Ancora un suicidio in carcere. Nel sistema al collasso torna l’incubo rivolte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 luglio 2024 Un detenuto di 37 anni si toglie la vita a Venezia: il bilancio della strage sale a quota 56. De Fazio (Uil-Pa) parla di “bollettino di guerra”. E i Garanti territoriali si riuniscono in Senato. La questione carceraria in Italia sta precipitando verso un punto di non ritorno. Un’impennata di suicidi, malori causati dal caldo torrido, sovraffollamento cronico e tensioni sfociate in dure proteste dei detenuti stanno portando il sistema penitenziario sull’orlo del collasso. Non si può fare a meno di pensare al rischio di un ritorno alle gravissime rivolte del marzo 2020, che provocarono decine di morti. E la repressione non è la cura, ma l’aggravante. Siamo drammaticamente arrivati a 56 suicidi dall’inizio dell’anno, con alcune stime non ufficiali che ipotizzano un numero ancora maggiore. L’ultimo episodio di questa tragica sequenza si è verificato domenica notte nella Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia. Un detenuto di 37 anni, originario di San Donà di Piave, è stato trovato impiccato nella sua cella. L’uomo, in carcere per reati legati allo spaccio di stupefacenti, si è tolto la vita utilizzando un lenzuolo. Nonostante i soccorsi immediati, non è stato possibile salvarlo. Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, descrive la situazione come un “bollettino di guerra”. A questi numeri già allarmanti, si aggiungono 6 suicidi tra gli appartenenti alla Polizia penitenziaria. “Una mattanza irrefrenabile”, la definisce De Fazio. Il quadro che emerge è quello di un’emergenza penitenziaria senza precedenti. I numeri sono impietosi: 14.500 detenuti oltre il massimo della capienza, 18mila unità mancanti nella polizia penitenziaria. Ma non sono solo i numeri a preoccupare. De Fazio elenca una serie di problemi che affliggono le carceri: “Omicidi, suicidi, proteste collettive e disordini frequentissimi, risse, stupri, aggressioni, incendi, devastazioni, evasioni, traffici di sostanze, telefonini e armi”. La frustrazione degli addetti ai lavori è palpabile. “Cos’altro deve accadere per suscitare un proporzionato intervento del Governo e del Parlamento?”, si chiede De Fazio. “Si aspetta una strage ancora più grave? Un’evasione di massa?”. L’incubo delle rivolte come nel 2020 - Le proteste dei detenuti stanno diventando sempre più frequenti. Un esempio recente è quello del carcere di Torino, quando i detenuti della settima sezione del padiglione B hanno appiccato un incendio nel locale utilizzato come barberia, poi i ristretti della sesta sezione hanno fatto lo stesso lanciando bombolette di gas incendiate, manici di scopa e altri oggetti verso i cancelli. “Abbiamo deciso di rompere cessi e lavandini così facendo le celle di pernottamento non saranno più agibili e quindi dovrà intervenire l’Asl per le condizioni n cui viviamo. Dobbiamo farci sentire”, rivendicano i detenuti tramite un video su Tik Tok. Anche nel carcere di Trieste nel tardo pomeriggio di giovedì è scoppiata una rivolta che si è protratta fino alle ore 23. Grazie all’intervento della Polizia penitenziaria e del Magistrato di Sorveglianza, la situazione è stata contenuta senza violenza. Tuttavia, quattro detenuti sono finiti in ospedale: uno per un malore e tre per la probabile ingestione di farmaci sottratti all’infermeria. Disordini simili si sono verificati anche a Firenze e Viterbo. Come sottolineato da Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, nelle carceri italiane si registra “un suicidio ogni tre giorni”. Una situazione che ha spinto il Presidente della Repubblica, quattro mesi fa, a lanciare un appello urgente per interventi mirati a ridurre le tensioni nel sistema penitenziario. Di fronte a questa situazione critica, i Garanti territoriali oggi hanno indetto una conferenza stampa presso il Senato con l’obiettivo di discutere le proposte sul tavolo. Hanno esaminato il recente decreto Carcere del governo e il Ddl Sicurezza, considerati dai Garanti come un pacchetto di misure inutili e gratuitamente repressive in materia penale, penitenziaria e nel diritto dell’immigrazione. La conferenza ha sottolineato l’urgenza di interventi immediati, anche temporanei, per alleviare la pressione sulla popolazione carceraria. Le proposte per fermare l’emergenza - Il dibattito sulle carceri italiane si inserisce in un contesto più ampio di riflessione sul sistema giudiziario e penitenziario del paese. Le proposte dei Garanti e le discussioni in corso in Parlamento, come la proposta di legge sulla liberazione anticipata promossa da Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, che sarà discussa mercoledì 17 luglio, potrebbero portare a importanti cambiamenti nelle politiche carcerari con l’obiettivo di garantire condizioni di detenzione più umane e un sistema più efficace nel reinserimento sociale dei detenuti. Il Consiglio generale dei Radicali ha approvato all’unanimità una mozione che dà il via a una campagna di denuncia delle condizioni “disumane e degradanti” nelle carceri italiane. L’iniziativa, che si rivolge al Presidente della Repubblica, alla Magistratura di Sorveglianza e al Ministro della Giustizia, prevede la presentazione di formali istanze di grazia e di sospensione delle pene per motivi umanitari. Il Partito Radicale denuncia il sovraffollamento, la mancanza di assistenza sanitaria e l’abbandono di detenuti con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza. Il documento invita il Parlamento a riprendere i lavori per una riforma penitenziaria e critica il DAP per la recente legge che sanziona le proteste nonviolente dei detenuti. La campagna prevede il coinvolgimento diretto dei detenuti e dei loro avvocati, che sono invitati a presentare istanze sulla base di formulari predisposti dal Partito Radicale. Strage dietro le sbarre, mai così tanti suicidi. “L’estate nelle carceri è già un inferno” di Gabriella Cerami La Repubblica, 16 luglio 2024 La media è di un suicidio ogni tre giorni. Il triste record è adesso: tre persone in tre giorni si sono tolte la vita in carcere. È successo negli istituti penitenziari di Verona, Monza e l’ultimo detenuto, un 37enne arrestato per rapina e che sarebbe tornato in libertà nel 2029, si è impiccato con un lenzuolo nella notte tra domenica e lunedì nel carcere di Venezia. Secondo i dati del Garante nazionale dei detenuti, nel 2024 sono 54 le persone, con un’età media di 40 anni, che hanno deciso di uccidersi dietro le sbarre. Sbarre troppo strette per chi deve viverci ogni giorno, troppo affollate e prive, spesso, di spazi essenziali. E il caldo estivo sta trasformando le celle in luoghi ancora più disumani, dove i più fragili soccombono: sei nei soli primi quindici giorni di luglio. Per Uil-pa, il sindaco della Polizia penitenziaria, i suicidi sarebbero ancora di più. Ne conta almeno 56 perché ci sono casi di carcerati che decidono di non mangiare e di non bere, chi per protesta, chi per lasciarsi morire. Sulla carta risultano deceduti per cause naturali e non tra coloro che hanno deciso di ammazzarsi. Ma differenza è sottile, mentre l’emergenza è altissima. Nei primi sei mesi e mezzo del 2023 i suicidi erano stati 37, significa che quest’anno sono aumentati del 50%. Ci sono anche casi in cui i detenuti hanno cercato di farla finita, ma la polizia penitenziaria ha evitato il dramma. Sono 800 a cui si aggiungono gli atti di autolesionismo. Una condizione drammatica a cui il decreto denominato “Carcere sicuro”, approvato dal governo, non pone alcun rimedio, limitandosi a snellire semplicemente alcuni aspetti burocratici. Il testo ha già iniziato il suo percorso parlamentare dalla commissione Giustizia del Senato, la cui vicepresidente Ilaria Cucchi di Avs, insieme al Pd, chiede al ministro Carlo Nordio di riferire in Aula su questo “inferno in terra, indegno di uno Stato di diritto”. L’eurodeputata Ilaria Salis, eletta con Avs, ricorda la sua storia vissuta in Ungheria: “Ho deciso di impegnarmi per portare fuori i vissuti di chi soffre nelle prigioni. Sono stata detenuta per oltre 15 mesi e ho fatto esperienza sulla mia pelle della logica punitiva e vendicativa del carcere”. Ieri i parlamentari di Italia Viva hanno visitato molti istituti penitenziari italiani, da Nord a Sud. A Roma si è unita anche una delegazione di +Europa. Sopralluoghi fatti alla vigilia del termine ultimo, fissato per oggi pomeriggio, per la presentazione delle proposte di modifica al decreto Carceri. Italia Viva ha depositato, sotto forma di emendamento, il testo a firma Roberto Giachetti che invece sarà discusso dall’Aula della Camera il 23 luglio. Si chiede di elevare la detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata, così da alleggerire il sovraffollamento delle prigioni, dal momento che oggi ci sono oltre 14 mila detenuti in più rispetto alla capienza. Le persone che devono scontare la loro pena in un carcere sono 61 mila a fronte di 51 mila posti ufficiali, che scendono a 47 mila se si considerano celle e padiglioni inagibili. È la fotografia di questi pozzi neri, diffusi in tutta Italia, dove le persone affidate allo Stato per scontare la loro pena vengono inghiottite. A Palazzo Madama i senatori di Forza Italia, unico partito della maggioranza che si è detto sensibile al tema, rimangono piuttosto tiepidi. Presenteranno alcune proposte di modifica ma rimanendo nel perimetro del decreto, per evitare anche frizioni all’interno del governo. Discorso diverso alla Camera, dove gli azzurri hanno già aperto al testo Giachetti chiedendo di escludere dallo sconto di pena dei 60 giorni i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e di genere. Una mediazione che può essere accolta, anche se la proposta di legge non avrebbe comunque i numeri necessari per essere approvata. Il vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio, l’azzurro Pietro Pittalis, è convinto che “sia necessario trovare soluzioni immediate. Nelle carceri c’è uno stillicidio continuo - dice - dobbiamo tenerne conto. La proposta del governo va nella direzione giusta ma richiede tempo, mentre oggi la realtà è drammatica”. Il testo Giachetti, secondo alcuni calcoli, farebbe uscire dal carcere, a stretto giro, fra le tremila e le quattromila persone grazie allo sconto di pena maggiore per buona condotta. Una boccata d’ossigeno per luoghi dove manca l’aria. L’invivibilità delle carceri e l’inesistente senso di responsabilità delle istituzioni di Emilia Rossi linkiesta.it, 16 luglio 2024 Si parla tanto di abolizione dell’abuso d’ufficio e del (finto) garantismo di Nordio, ma il dibattito pubblico sembra ignorare la partita più dura, tragica e vergognosa, del sistema della giustizia. Parliamo di cose serie e quindi, innanzitutto, piantiamola di discutere dell’abolizione dell’abuso d’ufficio e delle altre novità del ddl Nordio appena approvato definitivamente dalla Camera, magari cominciando a smetterla di definirla “riforma della Giustizia”. Ché di riforma sistematica non si tratta, ma di modifiche di alcune norme del codice penale e di altre del codice processuale che difficilmente avranno un impatto significativo sull’amministrazione della giustizia nel suo complesso. Modifiche condivisibili, alcune, come quelle che riguardano il reato di traffico di influenze illecite, l’inviolabilità delle comunicazioni tra imputato e difensore o i limiti alla pubblicazione delle intercettazioni. Ritocchi, altri, magari ispirati da un buon pensiero liberale, ma pieni di tante e tali eccezioni da far contenti gli uni e gli altri. Garantisti e giustizialisti, entrambi à la carte, come è tradizione di tutta la politica del Paese, tranne qualche voce di radicale minoranza. Per esempio, i cittadini travagliati dalla disinformazione sulle novità nell’applicazione delle misure cautelari, in particolare per il timore che l’interrogatorio preventivo funzioni come preavviso delle manette e favorisca la fuga, possono stare tranquilli: la garanzia non riguarda una serie vastissima di reati se c’è il rischio, pressoché sempre ravvisato, che vengano ripetuti, e in generale si applica solo se non c’è pericolo di fuga, appunto, o di inquinamento probatorio. Cioè più o meno mai, visto che queste sono due delle ragioni per cui si emette un ordine di custodia in carcere. I garantisti, invece, arriccino un po’ il naso, per favore: non tanto per la minima portata di questa novità sul piano delle garanzie, ma soprattutto per il condizionamento sull’interrogatorio, cioè sul principe degli strumenti di difesa, determinato dalla prospettiva che a seconda di come si risponde si va in carcere o no. Per non dire dell’abolizione dell’appello del Pm in caso di sentenze di assoluzione in primo grado: ottima l’idea, che vanta il coraggioso precedente del 2006, subito abbattuto dalla Corte costituzionale, e dà attuazione concreta al principio scritto pure nel nostro codice, per cui si può condannare solo se la colpevolezza risulta al di là di ogni ragionevole dubbio, come non può essere se un giudice pronuncia una sentenza di assoluzione. Però, a differenza di quanto prevedeva la legge Pecorella, la regola vale solo per i reati di competenza del giudice monocratico, cioè per casi in cui gli appelli del pm sono una rarità che si annota sul diario delle esperienze speciali di ogni avvocato. E la conquista di bandiera di questa riforma, particolarmente a cuore del ministro Carlo Nordio? L’abuso d’ufficio non ha fatto in tempo a essere espulso dal codice penale che, subito, sul binario parallelo del dl carcere sicuro, è stato sostituito dal papocchio giuridico del mini-peculato per distrazione. E in ogni caso la presidente della Commissione giustizia del Senato, Giulia Bongiorno, ha assicurato che sono allo studio nuove forme di tutela dei cittadini dai comportamenti prevaricatori dei pubblici ufficiali. Nuovi reati, insomma: possiamo stare tutti tranquilli, anche perché l’invenzione di fattispecie di reato è la specialità di questa legislatura. Se vogliamo parlare di cose serie, parliamo di carcere, invece. Perché è lì che si gioca la partita più dura, tragica e vergognosa, del sistema della giustizia del nostro Paese in questo momento. Perché la giustizia non si esaurisce con il processo, anzi: ha il suo momento di realizzazione più fortemente rappresentativo della pretesa punitiva che la legittima proprio nell’esecuzione della pena. E di quella in carcere in modo particolare, visto che in questo caso lo Stato è responsabile della vita, dell’integrità, della dignità e anche della riabilitazione alla vita libera della persona che “custodisce”. E perché il garantismo, la cultura dei diritti nel rapporto tra cittadini e Stato, è un pensiero integrale, come quello liberale con cui preferibilmente si accompagna: o è o non è, non può essere applicato al processo e dimenticato sull’uscio delle galere e viceversa. Allora, cominciamo con dire che di fronte all’emergenza che si sta vivendo oggi nelle carceri italiane, che ribollono di presenze oltre il centotrenta per cento dei posti disponibili, di celle infestate da insetti e immerse nella sporcizia e nel caldo, di promiscuità costrette tra water e tavolo da pranzo, di disperazione e senso di abbandono che hanno prodotto cinquantasette suicidi a oggi dall’inizio dell’anno, di proteste dei dannati di questa inciviltà scandalosa che si stanno diffondendo ovunque, il dl carcere sicuro non è un provvedimento serio. Perché non incide minimamente su questa emergenza e, a tutto voler concedere, prospetta misure migliorative per il reinserimento sociale dei condannati e un parziale incremento del personale penitenziario che si vedranno concretamente in pratica tra anni, certamente non in tempi migliori se le cose andranno avanti così. Mentre la semplificazione della procedura di concessione della liberazione anticipata non solo non ha, volutamente, alcun effetto di riduzione delle presenze in carcere, ma, stando anche a quanto rappresentato da magistrati di sorveglianza e giuristi nelle audizioni avanti alla Commissione giustizia del Senato, andrà a rendere tutto più complicato e impraticabile, oltre a escludere la valutazione concreta e tempestiva dell’effettiva partecipazione del condannato al percorso di riabilitazione. E sempre se vogliamo tenere il registro rigoroso della serietà, smettiamola di sventolare, se non sul piano degli appelli ai princìpi, la bandiera dell’amnistia e dell’indulto: non verranno mai approvati, questi provvedimenti. E mica perché questo Parlamento è securitario, repressivo, giustizialista, di destra: non li ha voluti mai nessun Parlamento e nessuna maggioranza, democratica compresa, dal 1991 in poi. Da quando, cioè, all’unanimità (quasi) assoluta il Parlamento ha modificato l’art.79 della Costituzione consegnando amnistia e indulto all’accordo della maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ogni Camera, più di quello della sola maggioranza assoluta prevista per una legge di riforma costituzionale. Forse quei legislatori del novembre del 1991 non potevano prevedere lo tsunami giudiziario e politico che da lì a poco avrebbe travolto l’Italia, dando vita all’era del giustizialismo trasversale, coltivato negli anni, a sinistra e destra, nell’inseguimento del consenso elettorale, nutrito di pane securitario e carne antipolitica. Sta di fatto che quella maggioranza qualificata non si è mai vista, come non si sono visti più da allora provvedimenti di amnistia e indulto e nessuna forza politica consistente se ne è mai fatta promotrice. La cosa seria può avvenire solo il 23 luglio, quando andrà in discussione alla Camera la proposta di legge Giachetti sull’estensione della liberazione anticipata: unico strumento concretamente efficace per risolvere l’emergenza del sovraffollamento delle carceri che porta con sé il disastro sociale e umano ormai evidente a tutti, pure in Europa. Una cosa seria, concreta e possibile finalmente, senza scomodare rivoluzioni di sistema e grandi riforme della giustizia. Certo, è necessario uno strumento molto impegnativo, a tratti impopolare: il senso di responsabilità. “In cella non si vive più”. L’estate delle rivolte in carcere, postate anche su TikTok di Viola Giannoli La Repubblica, 16 luglio 2024 Sul pavimento del corridoio lurido e umido tra le celle arrugginite e i muri scrostati giacciono pezzi di lavandini, cessi sventrati, coperte bruciacchiate, bombolette del gas rovesciate a terra, bucce di frutta marcia, cartoni, plastica, vestiti. L’eredità dell’ultima rivolta nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino - 1.488 detenuti su 1.101 posti disponibili - l’hanno vista tutti. Ripresa di nascosto con un cellulare che un recluso non potrebbe avere ma ha e postata su TikTok. “Noi ragazzi di Torino abbiamo deciso di rompere i cessi e i lavandini. Così le celle non saranno più agibili e dovranno intervenire l’Asl e la Cedu per le condizioni in cui viviamo. Dobbiamo farci sentire”, scrive il detenuto sotto al filmato. È il segnale della sommossa, lanciato oltre quelle mura. Un episodio su cui ora indaga pure la Procura. Al Lorusso e Cutugno va avanti per tre giorni, dall’incendio della barberia con quattro agenti intossicati ai sanitari sfasciati e buttati in corridoio. Fino al ferimento di un quinto poliziotto, l’altro ieri sera, colpito in testa dalla bomboletta di un fornello scaraventata dai detenuti della decima sezione. Per l’Osapp “la situazione è fuori controllo”. Per la garante cittadina Monica Gallo “quel carcere andrebbe chiuso e ristrutturato”. Intanto da lì gli unici a uscire sono i video su TikTok. In poche ore ne spuntano altri, da altre prigioni, che gridano “libertà”, “amnistia”, “indulto”. Domenica a Ivrea e a Pescara, dove il Sappe denuncia la presenza di 150 carcerati in più del tollerabile, due detenuti hanno aggredito altrettanti agenti della penitenziaria colpendoli alla testa. A Vercelli il nubifragio di venerdì scorso ha allagato le celle scatenando la rabbia dei reclusi: per sedare la rivolta altri poliziotti della penitenziaria - sempre tropo pochi per gestire la normalità figuriamoci le crisi - sono stati dirottati qui da altri istituti. A Cuneo i sindacati di polizia raccontano di turni massacranti, anche di venti ore di fila; nell’ultima maxi rissa per il controllo interno del carcere sei detenuti sono finiti in ospedale, nessuno riusciva a fermarli. Le urla e le fiamme di sabato scorso nel carcere di Trieste si sono viste anche dalla strada: sovraffollamento, igiene scarsissima e caldo brutale, come ogni estate. I carcerati hanno svaligiato l’infermeria, l’antisommossa è entrata tra le celle, lacrimogeni e scontri. Il giorno dopo un detenuto è morto, probabile overdose, non verrà conteggiato tra i 54 suicidi di questa prima metà d’anno. È “la polveriera sociale delle carceri italiane” di cui parlano le Camere penali che descrivono le prigioni come “luoghi ormai invivibili” in cui spesso manca tutto. Su 99 istituti ispezionati lo scorso anno dall’associazione Antigone in quasi un terzo non erano garantiti i 3 metri quadrati a testa a cui si ha diritto, in 48 non c’erano le docce, in 6 si dorme guardando il wc sistemato in un angolo tra le brande, in 9 c’erano celle senza riscaldamento, in 47 celle senz’acqua calda. D’altronde c’è persino un magistrato di sorveglianza, su cui ora il Garante dei detenuti Maurizio D’Ettore ha avviato accertamenti, che sostiene non sia “un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Succede a Firenze, a Sollicciano, dove i reclusi hanno inoltrato più di cento ricorsi per le condizioni disumane. È scoppiata lì la prima rivolta di questa incendiaria estate, il 5 luglio, dopo il suicidio di un ventenne tunisino. Alla sommossa sono seguite quelle al Mammagialla di Viterbo, Trento, Vercelli, Brissogne: reparti devastati, materassi bruciati, agenti feriti. Le ragioni sono sempre le stesse: chi finisce dietro le sbarre in più di un caso su 10 ha una diagnosi psichiatrica grave, e poi in cella fa troppo caldo (o troppo freddo), ci si sta stretti, nella metà delle prigioni manca un medico, ci sono bande in guerra, 24 ore sono lunghe se non c’è quasi nulla da fare. Dice il report del Garante dei detenuti che non c’è peggio di San Vittore: cinque reclusi per ogni gabbia in cui dovrebbero starcene due. Tra Milano e Brescia la Lombardia detiene il record nero del sovraffollamento. Chi gira negli istituti racconta il resto. I deputati di Italia Viva sono stati ieri a Roma, Palermo, Milano, Civitavecchia. E ovunque hanno visto che “si sta stipati in celle malmesse con vuoti d’organico”. Al Beccaria minorile, dove 21 agenti sono stati arrestati o sospesi per violenze ed è poi arrivata l’inevitabile rivolta con evasioni, proteste e incendi, “la situazione è ancora difficile”, dicono Ivan Scalfarotto e Luigi Marattin, pure se sono arrivati altri uomini e finanziamenti. A Regina Coeli Roberto Giachetti ha visto letti a castello triplo, montati uno sopra l’altro: “L’ultimo respira con la bocca attaccata al soffitto”. All’Ucciardone, dice Davide Faraone, “le condizioni sono esasperate, lì dentro non c’è alcuna dimensione umana, non c’è alcuna possibilità di riscatto e nemmeno di un futuro diverso”. È così che si accende una rivolta. Carceri, i Garanti vogliono il ddl Giachetti di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 luglio 2024 A Venezia il 56esimo suicidio. Il portavoce della Conferenza nazionale Ciambriello al ministro Nordio: “Ascoltate le nostre proposte”. È una bocciatura definitiva e senza appello, quella che gli 86 Garanti territoriali dei detenuti pronunciano contro il decreto governativo “Carcere sicuro” per il quale scadono oggi i termini di presentazione degli emendamenti in commissione Giustizia del Senato, dove è appena iniziato l’iter di conversione in legge. Mentre negli ultimi giorni si è registrata un’ulteriore sequela di suicidi in carcere, arrivando al nuovo record di 56 dall’inizio dell’anno - per ultimo, il 37enne Alessandro Girardi, che scontava una pena per spaccio e si è impiccato con un lenzuolo nella sua cella della Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia -, e mentre si moltiplicano le “manifestazioni di disperazione che troppo spesso la stampa chiama a sproposito “rivolte”“, la Conferenza nazionale dei garanti presieduta dal Garante campano Samuele Ciambriello mette un punto fermo in una conferenza stampa al Senato. E stila un elenco di proposte e richieste, prima tra tutte quella rivolta al ministro Nordio affinché ascolti coloro che hanno per compito “uno sguardo intrusivo” nell’universo detentivo. Nell’immediato però la Conferenza chiede al parlamento di approvare uno degli emendamenti correttivi al testo - presentati dal Pd o da Avs - che inglobano il ddl Giachetti per la liberazione anticipata speciale (da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata), l’unica proposta esistente per “porre fine a questa inutile strage”, come afferma Stefano Anastasia. Il Garante Regionale del Lazio parla infatti di “situazione senza precedenti”: la popolazione detenuta è cresciuta in un anno di 4 mila unità, tornando ai numeri del 2014 (oltre 61 mila, con tassi di sovraffollamento medio del 129%), quando l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti umani con la sentenza Torreggiani. “Ma allora la tendenza - ricostruisce Anastasia - era di segno inverso: in decrescita, per effetto delle misure adottate in seguito allo stato di emergenza dichiarata dal governo Berlusconi V. Oggi invece il trend di affollamento è in crescita”. Ma alleggerire non sarebbe difficile: attualmente in carcere ci sono 8341 detenuti con un residuo di pena inferiore ai sei mesi, 7027 con meno di un anno e 21.075 con una pena inferiore ai 3 anni. A nome di tutti i Garanti (escluso il Garante nazionale D’Ettore), Ciambriello definisce “minimale, inadeguato e vuoto” il decreto legge approvato in Cdm il 4 luglio: “Quasi un uso fraudolento della decretazione d’urgenza”. Infatti come fa notare la Garante comunale di Parma, Veronica Valenti, “nessuna norma di questo decreto può essere immediatamente applicata. Neppure quella che porta da 4 a 6 il numero di telefonate, in quanto necessita di linee guida. Mentre già ora i direttori possono decidere di concedere ai detenuti più contatti con i familiari”. E neppure l’articolo che prevede un albo delle comunità d’accoglienza per detenuti tossicodipendenti senza abitazione idonea ai domiciliari: bisognerà infatti aspettare un anno per avere, a regime, “solo 206 posti in tutta Italia, secondo la relazione finanziaria annessa al decreto”, come fa notare il Garante della Liguria, Doriano Saracino. Tanto meno immediatamente applicabile, come ha già scritto il manifesto, è la norma che stabilisce nuove assunzioni di polizia penitenziaria: oltre che insufficienti, non ci saranno prima di due anni. “Indefinita” invece, secondo la Conferenza, e perciò senza incisività, la supposta “facilitazione”, di cui parlava Nordio dopo il Cdm del 4 luglio, dell’iter per la normale liberazione anticipata. “Oggi - riferisce Saracino - in molte Regioni i detenuti sotto i 25 anni superano il 25%”, e a fronte della mancanza di “almeno mille educatori professionali” e mediatori culturali, si registra la totale disattenzione alle scuole e al contempo l’uso spasmodico di una politica dei trasferimenti a fine punitivo “che è deleteria”. “Anche la giustizia minorile è al collasso”, aggiorna Valentina Calderone. E le cause vanno ricercate nel decreto Caivano e in quell’ossessione punitiva delle leggi sugli stupefacenti, “uno dei principali fattori criminogeni”, come sottolinea la Garante del comune di Roma. Bruno Mellano, Garante regionale del Piemonte, ci tiene ad aggiungere personalmente due parole alle richieste della Conferenza nazionale: “Amnistia e indulto”. Perché, come incalza Calderone rispondendo a Nordio, non sono “una resa dello Stato ed è grave definirle così perché si tratta di misure inserite nella Costituzione. È l’ignavia del governo ad alimentare l’emergenza nelle carceri di Roberto Giachetti* Il Foglio, 16 luglio 2024 Se l’esecutivo non vuole nemmeno discutere del sovraffollamento, non ci resta che far valere l’articolo 40 del codice penale. Se continuiamo a far finta di non capire che stiamo parlando dei rimedi a una emergenza, e non delle scelte strategiche per migliorare il sistema carcerario, il risultato non potrà che continuare a essere quello di un dibattito inconcludente e pieno di falsità. L’emergenza è quella del sovraffollamento carcerario con punte in alcuni istituti che raggiungono il 250 per cento, con una presenza attuale di oltre 61.000 detenuti a fronte di una capienza effettiva di circa 47.000 posti. Questa emergenza vede nei 57 suicidi di detenuti nei primi sei mesi dell’anno, ai quali vanno aggiunti i sei agenti di polizia penitenziaria, la punta dell’iceberg del dramma che si consuma nelle nostre carceri ma in realtà il dramma è molto più complesso. Basti pensare che nello stesso periodo ci sono stati più di 800 tentativi di suicidio sventati solo grazie all’impegno della polizia penitenziaria, nonché migliaia di atti di autolesionismo. Ma c’è anche un altro elemento fondamentale da mettere in rilievo e cioè che il sovraffollamento, accompagnato dalla grave carenza di organico del personale di polizia penitenziaria, impedisce o limita spesso e volentieri il pieno esercizio di alcuni preziosi diritti dei detenuti. Si pensi all’ora d’aria (cioè al tempo da trascorrere fuori dalle celle), alle attività, al lavoro nei laboratori. Il sovraffollamento in buona sostanza pone lo stato fuori legge perché viola apertamente l’articolo 27 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). Parlare di situazione di illegalità non è un’esagerazione. È tecnicamente così e a sancirlo sono gli stessi magistrati di sorveglianza ogni qual volta accolgono un ricorso di un detenuto e lo risarciscono, anche attraverso uno sconto di pena. Il presupposto di questo risarcimento è che la detenzione sia avvenuta in condizioni inumane e degradanti e quindi in aperta violazione della Costituzione. Le identiche motivazioni con le quali la Cedu dieci anni fa condannò l’Italia con la famosa sentenza Torreggiani. Quella sentenza chiedeva all’Italia due cose precise: intanto la riduzione immediata delle presenze (tant’è che fu fatta la legge sulla liberazione anticipata speciale) ma poi, e soprattutto, che fossero rimosse le cause che rendevano la detenzione inumana e degradante. È proprio su questo punto che da allora sostanzialmente nulla è stato fatto (per essere chiari da tutti i governi che si sono succeduti) tant’è che alla fine del 2024 se non si interviene urgentemente saremo più o meno ai livelli di sovraffollamento che ci procurarono la condanna Cedu. Perché ho fatto questa premessa? Perché il cancro da affrontare è quello del sovraffollamento. È da quello che poi derivano tutti i problemi di cui si parla. In presenza di numeri così alti è letteralmente impossibile garantire che sia attuata quella volontà del costituente per la quale il carcere non ha solo un valore punitivo ma anche rieducativo. Certo, sappiamo tutti che se gli istituti penitenziari fossero alleggeriti dei detenuti che in carcere non ci dovrebbero stare la situazione di emergenza d’un tratto non esisterebbe più. Se pensiamo che un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio (e la nostra Costituzione dice che in galera ci si dovrebbe andare solo dopo sentenza definitiva salvo eccezioni motivate e che in realtà ormai l’eccezione è divenuta la regola), che i detenuti legati alle tossicodipendenze dovrebbero trovare trattamento nelle comunità e non in galera e ancor di più la questione vale per quel che riguarda i detenuti con problemi psichici, certo che allora tutto sarebbe diverso. Ma non è così. E allora che fare? Restiamo ad assistere indifferenti all’autentica strage di vite umane che si realizza tra le sbarre dei nostri istituti penitenziari o mettiamo in campo delle norme che affrontino l’emergenza e dunque il sovraffollamento? Servono azioni immediate tenuto anche conto che i mesi di luglio, agosto e settembre sono micidiali con il caldo torrido che avanza. La proposta di legge scritta insieme a Rita Bernardini e all’Associazione Nessuno Tocchi Caino è l’unica proposta in campo che va in questa direzione, l’unica che consente di alleggerire subito i numeri nelle carceri. Mente chi afferma che è uno svuotacarceri o peggio un’amnistia mascherata perché noi agiamo su una legge già esistente. La legge per la liberazione anticipata è in vigore dal 1975. Originariamente prevedeva una detrazione di pena di 20 giorni ogni sei mesi di detenzione per tutti quei detenuti che avevano mantenuto una buona condotta nel rispetto dei regolamenti del carcere e che avevano seguito il percorso trattamentale. Nel 1986, con la legge Gozzini (una delle riforme più importanti e riuscite del sistema carcerario) i 20 giorni furono portati a 45. La nostra proposta si limita semplicemente, a quasi quarant’anni dalla Gozzini, ad aumentare i giorni di premialità da 45 a 60. Quindi non ci inventiamo nulla di nuovo, ma semplicemente agiamo su una legge già esistente e secondo lo spirito che la animò per ottenere un allentamento del sovraffollamento. Chi è contrario a questa norma o è in malafede o è incoerente, perché allora invece di contrastare la nostra iniziativa dovrebbero abrogare la legge che è in vigore e che già consente una premialità di 45 giorni ogni sei mesi. Vorrei chiedere al ministro Nordio: davvero la resa dello stato si realizzerebbe nel concedere 30 giorni in più all’anno di sconto pena? O non è invece vero che la resa dello stato si realizza assistendo inermi allo stillicidio di suicidi (praticamente uno ogni due giorni) che ci sta accompagnando dall’inizio dell’anno? Davvero il ministro e il governo possono pensare di cavarsela con un decreto legge (quello in discussione al Senato) che contiene misure che, a prescindere dalla valutazione sulla loro bontà, non hanno alcuna incidenza sull’emergenza sovraffollamento, tanto da non citarlo neanche nel testo in discussione? Ma è mai possibile che per pure logiche, tristemente muscolari, all’interno della maggioranza non si ascoltino le voci che arrivano praticamente da tutti i protagonisti della vita pubblica che in qualche modo interagiscono con il sistema carcerario? Dalle audizioni in commissione al dibattito pubblico e mediatico praticamente tutti dicono che, lungi dall’essere la soluzione strutturale ai mali del sistema carcerario, la nostra proposta è l’unica che ha il merito di affrontare l’emergenza per almeno ridurla. Lo dicono i sindacati della polizia penitenziaria, lo dicono molti magistrati di sorveglianza, lo dice il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, lo dicono i garanti dei detenuti di tutta Italia, lo dicono le associazioni di volontariato che si dedicano al carcere, lo dicono le Camere penali, lo dicono gli educatori, gli psicologi. E allora perché questa opposizione ideologica a una proposta da tutti giudicata di buon senso? Ma vorrei dire di più: non volete aderire alla nostra proposta? Benissimo allora intanto bocciatela. Non scappate, non fate slittare come state facendo il voto di settimana in settimana. Assumetevi la responsabilità di bocciarla. Poi però avete il dovere di mettere in campo voi una proposta che abbia la stessa capacità di incidere sull’emergenza e dovete farlo subito perché la situazione drammatica nelle carceri non consente più a nessuno di cincischiare. Insieme a Rita Bernardini abbiamo fatto decine di giorni di iniziative non violente, come nella tradizione radicale, con assoluto spirito di dialogo nei confronti del governo e della maggioranza, ci siamo messi a disposizione per qualsiasi tipo di mediazione purché fosse volta a migliorare il testo e soprattutto a garantire che andasse in porto. Abbiamo acconsentito alle continue richieste di rinvio per dare il tempo alla maggioranza di trovare una linea unitaria. Sembra non essere servito a nulla, sembra che (a eccezione di Forza Italia - va dato atto - e mi auguro che ancora in queste ore sia loro possibile assicurare un cambiamento di linea da parte dell’esecutivo) al governo non interessi proprio affrontare e almeno arginare l’emergenza. Spero di sbagliarmi. Però io sul voto non mi arrendo: non consentirò alla maggioranza di scappare dalle loro responsabilità. Io voglio che ci sia un voto del Parlamento anche perché, fallita la battaglia politica, penso sia doveroso spostarsi sul piano giudiziario. C’è un articolo del nostro Codice penale che dice che “non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire è uguale a cagionarlo”. Se questo vale per il singolo ritengo che valga ancor di più per lo stato, nelle cui uniche mani sono consegnati coloro che vengono ristretti. Il ministro conosce benissimo la situazione, sa bene che il sovraffollamento è causa della gran parte dei suicidi, sa perfettamente che lo stato che non interviene con norme immediate per ridurre il sovraffollamento è tecnicamente fuori legge. E allora, a mio avviso, l’art. 40 del Codice penale non può che diventare il passo successivo. *Deputato di Italia Viva Suicidi in carcere: se non ti accorgi che c’è un problema sei parte del problema di Saverio Tommasi fanpage.it, 16 luglio 2024 Sembra che le morti in carcere facciano ormai parte del sistema, come i buchi per le ciambelle, e nessuno voglia farci niente. Sono 56 morti dall’inizio dell’anno, più due se ci aggiungiamo quelli che si sono lasciati morire di fame. Il penultimo, invece, si è soffocato con un sacchetto di plastica; quello di stanotte si è impiccato con il lenzuolo. Ho deciso di scrivere un articolo sui suicidi in carcere, l’ho deciso ieri, era domenica. Perché 55 suicidi dall’inizio del 2024 sono un numero impressionante. Anche uno sarebbe troppo, ma 55 sono 55 volte troppo. Mi sono svegliato oggi, lunedì, e un’altra persona detenuta si era ammazzata in carcere, questa notte, impiccandosi con un lenzuolo, così sono diventate 56 persone che dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita in carcere. Non ci si può distrarre un momento, e qualcuno s’ammazza. Lo Stato, ad esempio, è distratto in modo perenne, guarda sempre da un’altra parte. Sarà l’estate, gli uccellini che cantano, il mare, le distrazioni sono tante ma è così tutti gli anni, tutto l’anno. Sembra che le morti in carcere facciano ormai parte del sistema, come i buchi per le ciambelle. “Se non soffri non è un carcere”, urla la vulgata più bassa. E allora se non c’è l’aria condizionata, se in cella le temperature d’estate possono superare i 40 gradi, sembra normale a quasi tutti. Sembra normale il cibo di bassa qualità, o insufficiente. La “casanza”, cioè quello che “offre la casa”, così le persone detenute chiamano il cibo della mensa. Sembra normale rimanere con la fame, e dover integrare quel cibo comprando qualcosa di tasca propria al “bettolino”, lo spaccio del carcere, se si hanno soldi a sufficienza, sia chiaro. E quasi sempre siano comunque disponibili al “bettolino” solo cibi di bassa qualità, quasi solo snack e dolciumi, zeppi di zuccheri. Sembra normale che più di qualcuno, in carcere, si suicidi. Sembra normale che le persone detenute, in carcere, abbiano servizi igienici senza acqua calda, senza doccia e senza bidet, neanche per le donne. E allora non stupiamoci se qualcuno decide di farla finita. Alle 56 persone che si sono uccise in cella in questi primi sei mesi e mezzo dell’anno, dobbiamo aggiungere due morti per fame, si rifiutavano di assumere cibo per protesta. Sarebbero perciò 58, se consideriamo anche loro. Secondo Luigi Manconi, il numero delle persone detenute che si suicida, è sottostimato. Ad esempio le amministrazioni penitenziarie tendono a classificare alcuni fatti volontari come involontari. Pensate che tra i detenuti esiste la pratica dell’inalare il gas delle bombolette per alimenti, come droga per “sballarsi”. Se un detenuto muore in queste circostanze sarà un’overdose involontaria, o la conseguenza di una scelta? L’amministrazione penitenziaria lo considera spesso un atto involontario. In carcere si muore impiccandosi con il lenzuolo, oppure, come due giorni fa, soffocandosi con un sacchetto di plastica. Nordio: “Suicidi un flagello imprevedibile. Accordi con gli altri Stati per sfoltire le carceri” di Mauro Favaro Il Gazzettino, 16 luglio 2024 Il titolare della Giustizia interviene sul tema, dopo che un 37enne si è impiccato nella casa circondariale di Venezia. “Il suicidio in carcere purtroppo è un flagello molto difficile da prevenire. Abbiamo già stanziato 5 milioni per l’aiuto psicologico. Rispetto al sovraffollamento, poi, si dovrà intervenire sulla limitazione della carcerazione preventiva. I detenuti in attesa di giudizio arrivano al 30%. Vuol dire 15mila persone. Una loro diminuzione sarebbe già utile. Inoltre stiamo spingendo molto sulla possibilità di stringere accordi con Stati esteri. È lo stesso problema che ha la Gran Bretagna. Il 50% dei nostri detenuti è straniero. L’immigrazione molto intensa ha provocato, è statistica, non certo razzismo, un’esplosione nelle carceri di detenuti molto differenziati”. A parlare è Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia interviene così dopo il suicidio di un 37enne di San Donà nella casa circondariale di Venezia. Ormai si va verso i 60 suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Numeri che spingono Nordio a una riflessione generale sulle condizioni di vita di chi è dietro alle sbarre. Il primo punto è l’assistenza psicologica. “Il suicidio è uno degli elementi più misteriosi della psiche umana - sottolinea il ministro - quello nelle carceri ci riguarda da vicino e cerchiamo di affrontarlo essenzialmente con l’aiuto psicologico. Abbiamo già stanziato 5 milioni per assumere e retribuire professionisti della psicologia. È necessario capire quali possono essere i segnali d’allarme”. Quanto pesa il sovraffollamento? “Il rapporto tra causa ed effetto del cosiddetto sovraffollamento non è poi così sicuro. Ci sono stati casi negli anni scorsi in cui le carceri erano più sovraffollate e ci sono stati meno suicidi, e viceversa - nota Nordio - certo, il sovraffollamento resta un altro problema enorme che stiamo affrontando. Senza però arrivare ad aprire le carceri in modo indifferenziato, altrimenti la certezza della pena e l’autorevolezza dello Stato verrebbero diminuite. Chi si trova in carcere è lì per un provvedimento della magistratura”. Ma c’è anche il nodo della carcerazione preventiva. Il ministro sottolinea che praticamente il 30% dei detenuti è in attesa di giudizio. Da qui l’idea di limitarla. “Anche perché spesso queste carcerazioni si rivelano ingiustificate”, dice. L’auspicio, infine, è di stringere al più presto accordi con Stati esteri in modo che i detenuti stranieri possano scontare la pena nel Paese d’origine. “Va però anche detto che, a conferma del mistero della mente umana, spesso le persone che si suicidano sono addirittura in procinto di essere liberate. Non si trovano nelle condizioni peggiori - conclude Nordio - questo fa riflettere. Ferma restando tutta la nostra attenzione sull’aiuto psicologico e sul controllo nell’ambito delle carceri, il suicidio è uno di quei flagelli difficilissimi da prevenire. Non significa essere inconsapevoli, negligenti o assenti. Il problema è di una difficoltà immensa. Ce la metteremo tutta per evitarlo o, quanto meno, per ridurlo”. Giachetti (Italia Viva): “Pronti a denunciare il ministro Nordio se non fa nulla per le carceri” di Angela Stella L’Unità, 16 luglio 2024 Ormai il bollettino di morte nelle carceri è giornaliero: “Originario di San Donà di Piave, 37 anni da poco compiuti, detenuto per vari reati connessi allo spaccio di stupefacenti, nella notte è stato trovato impiccato con il lenzuolo nella sua cella della Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia - ha reso noto Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria -. A nulla sono valsi i soccorsi. Salgono così a 56 i morti suicidi in quello che appare come un bollettino di guerra, ma che è invece il tragico conteggio di persone nelle mani dello Stato e che lo Stato non riesce a tutelare. A questi bisogna poi aggiungere i 6 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Una mattanza irrefrenabile”. Come denuncia anche l’associazione Antigone “9 suicidi solo nei primi 15 giorni di luglio. Più di uno ogni due giorni. Il più giovane, a Pavia, aveva 19 anni, il più anziano, a Potenza, 81. Da inizio anno siamo arrivati già a 56 casi di suicidio. Dal 1992 ad oggi, quindi in 31 anni, solo 11 volte a fine anno il numero era stato superiore a questo, solo che stavolta è stato raggiunto in poco più di 6 mesi. Di questo passo, a fine anno, potremmo registrare oltre 100 casi, andando ben oltre il tragico primato del 2022 quando furono 85. C’è bisogno di agire immediatamente”. Si sta ovviamente parlando, tra l’altro, della pdl di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata. Lo stesso parlamentare di IV ha confermato che la discussione della pdl sulla liberazione anticipata è stata rinviata al 23 luglio: “Se questa legge non passerà alla Camera né come emendamento al decreto carcere al Senato siamo pronti a denunciare il Ministro Nordio perché se non prende le decisioni concrete per impedire quello che accade nelle carceri, può esserne ritenuto responsabile. L’articolo 40 del Codice penale recita che non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo. Le persone che si suicidano in carcere sono consegnate allo Stato”. Per Nessuno Tocchi Caino “sono cifre da strage di Stato. In attesa che il Parlamento decida sull’unica proposta di legge incardinata, quella dell’On Giachetti, idonea a porre subito rimedio all’emergenza di queste morti per pena, come Nessuno tocchi Caino intendiamo denunciare in tutte le sedi, sovranazionali e nazionali, quelle espressioni, decisioni e comportamenti, anche di magistrati, che contribuiscono al mantenimento di condizioni detentive illegali. Perché tali sono quelle che riscontriamo nelle carceri, da noi visitate pressoché quotidianamente, in gran parte dovute a un tasso di sovraffollamento che si traduce in trattamenti inumani e degradanti”. Il riferimento è, tra l’altro, ad una decisione di un magistrato di sorveglianza di Firenze che, rispondendo ad un ricorso di un detenuto di Sollicciano che lamentava l’assenza di acqua calda in cella, aveva scritto: “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive, ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Lo stesso giudice aveva negato ad un altro detenuto un semestre di liberazione anticipata “considerato che il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è partecipazione all’opera rieducativa”. Non appena letta l’ordinanza, il Garante nazionale dei detenuti, Felice Maurizio D’Ettore, ha annunciato che avvierà accertamenti. Proprio il 5 luglio scorso c’era stata una rivolta nello stesso carcere fiorentino di Sollicciano, seguita da quelle negli istituti di Viterbo, Trento, Vercelli e Brissogne: quattro proteste violente nell’ultima settimana, con materassi bruciati, devastazioni e alcuni agenti feriti. A Trieste il giorno successivo alla rivolta un detenuto è morto per overdose, dopo il saccheggio dell’infermeria, dalla quale erano stati portati via grossi quantitativi di metadone. Una situazione davvero esplosiva. Sulla grave situazione si è espressa anche Magistratura democratica che “si dichiara vicina e pronta a convergere con i singoli e le associazioni che percepiscono la situazione dei reclusi come incompatibile con i valori costituzionali, sintomo di una inquietante e più generale disattenzione verso le marginalità sociali. Per questo torniamo a chiedere l’adozione di misure urgenti per ridurre il sovraffollamento carcerario quali l’amnistia e l’approvazione del disegno di legge sulla liberazione anticipata speciale”. Il buio degli agenti penitenziari, quando la prigione diventa una trappola di Francesco Grignetti La Stampa, 16 luglio 2024 Cinque suicidi in sei mesi rappresentano l’altra faccia dell’emergenza. Il sindacato: “I turni e il lavoro sono troppo stressanti, la gente crolla”. Chi si spara nel chiuso della sua macchina. Chi si getta dal parcheggio multipiano di un centro commerciale. Chi si impicca a un albero in campagna. Sono tanti i drammi che si contano nel corpo della polizia penitenziaria. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 5 suicidi, o forse sei, dipende come si considera un caso molto particolare. Troppi in ogni caso. Come per i suicidi di detenuti: tantissimi, mai come ora. La faccia più oscura del carcere italiano. Era il 22 gennaio quando un agente che lavorava nel carcere di Bollate, a Milano, si è ucciso lanciandosi dal secondo piano del parcheggio multipiano di un centro commerciale, l’Esselunga di Settimo Milanese. Aveva 47 anni ed era sposato con una collega, con la quale aveva una figlia piccola. Non si conoscono le motivazioni del gesto. Il 24 febbraio, a Mangone (Cosenza), un assistente capo coordinatore, 57 anni, in servizio nel carcere del capoluogo, si è tolto la vita a casa. Una storia angosciante al massimo: dopo l’ultimo turno di notte, l’ennesimo in trent’anni di carriera, tornato in famiglia, ha avuto una breve discussione con la moglie, ha tirato fuori la pistola d’ordinanza, ha sparato contro la donna ma fortunatamente senza colpirla (solo perché l’arma si è inceppata), l’ha pure inseguita per le scale, poi è rientrato nell’abitazione, ha puntato la canna alla tempia e si è ucciso. I due figli piccoli per fortuna non erano in casa. Gli amici e i colleghi hanno raccontato che qualche anno prima l’agente era stato aggredito in carcere da un detenuto, e da allora viveva profondi stati d’ansia. A Serino (Avellino), il 4 marzo, si è ucciso un altro agente con una lunga carriera alle spalle: l’uomo, 56 anni, anche lui assistente capo coordinatore, in servizio alla Casa Circondariale di Ariano Irpino, si è sparato in casa con l’arma di ordinanza. Sposato, con due figli, l’uomo non sembrava avere problemi familiari, economici o di salute. Apparentemente. E ancora: 30 giugno, Favignana. Si uccide un sovrintendente, 55 anni, in servizio alla casa di reclusione dell’isola. Da qualche settimana risultava assente per malattia. Al mattino se ne sono perse le tracce e la famiglia si è allarmata. Lo hanno trovato impiccato ad un albero in un boschetto non lontano dal carcere. Il quinto caso di suicidio nella polizia penitenziaria è di pochi giorni fa. Roma, 7 luglio: in via Michele Gortani, quartiere Pietralata, poco distante dal carcere di Rebibbia, a tarda sera un agente di 35 anni si è chiuso in auto, ha abbassato la sicura e si è sparato un colpo di pistola alla tempia. Era originario di Reggio Calabria, ma residente nella Capitale da tempo. L’agente lavorava alla Centrale Nazionale Operativa di Roma, che si trova nel complesso di Rebibbia. Avrebbe dovuto prendere servizio il giorno dopo. Si uccidono soprattutto in età matura. Ognuno con la propria storia, ma c’è un filo rosso che lega le diverse morti, ed è lo stress esagerato di chi opera in carcere. Racconta Donato Capece, segretario del Sappe, un sindacalista storico della polizia penitenziaria: “Il fenomeno dei suicidi è in crescita in tutti i corpi di polizia, ma tra noi di più. Dietro ogni morte c’è un mix di fattori, ma c’entra di sicuro lo stress correlato. La vita dentro gli istituti è diventata infernale per noi come per i detenuti. Manca il personale, i turni sono massacranti. Le liti e le aggressioni, continue. E così c’è la fuga. Molti colleghi, appena possono, vanno via; pochissimi aspettano di maturare il massimo della pensione. I giovani sperano di passare subito in altri corpi di polizia. C’è una demotivazione generale”. Il mondo è cambiato. Se tanti giovani rinunciano addirittura al posto fisso e si licenziano perché cercano qualcos’altro nella vita, figurarsi nella polizia penitenziaria. “È brutto dirlo - conclude Capece - ma non si arriva da noi per spirito missionario. Si arriva perché c’è bisogno. Ma il carcere è un mondo duro, difficile, complesso. Siamo la discarica della società. Le celle sono piene di delinquenti, ma anche di psichiatrici, tossicomani, problematici. E tutto finisce addosso all’agente penitenziario. Alla lunga il lavoro ti divora”. “I suicidi stanno aumentando e non finirà qui - dice Aldo Di Giacomo del sindacato Spp -. Il carcere non è l’unico motivo, ma il principale. Negli istituti, le cose sono cambiate in modo impensabile in pochi anni. Le aggressioni sono continue. E spesso la criminalità manovra i più fragili per usarli contro di noi, così non rischiano nemmeno il provvedimento disciplinare. Nei primi 6 mesi di quest’anno, 2004 colleghi sono finiti in ospedale; l’anno scorso erano stati 2000 in 12 mesi. La situazione sta sfuggendo di mano a tutti”. Ancora: “I colleghi somatizzano il clima invivibile che c’è dietro le mura. Il problema dei buchi di organico diventa ancora più pesante. Ormai è prassi fare turni di 12 o 14 ore. Il contesto è devastante”. Il ddl Nordio, l’abuso d’ufficio e le foto già incartapecorite del Campo larghissimo di Francesco Damato Il Dubbio, 16 luglio 2024 Nonostante i risultati catastrofici previsti - se non auspicati- da chi ha votato contro e dall’Associazione nazionale dei magistrati, o suoi vertici, vanno naturalmente tutti verificati gli effetti giudiziari della legge che il ministro della Giustizia Carlo Nordio è appena riuscito a fare approvare definitivamente dalla Camera. Essa abolisce il reato di abuso d’ufficio, limita la diffusione delle intercettazioni in cui cadono anche terzi, rende inappellabili le sentenze sui reati minori, impone - sia pure a scadenza non immediata- decisioni collegiali sugli arresti chiesti dal pubblico ministero durante le indagini e altro ancora. È un anticipo della riforma della Giustizia, in attesa della separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati d’accusa. Che i forzisti hanno intestato a Silvio Berlusconi, così come Matteo Salvini da ministro delle Infrastrutture, infaticabile nel suo lavoro di spiazzamento di amici e nemici, ha voluto fare con l’aeroporto di Malpensa, non volendo aspettare il ponte sullo stretto di Messina che aveva promesso alla memoria del Cavaliere. In attesa di valutare gli effetti giudiziari, ripeto, si possono vedere gli effetti politici della legge Nordio. Il primo, più vistoso dei quali è l’incenerimento della foto nella quale hanno recentemente posato sotto la statua di Cavour, e davanti alla Cassazione, protagonisti, attori e comparse del campo largo, anzi larghissimo, contro il governo Meloni. Che si voleva quel giorno e si vorrebbe ancora sperimentare in un referendum abrogativo della legge sulle autonomie differenziate delle regioni in qualche modo prenotato presso la suprema Corte. Un referendum però che gli stessi promotori sanno essere minacciato dall’inconveniente ormai consueto dell’affluenza alle urne inferiore alla metà più uno degli elettori aventi diritto al voto, secondo la prescrizione dell’articolo 75 della Costituzione. Ma senza aspettare questo referendum, se supererà l’esame preventivo della Corte Costituzionale, la compagnia della foto nota ormai come quella “dalla Bindi alla Boschi”, pur accanto una all’altra davanti all’obbiettivo, si è spaccata sulla legge Nordio. Che è stata votata anche dai parlamentari riconducibili ai terzi Calenda, Della Vedova e Renzi, in ordine rigorosamente alfabetico. Terzi, poi, per modo di dire perché, a parte la importante e significativa legge Nordio, essi penzolano ormai sempre di più verso il Pd di Elly Schlein. Che al suo esordio, l’anno scorso, aveva indotto Renzi a fare le solite provviste di popcorn. Si è rivelata insomma una compagnia pasticciata quanto le altre che l’anno preceduta negli album della sinistra plurale, a cominciare da quella di Vasto del 2011, che includeva un Antonio Di Pietro ancora in politica dopo le sue gesta giudiziarie nella Milano delle “Mani pulite”. Con questa storia delle foto la sinistra plurale aperta e chiusa, secondo le circostanze e gli umori, ai terzopolisti di turno, dovrebbe decidersi a farla finita, non foss’altro per scaramanzia. Peraltro con la legge Nordio alla sinistra plurale è andata meglio o meno peggio di quanto le sarebbe accaduto se non fosse ormai in consolidato ritiro l’ex presidente della Camera Luciano Violante: non certo l’ultimo arrivato della politica e della precedente esperienza giudiziaria. Se Violante avesse potuto votare, non l’avrebbe bocciata, visto quello che, commentandola in una intervista al Tempo, ha detto che lui il reato di abuso d’ufficio l’avrebbe abolito da tempo, prima ancora di sentirselo chiedere dai sindaci del suo partito. Che poi sono stati ignorati dalla Schlein, anzi smentiti. E costretti a leggere sui giornali le proteste dei loro compagni e amici dirigenti del Nazareno contro l’impunità di Stato e altre nequizie attribuite ad una legge che è semplicemente arrivata, come dice Violante, in ritardo dopo avere prodotto migliaia di processi conclusi con la quasi sistematica sconfitta dell’accusa. Rimpiangerli è solo un’assurdità. “Carriere separate, nessuna minaccia alla democrazia” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 luglio 2024 Avvocati, magistrati e politici a confronto sul futuro della giustizia italiana a Bologna. Il presidente del Cnf Greco: sulla riforma allarmismi esagerati. Opinioni a confronto sulla separazione delle carriere. Avvocati, magistrati, politici e rappresentanti delle istituzioni sono intervenuti oggi a Bologna in un convegno organizzato dal Coa felsineo, dalla Fondazione forense bolognese, dall’Organismo congressuale forense e dall’Urcofer (Unione regionale dei Consigli degli ordini forensi dell’Emilio Romagna). A fare gli onori di casa Flavio Peccenini (presidente dell’ordine degli avvocati di Bologna), Mauro Cellarosi, (presidente Urcofer) e Gian Luca Malavasi (direttore della Fondazione forense bolognese). I lavori sono stati aperti dal presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, che si è soffermato sull’esperienza in Italia e su quanto accade all’estero. “Il tema della separazione delle carriere - ha evidenziato il rappresentante dell’avvocatura istituzionale - merita approfondimenti e richiede un confronto costruttivo tra tutte le parti coinvolte. Il nostro ordinamento giuridico qualche anno fa ha fatto una scelta di orientamento verso il rito accusatorio. Dobbiamo interrogarci se il processo, così come è oggi strutturato ed organizzato, risponda al rito accusatorio vero e a quello del giusto processo. Per fare una disamina attenta occorre quindi dare un’occhiata ai sistemi giudici diversi dal nostro. All’estero, in numerosi Paesi le carriere sono separate. Non mi riferisco soltanto agli Stati Uniti d’America, dove sappiamo che la pubblica accusa si muove lungo un percorso completamente diverso dal nostro, in un sistema giuridico diverso. Anche in Europa, nella maggior parte delle più grandi democrazie del “vecchio continente”, le carriere non sono, come da noi, uniche tra magistrati, giudici e pubblici ministeri. Accade, per esempio in Germania, dove l’ufficio del pubblico ministero è sottoposto al ministro della Giustizia. Cosa che da noi, è bene sottolinearlo, nessuno vuole. In Inghilterra, dove l’ufficio del pubblico ministero, così come lo intendiamo noi, non esiste, le indagini sono affidate agli organi di polizia che poi consegnano agli uffici della magistratura gli esiti dell’attività istruttoria con i che giudici poi svolgono il processo”. Secondo Greco, certi allarmismi non hanno ragione di esistere: “Gli effetti catastrofici che vengono paventati, quando si parla di separazione delle carriere, non sono giustificati. Se guardiamo all’esperienza di altri Paesi europei, possiamo affermare che i principi di democrazia non vengono messi a rischio con la separazione delle carriere, la magistratura continua ad essere autonoma e indipendente e l’accusa non è sottoposta all’esecutivo”. Secondo Mario Scialla (coordinatore dell’Organismo congressuale forense), “separare le carriere è necessario perché il giudice, soprattutto all’esterno, deve apparire imparziale, senza appartenere allo stesso corpo e procedere con la stessa carriera di una delle parti del processo. È opportuno - ha aggiunto Scialla - che la riforma si limiti a separare le carriere, senza incidere sulla obbligatorietà dell’azione penale che avrebbe zavorrato la discussione, ponendo altri interrogativi sulla indipendenza del pm. Questa riforma attua, invece, una versione minimalista per affermare semplicemente la parità delle parti, prevista dall’articolo 111 della Costituzione in tema di giusto processo, senza modificare l’articolo 112 della Costituzione in tema di obbligatorietà della azione penale, presente invece nella riforma Alfano del 2011. Non c’è quindi spazio per alcun allarme sulle libertà o sui rischi di assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo ed occorre procedere spediti nell’approvare una riforma che rafforzi il ruolo centrale del giudice”. Il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha difeso la riforma che va nella direzione della tutela del cittadino. L’eventuale referendum che riguarderà la separazione delle carriere non deve, a detta del viceministro Sisto, alimentare preoccupazioni. “Stiamo parlando - ha detto - di una riforma antica, che prende le mosse da un’esigenza di quotidianità, di non sospetto nell’ambito della struttura della giurisdizione. Saranno i cittadini a decidere se questa proposta sarà giusta o sbagliata”. Di tutt’altro parere Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Partito democratico. “Il Pd - ha affermato la deputata - ha un’idea molto chiara. La separazione delle carriere ha profili che interessano ed interesseranno in particolare la magistratura. Non è, quindi, una riforma della giustizia, ma è una riforma che riguarda in particolare la magistratura e che tocca la Costituzione. Io ho più volte espresso la mia contrarietà alla separazione delle carriere. Temo che l’intervento di riforma costituzionale provocherà una lesione della indipendenza e dell’autonomia della magistratura”. Tra gli interventi anche quelli di Ernesto Carbone (Csm), Rocco Maruotti (direttivo centrale Anm) e Lucia Musti (procuratore generale presso la Corte d’appello di Torino). “Una riforma così importante, com’è una riforma di natura costituzionale - ha commentato Musti - dovrebbe partire quantomeno da una riflessione di natura numerica e statistica, ovvero porsi la banale domanda se sia di una qualche utilità o meno sotto questo primo profilo. La nostra è una cultura giuridica nella quale il coordinamento autonomo delle indagini, il rapporto costante con la polizia giudiziaria, l’acquisizione certosina dei riscontri alle notizie di reato, l’ascolto dei dissensi e rigetti del gip o del riesame, la costruzione della prova nel rapporto con la difesa, la capacità di cambiare idea durante l’istruttoria dibattimentale sono la più significativa garanzia per l’indagato-imputato e, più in generale, per il cittadino”. “Caro Spangher, ora ti spiego perché l’addio all’abuso è una amnistia” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 luglio 2024 Riforma dell’abuso d’ufficio e del Csm: il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, replica al professor Giorgio Spangher e a chi sostiene che le cosiddette toghe rosse vogliamo boicottare il ddl costituzionale della giustizia. Spangher ha criticato le sue dichiarazioni circa una amnistia di 4000 persone… Non si tratta di numeri sparati a caso per alzare polveroni. L’Anm cerca di essere aderente ai fatti e quei dati che ho divulgato sono ricavabili dagli archivi ministeriali. Si tratta di 3.623 condanne per abuso di ufficio che vanno dal 1997, l’anno in cui l’abuso di ufficio fu riformato, fino al 2022, quindi comprensivo della riforma del 2020. Chi saranno coloro che si avvarranno di questa opportunità? Non volevamo fare gossip per dire che ci sarà il personaggio eccellente, ci sarà sicuramente tra questi qualcuno conosciuto, ma la finalità era di sottolineare come l’abrogazione secca di un reato comporti un effetto anche retroattivo e quindi ne beneficia un’intera categoria non di imputati, di indagati, ma di condannati con sentenze irrevocabili che hanno il diritto, una volta che l’ordinamento dice che quel fatto non ha più valore di reato, di chiedere l’abrogazione della sentenza di condanna. Però si potrebbe obiettare che sono persone che hanno scontato la pena. Che importa il resto? Non ci sarà più un precedente penale, non ci sarà nessun altro tipo di effetto penale; è esattamente quello che si verifica quando si ha una amnistia. Per questo abbiamo parlato di amnistia selettiva, perché si prende in considerazione una particolare categoria di autori di un certo tipo di reato. Sono pubblici ufficiali, perché si tratta di un reato che non può commettere chiunque. Non solo chiuderà i processi a venire ma getterà un colpo di spugna su quelli del passato. Anche Palamara come altri magistrati potranno beneficiarne… Certo, non solo i pubblici amministratori, anche noi magistrati veniamo spesso denunciati per questo tipo di reato. Si è letta questa riforma dal punto di vista dei sindaci, ma la platea è molto più ampia. Chiunque ha un ruolo in un ufficio pubblico, compresi i magistrati - contro cui arrivano denunce da parte di cittadini che sentono di aver subito un torto - ne beneficeranno, ma questo che sposta? Noi riteniamo che - e lo diciamo ormai con la serenità di chi non è riuscito a far prevalere le buone ragioni che ha speso nel dibattito pubblico - si viene a creare un vuoto di tutela. Si tratta di una norma scarsamente applicata nel suo ultimo periodo. Se vede i dati statistici le condanne erano cospicue negli anni passati e poi dal 2020 c’è stato un restringimento eccessivo, frutto della riforma del governo Conte. Spangher si dice d’accordo sull’inserimento del peculato per distrazione... E invece è la prova che l’abuso d’ufficio non era una norma inutile, copriva uno spazio importante, tant’è che abolito quello hai dovuto far rivivere una norma, che nel 1990 era stata abrogata proprio perché c’era l’abuso d’ufficio. E hanno dovuto fare questo all’ultimo momento con un decreto legge che riguardava altro. Questo è l’attestazione che le critiche non sono pretestuose, pregiudiziali, ideologiche o fatte per polemica; i fatti ci daranno ragione. Spangher critica anche la sua posizione sull’interrogatorio preventivo… In qualche altro Paese esiste l’interrogatorio preventivo, però il soggetto non va a piede libero. Il fermo è una misura privativa della libertà personale predeterminata nel tempo. In Italia non può durare più di 96 ore perché è scritto in Costituzione: diamo il tempo al giudice di decidere, dopodiché o dentro o fuori, ma a piede libero è molto pericoloso perché il soggetto, anche se non appartiene a quella categoria di indagati per reati di mafia, di terrorismo, di violenza sessuale che sono esclusi, potrebbe darsi alla fuga. Vedo in questo un diritto penale che abbandona la considerazione del fatto, ma che si costruisce più sul tipo di autore e perde di vista il principio di uguaglianza. Come dice lo stesso Spanger con quella sua battuta, “il colletto bianco che fa fugge?”. Qui si coglie la spia di un diritto penale diseguale. I colletti bianchi hanno un regime, gli altri ne hanno un altro. Ma è proprio questo che noi contestiamo. Però Spangher obietta che dall’interrogatorio preventivo è escluso colui per cui sussiste pericolo di fuga... Quello che non considera il professore è che il pericolo di fuga, nel momento in cui il pm fa la richiesta, può non esserci. Ma quando il giudice dovrà notificare all’indagato che il pm ha chiesto per te una custodia cautelare carceraria, questa consapevolezza potrà creare il pericolo di fuga. Spangher riconosce che questa è una norma fatta per i colletti bianchi, ma non ci spiega perché dovremmo presumere che il colletto bianco sarà buono buono a casa ad attendere il responso. Però della riforma possiamo accogliere positivamente il collegiale per le misure cautelari? Ci saranno non pochi effetti negativi, anche sul piano delle garanzie, e non è un paradosso: affidando la decisione ad un collegio si rafforzano apparentemente le tutele. Quel provvedimento però pretenderà prima o poi di fare in qualche modo stato sulla vicenda, perché l’ha emesso un collegio, sulla base di gravi indizi di colpevolezza e quindi di un’alta probabilità di colpevolezza, l’ha emesso previo interrogatorio e quindi chi lo smonterà? Due giorni fa è uscito un articolo su Libero dal titolo “Le toghe rosse ne approfittano per boicottare la riforma”. Lei e il segretario di Area Zaccaro avete stigmatizzato l’iniziativa delle consigliere laiche del Csm Bertolini ed Eccher di chiedere una pratica nei confronti dei giudici del Riesame che hanno respinto la liberazione per Toti... Ancora con toghe rosse e toghe nere. Qui c’è da prendere atto che il Csm e i suoi componenti non hanno tra le loro attribuzioni costituzionali il potere dell’iniziativa disciplinare. Parlano tanto di separazione delle carriere tra giudici e pm, ma il pm disciplinare è il ministro che sappiamo quanto sia, come dire, sensibile a questi temi (il caso Artem Uss docet); spetta a lui l’eventuale iniziativa disciplinare. Il Csm deve essere giudice terzo ed imparziale: quando non si rispettano i ruoli si creano effetti distorsivi, quindi non siamo noi a entrare a gamba tesa, a fare polemica, noi restiamo sorpresi, amaramente sorpresi, di come si possa ventilare il possibile intervento disciplinare per incutere timore nei giudici. Ma c’è un problema all’interno di questo Consiglio tra le varie dichiarazioni di Pinelli, le iniziative dei laici? È vero che l’intento è consegnare il Csm alla politica? Se questo è il modo di intendere i rapporti con la giustizia, da parte di chi è espressione di quel mondo politico, mi preoccupo, perché anche l’Alta Corte disciplinare a questo punto viene costruita, vissuta, pensata ed elaborata per creare un disciplinare più non severo, ma più invasivo nei confronti dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero. Peraltro io non ho difeso i pm in questo caso, ho difeso i giudici, proprio quei giudici che la riforma, come dice il vice ministro Sisto, vuole rafforzare. Così invece li stiamo indebolendo: hanno emesso un’ordinanza sgradita ad una parte politica e vengono raggiunti da questa minaccia. A me questo sembra sorprendente. Se questo è il retroterra culturale, ahimè, mi preoccupo: abbiamo visto giusto, questa riforma costituzionale tende a ridimensionare il potere giudiziario nel suo complesso. Come possiamo (e dobbiamo) crescere gli orfani di femminicidio di Maria Grazia Giuffrida* Avvenire, 16 luglio 2024 Non si ferma in Italia la conta delle donne uccise dal partner o dall’ex compagno. Drammi che si portano con sé la tragedia, spesso invisibile, degli orfani di crimini domestici: bambini e ragazzi che hanno perso la madre, subendo un trauma indelebile e che restano ancora troppo nell’ombra. Dai dati del Ministero dell’Interno emerge che nel primo semestre di quest’anno sono stati commessi in Italia 49 omicidi di donne, di cui 44 uccise in ambito familiare affettivo. Il confronto con il primo semestre 2023 segnala un decremento del fenomeno: le donne uccise in ambito familiare affettivo calano da 53 a 44 e i reati commessi da partner o ex compagni passano da 32 a 24 casi. Una diminuzione che sembra confermare una tendenza già rilevata nel 2023 quanto le donne uccise in ambito affettivo furono 95, a fronte delle 106 dell’anno precedente. Se da una parte i dati sulle donne vittime di femminicidio cominciano a essere raccolti con maggiore sistematicità, dall’altra non avviene altrettanto sui minorenni coinvolti. Su di loro, infatti, non abbiamo dati certi e gli interventi di sostegno soffrono della mancanza di linee guida nazionali che consentano di delineare degli standard comuni e omogenei. La prima indagine nazionale sul fenomeno stimò in circa 1.600 il numero di “orfani speciali” causati da eventi di femminicidio. Da un’analisi presentata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio risulta che nel biennio 2017-2018 sono stati 169 gli orfani di madre uccisa dal partner o ex partner, di cui il 39,6 % è rimasto tale anche del padre che si è suicidato. Emerge anche che quasi un orfano su cinque era presente al femminicidio, un’incidenza che sale a ben tre figli su cinque nel caso di minori. Nel 50% dei casi, inoltre, i figli avevano assistito alle violenze subite in passato dalla madre. Questi dati confermano la complessità e la profondità dei traumi patiti dagli orfani di femminicidio che, accanto alla perdita della madre, vivono la lacerazione del suicidio del padre o comunque la sua perdita come punto di riferimento affettivo. Questi bambini presentano disturbi sia fisici che psicologici, come enuresi, encopresi, disturbi del sonno, scoppi d’ira, dissociazione, ansia e disturbi psicosomatici. La rabbia e il senso di colpa sono emozioni che possono imprigionarli per anni e la maggioranza dei bambini che assistono all’uccisione di un genitore mostra anche sintomi di disturbo da stress post-traumatico. Non a caso, la legge 4/2018, tra le varie misure a tutela degli orfani di crimini domestici, prevede che abbiano diritto ad assistenza medico psicologica gratuita e siano esenti dalla partecipazione alla spesa per ogni tipo di prestazione sanitaria e farmaceutica. Tra le altre disposizioni più significative previste dalla disciplina italiana in favore degli orfani di crimini domestici merita ricordare anche il gratuito patrocino a spese dello Stato; il sequestro dei beni a garanzia del risarcimento dei danni; l’assegnazione da parte del giudice di una provvisionale, in misura non inferiore al 50% del presumibile danno. Dal punto di vista economico, l’Italia prevede anche l’erogazione di borse di studio o il finanziamento di iniziative di orientamento, formazione e sostegno per l’inserimento lavorativo. Per quanto riguarda la situazione nella quale si trova a vivere il figlio orfano, è il tribunale competente a provvedere al collocamento del minorenne privilegiando la continuità delle relazioni affettive con i parenti fino al terzo grado. L’Istituto degli Innocenti ha avuto occasione di approfondire questi temi nello svolgimento della sua funzione di assistenza tecnico scientifica, in affiancamento al lavoro dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ma anche direttamente come ente che offre servizi educativi, di accoglienza e supporto. L’esperienza acquisita negli anni ci aiuta a cogliere la multidimensionalità delle azioni che è necessario mettere in campo. In un’ottica generale, si ritiene fondamentale sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica sulla realtà drammatica dei femminicidi e, conseguentemente sugli orfani di questi delitti, promuovendo una cultura del rispetto e della parità di genere che possa estirpare alla radice la violenza contro le donne. La prevenzione del fenomeno è fondamentale ad esempio attraverso interventi di rafforzamento delle conoscenze e delle competenze professionali di coloro che lavorano nei servizi che si occupano di famiglie e bambini in modo che siano capaci di cogliere segnali di malessere e offrire spazi di ascolto e di orientamento verso servizi specializzati. In questa prospettiva l’Istituto continuerà ad investire sull’aggiornamento professionale di tutti coloro che operano nei servizi educativi per la prima infanzia, a contatto delle famiglie e nei servizi di accoglienza. Guardando sempre a ciò che si può fare prima, altrettanto importante è l’educazione affettiva e relazionale dei bambini e degli adolescenti. Questi sono solo alcuni degli ingredienti necessari e anche in questo ambito l’Istituto degli Innocenti si sta impegnando da anni anche grazie a progetti europei su attività di ricerca, di sensibilizzazione e di formazione di insegnanti ed educatori. Utili si sono rivelate anche le misure di valutazione e di gestione del rischio incentrate sull’attenta valutazione del comportamento dell’autore delle violenze del reato e su programmi rivolti ai maltrattanti. Tuttavia emerge la necessità di avere maggiori informazioni su cosa accade nel tempo ai minorenni coinvolti. Di grande interesse e utilità potrebbero essere programmi di indagine e analisi per conoscere i percorsi e le loro condizioni di vita nel medio/lungo periodo successivo all’evento drammatico, anche per verificare l’efficacia delle misure adottate e meglio tarare i necessari interventi di supporto. Bisogna approfondire il quadro conoscitivo sugli orfani di femminicidio, capire in quale condizione psicologica, economica e sociale si trovano a vivere dopo l’omicidio della madre e spesso anche la perdita del padre (suicida o condannato per il crimine). Per mettere in campo misure adeguate è necessario interrogarci su come questi bambini affrontano la vita, se vivono in un ambiente familiare capace di ricostruire un clima di serenità o ancora segnato dall’odio e dalla rabbia, quale siano il loro stato d’animo, i sentimenti e il sistema delle relazioni affettive, sia con gli adulti che con i coetanei. Come stanno crescendo questi bambini? Che uomini diventeranno? Le bambine, da adulte, avranno stima degli uomini? Come possiamo sostenerli, qui ed ora per affrontare il futuro? Sono tutte domande sulle quali la nostra società dovrebbe davvero interrogarsi per provare a dare risposte e mettere in campo misure per favorire la crescita di adulti il più possibile equilibrati. In conclusione, se è fondamentale lavorare sull’educazione e sulla prevenzione contro la violenza di genere, di fronte a eventi drammatici, è essenziale essere anche in grado di offrire risposte adeguate e tempestive che permettano agli orfani di poter continuare a immaginare un futuro: adeguate risorse di accoglienza ed economiche, aiuto psicologico per l’elaborazione del trauma, supporto legale, accompagnamento verso l’autonomia e l’età adulta. *Presidente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze Mario Paciolla, 4 anni senza verità: “Non fu suicidio, è stato ucciso: l’Onu rompa il silenzio” di Antonella Napoli L’Espresso, 16 luglio 2024 Il cooperante venne trovato morto in Colombia il 15 luglio 2020. Per le Nazioni Unite e per i pm di Romafu si è tolto la vita. Ma per i genitori ci sono troppe anomalie: “Fu un omicidio”. Nell’anniversario del ritrovamento, parlano i suoi genitori Anna Motta e Pino Paciolla hanno lo stesso sorriso gentile del figlio Mario. Lo stesso sguardo fiero: quello di genitori che sanno, sono certi che il loro ragazzo non si sia ucciso in Colombia, come sostengono burocrati delle Nazioni Unite che hanno frettolosamente archiviato il caso come “suicidio”. Lo scorso 14 giugno, anche la Procura di Roma ha chiesto, per la seconda volta, l’archiviazione dell’inchiesta in Italia. La famiglia ha presentato opposizione all’ufficio del gip del Tribunale di Roma, che dovrà esprimersi al riguardo. Mario Paciolla moriva quattro anni fa, il 15 luglio, a San Vicente del Caguán. Il cooperante dell’Onu fu trovato senza vita nel suo appartamento con un lenzuolo attorno al collo. Sulla base dei rilievi dell’autopsia e degli elementi acquisiti dalle legali della famiglia, le avvocate Alessandra Ballerini ed Emanuela Paciolla, Mario non sarebbe morto suicida: i suoi piedi toccavano il pavimento e il lenzuolo pendeva da una grata sotto il soffitto. Essendo il 33enne napoletano alto poco più di un metro e sessanta, non avrebbe potuto appenderlo da solo neanche salendo su un tavolo o su una sedia. C’è poi il ruolo oscuro di Christian Thompson Garzón, ex militare e addetto alla sicurezza della Missione Onu. Assieme a quattro poliziotti colombiani, l’uomo è stato accusato di “inquinamento delle prove”, da lui fatte sparire. Thompson avrebbe omesso la consegna alla Procura colombiana dei dossier di Paciolla sui viaggi nel Paese tra l’agosto 2019 e il luglio 2020. Report che documenterebbero un raid aereo, il quale aveva causato la morte di almeno otto bambini reclutati dalle Farc e altre violazioni perpetrate dalle forze militari colombiane. Per queste e molte altre evidenze, i genitori di Mario continuano a ritenere che il figlio non si sia suicidato. A L’Espresso, Anna e Pino spiegano perché si oppongono alla richiesta di archiviazione della Procura di Roma. “La decisione dei magistrati ci ha lasciati basiti. Dopo i primi momenti di smarrimento, abbiamo subito ripreso il percorso di verità per Mario e dato mandato alle nostre avvocate, che saranno coadiuvate da tecnici di nostra fiducia, per opporsi all’archiviazione. Siamo determinati perché abbiamo la certezza dell’omicidio di nostro figlio. Questa certezza si rafforza con il passare dei giorni perché con maggiore lucidità ripensiamo a ciò che Mario ci diceva. A ciò che gli è successo prima e dopo la morte, più precisamente negli ultimi cinque giorni di vita”. Quali sono gli elementi principali su cui si fonda l’opposizione all’archiviazione? “Prima di tutto, ribadiamo con forza l’attaccamento di Mario alla vita, la sua gioia di stare al mondo e soprattutto l’amore per la sua famiglia, i suoi amici, la sua città. Mai avrebbe potuto darci un così grande dolore. In quei cinque giorni ci disse che aveva avuto una discussione con i suoi superiori, i quali avevano minacciato che gliel’avrebbero fatta pagare, facendo riferimento a fatti della sua vita passata. Mario, il 14 luglio alle 00.30 (ora italiana), aveva acquistato un biglietto aereo e scritto una mail all’ambasciata italiana per informarla che stava lasciando la Colombia. Da queste azioni all’ora presunta della sua morte, sono intercorse circa due ore. Tempo che lui avrebbe impiegato per pensare, programmare e realizzare il suo suicidio. In quei cinque giorni lo abbiamo visto preoccupato. Conoscendolo bene, mai abbiamo pensato a un gesto autolesivo e nessuno in buona fede può affermare di avere avuto un sentore del genere. Temevamo per la sua vita, questo sì. Avevamo paura che qualcuno potesse ucciderlo. Mario aveva capito che era in pericolo. L’autopsia sul suo corpo fornisce dettagli che lasciano pochi dubbi”. Siete mai stati sentiti dai magistrati? “Siamo stati ascoltati dai carabinieri del Ros e dalla Questura di Napoli nell’immediatezza della morte di nostro figlio. Ma non siamo mai stati sentiti dai magistrati che indagano sulla morte di Mario. Abbiamo conosciuto una procuratrice che indagava e che ha risposto ad alcuni quesiti su cui continuiamo a interrogarci. Molti dubbi ancora ci tormentano”. Mario era impegnato a San Vicente del Caguán nella tutela delle famiglie delle vittime della rappresaglia paramilitare. Ritenete che ci sia un nesso con la sua morte? “Abbiamo alcune certezze, a fronte di fatti che ci lasciano molte perplessità. Mario era cooperante in una missione Onu di verifica degli accordi di pace, con regolare contratto per due anni in scadenza il 20 agosto 2020. Allora eravamo in tempi di pandemia e la sua organizzazione, la stessa che gli preparava le autorizzazioni per poter viaggiare e rientrare in Italia, era l’unica a sapere della partenza con un volo umanitario da Bogotà a Parigi del giorno 20 luglio. Probabilmente era l’unica a sapere dell’acquisto del biglietto da parte di Mario per tornare in Italia. Sappiamo anche che nessun protocollo internazionale è stato rispettato dopo la sua morte. Nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del corpo non venne avvertita l’ambasciata del decesso di un cittadino italiano per morte violenta. Morte che da subito l’Onu derubricò come suicidio. Ma la cosa più grave è che, a 48 ore dal ritrovamento, l’addetto alla sicurezza della missione (Thompson, ndr) ripulì con acqua e candeggina l’appartamento privato di Mario, cancellando eventuali tracce di sangue, e buttò in discarica alcuni oggetti appartenuti a nostro figlio, eliminando così ciò che oggi sarebbe stato necessario, fondamentale per le indagini. Come mai questa persona ha trattenuto le chiavi della casa? Come mai questa pulizia così frettolosa? Perché gettare oggetti che erano appartenuti a Mario e, soprattutto, senza attendere il referto autoptico per l’accertamento delle circostanze di una morte violenta? Un’organizzazione così importante è al corrente delle procedure corrette da eseguire in casi come questo. Sono quindi molto gravi, a nostro parere, questi comportamenti”. Vi sentite sostenuti dalle istituzioni italiane o avvertite una sorta di sudditanza nei confronti dell’Onu? “Questo non possiamo dirlo. Ma è vero che la politica si è interessata poco al caso. Quando è arrivato il feretro di Mario a Roma, ad accoglierlo c’era l’allora ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ci assicurò il suo interessamento personale. In seguito siamo stati ricevuti alla Camera dal presidente Roberto Fico, che ancora oggi ci sostiene nelle iniziative per Mario. Abbiamo avuto un incontro con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Alcuni deputati hanno fatto interrogazioni parlamentari e lo scorso marzo siamo stati ascoltati dalla commissione Diritti umani del Senato. Ma a tutto questo non sembra ci sia stato alcun seguito”. Che atteggiamento ha assunto l’Onu, dal 15 luglio 2020 a oggi, nei vostri confronti? “L’Onu non si è mai interfacciata con noi o con le nostre avvocate. Dopo la drammatica comunicazione del 15 luglio 2020, quando una persona che si qualificava come legale dell’Onu ci informava della morte di nostro figlio, dicendo che “si era suicidato”, e ci chiedeva incredibilmente se volessimo la restituzione del corpo, c’è stato un silenzio assordante da parte dell’organizzazione. Eppure, nostro figlio era un morto sul lavoro. Infine, non ci è mai stato concesso di leggere gli atti dell’indagine interna”. A fronte di tutti gli elementi acquisiti, che idea vi siete fatti sul motivo della morte di Mario? “Conoscevamo bene nostro figlio, le sue competenze, la sua preparazione professionale, ma soprattutto la sua integrità morale e intellettuale. Sappiamo che non tollerava le ingiustizie, che era sempre schierato dalla parte dei più deboli; la sua etica professionale, anche come giornalista, ci dà la certezza che mai sarebbe sceso a compromessi con la sua coscienza”. Vi siete appellati a chi sa qualcosa affinché non si nasconda dietro all’omertà. Avete mai ricevuto riscontri? “Nessuno. Ma siamo certi che chi lavorava con Mario conosca e nasconda la verità. Sappiamo che più volte aveva chiesto di essere trasferito, che la squadra con cui stava lavorando non gli piaceva. Immaginiamo che in quella zona si adottassero pratiche e comportamenti su cui Mario non era d’accordo. Sentiva il suo essere lì, in quel posto, privo di ragioni e motivazioni. Nostro figlio aveva una formazione e una visione diversa su come svolgere fino in fondo e correttamente il suo lavoro. Forse non era allineato con i comportamenti dell’organizzazione. A dicembre del 2019, quando è venuto per l’ultima volta in Italia, ci disse chiaramente: “Se l’Onu mi vuole coinvolgere, io me ne vado”. Carpimmo la sua insoddisfazione, ma non ci rivelò le motivazioni”. Credete che sia possibile svelare le verità nascoste dietro alla morte di vostro figlio? “Purtroppo non abbiamo una verità processuale, ma, seppure a fatica, la stiamo cercando. E continueremo a farlo”. In queste ultime parole, tutta la forza e tutto il coraggio dei genitori di Mario. I maltrattamenti in famiglia aggravati escludono l’attenuante della provocazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2024 Trattandosi di reato abituale il riconoscimento dell’aver agito in stato d’ira di fronte a un fatto ingiusto altrui equivarrebbe a “scusare” condotte eseguite per motivi di rivalsa e spirito di vendetta. L’attenuante della provocazione non può essere riconosciuta in caso di reati abituali quali sono i maltrattamenti in famiglia aggravati. È quindi errata la condanna che in una tale fattispecie la riconosca. Nel caso concreto la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 28417/2024 - ha perciò completamente rigettato la lamentela del ricorrente contro la condanna per i maltrattamenti in famiglia perpetrati in danno della moglie e alla presenza dei figli minori, ma con il riconoscimento dell’attenuante in parola. In particolare si affermava nel ricorso l’illegittimità della condanna confermata in secondo grado proprio perché gli era stata riconosciuta l’attenuante di aver agito in stato d’ira contro un fatto ingiusto altrui. Infatti, col ricorso veniva addirittura preteso che il riconoscimento dell’attenuante cosiddetta della provocazione avrebbe dovuto condurre a escludere il reato contestato, cioè l’imputabilità stessa per la fattispecie prevista dall’articolo 572 del Codice penale. La risposta della Cassazione non solo è reiettiva della pretesa difensiva, ma fa rilevare che una volta contestata e accertata una condotta di maltrattamenti in famiglia è un errore del giudice, che emette la relativa condanna, riconoscere contemporaneamente l’attenuante della provocazione. Che, val la pena ripeterlo, il ricorrente invocava addirittura per escludere in radice il reato. Infatti, come spiega la sentenza della Suprema Corte neanche l’attenuante poteva essere riconosciuta in quanto trattandosi di reato abituale si arriverebbe a giustificare come scusabile o legittima una “controreazione” di fatto motivata da spirito di rivalsa o vendetta. Cioè un comportamento moralmente non meritevole di alcun riconoscimento favorevole all’autore delle condotte “vendicative”. Conclude la Cassazione rispondendo al ricorrente che, al contrario, non ha alcun motivo di lamentarsi della condanna inflittagli per un reato aggravato, con contestuale riconoscimento illegittimo dell’attenuante dell’articolo 62 del Codice penale. Infatti, chiariscono i giudici di legittimità che l’errore “favorevole” all’imputato commesso dal giudice di primo grado avrebbe potuto essere espunto in secondo grado, solo se vi fosse stata specifica impugnazione da parte del procuratore. Lombardia. Metà dei detenuti sono tossicodipendenti: il triste record di Federica Pacella Il Giorno, 16 luglio 2024 Gli esperti: “La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono decisivi”. Lombardia da record per la percentuale di persone con tossicodipendenza entrate in carcere nel 2023 sul totale degli ingressi. A livello nazionale, sono state 15492 le persone tossicodipendenti entrate in carcere, pari al 38% degli ingressi totali (40.661), in aumento rispetto al 29,9% del 2022. A livello regionale, questo valore scende sotto il 20% negli istituti penitenziari delle regioni Friuli Venezia Giulia, Calabria e nella provincia di Trento ed è superiore al 50% negli istituti della regione Lombardia e della provincia di Bolzano. Il dato emerge dalla relazione annuale al Parlamento del 2024 esamina lo stato delle tossicodipendenze in Italia, analizzata con focus regionale da PoliS-Lombardia che spiega: “Un dato significativo riguarda la popolazione carceraria: il 50% delle persone incarcerate in Lombardia sono tossicodipendenti. Questo dato sottolinea l’importanza di interventi mirati, non solo per la riabilitazione, ma anche per la prevenzione della recidiva e per il supporto post-detenzione. Il sistema carcerario lombardo ha implementato programmi specifici per affrontare le dipendenze, includendo trattamenti farmacologici e psicoterapici. Inoltre, sono stati sviluppati programmi di reinserimento sociale per supportare i detenuti nel loro ritorno alla vita civile, riducendo così il rischio di recidiva”. Tuttavia, secondo il Libro Bianco sulle Droghe (rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Ccgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali), “la legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione. Basti pensare che in assenza di detenuti per art. 73. o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario. Dopo 34 anni di applicazione non possiamo più considerare questi come effetti collaterali della legislazione antidroga, ma come effetti evidentemente voluti”. Secondo Leonardo Fiorentini, direttore Fuoriluogo “l’unico modo sinora efficace per far aumentare l’età media di primo uso, diminuire i consumi dei minori e i comportamenti a rischio, oltre che avere un reale controllo sul principio attivo, sono le regolamentazioni legali. Lo dimostrano i dati provenienti dalle Americhe che riportiamo ogni anno nel Libro Bianco”. Venezia. Detenuto suicida, Nordio: “Non è colpa delle carceri troppo piene” di Silvia Madiotto Corriere del Veneto, 16 luglio 2024 È andato in bagno, mentre i suoi due compagni di cella dormivano e si è tolto la vita, impiccandosi con un lenzuolo. Nella notte tra domenica e lunedì Alessandro Patrizio Girardi, 37 anni, originario di San Donà di Piave, è morto suicida nella Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore, dove era detenuto per reati connessi allo spaccio di stupefacenti. Si tratta del sesto suicidio nelle carceri venete dall’inizio dell’anno. Appena qualche giorno fa un altro detenuto si era tolto la vita, inalando una bomboletta di gas, nel carcere di Montorio (Verona). Da inizio anno sono 56 i detenuti in Italia che si sono uccisi dietro alle sbarre. “Si tratta di una vera emergenza - interviene il garante dei detenuti di Venezia Marco Foffano - i suicidi in carcere continuano ad aumentare. Il sovraffollamento, il caldo e la carenza di supporto psicologico adeguato porta i più fragili a farla finita. Si tratta spesso di persone che, una volta in carcere, si trovano ad affrontare altre situazioni di grave disagio sociale”. Nel carcere maschile di Venezia attualmente i detenuti sono 250 ma la capienza effettiva è di 160; a Padova i detenuti sono circa 600, 150 in più rispetto al numero previsto. “Educatori e psicologi sono in numero insufficiente - fa sapere Francesco Morelli di “Ristretti Orizzonti”, l’associazione che opera nel carcere di Padova -, la carenza di agenti della polizia penitenziaria non permette adeguati controlli, in particolare durante il periodo estivo. Problematiche presenti nelle carceri italiane e venete che non vengono risolte”. “Diverse persone all’interno del carcere presentano problemi psichiatrici ma mancano figure professionali per curare queste patologie - interviene il segretario della Fp Cgil Polizia Penitenziaria Giampietro Pegoraro -. Si chiudono in carcere persone che dovrebbero invece ricevere trattamenti in strutture sanitarie, non essere abbandonati alla solitudine in cella”. La tragedia di Venezia riapre un dibattito che, anche in Veneto, è di strettissima attualità. “Il suicidio è uno degli elementi più misteriosi della psiche umana - ha commentato ieri il ministro per la Giustizia Carlo Nordio. Quello nelle carceri ci riguarda da vicino e cerchiamo di affrontarlo con l’aiuto psicologico, per il quale sono stati stanziati 5 milioni di euro che ci permettono di assumere e retribuire professionisti capaci di capire i segnali di allarme. Ma il rapporto di causa-effetto con il cosiddetto sovraffollamento non è sicuro: negli anni scorsi abbiamo avuto carceri più affollate e meno suicidi, e vice versa. Purtroppo è un flagello difficilissimo da prevenire ma ce la stiamo mettendo tutta”. Rimane, dice il Guardasigilli, “un problema enorme, che stiamo affrontando senza per questo aprire le carceri indifferentemente, per garantire allo stesso tempo la certezza della pena e l’autorevolezza dello Stato, ma possiamo intervenire sulla limitazione della carcerazione preventiva, spesso ingiustificata”. Ma per chi è vicino ai detenuti ed è preoccupato per le loro condizioni di salute, fisica e mentale, non basta. “Il decreto carceri è inadeguato, una scatola vuota rispetto alle proporzioni dell’emergenza” secondo i Garanti territoriali dei detenuti, che lanciano un appello al Guardasigilli: “Chiediamo alla politica di analizzare, prevenire, intervenire, il carcere è diventato un ospizio dei poveri e una discarica sociale” sostiene il portavoce Samuele Ciambriello. Arriva anche l’appello della Camera Penale Veneziana: “Chi ha responsabilità di governo non può continuare a girarsi dall’altra parte. Da un anno attendiamo la disponibilità ad aderire al protocollo promosso per impegnare tutti a una rete di prevenzione dei suicidi negli istituti veneziani. E occorre migliorare la comunicazione con famiglie e difensori”. Sul fatto anche il presidente del Veneto Luca Zaia è stato interpellato ieri: “Sono tragedie, la conta è ormai un bollettino di guerra. Il tema della sovrappopolazione carceraria è noto, il ministro e il governo cercano soluzioni ma è una situazione che si trascina da anni”. E si alza la voce di Ilaria Cucchi, senatrice di Avs: “Tre suicidi negli ultimi tre giorni nelle carceri italiane a Verona, a Monza e Venezia. Una mattanza infinita, indegna di uno Stato di diritto. Non si può andare avanti così, il ministro Nordio venga a riferire in Aula”. Il centrosinistra veneto accusa: il senatore dem Andrea Martella ha depositato un’interrogazione, “episodio grave e inquietante che impone una risposta tempestiva”, la deputata Rachele Scarpa (Pd) accende i riflettori “sulle origini di una vera e propria ecatombe, occorre agire in fretta, il governo sta lasciando completamente inascoltati gli appelli di sindacati, associazioni e garanti che denunciano una situazione insostenibile e disumana di sovraffollamento e mancanza di servizi”. Il tema arriverà in Consiglio regionale oggi con la consigliera del M5s Erika Baldin: “Non sono numeri ma esseri umani che lo Stato ha in custodia. Le carceri venete stanno scoppiando: nel 2023 il sovraffollamento ha raggiunto il 133,5%, più della media nazionale”. Venezia. Il Garante dei detenuti Marco Foffano: “Caldo, poco personale e sovraffollamento” di Giulia Zennaro Il Gazzettino, 16 luglio 2024 Marco Foffano è il Garante dei detenuti di Venezia; ieri ha avuto la notizia del suicidio di un detenuto dalla direttrice del carcere di Santa Maria Maggiore, Mariagrazia Bregoli. Si poteva evitare questa ennesima tragedia? “Quello di Alessandro Girardi è il classico “caso silente”: non aveva mai dato segni di fragilità o manifestato intenti autolesionistici e per questo non era stato attuato il protocollo sanitario, al quale partecipano anche i compagni di cella. Si tratta di procedure non semplici da attuare e il problema è sempre lo stesso: manca il personale. Gli agenti di polizia penitenziaria sono pochi, mal pagati, fanno turni massacranti e sono anche loro a rischio suicidio. Servirebbero più psicologi: un agente, per quanto preparato, non può sostituirsi a una figura formata appositamente per intercettare un disagio. Quello di Gerardi è l’ennesimo episodio: salgono a due i suicidi a Venezia, ce ne sono stati tre a Verona, il che porta il Veneto a cinque in totale. A livello nazionale siamo a 56; numeri impressionanti”. Lei ha visitato personalmente il carcere di Santa Maria Maggiore, com’è la situazione? “In questa stagione è sempre critica: fa caldo, i detenuti e il personale possono contare solo sui ventilatori per rinfrescarsi e il sovraffollamento non aiuta. Nel carcere maschile al momento ci sono circa 250 detenuti, a fronte di uno spazio che dovrebbe contenerne 160; siamo di fronte a un affollamento del 145%. Ci sono celle da due persone che sono occupate anche da una terza, come nel caso di Girardi: ma si trovano anche celle con sei o sette persone tutte insieme. Non in tutti i piani del carcere ai detenuti è concesso muoversi, ce ne sono alcuni in cui devono stare nelle celle, e questo aumenta l’isolamento. In più, lo dico sempre, l’ozio diventa un supplemento di pena”. C’è anche il problema della mancanza di figure specializzate... “Il personale, come già detto, scarseggia: mancano gli psicologi e gli agenti di polizia penitenziaria sono pochi. Era stato detto che ci sarebbe stato un incremento di 15 unità, ma in realtà si tratta di personale che va a sostituire agenti che se ne vanno o vengono trasferiti, quindi di che aumento parliamo?” Cosa proponete? “Incrementare il personale nell’area educativa, gli psicologi, gli agenti di polizia penitenziaria. Aumentare l’offerta lavorativa: molto bene l’accordo con la Biennale per formare detenuti da inserire lavorativamente. Inoltre, bisogna pensare a forme di pena alternative al carcere per chi commette reati minori”. Aosta. Detenuto muore dopo il malore in carcere, indaga la Procura aostasera.it, 16 luglio 2024 L’uomo, il 42enne Mauro Rosso, si è sentito male lunedì scorso e, dopo i soccorsi nel penitenziario, è stato trasportato al “Parini”, dove è deceduto cinque giorni dopo, senza mai riprendersi. La Procura della Repubblica indaga sulla morte di un 42enne di Biella, Mauro Rosso, avvenuta sabato scorso all’ospedale “Parini”, dov’era ricoverato dopo essere stato colpito da un malore, mentre era detenuto nel carcere di Brissogne. Si trovava nel penitenziario valdostano per scontare un cumulo di pene per diversi reati. È stata la moglie a depositare una denuncia sui fatti, chiedendo di fare luce sull’accaduto. È stato così aperto un fascicolo per omicidio colposo, affidato al pm Manlio D’Ambrosi. I riscontri iniziali orienterebbero verso cause naturali, ma per dirimere i dubbi la Procura ha richiesto l’autopsia, un atto considerato dovuto viste le circostanze, che sarà effettuata domani. Rosso, che era in stato clinico grave da tempo, dopo il malore e i soccorsi nel carcere da parte della Polizia penitenziaria e la rianimazione del medico in servizio, era stato trasportato al “Parini” nella giornata di lunedì scorso. Ricoverato, è rimasto in coma fino al giorno in cui il suo cuore si è fermato per sempre. L’uomo a Biella era stato al centro di numerosi episodi di cronaca. Quello più grave risale al 2016 quando, nella funicolare della cittadina piemontese, aveva aggredito un imprenditore della zona, cui aveva chiesto una sigaretta e, ricevuto un rifiuto, aveva tentato di colpirlo con il coperchio di un tombino. Trieste. Il detenuto morto in carcere era in attesa di giudizio da un anno di Anna Vitaliani rainews.it, 16 luglio 2024 La compagna di Zdenko Ferjancic, il 48 enne sloveno trovato senza vita all’interno del Coroneo, attraverso i suoi legali ha presentato un esposto in Procura per la morte dell’uomo. Si trova nella sezione femminile del carcere del Coroneo, la compagna di Zdenko Ferjancic - il detenuto trovato morto per overdose venerdì pomeriggio all’indomani della violenta sommossa dei carcerati, è anche lei slovena e ha meno di 40 anni, non è mai stata tossicodipendente, ma ritenuta corresponsabile dello spaccio dell’uomo con il quale conviveva da più di 15 anni. Ha quasi interamente scontato la sua pena, e tra pochi mesi sarà libera. Si tratta dell’unica familiare del 48enne trovato senza vita per overdose. Un esposto per fare chiarezza - Fuori dalla Casa circondariale, incontriamo il suo avvocato Alice Bevilacqua che da anni, con il padre Paolo, difendono la coppia. La donna sarebbe parte offesa in un eventuale processo: “Raccoglieremo una nomina, per tutelarla e per assisterla in questa fase e fare chiarezza sui fatti legati alla morte di Zdenko”. Lo studio Bevilacqua - noto in città per i casi Resinovich e Meran - ha già presentato un esposto - denuncia alla procura della Repubblica, per far chiarezza sulla morte dell’uomo trovato in condizione di rigidità cadaverica, quindi morto da alcune ore. Le ipotesi da accertare potrebbero essere l’omissione di soccorso, dubbi sull’adeguata custodia del metadone, le possibili falle nella vigilanza carceraria. Un fascicolo - da parte della Procura - era già stato aperto d’ufficio lo stesso giorno del decesso: “Non voglio pronunciarmi sulla mancata vigilanza piuttosto che sui gravissimi fatti che hanno colpito il carcere, piuttosto capire come si sono procurati quei farmici che possono aver portato alla morte”. “Sono enormemente dispiaciuto, affranto per un epilogo che forse si poteva e si doveva evitare” dichiara in una nota l’avvocato Paolo Bevilacqua che tanto si era battuto per far ottenere la custodia domiciliare all’assistito, residente però in Slovenia, a Nova Gorica, e per questo non gli era stata concessa: “Pur facendo parte dell’unione europea è molto difficile portare dei detenuti in custodia domiciliare prima della loro definitività, non siamo riusciti a portarlo a casa in attesa di giudizio”. Firenze. “L’acqua calda è un diritto, anche se questo non è un hotel”. La class action dei detenuti di Matteo Lignelli La Repubblica, 16 luglio 2024 Emergenza carcere di Sollicciano: “L’acqua calda è un diritto anche se non è un hotel”. La class action di Firenze. “Nel carcere fiorentino di Sollicciano i detenuti vivono in condizioni disumane ormai da anni. Un’altra cosa gravissima che è emersa è che i magistrati non fanno accertamenti”. Emilio Santoro è docente di Filosofia del diritto all’Università di Firenze e fondatore dell’associazione L’Altro Diritto, che solo negli ultimi sei mesi ha aiutato un centinaio di detenuti di Sollicciano a presentare reclami ex 35 bis e ter per richiedere il ripristino di condizioni dignitose e uno sconto della pena. Istanze che si sono intensificate dopo che a dicembre - proprio per il degrado del penitenziario - un 58enne sudamericano in carcere per omicidio aveva ricevuto uno “sconto” di 312 giorni. “Quando abbiamo incontrato i cento detenuti da cui è partita la protesta, loro ci hanno subito parlato della totale assenza di acqua calda e di un’invasione di cimici, mostrandoci i segni dei morsi sulle braccia - racconta Santoro - Oltre a riscontrare la presenza di topi nelle celle, ne avevano catturato uno e lo allevavano in una bottiglia per denunciare quello che stavano vivendo. C’è un sovraffollamento tale che si rischia di compiere il reato di tortura”. Anche Fedi, il ragazzo tunisino di 20 anni che si è tolto la vita impiccandosi a Sollicciano il 4 luglio, era tra i detenuti che avevano presentato un reclamo, confermando l’emergenza in cui versa quel carcere. A un 35enne tunisino che nella sua istanza chiedeva il “ripristino di un ambiente salubre” e “il funzionamento dell’acqua calda nelle docce e del riscaldamento” il magistrato di sorveglianza ha risposto a inizio luglio che l’acqua calda “non è un diritto essenziale del detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo nelle strutture alberghiere”. Parole che hanno prodotto indignazione. Ma il Garante nazionale dei detenuti, Maurizio D’Ettore, sta facendo chiarezza pure su un’altra ordinanza relativa a Sollicciano, un’istanza di liberazione anticipata respinta dallo stesso magistrato perché il detenuto aveva tentato di impiccarsi: un gesto considerato “incompatibile” con il presupposto della liberazione stessa, ovvero “la partecipazione all’opera riabilitativa”. “Scrivere che avere l’acqua calda è una pretesa da hotel è una mancanza di rispetto per la dignità dei detenuti - denuncia Santoro - e alimenta un luogo comune. Anche perché nel caso in questione, quello era solo uno degli innumerevoli disagi. Ma ancora più grave è il fatto il magistrato non abbia verificato, limitandosi a scrivere nelle valutazioni di ritenere “più credibile” la versione fornita dal carcere: in questo modo si rende impossibile qualunque protesta”. L’ordinanza è stata impugnata dal detenuto. Firenze. A Sollicciano 35 tentati suicidi da inizio anno di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 luglio 2024 Dall’inizio dell’anno, a Sollicciano ci sono stati 35 tentativi di suicidio, sventati all’ultimo secondo dagli agenti penitenziari. Una media drammatica di 5 tentati suicidi ogni mese. Un altro tentativo di suicidio è finito tragicamente pochi giorni fa, quello del tunisino ventenne che si è tolto la vita all’interno della sua cella bloccandone la serratura (il corpo del ragazzo, dopo che è stata eseguita l’autopsia, non è ancora stato rimpatriato in Tunisia, dove sarebbe dovuto arrivare sabato scorso, per questioni burocratiche). Non solo suicidi. Secondo i dati ufficiali del penitenziario, da inizio di quest’anno, si sono registrati 215 atti di autolesionismo, 80 atti di aggressione al personale di polizia penitenziaria, 17 proteste collettive, tra cui l’ultima pochi minuti dopo il suicidio, quando i detenuti hanno appiccato il fuoco in due sezioni che sono ancora inagibili e hanno costretto l’amministrazione penitenziaria a trasferire circa 25 reclusi. Quanto ai detenuti presenti, a fronte di una capienza di 497 posti e di 408 posti disponibili, a Sollicciano sono presenti 538 reclusi. L’indice di sovraffollamento dell’istituto è pari al 131,86 per cento. Nel frattempo, il garante nazionale avvierà accertamenti per capire se al penitenziario fiorentino viene rispettato l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e per appurare se viene rispettato il protocollo della Convenzione Onu contro “la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. In quest’ottica, dall’ufficio del garante di Roma, Felice Maurizio d’Ettore, è partita una lettera alla direzione del carcere per capire le reali condizioni dell’istituto in merito, nello specifico, alla presenza di acqua calda nelle celle. Gli accertamenti arrivano all’indomani dei ricorsi rigettati dal tribunale di sorveglianza presentati da alcuni detenuti in merito alla mancanza di acqua calda nelle celle. Un rigetto così motivato dal magistrato: “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive, ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Il garante D’Ettore, che preferisce al momento non pronunciarsi ufficialmente su Sollicciano, vive a Firenze, dove insegna diritto privato come professore ordinario, e conosce bene la realtà del penitenziario fiorentino, dove si è recato tra l’altro a fine giugno, insieme al direttore generale dell’edilizia penitenziaria del ministero della giustizia Antonio Bianco, notando condizioni molto critiche. Accertamenti, da parte dell’ufficio del garante, saranno avviati anche su un’altra ordinanza che rigetta la richiesta di liberazione anticipata di un detenuto della casa circondariale di Firenze il quale in passato aveva tentato il suicidio. La motivazione sarebbe che “il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera educativa”. Intanto, sono bloccati i lavori di ristrutturazione, per cui il ministero ha stanziato 7 milioni, una situazione su cui sta chiedendo accertamenti sempre l’ufficio del garante nazionale e su cui, da tempo, il Corriere Fiorentino chiede risposte ufficiali al Provveditorato regionale senza però riuscire ad avere risposte. Torino. Carcere e rivolte, visite dei politici tra le celle di Alberto Giulini e Matteo Roselli Corriere di Torino, 16 luglio 2024 I consiglieri piemontesi al Lorusso e Cutugno. Grimaldi: “Abbiamo voluto verificare le condizioni dei detenuti”. Sezioni sovraffollate, bagni con la muffa e scarsa attenzione verso i detenuti che richiedono cure sanitarie o misure alternative. È questa la fotografia scattata dalla visita dei consiglieri piemontesi di Alleanza Verdi e Sinistra che ieri hanno visitato il carcere Lorusso Cutugno, anche nella sezione diventata celebre attraverso un video Tik Tok. “Abbiamo voluto verificare le condizioni dopo le proteste di questo fine settimana e quello che emerge è che non c’è crimine che possa giustificare questa situazione ormai insostenibile”, spiegano Marco Grimaldi, deputato di Alleanza Verdi Sinistra e le consigliere comunali e regionali Alice Ravinale, Valentina Cera, Giulia Marro e Sara Diena. I rappresentanti di Avs sottolineano che “il fatto più grave riguarda sicuramente le cure e le richieste di misure alternative. L’accesso alle prime è totalmente insufficiente, con i detenuti che non ricevono le cure per i dolori da sopportare e, anche nei casi più gravi con tumori e problemi a deambulare, non hanno i sostegni per andare in bagno né gli strumenti per segnalare le emergenze. Poi c’è il tema delle misure alternative: le richieste sono lentissime perché gli uffici giudiziari hanno delle mancanze gravi di personale”. Una situazione di emergenza che porta a dinamiche che da Avs definiscono “inquietanti. Tanti carcerati fanno battute sul fatto che se non si fanno gesti eclatanti non c’è la possibilità di essere ascoltati”. I Verdi-rossi, una volta insediati in consiglio regionale, chiederanno “il ricorso a misure alternative per rimettere in sesto il carcere e una maggiore attenzione sulle problematiche di salute”. Intanto il clima continua ad essere particolarmente caldo all’interno del Lorusso e Cotugno. Nella tarda serata di domenica il padiglione C è diventato teatro di nuove scene di rivolta. I detenuti di due sezioni si sono rifiutati di rientrare in cella e hanno appiccato il fuoco nei corridoi come già avvenuto nei giorni precedenti. Un agente è stato ferito dal lancio di una bomboletta, che lo ha colpito in testa. Si è reso necessario il trasporto in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale Maria Vittoria e al poliziotto sono stati applicati cinque punti di sutura prima delle dimissioni con una prognosi di dieci giorni. Tornano così all’attacco i sindacati di polizia penitenziaria con il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci che lancia l’allarme: “Il carcere di Torino è ormai fuori controllo, i detenuti fanno quello che vogliono e si autogestiscono”. Milano. I deputati Scalfarotto e Marattin in visita al carcere minorile Beccaria: “È peggiorato” di Mario Marchi Il Riformista, 16 luglio 2024 “Con questo governo abbiamo avuto un giro di vite sulla giustizia minorile che l’ha resa molto simile a quella per gli adulti. L’atteggiamento del governo è stato di maggiore severità, invece qui si dovrebbe davvero costruire quella rieducazione di cui parla l’articolo 27 della costituzione, perché mai come sui giovani bisognerebbe puntare sul loro recupero”. Così il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto al termine di un sopralluogo a sorpresa affettato al carcere minorile di Milano Cesare Beccaria, insieme al collega parlamentare Luigi Marattin. L’istituto penitenziario è stato recentemente al centro di inchieste per presunti abusi ed episodi di violenze, mentre è all’attenzione delle cronache una serie preoccupante di episodi drammatici all’interno del sistema carcerario generale, con un totale di 56 suicidi dall’inizio dell’anno. “Quello che noi auspichiamo è che si continui a investire sulla giustizia in genere e sulle carceri. - ha aggiunto Scalfarotto - stiamo lavorando su un decreto che non risolve, perché quello che bisognerebbe fare per le carceri è abbreviare i termini per la liberazione anticipata come prevede il disegno di legge Giachetti che però il governo non ha recepito. Quindi è un pannicello caldo”. Per Luigi Marattin, si è trattato della prima visita ad una struttura penitenziaria: particolarmente sentita la sua reazione: “Ho visto ragazzi con occhi pieni di rabbia, altri con occhi pieni di speranza, un direttore e il personale che amano il proprio lavoro, e tanti sforzi - in condizioni difficili - per far sì che la funziona rieducativa della pena - garantita dalla Costituzione - possa funzionare appieno, ed evitare che queste giovani vite vadano perse”. Entrambi i parlamentari hanno rilevato che nel carcere minorile milanese “le condizioni strutturali sono peggiorate a causa delle recenti rivolte”. L’ultima rilevazione dell’associazione Antigone ha segnalato che i detenuti nel sistema carcerario nazionale sono 10mila in più rispetto ai posti realmente disponibili, con condizioni logistiche che in un terzo degli istituti non arrivano a garantire nemmeno tre metri quadri calpestabili per ogni detenuto, all’interno delle celle. Nello specifico, per quanto riguarda l’inchiesta in corso da parte della magistratura sugli episodi all’interno del Beccaria, Scalfarotto e Marattin hanno voluto evitare qualsiasi considerazione, dichiarando che “essendoci un’indagine in corso la politica deve fare un passo indietro, noi siamo sempre garantisti, quindi anche in questo caso”. Trapani. Visita di Rita Bernardini alla Casa circondariale: “Condizioni invivibili” livesicilia.it, 16 luglio 2024 La presidente di Nessuno tocchi Caino denuncia lo stato di sovraffollamento. “Il carcere di Trapani, in genere, viene definito non sovraffollato, e forse i numeri ci dicono che complessivamente è così, ma io, visitando insieme alla presidente della Camera penale di Marsala, l’avvocato Francesca Frusteri, il reparto Mediterraneo, quello di media sicurezza, dove ci sono più di duecento detenuti, ho trovato, cosa che non mi accadeva da tempo, una parte di carcere completamente chiusa e sovraffollata. Se andate, vi rendete conto che stanno veramente stretti”. Lo ha detto la presidente di “Nessuno tocchi Caino”, Rita Bernardini, a margine della conferenza tenuta a Marsala dopo aver visitato, ieri mattina, la Casa circondariale di Trapani. “In genere - ha continuato Bernardini - nel carcere trapanese ci sono camere piccole con due letti a castello di due posti ciascuno, ma la cosa più grave è che stanno chiusi 20 ore al giorno. I detenuti hanno diritto solo a due ore d’aria la mattina e due al pomeriggio. Cosa che difficilmente si riscontra in altri istituti di pena. Le celle sono fatiscenti, le porte dei gabinetti con le docce sono arrugginite ed è facile ferirsi”. “E inoltre - ha detto - non c’è aereazione perché nel bagno non c’è finestra. E sono in quattro a doverlo utilizzare. Un problema, invece, che è stato risolto rispetto all’anno scorso è quello dell’acqua, che è arrivata ancora prima dell’arrivo della nuova direttrice, ma ci hanno detto che l’acqua è di colore marrone. L’acqua calda per la doccia c’è a orari”. “Gli spazi per i passeggi durante l’ora d’aria sono luoghi infuocati, dove non c’è nemmeno una pensilina, c’è solo il biliardino. È sospesa la possibilità di andare al campo sportivo. Con il caldo che fa in questo periodo, una vita, insomma, davvero indecente”. Continua l’esponente radicale. “E poi con tutti i problemi che possono avere le persone. Ne abbiamo incontrate tantissime con problemi di tenuta psicologica, in alcuni casi anche psichiatrica, ma lo psichiatra viene due volte al mese, tossicodipendenti che non vedono il Sert nemmeno con il binocolo”. Rita Bernardini ha aggiunto: “Un detenuto che viene da Catania mi ha detto che non gli è stato permesso di comprare le merendine che lui voleva regalare, durante il colloquio, ai suoi quattro figli, tutti molto piccoli. Questa è una cattiveria che non si spiega. Così è difficile mantenere il rapporto con la famiglia. Per come me l’ha detto, mi sono venute le lacrime agli occhi. È un indizio davvero preoccupante delle condizioni di detenzione”. I numeri. “Dall’inizio dell’anno, i suicidi di detenuti sono 57 e sei quelli di agenti della polizia penitenziaria, uno dei quali proprio qui vicino, a Favignana. Noi, che veniamo dalla scuola pannelliana, da una vita lottiamo per ridurre il sovraffollamento nelle carceri, ma da quando si è insediato questo governo il numero dei detenuti, in Italia, è aumentato di 5 mila unità”. Milano. I detenuti-studenti di Bollate: “La maturità in carcere per costruirci un futuro nuovo” di Sara Bernacchia La Repubblica, 16 luglio 2024 Parlano i neodiplomati della sezione carceraria indirizzo Enogastronomia dell’istituto Frisi a Bollate. L’esame lo hanno concluso giorni fa, così si avvicinano curiosi alla cattedra per leggere il foglio dei quadri e, davanti alle valutazioni - quattro promossi su quattro, tutti con voti da 75 in su -, non trattengono un sorriso di soddisfazione. Sì, perché se sostenere l’esame di maturità è sempre una sfida, farlo da detenuti lo è ancora di più. E i neodiplomati della sezione carceraria indirizzo Enogastronomia dell’istituto Frisi a Bollate lo sanno bene. Da fuori, racconta I.K., è facile pensare “se sono finiti lì dentro, non avranno certo paura di un esame”, ma non è così: “La paura c’era eccome, soprattutto di non saper rispondere alle domande, di risultare impreparati”. Per questo lui ha fatto più del dovuto, leggendo anche libri al di fuori del programma, da Bel Ami di Guy de Maupassant a L’Agnese va a morire di Renata Viganò, ed è estremamente orgoglioso del suo 86. “Ho sempre sognato di laurearmi, ma mi ero rassegnato” racconta, spiegando di aver frequentato la scuola in Albania fino alla quinta superiore, ma di non essere riuscito a diplomarsi per i disordini scoppiati nel 1997 per la cosiddetta “anarchia albanese”. Da lì, accantonato il progetto di iscriversi all’università (per realizzarlo aveva anche studiato l’arabo negli anni delle superiori), la partenza per l’Italia: “Dovevo lavorare per mantenermi, non c’era più tempo per studiare. Ho sempre avuto il sogno di laurearmi, ma ci avevo rinunciato. Ora, dopo questo risultato, non sembra più impossibile”. E infatti pensa all’università (sul fascicolo con l’offerta formativa della Statale ha selezionato Enologia), anche se non vuole illudersi: inizierà solo se sarà convinto di poter arrivare fino in fondo. Nelle aule di Bollate i detenuti-studenti cercano di ricostruire il loro futuro. I corridoi decorati da murales, con le porte blindate dipinte di azzurro e verde chiaro, ricordano quelli di un liceo, ma le motivazioni che spingono a tornare sui banchi qui dentro non sono mai banali. “È un modo utile e costruttivo di passare il tempo. Permette di aumentare la propria cultura e di confrontarsi con gli insegnanti e i compagni” racconta Giuliano, che in oltre 30 anni di detenzione ha conseguito anche la maturità scientifica e una lunga serie di certificazioni informatiche e ora conta di attingere altro sapere dalla biblioteca del carcere. Chi arriva a diplomarsi sa che poter studiare qui è una fortuna, ma le difficoltà non mancano. È facile lasciarsi andare - “se hai una famiglia fuori - aggiunge I.K. - le preoccupazioni e i pensieri si moltiplicano per la lontananza” - o sentirsi in dovere di scegliere tra studio e lavoro, “perché - prosegue Giuliano - riuscire a mandare qualcosa a casa può fare la differenza”. La maggior parte di chi lascia la scuola (a settembre gli iscritti al Frisi erano 85, mentre gli allievi che hanno concluso l’anno sono la metà), infatti, lo fa per iniziare o proseguire un percorso di lavoro. “Anche per questo si punta sulla collaborazione tra scuola, direzione e attività, per far sì che gli studenti possano conciliare tutto” afferma Annaletizia La Fortuna, coordinatrice della sezione carceraria del Frisi, che insegna a Bollate da dieci anni: “L’arricchimento è sempre reciproco. Lo scambio non si limita alle nozioni, si estende alle esperienze di vita e alle opinioni”. Altra criticità semplice da immaginare quella di concentrarsi in una cella condivisa. “Cercavo di approfittare della mattina presto, quando gli altri dormivano” racconta Umberto, 56 anni, che divide la cella con due compagni e al diploma - conquistato rispondendo a domande su Primo Levi e Verga, illustrando menù in inglese e svolgendo esercizi di matematica davanti alla commissione - non avrebbe mai rinunciato. Fuori dal carcere frequentava già una scuola serale, che aveva abbandonato solo quando era diventata inconciliabile con i turni di notte al lavoro. E ora vede nella maturità alberghiera appena conquistata un lasciapassare per il futuro: “Uscirò tra pochi mesi. Sto compilando il curriculum europeo, ora posso candidarmi anche per posizioni nella ristorazione. Mi piacerebbe tornare nella mia zona, ma sarei pronto anche lavorare sulle navi da crociera”. Volterra (Pi). Il cammino di Punzo cercando “Atlantis” di Laura Antonini Corriere Fiorentino, 16 luglio 2024 Il nuovo spettacolo nel carcere e entro l’anno il bando del teatro stabile. È possibile ancora ipotizzare un mondo diverso? Un luogo migliore dove l’umanità possa esprimere al massimo le potenzialità nelle diverse discipline che la distinguono? È partita da questi interrogativi la Compagnia della Fortezza di Volterra che dal 27 luglio al 3 agosto è pronta a portare in scena nel carcere della cittadina toscana, quello che è il secondo atto del progetto Atlantis. “Siamo alla seconda fase di un lavoro che con il titolo provvisorio di Atlantis indaga sulla ricerca di un luogo interiore dove coltivare le buone potenzialità dell’uomo - spiega il regista e direttore artistico Armando Punzo da 35 anni al timone del progetto della Fortezza - Quello portato avanti nel carcere di Volterra è infatti un progetto che da più di trent’anni con successo tende alla rieducazione e alla valorizzazione dell’uomo che ha sbagliato. Un obiettivo che la stessa legge indica e che siamo orgogliosi grazie al sostegno delle istituzioni e della Regione da sempre al nostro fianco di portare avanti”. Assieme allo spettacolo il progetto Atlantis conferma quindi anche con la curatela di Cinzia de Felice altri appuntamenti. Ci sarà la settimana edizione di una masterclass di alta specializzazione sui mestieri del teatro Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza realizzata grazie al contributo delle fondazioni bancarie (dal 22 al 31 luglio) e una serie di mostre fotografiche in diversi luoghi di Volterra tra cui l’installazione collettiva nello stabilimento industriale La Salina Locatelli (locatellisaline.it). Oltre 100 immagini che raccontano Naturae. La valle dell’innocenza evento site specific della Compagnia della Fortezza che Punzo portò avanti in occasione dei trent’anni della compagnia e che ora è tornata a Volterra dopo l’esposizione per due anni nell’ambito delle attività del Teatro del Silenzio a Lajatico. “Quest’anno - annuncia il sindaco di Volterra Giacomo Santi - il Teatro Stabile nel Carcere di Volterra è sempre più una realtà concreta; stanno procedendo infatti gli atti e gli adempimenti necessari alla realizzazione della struttura. Un traguardo che rappresenta un valore preziosissimo per tutta la nostra comunità”. Il progetto esecutivo sarebbe quindi in dirittura di arrivo ed entro il 2024 dovrebbe esserci il bando internazionale. “Dentro il Teatro Stabile - conclude Punzo - faremo la nostra attività e l’intenzione è quella di ospitare una stagione teatrale che sarà aperta al pubblico anche esterno con ingresso dalla Torre del Maschio che non farà attraversare il carcere come oggi”. Giani: “Teatro in carcere, speranza per chi è detenuto” (toscana-notizie.it) Presentate le nuove iniziative del progetto culturale animato da Armando Punzo, sostenuto dalla Regione e frutto dell’attività di oltre 35 anni nel carcere di Volterra. Un progetto di livello nazionale, che si rinnova e si amplia e che la Regione sostiene come esempio di cultura e di inclusione sociale attraverso il teatro in carcere. La presentazione delle nuove iniziative in Palazzo Strozzi Sacrati con il presidente Giani, il sindaco di Volterra Giacomo Santi e gli organizzatori. “In un momento in cui le carceri - ha sottolineato Giani - balzano agli onori delle cronache per i drammi, mentre chiediamo al Ministero l’impegno per condizioni di vita dignitose, il progetto animato da Armando Punzo è anche un modo per reagire, un esempio di rilevanza nazionale e siamo orgogliosi che sia nato e cresciuto in Toscana. Il teatro nelle carceri infatti significa motivazione e speranza per chi vive in uno stato detentivo e per questo La Compagnia della Fortezza, che la Regione sostiene in maniera convinta, rappresenta un esempio di un vero e proprio Rinascimento che mette al centro l’uomo nelle sue espressioni più alte. Ringrazio Armando Punzo, gli organizzatori, il sindaco di Volterra e tutti coloro che sono impegnati anno dopo anno nell’animare questa esperienza”. “Il carcere di Volterra è un esempio di come la cultura sia riuscita a cambiare l’intero istituto - ha detto Armando Punzo - è un lavoro enorme che richiede costanza e la sinergia di tutte le Istituzioni. Ma se si attivano tutte le politiche e tutti i principi contenuti nella nostra Costituzione si può riuscire. Dietro a questo progetto la Regione c’è stata sin dall’inizio”. Un focus progettuale che, accanto alla presentazione dell’ultimo lavoro della Compagnia della Fortezza (che prosegue quest’anno il nuovo percorso di ricerca artistica iniziato nel 2023 con Atlantis cap.1 la permanenza), si propone di esplorare nuove frontiere artistiche e di approfondire la poetica e la pratica che hanno reso unica e straordinaria questa compagnia teatrale, proponendo una serie di importanti attività, incontri, masterclass, mostre e approfondimenti su quanto la poetica e la pratica della Compagnia della Fortezza sono riuscite a generare in otre trentacinque anni di attività nel carcere di Volterra. La Compagnia della Fortezza prosegue il percorso di ricerca artistica intrapreso lo scorso anno e presenta, in prima nazionale, nella Fortezza Medicea/Casa di Reclusione di Volterra, Atlantis - Capitolo 2 dal 27 luglio al 3 agosto, con la drammaturgia e la regia di Armando Punzo (Leone d’oro 2023 alla carriera alla Biennale di Venezia). Atlantis ha radici lontane. Nel 2015 Armando Punzo ha avviato una ricerca sul canone occidentale e sui suoi limiti, a partire dai testi di uno dei suoi massimi rappresentanti: William Shakespeare. La masterclass prevede un incontro pubblico di presentazione e approfondimento del progetto Per Aspera ad Astra - VII Edizione a margine di una delle repliche del nuovo spettacolo della Compagnia della Fortezza (29 luglio Ore 18 - Fortezza Medicea Carcere Di Volterra). Il progetto, rappresenta un’importante iniziativa che promuove la cultura e l’inclusione sociale attraverso l’arte e il teatro in carcere. Nato sul modello operativo della Compagnia della Fortezza, il progetto si è esteso a creare una rete nazionale in 16 carceri italiani, coinvolgendo realtà artistiche impegnate in percorsi di ricerca nell’ambito teatrale in alcune carceri italiane. Questa iniziativa innovativa si propone di offrire ai detenuti l’opportunità di esprimere la propria creatività e di sviluppare competenze artistiche professionalizzanti all’interno del contesto penitenziario, grazie all’attivazione di corsi di formazione professionale di attore e ai mestieri del teatro. Il progetto Per Aspera ad Astra ha visto una crescita costante negli ultimi anni, con il coinvolgimento di nuove fondazioni e il consolidamento di collaborazioni con Enti pubblici, istituzioni culturali e penitenziarie. Grazie all’impegno e alla dedizione di ACRI, dei partner artistici e delle fondazioni coinvolte, il progetto si è affermato come un modello di eccellenza nell’ambito dell’arte e della cultura. Completano il progetto le mostre fotografiche: La Compagnia della Fortezza a Castel Sant’angelo, mostra fotografica di Stefano Vaja, a cura di Cinzia de Felice (dal 20 luglio in via Don Minzoni, Volterra) racconto visivo degli straordinari momenti che hanno visto in scena la compagnia nella cornice unica di Castel Sant’Angelo a Roma. Sempre visitabili le due mostre permanenti La Compagnia della Fortezza nella Salina di Volterra (Salina Locatelli di Volterra www.locatelisaline.it) e Il Sale di Volterra - La Compagnia della Fortezza alla Biennale di Venezia (Volaterra bistrot - Via Guarnacci -Volterra). La violenza e la promessa mancata della democrazia di Mariano Croce* Il Domani, 16 luglio 2024 Come per un’infausta ciclicità, la politica torna a scivolare verso gli estremi, mentre il vetustissimo “centro” si fa sempre più pulviscolare in termini di successo elettorale - a meno che non solleciti, come nel caso della Francia, la riesumazione dei gloriosi argini antifascisti dei bei tempi andati. Dopo il fallito attentato a Trump ci si interroga su un fenomeno vistoso e fatale: la fallita promessa della democrazia. L’attentato a un ex presidente che minaccia di riprendersi la Casa Bianca per farne la sede di una monarchia, se non assoluta, certo poco illuminata, sembra spianargli ancor più la strada. E tutto contribuisce a ingigantirne la figura, facendone di volta in volta un golpista, un criminale, un miracolato. La minoranza dei repubblicani meno sensibili ai richiami del suo carisma si scontra o con il diffuso amore per lo strepito o con la follia dinamitarda di chi arriva a imbracciare le armi. Ma questa appunto è una manifestazione, benché eclatante, di un processo che, si diceva sopra, tocca la democrazia in quanto tale e la sua mancata promessa. Come per un’infausta ciclicità, la politica torna a scivolare verso gli estremi, mentre il vetustissimo “centro” si fa sempre più pulviscolare in termini di successo elettorale - a meno che non solleciti, come nel caso della Francia, la riesumazione dei gloriosi argini antifascisti dei bei tempi andati. E proprio a questi tempi andati torna la mente. Se è vero com’è vero che i parallelismi storici, quantunque azzardati, soccorrono nei momenti di fragilità psichica, in questi ultimi anni sembra ci si ritrovi in quel pericoloso ciclo primo-novecentesco, in cui le istituzioni democratiche avevano perso non solo lo smalto, ma soprattutto la capacità attrattiva nei confronti delle folle. Lo scorso secolo, più o meno a quest’altezza, avevano cominciato a farsi largo forze politiche capaci di mettere a frutto un’intuizione portentosa e luttuosamente efficace: mettere in mora l’idea che l’elettorato sia composto di individui dotati di raziocinio, che andavano convinti con argomenti e mobilitati con programmi credibili. L’azzardo riuscitissimo di quelle forze politiche fu attuare una strategia retorica assai più efficace e adottare una tecnica di penetrazione assai più invasiva, utilizzando il canale che tocca tutti e che si irradia come per un prodigioso riverbero: le emozioni. I leader di quelle forze conclusero che per ottenere il consenso non serviva dibattere, illustrare e dar conto. All’opposto, il plauso delle genti echeggiava tanto più sonante quanto più quei maestri dell’emozionalismo facevano leva su posizioni inattendibili e promesse grandiose, utili a forgiare un delirante immaginario collettivo. Vane le opposizioni di chi, con uno strumento démodé come il ragionamento, voleva mostrarne l’irrealizzabilità e denunciare la vacuità dei novelli piazzisti. Fino a qualche decennio fa, si credeva che questo travolgimento della ragione con il melodramma sudaticcio e l’oratoria teatrica fosse da attribuirsi a una transitoria sbandata collettiva occorsa tra le due guerre mondiali. Ma ahimè l’intensificarsi del radicalismo pare smentire questa bella speranza. Come notava ieri Nadia Urbinati, nemmeno le nostre democrazie (sedicenti) evolute riescono a sostituire “il taglio delle teste con il conteggio dei voti”. E allora c’è da chiedersi perché oggi accada questo. La forza seduttiva dei poli sembra infatti confermare il cosiddetto “teorema Böckenförde”. L’insigne giurista sosteneva che la democrazia contemporanea viva di presupposti che non sarà mai in grado di soddisfare. Böckenförde lamentava la perdita di un ancoraggio granitico, storicamente assicurato dalla fede religiosa. La democrazia contemporanea, all’opposto, si affiderebbe a precarie credenze vetero-illuministiche, come il rispetto per le libertà individuali e la ricerca di una giustizia mondana. Così facendo, la democrazia coprirebbe l’abisso delle emozioni umane con il tappeto liso delle istituzioni. Chi scrive non è certo propenso alla restaurazione della Respublica Christiana, ma vorrebbe almeno strappare una confessione a chi legge: quanti onestissimi difensori delle virtù democratiche, almeno per un fugace attimo, hanno in cuor loro pensato che Thomas Crooks, criminale quanto si vuole, avrebbe comunque risolto un gran problema? E allora, senza avventurarmi in presaghe diagnosi, preferisco avviare una qualche forma di pur rudimentale autoanalisi. *Filosofo Migranti in Albania, al via il 10 agosto tra giudici senza competenze e funzionari senza esperienza di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2024 A che gioco sta giocando il Governo nella partita albanese sui migranti? La domanda è d’obbligo perché, dopo una serie di rinvii, l’esecutivo si dice pronto all’operatività dal 10 di agosto, proprio quando la pubblica amministrazione sarà alle prese con le ferie, tribunali compresi. Del resto a giugno, in campagna elettorale per le europee, la premier Giorgia Meloni ne aveva fatto una questione di orgoglio, garantendo sulla partenza già dal primo agosto. Così, complici le ferie e nonostante la delicatezza di un’operazione ancora piena di incognite sul piano giuridico, a decidere del trattenimento dei richiedenti saranno anche giudici privi delle competenze previste dalla legge. E a valutare le domande d’asilo sarà uno sparuto numero di funzionari, appena assunti e senza formazione specifica. Scelta che, paventano da mesi gli stessi funzionari del ministero dell’Interno, “mette a repentaglio il processo decisionale e il diritto d’asilo”. Il numero degli sbarchi sulle coste italiane è in calo: gli arrivi di maggio e giugno sono un terzo di quelli registrati negli stessi mesi del 2023, la metà rispetto al 2022. Nei primi dieci giorni di luglio il Viminale riporta 2.361 sbarchi per il 2024 e 6.161 per l’anno scorso. Quelle destinate al centro albanese di Gjader, quasi pronto a venti km dall’hotspot già allestito nel porto di Shenjin, saranno “esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso”, precisa la legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania. Senza peraltro chiarire il destino di minori, donne e persone vulnerabili, né superare difficoltà e rischi connessi alle operazioni di screening dei migranti, presumibilmente condotte direttamente in alto mare, a bordo delle navi. Quanti migranti verranno portati in Albania ad agosto? Difficile a dirsi. Ma l’operazione costa almeno 700 milioni di euro e i centri vanno riempiti. L’hotspot ha una capienza di 200 persone che, di volta in volta e dopo le operazioni di identificazione, saranno trasferite a Gjader, il centro di permanenza che inizialmente non potrà ospitarne più di mille. La possibilità che a ferragosto la competente Questura di Roma debba produrre centinaia di decreti di trattenimento è reale. Questi vanno poi inoltrati all’autorità giudiziaria entro 48 ore e altrettante ne ha il giudice per convalidare o meno il trattenimento. Nel caso dei richiedenti asilo da trattenere in Albania la questione è ancor più delicata. Le stesse “procedure accelerate in frontiera” alle quali si vogliono sottoporre i richiedenti dei centri albanesi sono già state tentate l’anno scorso nell’hotspot di Pozzallo, in Sicilia, in base al cosiddetto decreto “Cutro” emesso del governo. I giudici della sezione specializzata di Catania hanno però ritenuto il decreto incompatibile con la normativa europea. Tenuti a disapplicarlo, hanno respinto le richieste di convalida e liberato i richiedenti. Ordinanze che il governo ha duramente attaccato e impugnato di fronte alla Cassazione che, a sua volta, ha rinviato alla Corte di giustizia Ue perché dirima la questione. Nell’attesa che si pronunci, per evitare che finisca così anche in Albania, il governo ha modificato il suo stesso decreto. Una correzione che tuttavia, secondo molti giuristi, non sana l’incompatibilità con le direttive europee e potrebbe non convincere i giudici chiamati a valutare i trattenimenti nei centri albanesi. Tanto che qualcuno, fuori e dentro i tribunali, sospetta che il governo non aspetti altro per poter scaricare sui magistrati il fallimento di un’operazione complicata e costosa. È sotto questa stella, o spada di Damocle, che a metà agosto i giudici del Tribunale di Roma dovranno esprimersi sui primi trattenimenti in Albania. Trattandosi di privazione della libertà ai danni di richiedenti asilo, la legge stabilisce che la competenza esclusiva delle convalide spetti alle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. La norma che le istituisce (dl 13/2017) vuole siano composte da giudici scelti “tra i magistrati dotati di specifiche competenze”, preferendo chi ha esperienza in materia, conosce l’inglese o il francese e prevedendo obbligatori corsi di aggiornamento. Insomma, un ruolo che non ammette improvvisazioni. Ma in Italia agosto è sinonimo di ferie e il Viminale ha preteso rassicurazioni nel caso di numeri ingenti. Per garantire lo svolgimento delle udienze di convalida nei tempi prescritti, il Tribunale di Roma ha stabilito, se necessario, di assegnarle anche a giudici esterni alla sezione specializza. E infatti nelle ultime settimane si sta facendo il possibile per cercare di formarli. “Non basterà”, spiega al Fatto un addetto ai lavori. “È solo il tentativo di non farli arrivare completamente digiuni”. A farne le spese può essere il diritto d’asilo: “Un giudice che non appartiene alla sezione specializzata potrebbe avere difficoltà a individuare le violazioni sperimentate dagli stranieri e dai loro difensori nella pratica, anche nell’accesso al diritto alla difesa”, avverte l’avvocata Giulia Crescini dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Ad avere il fiato del Viminale sul collo sono da tempo anche le commissioni territoriali che esaminano le richieste di protezione internazionale, al punto che i funzionari, sotto organico e oberati di arretrati, hanno scioperato a più riprese nell’ultimo anno. Convalidato il trattenimento, per i richiedenti in Albania avrà inizio l’esame delle domande, che per le procedure “in frontiera” va completato entro 7 giorni. La competenza è della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma, già dotata di due nuove sezioni per una decina di funzionari ai quali se ne aggiungeranno altri sette a metà luglio, sul totale dei 45 previsti per far fronte all’accordo Italia-Albania. E non si tratta nemmeno di funzionari esperti, quelli entrati con il concorso del 2017, selezionati per titoli attraverso prove specifiche. “Abbiamo sostenuto un esame su diritto pubblico, internazionale pubblico, dell’Ue e legislazione nazionale ed europea nell’ambito della protezione internazionale”, spiega una di loro al Fatto. “E poi storia contemporanea, in particolare dei paesi extraeuropei, geografia politica ed economica, in particolare del continente africano e asiatico. Successivamente c’è stato un corso in inglese dell’Agenzia Ue per l’asilo (Euaa) su tecniche di intervista, valutazione delle prove, assessment, soggetti vulnerabili, minori, casi di esclusione, vittime di tratta”. Percorso che per gli ultimi arrivati non c’è stato: sono stati assunti scorrendo le graduatorie dei concorsi aperti del Mef e dell’Inail, l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. I primi sono arrivati a maggio, “totalmente digiuni e quindi affidati all’esperienza dei colleghi per l’affiancamento, oltre a un corso online”, riferisce Adelaide Benvenuto, coordinatrice Fp Cgil ministero dell’Interno. Quanto ai sette in arrivo, “andranno formati da zero, ci vorrà tempo”. Li aspettano le audizioni dei richiedenti in video-collegamento, che vanno preparate caso per caso, con lo studio necessario e possono durare diverse ore, anche a causa di limiti linguistici ma non solo. E poi la scrittura dei decreti che motivano l’accoglimento o il diniego della domanda, il loro inserimento nel sistema, le fasi di valutazione collegiali, l’eventuale contenzioso e, non ultimo, la pressione emotiva. A proposito di pressioni, i nuovi funzionari sono stati sistemati all’interno della sede del ministero. “Le disposizioni del Viminale parlano di 2 o 3 audizioni al giorno, ma è già troppo perfino per chi ha esperienza, anche perché deve sopperire alle carenze nell’organico del personale di supporto e segreteria”, spiega Benvenuto, che infatti non si stupisce se alcuni “già meditano di tornare al precedente impiego”. Il rischio che la macchina si inceppi esiste. Anzi, ce n’è più d’uno. Esecuzioni, persecuzioni, torture: questi i “Paesi sicuri” secondo il Ministero degli Esteri di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 16 luglio 2024 Nelle schede di valutazione dei vari Stati considerati “sicuri” emergono solo motivi che attestano il contrario. A maggio l’ultimo ampliamento della lista, con l’Egitto del generale al Sisi. Su richiesta del ministero dell’Interno. Sparizioni forzate. Detenzioni arbitrarie. Limitazioni alla libertà di stampa e di manifestazione. Persecuzione della comunità Lgbtq+. Torture ed esecuzioni capitali. Sono alcuni degli elementi ricorrenti nelle valutazioni che hanno portato il ministero degli Esteri a considerare un paese come sicuro, in cui poter rispedire i migranti che arrivano in Italia. È quanto emerge dalle schede tecniche della Farnesina, ottenute dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) tramite un accesso agli atti, sulla base delle quali il governo italiano ha ampliato la lista dei paesi di origine sicuri con un decreto del 7 maggio scorso. Sei paesi in più rispetto ai 16 individuati a marzo 2023. Ad Albania, Algeria, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia sono stati aggiunti Bangladesh, Camerun, Colombia, Egitto, Perù e Sri Lanka. Un ampliamento che per molte associazioni è strumentale all’apertura dei centri per migranti che il governo Meloni sta costruendo in Albania. I paesi in lista, infatti, coincidono con le nazionalità di maggior arrivo. Altri, invece, compongono la platea del Piano Mattei tanto voluto da Giorgia Meloni, che mercoledì sarà di nuovo in Libia per partecipare al forum Trans-Mediterranean Migration, nel tentativo di creare ancor di più un imbuto e impedire alle persone di arrivare via mare. E questo vuol dire aumentare il bacino dei potenziali richiedenti asilo che vengono sottoposti alle procedure accelerate di frontiera. Significa avere meno garanzie, tempi ristretti e una buona possibilità che la propria domanda di asilo venga rigettata perché, secondo le valutazioni ministeriali, la situazione del paese sarebbe tale da presumere che le richieste di protezione internazionale non siano fondate. Il nuovo decreto - L’aggiornamento della lista dei paesi sicuri è previsto quando i governi vengono a conoscenza di un cambiamento significativo nel rispetto dei diritti umani di uno stato designato come sicuro. Qualora non venga più garantito lo stato di diritto, ci siano atti di persecuzione, tortura o trattamenti inumani e degradanti, il paese deve essere escluso dall’elenco. Ma dalle schede tecniche della Farnesina emerge tutt’altro. Molti degli stati inseriti nell’elenco “non figurano in nessun’altra lista tra quelle adottate dai paesi dell’Unione europea”, spiega l’avvocata Giulia Vicini, socia di Asgi, “e non si vede come possano essere considerati sicuri alla luce di una nota situazione di instabilità interna”. Ne è un esempio la Nigeria. Le schede compilate dalla Farnesina, aggiunge Vicini, “dimostrano un’istruttoria non soltanto insufficiente ma anche fortemente contraddittoria nelle sue risultanze”. Derive democratiche e gravi violazioni dei diritti fondamentali portano, in modo illogico, a considerare un paese sicuro: “Né è prova la massiccia raccomandazione da parte delle unità periferiche del Maeci di eccezioni”. Per il ministero infatti un paese può essere sicuro con l’esclusione di alcune aree geografiche e categorie di persone. Egitto - Una delle decisioni più discusse è quella di aver inserito l’Egitto nella nuova lista, tanto che 41 organizzazioni della società civile hanno chiesto al ministero degli Esteri di rivedere la scelta. Ma dalla Farnesina non si assumono la responsabilità della decisione, in un documento interno si legge che l’Egitto è stato inserito nella lista “su richiesta specifica del ministero dell’Interno” guidato da Matteo Piantedosi, lo stesso dicastero che si occupa delle procedure di rimpatrio. Nella scheda paese stilata dalla Farnesina ci sono tutte le motivazioni per non considerare l’Egitto sicuro per chi cerca di scappare. Nel documento si legge che il paese nordafricano è tra quelli con il più alto numero di esecuzioni capitali e che il Comitato sulla tortura delle Nazioni unite “ha espresso preoccupazione per denunce di arresti arbitrari, detenzioni illegali, maltrattamenti, sparizioni forzate, mancanza di garanzie processuali e del giusto processo”. E ancora, “sono stati segnalati episodi di violazioni, in particolare nei confronti di avvocati per i diritti umani, attivisti per la difesa dei diritti, giornalisti e politici di opposizione”. Una scheda dettagliata del regime che si conclude con una frase più che paradossale: “Alla luce di quanto indicato… si ritiene l’Egitto un paese di origine sicuro”, si legge. E poi le eccezioni: “Si ritengono tuttavia necessarie eccezioni per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani”. Tunisia - Lo aveva detto chiaro e tondo l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio durante la sua visita a Tunisi nell’agosto del 2020: “Chi viene dalla Tunisia verrà rimpatriato perché essendo un paese nella lista dei paesi sicuri le persone non scappano da guerre o da persecuzioni”. Guerra o meno, negli ultimi tre anni il presidente della Repubblica Kais Saied ha eroso tutti i capi saldi dello stato di diritto. E la Farnesina ha stilato per il paese nordafricano una scheda molto contraddittoria. “La legge vieta arresti e detenzioni arbitrarie, ma non sempre il divieto è rispettato”, si legge nel documento. E ancora: “La legge garantisce il diritto a un giusto processo”, ma “si sono tuttavia registrati casi di misure cautelari disposte senza il vaglio di un’autorità giudiziaria”. Libertà di stampa e di manifestazione, anche qui, “sono garantite dalla legge, con alcune gravi limitazioni”. Sulla tortura, “la legge proibisce queste pratiche, ma diversi attivisti per i diritti umani hanno denunciato la pratica della tortura nelle stazioni di polizia e nei centri di detenzione”. Insomma, tutte buone ragioni per non considerare il paese come sicuro. Nigeria - Sulla Nigeria la relazione della Farnesina è chiara: il contesto interno e regionale è caratterizzato da una crescente instabilità e da una situazione “particolarmente critica”, considerata la diffusione del terrorismo jihadista per mano di gruppi come Boko Haram e Iswap in alcune aree del paese. Ma le contraddizioni non finiscono qui. I sequestri di persona sono molto diffusi al nord della Nigeria, e non solo. Secondo i documenti del ministero, “non sussistono” atti di persecuzione nel paese, salvo precisare che la violenza domestica è diffusa, la libertà di espressione limitata, e i diritti della comunità Lgbtq+ - che subisce “soprusi, minacce ed estorsioni” - sono negati. I giornalisti, invece, sono spesso oggetto di violenze, molestie e intimidazioni. Questo è il quadro fornito dalla scheda tecnica del Maeci che, dopo aver elencato tutte le violazioni conferma: “Si ritiene la Nigeria quale paese sicuro”, ad eccezione di alcune soggettività, che “possono essere a rischio”, e di alcune aree del nord-est, dove è attivo Boko Haram e le condizioni umanitarie sono “gravemente compromesse”. Eccezioni che interessano gran parte della popolazione e del paese che, tuttavia, viene “bollato” come sicuro. Bangladesh - Dal cruscotto statistico del Viminale, il Bangladesh risulta la prima nazionalità di ingresso: al 12 luglio del 2024 sono stati registrati 6.207 cittadini bangladesi. Non è un caso che il paese sia stato aggiunto tra quelli sicuri nell’ultimo aggiornamento. Ma come scrive il Maeci nella sua scheda il paese è caratterizzato da una scarsa indipendenza della magistratura, corruzione, un graduale restringimento della libertà di espressione e degli spazi di dissenso e l’arresto di migliaia oppositori politici. “Negli ultimi anni si registra un crescente autoritarismo del governo della premier Sheikh Hasina”, si legge, al potere da oltre 15 anni. Ma il ministero sostiene che le violazioni segnalate non interessino le persone che arrivano in Italia, considerati a priori come migranti economici. Vengono segnalate anche discriminazioni e violenze diffuse, soprattutto nei confronti della comunità Lgbtq+, l’impiego di lavoro minorile e forzato, così come forme di schiavitù per debiti derivanti dall’usura. Inoltre, “particolarmente grave è il fenomeno delle sparizioni forzate e delle esecuzioni extra-giudiziali”, scrivono i funzionari. Dopo tali ragioni il Bangladesh può essere considerato un paese sicuro, ma non per determinati gruppi di persone. La risposta della Farnesina - “C’è superficialità in questo aggiornamento”, conclude Vicini, e deve allarmare ancor di più se si considera che dall’anno scorso una persona proveniente da questi paesi, oltre alle procedure accelerate, può correre il rischio di essere trattenuto alla frontiera. “Ed è preoccupante alla luce del protocollo siglato con l’Albania”, conclude l’avvocata. Il ministero degli Esteri ha risposto a Domani che “la provenienza di un richiedente asilo da un paese designato come “sicuro” comporta in ogni caso l’esame individuale della domanda”. E che le valutazioni dei vari paesi sono basate su una serie di fonti di organi internazionali autorevoli, tra cui anche l’Unhcr.