L’allarme dei Garanti regionali: “È il collasso, ormai siamo in piena emergenza umanitaria” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2024 Il sistema carcerario italiano è al centro di un acceso dibattito politico e sociale. La Conferenza dei Garanti territoriali dei detenuti lancia l’allarme su sovraffollamento, carenze di personale e aumento dei suicidi, motivo per cui ha indetto una conferenza stampa che si è tenuta lunedì scorso al Senato. La situazione nel Lazio, illustrata dal Garante regionale Stefano Anastasìa, offre uno spaccato preoccupante della realtà nazionale. Nella sua relazione annuale, Anastasìa ha dipinto un quadro allarmante delle carceri laziali. Al 30 giugno 2024, gli istituti penitenziari della regione ospitavano 6.778 detenuti, con un tasso di sovraffollamento del 130,3% rispetto alla capienza regolamentare. Il carcere di Regina Coeli a Roma emerge come il più critico, con un tasso di affollamento del 180% e il triste primato di suicidi: ben 12 dal 2020, di cui 7 tra il 2023 e il 2024. Le criticità non si limitano al sovraffollamento: Anastasìa ha evidenziato carenze nell’assistenza sanitaria, nelle politiche attive del lavoro e nella programmazione dell’intervento sociale. Particolarmente preoccupante è la situazione nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, dove le condizioni di vita dei trattenuti sono al limite dell’accettabilità. Le raccomandazioni di Anastasìa includono il potenziamento dell’organico dei servizi sanitari penitenziari, la promozione di corsi di formazione professionale per i detenuti e l’adozione di clausole sociali per favorire l’inserimento lavorativo di persone provenienti da percorsi penali. Si chiede inoltre un piano di risanamento degli istituti penitenziari e l’adeguamento degli spazi del Cpr di Ponte Galeria. Oltre alle problematiche carcerarie per adulti, anche il sistema della giustizia minorile presenta sfide significative. L’Istituto penale minorile Casal del Marmo di Roma ha visto un aumento dei detenuti, passando da 43 nel 2022 a 63 a giugno 2024. Le tensioni interne e la mancanza di risorse ostacolano la funzione rieducativa, cruciale per i giovani detenuti. Il fenomeno dei suicidi in carcere è drammaticamente diffuso a livello nazionale. Il numero ufficiale è di 56 suicidi, ma secondo altre fonti potrebbe arrivare a 58, poiché 2 casi considerati sicuri sono stati inseriti tra quelli ‘ da accertare’. Come sottolineato da Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, si registra ‘ un suicidio ogni tre giorni’ nelle carceri italiane. Una situazione che ha spinto il Presidente della Repubblica, quattro mesi fa, a lanciare un appello urgente per interventi mirati a ridurre le tensioni nel sistema penitenziario. Nella conferenza di lunedì sono state discusse le proposte per affrontare l’emergenza carceraria e sono stati esaminati il recente decreto carcere del Governo e il ddl sicurezza, considerati dai Garanti come un pacchetto di misure inutili e gratuitamente repressive in materia penale, penitenziaria e nel diritto dell’immigrazione. La conferenza dei Garanti territoriali sottolinea l’urgenza di interventi immediati, anche temporanei, per alleviare la pressione sulla popolazione carceraria. La situazione attuale, caratterizzata da sovraffollamento, carenza di personale e inefficienza dell’assistenza sanitaria, richiede un’azione rapida e decisa da parte del legislatore. Il dibattito sulle carceri italiane si inserisce in un contesto più ampio di riflessione sul sistema giudiziario e penitenziario del paese. Le proposte dei Garanti e le discussioni in corso in Parlamento, come la proposta di legge promossa da Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, potrebbero portare a importanti cambiamenti nelle politiche carcerarie, con l’obiettivo di garantire condizioni di detenzione più umane e un sistema più efficace nel reinserimento sociale dei detenuti. Mentre il confronto politico prosegue, resta l’urgenza di trovare soluzioni concrete per affrontare quella che appare sempre più come una vera e propria emergenza umanitaria all’interno delle carceri italiane. Il diritto alla vita e alla speranza dei detenuti, come sottolineato nel titolo della conferenza stampa dei Garanti, rimane al centro di un dibattito che coinvolge istituzioni, società civile e opinione pubblica. A tal proposito, il Partito Radicale lancia una campagna per denunciare le condizioni carcerarie. Il Consiglio generale dei radicali ha approvato all’unanimità una mozione che dà il via a una campagna di denuncia delle condizioni ‘ disumane e degradanti’ nelle carceri italiane. L’iniziativa, che si rivolge al Presidente della Repubblica, alla Magistratura di Sorveglianza e al Ministro della Giustizia, prevede la presentazione di formali istanze di grazia e di sospensione delle pene per motivi umanitari. La decisione arriva in un momento di particolare criticità per il sistema penitenziario italiano, segnato, come detto, da un preoccupante aumento dei suicidi tra detenuti e agenti penitenziari dall’inizio dell’anno. Il Partito Radicale denuncia il sovraffollamento, la mancanza di assistenza sanitaria e l’abbandono di detenuti con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza. La mozione accoglie con favore le recenti dichiarazioni del Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), Santalucia, che ha definito il carcere ‘ criminogeno’, riprendendo una storica denuncia di Marco Pannella. Inoltre, il Partito Radicale si allinea alla richiesta dell’ANM al Parlamento per un provvedimento di amnistia che affronti in modo radicale la questione penitenziaria. Il documento invita il Parlamento a riprendere i lavori per una riforma penitenziaria, iniziata ma mai conclusa dall’ex Ministro Andrea Orlando, e critica il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) per la recente legge che sanziona le proteste nonviolente dei detenuti. La campagna prevede il coinvolgimento diretto dei detenuti e dei loro avvocati, che sono invitati a presentare istanze sulla base di formulari predisposti dal Partito Radicale. Il partito tiene a precisare che il numero dei suicidi in carcere è solo uno dei parametri - per quanto significativo e di estrema gravità per valutare lo stato dei penitenziari. “Non c’è dubbio”, si legge nel documento approvato, “che dall’inizio dell’anno c’è stato un notevole incremento, e che in una struttura dello Stato questo non dovrebbe accadere mai e, il fatto che oltre a tanti detenuti, vi siano anche agenti della polizia penitenziaria, denota il tasso di invivibilità del carcere, che in uno Stato di diritto è tasso di inciviltà e di violazione dei diritti umani fondamentali”. L’obiettivo è coordinare e amplificare l’iniziativa, coinvolgendo anche altre giurisdizioni. Il partito si impegna, quindi, a dare massima diffusione a questa campagna, mobilitando i propri organi dirigenti, i membri del Consiglio generale, gli iscritti e gli avvocati. L’iniziativa mira a portare all’attenzione pubblica e istituzionale la grave situazione delle carceri italiane, considerate dal partito come lo specchio di una giustizia che viola strutturalmente i diritti umani fondamentali. Il tranello dei detenuti in “rivolta” di Stefano Anastasia Il Manifesto, 17 luglio 2024 Uno spettro si aggira per le carceri italiane, lo spettro delle rivolte. Man mano che i penitenziari si affollano di corpi, man mano che la tragica sequenza dei suicidi scandisce il tempo della inazione governativa, inevitabili si susseguono le proteste dei detenuti, talvolta nonviolente, talaltra contro cose, spazi e simboli della loro costrizione. Devastazione e saccheggio sono i capi d’imputazione generalmente contestati ai “rivoltosi”: i “giorni” (di liberazione anticipata) saltano e le pene si allungano. Finché c’è spazio altrove, i cattivi tra i cattivi sono trasferiti per “ordine e sicurezza”. Questo sta accadendo in questi giorni in molte carceri (Sollicciano, Viterbo, Torino, Trieste …), seguendo il tamburo che chiama o denuncia la “rivolta”. E già si intravvede l’argomento anestetizzante dei professionisti dell’ordine e della sicurezza: “C’è una regia, è la criminalità organizzata che vuole mettere a ferro e fuoco le carceri per ottenere il condono per i suoi capi”. L’avevamo sentito durante il Covid, quando al dilagare delle proteste nelle carceri se ne evocò la regia occulta, pur di evitare di chiedersi cosa fosse quello stare chiusi in gabbia durante la pandemia. Poi, due anni dopo, una commissione d’inchiesta ministeriale avrebbe certificato che regia non ci fu, che la protesta era spontanea, scostumata forse sì, ma non indirizzata a sovvertire l’ordine costituito per conto di qualche capobastone. Nel frattempo erano rimasti sul campo tredici e più detenuti e le loro legittime preoccupazioni poterono passare in second’ordine, dopo le sanzioni disciplinari e i procedimenti penali per devastazione e saccheggio. Funziona così bene l’etichetta della “rivolta” che nel ddl del governo sulla sicurezza essa ha assunto i contorni di un reato a sé, perseguibile anche in caso di resistenza passiva di tre o più detenuti: i casi tipici? Tre detenuti che rifiutano di rientrare in cella perché vogliono far vedere al responsabile della sezione una perdita d’acqua dal lavabo o l’intera sezione che vuole parlare con il direttore, il garante o il magistrato di sorveglianza. Norma criminogena, che non metterà più differenza tra proteste violente (seppure contro le cose) e proteste nonviolente: tanto vale farla grossa, se ci si vuole far sentire. Per questo, almeno per questo, facciamo attenzione alle parole, evitiamo di cadere nel tranello delle “rivolte”: in questa terribile estate italiana, tra sovraffollamento e suicidi, i detenuti protestano come possono, purtroppo qualcuno togliendosi la vita, altri per fortuna alzando la voce. Ascoltiamola se non vogliamo ridurre ancora una volta il collasso del carcere a morti, devastazione e saccheggio, in attesa del reato di rivolta. Le celle affollate e il recupero della dignità di Guido Trombetti Il Mattino, 17 luglio 2024 Ciò nonostante l’Europa abbia richiamato severamente l’Italia per lo stato del suo sistema carcerario. Allarmante il dato dei suicidi in carcere: oltre una sessantina nei primi sei mesi di quest’anno. “I suicidi (di detenuti e degli stessi agenti di polizia penitenziaria) sono uno tra i molteplici indicatori del fallimento del carcere: l’indicatore più? drammatico, ma certamente non l’unico “scrive Emilio Dolcini. E prosegue “Il livello medio di istruzione della popolazione penitenziaria (61.500 persone) e? molto basso. I detenuti che hanno conseguito un diploma di scuola media superiore o di scuola professionale non raggiungono il 10%. Il numero dei laureati e? tuttora inferiore a quello degli analfabeti (nel 2023 i laureati erano 604, gli analfabeti 824). Questi dati dicono che il carcere e? una discarica sociale nella quale i rifiuti della società? vengono accumulati e lasciati marcire... I tassi di recidiva si abbassano se la pena viene scontata in un carcere ‘aperto e umano’ (prototipo, quello milanese di Bollate)”. La madre di tutti i problemi è il sovraffollamento. I detenuti vivono quasi ovunque in condizioni barbare. Privati non solo della libertà. Ma del diritto al decoro minimo. Costretti in celle anguste per il numero di persone ospitate. Con servizi primari a giorno e in comune. Per non dire della carenza di personale di sorveglianza e di personale specializzato nei compiti di recupero ed assistenza. Ci vediamo costretti a richiamare l’ovvio. Il carcere ha una doppia funzione. Punitiva e correttiva. E la prima deve essere funzionale e subordinata alla seconda. Si può sostenere che la detenzione ha un suo valore intrinseco come strumento per far scontare una colpa separato dalla finalità di recupero? Se qualcuno lo pensasse non avrebbe il coraggio di affermarlo. “Le pene, ammonisce la Costituzione, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (e tanto più le detenzioni cautelari). Il ricorso al carcere e? purtroppo una necessita?, ma ogni sforzo deve essere fatto per limitarlo” scrive Bruti Liberati. Ed invece le condizioni nelle quali vivono i detenuti trasformano il periodo di carcerazione in uno strumento di tortura. Quasi l’obiettivo dello stato fosse solo la vendetta. Sostiene Andrea Pugliotto che di fronte a tale scenario “la risposta più comune è un’alzata di spalle, facilmente traducibile: a mali estremi, estremi rimedi…Questa non può però essere la tesi di uno Stato di diritto.” E intanto in giro non si vedono cortei né manifestazioni di protesta. Solo qua e là interventi sulla stampa. Che, esattamente come il mio, lasciano il tempo che trovano. Non si tratta di assumere posizioni fanciullesche pensando che si possa abolire la detenzione. La privazione della libertà è una medicina estremamente amara. Ma è l’unica che si conosca. Però la carcerazione non può essere la sola forma di privazione della libertà. Ci sono metodi alternativi. Almeno per reati meno gravi o periodi di pena residuale. La detenzione in carcere, così come è oggi, diventa una sorta di corso di perfezionamento per acquisire titoli nella carriera criminale. L ‘interesse pubblico non risiede nel tenere quanto più a lungo possibile in carcere i rei. E qui mi viene in mente, come sempre quando affronto simili argomenti, che per Schopenhauer alla base dell’etica c’è la compassione, non la ragione come sosteneva Spinoza. Anche papa Francesco sembra sfiorare il pensiero di Schopenhauer quando dice: “Misericordia e giustizia non sono alternative ma camminano insieme perché la misericordia non è la sospensione della giustizia, ma il suo compimento”. Ancora a sostegno di misure alternative al carcere vi sono argomenti di carattere socioeconomico. Un detenuto costa allo Stato. E pertanto se è in grado di lavorare, iniziando così anche un percorso di recupero, occorre dargliene la possibilità. In un mondo civile bisogna reagire. Mettere in moto un movimento di idee che obblighi la politica ad affrontare il problema. Per comprendere il carattere emergenziale della situazione basta leggere quello che scrive su L’Unità Tullio Padovani: “Si chiudono gli alberghi che non corrispondono alle condizioni adeguate a ricevere ospiti in condizioni di sicurezza, in condizioni di salute, in condizioni di igiene, e invece si tengono aperte carceri che non sarebbero in grado di ospitare nemmeno i maiali, secondo la normativa dell’Unione europea”. Forse veramente non si può più rinviare la promulgazione di un indulto. Decreto carceri, Forza Italia nei ranghi. Ma appoggia la pdl Giachetti di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 luglio 2024 Presentati ieri gli emendamenti al dl governativo. Possibile spiraglio alla Camera. Contrordine: la maggioranza non ci pensa neppure a spaccarsi sul decreto “Carcere sicuro” all’esame della commissione Giustizia del Senato, dove è iniziata la conversione in legge, come sembrava possibile nei giorni scorsi. E rinvia invece ogni potenziale “confronto” ad altra sede: “Affronteremo l’emergenza sovraffollamento - riferisce l’onorevole Pietro Pittalis, vice presidente della commissione Giustizia - il 23 luglio prossimo alla Camera, quando inizieremo a discutere la pdl Giachetti sulla liberazione anticipata speciale”. “Forza Italia - afferma Pittalis, voce in controcanto rispetto al populismo giustizialista della maggioranza - è assolutamente d’accordo con la proposta di portare da 45 a 60 giorni lo sconto di pena per ogni semestre scontato, tenendo conto anche della custodia cautelare e della detenzione domiciliare. Ed abbiamo già preparato un emendamento, per noi migliorativo, che inverte l’onere della prova della buona condotta: al detenuto si applica automaticamente lo sconto di pena accessorio a meno che non venga segnalato dalla direzione del carcere. Il detenuto è informato preventivamente sul suo fine pena e questo evita tutte le pastoie burocratiche che gravano sul recluso. Il nostro emendamento fissa però alcuni paletti, escludendo lo sconto di pena per i reati di mafia, di terrorismo e di violenza sessuale e di violenza sulle donne”. In sostanza, alla Camera potrebbe aprirsi uno spiraglio per l’unica proposta in campo, al momento, capace di alleggerire il sovraffollamento carcerario tornato rapidamente, nell’ultimo anno, ai numeri di dieci anni fa (condanna Torreggiani). Un varco che solo Forza Italia potrebbe scavare, in seno alla maggioranza. Nulla da fare però invece per la richiesta, avanzata dalla Conferenza dei Garanti territoriali dei detenuti, di correggere il decreto con emendamenti che inseriscano fin da subito la liberazione anticipata speciale. Forza Italia ha infatti deciso ieri, dopo una riunione di senatori e deputati, di restare nei ranghi della maggioranza senza forzare la mano sul dl licenziato dal Cdm il 4 luglio scorso che, come ammesso dallo stesso ministro Nordio, non affronta minimamente il sovraffollamento carcerario. Il provvedimento arriverà in aula, a Palazzo Madama, nella settimana tra il 29 luglio e il 3 agosto. Tra i nove emendamenti presentati dal senatore azzurro Zanettin, alcuni affrontano il tema della semilibertà, regime applicabile ai detenuti che scontano residui di pena “non superiore a quattro anni”. Gli emendamenti di FI eliminano però ogni automatismo inserito dalla riforma Cartabia e lasciano al magistrato la decisione caso per caso. In altri, secondo quanto riferisce Pittalis, vengono aumentati i fondi per le comunità che dovrebbero accogliere i tossicodipendenti privi di domicilio adatto alle misure alternative. Troppo pochi 206 posti in tutta Italia: “Con 5 milioni in più, abbiamo tentato di appianare il gap tra le regioni”. Sono circa 80 invece gli emendamenti presentati dal Movimento 5 Stelle: dalla reintroduzione del reato di abuso d’ufficio, abrogato dal ddl Giustizia, al potenziamento delle figure professionali per la rieducazione e la riabilitazione del condannato, fino all’integrazione dell’organico della polizia penitenziaria. Altrettanti ne ha presentati il Pd per riempire “in tutti gli aspetti” quello che i dem definiscono, a ragione, “un decreto vuoto”; emendamenti che verranno illustrati questa mattina in conferenza stampa. Che la situazione sia esplosiva “è sotto gli occhi di tutti”, ammette anche Pittalis che, “a titolo strettamente personale”, azzarda: “Non sono assolutamente contrario a prendere in considerazione l’amnistia e l’indulto”. Provvedimenti di clemenza che vengono invece invocati senza mezzi termini da Valentina Calderone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, che ieri ha presentato la prima relazione annuale del suo mandato, relativa all’anno 2023. “A Roma, le condizioni più critiche di sovraffollamento le riscontriamo a Regina Coeli, con 1.129 presenze contro i 628 posti disponibili, e un tasso di sovraffollamento del 180%. Rebibbia nuovo complesso con 1.556 persone contro i 1170 posti disponibili, ha un tasso di sovraffollamento del 133%. Rebibbia femminile con 358 presenze contro i 272 posti, ha un sovraffollamento del 132%”, si legge nel rapporto. “Vivere in un carcere sovraffollato - spiega Calderone- significa che il personale dell’area giuridico pedagogica ha in carico troppe persone e non riesce a svolgere un effettivo lavoro di costruzione dei percorsi individuali; significa anche che gli operatori della polizia penitenziaria non riescono a garantire la sorveglianza per le varie attività, e sono spesso sottoposti a orari massacranti per coprire i turni di servizio”. Per questo, chiosa Calderone, provvedimenti deflattivi come l’amnistia e l’indulto sono “l’unico modo per riportare gli istituti carcerari all’interno della legalità”. Zanettin (Forza Italia): “Fuori di prigione chi ha condanne sotto i 4 anni” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2024 Svuotare le celle moltiplicando di otto volte, da sei mesi a quattro anni, il limite di pena entro il quale si può accedere alla semilibertà, includendo anche i residui di condanna ancora da scontare. È la soluzione proposta da Forza Italia in un emendamento al decreto carceri, il micro-intervento varato dal governo per attenuare il sovraffollamento penitenziario. In quel provvedimento, approvato dal Consiglio dei ministri a inizio luglio, non ci sono misure capaci di far uscire subito una parte dei detenuti attualmente reclusi nel nostro Paese: in particolare, non c’è l’”indulto mascherato” proposto dal deputato renziano Roberto Giachetti, che con il suo ddl vuol risolvere il problema aumentando i giorni di “sconto di pena per buona condotta”, da 45 a sessanta o addirittura a 75 ogni sei mesi. Quella soluzione, che aveva convinto una parte della maggioranza, è stata bloccata dalla premier Giorgia Meloni in persona. Così, ora che il testo è arrivato in Commissione Giustizia al Senato per la conversione, i berlusconiani provano un’altra strada, su cui sperano di trovare l’accordo dell’esecutivo e degli alleati di FdI e Lega: un super-potenziamento della semilibertà, la misura alternativa che consente ai condannati di uscire dal carcere durante il giorno per rientrarci la notte. L’emendamento porta la firma di Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro in Commissione. L’articolo 50 della legge sull’ordinamento penitenziario, che al momento consente di scontare in semilibertà “la pena della reclusione non superiore a sei mesi”, è modificato così: “Possono essere espiate in regime di semilibertà le pene detentive, anche residue, non superiori a quattro anni”, cioè un limite otto volte più alto. Se invece la condanna, inflitta o residua, supera questa soglia, si potrà chiedere la misura alternativa in anticipo rispetto a quanto previsto adesso: basterà aver scontato un terzo della pena e non più la metà, oppure la metà - invece dei due terzi - per i reati più gravi. A decidere sarà sempre il giudice di Sorveglianza, che dovrà valutare i “progressi compiuti nel corso del trattamento” e “le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società”. Se la modifica passasse, però, è scontato che il numero di detenuti ammessi a trascorrere le giornate fuori dal carcere si gonfierebbe a dismisura. Proprio questo d’altra parte è l’obiettivo di Zanettin, come traspare dalla relazione tecnica alla proposta: “La semilibertà è relegata a misura Cenerentola, pur costituendo il primo passaggio utile dalla detenzione alla libertà. L’elevazione del tetto di pena consente di far rientrare nella misura una fetta non trascurabile di condannati per reati di più modesto allarme sociale”, si legge. Una definizione, quest’ultima, abbastanza discutibile: l’esperienza insegna che nel nostro Paese una condanna a quattro anni si riceve solo per aver commesso delitti piuttosto gravi. Per fare un esempio, l’omicidio colposo è punito con il carcere fino a cinque anni: se l’emendamento passasse, anche con una condanna al massimo della pena, dopo appena 12 mesi si potrebbe accedere alla semilibertà. Nella relazione si spiega come il senso della norma sia di allineare la disciplina della misura alternativa a quella della messa alla prova, causa di estinzione del reato a cui (dopo la riforma Cartabia) possono accedere gli imputati di delitti puniti non oltre i quattro anni. Secondo Zanettin, non c’è “alcuna ragione che giustifichi la differenziazione” dei due istituti. A ben vedere però la ragione c’è eccome: mentre il limite per la messa alla prova è calcolato sulla pena in astratto, e riguarda soggetti ancora sotto processo, la semilibertà “regala” l’uscita parziale e anticipata dal carcere a condannati definitivi anche per reati molto gravi. Sulla proposta del senatore c’è già l’ok informale del viceministro azzurro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: perché dal governo arrivi il parere positivo, però, sarà necessario convincere Fratelli d’Italia e nello specifico la premier. Su cui però crescono le pressioni dal mondo del carcere: ieri la garante dei detenuti di Roma Valentina Calderone ha denunciato che nel carcere di Regina Coeli il sovraffollamento è arrivato al 180%, con 1129 presenze contro i 628 posti disponibili. “Il governo si dia una mossa, perché la situazione è insostenibile ed esplosiva”, attacca il leader di +Europa Riccardo Magi. I magistrati dovrebbero vedere coi propri occhi e capirebbero che le carceri sono l’opposto di un albergo di Ettore Grenci* Il Dubbio, 17 luglio 2024 È rimbalzata nei social e nelle chat in poche ore. Molti credevano fosse una fake news, un lavoro ben fatto con Photoshop. Ma poi, ad uno sguardo più attento, tutto era in ordine: timbri, firme, a partire dal logo della Repubblica Italiana. Stiamo parlando dell’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Firenze con la quale è stata rigettata la richiesta di liberazione anticipata di un detenuto con la seguente, laconica, motivazione: “considerato che il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata, che è la partecipazione all’opera rieducativa”. Sforziamoci di andare con ordine, perché l’istinto porterebbe in altre direzioni. L’istituto della liberazione anticipata è lo strumento giuridico di natura premiale previsto dall’art. 54 dell’ordinamento penitenziario che consente una detrazione di 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata da persona detenuta che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. È un beneficio a cui possono accedere tutti i detenuti a prescindere dal reato commesso e dall’entità di pena da eseguire. Nelle condizioni in cui versano oggi le carceri del nostro Paese, la prima domanda che realisticamente dovrebbe porsi chi deve decidere sulla concessione del beneficio non è se il detenuto abbia o meno partecipato all’opera di rieducazione, ma se un’opera di rieducazione sia mai esistita per quel detenuto. Avrebbe dovuto chiederselo il magistrato di sorveglianza di Firenze che ha scritto quell’ordinanza, e che forse non conosce le condizioni in cui vivono nel carcere di Sollicciano 564 esseri umani, stipati in uno spazio tra i 3 ed i 4 mq destinato a non più di 400 detenuti, con cimici, muffa, mancanza d’acqua. A tutto questo si aggiunge il recente suicidio di un ragazzo appena ventenne, anche lui evidentemente recalcitrante all’ “opera rieducativa”, come tutte le altre 55 persone che da inizio anno si sono tolte la vita nelle carceri del nostro Bel Paese. Avrebbe dovuto chiederselo, e magari andare a vedere di persona le condizioni in cui questa “opera rieducativa” viene svolta, come si vive in carcere, ma anche come si muore, visto che, tanto per dire, questo sarebbe uno dei doveri imposti dalla Legge proprio alla magistratura di sorveglianza. Ogni Magistrato di sorveglianza ha infatti l’obbligo di andare frequentemente in carcere e di ascoltare le voci dei detenuti, di verificare le loro condizioni di vita, il rispetto della loro dignità e dei loro diritti, ed ha il compito di vigilare sull’organizzazione degli istituti penitenziari e di prospettare al Ministro di Giustizia le varie esigenze, in particolare quelle relative alla rieducazione ed alla tutela dei diritti di quanti sono sottoposti a misure privative della libertà. Quante volte i magistrati hanno visto le carceri alle cui sbarre quel detenuto ha tradito l’opera di rieducazione così gentilmente offertagli dallo Stato? Quante volte hanno ascoltato le voci, con tutti i dolori e le sofferenze che possono portare una persona a vedere nella morte l’unica via d’uscita dignitosa per una vita non più degna di essere vissuta? È lo stesso magistrato a rispondere a queste domande, nelle motivazioni di un’altra sua ordinanza con la quale ha respinto il reclamo di alcuni detenuti che denunciavano le gravi carenze igienico- sanitarie del carcere di Firenze. Dopo aver risposto che la fornitura di acqua calda non è un loro diritto, perché essa “si può pretendere solo in strutture alberghiere”, ha affermato che comunque le varie lamentele erano smentite dalle diverse prospettazioni dell’Amministrazione Penitenziaria, a cui va attribuita maggiore credibilità rispetto alla parola dei detenuti. Eppure l’art. 7 del regolamento di esecuzione penitenziaria (servizi igienici) chiarisce che i vani in cui sono collocati i servizi igienici devono essere forniti di acqua corrente calda e fredda. E sarebbe sufficiente vedere con i propri occhi cosa succede nel carcere di Sollicciano e nelle decine di altre carceri italiane, luoghi che Mattia Feltri ha giustamente definito come “costruzioni criminali di Stato, legalizzate dalla nostra indifferenza”, di fronte alle quali si apre il “baratro morale della nostra nazione”. *Responsabile commissione diritti umani Coa Bologna Gogna per chi assolve: giudici sotto attacco di politica e media di Valentina Stella Il Dubbio, 17 luglio 2024 Aumentano le richieste di ispezioni ministeriali per chi prende decisioni garantiste (o sgradite). Ollà (Cnf): “Così si va ad impattare con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. Cosa hanno in comune i casi giudiziari Cerciello Rega, Ciontoli, Viareggio, Mottola, Rigopiano, Delmastro, Artem Uss, Toti? Che se un giudice si azzarda a derubricare, prescrivere, assolvere, concedere misure alternative al carcere o emettere una sentenza sgradita alla maggioranza parlamentare contro di lui si scatenano critiche asprissime da parte di politici, scattano azioni disciplinari, il Tribunale del popolo chiede la ghigliottina. Proprio ieri il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha chiesto con “un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia di disporre in via immediata un’ispezione sulla Corte di Assise di Appello di Roma, che ha disposto gli arresti domiciliari” per Natale Hjorth, implicato nell’omicidio del carabiniere Cerciello Rega. Per la morte di Marco Vannini, nel primo processo di appello, la Corte derubricò da omicidio volontario a colpa cosciente il reato con cui venne condannato Antonio Ciontoli. L’ex ministro Alfonso Bonafede intraprese l’azione disciplinare. La Cassazione, nel caso della strage di Viareggio, dichiarò l’estinzione di alcuni reati per intervenuta prescrizione e il Movimento 5 Stelle partorì la riforma della prescrizione stessa, mentre una folla sbraitante si ritrovò a Piazza Cavour a urlare contro gli ermellini. Nel 2023 la Corte di Assise di Cassino ha assolto la famiglia Mottola per l’omicidio di Serena Mollicone. Gli imputati e i loro avvocati dovettero essere scortati fuori dall’aula dalla polizia perché centinaia di persone si gettarono addosso per aggredirli fisicamente. A inizio 2023 un gup del Tribunale di Pescara ha assolto 25 dei 30 imputati e comminato altre cinque lievi condanne per le 29 persone morte all’Albergo Rigopiano. Alla lettura della sentenza in aula si scatenò un putiferio: abbiamo sentito i parenti e gli amici delle vittime urlare, rivolti al gup, “bastardo” “devi morire” “venduto” “fai schifo” “non finisce qui” e anche di peggio. E il magistrato è stato costretto a lasciare l’aula scortato. Arrivò anche un tweet del ministro Matteo Salvini: “29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna”. E ricordate cosa è accaduto a luglio dello scorso anno quando un gip di Roma chiese l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove indagato per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al caso Cospito? Palazzo Chigi fece filtrare una nota in cui si leggeva, tra l’altro, se è “lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Sempre lo scorso anno il responsabile di Via Arenula dispose accertamenti ispettivi relativamente alla decisione dei magistrati milanesi di sostituire per l’uomo d’affari russo Artem Uss la misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari e braccialetto elettronico. Di qualche giorno fa la richiesta di inviare gli ispettori al tribunale di Genova per verificare se si può aprire un procedimento disciplinare contro i giudici che tengono il governatore Giovanni Toti ai domiciliari da due mesi, presentata da due consigliere laiche di destra del Csm: Eccher (espressione della Lega) e Bertolini (Fratelli d’Italia). Per Paola Cervo, membro del comitato direttivo centrale dell’Anm in quota Area, “c’è un fil rouge che lega tutte queste iniziative, alla cui base esiste un equivoco: quando leggiamo nella Costituzione che la giustizia è amministrata nel nome del popolo italiano non significa che è amministrata dopo un sondaggio di opinione. Il provvedimento giudiziario non è rivolto all’elettorato, alla ricerca di consenso, ma fa parte dell’esercizio della giurisdizione. Esso è motivato, verificabile, anche criticabile perché non è atto segreto”. Per Cervo, “continuare a delegittimare chi emette sentenze poco gradite alla maggioranza parlamentare alimenta un clima di sfiducia nei nostri confronti nell’opinione pubblica. Inoltre, a furia di chiedere l’ispezione contro ogni magistrato che ha emesso un provvedimento indesiderato si finisce con l’intimidire il giudice. Noi siamo capaci di non farci condizionare, tuttavia mi sorprende che questo accade soprattutto in un momento storico in cui il governo batte la bandiera del garantismo, rendendo più difficile, ad esempio, l’applicazione della custodia cautelare. Com’è possibile che ce la prendiamo con i giudici che offrono misure alternative ai detenuti? Non è contraddittorio questo?”. Prosegue Cervo: “Chi fa questo tipo di attacchi vuole ottenere la giurisprudenza difensiva, a danno dei cittadini, che non si sentiranno più garantiti”. Infine “chi fa questo linciaggio mediatico contro di noi deve ricordarsi che la sua persona è al servizio di una istituzione e le istituzioni non usano questo tipo di linguaggio violento. Era inevitabile che prima o poi si sarebbe arrivati ad attaccare i giudici: è mai possibile che due consigliere del Csm invochino l’ispezione per i giudici di Genova? Qui siamo proprio alla crisi della separazione dei poteri. Si vuole arrivare alla giustizia di governo e non mi importa di quale governo, mi fa paura l’idea della giustizia di governo”. Per Giovanna Ollà, consigliere segretario del Cnf, “gli interventi richiesti o annunciati rivolti ad organi di controllo sull’operato della magistratura lasciano francamente perplessi quando hanno ad oggetto provvedimenti di natura giurisdizionale che, se errati o iniqui o ritenuti tali, possono essere emendati in sede di impugnazione finalizzata ad ottenerne la riforma”. Per l’avvocato “non è ovviamente possibile entrare nel merito delle singole vicende, né escludere che un singolo provvedimento, se valutato in un contesto di abnormità, possa essere di per sé solo sintomatico di una deviazione dalla funzione, ma è all’evidenza uno strumento da maneggiare con cura perché inevitabilmente va ad impattare con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e del singolo giudice”. In conclusione per Ollà “neppure può tacersi il rischio, ancora più ampio, di potenziale lesione dei principi di autonomia e indipendenza, quando ciò sia preceduto da una allerta mediatica, come accaduto in alcuni casi. Proprio a Rimini, alcuni anni fa, un grave fatto di cronaca (l’aggressione a Gessica Notaro, ndr) è stato accompagnato da una richiesta di “spiegazioni” sul mancato aggravamento di una misura coercitiva all’allora ministro della Giustizia formulata in diretta dal un noto conduttore di una trasmissione televisiva (Maurizio Costanzo, ndr), cui è seguito un accesso ispettivo”. Procura europea: i diritti della difesa sono da rafforzare di Roberto Giovene Di Girasole Il Dubbio, 17 luglio 2024 L’European Public Prosecutor’s Office, noto con l’acronimo Eppo, è entrato in funzione il primo giugno 2021. Ha un meccanismo di funzionamento complesso: alla Procura europea competono le indagini (sulle frodi a danno dei fondi dell’UE superiori a 10mila euro e sulle frodi transfrontaliere IVA che comportano un danno di importo superiore a 10 milioni di euro) mentre i processi si svolgono nei singoli stati, sulla base delle norme di diritto sostanziale e processuale dei diversi ordinamenti. Il regolamento (UE) 2017/ 1939, istitutivo della Procura, ha previsto un Ufficio centrale, che ha sede in Lussemburgo, composto da un procuratore per ciascuno stato che ha aderito all’Eppo (attualmente sono 23) più il Procuratore capo. Vi sono poi le camere permanenti, composte di tre procuratori ciascuna, che sovraintendono la conduzione delle indagini svolte, nei singoli stati, dai procuratori europei delegati (PED). Le decisioni chiave dell’indagine devono essere approvate dalla Camera permanente. Per comprendere l’impatto delle indagini della Procura occorre tenere conto dei dati contenuti nel Rapporto annuale relativo al 2023. Al 31 dicembre 2023 si contavano 1.927 indagini attive, per un danno stimato per il bilancio dell’Unione di oltre 19,2 miliardi di euro; 139 rinvii a giudizio (oltre il 50% in più rispetto al 2022). Sono stati emessi, su richiesta dell’Eppo, provvedimenti di congelamento di beni per 1,5 miliardi di euro. Per quanto riguarda il nostro Paese, che risulta essere di gran lunga lo Stato EPPO più interessato dalle indagini (circa il 40% riguarda casi italiani), i numeri sono questi: 618 indagini aperte, di cui 160 transfrontaliere, 256 persone rinviate a giudizio e 395,3 milioni di euro di beni congelati. Inoltre, sempre al 31 dicembre 2023, vi erano 98 procedimenti in corso, ci sono state 22 sentenze di primo grado, di cui 17 divenute definitive, 13 condanne e 4 assoluzioni. Sul piano generale va osservato che la nascita della Procura europea è avvenuta in una cornice in cui il livello di armonizzazione degli ordinamenti degli Stati parte non appare ancora soddisfacente, con un impatto negativo sui diritti della difesa. Le relazioni di attuazione della Commissione europea hanno dimostrato che le direttive adottate nel decennio passato (diritto all’interpretazione e alla traduzione, diritto di accesso a un difensore e il diritto di comunicare e informare terzi in caso di detenzione, diritto al silenzio e il diritto alla presunzione di innocenza, diritto al patrocinio a spese dello Stato), non sono state recepite in modo coerente in tutti gli Stati. Va inoltre sottolineato che negli altri Paesi UE non vi è la previsione delle indagini difensive (in Italia disciplinate dalla L. 7/ 12/ 2000 n. 397). Per quanto attiene il regolamento Eppo, tra le principali criticità si registra un’eccessiva discrezionalità nei criteri previsti per stabilire la competenza di uno stato membro ad indagare e giudicare. In caso di indagini transnazionali gli articoli 31 e 32 prevedono che il PED incaricato cooperi con i PED degli altri Stati e che le misure investigative eseguite all’estero debbano essere assegnate allo Stato in cui l’indagine deve essere svolta. Ma le misure disposte secondo le regole dello stato incaricato delle indagini dovranno essere verificate nello stato di esecuzione? La prima sentenza su Eppo della Corte di Giustizia Ue (Grande Sezione, 21/ 12/ 2023, C- 281/ 22) ha ritenuto che le misure da eseguirsi in altro Stato parte non necessitano di essere ulteriormente valutate nel merito, ma solo attuate ed eseguite. Tale decisione rende ancora più necessario ed urgente rafforzare il processo di armonizzazione tra i diversi sistemi penali ed i diritti della difesa in Europa. Puglia. Fino a cinque detenuti in micro-celle: così le carceri diventano forni di Elga Montani Quotidiano di Puglia, 17 luglio 2024 Le carceri in Puglia sono strutture vecchie, in alcuni casi sono addirittura palazzi storici, non hanno impianti adeguati e con il caldo diventano dei forni in cui è impossibile vivere. Qualche volta manca l’acqua: gli impianti non riescono a reggere il numero eccessivo di detenuti. E i numeri, d’altronde, parlano chiaro. In tutta la regione, stando all’ultimo report aggiornato al 30 giugno di quest’anno, pubblicato dal ministero della Giustizia e relativo ai detenuti italiani e stranieri presenti e alle capienze per istituto, i posti a disposizione sono 2.943 mentre i detenuti presenti sono 4.374. Di questi 484 sono stranieri e 221 sono le donne. Nel carcere di Bari, struttura storica risalente addirittura all’800, ci sono 407 detenuti contro i 294 posti disponibili, e 83 di questi sono stranieri. Peggiore la situazione a Taranto, dove a fronte di 500 posti disponibili i detenuti presenti ad oggi sono quasi il doppio, ovvero 940 (64 sono stranieri e 49 sono le donne). Stessa situazione preoccupante a Lecce, dove sono presenti 1.205 detenuti (114 stranieri e 97 donne) a fronte di 798 posti effettivi. Tutte le carceri sono polveriere pronte ad esplodere, non solo a causa del sovraffollamento, ma anche a causa del fatto che all’interno degli istituti di pena manca il personale, non solo gli agenti di polizia penitenziaria, che da anni sono sottorganico, ma anche educatori, psicologi e così via. E il caldo non fa che aggravare la situazione, se si considera che nessuna o quasi di queste strutture può vantare un impianto di condizionamento, e solo una recente circolare ha permesso l’utilizzo dei ventilatori, limitandolo tuttavia ad alcuni specifici modelli per questioni di sicurezza. Per quanto riguarda il carcere di Lecce, per il quale nei giorni scorsi l’associazione Antigone ha lamentato una situazione molto difficile a causa del caldo afoso di questa estate, nel report della stessa associazione dello scorso anno si leggeva che “le celle si presentano decisamente poco spaziose. In alcune sezioni a causa dei continui arrivi di detenuti (trasferimenti da altri istituti o nuovi giunti) è stato necessario aggiungere il terzo letto a castello limitando ancora di più lo spazio. I bagni pur trovandosi in ambiente separato sono privi di docce”. Situazione, quella descritta, nella quale si contava un numero di detenuti più contenuti di quello attuale (1.157 contro gli attuali 1.205). Altri elementi da considerare, il fatto che in questo carcere non sono garantiti in tutte le celle i tre metri quadrati calpestabili per ogni detenuto e non in tutte le celle c’è acqua calda. Altro aspetto importante, in questo periodo estivo, il fatto che stando al report di Antigone, sono presenti spazi verdi per i colloqui, ma non vengono utilizzati. A Bari, invece, dove il sovraffollamento al momento è meno accentuato, vengono garantiti i tre metri quadrati di suolo calpestabile per detenuto previsti dalla legge, ma ci sono celle in cui si trovano a convivere anche quattro/cinque persone alla volta. Negli anni scorsi sono stati effettuati lavori, ma le sezioni di media sicurezza si trovano a fare i conti con problemi strutturali importanti che richiederebbero una urgente e costosa manutenzione. Il carcere di Bari, inoltre, non ha aree verdi. Il cortile esterno è lastricato di cemento e non esistono zone d’ombra, o un’area dove svolgere i colloqui con i familiari all’aperto. Infine, Taranto, dove oggi il numero degli ospiti è quasi doppio rispetto alla capienza, ha celle delle sezioni molto piccole e non sono presenti docce. Ma soprattutto, pur garantendo i tre metri quadrati di suolo calpestabile, non viene invece garantita la separazione tra adulti e giovani adulti. E anche qui c’è un’area verde che potrebbe ospitare detenuti e familiari nei mesi estivi per i colloqui ma non è mai stata attivata. Situazioni quindi tutte difficili che con l’aumento delle temperature di questi giorni non fanno altro che peggiorare. Come si legge sempre nel report di Antigone, sarebbe necessario ripensare questi spazi e costruirne di nuovi per sostituire queste strutture vetuste. Ma come risulta dalla relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia relativa all’anno 2023, presentata in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, “di nuove carceri non si parla quasi più”. Emilia Romagna. “Codice ristretto”, una guida per i detenuti per conoscere i propri diritti cronacabianca.eu, 17 luglio 2024 Giovedì 18 luglio sarà consegnata ai detenuti delle carceri dell’Emilia-Romagna, il codice ristretto, la guida, in versione aggiornata ai diritti delle persone detenute. È la seconda edizione. La prima arrivò nel 2022. La consegna sarà accompagnata dalla visita di otto diverse delegazioni: a Bologna il garante Roberto Cavalieri con l’arcivescovo di Bologna e presidente Cei Matteo Zuppi, l’assessore regionale Igor Taruffi, il presidente Ucoii Yassine Lafram e la consigliera regionale Silvia Zamboni; a Rimini la presidente dell’assemblea legislativa Emma Petitti con il vescovo Nicolò Anselmi e la consigliera Nadia Rossi. L’iniziativa, organizzata dal garante regionale dei detenuti e dalla Camera penale di Bologna con il sostegno della commissione per la Parità e i diritti delle persone dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, è stata illustrata questa mattina (martedì 16 luglio) a Bologna dal garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri nel corso di una conferenza stampa nella quale sono intervenuti anche Federico Amico, presidente della commissione Parità e diritti, nonché Stefania Pettinacci e Chiara Rizzo dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Bologna. “Il codice ristretto - spiega il garante Cavalieri - è una guida sui diritti, di facile lettura, per sostenere il detenuto nella comprensione delle modalità di accesso ai benefici penitenziari. Con la distribuzione di questo vademecum a tutti i detenuti presenti in Emilia-Romagna vogliamo sostenere la cultura dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione”. Abbiamo pensato, aggiunge, “a un glossario che racchiuda tutte quelle che sono le possibilità che un detenuto ha rispetto al carcere, a partire dalle cosiddette misure alternative ma anche rispetto alle differenti tipologie di permessi e al lavoro esterno, con una parte dedicata a chi ha problemi collegati alle dipendenze”. Cavalieri affronta poi il tema del sovraffollamento nelle carceri: “In Emilia-Romagna siamo arrivati ad avere 3.700 persone recluse contro i 2.900 posti regolamentari, per questo è necessario l’impegno di tutti, non solo dell’amministrazione penitenziaria, per cercare di portare soluzioni al problema del carcere, a partire dalla valorizzazione delle reti territoriali che si occupano dei percorsi all’esterno rivolti ai detenuti”. Il codice ristretto nella versione aggiornata - conclude il garante regionale dei detenuti - “viene redatto anche in lingua araba e viene integrato con una nuova sezione in cui il detenuto può inserire dati sulla sua situazione carceraria”. “La possibilità di scontare la pena lontani dal carcere - evidenzia quindi il presidente della commissione Parità dell’Assemblea legislativa, Federico Amico - è di gran lunga più efficace: fino a quando non cambieranno le condizioni generali che consentono di attuare le misure alternative alla detenzione, quelle dirette a realizzare la funzione rieducativa della pena, anche il problema del sovraffollamento rimarrà irrisolto. Questo anche se si costruissero nuove strutture di reclusione”. “Altrettanto cruciale - aggiunge - è il tema dei detenuti non residenti in regione. Per programmare l’esecuzione delle pene alternative, che preparino a un reinserimento virtuoso, è importante creare le condizioni per ridurre il numero di detenuti che scontano la pena in una regione diversa da quella di residenza. Gli ultimi provvedimenti allo studio del governo nazionale fingono di andare in questa direzione, ma non offrono vere opportunità alle persone detenute, questo perché non viene contemplata la presa in carico del sistema sociale che, come di consueto, è demandata ai soli Comuni nella completa solitudine”. Nelle dieci strutture carcerarie della regione Emilia-Romagna (dati aggiornati al 30 giugno 2024) sono presenti 3.725 detenuti (per una capienza regolamentare di 2.979 posti), di cui 167 donne, mentre in 1.826 sono stranieri. Il problema del sovraffollamento è associato a un aumento sia della diffusione di patologie psichiche e malattie infettive e virali, come ad esempio la tubercolosi, sia di fenomeni di violenza e suicidi. Nel 2024 in Italia ci sono già stati 56 suicidi in carcere, l’ultimo questa notte nella casa circondariale di Venezia. Sul vademecum, per l’Osservatorio carcere della Camera penale di Bologna, Stefania Pettinacci e Chiara Rizzo evidenziano: “È con soddisfazione che presentiamo questa nuova pubblicazione, uno strumento di agile comprensione nella complessa materia dell’ordinamento penitenziario. Spesso le persone detenute si orientano a fatica: le misure alternative alla detenzione, come pure l’accesso ai permessi, presuppongono titoli di reato, entità delle pene inflitte, residuo di pena ancora da scontare e condizioni soggettive molto diversi tra di loro. Avere contezza da subito di quali prospettive possono accompagnare il periodo di detenzione aiuta chi è detenuto a elaborare, laddove è possibile, un progetto e comunque ad affrontare questa fase con chiarezza. Un’informazione preliminare corretta può essere un contributo anche per il lavoro degli operatori interni ed esterni al carcere, chiamati a dare risposte a chi comunque ha diritto a un efficace trattamento penitenziario. Le misure alternative alla detenzione sono provvedimenti restrittivi della libertà personale e incidono sulla fase esecutiva della pena. La loro funzione è quella di dare concretezza all’aspetto della rieducazione”. Il Codice ristretto si può consultare al seguente link: https://cronacabianca.eu/wp-content/uploads/2024/07/Codice-ristretto-2024.pdf Augusta (Sr). La storia di Giulio Arena ci ricorda che in Italia la pena di morte esiste di Giovanni Pizzo Il Riformista, 17 luglio 2024 Dal 2015 dietro le sbarre, condannato all’ergastolo, si è lasciato morire con uno sciopero della fame. La morte per inedia di Giulio Arena, detenuto nel carcere di Augusta è un caso paradigmatico della gestione incostituzionale della Giustizia italiana. È morto di carcere, più strumento di annullamento della dignità delle persone che di rieducazione. I fatti: Giulio Arena, condannato all’ergastolo con sei mesi di isolamento, ed anche questo è paradigma, dopo un processo fondato più su diatribe tra periti, che prove inoppugnabili, si è lasciato morire non assumendo cibo ed acqua. Gli avevano rifiutato i domiciliari, e lui ha deciso di spegnere la luce, quell’esistenza non la sentiva più degna di essere vissuta. Questo è possibile nelle carceri italiane? L’eutanasia, proibita in Italia per legge, trova invece possibilità legale in carcere. Giulio Arena non era un classico esponente della popolazione carceraria, non era un drogato o un immigrato, non era un appartenente alla criminalità organizzata, loro prendono spesso pene inferiori, non era nemmeno un pedofilo, uno stupratore di ragazzine, anche loro se la cavano con meno, non era un autore di femminicidio, quelli conquistano pagine di giornali ed hanno pure, incredibile, delle fans che gli scrivono. Giulio, a parte qualche associazione che si occupa delle garanzie dei detenuti, come ci dice Pino Apprendi, ex onorevole regionale garante dei detenuti di Palermo, impegnato su questo fondamentale tema per la dignità di un paese civile, era solo, era diverso dagli altri detenuti, per cui era solo, cosa che non succede ai detenuti di delitti gravi per mafia. Quelle famiglie hanno altri codici, non ti abbandonano mai. Anzi se sei detenuto per associazione mafiosa diventi un vanto ed una risorsa, si organizzano addirittura delle “collette” benefiche per le famiglie dei carcerati, si chiamano “pizzo”, ma i merletti non c’entrano. Giulio Arena era un musicologo, insegnava al Conservatorio di Palermo, aveva pure fondato una casa editrice di libri sulla musica, su cui aveva investito tutto se stesso ed i suoi averi. Ma non stava bene, per niente, aveva già sparato qualche anno prima a due ambulanti, fortunatamente illesi, per una questione di melloni, come noi in Sicilia chiamiamo le angurie. Una persona così in altre parti d’Italia verrebbe pesantemente presa in carico dai servizi sociali dell’Asp territoriale, verrebbe monitorata da assistenti sociali, psichiatri, altri operatori. Ma non in Sicilia, qui no, le questioni sociali rimangono in carico a Comuni in dissesto finanziario, che da anni hanno tagliato i servizi sociali, e l’Asp fa solo TSO se richiesti da autorità competenti o familiari. Ma nessuno evidentemente seguiva Giulio. Per cui quando viene ucciso un contadino dalle sue parti gli inquirenti pensano automaticamente a Giulio, che aveva un precedente di violenza per futili motivi, i melloni. Quale è il fondamentale movente per le 30 coltellate date al contadino di Paternò? Una disputa sul poco olio ricavato da un terreno di famiglia. C’è dell’assurdo in tutto questo, qualcosa di ancestrale come l’olio, del tragico, del grottesco, i tipici canoni di quest’isola descritta mirabilmente su questi codici da Verga e Pirandello, un’isola in cui si può morire per un’anguria o per un cafiso di olio. Un assassino che, dando per assodata la sua colpevolezza, cosa su cui diverse persone addentro alla vicenda non danno per scontata, uccide per qualche chilo di olio, che nel 2015 non costava come oggi, è chiaramente fuori di testa. Ed una persona fuori di testa può stare in carcere? Può il carcere, i suoi metodi, le sue funzioni, la sua popolazione, rieducarla? Al di là di cosa serva la rieducazione, ad un uomo sul cui foglio di ingresso in una struttura penitenziaria c’è scritto fine pena mai. Giulio si è sempre, ostinatamente, con forza, dichiarato innocente. Ha affrontato la carcerazione rifiutandola, ed ha deciso di porre fine alla sua vita lasciandosi morire. Forse pure per vendetta verso una società che non solo non lo aveva capito e creduto, ma che lo aveva escluso dal consesso civile, ritenendolo un diverso, un pazzo fuori di melone si potrebbe dire, se ciò non risultasse anch’esso grottesco. Sul frontone dell’ex manicomio di Agrigento, chiuso per la ormai comprensibilmente inefficace legge Basaglia, c’è scritto qua non tutti lo sono ma non tutti ci sono, cioè non tutti quelli che sono qui sono pazzi e non tutti i pazzi sono qui. Magari sono in carcere, dove non dovrebbero stare, dove possono morire per carenza di civiltà. Dove Giulio è morto, con il consenso dello Stato, nel carcere di Augusta, terra di Sicilia. Teramo. “Malato e in carcere, papà non ha resistito” di Francesco Marcozzi Il Messaggero, 17 luglio 2024 Giuseppe Santoleri si è suicidato in cella a Teramo a 74 anni. Vive nel carcere di Frosinone il dramma del suicidio del padre ed affida ad una lettera al nostro giornale le sue considerazioni e le sue pene che potrebbero portarlo a compiere un identico gesto. Scrive dal carcere Simone Santoleri, 47 anni, parlando soprattutto del padre Giuseppe che si è tolto la vita a 74 anni il 15 giugno scorso nel carcere di Castrogno, a Teramo, dove stava scontando 18 anni, in concorso con il figlio Simone, per l’omicidio della pittrice Renata Rapposelli, sua ex moglie e madre di Simone. Denuncia Simone: “Mio padre si è tolto la vita quando gli hanno comunicato che la Camera di consiglio, che doveva decidere il suo trasferimento in una clinica, era stata rinviata per la terza volta. Avrebbe dovuto attendere il 18 luglio ed è morto per i ritardi della burocrazia. Non ce l’ha fatta a resistere ancora lì dentro”. “Era mio padre - aggiunge - anche se mi ha fatto condannare a 27 anni di carcere. Sapevo che avrebbe potuto “cedere” e così è stato. Ho scritto, denunciato, esposto e avvisato in tutti questi sei anni e mezzo di carcere che mio padre non stava bene, e non poteva restare in carcere. So che, dopo una visita di cinque minuti, davanti a uno psicologo e a uno psichiatra è stato dichiarato idoneo con il regime carcerario. Hanno cancellato anni e anni di disagi psichici, ricoveri in strutture sanitarie psichiatriche in soli cinque minuti. Ripeto, era sempre mio padre e gli avevo scritto chiedendogli di ritrattare e di farmi uscire da questo incubo in cui lui stesso mi aveva cacciato. Ho perso mio padre senza potergli dire, nonostante tutto, che gli volevo un mondo di bene, era l’unico rimasto di una famiglia disintegrata”. Poi c’è una parte della lettera in cui racconta di essersi commosso “quando in televisione ho visto la Tirreno - Adriatico che ha fatto tappa a Giulianova e ho pianto come un bambino perché ho rivisto molti luoghi belli della mia città”. Fa capire che il suicidio del padre lo ha profondamente segnato. “Sono davvero distrutto - scrive - la psicologa, l’educatrice, tutti cercano di tirarmi su il morale e mi invitano a non commettere sciocchezze, ma adesso è più dura di prima e non so se ce la farò a resistere. Avevo mio padre come punto di riferimento e nutrivo la speranza, molto debole per la verità, che un giorno ci saremmo potuti incontrare, ma il suo suicidio mi ha privato anche di questo. Restiamo nell’immagine collettiva dell’opinione pubblica come i “mostri”, invece abbiamo tanto sofferto e quando avevamo bisogno di aiuto tutti ci hanno voltato le spalle a cominciare dalle nostre stesse famiglie, i Santoleri e i Rapposelli”. Poi conclude con un desiderio, che ha un risvolto drammatico e che è anche una volontà. “Spero, qualora dovessi cedere, che la mia salma venga seppellita nel cimitero di Giulianova contrariamente a quanto accaduto per mio padre. Lo scriverò a chi di dovere e spero fermamente che almeno questo mio ultimo desiderio possa essere esaudito”. Da segnalare che la lettera scritta il 24 giugno dal carcere di Frosinone è arrivata a destinazione solo ieri. Firenze. Il caso Sollicciano, non tutti i giudici sono uguali: “Carcere invivibile” di David Allegranti La Nazione, 17 luglio 2024 Dopo i ricorsi rigettati nei mesi scorsi, un’ordinanza di segno opposto. La magistrata Susanna Raimondo accoglie il reclamo di un detenuto: “Condizioni degradanti che compromettono il diritto alla salute”. La magistratura di sorveglianza non è tutta uguale. Il che è un bene ma significa anche che un detenuto può essere fortunato o sfortunato. Dopo molte cattive notizie sul fronte del carcere, oggi ve ne possiamo dare una positiva. La dottoressa Susanna Raimondo, magistrata del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ha appena accolto il reclamo di un detenuto del carcere di Sollicciano, presentato lo scorso 7 marzo 2024 grazie alla collaborazione de L’Altro Diritto, ordinando all’amministrazione penitenziaria e alla direzione dell’istituto di provvedere alla immediata ripresa di una serie di interventi già programmati, da terminare entro 60 giorni. In caso di inerzia dell’amministrazione, una volta passati i 60 giorni, il detenuto dovrà essere trasferito non in un’altra cella o in un’altra sezione, ma “in un diverso istituto ove siano garantite le minime condizioni di vivibilità”. Con questa ordinanza in sostanza si dice che Sollicciano non è un carcere in cui un ristretto possa vivere in condizioni accettabili. Il detenuto in questione lamentava, oltre alla mancanza di acqua calda nella cella, la presenza di umidità e muffa derivanti da infiltrazioni d’acqua, “che in caso di precipitazioni atmosferiche provocavano gli allagamenti degli ambienti”, nonché la presenza di roditori, parassiti e insetti (topi, pidocchi zecche e cimici nei letti); il detenuto scrive nel reclamo che dal suo ingresso in istituto, avvenuto il 23 ottobre 2023, non gli sono mai state cambiate le lenzuola (circostanza questa non verificata dalle indagini disposte dall’ufficio di sorveglianza) e che la cella non è mai stata disinfestata. L’ordinanza firmata dalla dottoressa Raimondo è molto dettagliata e dà conto delle gravi problematiche del carcere di Sollicciano, peraltro già emerse nel corso di alcuni sopralluoghi. Già nel 2022, il presidente del Tribunale, dottor Marcello Bortolato, e un’altra magistrata di sorveglianza, dottoressa Elisabetta Pioli, avevano constatato la presenza di cimici, documentando anche gli effetti delle morsicature e delle punture sui detenuti. “Le condizioni del carcere di Sollicciano possono considerarsi severamente critiche”, c’è scritto nell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. “Non vi è dubbio che… sono assolutamente legittime le denunce relative alle annose problematiche circa le carenze igienico-manutentive dell’istituto, da tempo drammaticamente segnalate e ormai note anche all’opinione pubblica. È comprovata la massiccia presenza di infiltrazioni d’acqua, a volte di veri e propri allagamenti, di umidità, di muffe e distacchi di intonaco in numerosi ambienti della casa circondariale”. Al detenuto in questione, “a causa delle condizioni degradanti dell’istituto, è gravemente compromesso il diritto alla salute e il diritto a una detenzione rispettosa del senso di umanità e della propria dignità”. Le infiltrazioni piovane anche all’interno della cella con caduta di residui di intonaco sui letti configurano “trattamenti inumani e degradanti”, lo stesso vale per la presenza di insetti e parassiti. “Le annose problematiche circa le carenze igienico-manutentive dell’istituto sono da tempo drammaticamente segnalate e ormai note a enti locali, autorità, stampa e opinione pubblica”, c’è scritto ancora nell’ordinanza. “Il provvedimento della dottoressa Raimondo è importantissimo per tre motivi”, dice a QN il filosofo del diritto Emilio Santoro, fondatore de L’Altro Diritto: “Per il dettaglio della documentazione esaminata sulle condizioni di Sollicciano e del rigore della motivazione riafferma la serietà della magistratura di sorveglianza fiorentina: i detenuti di Sollicciano, a dispetto della recente ordinanza che scherniva uno di loro, affermando che pretendere di avere l’acqua calda vuol dire confondere il carcere con un albergo, ora sanno che possono contare su ‘un giudice a Berlino’ che esamina con serietà le doglianze sui loro diritti, anche quelle che non ritiene fondate”. Inoltre “il provvedimento dopo anni di ‘giurisprudenza catastale’ riconosce che il trattamento inumano e degradante dei detenuti non deriva solo dal sovraffollamento e dal fatto che i detenuti abbiano meno di 3 metri quadrati a disposizione, ma riconosce, in linea con la giurisprudenza della Cedu, che il trattamento inumano e degradante spesso dipende, anche in presenza di spazi sufficienti, dalle condizioni della struttura di detenzione e dalle condizioni di igiene”. L’ordinanza “documenta le condizioni inaccettabili dell’intero carcere e impone che, in mancanza di un loro risanamento, la detenzione non possa avvenire a Sollicciano ordinando all’amministrazione penitenziaria di far eseguire la pena in un carcere diverso. Questa affermazione è importantissima e dovrebbe costringere l’amministrazione a bloccare ingresso nel carcere di Sollicciano di nuovi arrestati e condannati. Ora è ufficiale che se si manda qualcuno a Sollicciano gli si infligge intenzionalmente un trattamento inumano e degradante”. Dunque, aggiunge il professor Santoro, “mi rimane una sola perplessità: la giudice dà 60 giorni all’amministrazione per svolgere i lavori di adeguamento del carcere e nulla dispone sulla messa in sicurezza del detenuto ricorrente in questi sessanta giorni: in pratica dice al detenuto che si deve rassegnare a vivere per due mesi in condizioni inumane e degradanti esposto ai morsi delle cimici che come si legge nel provvedimento possono avere ‘effetti particolarmente devastanti’”. In questo, dice ancora Santoro, “il provvedimento mi sembra non cogliere il fatto che il reclamo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha imposto di introdurre nel nostro ordinamento serve a ottenere un rimedio preventivo dei trattamenti inumani e degradanti, e quando non li si può prevenire li si deve far cessare subito... Non consentire che proseguano per due mesi”. In ogni caso, si può dire che c’è almeno un giudice a Firenze. Modena. Quasi duecento detenuti in più rispetto alla capienza: “La situazione sta peggiorando” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 17 luglio 2024 Il penitenziario modenese è tra i più in sofferenza in regione. “Un’emergenza tangibile che va risolta”. Paola Cigarini: “I locali per le donne lavoratrici sono stati adibiti a celle. Così si bloccano le attività”. Se ne parla da anni ma, nonostante tutti gli allarmi del caso, la situazione non è mai migliorata, anzi, è in peggioramento. Parliamo del sovraffollamento nelle carceri dell’Emilia-Romagna e proprio il penitenziario modenese, insieme a quelli di Bologna e Ferrara, risulta il più affollato per quanto riguarda i detenuti fino ai 25 anni. I dati ministeriali sono stati diffusi dal garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri. Nella nostra città i detenuti dovrebbero essere al massimo 372, eppure risultano 538. Ma c’è anche tutto un altro tema, ovvero quello che riguarda le detenute donne che sono una trentina al Sant’Anna. Infatti secondo i dati diffusi dal Garante, da quasi 15 anni le donne non possono lavorare all’esterno: dal 2010 il penitenziario modenese non avrebbe posti per le donne semilibere o per quelle che vogliono lavorare. Su questo aspetto, come spiega una delle storiche volontarie del carcere, Paola Cigarini (Associazione “Carcere e città” - Progetto Peter Pan), volontaria dal 1987, è in corso un confronto con l’amministrazione penitenziaria. “In realtà prima del 2020, anno della rivolta e della pandemia le donne uscivano; almeno due o tre detenute e tornavano la sera. Lo stop è arrivato proprio a causa del sovraffollamento: chi esce per lavorare - spiega Cigarini - non rientra nelle sezioni ‘normali’: vi è un fabbricato a parte dove rientrano le persone che lavorano all’interno del carcere o che escono a lavorare nelle cooperative ad esempio. Erano state quindi attrezzate a questo scopo anche due celle della sezione femminile, ma il sovraffollamento ha fatto sì che questi locali venissero utilizzati proprio per celle normali”. “Non dimentichiamo poi - continua la volontaria - che per organizzare uscite, occorre organizzare anche il lavoro degli agenti che devono accompagnare le detenute all’esterno e oggi l’organico è quello che è. Noi, insieme al centro antiviolenza, casa delle donne e un’altra associazione che si occupa della sartoria all’interno del penitenziario abbiamo iniziato a chiederlo e si dovrebbe riuscire a realizzare ma il problema vero è questo: abbiamo un lavoro esterno da offrire ad una donna che esce dal carcere? Modena offre questo genere di opportunità? Anche la città si deve interrogare”. Cigarini fa presente come vi sia un tavolo comunale, Clepa, dove si confrontano tutte le istituzioni coinvolte: “Occorre parlarne seriamente lì: questi tavoli devono funzionare perché il loro compito è l’organizzazione e ognuno deve fare la propria parte. Per le detenute modenesi ci sono poi altri problemi - fa presente -. Contrariamente agli uomini, le detenute non hanno un posto all’esterno per ripararsi dal sole. Se non altro e per la prima volta, al costo di trenta euro, possono acquistare un ventilatore. Ma questo fa capire come il mondo è di chi ha e chi non ha: pure l’aria fresca la compri e non tutte possono permetterselo. Nelle sezioni alte il caldo è ovviamente insopportabile e spesso si fanno collette. Quello che davvero importa - conclude- è tenere vicini carcere e città”. Ad intervenire sul tema sovraffollamento è anche Francesco Campobasso, segretario nazionale del Sappe per l’Emilia Romagna e le Marche. “Il sovraffollamento è una piaga del sistema carcerario attuale che va di pari passo con una carenza di organico che ha raggiunto livelli altisonanti e mai registrati prima d’ora. Il tutto comporta inevitabili ed ulteriori disagi sia per ciò che concerne la gestione della popolazione detenuta, sia per il mantenimento dei livelli minimi di sicurezza. Una emergenza tangibile che mette nuovamente in risalto le problematiche del settore”. Aosta. Rivolte in carcere, Zamparutti: “L’amnistia dopo la riforma costituzionale è impossibile”. di Loredana Pianta rainews.it, 17 luglio 2024 Incendi e distruzione degli arredi del carcere, scontri con gli agenti, minacce di suicidio. Nelle ultime settimane i detenuti sono in rivolta in numerosi istituti penitenziari, quello di Brissogne non sta facendo eccezione. Il problema principale è la cronica mancanza di personale. “Venivamo da dieci anni senza direttore titolare, ma ora che lo abbiamo manca tutto il resto della struttura”, dice Matteo Ricucci, vicesegretario del sindacato di polizia penitenziaria Sinappe, “L’assenza di funzionari giuridico-pedagogici e la carenza di quelli amministrativi contabili, non fanno altro che alzare la tensione nei confronti del personale penitenziario, perché non ci sono le figure giuste per il reinserimento sociale”. Carmelo Passafiume, vicesegretario regionale del sindacato Osapp, sottolinea come il recente arrivo di diciassette nuovi agenti non abbiano compensato i trasferimenti: “Siamo arrivati ad essere un reparto di 150-160 unità. Avremmo bisogno di un’altra ventina di uomini per svolgere tutti i servizi. C’è gente che non riposa da venti, trenta giorni. E, se le maglie si allargano, si rischia che entrino stupefacenti, telefonini, coltelli. Arrivano anche con i droni”. Per gli agenti queste rivolte, in contemporanea in tutta Italia, sono un messaggio alla politica, perché si arrivi a provvedimenti di amnistia o indulto. L’idea di una sorta di cabina di regia dietro le proteste viene invece respinta da Elisabetta Zamparutti, una delle fondatrici di Nessuno tocchi Caino, associazione per i diritti umani che ha visitato il carcere di Brissogne a gennaio. “Anche se amnistia e indulto sarebbero una misura adeguata, la riforma della Costituzione prevede che ci siano i due terzi del parlamento per l’approvazione, è dunque praticamente impossibile che avverrà. Tuttavia occorrono altre misure per governare questa situazione. Nessuno tocchi Caino è un’associazione nota per la lotta contro la pena di morte, ma oggi noi ci dobbiamo impegnare per la lotta contro la morte per pena. Ci sono i suicidi dei detenuti e ci sono quelli degli agenti di polizia penitenziaria, perché le condizioni di vita sono insopportabili anche per chi lavora in questi istituti”. Parma. Nel carcere quattro suicidi in un anno. E tanti detenuti poveri La Repubblica, 17 luglio 2024 C’è il caso dei suicidi oltre la media a Parma, con ben quattro episodi da luglio 2023 a luglio 2024, dove negli ultimi mesi altri giovani detenuti si sono impiccati nelle sezioni di isolamento. Hanno fatto diventare una corda le loro lenzuola e hanno scelto di dire ‘basta’ quasi sempre di mattina presto o alla sera, che sono “i momenti peggiori per chi è disperato in carcere”. Sempre a Parma, i movimenti nei “conti correnti” di tanti detenuti sono pari a zero o quasi: non ci sono bonifici inviati dai familiari (anche perché spesso mancano i familiari) e non ci sono retribuzioni per i piccoli lavori in carcere, perché il lavoro in carcere non c’è. Ma in giro per i penitenziari dell’Emilia-Romagna non mancano altre storture che, trascurate, negli anni si stanno aggravando: nel carcere di Modena, ad esempio, da quasi 15 anni le donne non possono lavorare all’esterno, di fatto, o ancora in quello di Piacenza non viene riconosciuta in nessun modo la residenza agli ospiti reclusi, a differenza delle buone prassi di questo tipo già praticate da tempo a Bologna o nella stessa Modena, ad esempio. In generale, le carceri dell’Emilia vivono più disagi mentre quelle romagnole, grazie anche a una presenza di detenuti tradizionalmente minore, in rapporto alla popolazione residente, risultano più “umane”, così come la Dozza di Bologna. In questo contesto diventa più che mai urgente far conoscere alle persone che si trovano in carcere i propri diritti. È il quadro che dipinge Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, oggi in Regione al fianco di Federico Amico, presidente della commissione Parità e diritti, nonché di Stefania Pettinacci e Chiara Rizzo, dell’osservatorio Carcere della Camera penale di Bologna che promuovono il nuovo Codice ristretto, la guida aggiornata ai diritti delle persone detenute: sarà distribuita in tutte le carceri regionali giovedì mattina, da parte di otto delegazioni di amministratori e volontari. L’iniziativa del Codice ristretto - spiega Cavalieri - vuole “ricordare a tutti, politica, territorio, giudici e volontari, che già ora - ricorda Cavalieri - si possono applicare normative che prevedano benefici per quei detenuti che ne hanno diritto, contrastando un sovraffollamento che anche in Emilia-Romagna tiene banco non da oggi”. Trieste. Dopo la rivolta al Coroneo cala il silenzio: esposti, indagini e perquisizioni di Nicolò Giraldi triesteprima.it, 17 luglio 2024 L’indagine della procura punta a chiarire cosa è avvenuto lo scorso 11 luglio e ad appurare eventuali responsabilità relative al decesso di Zdenko Ferjancic, lo sloveno di 48 anni trovato morto all’interno della sua cella il giorno dopo la rivolta. Ma se da un lato la direzione “per rispetto delle indagini” non rilascia dichiarazioni, dall’altro lato si apprende che ci sarebbero stati diversi controlli, con ogni probabilità per individuare i farmaci e alcuni bisturi che potrebbero esser spariti dopo il saccheggio dell’infermeria. Il silenzio dopo la rivolta. In questi giorni il Coroneo sembra avvolto da una apparente calma, eppure negli edifici dell’omonima via di movimento ce n’è. La procura vuole fare luce e appurare le responsabilità in merito all’episodio che ha gettato nel caos la casa circondariale Erntesto Mari, con un detenuto trovato morto all’interno della sua cella e una sfilza di malori causati dal presunto abuso di farmaci scaturiti dopo il saccheggio dell’infermeria. Dopo la rivolta, tra le cui motivazioni trova spazio anche il sovraffollamento e il gran caldo di questi giorni - ma non solo -, sono stati consegnati numerosi ventilatori, così da attutire l’impatto delle roventi temperature della struttura. Ma ci sarebbe anche altro, a dire il vero. No comment da parte della direzione - Il direttore del carcere, Graziano Puja, contattato telefonicamente dalla redazione, ha chiarito che “nel rispetto delle indagini in corso non vengono rilasciate dichiarazioni”. La richiesta di informazioni era relativa ad un presunto blitz, che sarebbe avvenuto nella mattinata di oggi 16 luglio, per dare corso ad una raffica di perquisizioni all’interno delle celle. Sono molte le terapie sparite durante l’assalto all’infermeria che, con ogni probabilità, hanno innescato la lista di malori tra detenuti. Una overdose sarebbe stata accertata già durante la serata della rivolta. Da fonti interne si apprende che i controlli nelle celle sarebbero da ascrivere a “ordinaria amministrazione”, ma è possibile che non tutto ciò che è sparito dall’infermeria lo scorso 11 luglio (voci parlano anche del rischio che siano spariti alcuni bisturi) sia stato poi ritrovato. Il senso di libertà, che così non è - Nel frattempo la procura va avanti con l’indagine volta ad accertare anche la morte di Zdenko Ferjancic, il quarantottenne sloveno trovato senza vita nella sua cella il giorno dopo la rivolta. Stando a quanto riportato dalla Rai del Friuli Venezia Giulia, attraverso i suoi legali la moglie del detenuto morto ha presentato un esposto in procura. Ieri è stata effettuata l’autopsia sul cadavere, per chiarire le cause del decesso. I legali di Zdenko, Alice e Paolo Bevilacqua, per lui avevano tentato la via della custodia domiciliare, nella sua abitazione di Nova Gorica (in Slovenia), ma non era stata concessa. Infine, sul tavolo della procura approderanno una serie di relazioni preparate dalle forze di polizie e non solo che, la sera di cinque giorni fa, erano state allertate per una maxi emergenza. Tutte informazioni che serviranno a precisare quanto avvenuto tra quelle mura, da dove si vedono gli alberi che danno ai detenuti quel senso di libertà, “anche se così non è”. Roma. La Garante dei detenuti: “Sovraffollamento, suicidi e orari massacranti dei poliziotti” di Marco Melli dire.it, 17 luglio 2024 Presentata ieri la prima relazione annuale del suo mandato, relativa all’anno 2023. Emergenza sovraffollamento. Valentina Calderone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, ha presentato oggi in Aula Giulio Cesare la prima relazione annuale del suo mandato, relativa all’anno 2023. Molti i temi trattati: dal sovraffollamento in crescita costante negli ultimi mesi, che nella nostra città raggiunge picchi del 180% nell’istituto di Regina Coeli, ai suicidi, sette negli ultimi 18 mesi e tutti nel carcere trasteverino. Il sovraffollamento non riguarda solo gli spazi di vita e la sofferenza delle persone detenute. “Vivere in un carcere sovraffollato- dichiara Calderone- significa che il personale dell’area giuridico pedagogica ha in carico troppe persone e non riesce a svolgere un effettivo lavoro di costruzione dei percorsi individuali, significa anche che gli operatori della polizia penitenziaria non riescono a garantire la sorveglianza per le varie attività, e sono spesso sottoposti a orari massacranti per coprire i turni di servizio”. Ad aggravare questa situazione ci sono le condizioni strutturali, spesso fatiscenti, che diventano intollerabili d’estate: stanze da due che ospitano cinque persone, infiltrazioni di acqua e muffa alle pareti, lavandini che perdono, acqua calda che non funziona, aule scolastiche e di socialità che vengono utilizzate come stanze di pernotto. Tutto questo ha come conseguenza un clima particolarmente teso all’interno degli istituti, come i recenti fatti di Regina Coeli e di Casal del Marmo testimoniano. “Per la prima volta dopo anni, assistiamo a un incremento dei numeri anche all’interno degli istituti penali per minorenni - dichiara Calderone - se a Casal del Marmo nel gennaio 2023 erano presenti 42 tra ragazzi e ragazze, a distanza di un anno le presenze sono salite quasi a 70 persone”. La relazione annuale della Garante si concentra su alcuni temi di grande attualità che richiedono un’attenzione e un impegno da parte di tutte le istituzioni, come le condizioni di vita all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria, dove a febbraio si è tolto la vita Ousmane Sylla, o la sentenza di gennaio della Corte costituzionale sull’affettività e i colloqui riservati delle persone detenute con i propri partner. “Sono necessari interventi urgenti- dichiara Calderone- per riportare le carceri in una condizione di legalità e garantire il rispetto dei diritti di chi in quei luoghi abita”. Se il numero dei suicidi, 57 da inizio anno, il sovraffollamento e le condizioni strutturali sono temi che vanno affrontati a livello nazionale, molto possono fare gli enti locali per intervenire e costruire politiche di inclusione della popolazione detenuta nel loro territorio. “L’impegno di Roma Capitale in questi mesi è stato importante- ricorda Calderone- molte le iniziative realizzate nel segno di considerare le persone detenute come parte integrante della nostra città, cittadini e cittadine di cui non dobbiamo e non possiamo dimenticarci”. Nella relazione vengono citati i protocolli sottoscritti e i progetti avviati: “l’obiettivo è quello di rafforzare ancora di più i servizi esistenti, crearne di nuovi e mettere in rete tutte le esperienze fondamentali dentro e fuori il carcere - conclude Caldedore - che portano sostegno e contribuiscono a creare quei percorsi che costituiscono l’unico vero fine ultimo di ogni sanzione penale”. Pisa. Le ragioni dell’agitazione dei detenuti e delle detenute: lesi i diritti umani di “Una città in comune” unacittaincomune.it, 17 luglio 2024 Si atti il tavolo permanente da noi proposto. Raccogliamo con preoccupazione e apprensione l’ennesimo appello che viene dalle detenute e dei detenuti del Carcere Don Bosco sulle condizioni di invivibilità all’interno della struttura, che anche noi denunciamo da anni. Con il caldo opprimente di queste settimane tale situazione diventa insopportabile, in aperta violenza a qualsiasi diritto alla persona. Una situazione che la stessa Garante per i diritti dei detenuti, l’avvocata Abu Awwad, ha drammaticamente confermato chiedendo interventi urgenti sulle condizioni igienico-sanitarie e sulle disinfestazioni per cimici e scarafaggi. I mesi estivi sono da sempre drammatici in carcere: all’interruzione della maggior parte delle attività educative e formative si aggiungono condizioni inumane legate al caldo. Un inferno in cui nel nostro paese continuano a togliersi la vita decine di persone, davanti agli occhi di una politica assente e colpevolmente ignara. Le ragioni della protesta sono non solo fondate, ma è inammissibile che si ripetano costantemente senza che vengano trovate soluzioni, confermando che per chi governa il carcere è solo “una discarica sociale” da demonizzare, ad esempio attraverso l’introduzione del reato di “rivolta in carcere”, previsto dal nuovo pacchetto Sicurezza. Sosteniamo le proposte puntuali della Garante, e le richieste che i detenuti e le detenute hanno avanzato alla Direzione del carcere. Rilanciamo e facciamo nostro l’appello alla cittadinanza e anche al mondo associativo per strumenti come lavatrici e ventilatori che mancano. Ma ancora una volta ribadiamo che l’amministrazione comunale non si deve girare dall’altra parte, come invece ha fatto in tutti questi anni, in particolare su quelle che sono sue competenze su cui può fare molto. Nella casa circondariale, infatti, sono tante le persone che hanno i requisiti per accedere all’esecuzione penale esterna ma non ci sono le condizioni per le prospettive di un reale inserimento. Contro i detenuti e in genere contro le persone vulnerabili i continui tagli ai servizi e ai diritti si ritorcono in modo drammatico, e privano le persone delle opportunità per scegliere percorsi di vita di piena cittadinanza e di legalità. In questo, il Comune di Pisa continua a distinguersi per l’assoluto disinteresse della situazione carceraria. Per abbattere la recidiva bisogna costruire cittadinanza e l’unico modo per arrivarci sono i servizi per l’inserimento sociale e per l’accesso al lavoro e alla casa. Ma l’amministrazione comunale ha deciso di non considerare i detenuti del Don Bosco come abitanti su suolo pisano, dimenticandosi che, una volta finita la pena, la maggioranza di chi esce dal Don Bosco rimane sul territorio, senza alcuna possibilità di un positivo inserimento in società. Noi denunciamo la latitanza del Comune da dieci anni, nonostante anche numerosi atti da noi proposti ed anche votati all’unanimità, con ragionevoli proposte di intervento di competenza dell’Ente Locale, ma nulla poi è stato fatto di concreto. Rilanciamo quindi l’urgenza che il Comune si attivi con politiche attive in collaborazione con le altre istituzioni del territorio. In particolare, riteniamo non più rinviabile l’attivazione del tavolo cittadino sulle politiche di inclusione delle persone detenute: abbiamo portato la nostra proposta in commissione durante l’audizione della garante ed ha riscosso entusiasmi e consensi. Ora è il momento di dare una risposta concreta: partiamo subito dai percorsi per il lavoro, mettendo in rete l’ente locale, il Centro per l’Impiego, la Societa della Salute e il mondo produttivo. In questi giorni sempre più difficili anche all’interno del Don Bosco mandare forte il messaggio che chi è nel carcere è parte della nostra città e ha gli stessi diritti che non possono essere mai così calpestati. Ivrea (To). Otto indagati per un suicidio annunciato. I pm: “Ignorati gli allarmi” di elisa sola La Stampa, 17 luglio 2024 Il 39enne Vito Riccio, figlio di un agente della Polizia penitenziaria, era in carcere dopo aver ucciso la moglie e il figlio di 5 anni. Aveva chiesto un colloquio, negato per mesi. “Abbandonato a se stesso per mesi”. Vissuto allo stremo, in preda ai tormenti dell’anima. Vito Alexandro Riccio si è ucciso a 39 anni nel carcere di Ivrea il 26 settembre 2021. Ha usato i pantaloni della tuta per impiccarsi nel bagno della cella. Secondo la procura di Ivrea, che ha indagato otto persone per omicidio colposo, tra cui i vertici dell’epoca, il suo era un suicidio annunciato. Perché Riccio, figlio di un poliziotto penitenziario in pensione, nove mesi prima di togliersi la vita aveva ucciso la moglie e il figlio. A Carmagnola. Prima di quel giorno era incensurato. Faceva il rappresentante. Una vita ordinaria. Non è mai stato chiarito se avesse problemi psichiatrici. Non c’è stato tempo di fargli una perizia. Si è ammazzato prima. Precedenti tentativi di suicidio - Riccio aveva già tentato il suicidio. Dopo il duplice omicidio aveva bevuto una bottiglia di candeggina e si era lanciato dal secondo piano. Ma era sopravvissuto. E voleva farla finita anche quando ha varcato le porte del primo carcere in cui è stato trattenuto dopo l’arresto del 29 gennaio 2021, il Lorusso e Cutugno. È stato trasferito a Ivrea il 17 aprile. Ed è qui, secondo quanto emerso dall’indagine della polizia penitenziaria e coordinata dalla pm Valentina Bossi, che sarebbe stato, scrive la procura, “abbandonato”. Qui ha vissuto sei mesi di “gravi sofferenze”, precisano gli inquirenti che il 10 luglio hanno notificato l’atto di chiusura indagini. Nei giorni in cui esplodeva la rivolta nelle carceri di Torino e di Ivrea, dove ieri c’è stata la terza sommossa in pochi giorni. Responsabilità e accuse - Gli otto indagati rispondono di omicidio colposo. Tra loro, l’ex direttore della casa circondariale, funzionari dell’area pedagogica, psicologi e psichiatri. Avrebbero “cagionato la morte di Riccio” perché nessuno, nonostante fosse evidente che avesse gravi problemi psicologici, lo avrebbe sorvegliato. Avrebbero fatto finta di niente. Non solo. La scheda del rischio suicidio del detenuto, il 21 aprile era stata modificata: il livello di rischio declassato da alto a medio. Il funzionario giuridico-pedagogico avrebbe visto il detenuto una sola volta in 6 mesi. Eppure, nelle cartelle cliniche c’era scritto: “Alterna lucidità a pensieri paranoici”. “Propone pensieri deliranti e persecutori”. “Situazione psicologica critica”. Lo psicologo, anche lui indagato, fece il primo colloquio a Riccio soltanto il 14 giugno, quando lui lo aveva chiesto il 19 aprile. “Viene accompagnato in infermeria per umore deflesso. Piange”, c’è scritto nell’annotazione psichiatrica del 29 aprile. Ma nessuno aveva preso provvedimenti. I segnali erano già chiari il 13 maggio: “Il detenuto dichiara di non stare bene psicologicamente. Pensa alla sua vita di prima. Non si fa una ragione di essere finito così. Di cosa ha fatto”. Nella stessa data Riccio chiede aiuto. Dice ai medici del carcere che ha bisogno di colloqui con lo psicologo. “Si prosegua con la terapia in corso”, è la risposta. Ascoli. Processo per il suicidio in cella. Tutti assolti: “Non era prevedibile” Il Resto del Carlino, 17 luglio 2024 Era un giorno di festa l’8 dicembre del 2021. Era il giorno dell’Immacolata. Si sa che in soggetti fragili trascorrere le feste da soli, in ambienti non accoglienti e in compagnia di personaggi discutibili non è il massimo. E c’è chi cede e decide di farla finita. È quello che ha fatto quel giorno un giovane detenuto nel carcere di Ascoli che si è impiccato all’interno della sua cella. Una morte per la quale sono finiti sotto processo la direttrice del carcere, un medico, il comandante del reparto di alta sicurezza 3, l’addetto alla vigilanza, un assistente addetto alla vigilanza. Dovevano rispondere dell’ipotesi di reato di omicidio colposo per non essere riusciti ad evitarlo. Un omesso controllo dal quale sono però stati tutti assolti gli operatori del carcere ascolano, difesi dall’avvocato Simone Matraxia. L’uomo era detenuto in regime di grande sorveglianza e la mattina della Festa dell’Immacolata del 2021 si impiccò. Già due giorni prima aveva mandato segnali di volerla fare finita. Secondo l’accusa, ognuno per le sue funzioni, i cinque operatori del carcere di Marino del Tronto non avevano adottato tutte le precauzioni necessarie. Per la Procura il loro era un “ruolo di garanzia con riguardo alla salute e all’incolumità del detenuto” del quale “sottovalutarono le ideazioni autolesive, i sintomi legati alla sua fragilità psichica in quanto soggetto affetto da depressione e pregresso uso di sostanze”. I familiari del detenuto hanno presentato un esposto dopo l’archiviazione. L’opposizione dei familiari ha portato la vicenda davanti al giudice Annalisa Giusti che non ha ravvisato responsabilità nella condotta degli imputati. In sintesi, nell’assolvere tutti, il giudice Giusti ha rilevato che “l’evento suicidio pur considerabile come prevedibile in astratto, alla luce della fragilità psichiatrica mostrata dal detenuto, non era nel caso concreto prevedibile, come dimostrato dall’inefficacia delle misure di tutela a disposizione adottate: stretta sorveglianza, ripetute visite mediche, interessamento del funzionario pedagogico, vicinanza degli altri detenuti per come è emerso dalle loro dichiarazioni”. Inoltre il magistrato si sofferma sul breve lasso di tempo trascorso fra l’aver manifestato l’intento suicidario (la sera del 6 dicembre 2021) e la realizzazione dell’evento (mattina dell’8 dicembre 2021). Oristano. La vita in carcere raccontata dalle detenute: presentazione del libro “Oltre” oristanonoi.it, 17 luglio 2024 Nel giardino della biblioteca comunale di Oristano, in via Sant’Antonio, giovedì prossimo, 18 luglio, verrà presentato alle 19 il libro “Oltre”, che raccoglie le testimonianze delle detenute nella sezione femminile della casa circondariale di Cagliari-Uta. Il libro è il risultato di un laboratorio di scrittura creativa ideato e curato da Maria Grazia Caligaris, Rita Corda, Anna Lusso, Claudio Moica e Federica Portoghese. La presentazione è organizzata dall’associazione Socialismo Diritti Riforme, dall’Ordine degli avvocati e dalla Camera penale di Oristano. Dalle storie di vita di queste donne ci sarà spazio per una riflessione ampia sul tema della detenzione femminile e sulle problematiche che rendono così peculiare e dolorosa la loro permanenza in carcere. La presentazione del libro e gli interventi della presidente di Sdr Maria Grazia Caligaris, del presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Oristano Enrico Maria Meloni, della presidente della Camera Penale Maddalena Bonsignore e della presidente del Comitato Pari opportunità dell’Ordine Annalisa Serra saranno intervallati dalle letture a cura di Monica Murru (componente Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Nuoro e socia della Camera penale di Oristano) e della giornalista Patrizia Mocci. L’intrattenimento musicale sarà invece affidato a Fiammetta Fadda. Modererà l’incontro Rosaria Manconi, referente della Commissione carcere e Cpr presso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Oristano. “Sarà un’occasione per comprendere meglio se e quanto il carcere, pensato e realizzato per gli uomini”, ha commentato Rosaria Manconi, “sia in grado di garantire la specificità di genere, di elaborare offerte riabilitative e pari opportunità di reinserimento sociale. Se e come l’organizzazione penitenziaria assicuri alle donne condizioni di vita inframuraria consone ai loro bisogni quotidiani, alle caratteristiche biologiche, alla maternità e alle necessità affettive. E quanto residui di quella cultura stigmatizzante e discriminatoria che non perdona alle donne-detenute di essersi sottratte al loro ruolo sociale e familiare di mogli, madri, figlie e sorelle”. L’evento è aperto a tutti ed è accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Oristano con due crediti formativi, di cui uno in materia deontologica. Quell’odio che nasce da un conflitto etico di Giovanni Orsina La Stampa, 17 luglio 2024 Siamo passati dai massacri del Novecento a un’epoca dominata da un consenso elitario. Il vuoto è stato colmato da giudizi di tipo etico che rendono impossibile il dialogo. Perché ci si odia tanto, oggi, in politica? Ce lo stiamo chiedendo almeno da un decennio, ma il fallito attentato a Donald Trump rende l’interrogativo ancor più urgente e rilevante. Qui cercherò di rispondere a questa domanda con un ragionamento storico. Che non è l’unico possibile, forse nemmeno il migliore, ma può contribuire per lo meno a gettare un po’ di luce sulla questione. Il discorso che sviluppo di seguito si compone di tre parti: alla fine del Novecento la politica ha perso la posizione centrale che aveva avuto nel corso di quel secolo, e di conseguenza il conflitto politico è venuto perdendo di senso e d’intensità; il posto della politica è stato allora occupato dall’etica, e in particolare da quel tipo di moralità che va sotto il nome grossolano di “politicamente corretto”; la ribellione politica dei nostri tempi è in realtà una rivolta morale - perciò è tanto intensa, e perciò facciamo così gran fatica a comprenderla in termini politici. Il Novecento è stato il secolo delle più intense passioni politiche, passioni che hanno scavato fra gli esseri umani fossati incolmabili, generato inimicizie mortali, fatto versare fiumi di sangue. L’odio e la violenza che oggi contempliamo stupefatti come se fossero atterrati da chissà quale galassia lontana fanno sorridere, se solo li paragoniamo a quelli di una manciata di decenni fa. E non servono nemmeno i libri di storia, per fare il paragone, basta la memoria: per chi li ha vissuti, come chi scrive, è sufficiente ripensare all’atmosfera cupa e soffocante degli Anni Settanta. Il Novecento della politica, a ogni modo, si è concluso ormai da molti decenni. Anzi, a ben vedere si è chiuso proprio in quegli Anni Settanta la cui esplosione di politica radicale, intensa e sanguinosa - giunta al termine di un cinquantennio abbondante di politica ancor più radicale, intensa e sanguinosa - ha paradossalmente inaugurato una lunga stagione di depoliticizzazione. L’ultimo quarto del ventesimo secolo e l’esordio del ventunesimo, così, hanno visto la politica ritirarsi. Perdere prestigio e credibilità. Mollare la presa sulla società e sull’opinione pubblica. Smarrire la capacità di condizionare mercati sempre più globali. Abbandonare le leve della politica monetaria alle banche centrali, e di varie altre politiche alle autorità indipendenti. Subire limitazioni sempre più stringenti dal diritto, dai diritti individuali, dalle Corti Costituzionali, dalle organizzazioni internazionali. Questa politica rimpicciolita nella reputazione e nei poteri non poteva certo continuare a generare le passioni di un tempo, né fornire ai partiti un largo campo di gioco che consentisse loro di differenziarsi gli uni dagli altri. Col tempo - e al netto dei roboanti scontri verbali, recitati sul proscenio a beneficio del pubblico pagante - le forze politiche sono venute convergendo verso il centro: semplificando molto, le destre hanno accettato l’espansione universalistica dei diritti individuali, le sinistre hanno fatto pace col mercato. La depoliticizzazione si è così tradotta in depolarizzazione: poco spazio per la politica e, in quello spazio striminzito, molte scelte obbligate e modeste possibilità di distinguersi. In quest’ordine depoliticizzato, l’accento storico si è spostato sulla moralità. Possiamo fare a meno di un potere politico intrusivo e oppressivo, possiamo minimizzare il ruolo dell’autorità pubblica, soltanto se viviamo in una società moralmente solida: se siamo capaci di controllare da soli il nostro comportamento così da poter dar vita a una società libera e pacifica, spontaneamente ordinata e progressiva. L’appassire della politica, così, determina il fiorire dell’etica. Lo disse bene George W. Bush nel suo secondo discorso inaugurale da Presidente degli Stati Uniti d’America, nel gennaio del 2005, con un gioco di parole intraducibile: “Self-government relies, in the end, on the governing of the self”. Che tipo di etica, l’aveva spiegato invece l’allora presidente francese Jacques Chirac in un discorso del maggio 1998: “Questo cittadino di domani, possiamo ben provare a tracciarne il profilo. È un cittadino coinvolto nella vita della città, impegnato in tutte le lotte in cui sono in gioco la dignità e la libertà. Un cittadino aperto al mondo, solidale con il mondo. Un cittadino naturalmente favorevole ai cambiamenti, ma attento a controllarne gli effetti perversi, così che diventino, per l’uomo, vettori di progresso. Infine, è un cittadino responsabile nei confronti degli altri, ma anche responsabile di se stesso”. Chirac presentava così, in buona sostanza, quella moralità aperta, rispettosa, egualitaria, cosmopolita, progressista alla quale in questi decenni abbiamo dato il nome molto insoddisfacente di “politicamente corretto”. La moralità dell’ordine depoliticizzato ha un’ulteriore caratteristica: i cittadini di quell’ordine devono pure fidarsene, essere fermamente convinti ch’esso sia in grado di generare progresso, di garantire un futuro migliore. Qui non ho modo di presentare il ragionamento per esteso, ma il regime a bassa intensità di politica che abbiamo visto prender forma negli Anni Settanta del Novecento ed entrare in crisi una quindicina d’anni fa, ha la conformazione di una profezia che si auto-avvera: di quelle previsioni il cui successo dipende da noi, insomma, che si verificheranno soltanto se noi ci crediamo, e si riveleranno invece sbagliate se noi le riteniamo tali. Per questo il cittadino di cui parlava Chirac, oltre a essere rispettoso, cosmopolita e progressista, deve nutrire fiducia: perché, se dubita, il suo mondo verrà giù come un castello di carte. L’insurrezione politica alla quale abbiamo dato il nome, anch’esso molto insoddisfacente, di “populismo” scaturisce in larga misura da una rivolta contro la moralità del politicamente corretto. Che si è presentata come una moralità oggettiva, universale, indiscutibilmente buona (“è rimasta una sola divisione cruciale fra le genti della Terra … la linea che separa quanti abbracciano l’umanità comune che tutti noi condividiamo da coloro i quali la respingono”, afferma Bill Clinton nel 1998, in Ruanda) - ma che, con ogni evidenza, tanto universale e oggettiva non è, e comunque non ha saputo mantenere le promesse che sono state fatte in suo nome. Gli studiosi del populismo hanno correttamente intuito la natura morale dell’idea populista di “popolo”. Ma non sempre hanno compreso con altrettanta chiarezza fino a che punto questa moralità sia emersa come reazione speculare a una moralità precedente. Poiché si muove sul terreno etico, il cosiddetto populismo aggredisce l’establishment con una retorica violenta e urticante: gli nega qualsivoglia legittimità, gode a violarne pubblicamente le regole e sfregiarne gli idoli, ne denuncia la corruzione e l’autoreferenzialità. Lo considera moralmente ripugnante, appunto. Per parte sua, l’establishment reagisce con moneta uguale e contraria: chi non accetta l’etica rispettosa, cosmopolita e progressista del politicamente corretto è un barbaro incivile e irrazionale, un pericolo mortale per la democrazia e la libertà. Non solo: poiché bisogna tenere in vita la profezia che si auto-avvera, perfino chi semplicemente si permette di dubitare che quell’etica sia sufficiente a garantire ordine e progresso, pur condividendola, dev’essere convertito e, se inconvertibile, ostracizzato. Bisogna non solo aderire, ma aderire con entusiasmo. Nessuno ha espresso con tanta chiarezza il rifiuto moralistico che l’establishment riserva ai populisti come Hillary Clinton, che nel 2016 definì gli elettori di Trump un “basket of deplorables”, un mucchio di spregevoli. Se il conflitto politico è diventato così aspro, in conclusione, è perché non è politico, ma etico. Com’è ben evidente, se il mio avversario politico non è una persona che, legittimamente, la pensa in maniera diversa da me, ma è un essere moralmente repellente, non potrò avere nei suoi confronti alcun rispetto o tolleranza, non potrò sopportarne la presenza, figurarsi dialogarci o raggiungerci un compromesso. La disabitudine al conflitto politico maturata nei decenni finali del Novecento ci impedisce di affrontare e gestire quest’asprezza e ce la fa sembrare più insopportabile ancora di quella del secolo scorso, malgrado quella fosse infinitamente peggiore. E se così è, la via per uscire dall’impasse nella quale ci troviamo non può che esser quella da un lato di riabituarci al conflitto politico, dall’altro di smettere di moralizzarlo. Procedure e tempi certi per l’aiuto al suicidio. Proposta di legge al Consiglio regionale lombardo di Simona Giannetti Il Dubbio, 17 luglio 2024 Approda oggi in Regione Lombardia, dopo aver passato il vaglio di ammissibilità dell’Ufficio di Presidenza, la proposta di legge regionale di iniziativa popolare, che vuole introdurre procedure e tempi certi per l’assistenza sanitaria al suicidio assistito nei termini fissati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 242. Saranno sentiti dalle Commissioni Salute e Affari Istituzionali ed enti locali del Consiglio Regionale della Regione Lombardia, Marco Cappato con Cristiana Zerosi, Massimo Rossi e Mario Riccio, in qualità di membri del Comitato Promotore Liberi Subito Lombardia. La proposta di legge regionale trae le mosse dal giudicato costituzionale che aveva deciso non fosse reato di aiuto al suicidio la condotta di Marco Cappato, portato a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Milano dopo essersi autodenunciato per aver aiutato Fabiano Antoniani. Da Milano comincia la vicenda giudiziaria del diritto all’autodeterminazione di Fabiano e a Milano, nel Palazzo della Regione, approda la proposta di legge regionale che hanno firmato oltre otto mila cittadini e cittadine lombarde. È sempre a Milano che nell’aula intitolata a Eligio Gualdoni lo scorso 13 giugno la Commissione Diritti Umani dell’Ordine degli Avvocati di Milano, coordinata dal Consigliere Massimo Audisio, insieme con la Società Lombarda degli Amministrativisti Solom in persona del suo Presidente Joseph Brigandi, ha voluto dedicare uno spazio formativo alla frontiera del giudicato costituzionale a partire dalla proposta di legge regionale sul suicidio assistito, non senza dimenticare che 19 giugno la Consulta avrebbe nuovamente dovuto pronunciarsi su analoga questione, sempre con riguardo alla non punibilità per il reato dell’art 580 cp, sollevata dal Gip ambrosiano. Gli autorevoli interventi della prof. Benedetta Liberali, Associata di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano, e poi degli avvocati milanesi Massimo Clara (esperto nelle difese innanzi la Consulta) e Fabio Pellicani (amministrativista, del Consiglio direttivo di Solom) nel corso dell’incontro formativo hanno consentito di affrontare il tema con il necessario approccio tecnico. Legittima è stata dunque ritenuta la potestà regionale, in applicazione del terzo comma dell’art 117 della Costituzione, che individua la competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, nel senso che lo Stato ha la riserva sulla enunciazione dei principi mentre alla Regione spettano le norme di dettaglio. La forza del giudicato costituzionale della sentenza 242/ 2019 è quella di fornire una normazione di principio, che ha la stessa efficacia che avrebbe una disciplina di tipo legislativo, divenendo fonte dei principi per la materia, dettata in via transitoria dalla Corte Costituzionale e destinata ad essere tale fino all’ eventuale intervento del legislatore nazionale. Principi che nel caso concreto vanno rinvenuti, con espresso rinvio della Corte, nella legge 219/ 2017 relativamente alla disciplina delle DAT. A questo punto, tuttavia, pur a fronte del giudicato della Corte, di fatto il diritto riconosciuto non è di facile accesso in particolare a causa dell’assenza di una normazione. L’introduzione di tempi e procedure è dunque il punto di arrivo di una necessità non solo manifesta nelle storie dei pazienti sofferenti ma, come nel caso di Federico Carboni, anche evidente nelle decisioni dei tribunali, che in ragione della forza di legge del giudicato costituzionale sono stati obbligati a ordinare alle aziende sanitarie di procedere con la verifica delle condizioni e delle modalità di aiuto al suicidio, nonché in altri casi a condannare le stesse alle spese legali. La presentazione della proposta di legge regionale di iniziativa popolare, indicata con il numero 56, non sarà dunque sull’eutanasia, la cui legiferazione resta compito demandato al Parlamento finora silente, bensì sull’organizzazione delle attività che le Aziende Sanitarie dovranno compiere nel pieno rispetto del giudicato costituzionale della sentenza 242 del 2019, senza dimenticare che l’art 32 della Carta è quello citato dalla Consulta a sostegno della sentenza 242/ 2109 e che un intervento del legislatore regionale, competente sulla Salute in termini concorrenti, avrebbe il vantaggio di evitare condanne e relative spese pubbliche alle amministrazioni nei casi in cui le storie dei pazienti hanno dimostrato che, adita la sede giudiziaria, il diritto come sancito dal giudicato della Corte non può che condurre a quel risultato. Speronamenti e bastonate, le violenze della guardia costiera tunisina sui migranti in mare di Alice Dominese Il Domani, 17 luglio 2024 Il report “Mare interrotto” di Alarm Phone documenta attraverso le testimonianze le crudeltà dei guardacoste di Tunisi contro chi tenta di attraversare il Mediterraneo. Dai pestaggi a bordo ai naufragi provocati. Una strategia che somiglia al modello libico e può contare sull’accordo d’intesa siglato un anno fa tra governo tunisino e Unione europea. Nel Mediterraneo, le pratiche per intercettare e rimpatriare le persone migranti partite dalle coste nordafricane sono sistematiche e brutali. La rete internazionale Alarm Phone, che offre soccorso in mare a chi è in difficoltà, ha raccolto le testimonianze di 14 sopravvissuti nel report “Mare Interrotto” denunciando le violenze perpetrate negli ultimi tre anni dalla guardia costiera tunisina su adulti e bambini in viaggio verso l’Europa. “La nostra barca è partita verso le 5 del mattino. Eravamo 45 persone a bordo. Quando la guardia nazionale è arrivata avevano dei bastoni e ci hanno picchiati chiedendoci di fermarci [...]. Poi hanno messo acqua nella nostra barca creando delle onde. Noi svuotavamo l’acqua, ma loro ne aggiungevano altra. Così alla fine la nostra barca è affondata e tutti hanno iniziato a gridare. Eravamo tutti in acqua”. Il racconto di Sékou, partito ad aprile 2023 dal porto tunisino di Sfax, rivela una delle tecniche più utilizzate per far sbilanciare le imbarcazioni: la guardia costiera ruota con la propria motovedetta attorno alla barca, spesso altamente instabile, per poi speronarla provocando il naufragio delle persone a bordo. Secondo le testimonianze raccolte, molte persone finite in mare dopo i ribaltamenti vengono lasciate annegare. Dieci compagni di viaggio di Sékou non sono mai stati ritrovati. Nel 2023, l’Unhcr ha registrato 3.160 persone morte o dichiarate disperse nel Mediterraneo, un numero che tuttavia non tiene conto delle vittime dei naufragi invisibili che non sono documentati. Abbandonati in mare per ore dopo aver subito aggressioni e minacce, le donne e gli uomini sopravvissuti devono affrontare i respingimenti forzati, spesso dopo aver assistito alla morte di parenti o amici. È ciò che è successo a Fatoumata. Dopo aver lasciato la Guinea Conakry insieme alle proprie figlie per salvarle dalle mutilazioni genitali femminili, si è imbarcata di notte insieme a 37 persone. Quindici di loro sono morte dopo l’intervento dei guardacoste tunisini che hanno assaltato la barca su cui viaggiava, colpito ripetutamente il guidatore per costringerlo a fermarsi e fatto in modo che i passeggeri finissero in mare. Due delle sue bambine hanno perso la vita insieme ad altre 13 persone, annegate senza ricevere alcun aiuto, dice Fatoumata. Percosse, spari, aggressioni con coltelli e spranghe, manovre pericolose e richieste di riscatto sono delle costanti nelle storie delle vittime ascoltate dagli attivisti di Alarm Phone. Chi non perde la vita in mare è costretto a salire a bordo delle motovedette tunisine sotto minaccia. In altri casi è l’unica cosa che resta da fare, spiega il report, che documenta anche i furti dei motori delle barche da parte dei guardiacoste. “Quando hanno provato ad avvicinarsi, il capitano ha spento il motore. Le guardie costiere sono salite a bordo della barca e hanno rubato il motore. Poi sono andate in un’altra direzione per prenderne altri. Siamo rimasti più di 3 ore in acqua senza motore prima che un’altra barca della guardia costiera venisse a prenderci” racconta Lami. Nonostante i pericoli e le violazioni dei diritti umani, le partenze dalle coste nordafricane non si fermano. Secondo Alarm Phone, il cosiddetto “spettacolo della frontiera”, attraverso cui le autorità statali mettono in scena una violenza che mira a dissuadere la mobilità dei migranti, “non è riuscito a scoraggiare queste decine di migliaia di persone che continuano coraggiosamente a esercitare la loro libertà di movimento”. Dall’inizio del 2024 sono circa 17.000 le persone che hanno raggiunto l’Italia partendo da Tunisia, Algeria e Libia. Un numero rimasto stabile negli ultimi due anni, a fronte di un incremento dei respingimenti operati dalla guardia costiera di Tunisi. Il Forum tunisino per i diritti economici e sociali sostiene che nel 2023 le autorità tunisine hanno impedito oltre 6.000 “tentativi di migrazione irregolare” e arrestato 80.000 migranti irregolari in partenza. La strategia dei respingimenti della guardia costiera tunisina fa eco al modello libico e può contare sull’accordo d’intesa siglato un anno fa tra governo tunisino e Unione europea. Il patto, siglato il 16 luglio 2023, stabilisce una “partnership strategica e globale volta a combattere l’immigrazione irregolare e a stimolare i legami economici tra l’Unione e il paese del Nord Africa”. Alla base di questo accordo ci sono 150 milioni di euro utilizzati anche per rafforzare la guardia costiera tunisina e intensificare le sue operazioni di sorveglianza. La guerra di Tunisi ai barchini dei migranti di Matteo Garavoglia e Nissim Gastelli* Il Manifesto, 17 luglio 2024 Il 5 aprile 2024 a Sfax la Guardia costiera tunisina ha aggredito un’imbarcazione con 42 persone a bordo: solo 18 sopravvissuti, gli altri deportati in Libia. Così il regime di Saied “gestisce” i flussi migratori, con l’aiuto dell’Europa: navi, addestramento e centinaia di milioni di euro per impedire le partenze. Lo scorso 19 giugno la Tunisia ha dichiarato ufficialmente la propria Zona di ricerca e salvataggio in mare (Sar), un’area che i paesi comunicano alle Nazioni unite per rendere più efficienti i recuperi delle persone in mare. Nei fatti, si tratta di un tassello fondamentale per l’Unione europea e i singoli Stati membri, impegnati da anni nel tentativo di esternalizzare le proprie frontiere marittime e affidare a paesi terzi il controllo del fenomeno migratorio. Nel corso degli anni Bruxelles e l’Italia in particolare hanno fornito mezzi, equipaggiamenti e tenuto corsi di formazione alla Garde nationale tunisina, il corpo securitario che si occupa delle operazioni marittime, per aumentare le capacità d’intervento e intercettazione. Oggi, in quel tratto di mare, anche attraverso le forniture messe a disposizione dalla sponda nord del Mediterraneo si moltiplicano le denunce nei confronti delle autorità di Tunisi, accusate da più parti di pratiche violente che hanno portato in alcuni casi alla morte diretta o indiretta di persone migranti di origine subsahariana. Accuse che vanno avanti da più di un anno, almeno da quando la Tunisia ha superato la Libia per numero di partenze lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Speronamenti volontari, furti di motori, accerchiamenti pericolosi che causano onde alte e l’instabilità delle precarie imbarcazioni in ferro utilizzate per la traversata, lancio di gas lacrimogeni, pestaggi con bastoni e mazze d’acciaio. È nei racconti e nelle testimonianze di chi sopravvive alle intercettazioni la chiave per interpretare e conoscere il volto più violento della Garde nationale, apparato che dipende dal ministero degli interni e che da un anno si sta rendendo anche protagonista delle espulsioni di massa di migranti subsahariani verso le zone desertiche al confine con l’Algeria e la Libia. In alcuni casi non c’è solo la voce diretta di chi racconta. Un’immagine satellitare - elaborata da Placemarks, progetto che analizza le immagini satellitari per evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali in corso nel continente africano - scattata la mattina del 6 aprile scorso del porto di Sfax, seconda città della Tunisia e zona dove si registra un alto numero di partenze, mostra circa 100 persone sdraiate o sedute lungo la banchina, di fronte ad alcune imbarcazioni della Garde nationale. Sono controllate a vista dalle autorità locali. Da lì a qualche ora la maggior parte di loro si troverà espulsa in Libia e rinchiusa nei centri di detenzione. “Per tutta la notte le persone sono rimaste distese senza vestiti, cibo e acqua”. Le parole sono di Ousman, originario del Gambia, che ha raccontato in tempo reale a il manifesto ciò che è successo quella mattina, dall’arrivo a Sfax fino all’espulsione nei pressi di Nalut, in Libia. Prima di interrompere le comunicazioni perché “sono venuti a prenderci”, Ousman ha raccontato che la sera del 5 aprile sono stati quattro i gruppi partiti in momenti diversi dalle coste di Sfax per un totale di quasi 200 persone. I primi tre sono stati intercettati dalla Garde nationale, mentre l’ultimo “ha fatto naufragio e so che ci sono stati 13 morti”. Un dato parzialmente confermato dalle stesse autorità che qualche giorno dopo hanno diramato un comunicato su Facebook elogiando le attività in mare di quel weekend di inizio aprile: “Nell’ambito della lotta al fenomeno della migrazione irregolare, nel fine settimana le unità galleggianti della Garde nationale sono riuscite a sventare 85 attraversamenti illegali delle frontiere marittime, a soccorrere e salvare 2.688 persone (2.640 africani subsahariani e 48 tunisini) e a recuperare 13 cadaveri”. “Non ho mai visto una barca colpirne un’altra volontariamente. Avevo sentito molte storie a riguardo ma è la prima volta che lo posso testimoniare con i miei occhi. Quella notte ho perso mia sorella, i miei nipoti e la moglie di mio fratello”. Ibrahim è originario della Sierra Leone, non conosceva Ousman ma molto probabilmente si sono visti al porto di Sfax quella notte. Il suo è un nome di fantasia, ancora oggi preferisce non svelare dove si trovi in questo momento nonostante siano passati mesi dall’accaduto. Non avevo mai visto una barca colpirne un’altra volontariamente. Quella notte ho perso mia sorella, i miei nipoti e la moglie di mio fratello. Era a bordo dell’ultimo gruppo di 42 persone partite la sera del 5 aprile ed è uno dei testimoni oculari della strage. Il suo racconto, insieme a quello di altri sopravvissuti, permette di accendere una luce diretta su un cono d’ombra che spesso avvolge questi naufragi. È da poco tramontato il sole quando 21 uomini, 13 donne e otto minori a bordo di un barchino in ferro lungo neanche otto metri lascia la costa di El Amra, zona a nord di Sfax dove da tempo migliaia di persone di origine subsahariana hanno creato campi informali dopo l’aumento delle violenze a sfondo razziale di una parte della popolazione tunisina e delle forze di sicurezza. Dopo pochi istanti, diversi gas lacrimogeni cadono ai lati o entrano a bordo del mezzo. Sono le forze dell’ordine tunisine che dalla costa stanno cercando di impedire la partenza dei migranti. Brevi attimi di panico che sembrano ormai alle spalle quando la costa con il passare dei minuti diventa sempre più piccola. Dopo un altro tratto di navigazione la situazione precipita. Due gommoni neri della Garde nationale tunisina raggiungono le 42 persone ed effettuano alcuni giri attorno all’imbarcazione generando un deciso moto ondoso. Il barchino comincia a destabilizzarsi, c’è chi implora i guardacoste di essere lasciati andare, chi si alza in piedi mostrando i minori presenti nella barca per pregare di non essere attaccati violentemente. Le richieste si rivelano inutili. Uno dei gommoni neri comincia a speronare la poppa dell’imbarcazione, l’uomo a bordo con una mazza di ferro colpisce le persone e tenta di rubare i motori, una pratica molto diffusa nelle operazioni di intercettazione. Un’azione che viene ripetuta almeno cinque volte e porta la piccola imbarcazione a rompersi. Nel giro di pochi minuti la barca si riempie di acqua e affonda. In un attimo si ritrovano tutti in mare aperto. La maggior parte di loro non sa nuotare. I due gommoni della Garde nationale sono ormai lontani decine di metri. L’equipaggio, due persone per ogni imbarcazione, decide di lanciare delle corde e poi riprendere con i telefoni quello che succede. Lo scenario è tragico: chi riesce a raggiungere le cime, si aggrappa e sale sui gommoni, in ogni caso troppo piccoli per ospitare 42 persone; chi non ce la fa a nuotare annega. Successivamente altre imbarcazioni delle autorità tunisine raggiungono i gommoni neri per prestare soccorso ai naufraghi: arrivano altri due gommoni bianchi, due imbarcazioni di media lunghezza e due navi da 35 metri, donate dall’Italia nel 2014. Attraverso foto d’archivio e i racconti di chi quella notte era a bordo dell’imbarcazione, il manifesto ha potuto ricostruire l’identità di 15 vittime, tra cui sette minori. Un lavoro che è stato possibile grazie anche allo sforzo di diverse associazioni che si sono mobilitate fin da subito: Refugees in Libya, Mem.Med-Memorie mediterranee e J&L Project. Sono due persone in più rispetto a quanto dichiarato dalla Garde nationale nel suo post su Facebook: la discrepanza tra i testimoni e le autorità è una prassi molto diffusa in questi casi. Molto spesso succede che le forze di sicurezza impediscano il riconoscimento dei corpi e non permettano di andare al di là dei semplici numeri. Il caso del 5 aprile è diverso e oggi 15 vittime hanno un nome e un volto: “In realtà siamo sopravvissuti solo in 18, tra cui un bambino di sette anni che ho aiutato a salire sul gommone - è il triste racconto di Ibrahim - Quando siamo arrivati nel porto ho chiesto ai guardacoste se potevamo fare delle foto ai corpi per mandarle alle nostre famiglie e informarle della loro morte. Mi hanno solo risposto “no”“. Parenti, amici, madri, mariti e mogli. È nelle testimonianze che si nasconde il dolore di chi in questi naufragi nel giro di pochi minuti perde una parte fondamentale della propria esistenza. Kominata (nome di fantasia, ndr) è incinta di cinque mesi, anche lei originaria della Sierra Leone. Ancora oggi non riesce a capacitarsi di quello che è successo: “Sono rimasta in mare quasi un’ora prima che qualcuno mi aiutasse. Quando sono riuscita ad aggrapparmi alla corda nessuno ha tirato per salvarmi. Intanto le persone annegavano. Io non ho più trovato mio marito e la maggior parte dei bambini è morta. Ora sono da sola e incinta”. Secondo i dati diffusi dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), negli ultimi anni le intercettazioni in mare hanno subito un progressivo aumento: dalle 13.466 del 2020 alle 48.805 del 2022 e le 80.636 del 2023. I migranti scomparsi in mare sono stati invece più di 1.300 nel 2023 e 341 a giugno del 2024. Si tratta di dati che non possono legarsi in maniera diretta alle pratiche violente della Garde nationale ma risuonano come un campanello d’allarme su possibili violazioni e naufragi su cui non si hanno elementi di ricostruzione. L’ong Alarm Phone, un progetto che si occupa di fornire supporto alle persone in difficoltà che attraversano il Mediterraneo, all’indomani dell’istituzione della zona di ricerca e salvataggio ha pubblicato Mare interrotto, una raccolta di 14 testimonianze che dal 2021 al 2023 raccontano sia i naufragi causati dalla Garde nationale sia il tipo di operazioni illegali compiute in mare delle autorità tunisine, in particolare nel tratto che da Sfax arriva a nord fino alla città di Mahdia e si estende fino alle isole Kerkennah. Sono racconti molto simili a quanto avvenuto la notte del 5 aprile, confermati anche da diversi video che hanno trovato diffusione sui social network dove si possono vedere attacchi diretti con bastoni e mazze e accerchiamenti volontari che causano l’instabilità dei barchini in ferro. All’interno di questo scenario di violenze e sofferenze, il ruolo dell’Unione europea e dei diversi Stati membri risulta evidente. A ottobre 2023, Bruxelles aveva all’attivo a favore della Tunisia più di 250 milioni di euro in materia di migrazione e controllo delle frontiere, di cui 144 milioni allocati per il rafforzamento delle capacità d’intervento delle forze di sicurezza. Il 16 luglio dell’anno scorso ne sono stati destinati altri 105 milioni all’interno del Memorandum of Understanding firmato al palazzo presidenziale di Cartagine alla presenza del presidente della Repubblica Kais Saied, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, la premier italiana Giorgia Meloni e l’ex primo ministro olandese Mark Rutte. Almeno 48 milioni verranno usati per equipaggiare il piccolo Stato nordafricano di nuove imbarcazioni, sistemi radar e fornire corsi di formazione alla Garde nationale sul rispetto dei diritti umani e internazionali. Interrogata sul tema, una portavoce di Bruxelles ha dichiarato che “la Commissione monitora i suoi programmi attraverso diversi strumenti, tra cui relazioni periodiche dei partner, valutazioni esterne, missioni di verifica e monitoraggi. Il rafforzamento delle capacità delle autorità tunisine finanziato dall’Ue, comprese le attrezzature e la formazione, viene fornito esclusivamente per gli scopi definiti nei programmi finanziati dall’Ue, nel pieno rispetto del diritto internazionale”. Nonostante queste parole, nelle operazioni che hanno causato il naufragio del 5 aprile potrebbero essere stati utilizzati due gommoni neri forniti dalla Germania, diverse imbarcazioni che dispongono di radar provenienti da programmi europei e due imbarcazioni da 35 metri donate dall’Italia nel 2014 e rimesse in efficienza negli anni successivi dal Cantiere Navale Vittoria nel porto di Adria, all’interno del programma del ministero degli affari esteri “Support to Tunisia’s border control and management of migration flows”. Si tratta di un fondo da 34 milioni di euro che prevede anche la futura fornitura di sette motovedette da undici metri e che dimostra quanto sia prioritaria oggi la Tunisia per l’Italia, almeno in ambito migratorio. “Se non stai salvando le persone, almeno non distruggere le loro vite”, è invece l’amara conclusione di Ibrahim. *Questo articolo è stato realizzato con il supporto di “Journalismfund Europe” Cannabis legale, il consenso di nuovi Paesi di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 17 luglio 2024 “Il cambiamento verrà quando i governi ignoreranno selettivamente parti delle Convenzioni”. Così alla fine degli anni Novanta Cindy Fazey, prestigiosa criminologa, aveva previsto ciò che poi è successo a partire dalla seconda decade di questo secolo. Un domino irrefrenabile, partito dall’Uruguay e dai primi Stati Usa pionieri delle regolamentazioni, arrivato in Canada e in Germania, e che continua a coinvolgere nuovi paesi. A fine maggio il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha firmato il Cannabis for Private Purposes Bill, che depenalizza il possesso, la coltivazione e l’uso personale di cannabis. L’approvazione della legge arriva dopo che nel 2018 l’Alta Corte Sudafricana aveva stabilito che l’uso privato di cannabis da parte di adulti è un comportamento costituzionalmente protetto. Circa il 13% degli arresti in Sud Africa è correlato alla cannabis: ora le fedine penali dei condannati per uso personale di cannabis dovranno essere ripulite. Un mese dopo, in Brasile, la Corte suprema ha invece sentenziato che il consumo personale di cannabis (fino a 40 gr.) non debba più essere perseguito penalmente. In Europa, la Slovenia ha approvato proprio lo stesso giorno delle elezioni europee due referendum consultivi sulla cannabis. Il primo per la produzione ad uso terapeutico, vinto con il 66% di favorevoli. Con il secondo, passato con un margine più stretto (52%), il governo sloveno ha invece chiesto ai cittadini se erano d’accordo sulla depenalizzazione dell’uso personale di cannabis. In attesa di conoscere come il governo vorrà declinare la proposta, è evidente che l’onda verde continua ad avanzare nel nostro continente. Infatti la Repubblica Ceca ha già aperto a primavera il dibattito sul testo di una nuova legge sulle droghe, che regolamenterà le sostanze a seconda del loro effettivo livello di nocività, e che prevede per la cannabis un regime di completa decriminalizzazione dell’uso personale e della sua coltivazione, anche in forma associata. Fra tante luci ci sono anche alcune ombre: in Thailandia il nuovo governo sta valutando come tornare indietro rispetto ad una riforma confusa che aveva rimosso la cannabis dalle tabelle delle droghe senza prevedere un sistema regolatorio. Quello che era uno dei paesi più proibizionisti del sud est asiatico - dove il 75% dei detenuti è in carcere per droghe - è diventato meta del turismo della cannabis, con un mercato stimato per il 2025 oltre i 12 miliardi di dollari. L’assenza di una qualsiasi regolamentazione ha reso la cannabis disponibile ovunque, senza controlli, dando così motivo alla nuova maggioranza di annunciare che entro la fine del 2024 sarà autorizzato esclusivamente l’uso terapeutico. Ma le richieste di implementare un più ragionevole sistema regolamentato sono presenti anche dall’interno della compagine governativa e il confronto è aperto. Se c’è chi ignora, o meglio “interpreta”, le Convenzioni sulle droghe (Uruguay, Canada e 25 stati Usa in testa), e chi sfrutta l’ampio margine di discrezionalità previsto sul consumo personale (Malta, Lussemburgo, Germania e Sud Africa), c’è anche chi ha un approccio diverso. In Svizzera il Cantone e la città di Zurigo e anche Basilea, Berna, Bienne, Lucerna, Ginevra, Liestal, Allschwil, Losanna stanno avviando sperimentazioni di fornitura di cannabis legale all’interno di studi scientifici affidati a Università e Centri di Ricerca, per verificare l’impatto dell’uso della sostanza. La possibilità di sperimentazioni scientifiche è esplicitamente ammessa dalle convenzioni internazionali, e anche dalla stragrande maggioranza delle leggi nazionali, Italia compresa. Una strada percorribile dai Comuni che fanno parte di Elide, la rete per una politica innovativa sulle droghe a livello locale, per aprire una sperimentazione sociale, nel nome del buon senso, delle evidenze scientifiche e della libertà.