Carcere: il caldo non è emergenza di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 13 luglio 2024 Il caldo non è un’emergenza, arriva ogni anno, è prevedibile e in carcere basterebbe una seria programmazione. Libianchi: “L’approvvigionamento d’acqua è uno degli obiettivi dell’OMS per il Terzo Mondo. Noi abbiamo questo problema nelle nostre carceri”. È arrivata l’estate ed è arrivato, come ogni anno, il grande caldo: le massime in questi giorni sfiorano i 40 gradi. È quel periodo dell’anno in cui i telegiornali se ne escono con i famosi decaloghi per combattere le alte temperature, che poi ogni anno sono sempre gli stessi. Non c’è nessuno, o quasi, che si preoccupa dell’emergenza caldo che soffre chi si trova in carcere. Un luogo dove, insieme alla libertà, è spesso negata anche la dignità. Chi è in carcere non può aprire le finestre o accendere un condizionatore. Spesso neanche farsi una doccia o bere un bicchier d’acqua. Eppure l’emergenza caldo in carcere non è un’emergenza perché il caldo arriva ogni anno ed è assolutamente prevedibile. Ne abbiamo parlato con Sandro Libianchi, medico e presidente di Co.N.O.S.C.I., Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane e con Monsignor Benoni Ambarus, Vescovo Ausiliare di Roma. Libianchi: “La strategia è quella che chiediamo da trent’anni” - Che il caldo sia un problema grave per chi vive in carcere è evidente. “La temperatura è uno dei determinanti di buona salute fisica e mentale delle persone che vivono in un contesto confinato” ci spiega Sandro Libianchi. “In questa estate in cui, in libertà, si va al mare, si aprono le finestre, si usano i condizionatori, si riesce a sostenere una temperatura imbarazzante. Chi ha una limitazione di libertà personale non può fare niente di tutto ciò e subisce una temperatura ambientale elevata, fastidiosa e anche pericolosa, perché ci sono detenuti anziani, come gli ergastolani, che sono diverse migliaia di persone. Si fa tanta pubblicità all’esterno, per le condizioni di salute degli anziani durante le ondate di calore, ma quando l’anziano è un detenuto non ci pensa nessuno”. “Le persone subiscono questo stato di cose, compreso chi in carcere ci lavora” aggiunge. “Chi lavora nelle sezioni, negli ambulatori da operatore subisce le stesse problematiche, solo che ha la prospettiva di tornare a casa la sera”. “Non è corretto parlare di emergenza carcere per il caldo” interviene Monsignor Benoni Ambarus. “Stiamo toccando il fondo per l’emergenza carcere punto. Sembra che i detenuti siano diventati la spazzatura umana di cui non si occupa nemmeno lo Stato. La mancanza di agenti penitenziari sta continuando a ridurre l’ingresso dei volontari. E i carcerati si trovano con il deserto attorno. I sacerdoti sono quelli che stanno lì sul pezzo senza arretrare”. Primo: i frigoriferi - Eppure le cose da fare per migliorare le cose non sarebbero davvero impossibili. “La strategia è quella che chiediamo da trent’anni” commenta Libianchi. “Se fai una programmazione per combattere le alte temperature oggi, ci metti gli anni successivi per metterla in atto. Ma se non programmi tutte le volte ci si trova di fronte all’emergenza caldo. Ma quale emergenza? Il caldo torrido ormai arriva ogni anno”. La prima cosa da fare sarebbe molto semplice. “Basterebbe un frigorifero per ognuna delle sezioni. Con un grande frigorifero, o due o tre, a seconda delle dimensioni delle sezioni, calcolando il numero dei presenti, si risolverebbero molti problemi. Li devi prendere tutti adesso? No: basta programmare. E possono servire per la conservazione dei cibi. Che è un altro problema: in carcere i cibi che cucino non possono essere conservati e li devo buttare. Dal punto di vista igienico la cosa sarebbe da verificare. Quando a un frigo hanno accesso tante persone, e i modi di conservare sono tanti e diversi, è necessario che ci siano delle istruzioni per l’uso”. Secondo: i ventilatori - È altrettanto intuitiva la seconda cosa che migliorerebbe la vita dei detenuti d’estate. “La cosa, in cui in maniera veramente provvidenziale, ha provveduto il Vaticano, sono i ventilatori” spiega Libianchi. “Ne hanno comprati un migliaio. Che per le 198 strutture penitenziare italiane non sono ancora sufficienti, ma è qualcosa. Anche il ventilatore di per sé, come il frigorifero, è un elettrodomestico che costa molto poco. Se ci fossero dei ventilatori distribuiti più saggiamente sarebbe una buona cosa”. “La Chiesa e la CEI hanno consegnato in giro per l’Italia qualche migliaio di ventilatori, come simbolo di attenzione” spiega Don Ambarus. “Non ci sono ad oggi iniziative così specifiche sul discorso del caldo. Si sta tentando di tenere il punto sui bisogni più essenziali che stanno aumentando. Una fetta di popolazione, sempre più grande, non ha nessuno e non ha nulla. Se uno non ha uno shampoo per lavarsi non ha i vestiti per cambiarsi, la possibilità di fare una telefonata, è chiaro che provi a fare di tutto per migliorare la sua condizione”. Terzo: l’acqua - E poi ci sarebbe un altro accorgimento, forse il più semplice di tutti. “Lasciare provviste d’acqua a disposizione” ci illustra Sandro Libianchi. “Altrimenti mi devo comprare l’acqua. O mi devo attaccare al rubinetto del bagno per sopravvivere. È una cosa indegna. Devo avere una scorta d’acqua - di sezione, di stanza o di corridoio - a disposizione, con un rifornimento settimanale. Quanto costa una bottiglia d’acqua? Niente. L’approvvigionamento d’acqua è uno degli obiettivi dell’OMS per il Terzo Mondo. È un problema del Terzo Mondo e noi lo abbiamo nelle nostre carceri”. Aprire le porte: è possibile? - Questi sono i tre pilastri per limitare il problema del caldo in carcere. Ma ci possono essere altri accorgimenti. Ad esempio quello di tenere aperte le porte. “Sarebbe importante” commenta Libianchi. “Il problema del blindo aperto è un po’ complesso. Non per le fughe, ma perché dare una regola per tutte le strutture penitenziarie non è facile. Le strutture sono tutte diverse. Non tutte le carceri hanno un blindo; alcune, come Regina Coeli, hanno una porta di legno, che, nella parte posteriore, non ha una grata. In molti luoghi c’è una doppia porta: quella esterna è oscurata, non fa passare l’aria e la luce, e l’altra è un cancello di ferro. La prima porta si può lasciare aperta dove ci sia il blindo dietro con le sbarre. Certo, ci sono alcuni reparti di alta sicurezza in cui non è consigliabile lasciare aperto: allora incrementi tutto e dai un ventilatore per stanza”. La questione delle docce - Un altro accorgimento sarebbe quello di lasciare la possibilità di effettuare docce più liberamente, e non solo in orari bloccati. “La doccia è un provvedimento di igiene personale, che deve essere conservato” ragiona Libianchi. “Le docce devono essere aperte a più riprese. Deve essere autorizzata una a giorno, o forse di più, per ogni persona che lo richieda. A volte ci si fissa su dettagli come gli alti consumi di acqua. Stai impiegando provvedimenti di igiene personale, essenziali in una comunità confinata: dire che si consuma l’acqua è idiozia di qualche amministrativo. In realtà stai impedendo che poi si ricorra a cure con gli antibiotici a persone che si sono infettate, che costano di più dell’acqua che impeghi”. Si tratta di programmare, di fare una strategia, di “avere una visione allargata” continua Libianchi. “E su questo si dovrebbero muovere, cosa che ho visto rarissimamente, i dipartimenti di prevenzione delle Asl, da cui dipende l’igiene ambientale dei locali sottoposti alla loro sorveglianza. I dipartimenti di prevenzione delle Asl devono sorvegliare il mantenimento delle condizioni di igiene anche nelle carceri ai sensi della Legge 345 del 26 luglio 1975 che all’art. 11 prevede che “Il medico provinciale visita almeno due volte l’anno gli istituti di prevenzione e di pena allo scopo di accertare lo stato igienico-sanitario, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario e le condizioni igieniche e sanitarie dei ristretti negli istituti”. E devono dare vere e proprie prescrizioni che devono essere rispettate”. Don Ambarus: “Le istituzioni non distolgano lo sguardo” - Monsignor Benoni Ambarus chiude con un appello. “Un problema che esiste oggi di cui non ci si occupa diventa un’esplosione domani, di cui ci si dovrà occupare” ammonisce. “Chiedo alle istituzioni di non distogliere lo sguardo. È una polveriera che potrebbe esplodere, con costi poi altissimi. Non distogliamo lo sguardo: dopo il vento segue la tempesta. Non è una minaccia ma uno scenario che sta prendendo forma. Non possiamo non occuparci del carcere e dei carcerati, che sono delle persone”. Quando qualcuno si toglie la vita in cella non è un fatto privato ma un evento sociale di Maria Antonietta Coscioni Il Dubbio, 13 luglio 2024 Era il 2014. La conversazione sarebbe durata una ventina di minuti. Al termine Marco Pannella annuncia lo stop dello sciopero della sete, intrapreso per denunciare la terribilità delle condizioni dei detenuti e delle carceri italiane. “Ma sia coraggioso, Eh! Anche io l’aiuterò, contro questa ingiustizia”. Così Papa Francesco a chiusura della sua telefonata al leader radicale fatta per accertarsi delle sue condizioni di salute. “Io ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati”, aggiunge. Una promessa è una promessa e se si esclude il Giubileo dei carcerati, celebrato nel 2016 a Roma, nella tanto sospirata attesa, si continuano a contare numerosi suicidi. Cinquantaquattro, cinquantasei o cinquantotto - si sbaglia anche a contare - dolorose morti anche di giovanissimi “solo” in questa prima parte del 2024. Ci sono poi i tentati suicidi, gli atti di autolesionismo, i decessi per mancanza di adeguate cure, i suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria: sintomi e spia di un disagio e di un malessere profondi. Che dire delle violazioni all’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo a carico dell’Italia, del comportamento delle autorità carcerarie del nostro Paese che non ha profuso tutti gli sforzi - che erano ragionevoli attendersi - per impedire il suicidio di un detenuto che aveva mostrato segni di debolezza psichica? Che dire di quella prerogativa, non sentita come urgente, di ispezionare carceri e condizioni dei detenuti, di donne e uomini, deputati e senatori della Repubblica, da esercitare seriamente, necessariamente e sistematicamente? “Attraversammo estati di fuoco, rivolte e repressioni nelle ‘case di pena’ italiane, giornate intere, dall’alba al tramonto, da una cella all’altra, da Poggioreale all’Ucciardone, dalle ‘ Nuove’ a San Vittore e Regina Coeli, a Volterra o Trani, Palmi o Badu e Carros, dall’Asinara a Pianosa, con detenuti e agenti di custodia, con direttori, medici e cappellani; sulla scia di suicidi e suicidati, nel bel mezzo di regni ferocemente ordinati dei boss, della ferocia terroristica interna e moltitudini ammassate come bestie, sempre meno e meno numerosi in condizioni di comprendere e di essere informati sulla propria “situazione giudiziaria”, nemmeno dai propri avvocati, per quanti ne avessero”. Così andava ripetendo Pannella in più occasioni, e le occasioni sono state tante come se fosse oggi. Un suicidio non è mai un evento privato: è un evento sociale di cui tutti dovremmo sentirne il peso. Perché intercettare i segnali d’allarme si può, si deve a maggior ragione nei luoghi che dovrebbero essere dedicati alla rieducazione di una persona e si trasformano spesso in veri e propri mattatoi. Come non sentire la responsabilità dei tre suicidi avvenuti in neanche 24 ore, due dei quali appena ventenni? “Sperimentare il trauma derivante dalla perdita di un caro per suicidio è un evento ‘catastrofico’ simile all’esperienza in un campo di concentramento”, così l’Associazione Americana di Psichiatria. Sono ormai troppi in Italia coloro che tentano di sopravvivere alla perdita di una persona cara per suicidio. Carceri e giustizia, l’iniziativa del Partito Radicale: “Grazia e sospensione delle pene” L’Unità, 13 luglio 2024 Il Segretario Maurizio Turco e la Tesoriera Irene Testa, rivolgendosi al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Ministro della Giustizia Carlo Nordio e alla Magistratura di Sorveglianza, hanno denunciato per l’ennesima volta le condizioni disumane e degradanti nelle quali sono costretti i detenuti. In Italia c’è un’evidente emergenza carceri. Una situazione che va avanti da decenni e diventata ormai insostenibile. Non solo per il numero dei suicidi ma per le condizioni disumane e degradanti nelle quali sono costretti a vivere i detenuti. Senza considerare la piaga del sovraffollamento e che gran parte di questi ultimi sono in attesa di giudizio, tossicodipendenti, reclusi per reati minori, idonei per accedere alle pene alternative, malati e mal assistiti. L’inferno delle carceri e l’ingiustizia italiana - Di conseguenza, il Partito Radicale ha messo in atto una nuova battaglia politica all’insegna dell0 stato di diritto e della giustizia. Queste le dichiarazioni del Segretario e della Tesoriera, Maurizio Turco e Irene Testa: “Il Consiglio generale del Partito Radicale ha deciso all’unanimità di promuovere una campagna volta a denunciare le condizioni disumane e degradanti in cui versano i detenuti italiani, al Presidente della Repubblica, alla Magistratura di Sorveglianza e al Ministro della Giustizia, tramite formali istanze di ‘grazia’, di sospensione delle pene per motivi umanitari e iniziative in autotutela ministeriali. L’iniziativa del Partito Radicale - Nel documento, tra l’altro, si sottolinea il fatto che il Presidente dell’ANM Santalucia parli di carcere ‘criminogeno’, come storicamente denunciato da Marco Pannella e dal Partito Radicale; e che l’ANM chieda al Parlamento, in convergenza con il Partito Radicale, un provvedimento di amnistia per affrontare radicalmente la questione penitenziaria e, di converso, la politica giudiziaria. Carceri, premierato, surrogata, Caivano: se la legge vuole colpire i più deboli di Valeria Valente* Il Dubbio, 13 luglio 2024 Rimuovere l’obbligo di differire la pena detentiva per introdurre la carcerazione delle donne incinte o con un figlio di meno di un anno, da qualcuno ribattezzata - in modo indecentemente razzista- norma “anti-zingarelle”. Pensare di affrontare la maternità surrogata esclusivamente attraverso l’ennesima norma penale ideologica e di difficile applicazione. L’intervento in materia di giustizia minorile - più noto come Dl Caivano, come se le problematiche sociali fossero un unicum di questo territorio da indicare con uno stigma nazionale- che ha determinato il boom di ingressi negli Istituti penali minorili, come denunciato dalla Garante Gatti. Cristallizzare e acuire, con l’Autonomia differenziate, le distanze fra Nord e Sud sul piano dei diritti, colpendo in particolare il Meridione e soprattutto le donne, pensiamo al gap già esistente in merito al diritto alla salute o al servizio del tempo pieno a scuola, volano anche dell’occupazione femminile. Scoraggiare ancora di più la partecipazione democratica che vede da tempo crescere l’astensionismo femminile, introducendo un meccanismo - unico al mondo - di premier eletto dai cittadini in coabitazione con un Presidente della Repubblica la cui funzione sarà indebolita, e con un Parlamento svilito perché eletto a traino del premier, che ne deciderà nascita, durata, morte. L’affermazione, dunque, di una verticalizzazione del potere (presidenti di Regioni nel caso dell’Autonomia e presidente del Consiglio per il premierato) e il realizzarsi di una visione che riduce la partecipazione alla vita democratica - ancora così faticosa soprattutto per le donne- alla chiamata al voto, ogni cinque anni e con poteri di scelta limitati, dei cittadini e delle cittadine per acclamare un “capo” o una “capa”. Quanto di più distante dall’idea di “potere” e del “prender parte”, orizzontale e dialogante, che ha caratterizzato il femminismo. Provvedimenti diversi, certo, ma accomunati da un ulteriore filo nero: l’uso simbolico e propagandistico del diritto penale da parte di questa destra e la volontà politica di perseguire le persone più vulnerabili ed esposte, tirando fino all’estremo le maglie delicatissime dello Stato di diritto, finanche della civiltà (e non solo giuridica), se pensiamo alle donne incinte e ai minorenni, vanificando il senso rieducativo della pena sempre più difficile da realizzare fra le pareti carcerarie fatte di un sovraffollamento ormai diventato addirittura minorile e segnate da un crescendo di suicidi. Così le donne, i soggetti più esposti alla vulnerabilità sociale, il Sud: tutti colpiti da un potere esecutivo che esercita il pugno duro poiché incapace di dare risposte, lungimiranti e radicali, alla complessità del reale, ma molto capace di scegliere gli abbrivi securitari da vendere nel mercato della propaganda come scorciatoie populiste, fatte di norme bandierina in alcuni casi perfino inapplicabili come nei casi de “reato universale” di surrogata e, mesi fa, il cosiddetto Dl Cutro con la ricerca degli scafisti in “tutto il globo terracqueo”. Questa destra procede in direzione opposta all’art. 27 della Costituzione, scommessa di riscatto personale e fattore di sicurezza e crescita sociali, e ai principi di coesione sociale, solidarietà, uguaglianza e pari opportunità che innervano la Carta. A questo filo nero, da democratici e progressisti, ci opporremo con tutte le nostre forze, proprio ripartendo dal pensiero della differenza, propulsore dell’idea di leadership collegiale, della pratica del confronto e del conflitto che porta alla sintesi, dell’impegno per la crescita dei diritti di tutte che è anche rafforzamento della democrazia, del valore del riconoscimento del limite che dovrebbe avere ogni potere, su cui si è soffermato recentemente il presidente Mattarella, e che significa riconoscimento dell’altro/a da sé come diverso ma pari. Sempre. *Senatrice Pd, componente della Commissione Affari Costituzionali Quegli orfani di Mani pulite che parlano (ancora) di “colpo di spugna” di Davide Vari Il Dubbio, 13 luglio 2024 Tornano gli slogan dei bei tempi andati. Ma dopo decenni di “soggezione” della politica nei confronti della magistratura, la riforma Nordio è il segno di una inversione di marcia. “Colpo di spugna”. I giornali più “sensibili” alle ragioni di una magistratura “indignata e preoccupata” per la cancellazione dell’abuso d’ufficio hanno rispolverato gli slogan dei bei tempi andati. Ricordate la legge Conso sul finanziamento ai partiti? Era il 1993 e anche allora, gli stessi giornali - spesso addirittura gli stessi giornalisti - parlarono di “colpo di spugna”. E quando, poco più in là, siamo al ‘94, arrivò il decreto Biondi contro gli eccessi della custodia cautelare in carcere, quelle stesse penne parlarono niente meno che di “decreto salvaladri”. Un piano inclinato che raggiunse il punto più basso - o più alto, dipende dai punti di vista - nel “resistere, resistere, resistere” invocato dal procuratore Francesco Saverio Borrelli, un liberale dalla mente sottilissima che fu posseduto da un improvviso giacobinismo giudiziario. Insomma, le reazioni al voto di ieri alla Camera mostrano che siamo ancora inchiodati a quella stagione. E una prova in più di tutto questo è la polemica “necrofila” sull’intitolazione dell’aeroporto di Milano a Silvio Berlusconi. Ma nessuno entra nel merito, nessuno cita i 5140 procedimenti per abuso d’ufficio imbastiti contro gli amministratori che hanno prodotto - pensate un po’- solo 9 condanne! “È la prova che la giustizia funziona”, dirà qualcuno. Certo, se non fosse che dietro quelle migliaia di procedimenti ci sono sindaci e governatori che hanno attraversato l’inferno del processo mediatico e l’umiliazione della sospensione dell’incarico grazie alla tagliola delle Severino, fino ad arrivare a una assoluzione o una archiviazione decisa fuori tempo massimo. Insomma, l’eliminazione dell’abuso d’ufficio, così fortemente voluta dal ministro Nordio, è un primo passo, un primo segnale. Dopo decenni di “soggezione”, se non di vera e propria subordinazione della politica nei confronti della magistratura, la Camera ha votato una legge che elimina il reato grimaldello che “consente” di annullare con un “colpo di spugna” - stavolta sì - il voto popolare. Parliamo di un reato che ha colpito amministratori di destra, di centro e di sinistra mandando all’aria anni di onorata carriera politica salvo poi concludersi con uno “scusi, ci siamo sbagliati…”. Certo, l’eliminazione dell’abuso d’ufficio non ci trasforma d’improvviso nel paese delle garanzie e dei diritti. La strada è lunga e la magistratura, col coro dei giornali amici, darà battaglia. Ma è un primo passo, il segno di una inversione di marcia che il ministro della giustizia Nordio e questo governo, piaccia o no, ha avuto il coraggio di affrontare. Carriere e intercettazioni: il piano della destra per smantellare la giustizia di Gabriella Cerami La Repubblica, 13 luglio 2024 Le prossime tappe del governo dopo l’abolizione dell’abuso ufficio. Nordio pressato da Forza Italia chiede una corsia preferenziale per gli ascolti. È un piano che dopo l’abolizione del reato di abuso d’ufficio prevede, tappa dopo tappa, di smantellare la giustizia così come si è articolata in questi decenni in Italia. È una missione, quella del centrodestra, di tipo politico, ovvio. Ma è anche di natura personale. Tanto che il ministro Carlo Nordio, scomodando addirittura un cantico del Vangelo, non fa che ripetere: “Quando avrò portato a termine le riforme dirò alla presidente Meloni “Nunc dimittis servum tuum, Domine”. Che tradotto significa: “Ora lascia andare il tuo servo, Signore”. Insomma, richiami biblici alquanto sproporzionati riferiti a quella sfilza di provvedimenti in discussione fra Camera e Senato, e altri ancora in fase di studio, che vanno dalla separazione delle carriere per i magistrati al decreto sulle carceri, che non alleggerisce il sovraffollamento. Fino al testo annunciato dal ministro su una nuova stretta, l’ennesima, all’utilizzo delle intercettazioni e su cui si vuole accelerare. La riforma, che porta il nome del guardasigilli Nordio, è il provvedimento ostentato più degli altri. La maggioranza va di fretta, sono in corso le audizioni in commissione e arriverà nell’Aula della Camera in autunno. La madre di tutte le battaglie, cambia l’assetto della Carta separando la carriera dei magistrati giudicanti da quella dei magistrati requirenti, chiamati a fare le indagini. È una bandierina cara a Forza Italia: giudici e pm, come sempre evocato da Silvio Berlusconi, avranno due vite professionali distinte e mai intercambiabili. Di conseguenza il disegno di legge costituzionale prevede anche un’altra modifica sostanziale. L’attuale Consiglio superiore della magistratura, che esiste dal 1956, diventa doppio: uno per i giudici e l’altro per i pm. Uno scenario che agita le toghe, che vedono minata la loro indipendenza: “Cosa sarà il pubblico ministero del domani? La nostra preoccupazione è che sarà un organo che, progressivamente, sarà attratto nella sfera di influenza del potere esecutivo”. È il giudizio del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, che non ha escluso di dare un segnale forte, anche con uno sciopero, se dovesse essere necessario. In questo clima di alta tensione tra politica e magistratura, in ballo ci sono anche i test psico-attitudinali per l’accesso alla professione di magistrato a partire dal 2026. Di questa offensiva sulla giustizia fanno parte anche le intercettazioni. E come se non bastasse, non appena è stata approvata la legge sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, che contiene anche una norma che vieta di trascrivere le conversazioni e i dati relativi a soggetti non coinvolti dalle indagini, ecco che il ministro Nordio ha annunciato un nuovo provvedimento “organico”, in fase di studio, per limitare ancora di più l’utilizzo delle registrazioni, fondamentale strumento di ricerca delle prove. In maggioranza ci sono visioni diverse che si stanno già scontrando. Forza Italia ha presentato una proposta di legge, a firma Zanettin già discussa in commissione, che pone un limite di 45 giorni alla proroga delle intercettazioni, eccetto per i casi di mafia e terrorismo. Un tetto considerato “draconiano” dal sottosegretario alla Giustizia, in quota Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro. Il ministro Nordio vuole quanto prima contrapporre una sua riforma. Anche la questione carceri impatta sulla maggioranza. Il testo, che sarebbe dovuto essere davvero rivoluzionario per far fronte all’emergenza del sovraffollamento, di rivoluzionario invece non ha nulla. Il decreto approvato dal governo e adesso all’esame del Senato, prevede un percorso più rapido e chiaro per chiedere le misure alternative ma lo sconto di pena per buona condotta resta di 45 giorni ogni sei mesi. Così Italia Viva ha già presentato una proposta di modifica affinché i giorni di liberazione anticipata passino da 45 a sessanta o anche a 75 ogni sei mesi. Gli azzurri, che nei giorni scorsi hanno aperto all’idea di Roberto Giachetti, stanno valutando come comportarsi. Mentre la Lega è pronta a smantellare i percorsi di giustizia riparativa. E poi aleggia ancora lo spettro della riforma della prescrizione, già approvata alla Camera e ferma da mesi al Senato. Un altro tassello che ha sempre per obiettivo quello di ribaltare la giustizia, esercizio muscolare di questo governo. “Giusta l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Chi parla di amnistia spara numeri a caso” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 luglio 2024 Ddl Nordio e riforma costituzionale della giustizia: ne parliamo con il professore emerito di procedura penale, Giorgio Spangher. “Con l’abrogazione si toglie dal codice una fattispecie dubbia e si lascia la possibilità di incriminare, salvo poi la verifica in dibattimento. L’eliminazione della fattispecie non copre un’area eccessivamente vasta ma, al contrario, evanescente”. Finalmente dopo una lunga gestazione arriva la prima riforma targata Nordio... Le riforme in un governo di coalizione hanno sempre delle difficoltà. Nei confronti del provvedimento ci sono state diverse opposizioni, non solo parlamentari. Da un lato i giornalisti per quanto attiene all’informazione e alle intercettazioni, dall’altra parte l’Associazione nazionale magistrati e l’Anac per quanto riguarda l’abuso d’ufficio. Quindi è chiaro che un governo di coalizione subisca le tensioni determinate da ciò che gli succede intorno e per questo i tempi di approvazione si allungano. Pensare ad esempio di licenziarlo prima delle elezioni europee avrebbe significato subire attacchi dai media e dalle opposizioni attraverso la stampa stessa. Per un governo che naturalmente è sempre alla ricerca di un equilibrio può rappresentare un problema. Nel merito cosa pensa della riforma? Questa è veramente la riforma che corrisponde alla filosofia, al modo che ha Nordio di concepire la giustizia penale, in base ai fenomeni criminali che conosce, a quello che ha sperimentato nella sua vita, come il processo per il Mose e contro le Br, e che ha esercitato in qualità di pm. Delle altre previsioni cosa pensa? Positiva la tutela delle conversazioni tra indagato e difensore e la abrogazione dell’obbligo di una nuova procura per appellare. Per il resto la sua è una riforma chirurgica. Lui fa delle operazioni con le quali ritaglia i profili che lui ritiene patologici, salvando comunque il nucleo degli istituti. Le misure cautelari in generale non sono toccate. Tuttavia il guardasigilli parte dalla considerazione che spesso le misure, soprattutto quella carcerarie, appaiono sovradimensionate nel momento applicativo; senza una verifica a priori che potrebbe facilmente evitare l’attuazione di provvedimenti restrittivi non governati dalle regole dell’adeguatezza, professionalità e dell’extrema ratio. È stato abolito l’abuso di ufficio, però si è reintrodotto, anche in un decreto che parlava di tutt’altro, il peculato per distrazione. Secondo lei questo reinserimento è stato suggerito al governo dal Capo dello Stato? Non so cosa succede tra via Arenula e il Quirinale. È chiaro che ci sono delle interlocuzioni soprattutto con il sottosegretario Mantovano. Questa è naturalmente un’iniziativa che tende ad allontanare determinate critiche per cui non potete dire che quando si toccano i soldi non ci siano gli strumenti penali. Anche perché l’eliminazione dell’abuso d’ufficio comunque apre lo spazio alla magistratura per allargare alcune fattispecie incriminatrici, quindi a questo punto è anche meglio che per alcuni versi si sia fatta una norma correttiva. Per quanto riguarda l’inserimento del reato in un decreto che tratta di altra materia, ricorda quello sulle Olimpiadi del Piemonte? Ormai c’è una brutta tendenza di prendere il treno che transita con l’urgenza e farlo passare. Nel momento in cui lei dice che i pubblici ministeri avranno la possibilità di indagare per reati più gravi, allora giudica negativamente l’abrogazione? Non si può tagliare tutto con l’accetta. Io personalmente sono favorevole all’abrogazione dell’abuso d’ufficio, soprattutto perché non esclude che le attività più fortemente illecite possano essere comunque sanzionate. Con l’abrogazione di questo reato si toglie dal codice una fattispecie dubbia e si lascia la possibilità di, come dire, incriminare, salvo poi la verifica in dibattimento. E comunque il processo nasce da una volontà del pubblico ministero di individuare le fattispecie, non è Gesù che ce le fa cadere dall’alto. Il presidente dell’Anm Santalucia sostiene che ci sarà un’amnistia per 4.000 colletti bianchi. Questa è una riforma che favorisce i colletti bianchi? Non credo sia così, perché sostanzialmente l’eliminazione della fattispecie incriminatrice non copre un’area eccessivamente vasta ma al contrario evanescente. Per quanto concerne le dichiarazioni di Santalucia bisogna vedere i numeri, bisogna vedere quante sono state effettivamente le condanne. Allora se si vuole fare un discorso serio, diciamo chi sono quelli che beneficeranno dell’amnistia, tiriamo fuori i nomi e i dettagli sui fatti commessi. Non spariamo i numeri a caso. Si dice che è un colpo di spugna: per chi? Tutto sommato non sarà difficile capire il soggetto che si avvantaggerà di questa condanna, che verrà eliminata in sede di esecuzione. Purtroppo questo è il Paese delle cento chiese e dei cento campanili. Ognuno porta la sua interpretazione e il suo fatto. Noi abbiamo una frammentazione politica che naturalmente spinge alla contrapposizione, non siamo come l’Inghilterra. Lei sta dicendo che si discute più ideologicamente e politicamente che tecnicamente? Sì, proprio così. E poi si cambia idea molto facilmente. Un altro aspetto criticato dal presidente dell’Anm è quello dell’interrogatorio preventivo. Ad Omnibus ha detto: “Lo si farà nei confronti di un soggetto su cui pende una richiesta di custodia in carcere a piede libero. Si presenta dal giudice, viene interrogato e il giudice nei cinque giorni successivi deciderà. In questo modo si crea un pericolo di fuga perché credo sia comprensibile che se so che c’è un pm che ha chiesto la misura cautelare, se posso mi sottraggo. In alcuni ordinamenti esiste l’interrogatorio preventivo accompagnato da misure pre-cautelari, di fermo. Ti restringo la libertà personale provvisoriamente, dando al tribunale il tempo di decidere”... Non condivido affatto questo ragionamento. Premesso che se uno è così stupido da non presentarsi è giusto che venga catturato, rilevo diverse criticità nelle obiezioni del presidente Santalucia. Ricordiamo che l’interrogatorio preventivo è escluso se sussistono le esigenze cautelari del pericolo di fuga e dell’inquinamento probatorio. Ma poi chi dovrebbe fuggire? Un colletto bianco? Perché ad un soggetto accusato di criminalità con l’uso delle armi non si applica l’interrogatorio anticipato. Sul fermo: cosa sarebbe, una specie di udienza poi seguita da convalida? Se io mi trovo già ristretto, allora che senso ha l’interrogatorio anticipato? E attenzione, perché già comunque l’interrogatorio anticipato pone il soggetto in una forma di collaborazione, di atteggiamento confessorio. Nordio annuncia una riforma più ampia delle intercettazioni. La ritiene necessaria perché si abusa dello strumento? Il problema non è questo. Noi dobbiamo misurare il rapporto fra l’uso dello strumento e la tutela individuale. Naturalmente il discorso non può essere interamente sbilanciato a favore dell’esigenza di tutela collettiva. Bisogna tenere conto anche delle esigenze individuali. Secondo lei alla fine la riforma della separazione delle carriere si farà? Il discorso dipende dai rapporti di equilibrio nell’ambito del governo. Mi pare difficile che possano viaggiare insieme autonomia, premierato, separazione delle carriere. Naturalmente dipenderà dalla capacità di una delle tre di marciare più velocemente rispetto alle altre. Credo che il Paese sia già abbastanza maturo per accettare la riforma costituzionale della giustizia. Abbiamo già fatto un referendum e lo abbiamo vinto. Mentre le altre due pongono un problema di democrazia, perché si va a toccare anche la legge elettorale, e di divario economico tra Nord e Sud. Lei è stato membro laico del Csm. Non le sembra un azzardo il sorteggio per i magistrati che dovranno far parte di organo di rilevanza costituzionale? In fase di discussione si può prevedere anche il sorteggio temperato, come già ipotizzato per i membri decisi dal Parlamento. Quindi lei è d’accordo con il sorteggio? Il sorteggio è sempre un fatto negativo. Sono comunque disposto a rinunciarvi, pur di avere la separazione. Luigi Manconi: “Sì alla separazione delle carriere in magistratura” di Bruno Mirante La Nazione, 13 luglio 2024 “Una misura necessaria, anche se non determinante” dice Luigi Manconi, già docente di Sociologia dei fenomeni politici e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Riforma della giustizia, è favorevole o contrario alla separazione delle carriere dei magistrati? “Io sono, come si dice nel linguaggio diplomatico, sommessamente d’accordo sulla separazione delle carriere. Uso questo avverbio perché penso che sia una misura necessaria, anche se non la ritengo determinante”. Si spieghi meglio... “Credo cioè che quella separazione, certamente utile, debba essere accompagnata da un insieme di riforme che purtroppo non si vedono all’orizzonte”. Vale per tutto il ddl Nordio? “Stesso ragionamento sì. Anche in questo caso sono favorevole, ma considero quelle misure poco incisive, incapaci di introdurre novità davvero significative”. Quali la convincono e quali no? “Sono d’accordo certamente sull’abolizione dell’abuso d’ufficio come peraltro richiesto dalla grande maggioranza dei sindaci di centrosinistra. Sono favorevole ai limiti posti alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e ritengo utile che si eserciti un maggiore controllo sull’adozione della custodia cautelare. Anche se non ritengo che questa che è una riforma urgente, molto urgente, si risolva semplicemente ampliando il numero di magistrati che assumono la decisione della privazione della libertà per l’indagato”. Come si dovrebbe intervenire? “In Italia, all’interno della popolazione detenuta, la componente rappresentata da persone in attesa di giudizio oscilla tra il 25% e il 30%, mentre nei Paesi simili al nostro, quella percentuale è intorno al 15%. Questo vuol dire che quanto previsto dal nostro codice, cioè la sussistenza delle famose tre condizioni, quindi il rischio di reiterazione del reato, l’alterazione delle prove e il pericolo di fuga, viene considerata con troppa superficialità e troppo spesso in maniera arbitraria. D’altra parte, ricordo che una riforma essenziale, come la totale digitalizzazione del sistema, è tutt’altro che compiuta”. Il suo è un giudizio sull’azione di governo in merito alla giustizia? “In questi primi 20 mesi sono state introdotte o stanno per essere introdotte nel nostro ordinamento ben 17 nuove fattispecie penali”. Ne bastavano meno, a suo parere… “C’è stato un incremento abnorme delle pene relative a un numero molto ampio di reati. Fino ad alcune manifestazioni grottesche di furia punizionista come l’aggravante prevista per i reati commessi all’interno o nei pressi delle stazioni ferroviarie o di autobus. Una sorta di panpenalismo toponomastico che valuta l’entità della pena sulla base delle circostanze di luogo nel quale quel reato viene commesso. Il ministro Nordio è stato uno dei presidenti delle commissioni per la riforma del Codice penale che si sono susseguite nel corso degli ultimi 35 anni. Con grande saggezza politica, queste commissioni alternavano alla presidenza eminenti giuristi di centrodestra e di centrosinistra e, tutte, senza eccezioni hanno indicato quale dovesse essere la strada maestra di una riforma della giustizia: de-penalizzazione e de-carcerizzazione. Con il governo Meloni si è andati nella direzione esattamente opposta”. Lei si è occupato spesso di detenzione e della condizione de detenuti... “E su questo punto mi pare che nulla, ma proprio nulla, sia stato realizzato per affrontare l’emergenza delle carceri. L’intera amministrazione della giustizia precipita proprio lì, nelle celle, dove si concentrano tutte le contraddizioni. Lì dove l’iniquità diventa violazione dei diritti umani e tragedia collettiva. Questo governo non ha avuto la sensibilità di adottare una sola misura”. Pena illegale, il giudice dell’esecuzione può rimodularla di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2024 Lo ha stabilito la Prima sezione penale, sentenza 27435/2024, con riguardo alla mancata applicazione da parte del tribunale delle sanzioni previste per i reati attribuiti al giudice di pace. L’illegalità della pena, derivante dall’erronea applicazione, da parte del tribunale, di una pena detentiva per un reato attribuito alla cognizione del giudice di pace, è deducibile innanzi al giudice dell’esecuzione. A tale giudice, infatti, spetta provvedere alla rimodulazione della pena secondo una valutazione da compiere alla luce della singola vicenda processuale, che riguardi anche l’eventuale concessione della sospensione condizionale, beneficio estraneo ai poteri del giudice di pace. Lo ha chiarito la Prima sezione penale, sentenza 27435/2024, affermando un principio di diritto. Accolto dunque (con rinvio) il ricorso di un uomo di origine marocchina contro il provvedimento del Tribunale di Modena che, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva, in accoglimento dell’istanza avanzata dall’imputato, unificato i reati (lesioni e minaccia) giudicati con due sentenze e rideterminato la pena in nove mesi di reclusione (dei quali tre mesi, relativi ai reati giudicati con la prima sentenza, sostituiti con la multa di euro 22.500). Il ricorrente ma anche il Pg hanno richiamato la decisione delle Sezioni Unite (n. 12759/2023) secondo la quale “appartiene al giudice di pace, dopo l’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. b), Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia ex art. 4, comma 1, lett. a), Dlgs 28 agosto 2000, n. 274 in ordine al delitto di lesione personale di cui all’art. 582 cod. pen., nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento”. L’affermazione, secondo la quale deve essere rideterminata la pena illegale della reclusione inflitta dal tribunale per un reato di competenza del giudice di pace - prosegue la decisione -, è condivisibile, pur dovendosi precisare che, nel caso in esame, il reato di lesioni personali “lievi” (prognosi di cinque giorni) per il quale il ricorrente è stato condannato era già di competenza del giudice di pace alla data della commissione (29 gennaio 2014), sicché le sanzioni applicabili erano soltanto quelle individuate dall’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000. Il caso in esame, spiega la Corte, è regolato dal principio espresso dalle S.U. n. 38809/2022 (Miraglia) in cui si afferma che “spetta alla Corte di cassazione... il potere, esercitabile anche in presenza di ricorso inammissibile, di rilevare l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente perché di specie diversa da quella di legge o irrogata in misura superiore al massimo edittale”. Il principio è stato affermato in un caso in cui per il reato di lesioni si è proceduto all’irrogazione della pena detentiva, in luogo delle sanzioni previste, per i reati di competenza del giudice di pace. La sentenza, dunque, si è volutamente discostata dal precedente a S.U. n. 47766/2015 (Butera). Secondo questo indirizzo infatti “l’illegalità della pena, derivante dall’omessa erronea applicazione da parte del tribunale delle sanzioni previste per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, non è deducibile innanzi al giudice dell’esecuzione, giacché la richiesta rimodulazione della pena comporta una valutazione complessiva di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio, del tutto eccentrica rispetto all’ambito di intervento del giudice dell’esecuzione”. Si trattava, anche in questo caso, di una fattispecie, scrive la Corte, “assai simile” a quello oggetto dell’odierno giudizio nel quale il giudice dell’esecuzione, nell’unificare più reati ex art. 671 cod. proc. pen., ha mantenuto ferma, prendendola pure a riferimento come pena base, la sanzione della reclusione inflitta dal Tribunale per il delitto di lesioni per il quale, già all’epoca della commissione, erano applicabili soltanto le sanzioni previste dall’art. 52 d.lgs. n. 274 del 2000. La decisione presa col provvedimento impugnato è però errata in diritto. Il superamento dell’indirizzo giurisprudenziale di Sez. U, Butera, impone infatti di fare applicazione del diverso principio, riconosciuto da Sez. U, Miraglia, che può essere così enunciato: “l’illegalità della pena, derivante dall’omessa erronea applicazione da parte del tribunale delle sanzioni previste per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, è deducibile innanzi al giudice dell’esecuzione cui spetta di provvedere alla rimodulazione della pena secondo una valutazione da compiere di volta in volta alla luce della singola vicenda processuale che riguardi anche l’eventuale concessione della sospensione condizionale della pena, beneficio estraneo ai poteri del giudice di pace”. Divieto di avvicinamento, carcere per il marito anche se è la moglie a seguirlo a sua insaputa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2024 Revocati i domiciliari. Ininfluente il fatto che la donna si accompagnasse a lui di sua volontà o addirittura lo seguisse a sua insaputa. Va in carcere il marito che non rispetta il divieto di avvicinamento alla moglie, anche se lei lo segue spontaneamente, o addirittura a sua insaputa, perché lo ama ancora. La corte di Cassazione ha così revocato gli arresti domiciliari, perché l’uomo aveva violato la misura di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune, imposta in base al codice antimafia, unita all’obbligo di tenersi distante dalla moglie almeno 200 metri, in qualunque luogo lei si trovasse. Una prescrizione ignorata da lui, come dalla donna. La signora “stante il perdurare del rapporto sentimentale tra i due”, scrivono i giudici, lo aveva addirittura accompagnato al palazzo di giustizia, dove lui era stato convocato per un interrogatorio di garanzia, relativo ad un’altra violazione. Ancora di sua volontà la moglie era salita con lui sul motorino. Misura più blanda revocata - Quanto alla convocazione in Tribunale, la trasgressione di cui doveva rispondere riguardava una volta in cui era stato sorpreso quando si trovava, a sua insaputa, nei pressi della moglie, in un supermercato dove la donna lo aveva seguito di sua scelta, rifiutandosi di lasciarlo solo - aveva affermato la difesa - malgrado fosse consapevole della misura precauzionale imposta al compagno. Iniziative che non giovano al marito, perché il Tribunale gli revoca i domiciliari, pur in assenza di contestazioni relative a gravi indizi di colpevolezza, ma perché ritiene inadeguata la misura cautelare più blanda proprio “in considerazione della condotta della moglie”. Del resto anche l’uomo aveva ammesso di non tenere in grande considerazione i divieti imposti. Verona. Detenuto suicida, era in sciopero della fame per avere farmaci antidolorifici di Angiola Petronio Corriere di Verona, 13 luglio 2024 Un altro detenuto suicida a Montorio. Si è ammazzato inalando il gas di una delle bombolette che vengono usate per i fornellini da cucina in dotazione nelle celle Fabiano Visentini, 51 anni. Aveva il “fine pena” fra tre anni. Condannato, Visentini, a 14 anni per ver ammazzato dieci anni fa a calci e pugni - a Pietra Ligure nel Savonese - la sua convivente Alba Varisto, di 59 anni. E la sua pena la stava scontando a Verona. Era di Sanguinetto, Fabiano Visentini. Erano stati cinque, a cavallo tra novembre dello scorso anno e febbraio. L’acqua cheta a fare da “intermezzo” sono stati l’arrivo di Filippo Turetta, le polemiche sulla playstation che in realtà lui non ha mai usato, l’approdo di Chico Forti con le sue dichiarazioni su un carcere dove dice di essere “trattato come un re”. E la visita del Papa, il 18 maggio. È ripiombato nella sua realtà - quella di un sovraffollamento che incuba 600 detenuti contro i 330 che dovrebbe avere, di celle in cui le brande sono a castello, di un’infermeria asfittica di medici, in particolare psichiatri - il carcere di Montorio. Che a quel rosario di cinque suicidi ieri ha aggiunto un sesto grano. Si è ammazzato inalando il gas di una delle bombolette che vengono usate per i fornellini da cucina in dotazione nelle celle Fabiano Visentini, 51 anni. Aveva il “fine pena” fra tre anni. Condannato, Visentini, a 14 anni per ver ammazzato dieci anni fa a calci e pugni - a Pietra Ligure nel Savonese - la sua convivente Alba Varisto, di 59 anni. E la sua pena la stava scontando a Verona. Era di Sanguinetto, Fabiano Visentini. Ma la sua era la vita di un errabondo, dettata dalla droga. In giro per l’Italia senza fissa dimora, almeno due tentati suicidi alle spalle. Era il luglio del 2007 quando litigò col padre e lo accoltellò al torace. Per l’omicidio della convivente gli era stato riconosciuto il vizio parziale di mente. Ma Fabiano Visentini era uno convinto di dover scontare quanto gli era stato comminato dai giudici. Tanto che non aveva voluto mai usufruire dei benefici previsti dalla legge. Qualcosa però, nel carcere di Montorio, si è incagliato. E lui che da anni soffriva di varie patologie assolutamente certificate, non riceveva più i farmaci antalgici. Il 27 giugno la sua avvocata Eleonora Matranga aveva inviato una Pec alla Casa circondariale in cui segnalava l’urgenza di quella terapia, chiedendo spiegazioni per la negazione di quei farmaci che prendeva solitamente. Gliene avevano dati altri, ma lui diceva che non gli facevano niente. L’avvocata con Fabiano si era sentita al telefono l’altro giorno. Lui le aveva detto di aver iniziato uno sciopero della fame per avere quelle medicine che sopivano il dolore che non lo lasciava. Al telefono avevano anche parlato dell’invio di un’istanza da parte dell’avvocata Matranga per ottenere un primo permesso premio. I genitori di Fabiano avevano dato la disponibilità ad accoglierlo a casa, nonostante quella lite finita nel sangue 17 anni fa. Il primo passo verso quel reinserimento che per Fabiano Visentini doveva arrivare, fra 3 anni, all’uscita dal carcere. “Oggi (ieri per chi legge, ndr) mi ha chiamato un ispettore del carcere per dirmi che Fabiano si era suicidato. Mi ha detto che i genitori li avrei dovuti avvisare io. Ho mandato un’altra pec facendo presente che lui era detenuto da loro e che loro ne avevano la responsabilità e la custodia quindi era loro il compito, con il dovuto tatto, di avvisare sua madre e suo padre”, racconta l’avvocato Matranga. Funziona così, a Montorio. Quel carcere dipinto dalle “belle speranze”, dove in realtà - e nonostante le continue denunce anche della Camera penale veronese si continua a morire. Lo hanno trovato i compagni di cella, Fabiano Visentini. E la sua è la 56esima croce piantata in un carcere italiano per suicidio dall’inizio dell’anno. Trieste. Detenuto trovato morto dopo la rivolta, decesso causato da un’overdose di metadone di Gianpaolo Sarti Il Piccolo, 13 luglio 2024 Il 48enne sarebbe morto di overdose: durante la rivolta sono state rubate le riserve di metadone custodite nell’infermeria. Altri tre detenuti sono stati colpiti da malori, uno è grave. Un detenuto di 48 anni è stato trovato morto in carcere a Trieste. La scoperta è avvenuta oggi venerdì 12 luglio attorno alle 15.30. Sono stati i compagni di cella ad accorgersene e a dare l’allarme. Vani i tentativi di rianimazione, operati dai sanitari del 118. Dalle condizioni del corpo si presume fosse morto già da almeno due ore. L’uomo si chiama Zdenko Ferjancic, era di Nova Gorica, ed era in prigione per spaccio. Stando a quanto si apprende, il quarantottenne sarebbe morto per una overdose di metadone saccheggiato dall’infermeria durante la rivolta di giovedì sera. Nel corso dell’intervento, inoltre, un altro detenuto ha avuto un grave malore. La persona ora è ricoverata nel reparto dell’Unità coronarica del Polo cardiologico dell’ospedale di Cattinara. Dopo le 18 l’ambulanza e l’automedica del 118 sono intervenute per soccorrere un altro detenuto, intossicato dall’assunzione di metadone. Si tratta dell’ennesimo malore nel giro di poche ore. Secondo le prime ricostruzioni, ci sarebbe un collegamento con la rivolta scoppiata nella serata di giovedì 11 luglio e conclusasi dopo alcune ore di grande tensione. Durante la rivolta, infatti, i detenuti hanno letteralmente saccheggiato l’infermeria e altri ambienti del carcere rubando le riserve di metadone custodite all’interno. E molti, in queste ore, hanno abusato della sostanza. Stando a quanto si apprende, il quarantottenne sarebbe morto per una overdose. Ma sarà l’autopsia a stabilirlo. La rivolta è scoppiata nella serata di ieri, giovedì 11 luglio, quando i detenuti hanno appiccato incendi, si sono barricati nelle sale e distrutto quanto trovavano a tiro in segno di protesta. Sul posto i Carabinieri, Polizia, Guardia di finanza, Polizia locale ed Esercito. Agenti e militari in tenuta anti sommossa. Ben dodici i mezzi del 118, tra ambulanze e automediche. Giovedì sono state trasportate al Pronto soccorso 6 persone, di cui 4 con malori, 1 con un’intossicazione dovuta alle esalazioni di fumo e 2 carcerati cardiopatici trasferiti fuori dal Coroneo per sicurezza. La situazione si è attenuata in tarda serata per concludersi attorno alle undici e mezza grazie alla mediazione del magistrato di sorveglianza, Rosa Maria Putrino, del direttore Graziano Pujia e del cappellano padre Silvio Alaimo. Trieste. Il vescovo: “Detenuti perché non hanno rispettato le leggi, ma anche lo Stato lo deve fare” Il Piccolo, 13 luglio 2024 Una nota del prelato: è un controsenso se Stato non rispetta le norme che regolamentano il carcere e i carcerati, a partire dal fatto che la Costituzione prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La situazione dei carcerati in Italia è impressionante. Molto si è scritto. Ora occorre agire. Occorre invertire la tendenza di aumentare i reati a cui corrispondono pene detentive per inventare altre modalità di pene, che meglio corrispondono a quanto previsto anche dalla nostra Costituzione, dai Trattati Internazionali e dalle nostre Leggi. Il sovraffollamento cronico, l’inadeguatezza strutturale di molte carceri, la mancanza di personale a tutti i livelli (dalla polizia penitenziaria, agli amministrativi, dagli educatori ai direttori…) sono solo alcuni dei macro problemi che si intrecciano. Io non sono il più competente per farne un’analisi e questo non è il contesto. Mi limito a dire perché dobbiamo mantenere alta l’attenzione sui carcerati, anche qui a Trieste. Sono pensieri a caldo. 1. Le persone sono in carcere perché non hanno rispettato la legge: ed ecco che è un controsenso se poi lo Stato non rispetta le Leggi che regolamentano il carcere e i carcerati, a partire dal fatto che la Costituzione prevede che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (Art 27). Purtroppo il sovraffollamento (per cui nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani, per la violazione dell’art. 3, sul divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), l’inadeguatezza delle strutture e la impossibilità di sanificarle (ecco la presenza delle cimici che non si riescono a debellare), la mancanza del personale rendono le pene inumane. Il caldo in strutture sovraffollate rende tutto ancora più esasperante. 2. I detenuti sono persone assai vulnerabili: il dramma dei suicidi nelle carceri italiane (e in genere in tutte le carceri) ci dice che i detenuti sono più esposti alla disperazione, paradossalmente anche quando si avvicina la loro scarcerazione (quali speranze di ripresa può coltivare chi non ha avuto la possibilità di prepararsi una condizione di vita extra-carcere - un alloggio, un lavoro - che renda “sensato” l’impegno di non commettere più altri reati?). 3. Parliamo di persone che hanno sbagliato, e i reati commessi vanno perseguiti. Ma, appunto, parliamo di persone, la cui dignità umana permane, una dignità ferita, per la quale occorre impegnarsi in processi di riabilitazione-rieducazione e, dove possibile, di riparazione in favore delle vittime e delle comunità. Non dimentichiamoci delle possibilità della “giustizia riparativa”, che è una opportunità importante introdotta dalla “riforma Cartabia” (d.lgs 150, del 10 ottobre 2022) per restituire dignità e cittadinanza non semplicemente “pagando” ma ricostruendo quel che, violando persone o beni, è stato infranto. La pena, da sola, non incide sulla recidiva né sulla sicurezza: deve essere accompagnata da forme attive di impegno, da esperienze capaci di trasformare e di prendere le distanze dal male compiuto, capaci di rigenerare la capacità di contribuire al bene comune. 4. Gesù si è fatto vicino ad ogni persona fragile e vulnerabile (malati, disabili, bisognosi, peccatori, poveri…). È arrivato a dire che ogni volta che si soccorre uno di questi piccoli lo si fa a Lui (o non lo si fa a Lui). In quel contesto parla anche dei carcerati (Mt 25) da visitare: e la visita è espressione di prossimità, di premura, di cura… Gesù ci ha dato l’esempio nel non sottrarsi al restare accanto agli esclusi, agli emarginati. E addirittura - come condannato ingiustamente - si è fatto accanto anche ai ladroni: Lui al centro e i ladroni uno a destra e uno a sinistra. Noi dobbiamo imparare da Gesù, anche se le modalità vanno reinventate per il nostro contesto storico. Come minimo si tratta di umanizzare le carceri perché non siano scuole in cui si impara a delinquere ancora di più ma luoghi in cui le persone sono accompagnate a rigenerarsi a vita nuova. Sono solo alcuni pensieri, che rimandano ad altre questioni assai intricate ma che necessitano che si apra il dialogo e il confronto. Come si è fatto in una piazza della democrazia nella scorsa Settimana Sociale dei Cattolici in Italia. Aprire il confronto e però agire subito per allentare la disperazione nei carcerati e la fatica immane del personale che lavora nelle carceri: personale che non possiamo abbandonare nella gestione di tensioni esplosive e ingestibili. Vercelli. Carcere allagato, i detenuti si rifiutano di entrare nelle celle di Andrea Zanello La Stampa, 13 luglio 2024 Il carcere di Billiemme, a Vercelli, allagato per il violento temporale di ieri mattina (venerdì 12) e i detenuti hanno inscenato una protesta clamorosa. Si sono rifiutati di entrare nelle celle e hanno iniziato a battere contro le sbarre, urlando per farsi sentire. Sono intervenuti i vigili del fuoco e altre forze di polizia probabilmente chiamate dall’istituto, oltre al personale di polizia penitenziaria dei vicini istituti piemontesi. E protesta l’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma Polizia Penitenziaria: “Considerato che i protocolli tanto decantati dal sottosegretario Del Mastro Delle Vedove sono completamente falliti - dichiara Leo Beneduci, il segretario generale - attendiamo che lo stesso sottosegretario disponga per l’intervento dei Gir (gruppi speciali) ulteriore innovazione operativa introdotta di recente e non funzionante per risolvere i problemi insoluti del carcere in Italia”. E sottolinea, come ha fatto altre volte in passato: “Tutto rimane sulle spalle del personale di Polizia penitenziaria delle sedi, povero di organico e di mezzi e che non riesce nemmeno più a smontare dal servizio entro le 24 ore secondo l’ormai triste principio del “fine turno mai”. “Da tempo - prosegue Beneduci - inoltre, segnaliamo vanamente alle autorità dell’Amministrazione penitenzia centrale che risulta del tutto indifferente l’assenza di igiene negli ambienti lavorativi e detentivi delle carceri a cui non fanno eccezione quelli di Vercelli, con i risultati che sono davanti a tutti. É ora che il sistema e chi lo comanda cambino integralmente, altrimenti le conseguenze saranno ancora più drammatiche”. Firenze. “Il carcere non è un albergo? Il magistrato sbaglia, l’acqua calda nelle celle è un diritto” novaradio.info, 13 luglio 2024 “La fornitura di acqua calda all’interno delle celle non è un diritto essenziale garantito al detenuto, ma è una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Questa la risposta che il Magistrato ha dato ad uno dei circa 100 ricorsi presentati dai detenuti di Sollicciano che lamentano la situazione inumana della vita nelle sezioni penitenziarie del carcere fiorentino. Insomma, questo carcere non è un albergo, sembra tagliare corto nella risposta il magistrato. “In realtà il magistrato si sbaglia perché la fornitura di acqua calda nelle carceri è prevista espressamente dall’art. 7 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario - spiega Maria Cristina Frosali dell’Associazione L’Altro Diritto, che supporta proprio i detenuti di Sollicciano nella redazione dei ricorsi. “Ci stiamo preparando ad un reclamo per questa decisione - continua - scorretta dal punto di vista giuridico, e che contribuisce solo ad acuire le sofferenze del detenuto”. Nei giorni scorsi è arrivata anche la proposta da parte del garante dei diritti dei detenuti per il Comune di Firenze Eros Cruccolini di costituire un comitato civico rivolto a tutte le associazioni che svolgono attività di volontariato nelle carceri ed alle associazione che si impegnano sul tema dei diritti, per fare pressione sul Governo: “L’associazionismo ed il volontariato in carcere svolgono un ruolo fondamentale - continua Maria Cristina Frosali - soprattutto in un contesto in cui i numeri del personale sono così bassi tra educatori e psicologi”. Pavia. In cucina o nella logistica: per otto detenuti una seconda chance con il lavoro di Anna Ghezzi La Provincia Pavese, 13 luglio 2024 Al progetto Seconda Chance in Oltrepò hanno aderito i McDonald’s di looping Srl e Fiege Logistics. I datori di lavoro: “Persone motivate in cerca di riscatto: felici di averli con noi”. Alcuni dipendenti al lavoro al McDonald’s di Voghera. I quattro detenuti sono stati inseriti tra marzo e aprile nei ristoranti gestiti da Looping Srl tra Voghera, Montebello e Stradella. È una goccia nell’oceano, ma è qualcosa. Perché avere un lavoro, imparare una professione, può essere tutto per chi ha sbagliato, sta scontando una pena e cerca una seconda possibilità. Per reintegrarsi nella società, per un nuovo inizio. L’occasione, per quattro detenuti del carcere di Voghera, si è concretizzata ai fornelli e tra i tavoli dei McDonald’s gestiti da Looping Srl di Fabio Calabrese tra Stradella, Montebello e Voghera. A marzo hanno firmato il contratto da “banconieri di tavola calda”, contratto collettivo nazionale “Turismo e pubblici esercizi”. “Siamo molto soddisfatti di loro e del progetto”, spiega Calabrese. Altri quattro detenuti sono stati assunti negli stabilimenti di Fiege Logistics a Stradella e, anche lì, la soddisfazione è palpabile: per tutte e tutti. Una seconda chance - Looping gestisce sette ristoranti della catena statunitense nelle province di Piacenza e Pavia e impiega circa 270 persone di 20 nazionalità diverse. “Ho sentito parlare del progetto Seconda Chance - spiega Calabrese - e delle possibilità di reinserimento dei detenuti. Mi ha incuriosito, ho preso contatti con l’associazione e velocemente è stato organizzato un incontro con il direttore del carcere di Voghera e le educatrici”. Seconda Chance è un’associazione fondata nel 2022 da Flavia Filippi, giornalista di La7 che fa da ponte tra carceri e imprese per agevolare il reinserimento in società. Per la Costituzione italiana, infatti, la pena ha una funzione rieducativa: l’obiettivo non è sbattere qualcuno in una cella e buttare via la chiave, ma provare a recuperare chi ha commesso un reato, tramite percorsi che permettano di cambiare vita. Strade difficili, fatte anche di lavoro. Lo Stato ha dunque ideato strumenti per favorire l’attività lavorativa dei carcerati con la legge Smuraglia. che prevede anche sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che li assumono. I colloqui in carcere - Il primo passo sono stati i colloqui in carcere. “A metà marzo abbiamo avuto il primo contatto e poco dopo abbiamo iniziato la selezione - spiega Calabrese - . Abbiamo trovato persone molto motivate, umili, con tanta voglia di mettersi in discussione e rimettersi in gioco”. “Varcare la soglia del carcere, sentire i cancelli chiudersi è stato difficile - spiega Maria Antonietta Vommaro, risorse umane -. Ma ai colloqui ho trovato persone aperte al lavoro, disponibili e per un attimo ho dimenticato dove ci trovassimo. Una voglia di riscatto che mi ha colpita”. L’iter, d’altra parte, spiega Vommaro, non è stato più complicato del solito, nonostante la necessità di stilare una convenzione tra il carcere e l’azienda. I quattro assunti hanno un’età compresa tra i 30 e i 55 anni, sono operativi con turni fissi per rispondere ad alcune condizioni burocratiche. Uno, a luglio, finirà di scontare la pena: “Ci ha chiesto di assumerlo, noi siamo disponibili”, spiega Calabrese. I quattro, infatti, si sono integrati benissimo col resto del personale: “Era la mia preoccupazione, all’inizio - conferma l’imprenditore -. Dopo averli conosciuti, i dubbi sono svaniti. Coi dipendenti abbiamo mantenuto la massima trasparenza, fatto due riunioni e gli assunti hanno mostrato correttezza, collaborazione e disponibilità”. Inclusione nel dna - Ma quali sono i vantaggi, per l’impresa? “La possibilità di reperire risorse motivate - spiega Calabrese -. E poi l’inclusione fa parte del nostro Dna come McDonald’s: nessuna barriera di genere, provenienza, religione, qui bastano voglia e capacità di lavorare e di mettersi in gioco. Un magistrato permette a queste persone di uscire dal carcere per lavorare: noi le valutiamo per quel che fanno sul lavoro”. Seconda Chance - Flavia Filippi, giornalista del tg di La7, due anni fa ha fondato l’associazione Seconda chance per fare da ponte tra carceri e imprese. “L’obiettivo è procurare opportunità di lavoro a detenuti ed ex detenuti - spiega Filippi -, persone che le direzioni delle carceri considerano meritevoli e riabilitate, selezionate sulla base dei requisiti indicati dagli imprenditori”. L’associazione, contattabile all’indirizzo info@secondachance.net, offre supporto alle aziende anche illustrando le agevolazioni economiche previste dalla legge Smuraglia. È riuscita finora a inserire 300 tra detenuti ed ex detenuti, soprattutto nei settori ristorazione, edilizia e logistica. L’associazione ha firmato protocolli d’intesa con il ministero della Giustizia, la Federazione italiana pubblici esercizi di Confcommercio, Ance Toscana e ha avuto l’adesione di realtà come il Vaticano, Terna, Nestlè, Autostrade per l’Italia, stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, Istituto superiore di sanità, Conad Nord ovest, Bosch, Ance, Acqua Vera, Palombini, Coop centro Italia, Decathlon, Arcaplanet, Nespresso. “Facciamo conoscere agli imprenditori anche la possibilità di fare impresa in carcere - spiega Filippi - li portiamo negli istituti a visionare i locali inutilizzati che le direzioni concedono in comodato d’uso gratuito: lavanderie industriali, sartorie, officine, falegnamerie, call center, biscottifici. Sono molteplici le attività che si possono avviare in carcere con manodopera a costi più bassi e offrendo seconde possibilità ai detenuti non ammessi a lavorare fuori”. L’associazione, inoltre, porta all’interno delle carceri corsi di formazione sport. Napoli. “Mario non si archivia”, la città chiede verità e giustizia di Mattia Carpinelli collettiva.it, 13 luglio 2024 A quattro anni dalla morte del cooperante la manifestazione della Cgil del territorio per tenere aperta una vicenda cui non sono state date risposte. “C’è una verità ovvia che conosciamo da quattro anni. Abbiamo cercato, in tutti i modi, di rendere nota la vicenda di Mario. Ci sono delle prove indiziarie importanti, ma ci sono anche delle prove scientifiche che ci danno la certezza che Mario non si è ucciso, ma che sicuramente è stato ucciso. I nostri legali, con un team di periti, stanno valutando le conclusioni del pubblico ministero per preparare una nuova opposizione e chiedere al giudice di accoglierla”. A parlare così è Anna Motta, la mamma di Mario Paciolla, che, insieme a papà Giuseppe, da quattro anni si stanno battendo per avere giustizia, ma soprattutto per conoscere la verità sulla morte del figlio, trovato senza vita il 15 luglio 2020 nel suo appartamento a San Vicente Caguán, in Colombia. In missione per il monitoraggio del processo di pace con le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), Mario era impegnato a garantire il rispetto dell’accordo tra queste ultime e il governo colombiano. Lo scorso 14 giugno la Procura di Roma, per la seconda volta, ha chiesto l’archiviazione del caso come suicidio. Ma i genitori di Mario non ci stanno e, insieme al loro team legale, continueranno a ribadire un concetto semplice: il caso non può essere archiviato, Mario non è morto suicida. Mario aveva un biglietto aereo di ritorno già in tasca pronto a partire per l’Italia. Il 4 luglio scorso, la Cgil Napoli e Campania, ha esposto insieme ai familiari, ad Amnesty Italia, Fnsi, Sindacato unitario dei giornalisti, Articolo 21 e il collettivo per Mario Paciolla, uno striscione per chiedere “Verità e giustizia” all’interno dell’iniziativa “Mario non sia archivia”, titolo preso dalla vignetta di Mauro Biani che, in collegamento, ha portato la sua testimonianza sul caso Paciolla. L’evento della Cgil Napoli e Campania è arrivato alla vigilia del quarto anniversario della morte di Mario che verrà ricordato con un’iniziativa in programma lunedì 15 luglio, alle 18 in piazza Municipio, promossa dal Collettivo Giustizia per Mario Paciolla, Amnesty International Italia, Articolo 21, Fnsi, Festival Imbavagliati, Of Public Interest e Sucg. La Cgil ha aderito con Banda Basaglia, Cgil, Coop Sepofà, Fondazione Famiglia di Maria, FreeAssange Napoli, Gridas, Le Tre Ghinee, Mediterranea Saving Humans, Scuola di Pace, Un Ponte Per. La serata prevede momenti di riflessione alternati a interventi musicali, con l’intento di stringersi intorno alla famiglia e ribadire tutta la solidarietà e la vicinanza della società civile, unita nella ricerca della verità. In questi giorni è stata anche lanciata una campagna fotografica sui social media con l’hashtag #4annisenzaMario, con cui condividere immagini e messaggi di solidarietà per ricordare Mario Paciolla e partecipare alla richiesta di verità e giustizia. Brescia. Canton Mombello, parlano i detenuti: il documentario che si rivolge agli adolescenti di Manuel Colosio Corriere della Sera, 13 luglio 2024 Si intitola “11 giorni” ed è un format di 33 episodi da un minuto pubblicati su Instagram. La regia di Nicola Zambelli, il 9 aprile l’anteprima integrale al Nuovo Eden. Spesso i documentari vengono presentati come speciali, dei quali si sente il bisogno ed evidenziano problemi reali. Non sempre lo sono, purtroppo. Nel caso di “11 giorni” invece, ultima fatica del regista bresciano Nicola Zambelli, la qualità e i contenuti esprimono davvero elementi unici, innovativi ed indispensabili: girato nel carcere Nerio Fischione, il più sovraffollato d’Italia, dà voce solo ai detenuti che raccontano la loro condizione di privazione della libertà in un format inedito di 33 episodi da un minuto, pubblicati nell’arco di 11 giorni su una pagina Instagram (@11.giorni). “L’obbiettivo di questa web-serie è quello di rivolgersi a un pubblico adolescenziale, che vive di social, per renderli maggiormente consapevoli sul tema” spiega Francesco Zambelli dell’associazione culturale InPrimis, che con Smk Factory e Associazione Carcere e Territorio ha prodotto il documentario che martedì 9 aprile arriva in versione integrale al cinema Nuovo Eden, per approdare nuovamente sui social due giorni dopo. Nel frattempo è entrato nelle scuole bresciane, dove sono stati realizzati 16 incontri che hanno coinvolto 400 studenti “che ci hanno fatto capire quanto fosse uno strumento importante di educazione civica” afferma Nicola Zambelli, regista dalla spiccata tensione sociale e abile compositore di immagini che anche stavolta riescono a trasportare lo spettatore, attraverso una superba fotografia e la scelta di non legare mai volti di detenuti alle testimonianze, nella drammaticità che si vive dentro quelle mura “che rappresentano violenza, elemento che contraddistingue il carcere in ogni sua forma” ricorda. Violenza che spinge a ragionare sulla disumanità che accompagna la reclusione e descritta “in un momento in cui la situazione era meno coercitiva di adesso” denuncia la garante dei detenuti del Comune di Brescia Luisa Ravagnani, la quale spiega come “nel periodo delle riprese le celle rimanevano aperte di giorno, mentre adesso sono tornate chiuse”. La rotta va invertita, ma poco viene fatto. Forse perché, come recita una lettera scritta dagli stessi detenuti e che ha animato l’idea della web-serie, “sappiamo bene di essere l’ultima categoria a suscitare l’interesse di qualcuno e, probabilmente, anche l’ultima per la quale qualcuno decida di alzarsi e vedere come viviamo”. Lettera che esprimeva il desiderio “di incontrare qualcuno che confermi che si è arrivati al capolinea, risolvere questa situazione insostenibile una volta per tutte, perché la dignità di ogni uomo ha pari valore”. Lo hanno incontrato, e il risultato è questa pregevole opera. Migranti. La Cedu censura l’Italia: i Cpr sono luoghi di tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2024 La Corte europea dei diritti umani ha censurato il governo italiano per il trattenimento presso un Centro di permanenza per i rimpatri di Camelia, una donna con evidenti problemi di salute mentale, ordinandone il trasferimento in un luogo idoneo alla cura. Questa decisione mette in luce una realtà sconcertante all’interno dei Cpr in Italia, in particolare quello di Roma Ponte Galeria. La storia di Camelia, la donna al centro di questa sentenza, non è un caso isolato ma la punta di un iceberg di violazioni sistematiche dei diritti umani e della dignità delle persone trattenute. Un’ispezione condotta il 18 giugno 2024 dalla deputata Rachele Scarpa, accompagnata dall’etnopsichiatra Monica Serrano e dall’avvocata Federica Borlizzi, ha rivelato condizioni di detenzione che sfiorano la tortura nel Cpr di Ponte Galeria. La struttura, gestita dalla multinazionale Ors in proroga, ospitava al momento della visita 79 persone, di cui 4 donne, in spazi progettati per 104. Le condizioni di vita nel centro sono risultate al di sotto di ogni standard umano accettabile. Nelle celle della sezione maschile, spazi di appena 25 mq accolgono fino a 8 persone, costrette a dormire su materassi logori posati direttamente sul pavimento. I servizi igienici versano in uno stato di degrado totale, privi persino di porte per le docce, con evidenti segni di allagamento e sporcizia diffusa. La delegazione ha riscontrato gravi violazioni degli standard minimi richiesti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. L’assenza di luce naturale, la mancanza di armadietti chiudibili per gli effetti personali e l’assenza di sistemi di allarme funzionanti nelle stanze sono solo alcune delle criticità emerse. Particolarmente allarmante è la situazione sanitaria all’interno del centro. L’ispezione ha portato alla luce un uso massiccio e indiscriminato di psicofarmaci, somministrati senza un’adeguata supervisione psichiatrica. In soli 17 giorni di giugno, sono state acquistate 92 confezioni di psicofarmaci per una popolazione di circa 80 detenuti, sollevando seri dubbi sull’uso di questi farmaci come strumento di controllo piuttosto che di cura. Le cartelle cliniche esaminate hanno rivelato casi scioccanti. A.A.B.A., un detenuto, ha tentato il suicidio due volte in due giorni, con il primo tentativo incredibilmente considerato “non realistico” dal medico del centro. Un altro caso critico è quello di A.A., un uomo con un proiettile conficcato nel cranio e una storia di tossicodipendenza, ritenuto erroneamente idoneo alla detenzione nel Cpr. Il registro degli eventi critici, tenuto in modo approssimativo su un semplice quaderno, ha rivelato 60 eventi critici in soli due mesi, tra cui tentativi di suicidio, atti di autolesionismo e violenze. Questi numeri allarmanti testimoniano un ambiente di detenzione altamente stressante e potenzialmente letale. La situazione di Camelia, la donna al centro della censura da parte della Cedu, detenuta in isolamento in condizioni che ricordano pratiche manicomiali, è emblematica della gravità della situazione. Nonostante la sua evidente incapacità di intendere e volere, Camelia è stata trattenuta per nove mesi in condizioni disumane, evidenziando gravi mancanze da parte delle istituzioni competenti. L’ispezione ha anche rivelato la presenza nel centro di persone particolarmente vulnerabili, come M. G., un neo- maggiorenne egiziano completamente disorientato e impossibilitato a contattare i familiari, e una giovane donna sudamericana con chiari indicatori di essere vittima di tratta. La decisione della Corte europea dei diritti umani nel caso di Camelia non solo censura il governo italiano, ma mette nuovamente in luce un problema sistemico nei Cpr. I promotori del ricorso alla Cedu sottolineano che in questi centri la violazione dei diritti umani è la norma, non l’eccezione. L’uso massiccio di psicofarmaci, il mancato accesso al diritto alla salute, la gestione dei servizi di cura affidata a privati, la normalizzazione della violenza e dell’abbandono sono problematiche diffuse e radicate. L’onorevole Scarpa ha dichiarato: “Il trasferimento di Camelia rappresenta un precedente importante che fa ben sperare sulla concreta possibilità di aiutare degli esseri umani ad uscire dall’inferno dei Cpr, vere e proprie carceri in cui si entra senza colpe e non si sa quando, e se, si uscirà”. Tutto ciò mette in luce come i Cpr, concepiti come centri di permanenza temporanea, si siano trasformati in vere e proprie “discariche sociali” per emarginati e indesiderati, dove i diritti umani fondamentali vengono sistematicamente calpestati. Da qui la richiesta di un urgente cambio radicale del sistema di accoglienza e un superamento del sistema detentivo nei Cpr, per evitare che l’Italia rimanga in un abisso dove i diritti umani non vengono riconosciuti e tutelati per tutti. La decisione della Corte europea dei diritti umani suona come un campanello d’allarme per le istituzioni italiane. Per questo le associazioni che si occupano dei diritti umani chiedono di ripensare l’approccio alla gestione dei migranti e richiedenti asilo, ponendo al centro la dignità umana e il rispetto dei diritti fondamentali. Solo così l’Italia potrà uscire da questa spirale di violazioni e dimostrare di essere un Paese che rispetta veramente i valori democratici e umanitari su cui si fonda l’Unione europea. Migranti. Conferenza stampa per Maysoon Majidi e Marjan Jamali di Luigi Manconi Ristretti Orizzonti, 13 luglio 2024 Stiamo seguendo da tempo la vicenda umana e giudiziaria di Maysoon Majidi e Marjan Jamali, due giovani donne iraniane giunte in Italia nel 2023 e sottoposte a provvedimenti di custodia cautelare in quanto accusate di “scafismo”. Marjan si trova oggi agli arresti domiciliari, mentre Maysoon è reclusa nel carcere di Reggio Calabria in attesa del giudizio immediato che si terrà il prossimo 24 luglio. La donna, 27 anni, è in una condizione di gravissima depressione e debilitazione, pesa attualmente 38-40 kg e si è vista rifiutare la visita di una psicologa da lei indicata. Sappiamo che alcuni di voi si sono già occupati di questa vicenda e anche per questo vi chiediamo di sostenere la richiesta di libertà per Maysoon aderendo alla Conferenza Stampa che terremo giovedì 18 luglio alle ore 16:00 nella sala stampa della Camera dei Deputati (via della Missione 4) insieme a due parlamentari, Laura Boldrini e Marco Grimaldi, che hanno presentato interrogazioni in merito, a Riccardo Noury, di Amnesty International Italia, a Ferdinando Laghi, consigliere regionale e a Parisa Nazari, attivista del movimento “Donna vita libertà”. Abbiamo bisogno della solidarietà del maggior numero di persone e di associazioni per gettare luce su questo caso nel quale si manifesta un ulteriore inasprimento della politica migratoria italiana. Non può sfuggire a nessuno, infatti, che ci troviamo di fronte a un’applicazione brutale dell’impegno preso dalla Presidente del Consiglio quando dichiarò: “Andremo a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo”. Questa ricerca rassomiglia sempre più a uno sparare nel mucchio che colpisce persone innocenti e chiude gli occhi davanti ai veri responsabili e alle vere cause del traffico di esseri umani. Traffico di esseri umani reso possibile e alimentato dalla mancanza di canali legali e sicuri di ingresso in Italia e in Europa. La conferenza stampa vuole essere la prima di una serie di iniziative da costruire insieme per la tutela dei diritti fondamentali di Mayson Majidi e Marjan Jamali. Per aderire alla conferenza stampa e per aggiornamenti scrivere a luigi.manconi@gmail.com. Migranti. La Cassazione lascia in carcere Anan Yaeesh Il Manifesto, 13 luglio 2024 Carcere confermato per Anan Yaeesh, il cittadino palestinese arrestato accusato di terrorismo sulla base di indagini condotte in Israele. Così hanno deciso i giudici della Sesta sezione penale della Cassazione. Per altri due palestinesi, Ali Irar e Mansour Doghmosh, la Cassazione ha annullato con rinvio in Appello per la decisione. Il ricorso era stato presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini. Nei confronti di Yaeesh, l’uomo di 37 anni originario della Palestina di Tulkarem, in Cisgiordania detenuto nel carcere di Terni, la Corte d’Appello ha respinto la richiesta di estradizione presentata dallo Stato di Israele, accogliendo l’istanza dell’avvocato Rossi Albertini. L’ipotesi di reato, formulata dagli inquirenti israeliani, nei confronti di Yaeesh, che vive e lavora a L’Aquila dal 2017, è quella di avere finanziato un gruppo armato del campo profughi, la brigata Tulkarem. Yaeesh era stato arrestato una prima volta a febbraio scorso all’Aquila per essere estradato in Israele. Nello stesso giorno in cui la corte d’Appello del capoluogo aveva rigettato l’estradizione (perché in Israele avrebbe rischiato “trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o comunque ad atti che configurano la violazione dei diritti umani”) è stata disposta per lui, Irar e Doghmosh la custodia cautelare in carcere per l’accusa di terrorismo. Gran Bretagna. Piano per rilasciare migliaia di detenuti, contro il sovraffollamento delle carceri ilpost.it, 13 luglio 2024 Il governo britannico ha annunciato un piano per rilasciare in anticipo ad alcune condizioni migliaia di detenuti per evitare il sovraffollamento delle carceri in Inghilterra e Galles. È uno dei primi provvedimenti significativi presi dal governo guidato da Keir Starmer, il leader del Partito Laburista, insediatosi come primo ministro dopo le elezioni della settimana scorsa. A partire da settembre le persone che avranno già scontato almeno il 40 per cento della propria pena in carcere potranno usufruire di alcune forme di libertà vigilata: secondo le regole attuali invece per accedere a queste forme di libertà i detenuti devono aver scontato almeno il 50 per cento della pena. Il piano dovrebbe riguardare migliaia di detenuti ogni anno. Sono comunque escluse le persone condannate per alcune categorie di crimini violenti, violenze sessuali, stalking e violenze domestiche. Da mesi le prigioni inglesi e gallesi sono molto vicine al massimo della loro capienza. Presentando il piano la nuova ministra della Giustizia, Shabana Mahmood, ha detto che le condizioni delle prigioni britanniche richiedono azioni urgenti, per evitare ciò che la ministra ha definito “un totale collasso della legge e dell’ordine”. Ha anche specificato che il piano è una misura di emergenza che sarà revocata una volta diminuito il sovraffollamento delle prigioni, e che in un anno saranno assunti mille nuovi agenti di polizia penitenziaria. Per il momento però non ha detto quali misure a lungo termine intenda attuare il suo governo.