Il “cimitero di vivi” e quella scelta estrema di Rosaria Manconi La Nuova Sardegna, 15 luglio 2024 In un memorabile discorso alla Camera dei Deputati nell’anno 1904 Filippo Turati aveva definito il carcere “il cimitero dei vivi”, la rappresentazione plastica della esplicazione della vendetta sociale nella sua forma più atroce, persino meno pietosa della morte per mano del carnefice, perché lenta, inesorabile, consapevole. Lui, che le carceri le aveva conosciute e vissute da prigioniero politico, aveva gridato tutto l’orrore per quella esperienza dolorante di prigionia, invocando interventi e commissioni di inchiesta. Sono passati centoventi anni da quella denuncia ma nulla o poco è cambiato, certo non in meglio, e di sicuro le galere non sono diventate quei piacevoli circoli ricreativi evocati dall’immaginario collettivo. Al contrario il sistema penale e penitenziario si è inasprito, la popolazione carceraria è aumentata ed è sovrabbondante rispetto alla capienza effettiva delle strutture, le condizioni di vita sono sempre inumane e prive di dignità. Inimmaginabili per chi non le ha sperimentate. Eppure basterebbe chiudere gli occhi ed essere capaci di immedesimarsi nelle esistenze difficili dei reclusi. Catapultarsi idealmente dentro un qualsiasi istituto penitenziario del nostro Stato, in una cella qualsiasi: pochi metri quadrati, colma di oggetti, indumenti, brande in condivisione con altri sconosciuti, gelida d’inverno e torrida d’estate, priva di spazi di movimento e di privacy, impregnata di sudore, umidità, odore di cibo e urina in una combinazione che pervade. Dentro il bagno condiviso dove si potrà fare la doccia solo una volta alla settimana con l’acqua spesso fredda e con la tazza collocata proprio accanto alla cucina. In quella cella con annesso servizio si dovrà stare rinchiusi per almeno 22 ore al giorno, in ozio forzato, in un tempo fermo, alienante, fatto solo di attese: una telefonata ai familiari, l’ora d’aria in pochi metri quadrati sotto il sole o la pioggia, i colloqui con le persone care. Un tempo infinito scandito dai rumori delle porte che sbattono, dalle chiavi che chiudono, dalla conta, dai passi delle guardie lungo i corridoi. Un tempo che tradisce i sensi, mortifica il corpo e crea smarrimento. Mentre la solitudine si fa insopportabile e così la promiscuità, la mancanza di intimità, la privazione degli affetti, la violenza, il distacco dal mondo. Tutto così tanto doloroso da annullare la speranza fino a che il futuro appare come un buco nero, la vita perde senso e prevale la consapevolezza di essere solo uno scarto umano. A quel punto la morte sembra essere l’unico modo per cancellare se stessi e il dolore che lacera, e per togliere il disturbo alla Società. Che di fatto ha già dimenticato quel corpo estraneo avendolo relegato in uno spazio impenetrabile. Lontano dagli occhi e dalle coscienze. Dopo avere realizzato tutto questo non sarà più necessario chiedersi perché i suicidi in carcere siano venti volte superiori rispetto a quelli fuori le mura, né sforzarsi di ricercare motivazioni e soluzioni. Già chiare ma ignorate, al meglio sottovalutate, ipocritamente sfiorate con provvedimenti legislativi nei quali la parola suicidio non viene mai menzionata, nonostante sia la prima causa di morte nei penitenziari. Perché in fondo si sa che per fermare questa strage infinita basterebbe, ad esempio, evitare la carcerazione dei malati psichiatrici o invalidi, valutare i fattori di rischio al momento dell’ingresso nella struttura, garantire cure adeguate, spazi vitali, programmi trattamentali, affettività, maggiori contatti con la famiglia e con il territorio, limitare la detenzione ai reati più gravi, impedire la marginalità, garantire umanità, rispetto e dignità nella esecuzione della pena. E adottare, nell’urgenza, provvedimenti di clemenza idonei ad arginare il sovraffollamento. Troppo? No, il minimo. La Costituzione imporrebbe maggiori obblighi. E noi che, come direbbe De Andrè, ci crediamo assolti ma siamo lo stesso coinvolti e sentiamo sulle nostre coscienze il peso di queste morti - ad oggi 55 detenuti e sei Agenti addetti alla sorveglianza - abbiamo il dovere di sollecitare la politica, impedire l’anestetizzazione delle coscienze ed evitare che cali il silenzio su questa inarrestabile conta. “Carceri sicure”: un decreto del tutto inadeguato di Denise Amerini sinistrasindacale.it, 15 luglio 2024 Il 4 luglio è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il Dl 92/2024, definito dal ministro Nordio “carcere sicuro”, la risposta del governo all’emergenza carcere. Emergenza ormai insostenibile, visto che al 9 luglio sono 54 i suicidi fra le persone ristrette, sei nella polizia penitenziaria, e il sovraffollamento ha superato il 130% con valori maggiori in molti istituti, fino al 224% di San Vittore. Le condizioni di vita delle persone ristrette sono ormai quelle che hanno già portato la Corte europea negli anni scorsi a condannare il nostro paese per trattamenti inumani e degradanti. Oggi sempre di più le notizie che arrivano da diversi istituti parlano di condizioni invivibili: zecche, cimici, assenza di acqua corrente, stanze insalubri, celle per quattro persone dove ne sono stipate quindici. In una situazione come questa, destinata sicuramente a peggiorare, il “decreto carcere” appena varato appare del tutto inadeguato, mera propaganda. Non avrà ricadute concrete sul sovraffollamento, sull’assistenza ai tanti soggetti fragili presenti in carcere, non eviterà nuovi ingressi, non avrà effetti sulle uscite. Non è previsto alcuno sconto di pena, eppure molte autorevoli voci si sono levate, anche dal mondo accademico, per sottolineare la necessità di pensare a provvedimenti di clemenza, a misure veramente deflattive, compreso l’indulto. Le modifiche previste dal decreto per la concessione della libertà anticipata riguardano solo una possibile semplificazione dell’iter, dai contorni incerti se non farraginosi, e non produrranno nessun reale beneficio. Visto che si accede ai benefici solo in caso di buona condotta, con la recente introduzione nel codice del reato di resistenza passiva, da molti rinominato “reato di non violenza”, per il tramite del quale possono configurarsi come reati condotte che di fatto non lo sono, fino alle legittime proteste non violente per condizioni di vita insostenibili, viene da chiedersi dentro quali perimetri si definirà da oggi in poi la buona condotta. Le assunzioni previste nella polizia penitenziaria sembrano più un provvedimento propagandistico che altro: a fronte delle gravi, croniche carenze di personale, mille assunzioni e non immediate - 500 nel 2025 e 500 nel 2026 - quale reale impatto possono avere? Nulla è previsto per educatori, mediatori culturali, personale assolutamente carente ma indispensabile per socializzazione e rieducazione. Anche l’ipotesi di trasferire i detenuti in comunità, delle quali dovrà essere creato apposito albo, è un provvedimento che, oltre a suscitare diversi interrogativi sulle modalità di attuazione e sul ruolo attribuito alle comunità, necessiterà di tempi non brevi per essere realizzato. Nella sostanza, per come è scritto l’articolo 8, non sembra modificare di molto quanto già viene fatto: già oggi sono numerosi i soggetti fragili in esecuzione penale esterna presso strutture di accoglienza, ed è tutto da capire come le comunità verranno accreditate e con quali risorse finanziate, e come dovranno rispondere alle esigenze restrittive, visto che dovranno accogliere persone in misura custodiale. Vengono aumentate le telefonate, da quattro a sei al mese, ma i direttori delle carceri già avevano piena deroga di far telefonare le persone in misura maggiore di quanto previsto nel regolamento penitenziario, tanto che in diversi istituti era stato mantenuto il numero incrementato per far fronte all’impossibilità di colloqui in presenza dovuta al Covid. E nulla il decreto accenna rispetto la concreta applicazione della sentenza della Corte Costituzionale di gennaio scorso, che riconosce il diritto all’affettività ed ai colloqui intimi per le persone ristrette. Allora, dove sta l’umanizzazione della pena, declamata dal ministro? La pena non può essere vendetta, non può essere barbarie, non può consistere in trattamenti inumani e degradanti: il sovraffollamento ed i suicidi ci dicono la distanza del carcere dal principio di umanità e dalla Costituzione. Lo Stato, cui è affidata la custodia delle persone ristrette, è responsabile delle condizioni disumane, degradanti, in cui vivono. Il decreto non risolve i gravi problemi della detenzione, non umanizza nulla. Il sovraffollamento è il primo problema da risolvere, e non si risolve con la costruzione di nuove carceri. La funzione rieducativa della pena resta un principio inapplicato se non si interviene per garantire il diritto alla formazione, alla salute, al lavoro, alle relazioni affettive. Al di là delle parole non cambierà nulla, né per le persone ristrette, né per chi lavora in carcere. Riprendendo le parole dell’Unione camere penali, “a fronte delle condizioni di oggettiva inciviltà in cui versano le carceri, auspichiamo che la politica abbandoni inutili slogan e scelga di operare in aderenza ai principi costituzionali, ponendo in essere rimedi urgenti realmente sottesi all’umanizzazione della pena e al superamento delle condizioni di sostanziale illegalità”. Leggendo i provvedimenti del governo su giustizia e carcere, non sembra che questo sia l’obiettivo. Liberazione anticipata, al Pm il calcolo dello sconto di pena di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2024 Cambia la procedura ma resta invariata l’entità della riduzione di pena. Nell’ordine di esecuzione indicate subito le detrazioni per chi ha condotte corrette. Il decreto legge carceri (92/2024, in vigore dal 5 luglio scorso) varato dal Governo e ora all’esame della commissione Giustizia del Senato per la conversione in legge modifica la procedura di applicazione della liberazione anticipata senza, tuttavia, toccare l’entità dello “sconto” di pena, che resta fissato in 45 giorni ogni sei mesi di detenzione espiata. Un primo intervento riguarda il contenuto dell’ordine di esecuzione: in base al nuovo comma 10-bis dell’articolo 656 del Codice di procedura penale, il pubblico ministero incaricato dell’esecuzione dovrà indicare la pena da espiare, precisando sia quella risultante computando tutte le detrazioni previste dall’articolo 54 dell’ordinamento penitenziario fruibili dal condannato, sia quella da espiare senza tali detrazioni. Avvisandolo, peraltro, che le detrazioni a titolo di liberazione anticipata non saranno riconosciute qualora, durante il periodo di esecuzione della pena, il condannato non abbia partecipato all’opera di rieducazione. In altri termini, il condannato, fin dall’inizio dell’esecuzione, conoscerà l’intero ammontare della liberazione anticipata che potrà ottenere mantenendo una condotta corretta di adesione al trattamento penitenziario. Al contrario, nel caso di comportamenti non compatibili con questa premialità, il magistrato di sorveglianza non riconoscerà la detrazione di pena, negando il beneficio o revocando la riduzione di pena già concessa. Le decisioni negative saranno comunicate al pubblico ministero, che calcolerà il nuovo fine-pena. Viene anche modificata la disciplina contenuta nell’articolo 69-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (354/1975) che introduce una valutazione della liberazione anticipata scandita nei soli casi tassativamente previsti: a) con procedura d’ufficio, in occasione di ogni istanza di accesso alle misure alternative alla detenzione o ad altri benefici analoghi - sia nel caso di competenza monocratica, sia nell’ipotesi di misure concedibili dal tribunale - rispetto ai quali sia rilevante lo “sconto” di pena (ad esempio, per lo scioglimento del cumulo o per scendere sotto il limite di pena stabilito per la singola misura richiesta); l’istanza per la concessione della misura alternativa può essere presentata anche se l’interessato non sia ancora nei termini per richiederla, purché la domanda sia proposta a partire dai go giorni antecedenti al maturare dei presupposti per l’accesso alle misure alternative alla detenzione o agli altri benefici analoghi; anche in questo caso, il magistrato valuterà d’ufficio la liberazione anticipata; b) sempre d’ufficio, nei 90 giorni antecedenti al maturare del termine di conclusione della pena da espiare, come individuato dal pubblico ministero nell’ordine di esecuzione; il procedimento avrà ad oggetto la liberazione anticipata relativa ai semestri che non sono già stati oggetto di valutazione nel corso dell’esecuzione (ad esempio perché l’interessato non ha mai formulato istanza di liberazione anticipata); c) su iniziativa di parte, nei soli casi in cui il soggetto indichi nell’istanza - a pena di inammissibilità - lo “specifico interesse”, diverso da quello delle altre ipotesi sopra indicate, che sostiene la domanda (ad esempio quello relativo al cosiddetto “scioglimento del cumulo” in presenza di reati ostativi). Il procedimento viene, in tutti i casi, semplificato, perché non si prevede più l’acquisizione del parere preventivo del pubblico ministero. Le modifiche, pur avendo natura processuale e dunque di immediata vigenza in relazione ai procedimenti di liberazione anticipata pendenti, secondo il principio tempus regit actum potranno necessariamente applicarsi solo a quei rapporti di esecuzione penale originati da un ordine di esecuzione che contenga già le indicazioni di cui al nuovo comma io-bis dell’articolo 656 del Codice di procedura penale, compreso il calcolo della liberazione anticipata e del fine-pena virtuale da parte del pubblico ministero. Entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legge 92/2024 (quindi entro il 5 gennaio 2025), devono essere apportate al regolamento esecutivo della legge penitenziaria (Dpr 230 del 30 giugno 2000) le modifiche necessarie per adeguarlo alla nuova disciplina. Condanne fino a 18 mesi, salta la ratifica collegiale per le misure alternative di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2024 Viene semplificato l’iter (già snello) per le domande dei “liberi sospesi”. Il decreto carceri (92/2024) snellisce la procedura con cui i condannati “liberi sospesi” (articolo 656, comma 5, Codice di procedura penale) con pene fino a 18 mesi possono chiedere di accedere alle misure alternative alla detenzione. Nei fatti, viene eliminata la ratifica collegiale della decisione presa provvisoriamente dal magistrato di sorveglianza. Già l’iter regolato in precedenza era in realtà più rapido rispetto a quello ordinario: il “vecchio” testo dell’articolo 678, comma 1ter, del Codice di procedura penale prevedeva la possibilità di un intervento anticipatorio della decisione del tribunale di sorveglianza da parte del magistrato relatore del procedimento, che può applicare in via provvisoria una misura alternativa che va in esecuzione, qualora l’interessato non si opponga, prima della decisione collegiale, che si limiterà a ratificare la decisione del giudice relatore. Si tratta, in altri termini, di una sorta di “corsia accelerata” per la definizione di quei procedimenti per i quali sia già intervenuta una prima decisione favorevole da parte del relatore. Nell’intento di snellire ulteriormente l’iter di applicazione delle misure alternative alla detenzione, l’articolo io, comma 2, del decreto legge 92/2024 introduce una ancor più marcata deroga alla competenza collegiale, espungendo dall’evocata disposizione processuale ogni riferimento alla provvisorietà della decisione assunta dal giudice relatore, che si pronuncerà quindi con ordinanza sulla concessione delle misure alternative per tutte le condanne fino ai.8 mesi di pena relative ai condannati “liberi sospesi” senza che il provvedimento debba poi essere ratificato dal tribunale di sorveglianza. La competenza collegiale resta confermata in due sole ipotesi: nel caso sia presentata opposizione nei confronti della decisione assunta dal magistrato relatore e qualora quest’ultimo, nel termine assegnato dal presidente, non adotti l’ordinanza di concessione della misura. La nuova disciplina, non essendovi una disposizione transitoria, ha efficacia a decorrere dal 5 luglio scorso, data di entrata in vigore del decreto. Deve, pertanto, ritenersi che - trattandosi di disposizioni di natura processuale - le novità troveranno applicazione, secondo il principio tempus regit actum, a decorrere da quella data, con riferimento alle nuove iscrizioni di procedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza nonché in relazione ai procedimenti tuttora pendenti davanti al magistrato relatore e non ancora da quest’ultimo definiti. Le ordinanze provvisorie adottate dal magistrato relatore fino all’entrata in vigore del decreto di urgenza seguono il vecchio rito, che prevede la ratifica senza formalità della decisione monocratica da parte del collegio. Il Parlamento difenda la Corte Costituzionale di Donatella Stasio La Stampa, 15 luglio 2024 Da 8 mesi manca uno dei 15 giudici, ma sul tavolo ci sono temi decisivi: dai referendum elettorali al dl Caivano. “Lo hanno fatto tutti”. “La casta non interessa agli italiani”. “Sono le regole della politica”. “In passato, tempi anche più lunghi”. È un piccolo campionario di risposte che, nel mare dell’indifferenza, dell’ignoranza, del silenzio e della supponenza, si raccolgono quando si fa notare che da otto mesi (la media è sette mesi e mezzo) manca uno dei 15 giudici costituzionali, di nomina parlamentare, sebbene la sostituzione debba avvenire entro un mese; che il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha convocato il Parlamento in seduta comune solo cinque volte e non ha ancora fissato il sesto scrutinio; che la premier Giorgia Meloni, dopo aver rivendicato la sua “prerogativa di dare le carte”, non ha cercato alcun accordo con le altre forze politiche, come sarebbe nello spirito della Costituzione, perché il suo obiettivo è arrivare al 21 dicembre, quando scadranno altri tre giudici, per incassare un poker o un tris; che alla maggioranza mancano solo 11 voti al quorum dei tre quinti, raggiungibile con l’appoggio di Azione o Iv (con cui sono state già condivise alcune battaglie); che questo stallo costringerà la Corte, da novembre e almeno fino a marzo 2015, a lavorare con soli 11 giudici, ma basterà l’assenza di uno/una (per malattia o per motivi personali) a bloccare la giustizia costituzionale; e che quindi sono a rischio questioni caldissime già in calendario: referendum elettorali e sull’autonomia differenziata, maternità surrogata, decreto Caivano, limite ai mandati dei sindaci di grandi comuni, contributi pubblici alle emittenti televisive, e molte altre ancora. La nostra democrazia è fragile, e questa vicenda ne è la prova. Siamo tutti “cani da guardia della democrazia” ma se - come diceva Piero Calamandrei - la cartina di tornasole è il “costume democratico”, ovvero la capacità di tradurre giorno per giorno in “concreta, ragionata e ragionevole realtà” le formule costituzionali vigenti, questa vicenda ci dà la misura dell’enorme distanza da quel costume democratico e, purtroppo, della pericolosa accondiscendenza ad atteggiamenti assolutistici del potere, proprio quelli dai quali ci ha messi in guardia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo prezioso intervento sulla democrazia. In un passaggio di quel discorso, Mattarella ha ricordato che le Corti costituzionali sono una conquista del secondo dopoguerra e che nascono come scudo ai diritti e alle libertà e come limite all’azione prevaricatrice delle maggioranze politiche. Tuttavia, molti governi continuano ad essere insofferenti a questa funzione “contromaggioritaria” delle Corti, che perciò va difesa in ogni snodo della loro vita, fin dalla composizione, che dev’essere tempestiva e trasparente, deve garantire il pluralismo delle voci e la loro autorevolezza, e deve sfuggire a logiche di appartenenza partitica. Questa speciale vigilanza è tanto più necessaria in tempi di regressioni democratiche in cui i governi cercano di appropriarsi delle Corti. Come? Incidendo sulla loro composizione (ritardandola, azzoppandola, pensionando giudici scomodi e nominandone di graditi), delegittimandole, accusandole di politicizzazione. Ecco perché non ci si può distrarre di fronte al ritardo nell’elezione dei giudici né si può minimizzare la “coazione a ripetere” dei Parlamenti. Meno che mai se un premier ostenta una concezione privatistica delle istituzioni e se la sua maggioranza sfiora il quorum fissato dai costituenti per impedire, invece, che faccia da sola. L’elezione del giudice non è un fatto esclusivamente politico, che può anche essere giocato su più tavoli (per esempio con altre nomine). È un preciso obbligo costituzionale. Quindi, superato il mese stabilito dalla legge, il Parlamento va convocato a oltranza per interrompere la violazione in flagranza della legalità costituzionale. Il ritardo è anche uno sfregio al principio della leale collaborazione istituzionale, tanto più sacro di fronte a un’Istituzione che garantisce i diritti di tutti e perciò non può diventare ostaggio delle maggioranze politiche di turno. Ecco perché i vertici istituzionali, a cominciare dai presidenti di Camera e Senato direttamente responsabili, non sono mai stati silenti, come invece lo sono oggi Fontana e La Russa, quasi a voler costringere il Colle a fare il primo passo. Con l’aggravante che, finora, le convocazioni hanno avuto una frequenza addirittura inferiore al mese, giusto per facilitare l’obiettivo di arrivare a dicembre, mentre in passato avevano un ritmo, se non settimanale, quanto meno quindicinale. Se vogliamo sapere come la pensa Sergio Mattarella, basta tornare al 2 ottobre 2015: era al Quirinale da appena sette mesi e aggiunse la sua voce a quella dei presidenti delle Camere Boldrini e Grasso per chiedere di eleggere “con la massima urgenza” i tre giudici mancanti, scaduti in momenti diversi e finiti in un unico “pacchetto”. Erano trascorsi 16 mesi e 26 scrutini, e Mattarella parlò di “doveroso e fondamentale adempimento a tutela del buon funzionamento e del prestigio della Corte e a salvaguardia della responsabilità istituzionale del Parlamento”. A maggio 2005, Carlo Azeglio Ciampi intervenne dopo soli quattro mesi di inutili tentativi per eleggere due giudici: convocò al Colle i presidenti delle Camere Casini e Pera e da lì partirono votazioni ripetute e quotidiane. Già nel 2002, dopo un anno e mezzo, 20 scrutini e uno sciopero della sete di Marco Pannella, Pera e Casini agitarono lo spettro di votazioni ad oltranza e fu subito trovato l’accordo, anche perché, poco prima, la Corte era stata costretta a fermarsi per mancanza di cinque giudici (due vacanti e tre assenti per lutto, malattia e incompatibilità). Giulio Andreotti ricordò che il protrarsi dello stallo avrebbe potuto indurre il Quirinale a sciogliere il Parlamento per questa grave inadempienza (ipotesi già ventilata da Cossiga nel ‘90). Nel 2008 si sentirono le voci dei presidenti delle Camere Bertinotti e Marini, poi di Fini e Schifani, e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlò di “inderogabile dovere costituzionale” del Parlamento e di “insostituibile funzione di garanzia della Corte nella pienezza della sua composizione”. Rompere il muro del silenzio è importante quanto l’elezione. Anche per evitare che i cittadini coltivino lo sciagurato sentimento anti-casta inoculato dai nuovi populismi, e capiscano che nessun governo è padrone del Parlamento e della Consulta. In ogni caso, gli errori del passato non sono mai una giustificazione per continuare a sbagliare, per di più rivendicando il potere assoluto di “dare le carte”. Non è questa la democrazia di cui siamo figli e figlie. La Corte potrebbe anche adottare misure in chiave di autodifesa (per esempio, ripristinando la prorogatio dei giudici scaduti) ma sarebbe una sconfitta della leale collaborazione istituzionale e quindi della democrazia. Siano i partiti, di maggioranza e di opposizione, a dare un segnale di vitalità democratica, proponendo candidati e candidate autorevoli e plurali. Il Parlamento abbia un sussulto di orgoglio e dimostri di non essere succube di chi ha vinto le elezioni. È vero: le urgenze non mancano, a cominciare dai 9 decreti legge rovesciati dal governo sul Parlamento; ma nulla impedisce al presidente della Camera Fontana di convocare la seduta comune il sabato o la domenica o nel periodo estivo. Sempre che voglia dimostrare quel “costume costituzionale” di cui parlava Calamandrei per dare attuazione alla Costituzione e agli obblighi che essa prescrive per garantire l’integrità, l’indipendenza, la funzionalità della Corte costituzionale. E quindi, la piena garanzia dei nostri diritti e di una democrazia sana. Criminalità e minori, in Europa aumenta l’emergenza sociale di Michela Finizio* Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2024 Dall’Italia alla Spagna si registra un aumento di reati sentinella come rapine, risse e violenze sessuali ed emerge l’aggressività degli under 18. La risposta dei governi è un inasprimento delle misure. Titoli di giornale, dichiarazioni di autorità pubbliche, periferie urbane come luoghi di frontiera. E numeri: se non c’è sempre una crescita a livello assoluto degli arresti o dei reati denunciati, ad aumentare sono le percentuali di reati “sentinella” - rapine, risse e violenze sessuali:?i più predatori - commessi da ragazzi tra i 14 e i 17 anni. La criminalità giovanile diventa emergenza sociale in diversi Paesi d’Europa. In Italia, secondo gli ultimi dati del Servizio analisi criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, nel 2023 sono stati segnalati 31.173 minori, per il 51,4% di origine straniera. Il fenomeno risulta in calo sul 2022, quando le segnalazioni erano state 32.522, ma è in aumento (+11%) sul 2019, quindi agli anni pre-pandemia. Ad aumentare sono state soprattutto alcune tipologie di reato più violente:?le rapine commesse da minori nel 2023 sono state oltre 3.400, in salita del 7,9% sul 2022 e oltre il doppio a fronte delle 1.594 segnalate nel 2010. Solo nel primo quadrimestre 2022 sui quotidiani nazionali sono stati pubblicati in Italia oltre 1.900 titoli di giornale relativi a episodi di criminalità giovanile (Osservatorio Transcrime), un allarme che si è tradotto anche in nuovi provvedimenti più restrittivi: con il decreto Caivano il Governo italiano ha introdotto l’ammonimento del Questore per i minori (tra 14 e 17 anni) che commettono un certo tipo di reato; uno strumento che scatta anche tra i 12 e i 14 anni per i reati più gravi. Aumentano anche i provvedimenti di custodia cautelare, tanto che in Italia non ci sono mai stati tanti minori reclusi nelle carceri (555 a inizio luglio, di cui il 47% sono stranieri non accompagnati). In Francia la situazione è simile: in realtà le cifre sono in calo da una decina d’anni con i minori accusati di crimini passati da 210mila del 2011 a 121mila nel 2023. Ma quello delle banlieues è il vero nodo della questione: dopo le ultime “rivolte” nelle periferie in seguito alla morte del 17enne Nahel M., ucciso dalla polizia francese a Nanterre a giugno 2023, sono state considerate misure più severe come il taglio degli aiuti sociali al nucleo familiare se il figlio è recidivo. Il premier Gabriel Attal ha proposto addirittura una pena ai genitori per i reati commessi dai figli. Anche in Bulgaria le notizie sulle aggressioni commesse da bambini (o contro i bambini) sono frequenti. Le statistiche ufficiali della polizia locale non segnalano però un aumento dei crimini: si è passati dai 5.120 (1.292 con autori under 14 e 3.828 tra 14 e 17 anni) del 2021 ai 5.110 (1.287 reati di under 14 e 3.823 sotto i 18 anni) del 2023. In Bulgaria, oltretutto, i minori di 18 anni non sono penalmente responsabili delle proprie azioni: possono essere perseguiti penalmente, ma in base a norme speciali che prevedono sanzioni più leggere. I media ellenici hanno gli occhi puntati sulla violenza tra i minori, con notizie quasi quotidiane. Secondo le ultime statistiche della polizia greca, sono stati più di 10.700 nel 2023 gli episodi di delinquenza giovanile e 17 bande giovanili sono state smantellate. George Nicolaides, psichiatra direttore del dipartimento di salute mentale e assistenza sociale presso l’Institute of Child Health, ha sottolineato che “in Grecia, è vero, c’è stato un aumento del fenomeno. Ma questo si è già verificato dal 2012, 2013, 2014 e da allora in poi i numeri sono piuttosto stagnanti”. Più preoccupanti dei dati quantitativi, secondo lo studioso “sono le caratteristiche qualitative degli illeciti poiché hanno una crudeltà che non vedevamo 10-15 anni fa”. La recente modifica del codice penale in Grecia, inoltre, ha reso più facili gli interventi restrittivi della libertà sui minori, con il rischio che “il previsto aumento del numero di bambini in carcere intrappoli i minori ai margini, rischiando di contribuire alla recidiva”, afferma l’avvocato Theoni Koufonikolakou, vice difensore civico per i diritti dei bambini. Il trend rimbalza anche in Spagna, dove nel 2022 sono stati 14.026 i minorenni condannati (dai 14 ai 17 anni), + 3,2% rispetto al 2021. I reati più diffusi sono lesioni (31,4% del totale), rapina (17,5%) e minacce (8,6%). Anche qui le condanne per reati sessuali commessi da minori sono state 501, il 14,1% in più rispetto all’anno precedente. Secondo l’Istituto Spagnolo della Gioventù “i delitti commessi da minorenni sono diventati un problema sociale, anche se numericamente residui”. Il rumore mediatico, secondo l’istituto spagnolo, riflette altri fenomeni: “la maggiore facilità di accesso ai farmaci, la mancanza di opportunità di lavoro, di salute, di istruzione e la disgregazione familiare, l’iperprotezione, le leggi morbide, tipiche di una società deresponsabilizzata, di ambienti liquidi e disimpegnati”. Un quadro, probabilmente alimentato dalle conseguenze della pandemia sui più giovani, che sembra trovare le sue radici nel disagio delle nuove generazioni, in un’Europa sempre più lontana da chi deve ancora crescere. *Questo articolo è parte del progetto Pulse. Hanno collaborato: Francesca Barca (VoxEurope), Samuil Dimitrov (Mediapool.bg); Ana Somavilla (El Confidencial); Dina Daskalopolou (Efsyn). Nelle grandi città il 40% di fermi e arresti di Michela Finizio Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2024 Ad alzare la soglia di allarme sui crimini commessi da minorenni sono le dinamiche su scala urbana, in particolare in alcuni centri metropolitani dove il fenomeno della delinquenza giovanile sta generando preoccupazione tra i sindaci, alle prese con delibere contro la movida e presidi delle forze dell’ordine. È soprattutto in città, in particolare nell’eterno conflitto tra centro e periferia, che post pandemia aumenta la soglia di allarme legata al disagio minorile. In Italia il 39,6% dei ragazzi segnalati nel 2023 tra i 14 e i 17 anni vive nelle città metropolitane e il 47% dei fermi per rapina avviene in questi ambiti urbani. A Milano in particolare sono stati 505 i minori fermati per una rapina nel 2023, un numero mai raggiunto dal 2010 ad oggi. Per altre sei delle 14 città metropolitane (Bari, Bologna, Messina, Palermo, Reggio Calabria e Torino) non si rileva, invece, alcun incremento nei dati sui fermi e arresti di minori rispetto al biennio 2018-2019. Osservando infine l’incidenza dei minori stranieri tra quelli segnalati, questo dato si accentua negli ultimi anni in particolare a Bologna, Firenze, Genova e Milano. Più in generale, a livello nazionale i dati delle Forze di polizia sembrano dare riscontro all’allarme crescente intorno al fenomeno della criminalità giovanile, ma solo per alcune tipologie di reato (che però forse sono quelle che impattano maggiormente sulle cronache locali). In grande aumento sono le segnalazioni per rapina (+7,69% sul 2022), salite a oltre 3.400 episodi commessi da minori segnalati nel 2023, contro i 1.594 che rilevarono in tutto il 2010. Si segnala l’incremento dell’1,96% anche delle segnalazioni per lesioni personali (3.639 episodi nel 2023, rispetto ai 2.252 del 2010). Scendono, invece, dell’11,73% i furti e del 6,11% le estorsioni nell’ultimo anno. In calo, inoltre, le segnalazioni per minaccia, rissa e percosse (rispettivamente del 10,89, 16,41 e 16,52 per cento). Grande preoccupazione, infine, emerge osservando le segnalazioni per violenza sessuale, cresciute dell’8,25 per cento rispetto al 2022. Il dato riflette la crescente sensibilità delle nuove generazioni verso questo tipo di denuncia e si traduce in 315 minori denunciati o arrestati in 12 mesi, per il 56% di origine straniera, in aumento rispetto ai 227 del 2019. L’analisi in base alla nazionalità dei minori segnalati mostra negli ultimi due anni una prevalenza di quelli di origine straniera (54,64% nel 2022 e 56,19% nel 2023), ma si tratta di una novità nell’intera serie storica esaminata (erano il 35% e il 38% nel 2010 e 2011). Il pm e l’abuso del processo, come e perché l’azione penale obbligatoria diventa arbitrio di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 15 luglio 2024 È ragionevole affermare che si possa abusare di un atto, se l’esercizio di quell’atto è obbligatorio? Ecco una bella domanda, la cui apparente astrattezza si stempera immediatamente se il riferimento è all’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero. D’accordo, l’obiettivo che ci siamo dati è quello di divulgare, cioè di rendere comprensibili anche ai non tecnici della materia, temi giuridici e processuali di una certa complessità, ma qui forse abbiamo un po’ esagerato. L’uso politico dell’azione penale da parte delle Procure - Non ce ne vorrete, amici non giuristi, se la lettura sarà un po’ più impegnativa del solito, ma il tema è in realtà di scottante attualità. Perché va al cuore di una polemica che da decenni ormai ci accompagna quasi quotidianamente: quella dell’uso “politico” -dunque, dell’abuso- dell’azione penale da parte delle Procure. Avete presente? La giustizia ad orologeria, l’uso delle indagini contro questo o quel partito politico, eccetera. Come risponde, indignata, la Magistratura a quelle accuse? Nessuna tempistica preordinata, nessuna faziosità politica: l’azione penale è obbligatoria; dunque iscrivere Tizio o Caio nel registro degli indagati, chiederne la custodia cautelare o il processo, sono solo e sempre atti dovuti. “Facciamo solo il nostro dovere”, ma non è così - Noi in questo numero facciamo un piccolo viaggio nella sempre meno tollerabile ipocrisia che da sempre alimenta il mito dell’azione penale obbligatoria, e nella connessa pretesa (da parte della magistratura) di fare di questa obbligatorietà, voluta dalla Costituzione, lo scudo dietro il quale si vorrebbe far salva una sorta di immacolata verginità, di asettica e virtuosa terzietà di quel formidabile potere affidato nelle mani dei Pubblici Ministeri. Facciamo solo il nostro dovere, dicono. Ma non è così, non può esserlo. Scegliere se mandare avanti prima questa o quella indagine; selezionare questa o quella notitia criminis; qualificare un fatto come questa o quella ipotesi di reato; valutare la opportunità se esercitare l’azione nei confronti di un esponente politico prima o dopo l’evento elettorale; tutto ciò, e tanto altro ancora, è puro esercizio discrezionale. L’invocazione della obbligatorietà dell’azione penale come garanzia di terzietà e di “apoliticità” dell’azione del PM finisce allora per assumere connotazioni grottesche e perfino irridenti, che si traducono nella pretesa di insindacabilità del proprio agire. Naturalmente, e per converso, nessuno intende legittimare una lettura pregiudizialmente ispirata all’idea che una Procura agisca sempre, nelle inchieste sensibili di natura o comunque con ricadute politiche, animata da uno spirito di fazione, o da intenti strategici. Ma al di là di queste banalizzazioni inaccettabili, restano almeno trent’anni della nostra storia segnati dalla constatazione, difficilmente contestabile, del ruolo sempre più politico acquisito nel nostro Paese dalla magistratura inquirente, e dunque dal frequente abuso - nei termini che ho sopra delineato dell’esercizio dell’azione penale. Tematica che, sia ben chiaro, supera anche i confini nazionali, a conferma di come il tema sia molto serio, ed assuma connotazioni di carattere generale che meritano di essere approfondite. Autoriciclaggio con limitazioni di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti Italia Oggi, 15 luglio 2024 Autoriciclaggio con i paletti: la condotta contestata all’indagato non può consistere nel trasferimento dei fondi dalla fallita alle società beneficiarie e quindi coincidere con la stessa condotta distrattiva integrante la bancarotta: è quanto emerge dalla sentenza della Cassazione penale, quinta sezione, n. 20152 del 21 maggio 2024, che, nel rigettare il ricorso del pubblico ministero, ha chiarito che affinché possa scattare la condanna per autoriciclaggio, evitando indebite sovrapposizioni applicative, è richiesta un’attività ulteriore rispetto alla sottrazione della risorsa all’impresa fallita. Il caso. Nel caso in esame, il Tribunale del riesame di Genova aveva annullato parzialmente l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari che aveva applicato al Presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante di una Spa, poi fallita, la misura cautelare degli arresti domiciliari. Il provvedimento cautelare riguardava plurime condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale e da reato societario in relazione al fallimento della società. Il Tribunale del riesame aveva invece annullato l’ordinanza quanto ai delitti di autoriciclaggio, ritenendo che la condotta contestata all’indagato consistesse nel trasferimento dei fondi dalla fallita alle società beneficiarie e coincidesse, pertanto, con la stessa condotta distrattiva di cui era già accusato con riguardo al reato di bancarotta. La tesi del pubblico ministero. Nei confronti dell’ordinanza aveva proposto ricorso per cassazione il pubblico ministero presso il Tribunale di Genova, che, a sostegno della sussistenza di un quadro indiziario grave quanto ai delitti di autoriciclaggio, valorizzava che le somme distratte dal patrimonio della Spa fossero poi confluite in società collegate all’indagato facendo ingresso nel loro ciclo produttivo. Nel concreto, la parte impugnante sosteneva che lo spostamento di denaro dal conto della fallita a quello delle altre società costituisse un fatto diverso e successivo rispetto alla condotta di bancarotta, e che l’ingresso nel patrimonio delle beneficiarie fosse finalizzato, nell’ottica dell’indagato, a mascherare l’effettiva provenienza del denaro grazie alla confusione con somme di provenienza lecita. La struttura del reato di autoriciclaggio. Dunque, nel pronunciarsi sul ricorso, la Suprema Corte ha evidenziato come un primo fondamentale rilievo svolto correttamente dal Tribunale attenesse alla struttura stessa della fattispecie di cui all’art. 648-ter.1 c.p., struttura che vede la condotta di autoriciclaggio collocarsi temporalmente dopo la commissione del reato presupposto. Il legislatore, infatti, punendo testualmente chi “avendo commesso o concorso a commettere un delitto impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”, ha tenuto distinti i due momenti, quello di commissione del primo reato che ha generato i beni, il denaro o le altre utilità e quello in cui queste ultime vengono impiegate, sostituite o trasferite in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Depongono in questo senso l’utilizzo nel testo della norma del gerundio passato “avendo commesso o concorso a commettere un delitto”, e del participio presente nell’ulteriore sintagma “provenienti dalla commissione di tale delitto”, termini che segnano la precisa volontà di individuare un “prima” logico-giuridico, ovvero la commissione del reato che genera la risorsa, e un “dopo”, cioè l’impiego di quest’ultima nell’attività economica, finanziaria, imprenditoriale o speculativa. Il rapporto con il reato presupposto. A conferma della correttezza di questa lettura della disposizione, la Cassazione ha evocato la persuasiva delineazione della tipicità della condotta di cui all’art. 648-ter.1 c.p. offerta da un precedente giurisprudenziale, che ha posto l’accento proprio sul rapporto tra reato “presupposto”, come tale necessariamente antecedente e già realizzatosi compiutamente nei suoi elementi costitutivi, e quello di autoriciclaggio (cfr. Cass. pen. 331/2021). D’altra parte, una lettura diversa del dato normativo porrebbe il problema della reciproca delimitazione delle condotte tipiche di cui agli artt. 216 legge fall. (che punisce la bancarotta fraudolenta), e 648-ter.1 c.p. e della possibilità che i reati concorrano, con particolare riferimento ai casi, come quello in esame, in cui la distrazione del denaro sia avvenuta a beneficio di società operative, che per loro stessa natura adoperano le risorse provento della distrazione nella quotidiana attività imprenditoriale. La interpretazione della Suprema Corte. La Suprema Corte ha osservato inoltre come l’attività dell’interprete non sia agevole, in quanto inevitabilmente suggestionata dalla costruzione della fattispecie, che contempla come uno dei possibili momenti consumativi quello dell’impiego della risorsa, tra l’altro, in attività imprenditoriali: così che un’esegesi poco meditata potrebbe ricondurvi ogni fatto di distrazione a favore di una società, quindi di un’attività di impresa, che fisiologicamente utilizzi quanto viene immesso nelle sue disponibilità. Ma la Corte di Cassazione ha sviluppato un’interpretazione che richiede, affinché sia integrata una condotta di autoriciclaggio che sia distinta dal momento distrattivo (e quindi, da quello in cui si realizza l’attività predatoria ai danni dell’impresa fallita che integra la bancarotta fraudolenta per distrazione), un c.d. quid plurìs, cioè un’attività ulteriore rispetto alla sottrazione della risorsa all’impresa fallita, che denoti l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene e che così eviti indebite sovrapposizioni applicative tra le due disposizioni, non bastando il mero trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare a favore di imprese operative (cfr., ex pluribus, Cass. pen., Sez. V, n. 8851/2019 e n. 38919/2019). La casistica giurisprudenziale. In seno a questo orientamento si è poi precisato (Cass. pen., Sez. II, n. 13352/2023) che è configurabile la condotta dissimulatoria tipica dell’autoriciclaggio nel caso in cui, successivamente alla consumazione del delitto presupposto, il reinvestimento del profitto illecito in attività economiche, finanziarie o speculative sia attuato attraverso il mutamento dell’intestazione soggettiva del bene, in quanto la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca, l’individuazione dell’origine illecita e il successivo trasferimento. Inoltre, fermo restando che, qualora la distrazione riguardi somme di denaro passate dalla società poi fallita a quella che ne beneficia, non potrebbe integrarsi, oltre alla bancarotta, anche l’autoriciclaggio, il quid pluris che lo caratterizza è stato ravvisato nel caso di distrazione di azienda, configurandosi un impiego in attività economiche e finanziarie dell’utilità di provenienza illecita (Cass. pen., Sez. II, n. 37503/2019). L’esegesi di un’altra pronuncia (Cass. pen., Sez. V, n. 1203/2020), infine, si è centrata sull’idoneità della condotta a fungere da ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa del bene distratto, quale tratto caratterizzante dell’autoriciclaggio rispetto alla bancarotta che ne è presupposto; elemento ravvisato in un’ipotesi in cui vi era stata “polverizzazione” del patrimonio dell’impresa fallita, reimpiegato nella creazione di diverse società “cloni” intestate a prestanome. La decisione della Suprema Corte. Dunque, applicando tali principi al caso di specie, gli Ermellini hanno condiviso la decisione del Tribunale del riesame di Genova di ripudiare l’impostazione accusatoria, evidenziando come le stesse condotte ascritte all’indagato come distrattive integrassero anche l’addebito di autoriciclaggio, senza alcuna delimitazione cronologica dell’una e dell’altra condotta (il “prima” e il “dopo” di cui si è detto sopra), e senza l’effettiva individuazione di tratti ulteriori che connotassero la condotta dell’indagato. Il pubblico ministero ricorrente, dal canto suo, non aveva colto l’obiezione del Tribunale quanto alla struttura della fattispecie di autoriciclaggio quale reato necessariamente successivo rispetto a quello presupposto, e si è limitato a insistere sull’esistenza di un quid pluris, rappresentato dalla “mutazione” che l’innesto nell’ambito delle attività di impresa delle società riceventi avrebbe comportato rispetto alle somme distratte. La Cassazione ha così rigettato il ricorso. Venezia. Detenuto si impicca nel carcere di Santa Maria Maggiore, aveva 37 anni ansa.it, 15 luglio 2024 “Emergenza penitenziaria senza precedenti”, accusa Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Ennesimo suicidio in carcere. La vittima era originaria di San Donà di Piave, 37 anni da poco compiuti, detenuto per vari reati connessi allo spaccio di stupefacenti, nella notte è stato trovato impiccato con il lenzuolo nella sua cella della Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia. A nulla sono valsi i soccorsi. 56esimo suicidio tra le sbarre - “Salgono così a 56 i morti suicidi in quello che appare come un bollettino di guerra”. Così Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, commenta l’ennesimo suicidio nelle carceri del Paese, ma che è invece il tragico conteggio di persone nelle mani dello Stato e che lo Stato non riesce a tutelare. A questi bisogna poi aggiungere i 6 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Una mattanza irrefrenabile”. “Emergenza penitenziaria senza precedenti” - “Siamo nel pieno di un’emergenza penitenziaria senza precedenti. 14.500 detenuti oltre il massimo ospitabile, 18mila unità mancanti alla polizia penitenziaria, omicidi, suicidi, proteste collettive e disordini frequentissimi, risse, stupri, aggressioni, incendi, devastazioni, evasioni, traffici di sostanze, telefonini e armi, ma cos’altro deve accadere per suscitare un proporzionato intervento del Governo e del Parlamento? Si aspetta una strage ancora più grave? Un’evasione di massa? Cosa? Perché è chiaro che andando avanti così qualcos’altro di irreparabile accadrà ben presto”, aggiunge il Segretario della Uilpa Pp. “Servono interventi eccezionali” - “È di tautologica evidenza che un’emergenza come quella in essere non possa essere affrontata con misure ordinarie, tantomeno con inutili decretini come quello recentemente licenziato dal Governo. Servono interventi eccezionali e con carattere d’urgenza per deflazionare subito la densità detentiva, consentire cospicue e reali assunzioni straordinarie e accelerate nella Polizia penitenziaria e assicurare l’assistenza sanitaria e psichiatrica. “Fermare la strage” - “Negli ultimi tre giorni, altri tre suicidi in carcere, uno a Montorio (Verona), un altro a Monza e l’ultimo stanotte a Venezia. Cosa aspetta il governo a fermare la strage?”. Così il vicecapogruppo Pd-Idp alla Camera e segretario di Demos, Paolo Ciani, alle notizie giunte in queste ore di tre nuovi suicidi di detenuti. “Il penitenziario di Verona ha visto il sesto suicidio dall’inizio dell’anno e detiene il triste primato di primo istituto per suicidi in Italia. Sabato un detenuto di si è tolto la vita nel carcere di Monza. Stanotte un uomo di 37 anni si è impiccato nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia. Ai suicidi tra i detenuti si aggiungono quelli tra gli agenti della polizia penitenziaria, il sesto la scorsa settimana a Roma, a manifestare un sistema malato, che non solo non risponde ai dettami della Costituzione, che vorrebbero la pena tendesse alla rieducazione del condannato, ma ha trasformato il carcere in luoghi invivibili per tutti quelli che li frequentano: detenuti, agenti, personale sanitario, personale civile, volontari. Non c’è più tempo: il governo deve intervenire subito”, conclude Ciani. Torino. La procura apre un fascicolo sulla rivolta in carcere diventata virale su TikTok di Sarah Martinenghi La Repubblica, 15 luglio 2024 Con il telefonino che sporge dalle sbarre, il detenuto inquadra il corridoio del padiglione C. Riprende ciò che sta accadendo: lenzuola che bruciano, coperte ammucchiate, oggetti lanciati fuori dalle celle. Quel video, insieme a un altro che inquadra gli stessi spazi subito prima dei roghi, viene postato su TikTok, scatenando commenti e migliaia di like: “le carceri sono al limite”, “libertà”, “amnistia o indulto subito” con tanto di emoticon, catene e cuoricini. Se da un lato quelle immagini colpiscono, perché proiettano dentro alla protesta e squarciano il velo di una realtà inaccessibile agli sguardi del mondo esterno, dall’altro dimostrano l’impunità nell’uso dei telefonini in carcere e la sfrontatezza di pubblicare storie sui social. La procura di Torino intende aprire un fascicolo al riguardo, che possa far luce ancora una volta sulla facilità con cui i telefonini, così come la droga, entrano in carcere. Sovraffollamento, caldo. “Abbiamo deciso di rompere cessi e lavandini così facendo le celle di pernottamento non saranno più agibili e quindi dovrà intervenire l’Asl per le condizioni n cui viviamo. Dobbiamo farci sentire” dicono su TikTok. I disordini, nel padiglione C, erano iniziati venerdì. Poco prima i detenuti ne avevano provocati altri nel padiglione B, nella quinta, sesta, settima e nona sezione: in un locale adibito a barberia, avevano appiccato un incendio e scagliato bombolette di gas e manici di scopa. Quattro agenti della polizia penitenziaria erano rimasti intossicati ed erano finiti in pronto soccorso. “La situazione è esplosiva in tutte le carceri italiani. Stiamo assistendo al totale fallimento e sfascio del sistema penitenziario, e al fallimento dei protocolli operativi. Chiediamo al sottosegretario Andrea Delmastro di inviare i gruppi speciali Gir nelle sedi dove ci sono le proteste per ripristinare la sicurezza. L’unica via d’uscita è dichiarare lo stato di emergenza nazionale delle carceri” ha dichiarato il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci. Anche la vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, Augusta Montaruli commenta le immagini girate dal detenuto “Si ricostruiscano al più presto le responsabilità di chi ha commesso la rivolta nel carcere di Torino e di chi ha permesso che fosse possibile riprendere e diffonderla all’esterno. È evidente che qualcuno si sente intoccabile e in grado di violare i divieti inerenti agli strumenti di comunicazione alimentando rivolte e relativa propaganda”. “Quelle immagini - aggiunge - confermano la necessità di adottare il massimo rigore con chi commette queste violenze all’interno degli istituti detentivi così come la norma contenuta nel pacchetto sicurezza prevede revocando ed impedendo tutti i benefici. Davanti alla prepotenza, peraltro organizzata, lo Stato si dimostri ancora una volta più forte di chi vuole vantarsi su TikTok per rimarcare appartenenze a organizzazioni per tentare un ricatto che non trova, né troverà alcun cedimento”. A Ivrea intanto, sabato, un detenuto recluso nel carcere di Ivrea ha colpito, senza motivo, con pugni l’agente di polizia penitenziaria di servizio spaccandogli il sopracciglio. Torino. La Garante: “Il carcere Lorusso e Cutugno vecchio e fatiscente, deve essere chiuso” di Caterina Stamin La Stampa, 15 luglio 2024 Monica Gallo: “I padiglioni A, B e C sono in condizioni di assoluto degrado”. “Temo il peggio”, dice Monica Gallo, garante dei detenuti. Perché? “Questi ragazzi avevano una speranza. Ma oggi è diventata delusione e stanno perdendo la pazienza”. Torna indietro a un anno fa. A quando il ministro della Giustizia Carlo Nordio fece visita al Lorusso e Cutugno. “Si erano appena suicidate due donne e si parlava di aprire un tavolo sull’emergenza del carcere. Da allora sa cos’è cambiato? Nulla”. Anzi. “In nove anni che ricopro questo ruolo ho visto un peggioramento delle condizioni dei detenuti, degli agenti e delle strutture. Quando entro vengo assalita dalle urla”. La colpa? Per Gallo è chiara: “La politica è totalmente assente: si chiedono doveri ma non si danno diritti”. In alcuni video su TikTok i detenuti denunciano condizioni igienico sanitarie carenti. Qual è la situazione? “Una struttura degradata, da un punto di vista strutturale, diventa una non salubre: ci sono crepe nei muri, scarafaggi, perdite d’acqua, ambienti degradati e fatiscenti…”. È un carcere vecchio? “Ha delle condizioni strutturali pessime: andrebbe chiuso e ristrutturato. Ci sono sezioni, come quella femminile, dignitose, ma altre sono invivibili”. Per esempio? “I padiglioni A, B e C sono in condizioni di assoluto degrado. A questo si aggiungono il caldo, la mancanza di contatti umani, il disagio mentale … Abbiamo tanti giovani che avrebbero bisogno di percorsi completamente diversi”. C’è anche un problema di sovraffollamento? “Su una capienza di 934, i detenuti sono circa 1480. Non ci si può prendere cura delle persone perché sono troppe e gli operatori non sono aumentati”. Quanti sono? “Quattordici e hanno più di cento persone ciascuno”. Funziona l’assistenza psichiatrica e psicologica? “Ce ne vorrebbe una flotta di psichiatri e psicologici. Ma quello che servirebbe è un totale ripensamento”. In che senso? “Il carcere ha fallito. Completamente”. Il risultato è un abbandono? “Sì. E la mancanza di creatività nell’inserimento di strumenti diversi all’interno”. Teme che aumenteranno le proteste? “Non ne ho la certezza. I detenuti chiedono amnistia e indulto e hanno trovato una forte manifestazione di interesse da parte degli organi di garanzia, camera penale e avvocati che sostengono la loro disperazione...”. Lei cosa ne pensa? “Ho sempre creduto che l’amnistia e l’indulto necessitino di programmazione e organizzazione, per non rischiare di inserire sul territorio persone con difficoltà di riadattamento. Ma ora la situazione è di emergenza e va affrontata subito”. Ci sono gli stessi problemi nella sezione femminile? “Sono in sovraffollamento e risentono di essere un segmento di un sistema completamente maschile. Ultimamente è cresciuto tanto anche al femminile il disagio comportamentale, la difficoltà di accettazione al regime carcerario”. Cosa serve? “Intervenire in modo concreto subito. Non c’è più tempo. Ogni due giorni una persona detenuta si toglie la vita”. Trieste. Coroneo, l’ex direttore: “Il sistema carcerario è in fallimento, 20 anni di errori” di Stefano Mattia Pribetti triesteprima.it, 15 luglio 2024 Enrico Sbriglia, ex direttore della casa circondariale di Trieste e coordinatore nazionale della dirigenza penitenziaria della Federazione sindacati indipendenti, commenta la rivolta carceraria e descrive una situazione a livello nazionale e locale critica di grande disagio. “Occorre ammettere, senza vergognarsene, che il sistema penitenziario, dappertutto e anche a Trieste, è carente e per certi versi è fallito. Dobbiamo avere il coraggio di dire ai detenuti: noi siamo in torto, cercate di comprenderci e capire anche le nostre difficoltà”. Così si esprime sulla rivolta carceraria al Coroneo Enrico Sbriglia, ex direttore della casa circondariale di Trieste e coordinatore nazionale della dirigenza penitenziaria della Federazione sindacati indipendenti. In questa intervista, Sbriglia descrive una situazione a livello nazionale e locale critica di grande disagio, confermando le condizioni di sovraffollamento, afa estiva e cimici dei letti già descritte in questi giorni e parlando di detenuti che “si sentono privati di qualunque assistenza sanitaria, che è garantita dall’articolo 32 della nostra Costituzione per ciascun individuo, senza distinzione” e provando a individuare responsabilità, soluzioni e criticità, tra cui il “depotenziamento della figura del direttore”. Responsabilità da ricercare sia nel passato prossimo che in quello remoto: “il Governo attuale - dichiara Sbriglia - in meno di due anni non avrebbe potuto risolvere ciò che è frutto di una manchevolezza amministrativa che dura da almeno 20 anni”, infatti “le condanne della corte europea per i diritti dell’Uomo sulle condizioni degradanti delle carceri italiane sono del 2013”, e quelle cause fanno riferimento a “contenziosi nati anche sei anni prima, e tutto questo tempo poteva essere utilizzato per costruire nuove carceri o rivedere il codice di procedura penale per alleggerirlo, perché se ogni condotta umana è classificata rilevante sul piano penale ci sarà sovrabbondanza di situazioni che non si possono governare”. Per Sbriglia “il governo non sembra essersi reso conto di aver ricevuto l’eredità gravosa di un sistema penitenziario che può diventare ancor di più pericoloso e quello che è accaduto a Trieste potrebbe essere uno dei tanti segnali che da qui alle prossime settimane potrebbero verificarsi perché l’estate sta appena iniziando e abbiamo a che fare con persone che non hanno più nulla da perdere, né famiglie, né reddito, né diritto alla salute”. L’incarico dell’ex direttore a Trieste è durato 22 anni e si è interrotto nel 2012. Dall’epoca, le competenze in capo al ruolo da lui ricoperto avrebbero subito cambiamenti rilevanti: “Il direttore e il comandante sono sempre di più in posizione isolata - spiega - non vengono fornite loro risorse umane e strumentali. Si è depotenziato il potere organizzativo dei direttori a favore di altre categorie professionali che però sono assenti nel lavoro penitenziario. Se noi riempiamo gli stati maggiori di grandi generali ma sul fronte non mandiamo i soldati, la guerra è persa”. A questo si unisce la recente proposta del Governo nazionale di ridurre il tempo di formazione professionale degli agenti di polizia penitenziaria per sopperire alla crisi in corso, ma “all’interno delle carceri occorre personale super attrezzato, dotato di ragionevolezza, freddezza e lucidità, non si può pensare a corsi abbreviati”, spiega Sbriglia, aggiungendo che “l’Italia è uno dei 46 paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa”, le cui norme per il sistema penitenziario nei paesi aderenti “chiedono personale super preparato e attrezzato”. Una possibile soluzione prospettata dall’esperto è quella di un coinvolgimento della Regione, che “potrebbe forse appellarsi alla sua autonomia per esigere un diverso trattamento anche in ambito penitenziario, e immaginare che se c’è bisogno di nuove strutture penitenziarie questo compito può essere affidato alla Regione stessa”, poiché in Friuli Venezia Giulia “c’è una sensibilità verso il mondo delle carceri sia sinistra che destra e si potrebbero realizzare situazioni che altrove sarebbero più difficili da concretizzare”. Altro tema affrontato è quello del rischio di recidiva in un sistema eccessivamente lesivo della dignità personale e della possibilità che questo induca il detenuto a perpetrare reati anche peggiori di quelli già commessi: “Le carceri - sostiene l’ex direttore del Coroneo - sono la migliore acqua di coltura per i terrorismi e le criminalità e noi rischiamo di alimentare ancor di più quel mondo di disperati che possano trovare nelle lusinghe del terrorismo o delle criminalità un padrone più serio che almeno rispetta i patti. Al momento si potrebbe affermare che è lo Stato a non rispettare i patti, che prevedono di espiare la propria pena in salute, dignità, decenza e riservatezza”. Trieste. L’ex direttore del carcere: attenzione al pericolo terrorismo ansa.it, 15 luglio 2024 All’indomani rivolta analisi di Sbriglia, 20 anni capo del Mari. “Quando un sistema penitenziario comincia a fare acqua da tutte le parti, favorisce il formarsi di una logica anti istituzionale contro il sistema, di tipo terroristico. I terrorismi negli anni passati trovavano nelle carceri la fonte primaria di approvvigionamento di risorse umane”. È il pericolo paventato in una intervista alla Tgr Fvg di lingua italiana della Rai da Enrico Sbriglia, per circa venti anni direttore del carcere del Coroneo di Trieste dove pochi giorni fa si è verificata una rivolta. Secondo Sbriglia, ex provveditore per il Triveneto, ora a capo della Fsi, la Federazione sindacati che rappresenta la dirigenza penitenziaria, “ha paura solo chi ha qualcosa da perdere. Ma se uomini e donne in carcere vengono assaliti dalle cimici, dove la temperatura ti strangola, ti manca l’ossigeno, l’aria, dove dormi per terra, dove dovunque ti muovi senti l’olezzo dell’urina”, cosa dovrebbero aver paura di perdere, si è chiesto, intervenendo ai microfoni della Tgr Fvg della Rai. L’ex direttore dell’Ernesto Mari di Trieste ha auspicato in questo senso un intervento del governo e del parlamento, proprio per evitare che il pericolo terrorismo si manifesti realmente. “Non è da immaginare come una sconfitta dello Stato trovare soluzioni di sfogo”, d’altronde “se lo sfogo non lo trova lo Stato, ci sarà comunque: quello che è accaduto nel carcere di Trieste ne è la perfetta prova”, ha concluso. Napoli. Bagnoli senza il carcere minorile, la protesta: “Nisida è un simbolo, non toccatelo” di Dario del Porto La Repubblica, 15 luglio 2024 Associazioni, volontari e professionisti contrari alla delocalizzazione dell’istituto dove si svolgono attività per il recupero dei minori. “Nisida costituisce, da sempre, un simbolo, il più rappresentativo, dei percorsi di recupero dei minori”, avverte il presidente del Tribunale per i minorenni di Salerno Piero Avallone. Il magistrato scuote il capo davanti all’ipotesi, raccontata ieri da Repubblica, di una delocalizzazione del carcere minorile che ha ispirato “Mare fuori” nell’ambito degli interventi risanamento dell’area di Bagnoli. “Non entro nel merito delle scelte della politica, mi limito a ricordare che Nisida è un luogo dove i ragazzi sono quotidianamente coinvolti in progetti, corsi e attività con risultati apprezzati non solo in Italia. Non a caso ne parlò anche Eduardo De Filippo”, sottolinea Avallone. Per don Tonino Palmese, garante comunale per i detenuti, “Nisida è un paradosso: la bellezza che contiene fatti terribili. Ma proprio grazie a questa bellezza è possibile aiutare i ragazzi a rivolgere lo sguardo verso il bene”. L’avvocata Mara Esposito Gonella, presidente della onlus “Carcere possibile”, argomenta: “Ben venga la riqualificazione dell’area di Bagnoli, purché si concentri sulle zone tristemente danneggiate dagli insediamenti industriali dismessi. Si tenga invece lontana dalla realtà penitenziaria di Nisida, baluardo di una realtà detentiva minorile indiscutibilmente “fiore all’occhiello”, contrapposto agli orrori che ogni giorno siamo costretti a constatare”. Oggi l’istituto penale minorile di Nisida ospita 67 detenuti. L’area è sottoposta a vincoli architettonici, ambientali e storici, dunque la possibilità concreta di destinare la zona ad attività turistica appare piuttosto remota. Ciò nonostante, ricorda il penalista Domenico Ciruzzi, “da anni ogni tanto qualcuno propone di realizzare un porto turistico o un albergo a cinque stelle. Ma lo sradicamento di tanti anni di battaglie in difesa dei minori disagiati, che se ben guidati a Nisida possono addolcirsi l’anima, sarebbe davvero una ignominia”. Silvia Ricciardi, dell’associazione Jonathan, argomenta: “Nisida non è solo un carcere, ma un istituto dove si svolgono tanti progetti per i ragazzi a rischio. Un luogo simbolico e magico che, a determinate condizioni, è rimasto accessibile alla città. Non riesco ad immaginarlo diversamente. Non avrebbe alcun senso. E poi, mi chiedo, perché?”. Non nasconde il suo disappunto Paolo Battimiello, della fondazione “Il meglio di te”. “Ancora una volta il potere economico dimostra di infischiarsene dei ragazzi. Si ragiona solo in modo personalistico, senza tenere conto del percorso dei minori e degli adulti che ogni giorno vanno a Nisida non per salvarli, ma per indicare loro un altro modo di vedere la vita, il quotidiano e la bellezza del posto dove si abita”. Le carceri, anche quelle minorili, evidenzia Mara Esposito Gonella “sono un inferno in terra - il Beccaria ne è l’esempio - e solo una deprecabile insensibilità governativa a livello centrale e locale potrebbe, in modo cieco e ottuso, privare la popolazione detentiva minorile dell’unico luogo di reale e concreto recupero, possibile grazie anche e soprattutto alla capacità di chi dirige l’istituto ed alla bellezza della natura che lo circonda”. Battimiello vede nel disegno di chiusura del carcere di “Mare fuori” “il volontariato che viene schiacciato dagli interessi economici. Qualcosa che è stata costruita negli anni viene distrutta senza curarsi delle persone. E ancora una volta, i diritti dei grandi fagocitano quelli dei piccoli”. Roma. Lavorare da sarti negli atelier: il futuro si cuce dietro le sbarre di Annalisa Angelici La Nazione, 15 luglio 2024 Il progetto “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme” offre detenuti la possibilità di reinventare il futuro attraverso la sartoria, con il supporto di Bmw Roma e l’Accademia dei sartori. La sfilata di fine corso ha mostrato il talento e il percorso di recupero di otto partecipanti, con uno di loro già reinserito nel settore. Offrire a chi partecipa una seconda chance, l’opportunità di reinventare il proprio futuro grazie alla creatività. È il principale obiettivo del bel progetto “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme”, giunto quest’anno alla sesta edizione: un’iniziativa che sposa la tradizione sartoriale italiana, attraverso una collaborazione tra Bmw Roma, l’Accademia nazionale dei sartori e il carcere di Rebibbia. Il 26 giugno, nell’area verde del nuovo complesso dell’istituto penitenziario, si è svolta la sfilata di fine anno del corso di sartoria. In passerella hanno sfilato le creazioni estive e invernali realizzate dagli otto partecipanti a ‘Made in Rebibbia’, capi nei quali si racchiude la proposta stilistica del laboratorio di alta sartoria, sotto la guida esperta del maestro sarto Sebastiano Di Rienzo, ex presidente e maestro storico dell’Accademia nazionale dei sartori. Trenta pezzi unici - giacche, gilet, pantaloni e cappotti - testimoniano il percorso compiuto dagli otto allievi verso la dignità e il riscatto. Seicentocinquanta ore di lezione nell’ambito di un corso di alta sartoria maschile della durata di otto mesi: il cammino intrapreso da ‘Made in Rebibbia’ è un chiaro segnale della volontà di contribuire al reinserimento sociale attraverso la formazione di figure professionali in grado di rispondere alle richieste ed esigenze avanzate dal mercato. Un esempio recente della validità di questo percorso è il completo reinserimento di uno dei detenuti, che ora lavora a tempo pieno nel noto atelier di alta sartoria ‘Ilario’, a Roma. “Made in Rebibbia - ha dichiarato il general manager di Bmw Roma, Salvatore Nicola Nanni - ha un claim che ci piace molto: “Ricuciamolo insieme”. L’idea di essere parte di un’iniziativa orientata ad aiutare le persone a reinserirsi nella società è costitutiva dell’idea stessa di inclusione sociale. ‘Il lavoro nobilita l’uomo’ è un proverbio famoso, attribuito al famoso scienziato Charles Darwin. Potremmo trasformarlo, per questa occasione, in ‘il lavoro nobilita le seconde opportunità’, quelle che ognuno di noi ha diritto di avere dopo aver commesso degli errori e averne pagato il giusto prezzo. In questo senso - ha poi proseguito Nanni - ritengo che la bellezza e la cultura, intrinseche al progetto ‘Made in Rebibbia’, abbiano un ruolo straordinario nel percorso di recupero delle persone. Educare - o rieducare - al bello aiuta a vedere l’esistenza da una prospettiva differente, con un orizzonte finalmente diverso”. Alla sfilata-evento del 26 giugno erano presenti, oltre a un gruppo di detenuti (per l’occasione, anche indossatori dei loro abiti) e ai rappresentanti dell’Accademia nazionale dei sartori, il presidente e amministratore delegato di Bmw Italia Massimiliano Di Silvestre, l’ad di Bmw Roma Salvatore Nicola Nanni, la direttrice della casa circondariale di Rebibbia, Alessia Rampazzi, le massime autorità dell’amministrazione penitenziaria e l’assessore del comune di Roma a ‘Moda, grandi eventi, sport e turismo’, Alessandro Onorato. C’erano anche le famiglie dei reclusi coinvolti nel progetto. Nato nel 2017 da un’idea dell’ex presidente dell’accademia, il maestro Ilario Piscioneri, ‘Made in Rebibbia’ intende offrire alle persone detenute l’opportunità di acquisire competenze professionali altamente spendibili, apprendendo l’arte del cucito, così da trovare lavoro in un laboratorio sartoriale una volta concluso il periodo di detenzione. “Ho scontato nove anni di reclusione. Sono finito dietro le sbarre a 27 anni e ne sono uscito a 36. Grazie al corso di taglio e cucito fatto in carcere sono riuscito a diventare un sarto e a lavorare nell’atelier Piscioneri”, racconta il 37enne Manuel Zumpano. “La maggior parte delle persone qui non ha una prospettiva - continua l’ex detenuto -, non sa da dove e in che modo ripartire. Ma il carcere è molto triste, per cui è importante fare cose, studiare: tenersi occupati, insomma. Io ho conseguito prima il diploma di ragioneria (facendo tre anni in uno) e poi la laurea in scienze motorie. Tutto questo ancora prima di seguire il corso di sartoria. È fondamentale frequentare corsi di formazione e imparare un mestiere, perché, altrimenti, il rischio è di riprendere a delinquere, già all’indomani dell’uscita dal carcere”. “Il pregiudizio lo vivo sulla mia pelle - prosegue Manuel -: la gente pensa che noi detenuti siamo come dei mostri. Io sono pentito di aver commesso errori gravi, che ho pagato, ma sono orgoglioso del mio percorso. Con la forza di volontà è possibile cambiare, sempre. Il messaggio per gli altri che restano è che dobbiamo cogliere la possibilità di cambiare vita ogni volta che ci viene offerta”. L’iniziativa - resa possibile grazie a una collaborazione consolidata tra l’Accademia nazionale dei sartori, guidata dal presidente Gaetano Aloisio, e l’Istituto penitenziario di Rebibbia-Nuovo complesso ‘Raffaele Cinotti’ (1.560 detenuti) - è supportata da Bmw Roma ed è in linea con SpecialMente, il programma di responsabilità sociale d’impresa voluto da Bmw Italia. La storica drapperia biellese Vitale Barberis Canonico ha fornito i tessuti per la realizzazione delle creazioni. Como. Il Teatro Sociale porta la musica tra i detenuti del Bassone primacomo.it, 15 luglio 2024 AsLiCo, in collaborazione con il Centro diurno del Carcere di Como, per il secondo anno consecutivo porta il progetto L’ora d’Aria all’interno della Casa Circondariale il Bassone. Il percorso di formazione di canto corale rivolto ai detenuti culminerà nello spettacolo partecipativo Memorie di Ping il 19 luglio 2024. Negli ultimi anni, il Teatro Sociale di Como ha consolidato la collaborazione con la Casa Circondariale Il Bassone, offrendo momenti di spettacolo e formazione all’interno della struttura penitenziaria. Inoltre, il Teatro si è sempre più affermato come un punto d’incontro tra arte, cultura, spettacolo e le diverse forme di fragilità. Quest’anno il Teatro ha offerto un supporto di coordinamento didattico al Centro Diurno per la pianificazione di laboratori settimanali dei corsi di musica e teatro nel quale si lavora su elementi base della socialità quali l’ascolto, la fantasia, capacità mnemoniche, il confronto, il supporto, la consapevolezza corporea, il movimento, il confronto e il dialogo. Il progetto L’ora d’Aria - Inoltre, per il secondo anno, in collaborazione con il Centro Diurno, ha portato all’interno del Bassone il progetto L’ora d’Aria, un percorso un mese con tre lezioni di canto corale volte ad apprendere dei cori per poter partecipare allo spettacolo finale con tre cantanti lirici, un attore e un pianista, mettendo così insieme i partecipanti al laboratorio corale, gli artisti che vengono dal teatro e gli spettatori del Carcere. Il progetto fa parte di Opera Education, la piattaforma italiana creata da AsLiCo che dal 1996 promuove la passione per l’opera lirica tra il nuovo pubblico. Opera Education è realizzata grazie al contributo della Regione Lombardia, del Ministero della Cultura e della Fondazione Cariplo. Lo spettacolo Memorie di Ping - Quest’anno lo spettacolo partecipativo, che andrà in scena il 19 luglio, è Memorie di Ping, tratto da Turandot di Giacomo Puccini, in occasione delle celebrazioni dedicate al compositore per il centenario della sua morte, e permetterà all’utenza di cimentarsi nelle più celebri romanze dell’opera assieme a dei professionisti. Il percorso coniuga la dimensione artistica con quella formativa, magari orientata a una spendibilità esterna in grado di unire le competenze artistiche con quelle tecnico/professionali, al fine di rendere il carcere non solo un istituto di pena ma anche un istituto di cultura, cioè un luogo dove le contraddizioni e le energie in esso presenti vengano valorizzate e trasformate in senso costruttivo e propositivo e non solo in senso contenitivo. “Nelle strade di Teheran” racconta la rivoluzione delle donne di Ilaria Zaffino La Repubblica, 15 luglio 2024 Il libro di Nila, attivista iraniana sotto pseudonimo, prima di tutto è una testimonianza. Intima, appassionata, e ci arriva direttamente dalle strade di Teheran, dalla viva voce di una delle protagoniste della nuova rivoluzione iraniana che dall’interno, giorno dopo giorno, nei mesi successivi alla morte di Mahsa Amini, la giovane curda arrestata nel settembre del 2022 per non aver indossato correttamente l’hijab, ricostruisce cosa succede. “In questo momento della nostra storia testimoniare è una parola più ardente di vivere: si può vivere una vita restando spettatori. Testimoniare significa essere artefici del nostro destino”, scrive Nila, autrice e attivista iraniana per i diritti delle donne e delle minoranze. Nata a Teheran nel 1980, bambina durante la guerra più lunga del XX secolo - quella tra Iran e Iraq - ha deciso di scrivere questo libro sotto pseudonimo e farlo circolare al di fuori dei confini del suo Paese. Pubblicato dapprima in Francia per Calmann-Lévy, arriva ora anche in Italia per Gramma Feltrinelli con il titolo “Nelle strade di Teheran” (Gramma Feltrinelli Traduzione Vincenzo Barca pagg. 112 euro 15). Ed è esattamente lì che l’autrice ci porta, dove al grido di “Donna, vita, libertà” sfilano con lei le donne che riscoprono la vita notturna abolita dal regime: sono i giorni dell’entusiasmo ai quali seguiranno quelli della repressione, delle umiliazioni, le lapidazioni e le esecuzioni: “Il patriarcato trae il suo potere dal fatto che, in tutta la storia e nel mondo intero, rendere giustizia alle donne è stato visto come un’esigenza aberrante e punibile”, confessa nei momenti più cupi. La protesta delle donne però non arretra: “Continuiamo a marciare con la testa piena di pensieri confusi: l’importante è rimanere in strada per sfinirli”. Perché il desiderio di libertà viene da lontano e unisce in un unico abbraccio le donne di ieri e di oggi. Uno dei meriti più grandi di questo libro infatti è quello di farci conoscere la poetessa mistica Tahereh, prima voce libera e femminista in Iran, che a metà Ottocento si tolse il velo guardando gli uomini negli occhi, in segno di sfida. Giustiziata per “aver seminato corruzione sulla Terra”, il suo corpo gettato in un pozzo alla periferia di Teheran, ancora oggi la sua vita e le sue opere in Iran sono censurate e di lei poco si sa. Eppure il suo gesto simbolico, con il quale ha sfidato i limiti imposti alle donne del suo tempo, viene ripetuto adesso in Iran da migliaia di giovani donne, come seguendo un invisibile filo rosso che da lei giunge sino a noi. E Tahereh offre anche l’occasione all’autrice per riflettere sul senso della letteratura che “deve per sua vocazione turbare la tranquillità dei vivi e dei morti”, perché “scrivere vuol dire riesumare, scavare pozzi profondi, gallerie collegate tra loro”, e della poesia: “In persiano, noi non leggiamo la poesia, la consumiamo come una droga”. Nila cita Pessoa, Anna Achmatova, che ha tenuto testa a uno dei regimi più violenti mai esistiti, e passando per la storia dell’hijab in Iran, da quando lo shah Pahlavi nel 1936 vide nello “svelamento” delle donne un segno di modernità occidentale (la moglie e le figlie furono le prime a uscire con il capo e il viso scoperti), arriva alla rivolta di oggi. Con le sportive che si tolgono il velo nelle competizioni, le compagnie teatrali che sui social diffondono rappresentazioni anti-regime, sacchi di vernice gettati sui ritratti dei militari vicini al regime appesi ai muri, l’acqua delle fontane tinta del colore del sangue, mentre dai cavalcavia pendono manifesti con i nomi dei morti: “Sembra l’inizio di un miracolo nazionale. Mi sembra ogni volta di essere seduta sulle spalle di un mostro gigantesco a contemplare un territorio finalmente conquistato, ogni volta ho la sensazione che le nostre guerre millenarie non siano state che un lungo preludio a un libro composto da un’unica frase: le donne riprenderanno il potere sui loro corpi”. Eppure una domanda, nonostante tutto, continua ad aleggiare nell’aria e rimbomba nella sua testa: “Che ne è dei sogni di una persona che ha vagheggiato chissà quante volte di scappare da una stanza e che, una notte, ci finisce bruciata dentro? È da un anno che urliamo questa domanda”, scrive Nila a nome di tutte le donne di Teheran. A chi verrà dopo di loro il compito di trovarvi risposta. Chi è stato a sdoganare la violenza verbale? di Flavia Perina La Stampa, 15 luglio 2024 Le nostre società hanno cancellato il valore di quelli che Alex Langer chiamava “mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”: gente che rifiuta la logica della tribù e la costruzione di nemici ancestrali su cui proiettare frustrazione e paura. L’odio, che nel mondo classico era patologia del conflitto, oggi è una parola nel vento: si utilizza come facilitatore del consenso, come martello contro gli avversari, come elemento di orgoglio identitario (“ci odiano quindi siamo nel giusto”), come calcolo vittimista, o anche come grido di battaglia. Colpisce la perfetta sintonia dell’ultradestra globale nell’additare l’attentato a Donald Trump come esito dell’odio della sinistra e dei “toni violenti contro gli avversari che rischiano di armare i deboli di mente” (questo è Matteo Salvini, ma lo dicono con parole quasi identiche Santiago Abascal, Geert Wilders, Jair Bolsonaro, Javier Milei, Elon Musk, Marine Le Pen). Nell’ora più buia dell’America i leader di ogni sovranismo affondano la spada di una nuova guerra culturale, guidati dalla lady di ferro di Mosca, Maria Zakharova, che invita gli Usa a “fare inventario delle loro politiche di incitamento all’odio contro gli oppositori politici”. Fare inventario, tesi suggestiva. Inventario delle cattiverie che hanno colpito gli amici del mondo Maga, “le destre, i fascisti, i razzisti” (sempre Salvini), e uno quasi si convince: sì, è vero, se ne sono dette di ogni contro quel tipo di avversari, e adesso che ha parlato il fucile di Mattew Crooks bisognerà aprire una riflessione. E tuttavia l’inventario dovrebbe cominciare da chi ha sdoganato anche intellettualmente l’odio come sentimento lecito e addirittura prerogativa inalienabile della persona. Ed è straniante ricordarsi che da noi è stato il candidato di punta del mondo sovranista, Roberto Vannacci, a comiziare sull’esistenza di uno specifico diritto all’odio e a elaborare una tesi sulla difesa personale che ci porta lontano: “Se pianto la matita che ho nel taschino nella giugulare del ceffo che mi aggredisce, ammazzandolo, perché dovrei rischiare di essere condannato?”. E se percepisco quel ceffo - magari un candidato presidente - come minaccia per il mio intero mondo? E se ne immagino l’omicidio come atto estremo di legittima difesa della mia nazione? Sì, l’inventario porta lontano e in direzione forse poco gradita a una internazionale sovranista che ha fatto la sua fortuna additando nemici reali e immaginari, gli immigrati, ogni minoranza sociale, le donne emancipate, gli scienziati dei vaccini, eccetera. Un’area che da due decenni si batte per restituire cittadinanza alle parole dell’hate-speech e ripristinare, in nome della libertà, il lessico del disprezzo omofobo o razzista con la sua implicita carica di violenza. Nell’elenco, sezione Usa, potremmo mettere uno dei video di maggior successo postati da Trump sul suo social Truth, dove si vede un pick-up in corsa con l’immagine di Joe Biden legato mani e piedi sul portellone posteriore, come una preda di guerra. O il discorso natalizio di un paio di anni fa in cui Donald augurava ai suoi avversari di marcire all’inferno. Poi, certo, l’odio non è prerogativa politica di nessuno. È un sentimento liquido, travasa. Anche i leader della destra ne sono spesso trafitti - quegli orribili fotomontaggi a testa in giù, visti troppo spesso nei cortei, le minacce e i proiettili che obbligano tanti alla scorta - ma è pure vero che in molti, mentre lo denunciano, tendono a farne una medaglia al valore, l’elemento centrale delle loro campagne elettorali e delle loro vittorie: “le vittorie del popolo contro un intero establishment che schiuma odio” (questo è Bolsonaro). E anche adesso, dopo la sparatoria di Butler, la parola odio è già l’epicentro di un racconto semplificato sui buoni e sui cattivi, sui campioni della gente perbene e sulle perfide oligarchie che li hanno messi nel mirino di un fucile. Funzionerà. Le nostre società hanno cancellato il valore di quelli che Alex Langer chiamava “mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”: gente che rifiuta la logica della tribù e la costruzione di nemici ancestrali su cui proiettare frustrazione e paura. L’odio, che nel mondo classico era patologia del conflitto, oggi è una parola nel vento: si utilizza come facilitatore del consenso, come martello contro gli avversari, come elemento di orgoglio identitario (“ci odiano quindi siamo nel giusto”), come calcolo vittimista, o anche come grido di battaglia. “Fight”, combattete, ha urlato Donald Trump nella foto più iconica dell’attimo dopo l’attentato, che è già sulle t-shirt del mondo Maga. Di sicuro è un’immagine che resterà nella storia come prova di orgoglio e tenacia. Ma speriamo pure che nessuno la prenda alla lettera, come invito a rispondere all’odio con l’odio, alle armi con le armi. Caporali e schiavi indiani nei campi del ricco Veneto di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 15 luglio 2024 Tre inchieste in pochi giorni tra Treviso e Verona: lavoratori impiegati nei vigneti o a raccogliere radicchio e zucchine. Negli ultimi tre giorni in Veneto 33 braccianti sono stati trovati a lavorare in condizioni di schiavitù a Cologna Veneta, in provincia di Verona, altri tre sono stati trovati a raccogliere zucchine al nero a Fanzolo, sempre nel trevigiano, mentre una cinquantina che vivevano in un casolare di Oderzo, in provincia di Treviso, hanno denunciato di essere impiegati nei vigneti della zona fino a 14 ore al giorno, per 5 euro all’ora. In tutti e tre i casi sia i datori di lavoro che i lavoratori erano indiani, come Satnam Singh, il migrante morto a Latina perché il datore di lavoro non ha chiamato i soccorsi dopo che un macchinario avvolgi-plastica gli aveva tranciato il braccio. La sua morte, oltre a far mobilitare la comunità indiana contro lo sfruttamento e il caporalato, ha riportato all’attenzione dei media il fenomeno dello sfruttamento del lavoro dei migranti nelle campagne e ha aumentato anche l’attenzione giudiziaria, in particolare sui lavoratori indiani. Ieri la Guardia di Finanza ha indagato due cittadini indiani residenti a Cologna Veneta, in provincia di Verona, sequestrando beni per 475 mila euro. I due sono titolari di alcune aziende agricole e avrebbero ridotto in schiavitù 33 braccianti dopo averli aiutati a entrare in Italia, facendosi pagare da ciascuno 17 mila euro ciascuno. I braccianti sarebbero stati costretti a lavorare 12 ore al giorno, sette giorni su sette, per estinguere il debito. Il compenso, di 4 euro l’ora, era trattenuto dai loro datori di lavoro, che gli avrebbero anche tolto i passaporti e gli avrebbero vietato di allontanarsi dalle strutture in cui erano stati sistemati, in condizioni igienico-sanitarie precarie. I due imprenditori sono indagati per riduzione in schiavitù, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Mercoledì mattina invece i Carabinieri si sono presentati a sorpresa in un terreno agricolo a Fanzolo, in provincia di Treviso, e hanno trovato altri quattro indiani che raccoglievano zucchine sotto una pioggia battente. Solo uno è stato trovato in regola, mentre gli altri tre lavoravano al nero. Sempre nei giorni scorsi, la Flai Cgil del Veneto ha denunciato il caso di una cinquantina di indiani da tempo ospitati in un casolare di Oderzo e costretti a lavorare senza sosta, per 5 euro l’ora e fino a 14 ore al giorno nei vigneti della zona, in particolare a Negrisia di Ponte di Piave. Dopo la denuncia, 13 di loro sono stati trasferiti in strutture protette grazie a un progetto anti-tratta. Secondo la Flai Cgil, il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura nel Veneto non è “né isolato né marginale come si vuole far pensare” e “lo sfruttamento passa in larga parte attraverso le cooperative spurie, cioè senza terra, che offrono servizi alle imprese agricole di tutta la regione”. I lavoratori più sfruttati sono quelli più deboli, come i pakistani e gli indiani, che arrivano in Italia grazie ai caporali, di solito loro connazionali, a cui pagano il viaggio, la ricerca di una casa in affitto, l’intermediazione e il trasporto nei campi. Il Rapporto Agromafie e Caporalato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil stima che nei campi italiani nel 2022 sono state sfruttate circa 230 mila persone, un quarto di tutti i braccianti italiani. Migranti in Albania, tutti i giudici di Roma precettati per convalidare i fermi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 luglio 2024 Ma il protocollo slitta ancora: partenza il 10 agosto. Già montati 10 maxischermi nelle aule. La richiesta del ministero: ogni giorno udienze in videoconferenza in contemporanea. Organici aumentati del 50 % e altri 40.000 euro per l’affitto di una palazzina. Nelle aule del tribunale di Roma sono già stati montati ben dieci maxischermi. L’indicazione pressante del ministero di Grazia e giustizia è: udienze di convalida dei fermi dei migranti portati in Albania a tutto spiano, dieci in contemporanea. In videoconferenza naturalmente. E pazienza se la bistrattata giustizia italiana non ha gli occhi neanche per piangere. Per far partire alla grande il protocollo Albania, vera e propria ossessione di Giorgia Meloni, il governo è pronto a fare di tutto. La moltiplicazione degli organici - Non ci sono abbastanza giudici? Eccoli qua: l’organico della sezione immigrazione passerà da 14 a 22 unità (con un mirabolante più 50 %) ma soprattutto il presidente del tribunale ha dato disposizione che, nel periodo feriale, tutti i giudici in servizio (anche quelli di altre sezioni che di immigrazione non sanno proprio nulla) vengano utilizzate per le convalide dei fermi dei migranti che vanno fatte entro 48 ore dal provvedimento che sarà firmato dal questore di Roma. Come se l’esame delle richieste d’asilo dei migranti soccorsi nel Mediterraneo e provenienti da Paesi sicuri, fosse la grande emergenza italiana. Ma Palazzo Chigi non ammette défaillance: tutto deve andare per il verso giusto. Ulteriori costi per l’affitto di una palazzina - I costi, si sa, non sono un problema. Altri 40.000 euro sono in arrivo per l’affitto di nuovi locali per ospitare giudici, cancellieri e giudici di pace che dovranno seguire tutto l’iter per la detenzione amministrativa dei migranti che il governo spera di rimandare a casa. I moduli per Gjader non sono ancora arrivati - Intanto, a contrariare Palazzo Chigi è arrivata la notizia di un ulteriore rinvio: si partirà il 10 agosto e non più l’1 come aveva annunciato la premier a giugno dopo la sua visita in Albania. I moduli abitativi arriveranno solo il 30 luglio e saranno necessari dieci giorni per montarli nel centro di Gjader dove, secondo programma, ogni migrante, in attesa di conoscere l’esito della richiesta d’asilo processata con le procedure accelerate di frontiera, trascorrerà 28 giorni in regime di detenzione amministrativa. Sempre che i fermi siano convalidati entro 48 ore. Tutti i dubbi sulla cauzione per i migranti - Perché sul protocollo restano i dubbi di legittimità già espressi nei mesi scorsi dai giudici delle sezioni immigrazione riguardo alla ormai famosa cauzione, unica alternativa per evitare la detenzione amministrativa. L’atteso verdetto della Corte di giustizia europea non arriverà prima del prossimo anno e così, per cercare di bypassare le obiezioni, il ministro dell’Interno Piantedosi ha rimodulato i termini della cauzione, ora variabile da 2.500 a 5.000 euro e pagabile anche da parenti fino al terzo grado che stanno in Europa. Una formulazione che resta discriminatoria. Ecco come funzionerà - Così come restano in piedi i dubbi sui vari step dell’operazione. Dal 10 agosto a portare i migranti in Albania sarà una nave della Marina italiana a bordo della quale agenti di polizia, con l’aiuto di mediatori culturali, effettueranno un primo screening delle persone salvate per individuare coloro che provengono dai cosiddetti Paesi sicuri e non presentano vulnerabilità: dunque solo uomini maggiorenni apparentemente non fragili. Un secondo screening più approfondito verrà fatto nell’hotspot di Shengjin ma in nessun caso minori, donne, anziani o fragili saranno detenuti e anche i nuclei familiari di primo grado non saranno divisi. Da settembre a fare la spola tra il Mediterraneo e l’Albania sarà invece una nave privata noleggiata. E i rimpatri avverranno dall’Italia - C’è poi l’ultimo capitolo dei rimpatri, il vero obiettivo dell’operazione Albania. E resta confermato il paradosso: i voli che riporteranno i migranti espulsi nei loro Paesi d’origine dovranno partire dall’Italia. Dunque, alla fine della fiera, anche questi dovranno prima essere portati al di qua dell’Adriatico. Dove ben più facilmente e decisamente con costi ben più bassi avrebbero potuto essere portati sin dall’inizio. Trump-Biden, appello all’America di Alberto Simoni La Stampa, 15 luglio 2024 Scampato all’attentato, Donald Trump sceglie la via della moderazione: “Non possiamo cedere all’odio”. Oggi sarà alla Convention repubblicana. Donald Trump sembra non voler lasciare un centimetro e perdere nemmeno un secondo di quel contatto con il suo popolo che sul palco di Butler, mentre si rialzava e lanciava il pugno al cielo è apparso viscerale, fisico. Un tutt’uno fra l’urlo combattiamo e la folla che scandisce “Usa-Usa”. Oggi inizia la Convention repubblicana di Milwaukee e il tycoon vuole esserci dal primo minuto. Ieri ha annunciato sul suo social Truth che sarebbe partito per il Wisconsin: “Stavo per posticipare il viaggio di due giorni, ma ho appena deciso che non posso consentire a uno sparatore e a un potenziale assassino di obbligarmi a cambiare la mia agenda. E quindi sarò oggi (domenica, ndr) a Milwaukee”. Ci sono 55mila persone in città, gli aerei che arrivano al MKE International Report scaricano reporters, analisti, esponenti dei think tank e delegati. Abbiamo viaggiato seduti accanto a Kim, una signora con un cognome italiano, delegata dello Utah. È mormone, ha 8 figli e 27 nipoti. Ha le unghie dipinte con i colori della bandiera americana. È la sua prima volta a un Convention nazionale. Ed è più eccitata all’idea di vedere Trump da pochi metri che dalle tensioni. Le misure di sicurezza sono state rafforzate, il presidente Biden ha dato ordine al Secret Service di potenziare controlli. Michael Whatley, capo dei repubblicani, alla Fox News ha detto che si sta lavorando con quaranta agenzie diverse per evitare problemi e rischi attorno al Baird Convention Center. Il popolo di Trump vuole vederlo da vicino e il tycoon, meglio di chiunque nell’America di oggi, sa parlare alla pancia del suo mondo, esaltarla, gratificarla, farsi travolgere, ponendosi come un martire. Se poi in diretta tv ha rischiato persino di finire la sua vita con quell’etichetta, la simbologia si rafforza. Questa, del martirio, è stata la strategia scelta durante i processi - “Vogliono colpire me, domani toccherà a voi” -, il ritornello per aizzare il movimento Maga contro l’establishment, la giustizia politicizzata, Biden e la sua Amministrazione che “usa i processi per fare fuori un avversario politico”. La retorica di Trump è incendiaria e deborda di incitazioni all’agire, al mobilitarsi. In fondo c’è un processo - non ancora aperto, su tutto pende ormai la sentenza sull’immunità parzialmente garantita al tycoon dalla Corte Suprema - per decidere se Trump ha o meno istigato alla sovversione dello Stato il 6 gennaio del 2021. La “sua” America lo ama mentre l’altra lo odia. Non equamente divise se da 10 mesi Donald, 78 anni, guida i sondaggi e le ultime due settimane gli stanno consegnando una visibilità e una forza inaspettata. Prima il “gentile omaggio” del Biden frastornato nel duello tv con lui sul palco; quindi, la sventagliata di pallottole che inevitabilmente lo colloca su un piano narrativo e politico diverso. I sondaggi fotograferanno solo fra un po’ l’effetto sulla campagna, la compassione però - notava Politico - che l’America ha nel suo Dna e sfodera anche con i suoi figli più discoli, qualche effetto lo avrà. Il Washington Post ha raccolto la testimonianza di una dipendente di Dollar General di Butler, il luogo dell’attacco, Patty Harnish. L’ultima volta che ha votato c’era Clinton sulle schede elettorali. L’urlo con il pugno proteso, “combattiamo”, ha colpito molti. Patty: “Lo guardo e mi sento orgogliosa, votai Clinton ora è Trump”. Biden e Trump si sono sentiti sabato sera. La Casa Bianca ha limitato a poche parole il commento descrivendo la telefonata “breve e rispettosa”, in un clima “buono”. Era la prima volta da anni che i due si parlavano. Ad Atlanta il rimbalzo di linea è avvenuto tramite i conduttori. Ieri mattina Trump ha diffuso un comunicato in cui ha sottolineato di essere vivo solo per la volontà di Dio. Riferimento, all’Altissimo, che diventato assai comune negli States dopo che pure Biden ha evocato il Signor Onnipotente, l’unico “che potrebbe dirmi di farmi di farmi da parte”. Donald nella notte fra sabato e domenica è rientrato in New Jersey. Fuori dalla sua tenuta da golf di Bedminster c’erano i sostenitori ad attenderlo, così come alla Trump Tower sulla Fifth Avenue si sono radunati i supporter. È sceso dalla scaletta del Trump Force One al Newark Liberty International Airport con passo svelto, aveva ancora indosso il vestito blu del comizio. Ha riposato qualche ora prima di diffondere un comunicato. Oltre a ringraziare Dio, ha sottolineato che “è importante in questo momento più che mai che restiamo uniti e mostriamo il nostro vero carattere come americani, rimanendo forti e determinati e non consentendo al male di vincere”. È riapparsa anche la moglie Melania, ha definito in un comunicato lo sparatore “un mostro” e anche lei ha chiesto al Paese di andare oltre le divisioni di un’America blu e rossa. Ivanka Trump, la figlia prediletta, volerà in Wisconsin. La linea di Trump è chiara: sfidante contro il male e chi vuole danneggiare il Paese, accomodante con i rivali nell’evocare l’unità. Una versione moderata dell’ex presidente, lenta virata in corso nelle ultime settimane. Trump è stato rispettoso al duello tv; non radicale nella stesura della piattaforma programmatica della Convention (la sua è la posizione meno rigida sull’aborto dentro la galassia conservatrice), ha preso le distanze dal Project 2025 e ora, graziato dalla pallottola che qualche “centimetro in là poteva uccidermi”, è convinto di poter incarnare quel ruolo di leader. Susie Wiles e Chris LaCivita, i manager della sua campagna, concretizzano la visione. Hanno inviato un memo ai membri dello staff comunicando due cose: evitare di recarsi negli uffici di Washington e West Palm Beach fin quando le condizioni di sicurezza non lo consentiranno. Ma soprattutto di astenersi dal commentare con i media e sui social “la sparatoria. Non saranno tollerate retoriche pericolose sui canali digitali”. Trump insomma può fare il moderato e lasciare che siano alcuni dei suoi accoliti, come JD Vance, senatore dell’Ohio nella short list per la vicepresidenza, ad accusare i democratici di aver costruito una narrativa d’odio, aumentata negli ultimi giorni, attorno a Trump bollandolo come un “fascista autoritario”. La conseguenza è che la stessa campagna di Biden ha deciso di rovesciare il messaggio, stop (almeno per ora) agli attacchi a Donald, e focus sul messaggio di unità. Seduto al Resolute Desk nello Studio Ovale, il presidente americano Joe Biden ha parlato ieri sera alle 8 alla Nazione. L’intervento è durato poco più di sei minuti e il leader democratico ha invitato ad “abbassare la temperatura del clima politico”, serve che tutti “si calmino”. Nel pomeriggio aveva invitato alla unità del Paese in un messaggio da tratti simili a quello lanciato da Trump. Parlando al Paese dalla Casa Bianca, Biden non ha nascosto le profonde differenze politiche che lo separano dal rivale ribadendo che continuerà a esprimersi “per la democrazia”, ma ha sottolineato che le “differenze si risolvono con il voto” e non portando la “violenza nelle strade, non è così che funziona la democrazia”. “La politica non può trasformarsi in un terreno di morte”, ha proseguito Biden che si è detto grato che Trump stia bene e ha ricordato il 50enne ucciso dallo sparatore sul prato di Butler. Domani il presidente riprenderà la campagna elettorale e volerà in Nevada. Martedì registrerà un’intervista con Bet media group che sarà trasmessa mercoledì. Restano invece sospesi gli spot commerciali in Pennsylvania. Si sono anche sentite Jill Biden e l’ex first lady Melania Trump. Nessuno ha diffuso dettagli sui contenuti della telefonata. Ora però l’America e Milwaukee attendono Trump in carne e ossa sul palco. Medio Oriente. Quanto costa sopravvivere, la guerra del cibo nella Striscia di Gaza di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 15 luglio 2024 Negli ultimi nove mesi i prezzi degli alimenti che si trovano a Gaza hanno raggiunto cifre folli. Gli aiuti umanitari non bastano più. Ed è nato un mercato nero parallelo per tirare avanti. A Gaza ci sono due guerre in corso. Una è quella delle bombe, dei missili e dei colpi di artiglieria pesante: ha causato 38 mila morti, ma potrebbero essere 186mila secondo un nuovo studio scientifico di The Lancet. L’altra è quella della sopravvivenza, della ricerca costante di cibo, un posto in ospedale, un tetto sopra la testa. Quest’ultima, da tempo, preoccupa la comunità internazionale che ha lanciato nei mesi scorsi costanti allarmi sul rischio di malnutrizione per circa due milioni di persone che vivono ancora a Gaza. Lo scorso 9 luglio le Nazioni unite hanno affermato che la carestia è oramai diffusa nella Striscia visto il recente aumento dei decessi tra i minori. Il più piccolo, Fayez Ataya, aveva solo sei mesi ed è uno dei 34 morti per malnutrizione registrati ufficialmente. Nella Striscia avere del cibo non è facile, e anche una volta trovato, il prezzo da pagare per non morire di fame è alto. I generi alimentari entrano principalmente con gli aiuti umanitari internazionali nonostante le reticenze e i blocchi imposti dal governo israeliano. Quando vengono consegnati alla popolazione ci si ammassa per prenderli, creando calche pericolose. I pacchi inviati dalla comunità internazionale sono composti per lo più da farina, biscotti proteici, humus, fave e fagioli in scatola, ma non tutti hanno la fortuna di tornare a casa con un carico tra le mani. I negozi alimentari accessibili sono sempre di meno e quelli aperti hanno gran parte degli scaffali vuoti. I prezzi, invece, sono saliti alle stelle. E in nove mesi, i pochi risparmi di una vita sono finiti, per la stragrande maggioranza della popolazione. Il prezzo da pagare - “Al sud c’è più cibo, ma non per tutti”, racconta Majed un ragazzo di 25 anni che negli ultimi mesi si è spostato in più parti della Striscia insieme alla sua famiglia per evitare i missili israeliani. “Mangio principalmente scatole di fagioli o di carne quando sono più fortunato”, racconta. “Al supermercato non trovi niente e il costo è altissimo soprattutto per carne, pollo, verdure e frutta”. Nei mesi scorsi la ong Christian Aid ha condotto una ricerca per capire come la riduzione dell’offerta dei generi alimentari abbia impattato sui gazawi. Un sacco di farina di 25 chili, ad esempio, al nord può arrivare a costare anche 324 sterline mentre dalle parti di Rafah circa 15 sterline. Le cipolle costano cinquanta volte di più rispetto al periodo precedente al 7 ottobre. Un chilo di zucchero arriva fino a 17 sterline, ventisei volte tanto. Comprare dei limoni, invece, costava 35 volte di meno. Se si è fortunati 250 grammi di caffè si possono acquistare a 15 euro. “Nei primi mesi di guerra per giorni ho mangiato solo erbe e foglie, non avevamo nient’altro. Sono stato male con forti dolori di stomaco”, racconta Majed. E i vizi non possono essere saziati: una singola sigaretta si vende a peso d’oro (circa 20 euro). Il “cibo dei poveri” come i falafel e il pane, rischiano di diventare pasti per ricchi. Ma a Gaza ricchi non ce n’erano, e non ce ne sono. Decine di ong ed enti benefici distribuiscono pacchi alimentari, provando a colmare i vuoti. È nato un mercato nero parallelo in cui chiunque prova a comprare e rivendere ciò che può essere utile alla vita quotidiana. C’è chi racimola qualche spicciolo trasportando persone o merci a bordo di carretti trainati da asini scheletrici. I più giovani che hanno conoscenze tecnologiche vendono schede telefoniche digitali che servono a bypassare i blackout della rete gestita da Israele e continuare a raccontare cosa accade nella Condizioni sanitarie - “Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire”, ha detto Jean Paul Sartre. E a Gaza i poveri non muoiono solo di carestia e malnutrizione ma anche per le pessime condizioni igienico sanitarie. I cinque impianti di trattamento delle acque reflue di Gaza sono stati chiusi e come scrive l’Onu “i liquami contaminano spiagge, acque costiere, suolo e acqua dolce con una serie di agenti patogeni, nutrienti, microplastiche e sostanze chimiche pericolose”. Come se non bastasse, cinque strutture di gestione dei rifiuti solidi su sei sono danneggiate. “Abbiamo bisogno di materiali per la pulizia, sapone e fazzoletti. Sono tre mesi che non uso lo shampoo”, dice Majed inviando via Whatsapp una foto di un rotolo di carta igienica. “L’ho pagato cinque shekel, 1 euro e 30”. Per i bambini i pannolini sono introvabili. Gli assorbenti sono assenti e ci si arrangia come si può: strappi di indumenti, di tende o della prima cosa che può essere un minimo funzionale per gestire il ciclo mestruale. Sono circa 700mila le donne che secondo le Nazioni unite versano in queste condizioni. Soltanto due mesi fa circolavano online i video di un carico di aiuti diretto a Gaza vandalizzato dai coloni israeliani. Secondo un’inchiesta giornalistica del Guardian sono i servizi di sicurezza israeliani a passare agli estremisti le informazioni utili per intercettare i camion diretti nella Striscia. “Vogliono che ci combattiamo l’un l’altro. Se gli aiuti non possono arrivare, i ladri e gli sciacalli vincono, e vince anche Israele”, ha detto qualche giorno fa un gazawi ai giornalisti della National public radio durante una trasmissione radio.