità delle procedure accelerate per l’esame delle domande d’asilo, a quella di trattenimenti che non rispettano i tempi di convalida - “a Pozzallo sono passati 7 giorni prima di interpellare i giudici, mentre le richieste di convalida del trattenimento vanno fatte entro 48 ore”, spiega l’avvocata. E siccome la questione pregiudiziale sollevata dalla Cassazione alla Corte Ue verte solo sulla “cauzione”, Lo Faro ha rilanciato le questioni anche in quella sede. Una specie di contro ricorso che i resistenti hanno diritto di presentare, con una serie di osservazioni sulle quali i giudici Ue sono chiamati ad esprimersi. Tanto rumore per nulla? Lo Faro, che ha già fatto opposizione alla rinuncia del Viminale, auspica che la Cassazione accetti la sua richiesta di riunire quattro procedimenti per poi andare a sentenza. E nel contempo decidere, chissà, di non rinunciare alla domanda pregiudiziale alla Corte Ue che così, e a maggior ragione, avrebbe occasione di esprimersi sulle osservazioni dei resistenti. Ma l’ipotesi è la più remota e già in queste ore è arrivato il primo decreto di estinzione per uno dei dieci procedimenti. La seconda possibilità è che la Cassazione vada avanti solo su due procedimenti, quelli dove ci sono i ricorsi incidentali. Che hanno però oggetto diverso da quello posto alla Corte Ue (la cauzione) e quindi la Cassazione potrebbe decidere di ritirare la questione pregiudiziale. I giudici europei potrebbero comunque decidere di rispondere alle osservazioni dei resistenti, ma anche questa è una circostanza rara. Infine, c’è anche la possibilità che, dichiarati estinti gli altri procedimenti, la Cassazione dichiari inammissibili i ricorsi incidentali, chiudendo la partita. Il mancato pronunciamento della Corte Ue o addirittura della Cassazione sarebbero, secondo Lo Faro, “un danno per tutti, visto l’inedito scenario che abbiamo di fronte, soprattutto col Protocollo Italia-Albania”. La necessità di un chiarimento, possibilmente della Corte europea, riguarda cose molto concrete, come la definizione delle cosiddette “zone di transito”. “Pensiamo ai migranti portati con le navi direttamente in Albania: qual è in questo caso la zona di frontiera? E quale base giuridica avrà il trattenimento durante il probabile lungo trasporto?”, domanda Lo Faro. Cose complesse, certo, ma sarebbe sbagliato credere che si discuta di lana caprina. Ed è solo questione di tempo perché da altri ricorsi emerga l’esigenza di interpellare la Corte europea. Certo, molto più tempo, come sa bene il governo. In attesa che la Cassazione decida cosa fare, un’ultima ipotesi è che siano i giudici di Roma, quelli che ad agosto valuteranno le prime richieste di convalida per l’Albania, a sollevare una nuova questione pregiudiziale sulla cosiddetta cauzione, come riformulata dalla recente modifica del dl Cutro. Dipenderà dall’interpretazione che ne daranno. La garanzia finanziaria che permetterebbe di evitare il trattenimento era stata inserita nel dl Cutro perché potesse applicarsi indistintamente. Se non hai i soldi finisci dentro, una cosa così. Impostazione che per i giudici di Catania era in contrasto con la direttiva Ue che impone la valutazione “caso per caso” del trattenimento. Nella modifica al decreto, la cauzione è diventata più elastica, prevedendo tra l’altro un minimo e un massimo, da 2.500 euro a 5mila, e la possibilità di farsela pagare da familiari già residente in Europa. Una novità che, sostengono molti giuristi, non sana il rapporto con le norme europee. Perché chi non ha mezzi non potrà comunque accedere a quella che resta l’unica misura alternativa al trattenimento, e quindi verrebbe discriminato. Le altre alternative al trattenimento previste dalla direttiva Ue, come ad esempio l’obbligo di firma, sono di fatto impedite dall’accordo con l’Albania, che esclude la presenza dei richiedenti all’esterno del perimetro dei centri gestiti dall’Italia. Per questo resta quanto mai necessario conoscere l’orientamento della Corte di giustizia europea, unica titolata a dirimere le questioni nei rapporti tra l’ordinamento Ue e quello interno agli Stati membri. Un legislatore forte delle proprie ragioni non dovrebbe temere i giudici europei, semmai auspicarne i chiarimenti. La palla è ora in mano alla Cassazione, ma la partita è tutt’altro che chiusa. Migranti. La rotta balcanica è sempre più insanguinata di Alice Dominese L’Espresso, 18 luglio 2024 Flussi in crescita, violenze e controlli delle forze di polizia. Il viaggio di chi fugge dalle guerre e arriva a Trieste si rivela sempre più complicato. E per chi riesce ad arrivare in Italia manca un sistema d’accoglienza. All’ombra delle tragedie che riguardano i migranti nel Mediterraneo, la rotta balcanica negli ultimi anni è tornata a pulsare di un numero via via maggiore di persone che da Asia e Medio Oriente tentano di raggiungere l’Europa. Ma è anche diventata più pericolosa. Chi cerca di attraversare le sue frontiere, rafforzate da finanziamenti europei mai così cospicui, è sempre più spesso vittima di violenze e respingimenti illegali. Da quando, quasi dieci anni fa, centinaia di migliaia di persone hanno attraversato i Balcani, i numeri degli attraversamenti si sono progressivamente ridotti, per poi riprendere a crescere a partire dal 2019. Finché nel 2022 Frontex ha registrato il maggior numero di attraversamenti dal picco raggiunto nel 2015. In questi anni non è solo cambiata la composizione delle persone in transito, ma anche i sistemi di controllo alle frontiere, che oggi sono più pervasivi e diffusi. La maggior parte dei migranti scappa dalla crisi umanitaria in corso in Afghanistan e dal trattamento ostile nei confronti dei rifugiati in Turchia. Ma molti di loro provengono anche dalla Siria e dal Pakistan, dove i conflitti armati sono costanti e l’instabilità economica è elevata. Le condizioni di viaggio critiche, che si prolungano per mesi, assieme agli abusi subiti da trafficanti e agenti di polizia, specialmente al confine bosniaco-croato e in Bulgaria, provocano su queste persone gravi problemi fisici e psicologici. In questo contesto anche la mortalità è cresciuta. Sebbene nessuna autorità nazionale o internazionale pubblichi dati o rapporti completi sulle morti dei migranti nelle rispettive giurisdizioni, l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni ha calcolato che dal 2014 lungo la rotta balcanica sono morte almeno 484 persone, ma si tratta di stime al ribasso. Tra loro, diverse decine di vittime sono minorenni. Proprio questa rotta è diventata la più letale tra i percorsi migratori via terra in Europa. Dalla Grecia alla Croazia sono aumentati i muri e le schiere di filo spinato, insieme con l’impiego di tecnologie di sorveglianza e con il dispiegamento di forze di polizia sui confini, nonostante le violazioni dei diritti umani registrati. Nel frattempo, i Paesi attraverso i quali si snoda la rotta balcanica non hanno mai ricevuto così tanti soldi dall’Europa per aumentare “la sicurezza e la difesa” dei confini. Arrivati a Trieste, i richiedenti asilo dormono in tende in un silos abbandonato vicino alla stazione ferroviaria. L’unico riparo, privo di servizi igienici, acqua e tetto. Soltanto i fondi europei stanziati per la gestione delle frontiere per il periodo 2021-2027 prevedono la cifra record di 6,2 miliardi di euro, pari al 131% in più del ciclo di bilancio precedente. A crescere in modo significativo è anche il budget di Frontex, come rivelano i centri di ricerca internazionali Transnational Institute e Statewatch che hanno analizzato le voci di spesa pluriennale dell’Unione europea. L’Agenzia Ue della guardia costiera e di frontiera, accusata più volte di essere coinvolta in respingimenti illegali che hanno portato alla morte di migliaia di persone alle frontiere esterne dell’Unione, può contare su un finanziamento senza precedenti di 5,6 miliardi di euro, con un aumento del 194%. La crescente militarizzazione delle frontiere sta contribuendo a rendere l’attraversamento della rotta balcanica ulteriormente problematico. L’Unione europea ha finora portato avanti interventi congiunti con Albania, Moldavia, Montenegro, Macedonia e Serbia e presto lo farà anche con la Bosnia. L’ultima operazione riguarda il confine bulgaro-turco, dove Frontex ha triplicato il numero dei propri agenti inviandone oltre 500 a supporto delle forze dell’ordine nazionali. Il progressivo inasprimento dei controlli spinge da tempo e continuerà probabilmente a obbligare i migranti a evitare le intercettazioni via terra imbarcandosi verso il Mediterraneo. Chi intraprende questa rotta via mare da Est è partito finora soprattutto dalla Turchia. Tra gennaio e settembre del 2023, sono stati in totale 22.421 i migranti approdati in questo modo in Europa. Le ricerche dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni mostrano che la destinazione principale è la Grecia, dove gli arrivi nel 2023 sono aumentati del 123%, mentre in Italia sono diminuiti della metà rispetto all’anno precedente. Per migliaia di richiedenti asilo provenienti dalle rotte balcaniche, l’Italia, e in particolare Trieste, è il primo luogo di arrivo sicuro dopo la fuga da persecuzioni, guerre e situazioni di violenza generalizzata. La sua posizione geografica rende questa città una delle tappe necessarie sia per coloro che chiedono immediatamente asilo dopo essere arrivati in Italia sia per coloro che, per diverse ragioni, intendono raggiungere altre destinazioni italiane o europee. Diaconia Valdese e International Rescue Committee Italia, assieme ad altre associazioni del territorio, monitorano da alcuni anni gli spostamenti verso il capoluogo friulano. I loro report “Vite abbandonate” permettono di osservare come stanno cambiando la composizione delle persone in transito e le loro destinazioni. Nel 2023 gli arrivi, concentrati nel periodo estivo e autunnale, sono aumentati del 22% rispetto all’anno prima, con almeno 16.052 persone entrate in città. Le persone in transito sono in grande prevalenza maschi adulti, ma negli ultimi due anni il numero di minori non accompagnati arrivati in Italia passando da Trieste è aumentato del 112%. Al contempo è raddoppiato il numero di famiglie in arrivo ed è cresciuto il numero delle donne sole. Nel complesso, il 68% di chi arriva è originario dell’Afghanistan - un dato in crescita rispetto al 2022, quando la percentuale era pari al 54% - mentre sono in netto calo le persone che provengono dal Pakistan (12% nel 2023, rispetto al 25% dell’anno precedente). Il terzo gruppo più numeroso per arrivi è di provenienza turca e si compone prevalentemente di nuclei familiari di nazionalità curda. Di tutte queste persone, quattro su cinque non vogliono rimanere in Italia, ma continuare a viaggiare per spostarsi soprattutto verso Francia, Germania e Belgio. Rispetto al 2022, quando circa un terzo delle persone dichiarava di voler presentare domanda di asilo in Italia, un numero crescente di intervistati dice di essere intenzionato a lasciare Trieste e in generale di trovarsi lì solo di passaggio. Tuttavia, in assenza di una rete di accoglienza temporanea di emergenza, molte delle persone che arrivano in città finiscono per dormire in strada. L’accoglienza immediata dei richiedenti asilo privi di mezzi è una misura fondamentale per garantire il rispetto della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, che proibisce i trattamenti inumani o degradanti, come quelli che derivano dalla mancata assistenza pubblica. Ma sulla rotta balcanica questo tipo di accoglienza è in forte crisi. Il Patto europeo su migrazione e asilo, adottato lo scorso maggio dagli Stati membri, affida ai Paesi sulla frontiera esterna dell’Ue i principali compiti di accoglienza dei rifugiati. Ma questo approccio, sostengono l’International Rescue Committee e altre organizzazioni per la protezione dei diritti umani, può accrescere i respingimenti e le violenze lungo i confini: “Il Patto rischia di esasperare l’attenzione all’esternalizzazione delle frontiere, alle politiche di deterrenza e di contenimento delle migrazioni, oltre che alle politiche di rimpatrio verso il Paese d’origine”. Migranti. I satrapi degli schiavisti e l’Occidente alleato di Domenico Quirico La Stampa, 18 luglio 2024 Le ondate migratorie sono guidate da criminali che prosperano grazie al clima politico nei loro Paesi. Gli accordi internazionali foraggiano soltanto i governi responsabili di quello scandalo. Qualora foste tra quelli che provano simpatia per i popoli sventurati che migrano, eritrei e gambiani, saheliani e afgani, siriani e magrebini, per le umanità e le tribù lasciate sgomente e nell’ombra dell’inesorabile incalzare della nostra spietata epoca del Progresso, la visita di Giorgia Meloni in Libia non vi porterà alcun motivo di novità e di conforto. Siatene certi. Nulla cambierà dopo gli “storici” accordi firmati da tutta la compagnia di microscopiche Eccellenze sopra i “cari saluti” e i “pensieri affettuosi”. Ad esser cortesi: irrilevanti pezzi di carta già ascesi a un manierismo del pressappoco. Propaganda. Da conservare nella memoria al massimo come prove a carico. In Africa i mitra continueranno a sparare, in nessun luogo è facile morire come lì, e uomini e donne e bambini saranno inseguiti torturati derubati uccisi da soldati e briganti, jihadisti, capi di stato, golpisti, affaristi criminali, dalla carestia e dalla siccità, e un altro pezzo di mondo sarà calpestato e si metterà in moto. E l’unica cosa che si porteranno dietro, i fuggiaschi, è un po’ di coraggio e nessun rimpianto. La migrazione è una condizione umana in cui si impara ad apprezzare le cose più semplici, camminare ancora, respirare ancora, sopravvivere. Che se ne fa dei piani Mattei, una specie di fast-food della miseria, l’ennesima versione Ikea dell’aiutiamoli un po’ a casa loro, questa granitica e marginale umanità del Ventunesimo secolo? Niente, un’altra trascurabile bugia come lo Sviluppo, la democrazia farsesca delle elezioni truffa, il dio riparatore proprietà privata dai feroci apostoli del jihad, la carità internazionale che profittevolmente si auto alimenta… Il fatto che una parte di loro sia sopravvissuta fino ad oggi non si deve certo alle politiche di Lor signor dell’Europa ricca, ma unicamente alla infaticabile tenace insondabile capacità di resistere a tutto e ricominciare testardamente da capo. Cosa c’entrano Meloni, Macron, la Von der Layen, eccetera con tutto questo? Niente. Spingere la roccia sulla cima della montagna e poi ricominciare da capo perché è ritornata in fondo; esser respinti e riprendere a camminare a pagare lavorare navigare mari luttuosi, compilare moduli e ricorsi e rispondere a domande. È vero: Sisifo era la metafora di un migrante, non un arrogante peccatore condannato. È l’unico eroe vero del nostro tempo. Occorre ancora parlarne dopo più di dieci anni? Le politiche europee per la migrazione, destra e sinistra purtroppo confuse fraternamente, si caratterizzano per un punto cieco, una assenza di franchezza, una insufficienza di responsabilità umana, una evidente riluttanza a indicare qualche cosa che non sia lo scopo di lucrare politicamente sul fenomeno. Come se si pretendesse che le opinioni pubbliche credano semplicemente che i migranti grazie a questi mezzucci polizieschi stiano a poco a poco semplicemente svanendo. E quindi si chiede ai governati di non chiedere oltre. Il compito di risolvere questo guaio storico, una volta che lo si è ben ben manovrato a proprio utile, è lasciato a ignobili regimi di soci- complici, che procedono ormai da qualche tempo con brutale franchezza e senza accampare troppe scuse a discolpa. Come dimostra appunto la Libia. E perché mai dovrebbero farlo, queste esplicite canaglie? La segregazione dei migranti-schiavi, la loro nullificazione si realizza non malgrado i nostri sforzi e raccomandazioni, ma grazie alla nostra connivenza e molto di frequente con la nostra fervorosa collaborazione. A cui aggiungiamo, per ratificare l’inganno, le propagande di linfatici apologisti dell’”Africa sta cambiando” e del miracolo economico realizzato da “giovani imprenditori” del Continente. Se non fosse sforzo inutile verrebbe da suggerire a questi mercanti all’ingrosso o al minuto di tartuferie filistee un viaggio nelle banlieue delle città africane per incontrare “dal vero” qualche purtroppo inconsapevole esempio del boom africano. La nostra colpa è di non comprendere che i fatti storici non sono soltanto fatti, ma sono intrisi di umanità. I migranti sono vittime di poteri spietati di cui l’Europa è alleato e sostegno. Loro, fuggendo, ingaggiano una lotta con una realtà concreta. Noi da questa parte del mare lottiamo con entità immaginarie, fantasmi generati dalle propagande politiche e questi fantasmi sono reali almeno per noi. Sono intoccabili, invincibili perché sono in noi stessi. Carità? Pietà? Diritti umani? Dopo tredici anni siamo ancora qui con i malinpiastrati piani Mattei? Queste parole sono ormai guaste e corrotte e traviate. Si fanno accordi con i veri, grandi scafisti, presidenti e satrapi, che creano i migranti con la miseria, la corruzione, la violenza perché poi ne traggono, da noi, utile economico e immunità politica. Un metodo antico: nominare i briganti generali per affidar loro i lavori più sporchi. Tutta e solo merce della destra xenofoba? Vi si contrappone una politica della migrazione progressista, illuminata e illuminista, nutrita dall’aria rarefatta di altipiani spirituali? Mettiamo sulle stadere della Storia il primo ministro britannico Keir Starmer che ha appena ammobiliato il Numero Dieci con ninnoli laburisti. Prima misura: abolizione immediata della deportazione a pagamento di migranti in Ruanda, remota terra di genocidi recenti, inventata dal predecessore. Esultiamo? Abbiamo trovato nelle tristi faccende contemporanee l’ultima thule della dignità occidentale? Un attimo. Starmer chiede indietro i soldi già versati all’Uomo della provvidenza locale, Paul Kagame. Per farne che? Per finanziare una Maginot nella Manica che impedisca ai migranti di infrangere lo splendido isolamento britannico. Siamo fermi dunque ai pellegrinaggi dai compari dell’altra sponda. A Tripoli e a Bengasi non c’è nessun “governo di unità nazionale” come descrivono gli accoliti incensieri della propaganda. Ci sono bande armate che si spartiscono la produzione e lo smercio di petrolio e di migranti in un equilibrio di stampo clanico criminale, interrotto da sprazzi di violenza per regolare gli sgarri. Propongo una domanda preliminare agli illustri praticanti di questa forma di turismo politico: prima di partire chiedete la biografia di coloro a cui stringerete la mano. A meno che, temo, non la conosciate benissimo. Migranti. Tripoli avverte l’Ue: “Non continueremo a pagare il prezzo delle migrazioni” Il Manifesto, 18 luglio 2024 Il Trans-Mediterranean Migration Forum. In Libia Meloni non parla delle condizioni in cui vengono tenuti i profughi. Sulla carta l’obiettivo vorrebbe essere ambizioso: creare un coordinamento tra paesi di origine, transito e destinazione dei migranti per mettere fine ai flussi irregolari. In realtà il Trans-Mediterranean Migration Forum, nome dell’iniziativa organizzata ieri a Tripoli dal Governo di unità nazionale guidato dal premier Abdul Hamid Dabaiba, è per lo più una sfilza di annunci già sentiti in passato. Utili, però, alla Libia per lanciare un messaggio all’Unione europea: “È tempo di risolvere la questione migratoria e la Libia non continuerà a pagarne il prezzo”, aveva anticipato nei giorni scorsi il ministro dell’Interno Emad Trabels parlando di 2,5 milioni di stranieri presenti nel paese e avvertendo Bruxelles: “Il reinsediamento degli immigrati in Libia è inaccettabile”. Presenti 28 paesi, ma per l’Europa l’italiana Giorgia Meloni, accompagnata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, e il maltese Robert Abela sono gli unici premier presenti. A rappresentare Spagna e Grecia ci sono invece funzionari dei rispettivi ministri dell’Interno, Austria, Germania e Paesi Bassi inviano ambasciatori, la Repubblica ceca il viceministro sempre dell’Interno. Mentre per l’Unione europea c’è il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas. Più folta la rappresentanza dei paesi africani, con il presidente del Ciad, i premier di Tunisia e Niger e il ministro dell’interno del Sudan, oltre a rappresentanti dell’Unione africana e della Lega araba. Come spesso accade, però, più delle presenze a contare sono le assenze: scontata la mancata partecipazione del generale Haftar, il vicino nemico che controlla la Cirenaica, mancano anche l’Egitto, che lo sostiene, e la Francia. Prima e più delle parole, va detto che a colpire è l’allestimento voluto dagli organizzatori della sala in cui si svolge il Forum: giubbotti di salvataggio appesi al soffitto. Dovrebbero ricordare i migranti annegati nel Mediterraneo ma in realtà sembrano una tragica beffa. La cosiddetta Guardia costiera libica (denunciata ieri alla procura di Roma dalla ong Mediterranea Saving Human per aver sparato il 4 aprile contro migranti e soccorritori durante un intervento della nave mare Jonio) è infatti più volte finita nel mirino per le continue violenze contro i migranti intercettati in mare e solo una settimana fa Volker Turk, capo dei diritti umani delle Nazioni unite, aveva invitato a sospendere ogni accordo di asilo e migrazione con Tripoli: in Libia, aveva spiegato, migranti e rifugiati continuano a essere vittime di “gravi e diffuse violazioni dei diritti umani” perpetrate su “larga scala e impunemente”, compresi torture e lavoro forzato. Del resto è stato sempre Trabelsi a spiegare la posizione di Tripoli. Oltre a incentivare i rimpatri volontari, importante per il Governo di unità nazionale è la creazione di quattro “linee di difesa” utili a bloccare gli arrivi dei migranti: ai confini, nel deserto, nelle città a in mare. Per questa missione sono già stati addestrati 5.000 agenti di polizia. Poi, certo, c’è l’aiuto da dare ai paesi dai quali partono i migranti. Tocca al premier Dabaiba chiedere quello che sembra una sorta di pano Mattei africano. “I Paesi del Sahel - ha spiegato - non sono più solo paesi di transito e il numero crescente dei migranti ci pone di fronte alla responsabilità morale e di sicurezza di impegnarci con tutti i paesi interessati per sviluppare soluzioni globali che affrontino la questione tempestivamente e garantiscano una vita dignitosa ai cittadini africani nel proprio paese”. Niger e Ciad sono due tra quelli principali attraversati dai migranti per arrivare in Libia. Entrambi i paesi, però, sono pesantemente influenzati dalla Russia, così come la Cirenaica, dove sono presenti soldati di Mosca, e, seppure in maniera minore, il Sudan. Proprio la presenza russa preoccupa Meloni, tanto che a maggio in un precedente viaggio in Libia con tappa in Cirenaica, aveva chiesto ad Haftar di mettere fine alla presenza di militari stranieri. E più di recente, al vertice Nato di Washington, a chiedere la nomina di un italiano come inviato per il fronte Sud. A Tripoli la premier preferisce non affrontare l’argomento, così come non parla delle condizioni in cui i migranti vengono tenuti nei centri di detenzione libici. “L’approccio predatorio con l’Africa è sicuramente sbagliato. Il modo giusto di collaborare è una cooperazione tra pari, una cooperazione strategica, portando investimenti per risolvere i problemi di entrambi”, dice invece ripetendo i concetti già espressi a gennaio durante la conferenza Italia-Africa che si è tenuta a Roma. Medio Oriente. “7 ottobre, crimini di guerra e contro l’umanità: l’orrore in testimonianze, video e foto” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 luglio 2024 Nell’attacco del 7 ottobre 2023 realizzato dai gruppi legati ad Hamas ai danni della popolazione israeliana si sono consumati numerosi crimini di guerra e contro l’umanità. A sostenerlo è un rapporto di Human Rights Watch, pubblicato ieri, in cui si evidenzia che le violenze di quasi dieci mesi fa sono state perpetrare dall’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam, e da almeno altri quattro gruppi armati. Il titolo del report di 236 pagine tradotto in italiano è “Non riesco a cancellare tutto il sangue dalla mia mente” e documenta decine di casi di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale. Nell’indagine svolta dall’organizzazione non governativa con sede a New York viene anche esaminato il ruolo delle organizzazioni armate di Hamas nella preparazione e nel coordinamento degli attacchi del 7 ottobre. “I governi che hanno influenza sui gruppi armati palestinesi - si legge nel rapporto di Human Rights Watch - dovrebbero premere per l’urgente rilascio degli ostaggi civili, un crimine di guerra in corso, e impegnarsi affinché i responsabili delle altre gravi violazioni siano assicurati alla giustizia”. L’indagine evidenzia la natura e l’entità delle violazioni del diritto umanitario internazionale, come fatto in passato per le violazioni delle leggi di guerra commesse dalle forze armate israeliane. Human Rights Watch ha effettuato una serie di ricerche sui luoghi dei massacri nei mesi di ottobre e novembre 2023 e ha proseguito gli studi dei vari casi a distanza fino allo scorso giugno. Sono state intervistate 144 persone, tra cui 94 sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre, familiari di sopravvissuti, ostaggi e persone uccise. Sono stati interpellati i soccorritori che hanno raccolto i resti umani nei luoghi degli attacchi con l’aggiunta dei medici che hanno eseguito le autopsie. Tra gli intervistati pure i rappresentanti istituzionali delle località colpite dagli attacchi, i giornalisti che hanno visitato i siti in cui si sono verificate le stragi, dopo che le forze israeliane hanno messo in sicurezza le aree, gli analisti di gruppi politici e armati palestinesi e alcuni investigatori internazionali. Gli esperti di Human Rights Watch hanno esaminato oltre 280 fotografie e video pubblicati sulle piattaforme dei social media o condivisi direttamente con l’organizzazione non governativa, inclusi quelli registrati dalle bodycam dei miliziani di Hamas, dalle telecamere dei cellulari e dalle telecamere a circuito chiuso dei luoghi attaccati. “La nostra ricerca - ha affermato Ida Sawyer, direttrice della Sezione crisi e conflitti di Human Rights Watch - ci ha permesso di scoprire che l’assalto del 7 ottobre 2023 è stato progettato per uccidere civili e prendere in ostaggio il maggior numero di persone. Le atrocità dei mesi scorsi dovrebbero indurre la comunità internazionale ad impegnarsi per porre fine a tutti gli abusi contro i civili in Israele e Palestina”. La France-Presse (AFP), che ha incrociato numerosi dati per verificare il numero delle vittime del 7 ottobre 2023, ha stimato che 815 delle 1.195 persone uccise erano civili, tra cui 79 cittadini stranieri. Tra loro c’erano almeno 282 donne e 36 bambini. I gruppi armati palestinesi hanno preso in ostaggio 251 civili e personale delle forze di sicurezza israeliane e li hanno trasferiti a Gaza dopo l’attacco. “I media nazionali e internazionali - evidenzia Human Rights Watch hanno descritto dettagliatamente molte delle atrocità avvenute il 7 ottobre. Alcuni media, però, hanno minimizzato l’entità degli abusi, mentre altri hanno parlato di abusi rivelatisi in seguito inesistenti”. Hamas, il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza occupata da Israele dal 2007, ha dichiarato che la sua ala armata, le Brigate Qassam, ha guidato l’assalto del 7 ottobre. Le testimonianze dei sopravvissuti e il materiale raccolto dimostrano che molti dei combattenti indossavano uniformi con combinazioni di colore nero- verde o mimetiche, alcune delle quali simili alle uniformi militari israeliane. Alcuni assalitori avevano fasce distintive o insegne che li identificavano come membri di Hamas o di altri gruppi armati. Ci sono stati anche molti combattenti in abiti civili. In quest’ultimo caso si è tratto probabilmente di civili di Gaza che si sono uniti agli attacchi. Per quanto riguarda le vittime, la maggior parte di loro erano ebrei israeliani. “Tuttavia - è scritto nel rapporto di Human Right Watch -, i combattenti hanno anche ucciso, ferito o preso in ostaggio cittadini israeliani con doppia cittadinanza, cittadini palestinesi di Israele, palestinesi di Gaza e lavoratori stranieri, tra cui cittadini cinesi, filippini, nepalesi, dello Sri Lanka e thailandesi e almeno un cittadino proveniente ciascuno da Cambogia, Canada, Eritrea, Germania, Messico, Sudan, Tanzania e Regno Unito”. Nel rapporto viene rivolto un invito agli Stati volto a “imporre o mantenere in vigore sanzioni mirate, tra cui congelamenti di beni e divieti di viaggio, contro funzionari ed enti responsabili di gravi abusi in corso, assicurando al contempo che queste misure non danneggino i civili e le organizzazioni non governative che svolgono attività protette a livello internazionale a Gaza e altrove in Palestina”. “Tutti coloro che sono presi di mira da sanzioni - si legge - dovrebbero avere l’opportunità di contestare tali decisioni in procedimenti equi e rapidi da parte di tribunali e giudici indipendenti”. Un altro appello alla comunità internazionale riguarda il sostegno in favore di “indagini delle Nazioni Unite per sollecitare i gruppi armati palestinesi coinvolti e Israele a collaborare con la Corte penale internazionale, la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e altri esperti delle Nazioni Unite e di organizzazioni indipendenti per i diritti umani”. La guerra sulla Striscia di Gaza riguarda tutti e vanno attivati strumenti giuridici adeguati. Ecco perché, secondo Human Rights Watch, è indispensabile “proteggere l’indipendenza della Cpi e condannare pubblicamente i tentativi di intimidire o interferire con il lavoro della Corte, dei suoi funzionari e di coloro che collaborano con questo tribunale”. Medio Oriente. 530 uccisi in 7 giorni a Gaza, per Israele è la via verso il cessate il fuoco di Sabato Angieri Il Manifesto, 18 luglio 2024 Striscia senza tregua. Pesante escalation militare. L’Unrwa denuncia: otto scuole colpite dal 7 luglio. Erano diventate rifugio agli sfollati palestinesi. Netanyahu: “I rapiti stanno soffrendo, non morendo”. L’ira delle famiglie. I raid israeliani a Gaza hanno ucciso almeno 81 palestinesi nelle ultime 48 ore. L’aviazione di Tel Aviv ha anche attaccato un’altra delle scuole gestite dalle Nazioni unite nel campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza, uccidendo 23 persone e ferendone almeno 70. La scuola si trovava in una delle cosiddette “zone sicure” designate da Israele. Secondo l’Unrwa il 95% delle scuole costruite dall’Onu era usato come rifugio dagli sfollati interni della Striscia e, a causa degli attacchi degli ultimi giorni, “8 di questi edifici su 10 sono ormai inutilizzabili”, come ha chiarito il Commissario generale dell’Unrwa Philippe Lazzarini su Twitter. Quest’ultimo è tornato a chiedere un “cessate il fuoco immediato”, affermando che gli attacchi israeliani alle scuole sono diventati “un fatto quasi quotidiano”. Da Rafah agli insediamenti più a nord sono stati almeno 25 i bombardamenti israeliani dell’ultimo giorno e uno di questi ha colpito la moschea Abdullah Azzam, a nord del campo profughi di Nuseirat. Nel complesso, stando ai dati pubblicati da Al Jazeera, nell’ultima settimana a Gaza i bombardamenti israeliani hanno causato la morte di almeno 530 civili, portando il computo totale delle vittime dal 7 ottobre a oggi a oltre 38.700 palestinesi. Al Consiglio di Sicurezza straordinario dell’Onu che si è tenuto ieri al Palazzo di vetro di New York, il rappresentante dell’Autorità nazionale palestinese Mansour ha parlato del “più documentato genocidio della storia”. Malgrado questo bilancio tragico, secondo il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant, che ieri ha parlato al telefono con l’omologo statunitense Lloyd Austin: “gli attacchi militari israeliani sulla Striscia hanno permesso di creare condizioni favorevoli per il raggiungimento di un accordo di liberazione dei prigionieri con Hamas”. Il quale, sempre secondo Gallant “è il più alto imperativo morale in questo momento”. I due ministri hanno discusso del “desiderio condiviso” di Usa e Israele per la “sconfitta definitiva di Hamas”, il che nelle dichiarazioni ufficiali dei rispettivi uffici stampa è diventato il fulcro della strategia per il prossimo futuro a Gaza. Austin, riportano le agenzie di stampa, ha anche sottolineato l’importanza dell’aumento del flusso di assistenza umanitaria a Gaza “attraverso tutti i valichi terrestri” e il porto israeliano di Ashdod, con l’imminente chiusura permanente del molo temporaneo costruito dagli Usa al largo della costa di Gaza. Non la pensa allo stesso modo il capo del governo di Tel Aviv. Benjamin Netantahu ha dichiarato, durante una riunione di gabinetto, che “non c’è motivo di allarmarsi perché i rapiti stanno soffrendo, ma non stanno morendo”. Il Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi israeliani ha chiesto al premier di “spiegare immediatamente” le sue affermazioni, etichettandole come “non solo profondamente offensive per le famiglie degli ostaggi, ma anche inesatte e pericolosamente irresponsabili”. “La triste realtà è innegabile - si legge nel comunicato del Forum - Altri ostaggi potrebbero perdere la vita proprio in questo momento”. I media israeliani ritengono che ci siano almeno 120 ostaggi ancora a Gaza dei quali, secondo l’esercito di Tel Aviv, 42 sono morti. Netanyahu, tuttavia, ritiene che Israele “sta facendo progressi sistematici verso il raggiungimento degli obiettivi della guerra”, ma che serve “pressione, più pressione”. Nella sola giornata di ieri 5 palestinesi sono stati uccisi nel bombardamento di un’abitazione civile ad Abasan, a est Khan Younis, 9, di cui 3 bambini, sono caduti a seguito di un raid nei pressi della scuola Cairo, nel quartiere di al-Remal, a ovest di Gaza City. Altri 8 morti si registrano nell’attacco alla moschea di Nuseirat, e 2 a ovest di Rafah, per citare solo i centri principali. In ogni caso, l’esercito israeliano ritiene che “metà della leadership dell’ala militare di Hamas è stata eliminata e circa 14 mila membri delle Brigate Al Qassam sono stati uccisi o catturati”. Il fatto è, come sostengono l’Istituto per gli Studi sulla Guerra (Isw) e il Critical Threats Project (CTP) statunitensi, che non si può avere la certezza che i dati riportati dalle forze armate di Tel Aviv siano effettivi. Ad esempio, rispetto all’attacco ad al-Mawasi di sabato scorso, che ha causato la morte di 90 persone e il ferimento di altre 300 (per lo più donne e bambini), i centri studi Usa sostengono che non ci siano prove per confermare la morte di Mohammed Deif, il capo delle al-Qassam, come sostiene Israele. Sia con le prove sia senza, risulta ormai evidente che la strategia di Tel Aviv è mutata nuovamente e che da almeno una settimana i bombardamenti si sono intensificati di numero e potenza distruttiva, portando con sé una nuova ondata di uccisioni di massa.