La piaga infinita dei suicidi in carcere di Maria Antonietta Farina Coscioni* La Stampa, 14 luglio 2024 La conversazione sarebbe durata una ventina di minuti. Era il 2014. Al termine Marco Pannella annuncia lo stop dello sciopero della sete, intrapreso per denunciare la terribilità delle condizioni dei detenuti e delle carceri italiane. “Ma sia coraggioso, Eh! Anche io l’aiuterò, contro questa ingiustizia”. Così Papa Francesco chiuse la telefonata al leader radicale, fatta per accertarsi delle sue condizioni di salute. “Ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati”, aggiunse. Una promessa è una promessa e se si esclude il Giubileo dei carcerati, celebrato nel 2016 a Roma, nella tanto sospirata attesa, si continuano a contare numerosi suicidi. Cinquantaquattro, cinquantasei, cinquantotto - si sbaglia anche a contare - dolorose morti anche di giovanissimi “solo” in questa prima metà del 2024. Ci sono poi i tentati suicidi, gli atti di autolesionismo, i decessi per mancanza di cure, i suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria: sintomi di un disagio e di un malessere profondi. Che dire delle violazioni all’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo a carico dell’Italia, del comportamento delle autorità carcerarie che non hanno profuso tutti gli sforzi - che erano ragionevoli attendersi - per impedire il suicidio di un detenuto che aveva mostrato segni di debolezza psichica? Che dire di quella prerogativa, non sentita come urgente, di ispezionare carceri e condizioni dei detenuti, di donne e uomini, parlamentari della Repubblica, da esercitare seriamente e sistematicamente? “Attraversammo estati di fuoco, rivolte e repressioni nelle case di pena italiane, giornate intere, dall’alba al tramonto, da una cella all’altra, da Poggioreale all’Ucciardone, dalle “Nuove” a San Vittore e Regina Coeli, da Palmi a Badu e Carros, l’Asinara, Pianosa, con detenuti e agenti di custodia, con direttori, medici e cappellani; sulla scia di suicidi e suicidati”. Così ripeteva Pannella in tante occasioni e le occasioni sono state tante come se fosse oggi. Con la stessa urgenza di allora, giorni fa il Partito Radicale ha lanciato la campagna volta a denunciare il procrastinarsi delle condizioni disumane e degradanti in cui versano i detenuti. Indirizzata al Presidente della Repubblica, alla Magistratura di Sorveglianza, al Ministro della Giustizia rispettivamente tramite formali istanze di “grazia”, di sospensione delle pene per motivi umanitari e di iniziative in autotutela ministeriali. Un suicidio non è mai un evento privato: è un evento sociale di cui tutti dovremmo sentire il peso. Perché intercettare i segnali d’allarme si può, si deve a maggior ragione nei luoghi che dovrebbero essere dedicati alla rieducazione di una persona e si trasformano spesso in veri e propri mattatoi. Come non sentire la responsabilità dei tre suicidi avvenuti in neanche 24 ore, due dei quali appena ventenni? “Sperimentare il trauma derivante dalla perdita di un caro per suicidio è un evento “catastrofico” simile all’esperienza in un campo di concentramento”, così l’Associazione Americana di Psichiatria. Sono ormai troppi in Italia coloro che tentano di sopravvivere alla perdita di una persona cara per suicidio. *Presidente Istituto Luca Coscioni Carceri, parole e sdegno inutili se non cambia il sentire comune di Don Vincenzo Russo* thedotcultura.it, 14 luglio 2024 Il carattere afflittivo non è tra gli aspetti della pena in Costituzione. Leggo su un articolo comparso sulla stampa, che il carcere di Sollicciano, così come si presenta oggi, è praticamente inutile, impresentabile, e che non può restare tale. Leggo anche che l’ennesimo recente suicidio qui avvenuto, quello del ventenne tunisino, è una sconfitta, un lutto per lo Stato. Le affermazioni sopra riportate sono assolutamente condivisibili, ma appaiono oltremodo tardive. Da tempo e soprattutto negli ultimi anni, le condizioni detentive all’interno di Sollicciano presentano caratteristiche di inaccettabilità, dal punto di vista del rispetto dei principi umani e dei diritti costituzionali. Le gravi carenze a livello strutturale, con conseguenze sul piano igienico-sanitario e quindi sulla qualità della vita delle persone detenute, sono ampiamente emerse in tutta la loro consistenza, con un peggioramento che è andato accentuandosi negli ultimi periodi. Altrettanto si può dire delle carenze di organico, della mancanza dei servizi previsti, dell’assenza di opportunità di percorsi e proposte in favore della rieducazione e del reinserimento in società dei detenuti. Perché solo adesso, quindi, si ammette tutto questo, quasi presentandolo come un problema ineluttabile, emerso solo nelle ultime ore e privo di cause da ricercare all’interno? Da tempo, e maggiormente negli ultimi anni, quale cappellano ho segnalato in ogni modo tale grave situazione, nell’auspicio che qualcosa cambiasse e si muovesse. Nel frattempo, però, nulla è accaduto in tale direzione e l’unico cambiamento intervenuto è stato quello della figura del cappellano! Si invoca la carenza di risorse, la catena delle responsabilità che giunge diretta al centro, alla capitale; ma tutto questo non può bastare, come pure la manifestazione di emozioni di sdegno, quando negli ultimi anni la situazione è peggiorata sempre più mostrando livelli di gravità crescente e, allo stesso tempo, non si è fatto poco per mettere mano alla risoluzione dei problemi, quasi di fatto accettandoli. Comincio a credere che oltre le questioni tecniche e le procedure giuridiche, debba anche sempre rintracciarsi una motivazione legata al pensiero, al sentire comune, alla visione che nella società è presente intorno al tema del carcere. Tale visione, spesso non manifesta, viene però di tanto in tanto a galla, trapelando tra le righe. Alla richiesta dei detenuti di acqua calda dai rubinetti delle celle si potrebbe benissimo sentir rispondere che questa è una pretesa inappropriata, più consona ad un albergo che ad un carcere. È vero, il carcere non è un albergo, ma l’acqua calda è prevista dall’art. 7 del regolamento penitenziario e, oltre a questo, il carattere afflittivo non risulta comparire tra gli aspetti della pena delineati in Costituzione. Vogliamo distinguere tra carcere ed albergo? Bene, allora non si chiamino le celle “locali di pernottamento”, così come sono tecnicamente indicate nel regolamento, dal momento che queste sono piccole stanze buie dove si trascorre quasi tutta la giornata, in barba alle otto ore che sarebbero previste fuori da essa. Le parole cominciano a sprecarsi e, purtroppo, con esse si sta perdendo anche il senso del dramma più vero che si sta consumando nelle nostre carceri. La speranza di un cambiamento, culturale e fattuale, deve rimanere, ma ogni giorno accadono cose che la mettono a dura prova. Dobbiamo attendere altri morti, oltre agli oltre 80 che si sono contati negli ultimi due anni, perché lo sdegno facilmente rappresentato negli organi di stampa si traduca in vere azioni di giustizia capaci di restituire dignità ad un luogo, quale il carcere, che deve essere espressione della civiltà e democrazia di uno Stato? Speriamo che la vita, quella vera, torni ad animare gli istituti senza il prezzo di nuovo sangue. *Responsabile della Diocesi di Firenze per il carcere, già cappellano di Sollicciano Doccia fredda. L’acqua calda in carcere non è un diritto: “Si può pretendere solo in albergo” huffingtonpost.it, 14 luglio 2024 Nei penitenziari italiani 4 rivolte e 8 detenuti morti in una settimana. Nell’inferno delle carceri italiane, dopo i suicidi e le rivolte, sotto i riflettori finiscono adesso anche le ordinanze della magistratura di sorveglianza, che respinge i ricorsi dei reclusi contro la situazione di degrado degli istituti. Partiranno nelle prossime ore gli accertamenti del Garante dei detenuti su una serie di ricorsi rigettati in cui si chiedevano liberazione anticipata, sconto di pena o risarcimento dei danni presentati da vari detenuti nel carcere di Sollicciano a Firenze. Il Garante si è soffermato in particolare su un’ordinanza in cui si legge: “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive, ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Verifiche saranno avviate anche sul rigetto della richiesta di liberazione anticipata di un recluso che in passato aveva tentato il suicidio. La motivazione del respingimento sarebbe dovuta al fatto che “il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera rieducativa”. Sono centinaia i ricorsi da parte di detenuti nella casa circondariale di Firenze, i quali lamentano di trovarsi da diversi anni in condizioni inaccettabili e per questo hanno chiesto sconti di pena, alcuni dei quali sono stati accolti proprio perché ne sono state riconosciute le motivazioni ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che vieta il “trattamento inumano e degradante”. Proprio il 5 luglio scorso c’era stata una rivolta nello stesso carcere fiorentino di Sollicciano, seguita da quelle negli istituti di Viterbo, Trento, Vercelli e Brissogne: quattro proteste violente nell’ultima settimana, con materassi bruciati, devastazioni e alcuni agenti feriti. A Trieste il giorno successivo alla rivolta un detenuto è morto per overdose, dopo il saccheggio dell’infermeria, dalla quale erano stati portati via grossi quantitativi di metadone. Il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo, ha invece annunciato il cinquantottesimo suicidio di un recluso nel carcere di Verona, il sesto in un anno nello stesso penitenziario, che al momento in questo senso detiene il record negativo tra gli istituti italiani. “È una ecatombe senza interruzione. Oramai siamo destinati ad assistere inermi a morte e violenze”, commenta il sindacalista. Sul fronte politico, dopo il decreto “Carcere sicuro” approvato dieci giorni fa dal governo - che punta a semplificare le procedure, accelerare la burocrazia e umanizzare gli istituti garantendo anche l’alternatività della pena in comunità - il 23 luglio sarà discussa alla Camera la proposta di legge Giachetti, che punta alla modifica del sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti (da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata). La misura è anche contenuta in un emendamento allo stesso decreto carceri al Senato. “Sulla nostra proposta aspettiamo di capire quale sarà la posizione della maggioranza. Se non ci saranno aperture in questo senso sarà inevitabile passare alla parte giudiziaria”, sostiene il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, il quale già qualche giorno fa aveva annunciato l’ipotesi di una “denuncia al ministro della Giustizia perché se non si impedisce questa emergenza, prendendo decisioni concrete, lui sarà per noi responsabile”. “Rieduchiamo i carcerati curando le ferite e attraverso il servizio ai più deboli” di Gigliola Alfaro agensir.it, 14 luglio 2024 Rieducare il detenuto, reinserirlo nella società e abbattere anche il tasso di recidiva. È l’esperienza delle Comunità educanti con i carcerati (Cec), progetto promosso dalla Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) che ha portato nel tempo alla realizzazione di 10 strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle cooperative dell’associazione. Per questo la Comunità, attraverso il presidente Matteo Fadda, ha salutato molto positivamente il decreto carcere, recentemente approvato dal Governo. Dell’esperienza Comunità educanti con i carcerati parliamo con Giorgio Pieri, biologo, erborista ed educatore professionale, responsabile del progetto per la Comunità Papa Giovanni XXIII. Quando è nata la prima Casa? Dove si trovano le Cec? Le Comunità sono dieci, la prima si chiama Casa “Madre del Perdono” e l’abbiamo aperta nel 2004 a Montefiore, nel Riminese, poi ne abbiamo aperto una seconda in Toscana: ora ne abbiamo tre nel Riminese, una a Forlì, una in Toscana, una a Cuneo, una a Termoli, due a Vasto e una a Piacenza. Come funzionano le Cec? Nella Comunità il metodo si basa sulla relazione. Quello che abbiamo capito è che queste persone, prima di fare del male, hanno ricevuto il male, sono persone ferite, fragili, e sul piano relazionale non hanno avuto esempi positivi o hanno passati di violenza e di estrema povertà materiale e culturale, deprivate sul piano educativo in tenera età. Il nostro impegno principale è lavorare sulla relazione e sulle ferite. Un po’ come l’altalena. Innanzitutto, guardiamo il passato della persona, guardiamo la ferita, cerchiamo di rendere consapevole di queste ferite. Ad esempio, c’era un ragazzo che picchiava la moglie, alla fine si è reso conto che sottovalutava il fatto che il padre a sua volta picchiasse la madre e bevesse: pur odiando il padre, alla fine l’unico linguaggio che conosceva era quello della violenza. È stata un’elaborazione non immediata e non facile. Il ragazzo diceva che era una fortuna l’essere entrato in Comunità perché covava solo odio verso la moglie che l’aveva denunciato, mentre in Comunità ha capito che il problema era lui e non la moglie. In Comunità ci sono regole e vengono fuori i pregi e i difetti delle persone. Noi dobbiamo scoprire i talenti dei “recuperandi”. Sui difetti si deve lavorare, bisogna anche aiutarli a rielaborare la rabbia che covano, saperla contenere, saperla indirizzare. Si chiamano “Comunità educanti con i carcerati”: chi educa? Le Comunità sono fatte da operatori come me, ma poi ci sono tanti volontari che vengono due o tre ore alla settimana. Il principio è che il territorio deve farsi carico di queste case. Ci siamo dati come punto di lavorare sul detenuto non solo noi operatori, ma anche i volontari che vengono a visitare queste case e che solitamente vivono un rapporto uno a uno: li accompagnano dall’inizio della pena sino alla fine. In colloqui che durano da una quarantina di minuti fino a un’ora i volontari cercano di scavare nel loro vissuto, quello che vivono in comunità, cosa sta facendo bene e cosa no, come questo è riferito anche a tutta l’esperienza passata. Il recuperando si sente accompagnato, sente che il suo futuro non è uguale al suo passato, che ha la possibilità di sperare in qualcosa di diverso, che ha persone che gli vogliono bene. Pian piano si calma e accetta di guardarsi dentro, questo è l’aspetto più bello della Comunità: la persona accetta di fare questo lavoro e si dà il tempo per farlo. Quando si è maturato questo percorso, come l’altalena si esce dalla Comunità per andare verso l’esterno: inviamo le persone al lavoro e le accompagniamo dando un appartamento, nel frattempo continuano la relazione con noi se vogliono. Com’è una giornata tipo in Comunità? La sveglia alle 7-7,30, poi la colazione, si prosegue con le pulizie, poi c’è un momento di spiritualità: noi essendo cristiani partiamo dalla lettura della Parola di Dio. Detenuti per reati gravi come l’omicidio o persone che hanno subito violenze di tutti i generi hanno una domanda di senso molto alta e questa componente spirituale è molto importante. Anche se ci sono molti musulmani - la metà delle persone che vengono da noi sono straniere e quindi sono di religioni diverse - il bisogno di spiritualità ci accomuna, non ci separa, questa è un’esperienza molto bella. Noi facciamo anche lavori in casa: assemblaggio oppure orto, allevamento di animali. Un appuntamento fisso la sera è il resoconto scritto di sentimenti ed emozioni che hanno dominato la giornata. Ci sono poi tre incontri a settimana tutti insieme con o senza gli operatori in cui ci si racconta come sta andando il percorso. L’aspetto bello è che diventiamo capaci di farci guardare e di guardare gli altri, cercando di rompere i meccanismi di omertà, gli errori che si ripetono. Questo lavoro è supportato anche, quando c’è bisogno, dalla presenza di psicologi e psichiatri, ma il lavoro vero è quello della Comunità, dove la convivenza stretta tira fuori il bello e il brutto che c’è dentro di noi su cui poter lavorare. Questo tipo di lavoro non si può fare in carcere, perché il sistema carcere è di per sé violento per cui la persona non potrà fare mai una vera revisione di vita in quanto si trova a doversi difendere. C’è gente che ha commesso un reato e dentro dovrebbe elaborare un senso di colpa e invece elabora un sentimento di vittimismo perché si deve difendere dal sistema che è fatto di violenza agita dagli altri detenuti, dalle guardie e anche da una buona dose di rabbia che nasce dalla propria storia. Quindi, non si riesce a fare questo lavoro di introspezione e di rielaborazione del proprio vissuto. Ma se non si fa questo non si può parlare di percorso educativo. Ci sono dei principi che ispirano il vostro lavoro con i detenuti? Innanzitutto, come dicevo prima, la presenza della comunità esterna, i volontari, che noi formiamo, facciamo un corso di formazione ogni due mesi, quindi in una casa di 15 persone ci sono 10 volontari formati. Poi mettiamo alcuni detenuti al massimo della responsabilità, cioè gestiscono le mansioni della casa ma anche la responsabilità sul piano educativo. Abbiamo un organo, il Consiglio della sincerità, della solidarietà e della sicurezza, con un gruppo di due o tre detenuti che collaborano con gli operatori nella gestione della casa. Un altro punto importante è la famiglia, di origine e quella attuale, che va coinvolta e diventa una risorsa nel percorso. Altro punto è il lavoro, che all’inizio non è remunerato. Noi siamo a costo zero per lo Stato al momento. Sono vent’anni che abbiamo aperto la prima casa e non abbiamo mai avuto finanziamenti se non una parentesi di tre anni come Casa Madre del perdono per 10 persone dalla regione Emilia Romagna. Il lavoro diventa un’occasione per insegnare l’atteggiamento che bisogna avere. Occorre creare le condizioni affinché anche il lavoro diventi un elemento educativo. Di per sé non lo è, ma lo diventa in un contesto educativo. Il lavoro va accompagnato fino all’autonomia. Non dobbiamo illuderci che un lavoro risolva il problema del detenuto. Il problema del detenuto è l’elaborazione del proprio vissuto; il lavoro per campare è necessario, ma viene dopo. La Comunità Papa Giovanni ha una grande forza: oltre alle Cec, abbiamo comunità per tossicodipendenti, per adulti, con disagio fisico, psichico, case famiglia, abbiamo oltre 500 strutture, quindi abbiamo una rete, per cui dopo la Cec possiamo mandare le persone in casa famiglia e poi da lì vanno a lavorare. Chi sta in Comunità? Per la precarietà con cui abbiamo dovuto lavorare abbiamo molto valorizzato la disponibilità di ex carcerati che hanno deciso di dare la vita per questo progetto. Ogni casa è garantita dalla presenza alcuni membri della Comunità, poi ci sino alcuni ex detenuti di supporto che sono di grande valore. Se c’è la possibilità grazie al decreto carcere di avere fondi e di assumere educatori professionali, sarà la prima cosa che faremo. Da uno studio presentato al Senato nel 2014, ma ancora valido, emerge che se ci fosse una retta di 40 euro al giorno ci sarebbero disponibili 10mila posti in Comunità perché ci sarebbero educatori, figure professionali che pagate il giusto sarebbero disponibili a vivere questa esperienza che è bella e dura al tempo stesso, perché abbiamo sempre a che fare con il male. E il male è un grande mistero e lavorare sul male e sulle ferite delle persone è sempre cosa delicata e nessuno può dire si fa così ed è certo così, è sempre una ricerca continua per fare bene, sempre meglio. Prima diceva dell’importanza dei momenti di spiritualità… È importante accendere e dare valore alla propria spiritualità. Ho chiesto a un ragazzo: “Cos’è la cosa più bella di te?”. Mi ha risposto: “La mia fragilità”. Questo è uno spacciatore che ha smerciato droga senza essere preso per 24 anni, non ne poteva più di quella vita e dice grazie a Dio di essere stato arrestato: da noi, dove ci sono anche disabili, si è trovato ad accudire un disabile giorno e notte e ha scoperto di avere una grande sensibilità alla fragilità degli altri. Questo talento che ha scoperto di avere nasce dalle sue fragilità, suo padre ad esempio beveva. Questa come le altre storie mi dicono che la strada è giusta, forse è l’unica strada. Il presidente dell’Apg23 ha mostrato soddisfazione per il decreto carcere… Siamo stati noi a proporre un Albo di Comunità al sottosegretario Andrea Ostellari in un incontro con lui e con Giovanni Russo, il capo del Dap e ci siamo sentiti dire una frase confortante: “Questa volta non siete voi a chiedere aiuto a noi, ma siamo noi a chiedere aiuto a voi”. Vuol dire che hanno riconosciuto che le Comunità possono diventare se non per tutti ma per tanti - io dico anche per oltre 20mila persone - luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere. Io sogno che un giorno arriveremo a guardare le colate di cemento e ferro come qualcosa di preistorico perché saranno sostituite da qualcosa di molto più bello che sono le Comunità. Quante persone avete accolto in questi anni? Con le Cec si abbassa la recidiva? In tutti questi anni abbiamo accolto oltre 4mila persone, soltanto qui nel Riminese ci avviciniamo alle mille, attualmente ci sono 280/290 persone tra detenuti ed ex detenuti che dormono nelle nostre case. Da noi la recidiva si abbassa al 12-15%, rispetto al 70% dichiarato dallo Stato italiano, ma che in realtà è più alta, perché il 70% si riferisce solo a quelli che rientrano in carcere entro i cinque anni, ma ci sono anche quelli che commettono reati senza essere presi. Fate incontrare vittime e autori di reati, secondo il paradigma della giustizia riparativa? Grazie alle Comunità passiamo da una giustizia retributiva che è quella delle carceri, vendicativa in alcuni casi, a una giustizia educativa. La giustizia riparativa credo, per come è stata concepita, è molto teorica e molto di élite, perché di fatto l’incontro vittima e carnefice non è sempre facile. Noi, ad esempio, facciamo venire la mamma di un tossicodipendente a parlare del proprio figlio e di quello che vive un genitore quando ha un figlio per strada oppure facciamo incontri con le comunità terapeutiche dove mettiamo a confronto spacciatori e consumatori, anche con qualche partita di calcio tra la squadra degli spacciatori contro quella dei tossicodipendenti. Credo che questi incontri vadano incentivati per dare valore alla vittima e far riconoscere al carnefice che, oltre ai suoi diritti, ci sono quelli della vittima perché il progetto Cec tiene conto dei diritti della vittima, il diritto di riscatto del reo e il diritto della società che aspira a una giustizia piena. Nel libro “Carcere. L’alternativa possibile” spiego bene tutto il mondo Cec, nato dall’esperienza brasiliana Apac, con le cosiddette “carceri senza guardie”. La convivenza tra necessità di sicurezza e rispetto dei vincoli costituzionali di Salvatore Curreri* Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2024 Il Ddl Sicurezza confida più nella propaganda che nel garantire i principi della Carta, a partire dal ricorso alla sanzione penale solo come extrema ratio per assenza di altre tutele. Non potendo ricorrere, almeno stavolta, al decreto legge per evidente eterogeneità dei suoi contenuti, lo scorso 22 gennaio il Governo ha presentato un disegno di legge in materia di sicurezza, oggi all’esame della Camera. Si tratta di un provvedimento complesso (29 articoli), ispirato però ancora una volta a quella logica securitaria secondo cui i problemi sociali si risolvono introducendo nuovi reati e pene più severe. Anche se basata su valutazioni eminentemente politiche, la politica criminale del legislatore non è però totalmente discrezionale perché deve rispettare taluni principi costituzionali, tra cui: il ricorso alla sanzione penale quale extrema ratio per assenza o insufficienza di altri mezzi di tutela e a fronte di comportamenti lesivi di beni costituzionalmente rilevanti; la tassatività, tipicità e determinatezza della fattispecie penale; l’adeguatezza e proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato. Se queste sono le coordinate entro cui il legislatore deve muoversi, meritano di essere positivamente segnalate le proposte che mirano a tutelare le persone più anziane, vittime di truffe e di odiose occupazioni arbitrarie delle loro abitazioni, profittando magari della loro assenza perché ricoverate. Pari apprezzamento merita la proposta di obbligare l’amministrazione penitenziaria a decidere entro 60 giorni sulle convenzioni per il lavoro dei detenuti, visto che esso corrisponde alla finalità rieducativa della pena e contribuisce al loro effettivo reinserimento sociale, con drastico abbattimento del tasso di recidiva. Di contro, non sono poche le disposizioni che sollevano dubbi di costituzionalità. Così si allunga da tre a dieci anni il periodo in cui allo straniero condannato per gravi reati può essergli revocata la cittadinanza, come se questa fosse una graziosa concessione amministrativa anziché un diritto acquisito, con il rischio peraltro che sia dichiarato apolide se non abbia o non riesca ad averne un’altra, violando così la Convenzione Onu del 1961 sulla riduzione dell’apolidia. Ancora una volta, in nome di una concezione panpenalistica, si vogliono addirittura reprimere penalmente proteste anche quando meramente passive: chi blocca una strada o una ferrovia è punito non più con la multa fino a quattro mila euro ma con la detenzione (un mese se da solo, da sei mesi a due anni se in gruppo); lo stesso vale per le proteste dei detenuti anche quando sotto forma di mera resistenza passiva e non violenta all’esecuzione degli ordini impartiti e per quelle degli stranieri ristretti nei Centri di permanenza e accoglienza, sottovalutando in entrambi i casi come esse spesso scaturiscono dalle condizioni disumane e degradanti in cui costoro sono costretti a vivere. La stessa sottovalutazione della realtà che troviamo nella prevista possibilità di recludere negli istituti a custodia attenuata (ICAM) le donne incinta o con figli con meno d’un anno, sottovalutando che essi sono appena quattro e peraltro quasi tutti dislocati al Nord Italia (Torino, Milano, Venezia e Lauro), violando in tal modo la tutela della maternità e dei minori prevista dall’articolo 31 della Costituzione. Per non dire, infine, della disposizione che, al contrario degli altri cittadini, consentirebbe agli agenti di pubblica sicurezza quando non in servizio di poter portare con sé una seconda arma personale, oltre quella di servizio, per di più anche senza l’apposita licenza, con conseguente proliferazione delle armi per strada sulla base di una concezione privatistica della sicurezza pubblica. Anziché cedere al populismo penale, confidando nella grancassa propagandistica di tali reati (al netto della loro effettiva perseguibilità), sarebbe più prudente attenersi ad un più rigoroso rispetto dei principi costituzionali in materia penale così da non esporsi al rischio di altrimenti prevedibili ricorsi alla Consulta. *Docente di diritto costituzionale all’Università del Studi di Enna “Kore” In nome della sicurezza un’altra “sicura” vergogna. Donne incinte recluse, inutile crudeltà di Giuseppe Anzani Avvenire, 14 luglio 2024 Che i figli paghino per la colpa della madre, dalla quale non possono neppure esser separati quando essa vien messa in prigione, perché stanno ancora nel grembo, è una crudeltà dalla quale il nostro codice penale ci ha finora scampati, rinviando obbligatoriamente l’esecuzione della pena. Finora, ho detto, perché adesso si vuol cambiare. Si vuole che il rinvio della galera a più tardi non sia più obbligatorio per le donne incinte o col bimbo fino a un anno, ma solo facoltativo, secondo che al giudice parrà. Cosa che già funziona se i bimbi hanno passato l’anno anno e stanno sotto i tre, e devono andare in prigione insieme con la mamma condannata. È questo il colpo di genio del DDL “sicurezza” per salvare i borselli sul metrò (un’ossessione televisiva) dall’astuzia delle mamme ladre, nel testo blindato in Commissione nei giorni scorsi. Dunque donne incinte, puerpere, mamme col lattante al seno, o il bimbo svezzato, potranno finalmente finire dentro una prigione, col figlio. Uno sprazzo di pietà vuole che sia un “Istituto a custodia attenuata per detenute madri”, cosa nell’ordinamento penitenziario deve assomigliare a una specie di asilo nido invece che ad una galera. Se poi il figlio ha più di un anno, la detenzione in queste case per le mamme condannate è solo facoltativa e non più obbligatoria, e ciò significa che secondo il sistema ci possono essere bambini il cui orizzonte nell’età d’infanzia è disegnato da celle e sbarre. È civiltà questa? A nessuno viene in mente di chiedere che cosa accade a un figlio nel periodo della gestazione nel grembo, se la mamma patisce dolore, emozioni di ansia, paura, disistima, abbandono? Le neuro scienze fanno evidente quanto ciò influenzi lo sviluppo fetale, perché tutto ciò che la madre prova raggiunge il bambino, con una connessione emotiva non meno intensa di quella che ne alimenta la vita fisica attraverso il cordone ombelicale. E dopo il parto, il primo anno di vita è proprio quello in cui la costruzione e lo sviluppo del sistema nervoso si struttura in un picco prodigioso. Intercettare questo sviluppo, che è qualcosa di unico, che sa di miracolo nella vita, con esperienze di deprivazione, di separazione, di limitazione è violenza contro la vita innocente. Del resto, la riflessione giuridica e umana sui problemi della punizione delle madri condannate che non possono affidare a nessuno i figli piccoli e per le quali la soluzione residua, a causa dell’età dei bimbi e delle sfavorevoli ipotesi facoltative può risultare ancora la cella, ha condotto nei decenni passati i ministri della giustizia a virtuose parole, parole, parole che gli attuali umori vendicativi della sicurezza dei borselli in metrò vanno trasformando in grida nel deserto. Qualche graffito: Clemente Mastella (2007) al convegno “Perché nessun bambino varchi più la soglia del carcere”; Angelino Alfano (2009) “un bambino non può stare in cella”; Paola Severino (2013) “in un Paese moderno è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita che non ne faccia dei reclusi senza esserlo”; Annamaria Cancellieri (2014) “stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bambini in carcere”; Andrea Orlando (2015) “entro la fine dell’anno nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità”; Alfonso Bonafede (2019) “ho pianto quel giorno del 2018 quando la giovane detenuta gettò i suoi due figli dalle scale della sezione nido del carcere di Rebibbia”; Marta Cartabia (2022) “Mai più bambini in carcere, anche solo un bambino ristretto è di troppo”. E adesso? E adesso? Parlamento violato, Nordio disprezza l’aula e non parla dove dovrebbe di Liana Milella La Repubblica, 14 luglio 2024 Sia al Senato che alla Camera il Guardasigilli non è intervenuto sull’abuso d’ufficio a fronte di un florilegio di interviste. Certo, i cartelli e i “buhhhhhh…” devono far paura. Ma vestire i panni del ministro della Giustizia vuol dire anche questo. Assumersi la responsabilità in Parlamento, con la propria faccia, di quanto si scrive nei disegni di legge e nei decreti e di quanto, in abbondanza, si dichiara nelle interviste. È singolare dunque vedere un ministro che dedica tempo a discettare su Churchill ma poi, quando nelle aule parlamentari, al Senato prima e alla Camera poi, si vota il suo primo e finora (per fortuna) unico disegno di legge, non pronuncia una sola parola. Al Senato, lo scorso febbraio, Carlo Nordio non mette piede neppure in aula. Si ferma alla buvette, e scambia qualche parola coi giornalisti. Alla Camera invece, per due giorni, passeggia in Transatlantico, pronto al crocchio con i media e a regalare le sue battute a chi gliele chiede. In aula entra solo per ascoltare le dichiarazioni di voto. E prendersi, alla fine, le pacche sulle spalle della sua maggioranza per la gioia dei fotografi che immortalano la scena. Discorsi? Nessuno. Il ministro, con le sue parole, non si assume la responsabilità, nell’unica sede istituzionale consentita che lo richiede, per un ddl che si risolverà di fatto in un’amnistia, come afferma il giurista Gian Luigi Gatta, e come dice il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Perché 3.620 processi chiusi con sentenza definitiva che adesso saltano non sono di certo pochi. In una lunga carriera giornalistica, tutta dedicata alla giustizia, capita di averne avuti di fronte tanti di Guardasigilli. Ne conto ben oltre una dozzina. Altri li ho conosciuti quando sono stati i numeri due del Csm. Come l’indimenticabile Virginio Rognoni. Diversi per storia professionale e per scelte politiche. Ma anche per carattere. Bruttissimo, per esempio, quello di Piero Fassino. Ma come dimenticare Giovanni Maria Flick, il costituzionalista, con i suoi 22 disegni di legge depositati subito appena nominato ministro? O Andrea Orlando, pronto ad affrontare il disastro delle carceri su cui incombeva la super multa della Cedu, con la sfida degli Stati generali dell’esecuzione penale? E Oliviero Diliberto che riesce a riportare in Italia la Baraldini? E Paola Severino con la sua legge anticorruzione? E Alfonso Bonafede con la sua Spazzacorrotti? E Marta Cartabia con ben tre leggi che rivoluzionano la giustizia civile, penale e il Csm che proprio Bonafede le aveva lasciato in eredità? E guardando a destra ecco il leghista Roberto Castelli e l’allora berlusconiano Angelino Alfano che hanno affrontato il Parlamento anche in passaggi per loro delicatissimi, da contestazione assicurata. Né possiamo dimenticare un ministro della Giustizia tecnico come Luigi Scotti. Né tantomeno il super politico Clemente Mastella che in Parlamento era di casa. Ebbene, in tempi di premierato, lascia stupefatti, ma ahimè se ne capisce l’infausto presagio, che proprio di fronte alle Camere - non nelle interviste, non nei corridoi, non nei talk show - un Guardasigilli non senta il dovere di assumersi fino in fondo la responsabilità politica di decisioni infauste. Perché abrogare l’abuso d’ufficio, rendere inutile il traffico d’influenze, imporre l’interrogatorio del potenziale arrestando, negare alla stampa le intercettazioni, impedire che anche quelle apparentemente non necessarie vengano trascritte, immaginare che siano tre giudici e non uno solo a decidere l’arresto senza badare ai numeri, significa cambiare la storia della giustizia italiana. Lo si può fare, se alle spalle c’è una Meloni, ma bisogna metterci la faccia nel luogo giusto. Davanti alle Camere. Non farlo significa asserire che già oggi esse non hanno più alcun valore. Forse perché vale la piazza. Quella che una volta fu di Mussolini. Abuso d’ufficio, Cassese: “Andava cancellato. Troppa discrezionalità alle procure” di Grazia Longo La Stampa, 14 luglio 2024 Professor Sabino Cassese, giurista, già giudice della Corte costituzionale e ministro per la Funzione pubblica del governo Ciampi, intravede pericoli con l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio? “Si tratta di un reato configurato dalla norma in maniera generica, che, da un lato, non indica ai funzionari con sufficiente precisione il comportamento vietato, dall’altro dà eccessiva discrezionalità alle procure e ai giudici. Inoltre dà rilevanza penale a comportamenti che sono sottoposti al controllo del giudice amministrativo. La sua abrogazione non comporta pericoli, ma vantaggi per la certezza del diritto”. L’abolizione di questo reato faciliterà gli amministratori nelle decisioni e quindi si potrà accelerare la macchina amministrativa? “È uno dei fattori che concorrono al cosiddetto timore della firma e quindi alla burocrazia difensiva. Ci si può quindi aspettare che l’amministrazione proceda più speditamente”. Secondo il presidente dell’Anticorruzione poiché l’abuso d’ufficio è un reato spia con la sua abolizione si depotenzia la lotta alla corruzione e alla mafia. Lei cosa ne pensa? “Se - come credo - per reato spia si intende un reato che consente indagini che servono a scoprire altri reati, si tratta di un’autentica distorsione del concetto stesso di diritto penale che porta il magistrato a percepire il proprio ruolo come controllore della virtù, come osservato qualche anno fa da uno dei nostri maggiori sociologi, Alessandro Pizzorno”. L’Anm parla di amnistia per migliaia di colletti bianchi. Non c’è il rischio, come afferma il leader del M5S Giuseppe Conte di lanciare un messaggio sbagliato ai cittadini, ovvero quello della impunità dei pubblici amministratori? “Gli amministratori pubblici sono sottoposti al controllo dei giudici amministrativi, Tar e Sonsiglio di Stato. Solo per i comportamenti che consistono in precise fattispecie penali, interviene il magistrato ordinario”. Il governo sostiene la necessità di una semplificazione normativa, tuttavia - come in questo caso con il peculato per distrazione - ha introdotto diversi nuovi reati. una contraddizione, non crede? “Sì, è una contraddizione. Il numero dei comportamenti definiti e sanzionati come reati, nel nostro ordinamento, è superiore a quello di altri ordinamenti. Quindi, va limitato. I comportamenti proibiti possono essere egualmente sanzionati, ad esempio, con ammende”. Il governatore Giovani Toti ha prefigurato le dimissioni, mentre il centrodestra parla di accanimento dei magistrati nei suoi confronti. A lei, sul caso, è stato richiesto un parere dalla difesa. Qual è la sua opinione sulla vicenda? “La giustizia è rappresentata da una bilancia. Deve dar prova di equilibrio. Non ne dà prova se adotta una misura cautelare tanto grave, per tanto tempo nei confronti di una persona che è solo accusata e non è stata ancora giudicata, senza soppesare i vari interessi e principi coinvolti (ricordi la bilancia!)”. Lei si è unito a un fronte di giuristi, imprenditori e politici che chiedono una riforma bipartisan del premierato. Alla Stampa aveva dichiarato che la riforma “va nella direzione giusta ma rischia di sbandare”. Quali rischi intravede? “Non rischi, ma necessità di correzioni. La soglia da raggiungere per ottenere il premio di maggioranza. Il peso del voto degli italiani all’estero. L’eventuale ballottaggio. Questi ed altri sono elementi da precisare. Il centrodestra ha dato prova di voler tener conto delle richieste dell’altra parte, passando dal presidenzialismo al premierato, e poi modificando il testo originariamente presentato. Nonostante che dall’altra parte vi sia un rifiuto netto, sarebbe bene che facesse questi ultimi passi”. L’opposizione teme una possibile deriva legata alla concentrazione dei poteri nelle mani del premier e al depotenziamento della figura del presidente della Repubblica, non ritiene che questi timori siano condivisibili? “Non è la concentrazione che deve preoccupare, ma la stabilità. La proposta non aumenta i poteri del capo del governo, ma rende meno precaria la sua funzione”. L’opposizione e le Regioni del centrosinistra si preparano al referendum contro l’Autonomia differenziata e parlando di una riforma che spacca il Paese e rischia di penalizzare il Sud. Ritiene che anche in questo caso sia necessario e possibile un dialogo per modificare la normativa? “Autonomia, quella voluta da De Gasperi nel 1946, vuol dire diversificazione. Già oggi la regione Puglia ha leggi agricole diverse dalla regione Lombardia. Dove sta il pericolo? “. È in corso una dura polemica dentro la maggioranza sulle liste d’attesa: per i governatori di centrodestra e per la Lega la legge è l’esempio di uno stato centrale che tiene per sè i poteri... “Non mi meraviglia. La storia del decentramento, in tutto il mondo, è una storia di continue tensioni tra centro e periferia. È una dialettica che fa bene alla democrazia”. Gli ecoreati reali superano i numeri: i grossi illeciti non si vedono, favoriti pure dalle leggi di Gianfranco Amendola* Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2024 Per fortuna abbiamo Legambiente che, ogni anno, ci ragguaglia sull’andamento dei reati ambientali, ricordandoci che nel 2023 sono aumentati del 15,6 % specie nel Mezzogiorno. Così come sono aumentati sequestri ed arresti. Cè da dire, però, che si tratta di numeri certamente inferiori al reale in quanto sono, ovviamente, relazionati ai controlli sul territorio, sicuramente inadeguati. Ed è quindi logico che si riscontri una forte presenza di reati nel ciclo delle costruzioni abusive in quanto più facilmente evidenziabili mentre, per i reati di inquinamento vero e proprio, occorre tener presente che molto spesso essi possono essere rilevati solo attraverso indagini tecniche, a volte molto complesse, che richiederebbero organi specializzati, oggi assolutamente inadeguati. Se certamente preoccupa la crescente illegalità nel ciclo dei rifiuti, è anche certamente vero che, in questo settore, si tratta molto spesso di violazioni formali o di poco conto reale mentre i veri traffici illeciti restano quasi sempre nell’ombra e spesso vengono quantomeno tollerati. Anzi, a volte si finge maggiore severità mentre, in realtà, si tratta di premi agli inquinatori. Recentemente, ad esempio, l’abbandono di rifiuti, che era un illecito amministrativo, è stato “elevato” a reato contravvenzionale, quindi punibile penalmente; ma, in questo modo, si sono complicati gli accertamenti anche per casi semplici, dando peraltro modo al contravventore di non sporcarsi la fedina penale effettuando una modesta oblazione o addirittura di non pagare nulla adducendo la particolare tenuità del fatto. Nelle statistiche del prossimo anno, pertanto, è probabile che si riscontrerà un aumento di questi reati (che prima erano illeciti amministrativi) che, tuttavia, non avrà alcun significato ai fini di un reale beneficio per l’ambiente. Peraltro, a prescindere da tutto, l’aspetto più scandaloso, oltre all’assenza di controlli, è la connivenza dello Stato con leggi di favore per i grandi inquinatori. Basta pensare al caso dell’Ilva dove l’Italia, nonostante le condanne in sede comunitaria, da anni viola tutti gli obblighi comunitari a tutela di ambiente e salute, e addirittura emana leggi nazionali proprio per eluderli. Ed occorre anche tener presente che, nel settore degli inquinamenti, non ci sono solo le violazioni per acqua, aria e rifiuti, ma anche per i rumori (basta pensare alle movide estive) dove abbiamo una legge che, in realtà, è del tutto inadeguata e prevede limiti che nessuno controlla e nessuno rispetta, lasciando solo il debole e incerto argine del codice penale (art. 659) per chi disturba le occupazioni o il riposo delle persone. In questo quadro, giustamente Legambiente auspica che venga recepita al più presto la nuova direttiva Ue per la tutela penale dell’ambiente la quale riconferma le nove ipotesi di reato già delineate nell’art. 3 della Direttiva del 2008, e ne aggiunge altre nove, le quali, come si legge nella relazione introduttiva, “presentano un rischio potenzialmente elevato per la salute umana e per l’ambiente e possono avere ripercussioni negative particolarmente gravi sull’ambiente e sulla società”. Avremo modo di riparlarne ma, sin da ora, vale la pena di evidenziare che la nuova direttiva opportunamente non si riferisce a violazioni meramente formali, ma richiede sempre il danno o un pericolo di danno (“danno probabile”) purché sia “sostanziale e non sia “trascurabile”, prevedendo pene certamente non miti. Tuttavia, occorre ricordare che, se da un lato occorrono sanzioni adeguate e proporzionate il vero problema, oltre ad una rielaborazione e semplificazione complessiva della normativa ambientale, è la non applicazione delle leggi ed evitare che si giunga alla extrema ratio del diritto penale. Nel settore importantissimo dei rifiuti, ad esempio, dovrebbe vigere il principio stabilito dalla gerarchia comunitaria, secondo cui “il miglior rifiuto è quello che non viene prodotto”, totalmente dimenticato dal nostro paese che si accanisce, invece, a discettare di termovalorizzatori i quali, comunque, hanno sempre un certo impatto sull’ambiente e di sicuro non favoriscono il risparmio delle risorse naturali e l’economia circolare. Nello stesso quadro “il miglior reato è quello che non viene commesso”, così come propone appunto, la nuova direttiva. *Ex magistrato, esperto in normativa ambientale Piazza della Loggia, la strage nera: l’ultima verità dal tribunale dei minorenni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 luglio 2024 Due neofascisti furono condannati all’ergastolo. Ma ci sono ancora due imputati: uno aveva 16 anni. Celebrare un processo per strage politica davanti a un tribunale per i minorenni è un fatto insolito, ma non inedito. Dell’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il più grave episodio di terrorismo italiano, si occuparono fra il 2000 e il 2004 i “giudici dei ragazzini” abituati ad affidamenti o episodi di violenza molto meno pesanti, poiché uno degli imputati all’epoca dell’eccidio non era ancora diciottenne. Ne scaturì l’altalena tra assoluzione, condanna, annullamento, fino all’ultima dichiarazione di colpevolezza. Adesso però, a Brescia, sta avvenendo qualcosa di ancora più anomalo: a mezzo secolo dall’esplosione di piazza della Loggia, è appena cominciato il dibattimento di primo grado a carico di un sospettato che al tempo non aveva compiuto 17 anni. A porte chiuse, com’è la regola nei tribunali dei minori e nei processi per stupro, sebbene qui si parli di eventi politici e storici raccontati in centinaia di libri e manuali. Giudizi portati avanti a decenni di distanza dai crimini commessi, e in sedi così particolari, sono una peculiarità del Paese delle stragi. Spesso impunite, ma non quella di Brescia. Lì ci sono già due condanne all’ergastolo, definitive dal 2017, nei confronti di Carlo Maria Maggi, un medico divenuto leader del gruppo neofascista Ordine nuovo nel Triveneto, e Maurizio Tramonte, estremista nero ed ex informatore del Sid, il servizio segreto militare. Arrivate dopo molte assoluzioni e lo strangolamento in carcere di un imputato condannato in primo grado e in attesa dell’appello, un neofascista ucciso da due killer “neri”. Due colpevoli - Maggi era stato imputato pure per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre ‘69, ma se la cavò con un’assoluzione in appello confermata dalla Cassazione dopo la condanna in primo grado. Per piazza della Loggia invece la dichiarazione di non colpevolezza ottenuta in primo e secondo grado fu cancellata dalla Corte suprema, l’appello-bis si spostò a Milano perché a Brescia non c’erano altre Corti d’appello disponibili e lì arrivò l’ergastolo. Quando la pena fu confermata dalla Cassazione Maggi aveva 82 anni, andò in detenzione domiciliare per motivi di salute e morì l’anno successivo. Tramonte ne aveva 65, fu arrestato in Portogallo e estradato sei mesi dopo, ha chiesto la revisione del processo ma gli è stata negata; dice che ci riproverà, e nel frattempo sta scontando la pena in carcere. Per la giustizia italiana Maggi è colpevole di aver organizzato e diretto l’attentato alla manifestazione antifascista, Tramonte di aver partecipato alle riunioni preparatorie nelle quali s’era detto anche disponibile a sistemare l’ordigno nel cestino dei rifiuti della piazza. Ma non sarebbe stato lui a farlo. E se dopo cinquant’anni conosciamo soltanto i nomi di due partecipanti a questa ulteriore “trama nera” nell’Italia repubblicana, ora tocca ai giudici dei minori stabilire se a piazzare la bomba fu l’allora sedicenne Marco Toffaloni, insieme al presunto complice Roberto Zorzi, processato contemporaneamente dalla corte d’assise ordinaria; lui all’epoca aveva vent’anni e la maggiore età scattava a 21, ma la competenza dei “giudici dei ragazzini” si ferma sulla soglia dei 18. Sono loro i presunti nuovi anelli della catena stragista finiti alla sbarra. In loro assenza. Toffaloni è residente in Svizzera, Paese di cui ha acquisito la cittadinanza dopo aver cambiato identità: ora si chiama Marco Franco Maria Muller; Zorzi invece vive negli Stati Uniti dal 1996. Dice di voler intervenire nel processo in videoconferenza dagli Usa, chissà se gli sarà concesso. Per Toffaloni il tribunale dei minori potrebbe ordinare l’accompagnamento forzato in aula, poiché la legge prevede l’opportunità di un contatto diretto tra i giudici e un imputato così giovane: regola applicabile anche se ormai ha compiuto 67 anni. Ammesso che le autorità svizzere acconsentano. Le coperture statali - Fra tutti questi paradossi, sugli intrecci nascosti dietro la bomba esplosa cinquant’anni fa restano le certezze acquisite nei processi precedenti e le ricostruzioni in attesa di conferme giudiziarie. Le prime riguardano il ruolo dei due condannati e in particolare di Maggi. Il quale, dopo lo scioglimento di Ordine nuovo decretato dal ministro dell’Interno per tentata ricostituzione del partito fascista, si attivò per riorganizzare i camerati sotto la nuova sigla “Ordine nero”, sostenendo la necessità di attentati dinamitardi. Al punto che un suo adepto lo sentì dire, un mese dopo la strage, che quello di Brescia “non doveva rimanere un fatto isolato”. Consapevole di “poter contare, a livello locale e non solo, sulle simpatie e sulle coperture, se non addirittura sull’appoggio diretto, di appartenenti agli apparati dello Stato e a servizi di sicurezza, nazionali ed esteri”. Così hanno scritto i giudici, a sottolineare i contatti diretti e indiretti di ideologi e militanti neofascisti con esponenti dell’Ufficio affari riservati, del Sid e delle strutture statunitensi operati in Italia (Cia e Nato), interessati a portare avanti la “strategia della tensione” inaugurata con le bombe del 1969. Addebitata a Maggi per il ruolo avuto nella “riorganizzazione delle frange più estreme delle forze eversive di destra, per bloccare con metodi violenti i fermenti progressisti in atto nella società civile e destabilizzare il sistema politico attraverso azioni terroristiche eclatanti”. Arruolando ragazzini imberbi o poco più, secondo le ultime indagini. Un film già visto - Le coperture e i depistaggi che caratterizzarono la strage milanese alla Banca nazionale dell’Agricoltura si sono replicati cinque anni dopo a Brescia: dalla distruzione delle prove all’inquinamento delle indagini. Tanto più che al Sid, preparativi e fatti successivi alla bomba furono seguiti quasi in diretta attraverso un informatore, senza che nulla venisse comunicato alla magistratura inquirente. L’arco di tempo che passa tra piazza Fontana e piazza della Loggia è costellato di altre esplosioni (con o senza vittime) della stessa matrice nera, e la manifestazione del 28 maggio doveva essere la risposta agli attentati più recenti verificatisi in città. L’ultimo fallito perché l’attentatore, il neofascista Silvio Ferrari, saltò in aria insieme alla bomba che trasportava sulla sua Vespa, la notte del 19 maggio. Forse un “incidente sul lavoro”, o forse una trappola ordita dai suoi stessi mandanti e “camerati” per eliminare un testimone scomodo dell’intreccio tra giovani neofascisti e apparati statali. A sostenerlo è stata, da ultimo, la fidanzata dell’epoca di Ferrari, divenuta uno dei testimoni principali a carico di Toffaloni, riconosciuto in fotografia come uno dei più “determinati” del gruppo bresciano. Anche se lui veniva da Verona, dove pure Silvio si recava spesso (a volte accompagnato dalla “ragazza) per incontrare civili e militari, italiani e stranieri. Le bugie a Occorsio - Dell’ex minorenne aveva già parlato Giampaolo Stimamiglio, l’amico di Giovanni Ventura (uno dei responsabili acclarati di piazza Fontana) che lo fece evadere durante il processo per la strage di Milano. Raccontando di un incontro avvenuto nel 1990 con altre persone appartenenti allo stesso giro, Stimamiglio ha rivelato che Toffaloni gli disse in dialetto veneto: “Anche a Brescia gh’ero mi”. Lui gli chiese se alludesse alla strage e quello confermò: “Son sta mi”. L’ex camerata cercò di approfondire: “Replicai che a quell’epoca era solo un ragazzo e lui, sempre con quel mezzo sorriso sarcastico, annuì, come a voler far intendere che, per quanto giovane, aveva le qualità necessarie”. Meno di un mese dopo la strage, il 21 giugno 1974, Toffaloni fu convocato dal pubblico ministero romano Vittorio Occorsio - il magistrato che indagava su Ordine nuovo e Ordine nero, assassinato il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli - e negò di far parte di quella sigla neofascista. Bugie, secondo i nuovi inquirenti che l’hanno portato alla sbarra come presunto “autore materiale” della strage. Sulla base di una serie di indizi, simili a quelli contestati a Roberto Zorzi, solo omonimo del Delfo Zorzi oggi diventato giapponese, processato, condannato e infine assolto per piazza Fontana, e sempre assolto per piazza della Loggia. Sembra un copione che si ripete, sebbene per Brescia manchi ancora l’ultima scena del film. La storia però, e davvero la stessa: l’inizio e la fine della stagione delle bombe fu targato Ordine nuovo, con la copertura dei vertici dei Servizi segreti, italiani e non solo. Al di là delle responsabilità individuali, provate o meno, è andata così. Piemonte. “Ridurre subito il numero dei detenuti”, l’appello della Camera penale ai parlamentari di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 14 luglio 2024 I penalisti scrivono a deputati e senatori: “Approvare subito la proposta di legge Giachetti”. Con il dramma dei suicidi in carcere ormai da tempo emergenza permanente - “sono 55 gli uomini e le donne, affidati alla cura e alla custodia dello Stato, che si sono tolti la vita dall’inizio di quest’anno ad oggi” - la Camera penale “Vittorio Chiusano” tiene alta l’attenzione sul tema e, con una lunga lettera aperta, chiama all’impegno i parlamentati eletti in Piemonte e Valle d’Aosta: “A fronte dell’eccezionale e drammatica emergenza nella quale si trova oggi la popolazione detenuta, costretta a vivere in una condizione disumana e degradante contraria alla Costituzione ed alle Convenzioni Internazionali - scrivono i penalisti - ed al fine di provare a ripristinare un minimo parametro legale all’interno degli istituti penitenziari, in assenza di altre e più incisive proposte di riforma, non si possa che approvare un provvedimento di legge che consenta immediatamente di ridurre il numero dei reclusi”. Dunque: “Per questi motivi Vi rivolgiamo un appello affinché ognuno di Voi si pronunci per la più rapida approvazione della proposta di legge Giachetti”. “Prendete posizione pubblicamente” - “Il prossimo 17 luglio prosegue alla Camera dei deputati la discussione della proposta di legge numero 552, d’iniziativa dell’onorevole Roberto Giachetti - spiega ancora la nota firmata dal Consiglio direttivo della Camera penale - che si prefigge di portare a 60 giorni la liberazione anticipata ordinaria (al posto degli attuali 45 giorni ogni sei mesi di pena espiata) e di concedere, come provvedimento una tantum, a chi ha già fruito della liberazione anticipata ordinaria un’ulteriore riduzione di 30 giorni per ogni semestre di pena espiata, con decorrenza 1° gennaio 2016 e per due anni successivi all’entrata in vigore della legge”. Morale (secondo i penalisti): “Vi chiediamo altresì di esprimerVi pubblicamente su tale proposta e chiediamo ai parlamentari contrari a tale provvedimento di esplicitare i motivi di un eventuale dissenso, che francamente ci parrebbe ingiustificato”. Friuli Venezia Giulia: Le Camere Penali sulle carceri: “Così sono polveriera sociale” di Hubert Londero telefriuli.it, 14 luglio 2024 Le carceri italiane sono diventate una polveriera sociale, un luogo invivibile per i detenuti e per chi vi lavora, dove la dignità dell’essere umano è annichilita e l’inaccettabile diventa normalità. È il severo giudizio espresso delle quattro Camere penali del Friuli Venezia Giulia in un comunicato congiunto dopo la rivolta scoppiata giovedì nel carcere del Coroneo a Trieste e quella al Cpr di Gradisca del giorno precedente. Proprio giovedì si è conclusa la maratona oratoria a staffetta con la quale le 70 Camere penali italiane hanno voluto sensibilizzare sulla situazione drammatiche degli istituti di pena la società civile e la politica. Quest’ultima è finita nel mirino dei penalisti del Friuli Venezia Giulia. “Le sue risposte - scrivono - sono del tutto inadeguate. Il decreto legge 92 di quest’anno, che doveva essere orientato all’umanizzazione carceraria, non ha risolto nulla. Al suo interno non c’è alcuna norma in tal senso. L’aumento a 6 delle telefonate che i detenuti possono fare in un mese. continuano - e la complicazione della procedura per la liberazione anticipata non possono essere considerate umanizzazione carceraria”. Per quanto riguarda il Coroneo, la sua situazione è stata più volte denunciata dal Garante comunale e dalla Camera penale di Trieste: 260 detenuti a fronte di 150 posti disponibili, materassi stesi sul pavimento accanto ai wc, carcerati devastati dai morsi delle cimici. Senza contare l’aumento degli ingressi, soprattutto per misure cautelari. “Non c’è più tempo - concludono le quattro Camere penali -, basta morire di carcere”. Monza. Detenuto di 45 anni si toglie la vita chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica di Fabrizio Capecelatro fanpage.it, 14 luglio 2024 Un uomo di 45 anni, detenuto nel carcere di Monza, si è suicidato nel pomeriggio di ieri, sabato 13 luglio. “Il detenuto, straniero, si è soffocato chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica nella sua cella, che occupava da solo”, fa sapere il sindacato Uil pubblica amministrazione, che da tempo denuncia la grave situazione degli istituti penitenziari italiani. Si tratta, infatti, del 55esemi omicidio dietro le sbarre nel solo 2024. Dopo le 18 di ieri un uomo ha deciso di togliersi la vita, mentre si trovava all’interno del carcere di Monza. “Con il 55esimo suicidio dall’inizio dell’anno, continua la moria nelle carceri del Paese, dove ormai non passa giorno senza che si contino morti”, fa sapere Gennarino De Fazio, il segretario generale del sindacato della Polizia penitenziaria. “A queste morti - continuano De Fazio - vanno per di più aggiunti i sei appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che nel 2024 si sono tolti la vita. Nel tragico elenco, peraltro, non computiamo i due detenuti che si sono lasciati morire rifiutando di alimentarsi. Ormai non abbiamo più parole per descrivere il disfacimento del sistema penitenziario e ciò che avviene nelle carceri e non sappiamo a chi appellarci”. “Continuando così, questa sarà un’estate funerea e di violenza come non mai. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il governo Meloni e l’intera maggioranza ne prendano coscienza e corrano ai ripari, finché sarà ancora possibile”, conclude il segretario generale delle UilPa polizia penitenziaria. Verona. “Il sesto suicidio in 7 mesi a Montorio annunciato e inaccettabile” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 14 luglio 2024 La Camera Penale e la lettera di una detenuta: “Ora basta”. “Non chiedo la luna, nè la libertà... Chiedo semplicemente quello che è il mio diritto...”. E ancora: “Ora basta! Ogni giorno si sente di un altro suicidio di detenuti... Un’altra morte inutile.... Un numero di matricola...”. E ancora: “Da una donna forte sono diventata una persona fragile, stanca. La mia mente non riesce più a ragionare. È facile perdere equilibrio, speranza, forza mentale e finire da un giorno all’altro, come l’altra ennesima vittima della disperazione. Siamo in molti che aspettano di scontare le pene alternative, ma le risposte alle nostre istanze non arrivano mai”. Una lettera. Quella scritta da una detenuta del carcere di Montorio. L’epitaffio sulla bara di Fabiano Visentini lo ha scritto lei. È il sesto detenuto che si è tolto la vita in 7 mesi in quella casa circondariale, Fabiano. Ci scontava una condanna per aver ucciso la sua convivente. Aveva 51 anni, Fabiano. Era di Sanguinetto. Si è ammazzato inalando la bomboletta di gas che viene data per il fornello che è in dotazione nelle celle. “Sei suicidi negli ultimi 7 mesi sono un numero inaccettabile. E questo ennesimo episodio mette drammaticamente in evidenza i gravi problemi di sovraffollamento e le pessime condizioni di vita nelle nostre prigioni e nel carcere di Verona”, scrive il direttivo della Camera Penale Veronese in un comunicato il cui titolo è una lapide. “Il carcere ormai non tende più alla rieducazione, ma alla morte di chi vi è affidato in custodia. Al 30 giugno scorso nella casa circondariale di Verona scrivono gli avvocati penalisti - erano stipate 608 persone a fronte di una capienza regolamentare di 335 persone ed effettiva di qualche decina di unità inferiore. si tratta all’evidenza di una situazione di una totale, conclamata e certificata illegalità che produce conseguenze tragiche come quella di ieri, che possono dirsi peraltro annunciate”. Era in sciopero della fame, Fabiano. E la sua avvocata aveva fatto una segnalazione sulla sua situazione sanitaria. “Un segnale evidente che si è perso nell’affollamento delle persone, delle richieste, delle decine e decine di eventi critici che ogni giorno polizia penitenziaria, educatori e volontari del carcere si trovano oramai eroicamente a fronteggiare”, l’analisi della Camera Penale che rivolge alla magistratura “un forte invito”: “Il carcere deve essere veramente l’estrema ratio”, denunciando “l’indifferenza” del nuovo decreto carcere approvato dal governo pochi giorni fa. “Non è più possibile tollerare l’indifferenza e l’inerzia di fronte a una crisi umanitaria che si consuma quotidianamente nei nostri penitenziari”. Firenze. “Tentò il suicidio, non si può scarcerare”. “Acqua calda in cella? Non è un hotel” di Matteo Lignelli La Repubblica, 14 luglio 2024 Accertamenti del Garante su due ordinanze della magistratura di sorveglianza a Firenze. Gli era stata negata la liberazione anticipata perché il “tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione” sarebbe incompatibile con il “presupposto” della liberazione stessa che è “la partecipazione all’opera rieducativa”. È quanto si legge in un’ordinanza dell’Ufficio di sorveglianza di Firenze. I fatti sono accaduti a Sollicciano, dove il 4 luglio si è tolto la vita impiccandosi nella propria cella un detenuto tunisino di venti anni di nome Fedi, che sarebbe stato libero tra circa un anno. Il contenuto dell’ordinanza è una delle segnalazioni arrivate al Garante nazionale dei detenuti, Maurizio D’Ettore, che ha deciso di avviare accertamenti su alcune risposte della magistratura di sorveglianza, che ha rigettato una serie di ricorsi per liberazione anticipata, sconto o risarcimento danni presentati da vari detenuti nel carcere di Sollicciano a Firenze a causa delle condizioni degradate della struttura. Il Garante si è soffermato anche su un’altra risposta, emersa da un articolo de La Nazione, in cui si rigetta un ricorso perché non si può paragonare il carcere a un hotel. “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive - si legge - ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Solo negli scorsi mesi erano stati presentati un centinaio di esposti per chiedere il ripristino di condizioni dignitose e uno sconto della pena. In decine l’avevano ottenuto. Anche Fedi, il ventenne che si è suicidato, aveva presentato un reclamo ex articolo 35 bis. Topi, muffa, cimici, caldo atroce d’estate e acqua gelida d’inverno, i piatti da lavare nello stesso lavandino adibito all’igiene personale sono alcune delle condizioni degradanti denunciate. Aspetti su cui il garante chiederà spiegazioni al carcere fiorentino per capire quali sono i fatti reali. A partire dall’ordinanza che considera il tentativo di impiccarsi “incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera rieducativa”. Sollicciano, insomma, resta nel caos su tutti i livelli. Anche su quello del personale, nonostante i 51 agenti inviati dal governo e provenienti dall’ultimo corso allievi della polizia penitenziaria. Nonostante questo, però, dal primo d’agosto l’incremento effettivo sarà solo di 16 unità. In realtà, gli ingressi totali saranno addirittura 63, considerando i 51 delle scuole e 12 che hanno chiesto di essere trasferiti a Sollicciano. Ci sono però 47 agenti che saranno trasferiti altrove. Lo hanno chiesto loro. “Per cercare condizioni di lavoro migliori o per riavvicinarsi alla famiglia” spiega Donato Nolè, coordinatore nazionale Fp Cgil per la Polizia Penitenziaria. Di fatto, quindi, resteranno 16 agenti in più, dato lontano dalla richiesta di “100 nuovi agenti” del garante dei detenuti di Firenze, Eros Cruccolini. Ne servirebbero, almeno, un’altra cinquantina. “E di questi 16 è probabile che qualcuno venga assegnato ad altro incarico e quindi sia presente solo sulla carta - aggiunge Nolè -. In più ci sono carenze nei ruoli apicali come sovrintendenti e ispettori”. Intanto i deputati dem eletti in Toscana hanno chiesto al governo “20 milioni subito per risolvere alcune gravissime criticità”, un emendamento del Pd presentato al Decreto Infrastrutture. Torino. La rivolta in carcere è virale su TikTok, i detenuti: “Spacchiamo tutto per farci sentire” di Giuseppe Legato La Stampa, 14 luglio 2024 Diffuso clamorosamente dall’interno del Lorusso e Cutugno ha raggiunto in poche ore 22mila visualizzazioni e continua a rimbalzare online. Il video su TikTok è online da poco più di 24 ore. Virale perché conta 22mila visualizzazioni ed è stato - con certezza - veicolato all’esterno da un detenuto. Accompagnato da una base neomelodica napoletana inneggia ai disordini che - da due giorni ormai - stanno scandendo la vita di alcuni spazi del carcere Lorusso e Cutugno: “Noi ragazzi di Torino abbiamo deciso di rompere cessi e lavandini così facendo le celle di pernottamento non saranno più agibili e quindi dovrà intervenire l’Asl per le condizioni n cui viviamo. Dobbiamo farci sentire”. Commenti (sgrammaticati) seguono: “Auguriamo a tutti una “presta” libertà”. Le immagini sono quelle dei corridoi della 12ª sezione del padiglione C, a regime aperto dove sono ristretti detenuti ordinari: lenzuola e coperte ammucchiate per terra e pezzi dei sanitari lanciati fuori dalle celle. Sono giorni un po’ tesi in carcere. Lo denuncia il sindacato Osapp: “Nel tardo pomeriggio del 12 luglio i detenuti ristretti alla settima sezione del padiglione B hanno dato luogo ad una violenta protesta appiccando fuoco nel locale adibito a barberia, a seguire anche i detenuti della sesta sezione hanno iniziato a gettare verso i cancelli bombolette di gas incendiate e manici. Sono seguiti altri momento di tensione nelle Sezioni quinta e nona: quattro agenti sono rimasti intossicati e sono dovuti ricorrere alle cure del caso presso l’ospedale Maria Vittoria. Sono stati sottoposti a terapia con ossigeno e dimessi con tre giorni di prognosi ciascuno alle 2,30 di notte”. “L’unica via d’uscita è dichiarare lo stato di emergenza nazionale delle carceri”, dice il segretario nazionale Leo Beneduci. Fermo. Il garante Giulianelli boccia il carcere: “Non ha i requisiti, bisogna intervenire” di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 14 luglio 2024 “Non presenta, se mai ne abbia avute, le caratteristiche che dovrebbe avere un istituto penitenziario”. Il tempo peggiore per il mondo del carcere è proprio l’estate, i giorni che si allungano, gli spazi che non bastano, il caldo e il sovraffollamento. Nelle Marche quella di Fermo è una delle situazioni peggiori, per una casa di reclusione che ha una struttura del tutto inadeguata e lo ribadisce Giancarlo Giulianelli, garante regionale dei diritti, che da tempo parla della necessità di ricostruire una nuova struttura altrove: “Su questo insisto ancora una volta, non può più essere allocato in una struttura che attualmente non presenta, se mai ne abbia avute, le caratteristiche che dovrebbe avere un istituto penitenziario. Il tutto porta alla mancanza di spazi comuni e utili per le attività trattamentali, a luoghi che possano essere vivibili e realmente rieducativi”. Il garante ha girato tutti le carceri delle Marche e ovunque parla di una situazione problematica: “Non possiamo abbassare la guardia. Al di là delle problematiche più volte evidenziate, occorre capire cosa realmente accade in carcere, quali son i vuoti da riempire, come le attività trattamentali possano contribuire ad alleviare alcuni disagi e contemporaneamente delineare le prospettive per il futuro. Oggi servono interventi sostanziosi, prosegue Giulianelli, se non radicali. Ce lo evidenziano i detenuti, ma è un problema ormai appurato da anni. Celle fatiscenti, spazi ristretti, situazione che diventa ancor più invivibile quando perdura il sovraffollamento e va ad acuirsi durante l’estate”. Per Giulianelli i problemi sanitari sono pressanti per tutti e serve urgentemente un maggior sostegno psicologico, una vicinanza concreta che contribuisca a smussare gli angoli delle fragilità più consistenti: “Fornire aiuto oggi a chi sconta la sua pena vuol dire anche che il futuro ritorno nella società potrà presentarsi meno traumatico e non insidiato da eventuali recidive”. I numeri marchigiani parlano di 913 detenuti (282 stranieri e 19 donne) per una capienza di 837 unità ospitati nei sei istituti marchigiani, al 30 giugno: “Da tener conto, come sempre, della minor presenza in quello di Fossombrone dovuta ai lavori di ristrutturazione di un’ala dell’edificio. Nel complesso attualmente risultano 739 detenuti con condanna definitiva, 98 in attesa di primo giudizio, 42 appellanti, 25 ricorrenti e 44 in semilibertà. A Montacuto le presenze sono pari a 327 unità (112 stranieri) su una capienza regolamentare di 256. A Barcaglione 94 detenuti (36) su 100 posti disponibili. Per quanto riguarda Marino del Tronto di Ascoli Piceno i detenuti sono 118 (29) su 103; a Fermo 48 (13) su 43; a Villa Fastiggi di Pesaro 237 (90 stranieri e 19 donne) su una capienza di 153. Infine, Fossombrone con 89 detenuti di cui 2 stranieri per 182 posti disponibili. Perugia. “Gravi carenze sanitarie al carcere di Capanne”, il Garante annuncia esposto in Procura di Emanuele Lombardini perugiatomorrow.it, 14 luglio 2024 Blitz di Caforio nella struttura perugina: “Gli ambulatori raggiungono temperature di 40 gradi d’estate e sono gelidi d’inverno. Il ginecologo visita solo due volte al mese, la degenza è chiusa, gli ambulatori hanno attrezzature guaste”. Il Garante dei detenuti dell’Umbria, Giuseppe Caforio, ha effettuato un blitz nelle strutture sanitarie del carcere di Capanne di Perugia il 13 luglio, rispondendo alle numerose segnalazioni di detenuti e polizia penitenziaria riguardo a gravi carenze. Caforio ha annunciato un esposto alla Procura della Repubblica di Perugia per chiedere un accertamento giudiziale sulle condizioni delle strutture sanitarie, che, a suo avviso, violano i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo e dal codice penale italiano. “Riteniamo che le attuali condizioni delle strutture sanitarie e dei servizi erogati confliggano con i diritti fondamentali”, ha dichiarato Caforio. L’accesso all’area sanitaria ha confermato la fondatezza delle lamentele: le strutture sono illegittime, carenti e inadeguate alle esigenze sanitarie dei detenuti. La zona destinata agli ambulatori è priva di aria condizionata, maleodorante, infestata da piccioni e con strumentazione non funzionante. “Emblematica è la situazione dell’ambulatorio dentistico”, ha aggiunto Caforio, sottolineando che la poltrona dentistica è guasta da tempo, rendendo l’ambulatorio inutilizzabile. Le condizioni generali delle strutture sanitarie, sottolinea Caforio, sono estremamente precarie. “Gli ambulatori raggiungono temperature di 40 gradi d’estate e sono gelidi d’inverno. Il ginecologo visita solo due volte al mese, un servizio insufficiente per le necessità dei detenuti. Le stanze destinate a degenza infermieristica sono chiuse e abbandonate, nonostante la loro disponibilità fisica”. Caforio ha evidenziato le conseguenze negative di questa situazione anche sulla polizia penitenziaria, che subisce il malessere dei detenuti. Un malessere che spesso sfocia in contestazioni e rivolte, aggravato dal dolore causato dalle patologie non curate, come quelle dentali. “Ben poco possono fare la buona volontà e l’impegno dei pochi medici e paramedici operanti nel carcere”, ha osservato Caforio, sottolineando che il personale sanitario ha le mani legate a causa delle carenze strutturali. La grave situazione sanitaria sta creando una disparità tra detenuti benestanti e poveri. Caforio sottolinea come coloro che dispongono di risorse economiche ricorrano a medici privati a pagamento, creando una situazione di disuguaglianza che acuisce le tensioni carcerarie. Questo fenomeno contribuisce alle rivolte e agli episodi di autolesionismo, fino ai suicidi. Il carcere di Capanne è un microcosmo complesso, che comprende detenuti, polizia penitenziaria, amministrativi e personale sociosanitario. “Quando questi delicati equilibri vengono meno, si innesca un effetto domino di tensioni e conflitti, con gravi ripercussioni sulla vita carceraria”, sottolinea il Garante. Bolzano. Nuovo carcere, il Ministero rinuncia: “Si ristruttura la struttura di via Dante” di Marco Angelucci Corriere dell’Alto Adige, 14 luglio 2024 Il nuovo carcere non si farà. Il progetto di realizzare, accanto all’aeroporto, una prigione modello in partnership pubblico-privato è stato definitivamente accantonato. Il ministero della giustizia infatti ha deciso di realizzare un nuovo carcere a Pordenone, è li che andranno i fondi destinati a Bolzano. La buona notizia è che in via Dante inizierà un importante lavoro di ristrutturazione. Non in un futuro lontano ma subito. “A fine mese dovremo partire con il rifacimento di tetto e facciata per eliminare le infiltrazioni” annuncia il direttore della Casa circondariale di Bolzano Giovangiuseppe Monti. Una notizia che in città cambia molte prospettive: da un lato rende più probabile l’apertura di un Centro per i rimpatri accanto all’aeroporto (lì dove doveva sorgere il nuovo carcere), dall’altra rende meno probabile il trasferimento del museo di Ötzi in via Dante. Trentanove anni e un passato da cancelliere d’udienza in Tribunale a Roma, Monti si è fatto le ossa lavorando a lungo in tirocinio presso il carcere di Rebibbia nuovo complesso e quello di Napoli Poggioreale. Da novembre l’incarico di dirigente a Bolzano dove ha trovato una situazione disastrosa. Locali fatiscenti, pareti scrostate, personale demotivato, celle sovraffollate e detenuti - attualmente dopo una riorganizzazione interna 105 a fronte di una capienza di 88 - sull’orlo della rivolta a causa dell’epidemia di scabbia. “É da allora che lavoro per migliorare le condizioni dei detenuti e del personale” sottolinea Monti che di risultati ne ha già ottenuti parecchi. Uno su tutti: aver fatto chiarezza sul futuro del nuovo carcere che è bloccato da un decennio tra promesse e annunci. Sempre disattesi. “Si è deciso di investire 1,5 milioni per risanare le facciate e il tetto per eliminare le infiltrazioni. Inoltre è stato deciso di rifare tutte le docce, un lavoro da circa 100mila euro. A fine luglio si parte” spiega il direttore specificando che si sta lavorando anche per riaprire la sezione dei detenuti in semilibertà, chiusa a causa del rischio crolli. “Una scala che non fa parte dell’edificio principale mostra segni di cedimento quindi, per precauzione, abbiamo chiuso la sezione e trasferito i detenuti. C’è già stato un sopralluogo per rimettere la scala in sicurezza, anche in questo caso i lavori partiranno a breve e riaprirà anche la ciclo-officina”. Una volta chiusi questi lavori si interverrà sulle singole sezioni che, a turno verranno chiuse per consentire il rifacimento delle celle. E, sempre in lotti, si interverrà anche sulla caserma della polizia penitenziaria dove vivono circa una trentina di agenti in una situazione di estrema precarietà. Camere da tre o quattro persone con sbarre alle finestre e servizi in comune a ogni piano. La differenza con le celle dei detenuti è minima. “Possono solo stare qui perché a Bolzano le case costano troppo: per questo il personale scappa appena può” aggiunge il direttore che lamenta una mancata presa in carico del problema e chiede a gran voce l’intervento a sostegno del personale di polizia penitenziaria da parte di Comune, Provincia e del Commissariato del governo. “Serve una risposta in tempi brevi, basterebbe una palazzina per sistemarli: fanno un lavoro delicato gestendo detenuti spesso difficili con problemi di tossicodipendenza e disturbi psichiatrici, il burn out è dietro l’angolo se non sono in condizione di recuperare. Questa situazione va affrontata subito” aggiunge Monti facendo notare che Kompatscher non ha ancora raccolto l’invito di visitare il carcere, nonostante il suo accesso sia molto atteso. Finora infatti si è parlato solo di come supportare polizia e carabinieri attraverso il fondo sicurezza ma il corpo della polizia penitenziaria non è stato mai stato citato nei dibattiti in consiglio provinciale. Eppure anche tra le mura di via Dante ci sarebbe un disperato bisogno di personale amministrativo. Su 23 posti in organico ce ne sono in servizio sei più due contabili che vengono da Verona una volta in settimana. L’unica soluzione per gestire i carichi burocratici è mettere gli agenti negli uffici ma questo significa sguarnire la sorveglianza che è già è al minimo. Dei 79 agenti previsti ce ne sono in servizio 63 ma quattro sono distaccati al gruppo sportivo delle Fiamme azzurre. Ne rimangono 59 per garantire la sorveglianza 24 ore su 24 su tre turni e, ovviamente, ferie e malattie. Numeri che mal si conciliano con le esigenze di sicurezza del carcere. Ragion per cui il direttore Monti ha dovuto prendere una decisione drastica: sospendere gli ingressi la notte. “Stiamo approvando un nuovo regolamento perché quello in vigore risale agli anni ‘80, da allora è cambiato tutto. Il carcere - conclude Monti - rimarrà aperto dalle 7 alle 22. Solo in casi eccezionali ci saranno carcerazioni notturne, non abbiamo il personale per far fare la doccia ai nuovi entrati e non possiamo aprire una cella la notte e metterci dentro un detenuto esagitato. Rischiamo che la situazione vada fuori controllo: anche dal punto di vista igienico sanitario. Spesso chi entra in carcere arriva dalla strada: è così che si diffondono malattie come la scabbia. Abbiamo appena sconfitto un’epidemia con uno straordinario sforzo di solidarietà collettiva”. Roma. “Con ago, filo e macchine da cucire i detenuti sognano un altro domani” di Paola Bulbarelli La Verità, 14 luglio 2024 Il presidente dell’antica Accademia dei sartori racconta il progetto che vede coinvolti i reclusi di Rebibbia: “Insegniamo loro a creare pantaloni, giacche e gilet. Così imparano un mestiere per reintegrarsi in società”. Per una sera indossatori, per 650 ore in un anno (tanto dura il corso) sarti, e anche di più. Il riscatto per alcuni detenuti di Rebibbia parte da lì, dalla voglia d’imparare un mestiere e di tentare di farcela una volta fuori, dopo aver scontato la pena. La mano viene tesa, dal 2017, dall’accademia nazionale dei sartori, la più antica associazione italiana nel settore dell’abbigliamento che dimostra come la tradizione sartoriale possa essere non solo un simbolo di eleganza e stile, ma anche un potente strumento di trasformazione sociale. “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme” è il nome del progetto, nato dall’idea dell’ex presidente dell’accademia nazionale dei sartori, il maestro Ilario Piscioneri, per consentire ai detenuti di trovare lavoro in un laboratorio sartoriale”, spiega alla Verità l’attuale presidente dell’accademia, Gaetano Aloisio, maestro sartore. “L’apprendimento dell’arte del cucito richiede pazienza, precisione, autocontrollo, doti importanti anche per realizzare un percorso di recupero e reinserimento”. Il progetto, sostenuto da Bmw Roma con l’avallo di Bmw Italia, sarà portato anche in altre realtà come Rebibbia? “Stiamo lavorando sia per portarlo all’interno delle carceri minorili e ci è giunta richiesta in questi giorni da parte di un carcere femminile. C’è tanto interesse perché oltre ad aver avuto il riconoscimento da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, che partecipò ad alcune chiusure dell’anno scolastico, è un progetto sempre apprezzato da parte di chi lo ha conosciuto. La sensibilità verso l’inclusività dell’accademia deve poter svilupparsi sempre di più proprio per dare risposte sociali”. Dal 2017, non vi siete mai fermati? “Abbiamo sempre fatto i corsi a parte l’anno del Covid ma i detenuti hanno potuto lavorare lo stesso confezionando le mascherine. È stato utile anche in quel periodo”. All’interno di Rebibbia come siete organizzati? “Prima di tutto allestimmo gli spazi che ci vennero aggiudicati e che adibimmo a laboratorio con tavoli da lavoro, macchine da cucire, da stiro e attrezzi vari comprese le forbici: per questo siamo organizzati, si portano al mattino e poi si restituiscono alle guardie. I detenuti che partecipano a questi corsi sono persone che hanno superato test psicologici che vengono fatti all’interno delle carceri, persone che possono usare oggetti come le forbici”. Il corso è impegnativo? “Inizia a ottobre e termina a fine maggio, le ore sono parecchie. Si tengono lezioni tutti i giorni coadiuvate da Sebastiano Di Rienzo, ex presidente e maestro storico dell’accademia nazionale dei sartori, direttore del corso dell’accademia. Il corso è lo stesso dell’accademia, un triennale suddiviso in tre step, tre specializzazioni: il primo è insegnare a fare pantaloni e gilet, poi la giacca e il terzo anno si completa il ciclo e si insegnano le rifiniture, la parte finale del nostro lavoro. Si tratta di un percorso formativo a 360 gradi”. C’è chi, una volta imparato il mestiere, esce dal carcere e continua? “Abbiamo la soddisfazione di avere il primo allievo che ha finito il corso e che una volta scontata la pena ha trovato lavoro presso una sartoria romana, oggi assunto regolarmente. Ha cominciato una vita nuova ed è molto felice. Ce ne sono stati altri e altri ce ne saranno, più gli anni passano e più vedremo i risultati. Già partecipare a questo progetto li fa sentire liberi, diversi. Noi facciamo il bello e fare il bello all’interno di un istituto penitenziario cambia la prospettiva. È l’unico modo per l’inserimento, per riuscire a reintegrarli nella società”. Nel vostro mestiere trovate manodopera, c’è ricambio generazionale? “È sempre più difficile e le nostre imprese artigiane soffrono. Non è solo la sartoria, questo interessa tutto l’artigianato italiano a lamentare la carenza di gente specializzata. Spesso si deve rifiutare il lavoro perché mancano le persone per farlo. Il Paese non è in crisi perché è un Paese di artigiani che hanno tante possibilità di crescita, e oggi ciò che manca sono le competenze. Non credo che i giovani non vogliano fare questo lavoro, ma non lo conoscono, non sanno che ci sono possibilità diverse dalle scuole superiori classiche. Alla fine, il loro, è un percorso già segnato. Bisognerebbe partire dai licei nel far conoscere quante altre opportunità un ragazzo può avere oltre che a studiare medicina, ingegneria, economia o giurisprudenza. C’è bisogno di parlare di artigianato dando il giusto valore. È il tessuto dell’Italia reale, noi siamo un Paese di piccole imprese artigiane che sono il nostro grande patrimonio”. Più valore alle scuole professionali? “Bisogna creare scuole professionali di altissima qualifica artigianale per permettere agli artigiani di trasmettere quella che è l’arte del creare. Il mondo è cambiato, l’artigiano non è più il lavoratore di una volta che lavorava dalla mattina alla sera e basta, oggi è anche un imprenditore, ha bisogno di cultura, di preparazione, di saper gestire e far crescere un’azienda per grande o piccola che sia. Chi lavora nell’artigianato può guadagnare molto bene e se poi uno riesce a essere imprenditore artigiano sicuramente avrà possibilità maggiori per avere successo”. L’accademia quanti sarti raggruppa? “Siamo 120 soci in Italia dal Nord al Sud. Siamo l’associazione più antica che esiste in Italia, nati nel 1575 per volontà di Papa Gregorio XIII ed è stata una delle prime corporazioni nate. Una volta sciolte le corporazioni fu rifatta ai primi del Novecento. Al Campidoglio abbiamo ancora il portale della nostra prima sede del 1575, Università Sutorum, università dei cucitori. Ecco, ridiamo alle scuole artigianali il nome che spetta: università, come allora”. Negozianti di Torino contro i clochard: “Stop al degrado, vanno aiutati” di Diego Molino La Stampa, 14 luglio 2024 Riunione dei commercianti con gli assessori di Politiche Sociali, Sicurezza e Commercio. Nasce un tavolo di lavoro permanente. Rosatelli: “Comune lasciato solo, intervenga l’Asl”. “È ora di fare qualcosa per affrontare la questione dei clochard, che ormai riguarda tutta la città e in tutti i periodi dell’anno”. Sono le “casette” di cartone, con materassi e tende sotto i portici e davanti alle vetrine dello shopping, uno dei problemi messi in cima alle urgenze dai negozianti torinesi. Il trend è in aumento e le difficoltà non mancano, come conferma l’assessore comunale alle Politiche Sociali Jacopo Rosatelli, che dice: “Anche l’Asl deve fare la sua parte, invece finora la Città è stata lasciata da sola”. A fare il punto sulle criticità che investono non solo la zona centrale, ma anche le aree periferiche, sono le associazioni di categoria di Ascom e Confesercenti in riunione con altri due assessori: al Commercio Paolo Chiavarino e alla Sicurezza Marco Porcedda. A entrare nel merito della situazione è la presidente di Ascom Maria Luisa Coppa: “I nostri esercenti spesso ci parlano dei problemi legati a sicurezza e degrado, di una città che restituisce un senso di trascuratezza - spiega. Ci sono installazioni e bivacchi sia nelle zone desertificate, dove l’assenza di negozi favorisce i dormitori a cielo aperto, ma anche a ridosso delle vetrine dello shopping”. L’emergenza senzatetto mette d’accordo tutti i commercianti, come conferma il presidente di Confesercenti Giancarlo Banchieri: “Chiediamo un progetto complessivo, è comprensibile che non si possa fare dall’oggi al domani, ma è il momento di partire - commenta -. Non è solo una questione di persone in difficoltà economica, fra i clochard ci sono tanti casi di dipendenze e problemi psichiatrici che vanno aiutati. Il degrado è permanente”. Appello che l’assessore Rosatelli ha raccolto senza nascondere le difficoltà: “Il Comune attraverso i vigili e i servizi sociali garantisce una presenza costante, ma lo stesso non si può dire dell’Asl, che interviene soltanto su segnalazione diretta - spiega -. È una situazione che crea delle criticità da sempre, nonostante due anni fa sia stato stipulato un protocollo per la gestione integrata dei senza fissa dimora sottoscritto da Comune, Regione, Asl, Arcidiocesi e Prefettura”. Secondo Rosatelli a essere stati disattesi sono gli impegni presi con il progetto StraDoc, che prevedeva la presenza di medici e infermieri in strada. “Alla nuova amministrazione regionale chiediamo di affrontare insieme le difficoltà e dare corso a quanto promesso, per un cambio di passo”. La versione di Rosatelli, insomma, è che il Comune da solo non può farcela, nonostante nei mesi passati siano stati aumentati i posti di accoglienza a bassa soglia, come quelli ricavati nella palazzina C dell’ex Buon Pastore. Nel frattempo è stato istituito un tavolo di lavoro permanente fra la Città e i commercianti, per mantenere un dialogo costante sulle emergenze. Intanto crescono anche le spaccate nei negozi, un trend che riguarda tutti i quartieri. È lo stesso Banchieri che fa una richiesta: “Bisogna creare bandi ad hoc per aiutare i commercianti ad aumentare le dotazioni di sicurezza all’interno del negozio, penso per esempio alle telecamere di sorveglianza”. E aggiunge: “È però necessario anche un sostegno a quegli esercenti che devono farsi carico dei costi per sostituire le vetrine rotte, perché con l’aumento dei casi le assicurazioni stanno cominciando a non pagare i danni Migranti, la strage “silenziata” di Roccella Jonica di Silvio Messinetti Il Manifesto, 14 luglio 2024 A un anno da Cutro. Il 17 giugno sono sbarcati 11 migranti, i soli sopravvissuti. I familiari cercano ancora i parenti mentre il governo ha voltato loro le spalle. Una strage dimenticata, una strage silenziata. Gli eccidi del mare non fanno più clamore ormai. Una opaca coltre di indifferenza copre le donne, gli uomini e i bambini annegati nei barconi della disperazione. A Roccella Jonica la mattina dello scorso 17 giugno sulla banchina nord del porto turistico sbarcarono gli unici undici sopravvissuti della più grave tragedia dell’immigrazione del 2024. Un viaggio della speranza spezzato a più di 110 miglia dalla costa calabrese. Di quell’eccidio, 41 morti accertati di cui 26 bambini, 35 i dispersi, se n’è parlato poco allora e non se ne parla ormai più. Una strategia del silenzio studiata ad arte per evitare una seconda Cutro. Allora il governo Meloni fece una figuraccia in diretta mondiale. Ha un volto cinico la superficialità con cui viene trattata oggi la vita e la morte degli uomini, donne e bambini migranti di Roccella. Corpi spostati, portati, smistati, gestiti come pacchi scomodi da nascondere alla vista di tutti, soprattutto al rumore e al clamore della stampa e della pubblica opinione. La regola d’ingaggio è spietata: non mostrare il dolore della piccola Nalina rimasta orfana a 10 anni e ricoverata nell’ospedale di Locri, insabbiare lo sguardo perso e spento di chi cerca invano brandelli di informazione sulla sorte e il destino dei congiunti, della propria famiglia, degli amici. I familiari da un mese stazionano stoicamente nei dintorni del porto jonico. Attraverso un anello, un neo, una cicatrice cercano di riconoscere i loro cari. Tra loro c’è ancora M., che ha fatto pattugliare il mare prima con un elicottero poi con uno yacht. Li ha pagati a sue spese pur di ritrovare i fratelli. “Sono disposta a spendere qualsiasi cifra per ritrovare i loro corpi. Uno dei due aveva i segni delle torture subite in Iran, diverse cicatrici sul corpo, ma non è tra nessuna delle salme recuperate”. C’è anche A., iracheno, che è arrivato da Londra e ha guardato una ad una le foto dei corpi recuperati cercando il cugino e sua moglie - incinta al nono mese - e le loro figlie di 9 e 12 anni. “Mia cugina ha venduto i suoi orecchini in Turchia per racimolare i soldi, hanno pagato per il viaggio della morte. Mia zia mi ha detto: portami almeno una parte del corpo di mio figlio, dobbiamo seppellirlo”. Dapprima ospitati nell’oratorio di Roccella, poi trasferiti in un paio di strutture alberghiere cittadine e, da una decina di giorni, spostati nei locali della Caritas locrese. La via crucis dei parenti, arrivati in Calabria per le procedure di riconoscimento delle salme, va avanti da quattro settimane e resta, finora, totalmente sulle spalle della diocesi di Locri-Gerace. Che si è sobbarcata i costi di vitto e alloggio per la trentina di persone giunte a Roccella da buona parte d’Europa e che, grazie a una catena di solidarietà intessuta con il resto delle diocesi regionali, si è fatta carico anche dei biglietti aerei per consentire ai parenti che non possono permettersi di raggiungere, dai loro paesi di provenienza, i quattro diversi luoghi (Reggio, Polistena, Locri e Gioia Tauro) dove sono custodite le vittime. Un gravoso impegno che si sta estendendo, in completa solitudine, anche alle pratiche per il rimpatrio delle salme. Accanto alla Caritas molto attiva è anche l’organizzazione internazionale Medici senza frontiere che qui da anni gestisce un presidio di primo soccorso. Nella rotta turca delle migrazioni Roccella è un probabile porto d’arrivo. “Le storie di queste persone dimostrano come la mancanza di canali legali e sicuri siano la causa diretta della loro morte. Il governo italiano e i paesi europei facciano qualcosa per prevenire ulteriori tragedie e le istituzioni si attivino per proteggere le persone nel rispetto della dignità di chi in mare è morto a causa della stessa inazione dei governi. Mentre politiche disumane distruggono intere famiglie, le coscienze dei decisori politici si sporcano con le vite di altri esseri umani cercando di passarlo sotto silenzio” spiega Monica Minardi, presidente di Msf Italia. A seguito di quest’ultimo naufragio, Msf chiede che venga rispettata la dignità di chi è sopravvissuto, di chi è morto e dei familiari delle vittime. E che il governo si faccia carico delle spese per il rimpatrio delle salme e si organizzi un momento di commemorazione per le vittime. Invece il silenzio del governo resta assordante. Sul naufragio il Viminale non ha diramato neanche un comunicato di circostanza. È stato chiuso a fine giugno l’infopoint in cui si effettuavano anche le operazioni di campionamento del Dna, procedura indispensabile per il riconoscimento dei corpi, allestito dalla prefettura reggina nelle settimane passate in un container della blindatissima area migranti del porto: “Il punto informativo - si legge in una nota stringata pubblicata sul sito della prefettura - non è attualmente operativo. I familiari dei dispersi che intendano lasciare un campione di Dna possono rivolgersi direttamente al commissariato di Siderno”. Le operazioni di ricerca invece si erano chiuse in fretta e furia già il 24 giugno. “Dal mattinale del 24 giugno in poi - annota il giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura sul suo profilo X - nella parte “attività Sar” Mrsc di Reggio Calabria, non risultano esiti e attività di ricerca sull’evento Sar numero 972”. Ma anche il governo regionale è latitante. “Faremo la nostra parte - aveva detto il 18 giugno il presidente Roberto Occhiuto (Fi) - così come abbiamo fatto nei confronti dei familiari delle vittime di Cutro”. A un mese dal naufragio, e ancora in attesa che dalla regione si attivino per dare una mano, resta da augurarsi che le cose stavolta, vadano meglio di quanto successo dopo il disastro sulla spiaggia di Steccato. Nel febbraio 2023 la regione infatti mosse i primi passi per l’accoglienza appena 4 giorni dopo il naufragio. Attraverso il dipartimento di protezione civile, fu indetta un’indagine di mercato che individuò due strutture ritenute idonee a garantire il servizio di accoglienza ai parenti, investendo la considerevole somma di 100mila euro per coprire le spese. Tuttavia una delle due strutture individuate era finita sotto la lente dell’agenzia della Riscossione. Per cui, quando la regione formalizzò il pagamento, quasi l’intera somma venne pignorata. E dei 70mila euro destinati al pagamento per i servizi della società Ac 1931 solo 6mila finirono nelle casse degli imprenditori. Insomma, un pasticcio in salsa calabra. Il muro del silenzio sulla strage di Roccella provano a bucarlo i vescovi calabresi che parlano di “naufragio anonimo e invisibile” e denunciano “l’anestesia delle coscienze di fronte a questa ennesima sconfitta dell’umano e le miopi misure incapaci di evitare simili tragedie”. E poi ci sono le reti sociali, le associazioni laiche e religiose, i movimenti antirazzisti calabresi che il 17 luglio danno appuntamento alle 20 sulla banchina per una processione e una fiaccolata di ricordo. Per non dimenticare. Per alzare una voce di speranza davanti al silenzio del governo. Gli sbarchi sono calati perché sempre più migranti muoiono nel deserto di Maurizio Ambrosini Avvenire, 14 luglio 2024 Le rotte cambiano e cercano altri sbocchi, spesso più lunghi, costosi e pericolosi dei precedenti. E così le politiche di respingimento del Nord del mondo raggiungono i loro obiettivi. Sono calati gli sbarchi in Italia (28.376 all’11 luglio, contro 73.173 di un anno fa: meno della metà) e il governo canta vittoria. La strategia dell’esternalizzazione dei confini sembra ora dare frutti, mediante gli accordi con il governo autoritario tunisino e il rinnovo dei finanziamenti a governo e milizie locali libiche. Certo occorre cautela: partenze e sbarchi da anni oscillano, in dipendenza di vari fattori, tra cui il meteo e le condizioni del mare, quest’anno a lungo sfavorevoli. Le rotte cambiano e cercano altri sbocchi, spesso più lunghi, costosi e pericolosi dei precedenti. Ma credo si debba ammettere che le politiche attuate dai governi del Nord del mondo per il contenimento delle migrazioni indesiderate e degli arrivi spontanei per asilo alla fine raggiungono buona parte dei loro obiettivi. L’abbiamo già visto con gli accordi tra Ue e Turchia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Marocco, Niger (ora denunciato dal governo golpista). Per i governi dei Paesi di transito e per le élite al potere i vantaggi della collaborazione sono tangibili, in termini di finanziamenti, sostegno politico presso il Fmi o in altre sedi internazionali, tolleranza per i loro metodi di governo, promesse di futuro ingresso nell’Ue o di trattamenti di favore. I costi per i governi sono invece bassi, soprattutto quando si tratta di reprimere il passaggio dei cittadini di altri paesi, troppo deboli e privi di appoggi per minacciare il consenso sociale interno. Ciò che invece non vediamo e non vogliamo vedere sono i costi umani della repressione della mobilità transfrontaliera in Africa. Un recente rapporto Unhcr ha gettato una luce almeno parziale sulle morti nel deserto del Sahara. La cifra documentata è di 1.180 persone morte attraversando il deserto tra il gennaio 2020 e il maggio 2024, ma testimoni e ricercatori sono convinti che il dato sia molto più alto. Violenze, rapimenti, torture, abbandoni in situazioni di pericolo, detenzione arbitraria, respingimenti, costellano le rotte che cercano di raggiungere il Mediterraneo dall’Est e dall’Ovest dell’Africa sub-sahariana. L’Unhcr parla di “orrori inimmaginabili”. Il punto è che i governi finanziati dall’Ue aggravano questa drammatica situazione: un “Lighthouse Report” realizzato da un pool di grandi quotidiani europei e nord-americani (Desert Dumps: Discariche nel deserto) con un’inchiesta durata un anno, ha documentato che in tre Paesi africani (Marocco, Mauritania e Tunisia) rifugiati e lavoratori africani sono catturati sulla base unicamente del colore della pelle, caricati su autobus e scaricati “nel mezzo di nulla”, spesso in aree desertiche. Qui sono abbandonati senza assistenza, acqua o cibo, esposti al rischio di imprigionamenti, estorsioni, torture, violenza sessuale. Altri, portati nelle aree di confine, sarebbero venduti dalle autorità a bande che li imprigionano e torturano per ottenere un riscatto. Tutto questo avviene, secondo il rapporto, grazie a denaro, veicoli, equipaggiamenti, informazioni e forze di sicurezza fornite dall’Ue e dai governi europei. Nel caso tunisino sono stati verificati tredici incidenti occorsi tra luglio 2023 e maggio 2024, in cui gruppi di africani sono stati rastrellati nelle città o nei porti e condotti a molti chilometri di distanza, di solito vicino ai confini con Libia o Algeria, e scaricati lì. In un altro caso un gruppo è stato consegnato alle autorità libiche e incarcerato in un centro di detenzione. Come se non bastasse, nel caso marocchino è stato filmato un gruppo di agenti di polizia spagnoli che entrava regolarmente in un centro di detenzione per migranti. Il rapporto afferma che l’Ue “è ben consapevole delle operazioni di scaricamento e a volte direttamente coinvolta”. Ecco che cosa c’è dietro la diminuzione degli sbarchi: una cinica delega ad altri governi perché si accollino il lavoro sporco di contenere i transiti e un drammatico costo in termini di sofferenze e vite umane perdute. La corsa alle armi e il welfare a rischio di Andrea Malaguti La Stampa, 14 luglio 2024 Dunque diventa tutto più violento, più cattivo, ancora più fuori controllo. A mezzanotte e mezza arriva la notizia: hanno sparato a Donald Trump, forse con una pistola, forse cinque colpi, forse sette, esattamente come quelli sparati contro Ronald Reagan nel 1981 da un pazzo innamorato di Jodie Foster. L’ex presidente è vivo e sta bene, grazie al cielo. Nulla è chiaro fino in fondo, ma le prime ricostruzioni, appoggiate da una serie di video, non sembrano lasciare dubbi. Lo hanno colpito a un orecchio, forse a una guancia, durante un comizio in Pennsylvania. C’è una folla immensa ad acclamarlo. Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti indossa il solito cappellino Maga (Make America Great Again), arringa la sua gente, quando, all’improvviso si sentono dei colpi di arma da fuoco. Trump si accascia. Gli uomini dei servizi segreti corrono sul palco, lo coprono, lo rialzano, lo trascinano via, mentre The Donald scuote rabbiosamente il pugno nell’aria. Il suo modo per dire sono ancora qui, non ce la farete a togliermi di mezzo. È una scena agghiacciante. Amara. Irricevibile. Capiremo meglio nelle prossime ore cosa c’è dietro. Chi ha sparato e perché. Ma la scelta del luogo, i colpi sparati a grande distanza dal bersaglio, lasciano presagire il peggio. È l’ora delle persone di buonsenso, cavalcare la follia non può che produrre altra follia. L’odio genera odio. Da qualunque parte lo si eserciti. Tutto quello che leggete da qui in avanti è stato scritto prima dell’attentato. Ho un amico torinese che insegna all’università di New York. Era qui in questi giorni. Mi ha raccontato di avere organizzato un gruppo di connazionali che vogliono appoggiare la campagna di Joe Biden nei prossimi quattro mesi. Volontariato. Gli ho chiesto: perché? “Perché Trump è un criminale”. Meglio un uomo che non è più presente a sé stesso di un criminale? “Meglio. Attorno a lui c’è gente che sa fare il proprio lavoro. Gli Obama, i Clinton, i Blinken, il paese non è andato male in questi anni”, mi ha detto. E la democrazia? Nessuno andrà a votare per queste persone. Ha alzato le spalle. “Magari si trova un’alternativa. Magari Michelle”. Magari, certo. C’era una volta la più invidiata democrazia della terra. Si è preso una pausa di qualche secondo. “Dopo questa storia mi sa che torno in Italia”. Lo ha detto con dolore, come se dovesse lasciare una fidanzata che ha amato moltissimo. Fine del sogno americano. Almeno per lui. E per noi, per l’Europa, che cosa è diventato il nostro rapporto con Washington, a che cosa ci serve, dove ci sta portando? Siamo entrati nell’era del disordine. Per ottant’anni gli Stati Uniti ci hanno dato sicurezza e messo addosso un po’ di paura. Adesso non fanno più né l’uno né l’altro effetto. Comunque meno. Nemmeno a loro stessi. Per il 63% degli elettori americani Joe Biden e Donald Trump sono - testualmente - “imbarazzanti”, uomini che costruiscono in vita un mausoleo a loro stessi. Vecchi galli spelacchiati nel pollaio globale. Lo dice un sondaggio del Pew Research Center, secondo il quale The Donald, l’uomo del conato golpista di Capitol Hill, accusato di stupro e molestie da ventisei donne, condannato per il caso Stormy Daniels, sterilizzato nel limbo degli Intoccabili dalla Corte Suprema, avrebbe quattro punti di vantaggio nella corsa alla Casa Bianca. Non è un caso se nella sua villa di Mar-a-Lago c’è la fila di questuanti dell’internazionale fanatico-populista-qualunquista-ultranazionalista. Ultimo Viktor Orban, impresentabile presidente di turno di un’Unione che comincia a vedere con chiarezza la costruzione di due anime distinte e inconciliabili. I reazionari trumpiani-muskiani-putiniani-antizelenskiani e gli europeisti vecchio stampo, socialisti, popolari, liberali, persino conservatori, aggrappati nel bene e nel male a quel che resta della Nato e alla difesa di Kiev, anche loro incastrati nella profezia banditesca di Mao Tse Tung: “Il potere politico nasce dalla canna di un fucile”. Siamo tornati lì, trascinati da una pericolosa torsione della storia. Ossessionati dalle armi. Dal bisogno di riempire arsenali già capaci di distruggere mille volte il pianeta. Ne vogliamo altre. Davvero non esistono alternative? Come ha scritto ieri Massimo Cacciari su queste colonne: “La domanda da porre alle nostre leadership è questa, molto semplice, ed esse dovrebbero rispondere altrettanto nettamente: ritenete che la situazione attuale non presenti alternative all’escalation?”. Il paradosso è che a rispondere uno stentoreo “Sì” sono quelli che abbiamo sempre considerato i buoni, noi maggioranza del Vecchio Continente, assieme al Giappone e ai brandelli democratici degli Stati Uniti, mentre a fare ambigui e scivolosi distinguo ci sono i cattivi tradizionali, gli autocrati e i despoti illiberali, un gruppo di maschi ultrasettantenni (Xi Jinping, Putin, Modi e naturalmente Trump) capaci di risvegliare i peggiori istinti dello sciovinismo globale. Anche Matteo Salvini, vicepresidente del consiglio Italiano, leader della Lega, ha prenotato un giro sull’ottovolante di Mar-a-Lago, anche lui si è messo in fila, deciso a gestire le sue untuose fortune quotidiane sedendosi al tavolo di tiranni che si cullano beati nel loro ruolo da solisti, come se riuscissero a realizzarsi solo sentendosi abbietti. “Con Trump l’America garantirà al mondo sicurezza, famiglia e lotta all’immigrazione”. Papà, pensaci tu. E Trump ci penserà. Chiedendo più armi o smantellando la Nato, abbandonando l’Ucraina e lasciando libero Vladimir Putin di fare gli affari suoi in Europa. Quadro sconfortante. Ed è ancora più sconfortante che Salvini, con la superficialità degli arroganti, spieghi che “anche se siamo divisi sulla Ue il governo terrà fino alla fine”. Come se il rapporto con l’Europa fosse una subordinata dei quattro giochetti da cortile che ancora può fare a casa nostra. A Roma porto la giacca. In Europa faccio la rivoluzione. Davvero Giorgia Meloni può accettare un alleato così? Un balletto tragico al quale il vicepremier intende partecipare a braccetto con le tribù filonaziste e illiberali di Germania, Francia, Spagna, Austria e Ungheria, contro gli interessi della soverchiante maggioranza moderata uscita dalle urne. “L’accordo Orban-Putin rievoca sinistramente quello Molotov-Ribbentrop”, mi dice ancora l’amico americano. Gli rispondo che è stanco, che sta esagerando, che l’Ungheria non è la Germania. Che è un altro mondo. “Sei sicuro che non sia lo stesso?” D’istinto rispondo di sì. Ma qualche dubbio mi rimane. Ripenso a Putin che dice: “Le capitali europee sono potenziali obiettivi”. Parigi, Londra, Berlino, Roma. È di questo che sta parlando, con una disinvoltura che sembra leggerezza e invece è solo la spia di una crudeltà crescente. Come si ferma un uomo così? L’Europa può farlo in molti modi. Trattando ad oltranza. Cancellando il diritto di veto dei singoli Stati. Costruendo una difesa comune, fondata su quelle economie di scala e sulla condivisione di ruoli e armamenti (a partire dalle atomiche francesi) che sono l’unica alternativa a un taglio drastico del welfare, di quella spesa sociale e solidale sulla quale abbiamo costruito la nostra unica, vera, straordinaria differenza. Una vittoria di Trump il 5 novembre metterebbe seriamente in discussione non solo l’Alleanza Atlantica, ma il ruolo dell’Europa nel suo complesso. Una vittoria di Biden ci scaraventerebbe nell’ignoto. In quali mani finiremo? Il presidente americano in carica ha ripetuto ieri, per l’ennesima volta, di non essere intenzionato a farsi da parte ed è impossibile ignorare le immagini della sua ultima apparizione tv. Un uomo instabile, prosciugato dalla vita, che pressato dalle domande di chi gli chiede perché non si faccia da parte, ripete a bassa voce: “It’s not gonna happen” (“Non succederà”), con la rabbia che gli sigillava i denti e gli occhi fissi nel nulla. Non è il leader a cui affiderei il destino comune. Trump? Tanto meno. E dunque? Mi rifugio ancora una volta in una riflessione di Massimo Cacciari: “Il mondo è sempre più irriducibile a Uno. L’Occidente possiede nella sua storia il linguaggio in grado di comprenderne questa straordinaria complessità. Lo ricordi, lo esprima, lo ponga in atto. O il suo non sarà solo tramonto”. Ha ragione. L’ombrello americano non durerà per sempre e non c’è quasi già più, dissolto dall’anello di Gollum del potere per il potere, dell’ambizione per l’ambizione, ostentato da Biden e Trump. L’Europa lo sa. E mentre la violenza cresce, la strada per evitare l’irrilevanza o, peggio, il disastro, è davvero stretta. La Colombia uccide, l’Italia archivia di Simone Ferrari, Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 14 luglio 2024 Il 15 luglio 2020 il corpo di Mario Paciolla veniva ritrovato senza vita nella sua abitazione a San Vicente del Caguán, dove lavorava come funzionario della missione dell’Onu per la verifica degli accordi di pace. Sebbene l’autopsia svolta in Colombia abbia indicato il suicidio per asfissia come causa del decesso, fin da subito la famiglia ha rifiutato questa ricostruzione parlando di omicidio. I dubbi sono stati alimentati, in primo luogo, da una serie di depistaggi da parte degli stessi funzionari della missione Onu e dagli agenti di polizia accorsi sul luogo. Da alcuni anni i genitori di Mario, Anna Motta e Pino Paciolla, conducono una battaglia per la verità e la giustizia per il loro figlio, visitando scuole, università e luoghi di attivismo. A quasi quattro anni dalla morte di Mario è arrivata, per la seconda volta, la richiesta di archiviazione da parte della procura. Quali sono, secondo voi, le motivazioni che stanno portando i pm a chiedere la chiusura delle indagini? Quando quattro anni fa la morte di Mario ha sconvolto la nostra vita e abbiamo iniziato il percorso di verità per nostro figlio, sapevamo che la strada sarebbe stata tutta in salita, e che ci saremmo scontrati contro un muro di gomma di poteri forti. L’indagine è complessa, pertanto rassegnarsi all’archiviazione potrebbe essere considerata la soluzione più comoda. Immaginiamo possano esserci delle pressioni internazionali, dei rapporti commerciali e diplomatici che vanno salvaguardati. Ma noi non possiamo accettare che la salvaguardia di tali relazioni possa pregiudicare la nostra richiesta di giustizia. Chiederemo che si continui ad indagare anche su elementi di cui nessuno ci ha mai dato spiegazioni. Le nostre avvocate, che saranno coadiuvate da periti di nostra fiducia, si opporranno all’archiviazione. È vero che ad oggi non sembra esserci un movente certo, ma esistono prove scientifiche e indiziarie che ci dicono che Mario è stato ucciso. È questa, prima di tutto, la verità che noi sappiamo e che auspichiamo emerga in sede processuale. Quali sono gli elementi che, secondo voi, dovrebbero essere presi in considerazione per riaprire l’inchiesta? Il medico legale Fineschi ha realizzato un’autopsia lunga e impegnativa, perché le condizioni del corpo non erano ottimali. Le sue conclusioni sono queste: “Vale il conto, tuttavia, di precisare che talune evidenze - non trovando spiegazione alternativa nell’ambito dell’ipotesi suicidaria - sostengono in maniera prevalente l’ipotesi dello strangolamento con successiva sospensione del corpo”. Ed è ancora più esplicito a riguardo dei tagli sui polsi: “Le evidenze riscontrate nell’ambito della vitalità non consentono di escludere in termini di ragionevole certezza la possibilità che le lesioni siano venute a prodursi in limite vitae o addirittura post-mortem”. Basta tutto ciò o bisogna sapere altro? La versione delle autorità colombiane, ovvero che Mario si sia suicidato, chiama in causa osservazioni di carattere psicologico. Quali sono per voi gli elementi che smonterebbero questa ricostruzione? Mario era un amante della vita. Era gioioso di stare al mondo e aveva forti legami con la sua famiglia, i suoi amici, la sua città. Mai ci avrebbe dato volontariamente un dolore così grande. Mario ha cercato con ogni possibilità a sua disposizione di tornare in Italia. Il 14 luglio alle ore 00.30 acquista un biglietto con un volo umanitario per tornare il 20 luglio in Europa, un volo da Bogotà a Parigi. In quel momento avverte l’ambasciata che sta lasciando la Colombia. Il tempo intercorso tra l’acquisto del biglietto e l’ora presunta della morte è di circa due ore: in queste due ore avrebbe meditato, preparato ed eseguito il suo suicidio. Come dice il giudice nel suo provvedimento di rigetto della richiesta di archiviazione, in cui dispone ulteriori indagini, ciò non è logico. Abbiamo sempre sostenuto che la preoccupazione di Mario è stata scambiata per ‘disagio psicologico’. Ma di fatto la sua era una paura legittima, e realistica, per la sua incolumità. Noi siamo certi che lui da subito abbia compreso di poter essere ucciso. Nella telefonata dell’11 luglio ci dice: “Me la faranno pagare”. In un’altra telefonata, a un’amica, dice chiaramente per due volte: “Faranno una messinscena”, come in effetti avviene. Qual è stata la comunicazione con l’Onu durante questi quattro anni? È chiaro che ci sono state delle negligenze clamorose da parte dell’Onu. Nelle ore successive alla morte di Mario, l’organizzazione non aveva nemmeno avvertito l’ambasciata italiana della morte violenta di un italiano che lavorava per loro. Quando alle 18.30 di quel 15 luglio 2020 ci arriva la dolorosa notizia, contattiamo noi l’ambasciata per avere la certezza della morte di Mario. Loro sapranno confermarla solo alle ore 22.30. Anche su questo nessuno ha mai fatto chiarezza. In questi anni l’Onu non ha mai chiarito i suoi comportamenti, né con noi né con le nostre legali. La Missione ha sempre sostenuto di avere avviato un’inchiesta interna, di cui non abbiamo mai avuto notizie. Per noi è fondamentale sapere perché per la morte di Mario sono stati disattesi tutti i protocolli internazionali, inclusi quelli della stessa organizzazione. Inoltre, vorremmo sapere perché non ci sono stati restituiti gli scritti di nostro figlio, ciò che lui annotava: osservazioni personali, articoli giornalistici, poesie e racconti che certamente esistevano, poiché lui ce ne parlava sempre. Sicuramente erano pronti a partire per l’Italia insieme a lui. La sua perdita è un dolore lacerante che mai sarà sanato in tutta la nostra vita, ma la mancanza di questi suoi ricordi, del capitale umano di ciò che scriveva, è un bene perduto che avrebbe potuto alleviare in parte il nostro dolore. Fin dall’inizio avete iniziato a chiedere giustizia e verità per vostro figlio, pur sapendo che sarebbe stata una battaglia legale lunga e dispendiosa. Oltre alle aule di tribunale, quali sono gli altri ambiti in cui bisogna lottare per ottenere verità e giustizia per Mario? La triste vicenda di Mario non può e non deve essere solo un affare di famiglia. Dovrebbe chiamare in causa prima di tutto lo Stato, che non si è mai interessato a darci delle risposte. Solo alcuni politici, a livello individuale, hanno prodotto interrogazioni parlamentari e ci sostengono ancora. Siamo stati ascoltati anche dalla Commissione diritti umani del Senato, ma ovviamente l’audizione non poteva essere risolutiva. Per questo siamo grati quando ci invitano a testimoniare la vita di nostro figlio, soprattutto ai giovani, per raccontare chi era Mario e quante cose buone ha fatto e avrebbe potuto fare. Crediamo che sia necessario creare una verità sociale: raccontare di Mario affinché non accada mai più a nessuna persona che parte, per qualsiasi ragione, di ritornare tra i propri cari in una cassa di legno.