Inferno carceri, un suicidio ogni tre giorni. Detenuto muore durante lo sciopero della fame di Gabriella Cerami La Repubblica, 12 luglio 2024 54 suicidi nel 2024 e 61 mila detenuti, ma i posti sono solo 47.300. Rispetto al 2023 si sono tolte la vita già 20 persone in più. E a Trieste rivolta per il caldo. Il carcere diventa condanna a morte e il numero delle sue vittime continua a salire. Chi è chiamato a fare le leggi, intento nell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, sembra non accorgersi dello scempio e lascia le donne in stato di gravidanza e con bambini di un anno dietro le sbarre. C’è infatti un decreto carceri in discussione in commissione al Senato che nulla contiene per far fronte all’emergenza che vede detenuti accalcati in condizioni disumane. Ieri la rabbia è esplosa nel carcere di Trieste dove, anche a causa del caldo soffocante, le persone si sono ribellate: urla, vetri rotti, incendi e feriti. Sono 54 i detenuti che si sono tolti la vita nel 2024, uno ogni tre giorni, venti in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno quando i suicidi, fino a giugno, erano stati 34. Ed è così che in Italia si muore di detenzione e di sovraffollamento. L’assistenza psicologica è poca e la polizia penitenziaria è sempre più in sofferenza. In celle sporche e prive di spazi e servizi vitali, il 3 luglio scorso c’erano 61.547 persone quando i posti disponibili, sulla carta, sarebbero 51.178 mila ma scendono a 47.300 perché alcune prigioni sono inagibili. Ciò significa che ci sono oltre 14.200 detenuti in più. In queste celle, che diventano loculi, non c’è solo chi si suicida, ma ci sono anche detenuti che muoiono in condizioni disumane. Dall’inizio dell’anno sono 62 a cui si aggiungono sei persone appartenenti al corpo di polizia penitenziaria. Basti pensare che in poco più di dodici mesi, ad Augusta, nello stesso carcere, hanno perso la vita tre persone in sciopero della fame. L’ultima, Giulio Arena, un ergastolano di 68 anni deceduto lo scorso 28 giugno nell’ospedale di Catania dove era stato trasferito in condizioni già disperate ed era tenuto in vita da una soluzione fisiologica salina. Da dicembre dello scorso anno aveva smesso di bere e di mangiare per protestare contro una condanna che riteneva ingiusta. Qualcosa si poteva fare. In tempo. “Nei casi di astinenza totale dal cibo e dall’acqua - dice il garante dei detenuti di Siracusa, Giovanni Villari - andrebbe resa obbligatoria la nutrizione artificiale. La soluzione fisiologica salina endovena non può salvare una vita”. In molti casi chi muore è giovane. Il 4 luglio scorso è stata una giornata nera con tre suicidi: un detenuto a Livorno di 35 anni, un ragazzo di 20 anni nel carcere di Sollicciano a Firenze e un terzo a Pavia, anche lui di 20 anni. Proprio il giorno prima il Consiglio dei ministri aveva approvato il decreto Carceri “senza sconti di pena o indulgenze gratuite”, per utilizzare le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Piuttosto, secondo il guardasigilli, sarà l’abolizione dell’abuso d’ufficio ad “avere un impatto sul numero dei reclusi”. Quindi la legge approvata due giorni fa dalla Camera in via definitiva, quella che rimuovere il reato dei cosiddetti colletti bianchi e che impedisce di indagare su presunte cattive condotte da parte degli amministratori e funzionari dello Stato, sarebbe per il governo la soluzione del problema. Anche se, in realtà, i detenuti per reati contro la pubblica amministrazione si riducono a poche unità. Dunque, una visione miope, secondo Pd e Avs e per Roberto Giachetti di Italia viva che, pronto a denunciare Nordio, propone di elevare la detrazione di pena per la liberazione anticipata da 45 a 60 giorni. Il viceministro azzurro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto è convinto che si possa “fare di più” rispetto al decreto. Ma si è già parecchio fuori tempo. La strage nelle celle è figlia di politiche emergenziali di Franco Mirabelli Il Dubbio, 12 luglio 2024 Il tragico bollettino sulle carceri italiane oggi registra, da inizio anno, oltre 50 suicidi trai detenuti, 5 tra gli agenti di custodia, 14000 presenze oltre alla capienza. Purtroppo non siamo di fronte ad una situazione eccezionale, la condizione di degrado delle carceri italiane sta diventando un dato permanente, che si aggrava di continuo a fronte dell’inerzia grave del governo. Non servono quindi misure emergenziali. È evidente che il recente decreto Nordio sembra davvero colpevolmente inutile ad affrontare il dramma delle carceri italiane. Istituire il registro delle comunità in cui è possibile scontare le pene per minori e tossicodipendenti, fissando in 6 mesi il termine per decidere come regolamentarlo la dice lunga su come non ci sia il senso dell’urgenza e della necessità di intervenire presto e concretamente. E certamente semplificare l’accesso agli sconti di pena a cui già i detenuti hanno diritto cambierà poco. Servono altre misure, ma soprattutto serve cambiare il punto di vista, il carcere, come si era iniziato a fare con il ministro Orlando e la ministra Cartabia, deve essere considerato l’estrema ratio. Un sistema penale che mira alla rieducazione deve organizzare pene alternative, giustizia riparativa, messa alla prova, non può e non deve considerare il carcere come unica soluzione su cui scaricare tutto, con l’idea della pena più come punizione da scontare soffrendo, che come occasione di riabilitazione e riscatto. Oggi sembra invece prevalere tra le forze di governo l’idea che il carcere sia la soluzione per molti problemi. Dal decreto sul rave party fino a quello su Caivano e al disegno di legge sulla sicurezza si è scelta questa via, con il risultato di aumentare il numero di minori negli istituti di pena facendoli esplodere e di mettere in discussione un principio elementare di umanità come quello che evita, se non in casi eccezionali, di mettere in carcere le donne in cinta o le mamme coi propri figli. L’idea del carcere come unica soluzione insieme alla convinzione che la rieducazione e il reinserimento vengano dopo la priorità che è quella securitaria rendono impossibile affrontare il dramma delle prigioni italiane. Le due telefonate al mese in più, concesse dal decreto, non aiuteranno certo ad attenuare le sofferenze o le tensioni negli istituti di pena dove, con questo governo, le persone sono state richiuse nelle celle per gran parte del tempo e dove sta diventando più difficile, tra autorizzazioni e regole restrittive, fare attività aggregative e formative. Serve, invece del decreto Nordio, riprendere la strada che, costretti dal Covid, è stata imboccata e che ha funzionato riducendo significativamente la popolazione carceraria e che oggi può significare liberazione anticipata, non per i reati di mafia e quelli più gravi, e detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena fino a due anni. E ancora, servono provvedimenti che incentivino messa alla prova, pene alternative, giustizia riparativa. Ma se la priorità resta quella della detenzione come espiazione e sofferenza e il carcere come soluzione per affrontare i problemi sociali, come dimostra il decreto Nordio non si potrà andare oltre “i pannicelli caldi” e la situazione continuerà ad aggravarsi portandoci ben oltre ciò che è tollerabile in un Paese civile. Ma quel decreto non salverà nessuno: i detenuti continueranno a lasciarsi morire di Emilia Vera Giurato Il Dubbio, 12 luglio 2024 C’è un silenzio assordante che tuona come un colpo di arma da fuoco. Un macabro rintocco di morte rimbomba dentro le mura dei nostri istituti penitenziari, ovattati dal resto del mondo, insonorizzati, dimenticati; uno ogni 3 giorni. Nelle carceri italiane la gente si suicida, uno ogni tre giorni nel 2024, fino ad oggi e le statistiche degli anni precedenti fanno rabbrividire, non concedendo alcun margine di aspettative positive. La società civile non fiata, la magistratura - ad eccezione di poche, timide voci - tace. La politica, scellerata ed ottusa, manifestamente inadeguata, prova a barcamenarsi tra le proteste degli avvocati e delle associazioni e la propria incapacità di porre rimedio ad una spaventosa roulette russa che è diventata marchio e simbolo dell’inarrestabile declino di un Paese che non ha più un volto civile. I detenuti sono affidati allo Stato; esattamente come i bambini sono affidati alla scuola nelle ore in cui sono in istituto, come i malati sono affidati agli ospedali durante la degenza. E dove c’è un principio di affidamento sorge un preciso, inderogabile obbligo di cura. Cosa diremmo se, ogni tre giorni, un malato si togliesse la vita mentre è ricoverato in una struttura sanitaria? Cosa se un bambino o un ragazzo lo facesse a scuola? Di fronte a questo bagno di sangue, invece, nulla. Come se i morti reclusi non fossero affare di alcuno, mentre le carceri sono una sorta di oblio che non restituisce neppure l’eco della sofferenza delle anime segregate. Sembra che i morti in Italia non siano tutti uguali. E così, mentre Rita Bernardini e Roberto Giachetti provano il proprio corpo con scioperi della fame e della sete, nel disperato tentativo di attirare l’attenzione sull’allarmante emergenza; mentre gli avvocati, da Nord a Sud, si affannano con maratone oratorie ed astensioni volte a sensibilizzare e scuotere le coscienze, il Governo vara il Decreto cd. “Svuotacarceri” che di svuota carceri porta solo il nome e che non scongiurerà il pericolo di altre morti auto indotte. Le carceri esplodono e non un solo detenuto in meno si conterà a seguito dell’entrata in vigore del provvedimento; anzi, nel frattempo molti altri incrementeranno la popolazione carceraria che aumenta a dismisura di giorno in giorno. Il decreto appena approvato è timido, inidoneo ad incidere positivamente sulle allarmanti condizioni delle nostre carceri; ipocrita nel perseguire obiettivi diversi da quelli oggetto di numerose interlocuzioni, volte principalmente ad arrestare il fenomeno dei suicidi. L’aumento del personale della Polizia Penitenziaria e l’assunzione di nuovi dirigenti penitenziari non salverà alcuna vita; sono strumenti, utili, si ma che rispondono ad esigenze assai diverse da quella di porre un freno all’attuale emergenza e d’altronde il testo del decreto rivela chiaramente i suoi scopi che consistono nel “garantire il raggiungimento degli obiettivi di efficientamento e innovazione” previsti dal PNRR (art. 2 DL n. 92/ 2024) e “nel garantire la sicurezza e incrementare l’efficienza degli istituti penitenziari” (art. 3). Nella più totale indifferenza alla vita. Gli Istituti Penitenziari tutti presentano, peraltro, una grave carenza di tutte quelle figure professionali (psicologi, educatori, assistenti sociali) la cui opera garantirebbe, da un lato condizioni di umanità nell’espiazione della pena e dall’altro, un supporto ai detenuti nel delicato percorso volto alla rieducazione ed alla preparazione alla vita che li attenderà dopo. C’è, tra i detenuti suicidi, una significativa percentuale di persone giunte quasi a fine pena; questo è un dato che dovrebbe fare riflettere. Questi uomini soffrono il carcere e temono la vita che viene dopo e se non si fosse troppo interessati a punire (anche in questo caso il Legislatore non perde l’occasione di introdurre nel sistema una nuova figura di reato) ci sarebbe da chiedersi perché, cercando di capire soprattutto come prepararli ad un efficace (re) inserimento nel tessuto sociale; a beneficio loro e di tutto il sistema. Ancora, non una parola sulla liberazione anticipata speciale; unico strumento che avrebbe potuto in breve ridurre il sovraffollamento. Quanto alla modifica del procedimento per l’applicazione della liberazione anticipata, non è destinato a sortire alcun effetto nell’immediato, se non quello di intasare ulteriormente i Tribunali di Sorveglianza che sono già ampiamente sovraccarichi e perciò, di fatto, impossibilitati ad operare in tempi accettabili. A prescindere dalla sua sostanziale inutilità rispetto alla situazione di emergenza, è evidente che la nuova normativa non potrà andare a regime prima di diversi mesi. Un tempo troppo lungo, in cui c’è da attendersi che ancora tanti invisibili disperati si arrenderanno alla morte. Penalisti e magistrati uniti contro l’emergenza carceraria: “Servono interventi immediati” di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 luglio 2024 “Il Governo adotti interventi immediati contro l’emergenza carceraria”. A chiederlo sono gli avvocati penalisti e i magistrati, per una volta, insieme nel cercare di sensibilizzare il governo e l’opinione pubblica sul dramma dei suicidi in carcere e del sovraffollamento. Ieri a Roma in Piazza dei Santi Apostoli si è svolta la manifestazione nazionale dell’Unione camere penali italiane (Ucpi) sull’emergenza carceri. A prendere parola sul palco, insieme a tanti penalisti e ad alcuni esponenti politici (Giachetti, Rossomando, Magi, Verini, Borghi, Cucchi), anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, che ha criticato il decreto legge sulle carceri recentemente varato dal governo: “È un decreto che non dice nulla e che contraddice se stesso. Se si interviene con un decreto perché vi è di straordinaria necessità e urgenza ci si attende di trovare qualche intervento che possa decongestionare il carcere nell’immediato, invece non ci sono interventi efficaci nel brevissimo periodo”, ha detto Santalucia. “Capisco le esigenze securitarie ma a chi le porta avanti dico che non c’è migliore tutela della sicurezza se non un carcere restituito alla possibilità di funzionare per quella che è la sua missione costituzionale, cioè quella di risocializzazione e di rieducazione”, ha aggiunto. Molto scettico sugli effetti del decreto anche il presidente delle Camere penali, Francesco Petrelli, che al Foglio spiega: “A fronte di una situazione delle carceri drammatica che, come invocato dall’Europa, ma anche dal Papa e dal presidente della Repubblica Mattarella, dovrebbe esigere interventi immediati e urgenti, che possano restituire dignità alla condizione carceraria, il decreto non introduce nessuna misura immediata, mentre l’incendio divampa”. “Due fenomeni sono diventati davvero drammatici negli ultimi tempi, quello del sovraffollamento e quello del numero dei suicidi - prosegue Petrelli - A fronte di una teorica disponibilità di circa 47 mila unità, il sovraffollamento ha raggiunto la cifra di oltre 61 mila detenuti, soglia che nel 2013 portò la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia per il trattamento inumano e degradante dei propri detenuti”. “Poche settimane fa, il Comitato dei ministri del Consiglio europeo ha intimato all’Italia di prendere provvedimenti urgenti per risolvere questa situazione, che è resa davvero tragica da un numero di suicidi che è di venti volte superiore alla media che riguarda la società dei liberi”, aggiunge il presidente dei penalisti. “Si è raggiunta la soglia dei 54 suicidi da inizio anno. Se dovessimo proiettare questa media nell’intero 2024 ci troveremmo di fronte a un netto superamento dei cento suicidi in un solo anno, che è una soglia che non è mai stata raggiunta nel nostro paese”. Insomma, siamo di fronte a “una strage, in termini di perdita di vite umane e di diritti”, afferma Petrelli, ricordando che il 25-30 per cento dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio, “soggetti sui quali dovrebbe valere la garanzia della presunzione di innocenza e che invece sono costretti a vivere in istituti di pena che non sono degni di questo nome e che non dovrebbero esistere in un paese che pensa di appartenere al contesto dei paesi civili”. Come intervenire, dunque, per ridurre il sovraffollamento subito? “Il rimedio immediato, ma impronunciabile, è quello dell’amnistia e dell’indulto. Un’alternativa è rappresentata dalla proposta Giachetti, all’attenzione del Parlamento, che risolve in maniera molto semplice il problema, aumentando il numero dei giorni di liberazione anticipata di cui fruisce il condannato che ha avuto un comportamento positivo nel corso della detenzione. Quindi i condannati che hanno fine pena prossimo o stanno scontando pene brevi potrebbero essere rimessi in libertà, senza alcuna prospettiva di allarme sociale”. “Peraltro questa misura, lungi dall’essere una resa dello stato, come ha detto qualcuno (Nordio, ndr), rappresenterebbe il minimo sindacale del risarcimento che lo stato dovrebbe riconoscere ai condannati che sono stati costretti a espiare la pena in carcere in condizioni disumane e degradanti”, conclude Petrelli. Carceri al collasso. Petrelli: “Le misure alternative generano sicurezza” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 luglio 2024 Avvocatura e magistratura si ricompattano per la difesa dei diritti dei detenuti e contro il recente decreto carceri, in un momento tragico in cui siamo arrivati a 55 suicidi e il sovraffollamento in alcuni istituti arriva a superare anche il 200%. L’occasione è la manifestazione “Fermare i suicidi in carcere - Non c’è più tempo”, organizzata ieri dall’Unione delle Camere penali a Roma. Il patto culturale sul tema tra le toghe, che sembrava essersi rotto qualche mese fa, si è ricucito con l’intervento del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Sono qui per un plauso alle Camere penali per questo meritorio impegno e per la fatica per fare da pungolo al potere politico perché c’è una emergenza e per attestare l’attenzione e l’interesse anche della magistratura associata su questi temi. Anche noi - ha aggiunto - abbiamo cercato nel nostro piccolo di rappresentare al ministro la drammaticità aggiungendo la nostra voce a quella dell’avvocatura penale chiedendo interventi importanti ed efficaci nel brevissimo periodo. Avvocatura e magistratura sono fortemente sensibili al tema. Negli ultimi anni se qualcosa si è mosso nella normazione riguardante le carceri è stato grazie agli interventi demolitori della Corte costituzionale e questi sono stati resi possibili alla luce di un dialogo che avviene tra magistratura ed avvocatura all’interno delle aule di giustizia. La drammaticità dei suicidi è l’attestazione più evidente che bisogna intervenire. Avevano avuto insieme all’Ucpi ad aprile all’Università Roma 3 un incontro con il ministro Nordio sul tema delle carceri. Poi arriva un decreto legge che non dice nulla e contraddice se stesso: se si interviene con decreto legge è perché si ritiene ci sia necessità ed urgenza. Quindi ci saremmo aspettati di trovarvi qualche misura che potesse decongestionare il carcere nell’immediato. E invece nulla. Capisco le esigenze securitarie ma dico a chi le porta avanti che non c’è migliore sicurezza della società di un carcere in cui si rispetti la sua missione costituzionale”. Oltre ai penalisti italiani, sono intervenuti tanti esponenti della società civile, dell’associazionismo, non solo forense, e della politica. “Il decreto carceri non servirà a niente rispetto alle emergenze che ci sono in carcere oggi. Da qui la nostra determinazione a sostenere, con emendamenti, ordini del giorno e con il dibattito in commissione e in aula, tutta una serie di proposte per riempire un decreto vuoto e provare a far fronte davvero all’emergenza”, hanno detto i senatori del Pd Walter Verini e Anna Rossomando rispetto al provvedimento in discussione nella commissione Giustizia del Senato, di cui fanno parte. Non poteva mancare Roberto Giachetti (Iv): “Purtroppo questa maggioranza ha fatto slittare dal 17 al 23 luglio il dibattito sulla pdl. Scappano, sono anche un po’ codardi ma noi li rincorriamo. Siccome hanno presentato il decreto legge al Senato abbiamo trasformato la nostra pdl in un emendamento al decreto e quindi dovranno metterci la faccia lì. Vedremo cosa farà Forza Italia che fino ad ora si è distinta dal resto della maggioranza”. E poi il durissimo annuncio da parte del parlamentare: “Denunceremo il ministro della Giustizia perché se non prende le decisioni concrete per impedire quello che accade nelle carceri, può esserne ritenuto responsabile. L’articolo 40 del codice penale recita che non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”. Dopo ha preso la parola il deputato Riccardo Magi (+ Europa): “Da un lato abrogano l’abuso di ufficio e poi nel ddl sicurezza creano nuovi reati e aggravanti. Questo delirio deve finire. Spiace che a via Arenula ci sia quello che possiamo ribattezzare lo smemorato di Treviso che aveva scritto a quattro mani con Giuliano Pisapia un testo in cui nella quarta di copertina c’era scritto a grandi lettere “basta nuovi reati, depenalizzazione, carcere come extrema ratio”“. Seguito da Francesca Scopelliti, presidente dell’Associazione Enzo Tortora: “In Italia nessun Governo - di destra, centro, sinistra - ha voluto mai occuparsi di carcere ma nemmeno informarsi. Il carcere non porta voti e quindi non interessa alla politica”. L’intervento conclusivo è stato quello del presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli: “Le maratone oratorie fatte in tutta Italia sono state una straordinaria esperienza: la forza delle nostre idee è la forza della difesa degli ultimi e della tutela dei principi della nostra Costituzione. Il nostro nemico più forte è quel riflesso presente in tutti noi: le reazioni istintive che ciascuno di noi dinanzi al male in genere prova. Noi siamo i portatori del superamento di quelle pulsioni istintive. Maggiore è la de-carcerizzazione e l’utilizzo delle misure alternative, minore è la recidiva. Occorre svelare al Paese queste verità, e la gente ci verrà dietro”. No al carcere per le donne incinte di Rosetta Papa e Paolo Siani La Repubblica, 12 luglio 2024 Sono 20 le mamme in Italia che vivono in carcere con i loro bambini e sono 12 le donne con una gravidanza in corso. Il ministro Nordio alla Camera a proposito del carcere ha parlato di umanizzazione della pena, ma contemporaneamente il governo nel disegno di legge “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” (C. 1660) approvato in commissione giustizia alla Camera prevede l’abolizione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte”. Bisognerebbe pertanto rivedere il concetto di umanizzazione considerando che la misura raggiunge donne e bambini, quindi “di che umanizzazione parliamo?”. Bisogna qui ricordare che tra i reati ascritti alle donne che si trovano in carcere, la categoria maggiormente rappresentata è quella dei reati contro il patrimonio. Può mai una donna in gravidanza che non ha commesso reati di particolare gravità affrontare una vita in carcere? Nell’ultimo Rapporto “Antigone” vengono riportati eventi dolorosi accaduti proprio nel corso della gestazione a donne recluse. Si ricorda la circostanza che ha visto protagonista una giovane donna detenuta a Rebibbia che a causa di un “parto precipitoso” ha visto come unica figura “professionale” ad assisterla esclusivamente la sua compagna di cella? Ed ancora in questa triste statistica viene riportata l’esperienza tragica del luglio 2022 nell’istituto milanese di San Vittore quando una donna perse il proprio bimbo dopo aver accusato sintomi che forse avrebbero meritato una consulenza specialistica per essere decodificati adeguatamente, triste esito già capitato nel marzo 2019 a Pozzuoli. Consapevole della delicatezza di questa fase della vita, anche il legislatore penale già nel 1930 aveva rivolto attenzione al rapporto tra la madre detenuta e la prole, attraverso il possibile differimento dell’esecuzione della pena per la donna incinta e la madre di prole in tenera età. Il nostro Servizio sanitario nazionale garantisce e tutela la salute fisica e mentale della madre e del feto/neonato durante la gravidanza e il parto. A ogni donna in gravidanza secondo le linee guida ministeriali sono garantiti gli interventi appropriati per un percorso assistenziale prenatale di base e se nel corso della gravidanza inizialmente considerata come fisiologica, dovessero presentarsi delle criticità sia strumentali che ematochimiche se non cliniche, vedi ad esempio l’ipertensione, la gravida deve essere presa in carico da centri di III livello. Alcuni ricercatori negli Stati Uniti hanno affermato che rispetto alle donne incinte della popolazione generale, le donne in carcere avevano maggiori fattori di rischio associati a esiti perinatali sfavorevoli, tra cui neonati pretermine e piccoli per l’età gestazionale (Bell et al., 2004). Sufrin e colleghi (2019) hanno osservato che, in media, il 6% delle nascite di donne detenute aveva un parto pretermine e il 32% di tipo cesareo. È doveroso aggiungere l’importanza del contesto nel quale la donna vive lo stato di gravidanza, per gli indiscussi effetti epigenetici sul prodotto del concepimento. Ciò rappresenta un ulteriore quanto inaccettabile elemento di svantaggio addirittura in epoca pre-natale. Chiediamo alle parlamentari e ai parlamentari di tutte le forze politiche di riflettere bene quando arriverà in aula il decreto, quell’articolo sulle donne in gravidanza deve essere emendato, va rispettato il supremo interesse del minore senza lasciare impunite donne che delinquono. Va tenuto presente infine che la criminalità femminile è spesso orientata verso tipologie di reato che sono espressione più di marginalità sociale che di allarme sociale. E allora è sul versante sociale che bisogna agire non solo su quello penitenziario. Chiediamo alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per la prima volta donna e mamma, che sa bene cosa vuol dire una gravidanza e l’attaccamento madre bambino nei primi mesi di vita, di rivedere l’articolo 12 del decreto 1660 e di non abolire il rinvio della pena per le donne in gravidanza o con bambini fino a 1 anno. L’agonia della giustizia minorile di Claudio Castelli* Il Domani, 12 luglio 2024 La giustizia minorile, vittima di plurimi interventi riformatori spesso inconsapevoli delle conseguenze e sempre a costo zero, giace in una lenta agonia di cui le vittime sono i minori nel cui primario interesse la giustizia deve essere esercitata. Ed il rinvio aggrava e non risolve la situazione. Con l’art. 12 del decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 è stata prorogata di un anno la costituzione dei nuovi Tribunali per le persone, le famiglie e i minori. In apparenza solo la saggia decisione di posticipare l’avvento di una riforma allo stato del tutto impreparata e che, se attuata, avrebbe portato alla distruzione della giustizia minorile e della famiglia. In realtà la presa d’atto di un’inerzia scandalosa che, dopo il decreto legislativo n. 149/2022, non ha messo in atto gli interventi assolutamente necessari per realizzare la riforma, oltre che la constatazione dell’impossibilità di concretizzarla. Nel frattempo la giustizia minorile, vittima di plurimi interventi riformatori spesso inconsapevoli delle conseguenze e sempre a costo zero, giace in una lenta agonia di cui le vittime sono i minori nel cui primario interesse la giustizia deve essere esercitata. Ed il rinvio aggrava e non risolve la situazione. Ma riavvolgiamo il nastro e vediamo cosa è successo per la giustizia minorile, il cui disastro è responsabilità di più governi, e soprattutto cosa si può fare per evitarlo. La giustizia minorile italiana, pur apprezzata nel mondo per la sua specificità e specializzazione mettendo al centro il minore, aveva ed ha indubbiamente molti difetti: una sovrapposizione sui medesimi fatti tra tribunale dei minori e tribunale ordinario in tema di famiglia da cui derivava una frammentazione di competenze, una compartimentazione ed uno scarso scambio di informazioni, un utilizzo spesso eccessivo e non coordinato dei giudici onorari specializzati (che hanno competenze psicologiche, assistenziali, sociali), un contraddittorio a volte non pieno. Da qui l’idea sicuramente apprezzabile di giungere ad unificare le competenze, di puntare sulla specializzazione, di arrivare ad un rito unico e garantito. Si è colta l’occasione del PNRR e della necessità di rivedere il rito civile per inserire una modifica radicale, non richiesta nel PNRR, non solo per rivedere il processo, ma addirittura per creare un nuovo Tribunale denominato per le persone, per le famiglie e per i minori diverso e ulteriore rispetto a quello ordinario. Si trattava quindi di costituire ben 140 nuovi Tribunali, senza peraltro prevedere l’investimento neppure di un euro. Chiunque, anche non del settore, capisce che creare 140 nuovi Tribunali significa edifici, personale, magistrati, formazione, digitalizzazione. Ben poco è stato fatto - A fronte della normativa non solo nulla è stato previsto, ma ben poco è stato fatto in questi due anni ed il rinvio appare più la conseguenza dell’inerzia e della volontà di prendere tempo che un reale impegno. Sul fronte edilizio il Ministero si è limitato ad una verifica sulla attuale situazione degli edifici a disposizione dei Tribunali e Procure per i minori (che per la legge del 1933 devono essere in stabili separati dai Tribunali ordinari), peraltro sicuramente non in grado di ospitare il congruo numero di magistrati, cancellerie e segreterie che oggi esercitano la materia della famiglia. Del resto i primi riscontri fatti evidenziano che il numero di magistrati e personale necessario sarebbe circa il triplo di quello oggi operante nei tribunali e nelle procure dei minori ed è quindi impossibile che venga “compresso” nelle attuali sedi dei Tribunali e Procure per i minori. La soluzione adombrata di non cambiare nulla e di mantenere il nuovo Tribunale diviso fisicamente tra un pezzo negli attuali stabili dei Tribunali per i minori ed un pezzo negli spazi oggi occupati nelle sezioni famiglia dei Tribunali vuol dire semplicemente rinunciare a creare davvero un nuovo ufficio unificato. Questo riguarda sicuramente le sedi distrettuali, le uniche in cui oggi esistono i Tribunali per i minori, ma anche in larga parte delle sedi circondariali gli spazi sarebbero insufficienti: occorrerebbero nuove stanze per i magistrati che si occupano della materia (il cui numero aumenterebbe acquisendo anche la materia minorile, oggi trattata solo a livello distrettuale) e per le relative cancellerie. Anche su queste necessità buio assoluto. Quanto al personale poi c’è solo la garanzia di un esodo massiccio del personale oggi esistente. Il personale addetto ai Tribunali per i minori, in quanto perdente posto (dato che l’ufficio di provenienza cesserebbe assorbito dal nuovo Tribunale per le persone), a seguito degli accordi sindacali sulla mobilità, potrebbe chiedere di essere assegnato ovunque vi siano posti vacanti, mentre quello che attualmente è assegnato alle sezioni famiglia potrebbe scegliere se rimanere presso il Tribunale ordinario o passare al nuovo ufficio. È facile prevedere che molti, specie nel Nord Italia, coglieranno l’occasione per “tornare a casa” e che pochi sceglieranno di passare al nuovo Tribunale. Questo riguarda il personale già in servizio, una quota comunque limitata di quello che sarebbe necessario per il nuovo TPFM, i cui organici né per i nuovi Tribunali, né per le Procure sono stati neppure disegnati. Va rammentato che uno studio condotto dallo stesso Ministero della Giustizia nel 2022 individuava come necessità di personale per il nuovo TPMF 3388 unità tra le diverse aree professionali, di cui 2130 di incremento degli organici oltre a 65 nuovi Dirigenti Amministrativi. Quanto agli organici dei magistrati il Ministero ha invece partorito una proposta attualmente all’esame del C.S.M. e già oggetto di moltissime critiche. Da un lato il numero di magistrati individuato e distribuito sui vari nuovi Tribunali, quantificato in 647 unità, era inferiore di oltre un terzo rispetto a precedenti analisi dello stesso Ministero e a ricerche basate sulle sopravvenienze e sui carichi esigibili delle sezioni famiglia. Inoltre la prospettiva ha già attirato le proteste di Tribunali ordinari e Corti cui verrebbero sottratti i magistrati destinati al nuovo Tribunale, tra l’altro in una fase estremamente delicata come l’attuale tesa al raggiungimento degli obiettivi PNRR. Risulta poi stupefacente che nessun incremento di organico venga previsto per le Procure, nonostante le ben più ampie competenze (di promuovere le azioni a tutela dei minori in sede civile e di formulare pareri obbligatori in tutti i procedimenti), forse ignorando che nel settore minorile i compiti preponderanti delle Procure sono nel settore civile e non penale. Queste carenze rendono impraticabile il passaggio ai nuovi Tribunali e evidenziano l’ipocrisia della formula dell’invarianza finanziaria, si uniscono ad altre rilevantissime criticità di cui risente l’impostazione della stessa riforma come congegnata. Le criticità - Per ragioni di cieca efficienza si passa dal collegiale ad una gestione monocratica anche per procedimenti delicatissimi quali la perdita della potestà. Non solo, ma si escludono dal processo decisionale (salvo che per le adozioni e per il settore penale) i giudici onorari specializzati, la cui competenza extra giuridica risulta indispensabile per la corretta valutazione delle conseguenze delle scelte sulla vita del minore e che oggi gestiscono sotto la direzione dei magistrati togati moltissimi procedimenti. Scelte cieche perché la collegialità e la multidisciplinarietà in queste materie non è un lusso, ma un arricchimento che consente di arrivare a decisioni più ponderate e, spesso in tempi più rapidi. La creazione, poi, di una gestione mista in parte circondariale ed in parte distrettuale, crea ulteriori problemi, sovrapposizioni e passaggio del procedimento dal Tribunale circondariale alla sede distrettuale. Basti pensare a tutti i procedimenti aperti per situazioni critiche che poi sfociano in una proceduta di adozione che nati nel Tribunale circondariale passerebbero poi a quello distrettuale cambiando ovviamente magistrati e gestione. Infine è stata data anche al processo minorile una impostazione come se fosse un ordinario processo civile tra parti, dimenticando che la parte principale nel caso è un minore, spesso almeno inizialmente non rappresentato e che non può essere messo sullo stesso piano delle altre parti processuali. L’ipocrisia dell’invarianza finanziaria poi diventa eclatante: non solo nulla è previsto per l’assunzione del nuovo personale (stiamo parlando di oltre 3.000 unità, solo in parte provenienti dai vecchi uffici), ma si fa finta di ignorare che la nuova normativa comporterebbe un fortissimo aumento dei costi per il patrocinio a spese dello Stato e per le perizie. Difatti ogni parte, ivi compreso il minore, deve essere difesa seriamente e, in un territorio come quello minorile, dove domina il disagio sociale è inevitabile un forte aumento del ricorso al gratuito patrocinio. D’altro canto l’idea errata da cui parte l’ipotesi di sbarazzarsi dei giudici onorari specializzati è quella di sopperire alla loro presenza sotto il profilo tecnico con il moltiplicarsi di perizie, il cui costo in larga parte ricadrà sulle casse dello Stato. Nel frattempo è stata realizzata nel giugno 2023 senza un’adeguata preparazione e formazione una digitalizzazione di tutti gli uffici minorili che tuttora presenta problemi di funzionamento, lasciando presso che tutti gli uffici minorili nell’impossibilità anche di estrarre le statistiche dell’ufficio rendendo problematico ogni monitoraggio. A questa “simpatica” situazione derivante, va detto, a livello normativo dal precedente Governo e a livello attuativo all’attuale si sono uniti alcuni sciagurati interventi legislativi. Con il c.d. decreto Caivano (L. n. 159/2023) vengono adottate una serie di misure a contenuto preventivo e sanzionatorio a carico dei minori autori di comportamenti devianti con l’aumento delle pene per alcune fattispecie, l’estensione di interventi amministrativi, l’estensione delle ipotesi di emissioni di misure cautelari, esclude l’ammissione della messa alla prova per reati gravi (omicidio, violenza sessuale, rapina), la possibilità di trasferire il minore detenuto che abbia commesso reati quando minorenne in carceri per adulti dopo i 18 o i 21 anni. L’impostazione data per fronteggiare le c.d. baby gang e più in generale la devianza minorile è fondamentalmente repressiva e l’esito è il significativo aumento di detenuti minorenni. Ma del resto questo è l’orientamento culturale che ispira l’attuale Governo come testimonia anche la recente intervista del Presidente del Veneto Zaia che invoca un abbassamento dell’età di punibilità e l’inasprimento delle pene per i delitti compiuti da minori. A conferma che siamo una società adultocentrica che vede i minori con diffidenza e sospetto. A fronte del disagio sociale evidente in ampie fasce giovanili la risposta più semplice, ma sappiamo anche più inefficace, è la repressione ed il carcere. E di questo disinteresse è vittima anche la giustizia minorile che in questa fase sta vivendo una fase di lenta agonia. I decreti legislativi c.d. Cartabia hanno già difatti introdotto modifiche rilevanti sul rito che hanno avuto l’effetto di aumentare i carichi di lavoro per l’incremento dei provvedimenti di urgenza con termini tassativi, per l’introduzione di ulteriori udienze, per l’adozione di un processo reso più pesante e difficoltoso, per la riduzione delle ipotesi di delegabilità ai giudici onorari. Situazione che poteva essere retta solo se temporanea, mentre ora è chiaro che si protrarrà per anni. Mentre l’impossibile adozione del nuovo TPMF avrebbe significato la distruzione di un serio intervento minorile (e ancora più in tema di famiglia che sarebbe stato inevitabilmente posto in secondo piano) in modo traumatico quello che sta avvenendo con azioni diverse e plurimi responsabili, porta ad una lenta distruzione della giustizia minorile, in parte consapevole, in parte realizzata grazie a ignavia, ignoranza e disinteresse. Cosa fare - Per questo è assolutamente necessario cogliere l’occasione del rinvio non per riparlarne tra un anno in previsione di un nuovo inevitabile rinvio, ma per mettere in atto subito i necessari interventi amministrativi e modificare le norme del decreto legislativo per renderlo praticabile. In primo luogo è inevitabile evitare qualsiasi sovrapposizione con il PNRR ed i suoi obiettivi spostando la costituzione dei nuovi TPMF alla fine del 2026. In secondo luogo occorre stabilire gli organici dei nuovi Tribunali e delle relative Procure, sia quanto al personale che rispetto ai magistrati, con un limitato aumento degli organici e prevedendo per il personale un reclutamento dedicato valorizzando anche le competenze psicologiche, sociologiche ed assistenziali, dotandosi in tal modo di addetti motivati e capaci. Non si capisce per quale motivo è stato così facile prevedere un aumento di 200 magistrati per le misure cautelari collegiali, mentre è impossibile farlo per le 292 unità che uno studio del 2022 dello stesso Ministero riteneva necessarie per attuare la riforma della giustizia minorile. Aumento di organico che comunque sarebbe operativo non prima del 2028, calcolando l’attuale scopertura e il turn over fisiologico. Quindi è indispensabile trovare i locali dei nuovi Tribunali, ribadendo che devono essere, quanto meno a livello distrettuale, in Palazzi dedicati in cui assegnare tutti gli addetti e le relative cancellerie e segreterie. Questo comporta evidentemente superare l’ipocrisia e l’impraticabilità dell’invarianza finanziaria. Ma per rendere la riforma effettivamente praticabile e funzionale occorre pensare a poche e mirate modifiche dell’originario decreto legislativo che consentirebbero anche di contenere gli investimenti necessari. In primis puntare su uffici specializzati impone necessariamente di contenerne il numero. Abbiamo già l’esempio dei Tribunali di sorveglianza che vedono una struttura distrettuale con articolazioni in poche sedi. Limitare le sedi dei TPMF ai luoghi ove vi è maggiore presenza di minori e contenzioso (due o tre per distretto) consentirebbe di limitare gli interventi edilizi, di poter puntare su di una maggiore specializzazione di magistrati e personale e di realizzare economie di scala. Onde assicurare la vicinanza sul territorio si potrebbero anche prevedere udienze periodiche nelle sedi non coperte, come del resto già oggi avviene in alcuni Tribunali per i minori. In secondo luogo mantenere la collegialità e la presenza dei giudici onorari specializzati anche a livello circondariale, dotando anche le Procure di vice procuratori onorari specializzati. Il che consente anche di limitare il numero di magistrati togati necessari (è stato calcolato che per sostituire i 770 giudici onorari esperti necessiterebbero 250 giudici togati). In terzo luogo partire con un reclutamento dedicato del personale giudiziario, anche con competenze psicologiche, sociologiche ed assistenziali. Infine lanciare un grande programma di formazione che investa su magistrati, esperti, personale, avvocati, servizi sociali per puntare e diffondere la specializzazione e per evidenziare l’intervento nel settore come priorità per lo Stato che faccia diventare anche Tribunali, Procure e servizi luoghi ambiti e d’eccellenza. Altrimenti non solo marceremo speditamente verso l’ennesima riforma fallita in partenza, ma condanneremo gli attuali Tribunali per i minori all’asfissia, dando l’ennesima conferma che alla nostra società adultocentrica ed ipocrita dei giovani non interessa nessuno. Giovani che anche quando devianti e vittima del disagio sociale sono i nostri figli ed il futuro della nostra società. *Ex Presidente della Corte d’appello di Brescia La giusta strada del ddl Nordio, spiegata a chi non la vuole capire di Enrico Costa* Il Foglio, 12 luglio 2024 Lentezza dei processi e spettacolarizzazione mediatica determinano una torsione tutta italiana: così la riforma tenta di correggere un sistema che punisce anche gli innocenti. L’elemento centrale intorno a cui ruota tutto il sistema della giustizia è il tempo. Giorni, mesi, o anni fanno un enorme differenza per chi deve rispondere di un reato e difendersi, per chi è persona offesa, per chi svolge le indagini e dispone le accuse, per la stampa che racconta i fatti, per il cittadino che si informa. In un paese ideale le indagini sono coperte dal più assoluto riserbo, il processo pubblico si svolge a ridosso delle indagini, la sentenza definitiva giunge rapidamente, la stampa si interessa al dibattimento ben più che alle indagini e, nell’illustrare le accuse, tiene sempre conto della presunzione di innocenza. Così una persona che viene indagata e ne esce da innocente non subisce nessuna cicatrice indelebile per il sol fatto di essere entrata nel frullatore giudiziario. Nel nostro Paese accade tutto il contrario, perché il tempo tra le indagini e la sentenza definitiva è illimitato. E questo determina una torsione del sistema: poiché la sentenza definitiva arriverà dopo anni e anni i riflettori si accendono sulle indagini, vero perno del procedimento in luogo del dibattimento. Niente riserbo istruttorio, ma esibizione mediatica degli atti, perché non c’è tempo di aspettare Tribunale Appello o Cassazione, la stampa ha fame di notizie per riempire la pancia dei lettori, le procure usano i media per creare un legame con l’opinione pubblica che metta il giudice in posizione di debolezza, la politica sfrutta le indagini a proprio uso e consumo. Con il risultato che anche una assoluzione dopo anni lascia intatta la ferita subita con il processo mediatico, ed ogni errore giudiziario viene sanato dal trascorrere del tempo, e chi ha sbagliato non è mai chiamato a rispondere. Direte, cosa c’entra questa premessa con il ddl Nordio? C’entra eccome perché faticosamente, tra un’infinità di deroghe, questa legge prova a invertire la rotta. Non è risolutiva, non è organica, riguarda norme isolate, ma lo sforzo va riconosciuto. L’abuso d’ufficio è il classico reato per favorire la scorciatoia giudiziaria nel colpire l’avversario di turno. Mandi una delibera in procura e il gioco è fatto: i Pm sono costretti ad aprire un fascicolo, a mandare la finanza in comune ad iscrivere il sindaco tra gli indagati. Dopo anni ci sarà l’archiviazione o l’assoluzione, ma intanto l’interessato è azzoppato, sputtanato, infangato. Solo lo zero virgola cinque per cento dei fascicoli si traduce in condanna definitiva. Il combinato disposto vaghezza della norma-tempo eterno del procedimento è letale. L’interrogatorio prima dell’arresto, anche qui con tante deroghe, è norma sacrosanta, per provare a limitare le ingiuste detenzioni. L’indagato potrebbe chiarire e scongiurare un errore giudiziario. Oggi deve essere interrogato dopo tre o quattro giorni di carcere e anche se chiarisce e viene immediatamente scarcerato, quella cicatrice, dall’aver varcato la soglia della prigione, non si rimargina mai più. Stesso obiettivo per il giudice collegiale per gli arresti. Di fronte allo strapotere mediatico dei pm, meglio un Gip solitario o tre persone? Non dimentichiamo che non di rado l’ordinanza di arresto è di centinaia di pagine che vengono poi sbattute sui giornali. Un controllo puntuale e collegiale di sicuro va nella giusta direzione. Del tema delle intercettazioni ci sarebbe da scrivere molto. Il ddl Nordio si occupa dei terzi non indagati, troppo spesso infilati nel frullatore con l’obiettivo di condire il profilo mediatico delle indagini. È un primo passo, anche se molto limitato. Infine l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. L’art. 533 del codice di procedura che ha come titolo “condanna dell’imputato”, prevede che “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il codice stabilisce inoltre che il pm per mandare una persona a processo deve porsi una domanda: “C’è ragionevole probabilità di condanna?”. Ebbene se l’imputato viene assolto in primo grado significa che il pm ha sbagliato la prognosi e non ci sono più margini per dichiarare una colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. *Deputato di Azione Ddl Nordio: il Medioevo del diritto di Lirio Abbate La Repubblica, 12 luglio 2024 C’è impunità per i reati dei colletti bianchi mentre si preme sulla tolleranza zero per i ladruncoli. L’abolizione del reato di abuso d’ufficio come ha voluto il ministro della Giustizia Carlo Nordio - che si prepara a mettere all’incasso altre riduzioni legislative che riguardano strumenti utili a contrastare non solo la criminalità organizzata ma anche i reati contro la pubblica amministrazione e in particolare la corruzione - ci porta a una doppia visione della legge, e di conseguenza all’affermazione che la giustizia non è più uguale per tutti. Perché per i cittadini comuni che commettono reato è prevista una tolleranza zero, mentre una sorta di impunità, per legge, spetta per i reati rivolti - fino a ieri - agli “eccellenti” o ancor meglio ai “colletti bianchi”, che non potranno più essere processati o indagati per abuso d’ufficio. E cioè quando il “pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio”, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero arreca un danno ingiusto. Sono tanti i casi che ruotano attorno alla gestione pubblica del denaro, o ancora nel pilotare un concorso pubblico favorendo uno o più candidati, penalizzando gli altri oppure abusando del proprio ruolo. Abolendo questo reato si crea una voragine dentro la quale finiscono tutti quelli che vogliono essere salvati da errori e favori che hanno fatto a discapito di una intera comunità. Il doppio binario che si è creato potrebbe essere definito come un medioevo del diritto perché vengono cancellati dai registri dei tribunali o delle procure, con un solo tratto di penna, circa quattromila posizioni di personaggi pubblici accusati di aver procurato un danno alla cittadinanza, a tutte le persone comuni che pagano le tasse e, alla luce di questo disegno di legge voluto da Nordio, vengono sistemati su piani diversi, su gradini più bassi rispetto a chi gestisce o amministra la pubblica amministrazione. C’è quindi impunità per i reati dei colletti bianchi mentre si preme sulla tolleranza zero per i ladruncoli. Lo scippo di strada diventa più grave dello scippo silenzioso di un diritto pubblico o di somme pubbliche destinate a chi non ne aveva diritto, e con una martellante manipolazione propagandistica si finisce con il sentire diffuso, spinto da questa maggioranza parlamentare, che ormai la tangente non deve creare più scandalo, piuttosto si attacca chi fa o conduce l’indagine. E quindi si pensa a ridurre le intercettazioni, a modificare gli strumenti legislativi o ad eliminarli, e alla fine tutto questo spunta le armi alla magistratura che fino adesso ha lavorato con gli attrezzi giusti per portare davanti ai giudici chi è stato corrotto o ha distratto somme da fondi pubblici. Guardando l’attuale composizione della popolazione carceraria (oltre 61mila detenuti di cui circa 20mila stranieri), questa rappresenta l’interfaccia del funzionamento del sistema giudiziario, la cartina di tornasole degli esiti concreti dell’esercizio della giurisdizione penale. Ebbene, la popolazione carceraria è costituita in massima parte da persone con basso livello di scolarizzazione. Ci sono ladri, ricettatori, assassini, esponenti dell’ala militare delle organizzazioni criminali e poi un’elevatissima quota di immigrati, di tossicodipendenti e spacciatori. La quota di colletti bianchi e quindi di detenuti legati ai reati contro la pubblica amministrazione è tendente a poche unità. In tutto questo gli istituti di pena sono al collasso, sovraffollati, con pochi agenti di polizia penitenziaria. Il mondo delle carceri è in grande crisi, perché quella dei suicidi è una conta drammatica, diventata giorno dopo giorno un’emergenza alla quale occorre porre subito rimedio attraverso provvedimenti immediati. Tutto ciò però non viene risolto dallo sconto di pena che il Guardasigilli ha concesso, seppur criticandolo, con un decreto carceri che di fatto è vacante. Cancellare adesso per legge il processo per quattromila colletti bianchi equivale ad una amnistia, che però è mascherata. Perché al ministro Nordio questo termine non piace, se dovesse essere rivolto ai criminali comuni, perché ritiene che l’amnistia sia “una resa dello Stato”. E i suicidi in carcere di detenuti e agenti cosa sono se non una sconfitta per lo Stato? Intanto dentro, fra celle sovraffollate e istituti di pena surriscaldati anche dalle alte temperature estive, prosegue purtroppo la vita assiepata dei reclusi comuni, mentre fuori si vedono creare questo doppio binario per gli indagati “eccellenti” o meglio ancora il medioevo del diritto varato in via Arenula. Abuso d’ufficio, è scontro tra l’Anm e la maggioranza di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 12 luglio 2024 L’ok al ddl Nordio non placa le polemiche. Le toghe: “È amnistia”. Forza Italia: “Idee conservatrici”. Non si placano le polemiche dopo l’approvazione definitiva del ddl Nordio. Ed è scontro frontale soprattutto tra maggioranza e magistratura. Infatti l’Anm ha fatto sentire in più sedi la propria voce, con il presidente Giuseppe Santalucia: “Da oggi tutti coloro che sono stati condannati per abuso d’ufficio si rivolgeranno al giudice per chiedere l’eliminazione della condanna. È una piccola amnistia per i pubblici ufficiali: avremo 3-4mila persone, o forse di più, che chiederanno la revoca della condanna, una piccola amnistia per i colletti bianchi”, concludendo che “tre giorni fa un decreto legge ha messo una pezza reintroducendo una vecchia norma che in qualche modo punisce una sottospecie di abuso d’ufficio (il peculato per distrazione, ndr), il che significa che anche il governo e la maggioranza politica si sono resi conto” della lacuna e “credo che si renderanno conto di altre falle che hanno aperto nel sistema”. Gli hanno replicato soprattutto esponenti di Forza Italia, contro i quali poi si giocherà la durissima battaglia sulla separazione delle carriere che hanno intestato al leader scomparso Silvio Berlusconi. Per il senatore e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a palazzo Madama, Pierantonio Zanettin “il reato di abuso d’ufficio era a condotta evanescente, con un limite tra lecito e illecito sfumato e sostanzialmente rimesso al magistrato. Di fronte a situazioni in chiaroscuro, il pubblico amministratore, quindi, evitava di prendere decisioni. Questo certamente ora sarà evitato. I 3.000 condannati di cui parla Santalucia, paventando una sorta di amnistia mascherata, in realtà sono suddivisi in 30 anni, quindi sono 10 all’anno. Stiamo veramente creando una tempesta in un bicchier d’acqua. Se il 94 per cento dei processi finisce con l’assoluzione, tanto vale che i processi non inizino neanche”. Poi è arrivato il vice ministro Francesco Paolo Sisto: “Io ho molto rispetto delle opinioni dell’Associazione nazionale magistrati, che però trovo a volte eccessivamente conservatrici. Non bisogna avere paura delle riforme. Anzi, bisogna avere il coraggio di cambiare, tutti insieme, nel rispetto dei ruoli, sempre nell’interesse dei cittadini. Penso, ad esempio, alle critiche sulla previsione che siano tre giudici a decidere sulla custodia cautelare carceraria. Che sia un collegio a decidere su una misura così grave a me sembra una garanzia perfettamente sintonizzata al principio costituzionale della inviolabilità della libertà personale”. Secondo il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti, “la riforma della giustizia è un cambiamento storico per l’Italia e restituirà meritata fiducia a tutto il sistema giudiziario nazionale. Quello voluto dal ministro Nordio è un provvedimento coerente e solido che costituisce una vera e propria svolta culturale e di civiltà, a tutela di un garantismo senza più storture ma che, allo stesso tempo, assicuri l’applicazione certa della pena. Questa legge si inserisce proprio nell’ottica riformista che caratterizza il governo Meloni, facendo da apripista ad ulteriori riforme fondamentali per allineare alle nuove esigenze il nostro ordinamento giuridico, rendendolo così più efficace ed efficiente”. “Abolire il reato di abuso d’ufficio rappresenta un passo avanti per la giustizia italiana - ha dichiarato ancora la senatrice di Iv Raffaela Paita - e per l’efficienza delle amministrazioni pubbliche fino a oggi troppo spesso ingessate dalla cosiddetta paura della firma. Non è un caso che questa notizia sia stata salutata con favore dalla gran parte dei sindaci italiani, indipendentemente dalla loro appartenenza politica”. Di lettura opposta Francesco Silvestri, capogruppo M5S alla Camera: “Il governo Meloni indebolisce i presidi anti corruzione nel momento di massimo spesa del Paese. Il disegno è chiaro: favorire i colletti bianchi e garantire l’impunità di una certa politica. Nel provvedimento di Nordio, infatti, non c’è nulla sulla velocizzazione dei processi e sull’incremento delle risorse per la Magistratura, niente che riguardi i cittadini. Ricordo inoltre che, a evidenziare la volontà di non creare imbarazzi alla politica”. Critica anche l’associazione Libera di don Ciotti: “Inquietante, segna un pericoloso indebolimento dei presidi di legalità nella lotta alle mafie e corruzione faticosamente istituiti nell’arco dell’ultimo decennio. È chiaro che le politiche del governo e della maggioranza che lo sostiene stanno producendo ‘scientificamente’ condizioni più propizie per una pratica indisturbata, impunita ed estremamente profittevole di svariate forme di ‘abusi di potere per fini privati’, ben presto non più perseguibili come reati dalla magistratura, né segnalabili come tali dalla stampa, e perciò non più riconoscibili dall’opinione pubblica”. Intanto AreaDg, l’associazione che riunisce le toghe progressiste, ha già organizzato per il 27 settembre l’incontro “Peculato, traffico di influenze e abuso d’ufficio: ancora novità in materia di Pa”. Un’occasione per fare il punto e ripercorrere le maggiori criticità dei nuovi provvedimenti. All’incontro, parteciperanno il prof. Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale, e i magistrati Chiara Valori, Roberto Bulgarini Nomi, Vincenzo Giordano, Graziella Viscomi e Costantino De Robbio. Santalucia (Anm): “Il Ddl Nordio? Un colpo di spugna per 4mila condannati” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 12 luglio 2024 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati: sulla separazione delle carriere non escludiamo lo sciopero. “L’abrogazione di una norma incriminatrice crea inevitabilmente un vuoto e determina una situazione di impunità”. Scuote lentamente la testa, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia. Più che rassegnato, il tono pare quello di chi ha maturato, a quarantott’ore dal voto della Camera, l’amara consapevolezza del fatto che ormai, con l’approvazione definitiva del disegno di legge Nordio, la controversa cancellazione del reato di abuso d’ufficio sia divenuta realtà. Presidente, potrebbe davvero essere un colpo di spugna, come alcuni ipotizzano? La norma da oggi non c’è più. Ma c’erano le condanne passate in giudicato, che in un prossimo futuro saranno presumibilmente revocate, dopo le richieste dei condannati al giudice. Quante condanne? Fra tremila e quattromila, è stato calcolato, forse di più. Se non vogliamo chiamarlo colpo di spugna, definiamola una mini-amnistia chirurgica per i colletti bianchi. Nei fatti, agirà come un provvedimento di clemenza. Cosa peraltro paradossale, in un Paese in cui - perfino adesso che le carceri scoppiano di nuovo - indulto e amnistia sono sempre stati un tema tabù, arduo anche solo da menzionare. Più che paradossale, sarebbe beffarda, visto che proprio riguardo alla situazione esplosiva delle carceri - sovraffollamento, tensioni, suicidi che aumentano - è stato varato un decreto legge dalle ricadute ancora incerte e forse poco incisive. Lei come lo valuta? Mi sembra d’aver capito che il governo non ami la dicitura “svuota-carceri”. E, del resto, non mi pare che quel provvedimento lo sia. Noi non ci permettiamo di suggerire al governo cosa fare, ma una soluzione deve arrivare e presto: servono misure efficaci nel brevissimo tempo per decongestionare i penitenziari sovraffollati e alleviare lo stato di sofferenza, sia dei detenuti che del personale che vi lavora. Torniamo all’abuso d’ufficio. Non sarà un passo del gambero? In 25 Stati europei, il reato d’abuso d’ufficio c’è ancora. E una direttiva Ue anti corruzione potrebbe renderne necessaria, per coerenza normativa, la reintroduzione... L’abbiamo segnalato ripetutamente, quando siamo stati auditi in Parlamento: c’è un problema di compatibilità con gli obblighi internazionali. E la prova provata l’abbiamo avuta giorni fa, sempre col decreto legge sulle carceri, visto che l’esecutivo ha reintrodotto una fattispecie penale legata all’abuso d’ufficio, il peculato per distrazione, cancellata nel 1990. E l’ha fatto richiamando espressamente quegli obblighi eurounitari, a conferma del fatto che la maggioranza di governo si sia resa conto di aver operato una scelta infelice e abbia provato a mettere una pezza. Il Guardasigilli s’indigna se sente parlare di “reato spia” della corruzione. E lei? Non intendo far indignare il ministro ancora una volta (sorride, ndr). Ma ribadisco che, se un pubblico ufficiale commette un abuso, non è da escludere che quel comportamento sia connesso a qualcosa di più grave (un passaggio di denaro, una tangente, ad esempio) suggerendo l’opportunità di approfondimenti. Pertanto, non è una “aberrazione” parlare di “reato spia”. O meglio, non lo era, visto che, dopo la cancellazione della fattispecie dal codice penale, quel faro non potrà più accendersi. E la “gogna mediatico-giudiziaria” per gli indagati? Sindaci e amministratori locali per anni si sono lamentati del rischio a cui una semplice firma poteva esporli... Mah. Dico solo che il dibattito pubblico sulla cosiddetta “paura della firma” poteva avere un senso prima della riforma del 2020, quando la fattispecie dell’abuso d’ufficio è stata talmente ristretta da rendere quei timori irragionevoli. Dopo, è diventato superato. E tuttavia, facendo leva su quelle argomentazioni datate, si è andati ad abrogare quel poco della norma incriminatrice che era rimasto. Una risposta che trovo francamente irrazionale. Entro l’anno potrebbe arrivare una annunciata stretta sulle intercettazioni. Che idea se n’è fatto? Ritengo sensato che si debba dare conto, quando si proroga l’intercettazione. Ma credo sia poco accorto stabilire un tetto massimo. Sarebbe una norma astratta e poco felice, quella che non dovesse considerare le concrete necessità investigative. Non ha senso porre un limite insuperabile: su ogni indagine, in concreto, va valutato se ci sia necessità di prorogare. Spegnere l’ascolto solo per rispettare un limite astratto, non mi sembra una soluzione avveduta, perché non concilia l’esigenza di dare effettività all’accertamento dei reati con l’esigenza di tutelare i diritti. Rispetto al ddl Nordio, invece, fra le novità c’è l’interrogatorio preventivo, in stato di libertà, per l’indagato. Cosa ne pensa? In altri ordinamenti esiste, ma è accompagnato da misure pre-cautelari di fermo: ti restringo la libertà personale in maniera provvisoria per due o tre giorni, dando al tribunale il tempo per decidere. Nel nostro sistema era previsto solo per misure interdittive. Nella nuova formulazione, mi pare singolare che il soggetto da interrogare - su cui pende una richiesta di custodia in carcere - resti a piede libero: si presenta dal giudice, viene interrogato e nei cinque giorni successivi il magistrato deciderà. Laddove non esisteva, il pericolo di fuga si creerà in quel momento. Credo che la misura non reggerà. E non mi stupirei se, al primo caso di interrogatorio preventivo con soggetto che si darà alla fuga, il legislatore decidesse di cambiare le norme. Purtroppo, in materia di giustizia, in questo Paese da decenni si susseguono riforme e controriforme partigiane e di segno opposto, senza una prospettiva perlomeno a medio termine. Ciò, insieme alla carenza di personale amministrativo e di cancelleria, sta rendendo sempre più difficile il compito di noi magistrati. Gran parte del lavoro dei giudici ormai è assorbito dal dover interpretare norme che si susseguono, affermando ora una cosa ora l’altra, per cercare di trovare fra queste una difficile coerenza. Qualche esempio? Ancora debbono essere attuate ampie parti della riforma Cartabia, che già l’attuale maggioranza ipotizza di controriformarla. E cosa dire dell’istituto della prescrizione? Oggi ci sono contrasti in Cassazione sulla ricostruzione di un sistema che, negli ultimi 5-6 anni, è stato modificato a ripetizione: prima con la legge Orlando, poi con quella Bonafede, quindi con la Cartabia e ora probabilmente verrà cambiato ancora. Una frenesia normativa che ci impone un lavoro interpretativo enorme. Eppure il legislatore continua imperterrito, disinteressandosi delle ricadute organizzative di una normazione contraddittoria, che intasa il sistema e confonde i cittadini. Veniamo alla “madre di tutte le riforme”, la separazione fra le carriere di giudice e pm. Voi la criticate severamente. L’opzione di un dialogo col governo è ormai superata? Per noi no. Parleremo in tutte le sedi possibili, non solo alle forze politiche e soprattutto all’opinione pubblica, perché -trattandosi di legge costituzionale - si potrebbe andare verso il referendum. Cosa farete fino ad allora? Una mobilitazione permanente? Ci si accusa di voler bloccare soluzioni normative. Non è vero: la nostra è e sarà una mobilitazione culturale per informare i cittadini sulle ragioni della nostra contrarietà, che non hanno nulla di corporativo, perché alterare il meccanismo disegnato in Costituzione creerà squilibri difficili da rimettere in sesto. L’ipotesi di uno sciopero delle toghe è esclusa? Vediamo quale percorso avrà la legge in Parlamento. Ma se alla fine dovesse essere necessario anche un segnale forte, come quello dello sciopero, non ci tireremo indietro Gian Luigi Gatta: “Senza l’abuso d’ufficio cittadini meno tutelati. Rischi di infrazione Ue” di Giulia Merlo Il Dubbio, 12 luglio 2024 Il professore spiega la toppa del nuovo reato di peculato per distrazione. “L’ipotesi di incostituzionalità dell’abrogazione non è ancora esclusa”. In un trucco da illusionista, il guardasigilli Carlo Nordio ha da un lato abrogato l’abuso d’ufficio, dall’altro lo ha parzialmente reintrodotto con il peculato per distrazione. Con un obiettivo: evitare la procedura di infrazione Ue. Segno che anche il governo ha ben chiari i rischi di incostituzionalità. “L’abuso d’ufficio è reato in tutti i paesi europei tranne da noi, ora”, e “il vuoto di tutela per i cittadini nei confronti dei pubblici funzionari infedeli è evidente”, spiega Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale presso l’università di Milano e già consigliere giuridico della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Professore, come valuta l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio? Il giudizio non può che essere negativo. Se è vero che si tratta di un reato che da sempre ha mostrato criticità legate all’ampiezza della sua applicazione, è altrettanto vero che il governo - anziché provare a circoscriverlo meglio - ha usato l’ascia. E questo taglio crea dei vuoti di tutela evidenti. Cancellando il reato, cosa rimane senza tutela? Non saranno più punibili almeno tre condotte di malaffare nella pubblica amministrazione. L’abuso di vantaggio, che prevede la strumentalizzazione del potere da parte del pubblico ufficiale per fini personali. Il più odioso abuso di danno, nel caso di un pubblico ufficiale che abusi del suo potere per provocare un danno ingiusto a un cittadino. Ma soprattutto l’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, che di fatto era una tutela rispetto al conflitto di interessi. È intollerabile rinunciare a un presidio penale davanti ad abusi di questo tipo, che sono pure sopraffazioni nei confronti dei cittadini. Esiste un rischio di incostituzionalità dell’abrogazione? La convenzione di Merida e la proposta di direttiva in discussione al parlamento europeo invitano gli Stati a punire l’abuso d’ufficio. Infatti, il reato esiste pressoché ovunque in Europa. L’argomento formale utilizzato dal ministro Nordio è che la direttiva di Merida non introduce un obbligo di incriminazione, ma fissa un impegno a farlo. Il punto è che, anche senza un obbligo, l’impegno esiste e in questo modo viene disatteso. Ma anche il governo si è accorto dei rischi su scala europea, visto che ha inserito in fretta e furia nel decreto legge sul carcere il reato di peculato per distrazione. Il ministro ha sostenuto che non c’è alcuna correlazione tra i due... È un po’ tecnico, ma esiste la prova provata che ci sia, invece. Nell’articolo 322bis del codice penale, per estendere il reato ai fatti commessi contro gli interessi dell’Ue, si faceva esplicito riferimento all’abuso d’ufficio, citando l’articolo 323. E lo si faceva proprio per attuare una direttiva europea. Ora che l’art. 323 è stato abrogato, il riferimento è stato sostituito dal governo, guarda caso, con quello all’articolo 314bis, ovvero appunto il peculato per distrazione. Quindi questa norma prende il posto dell’abuso d’ufficio. Nessun giurista può sostenere il contrario. È un fatto. Questa aggiunta risolve i problemi di costituzionalità dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio? No, mette solo una toppa al problema più evidente. L’Italia è formalmente obbligata al rispetto della direttiva Pif del 2017, che impone l’esistenza del reato di appropriazione e distrazione di denaro e altri beni, a danno degli interessi finanziari dell’Ue. Questa condotta, dopo la riforma del peculato del 1990, rientrava nell’abuso d’ufficio. Abrogato quest’ultimo, era necessario introdurre una fattispecie che punisse almeno i comportamenti previsti come reato dalla direttiva Ue: di qui il nuovo peculato per distrazione infilato in fretta e furia nel decreto Carcere. Il rischio di una procedura di infrazione europea o di una questione di legittimità costituzionale non è comunque scongiurato. Perché? Innanzitutto perché la direttiva europea prevede che vengano punite anche le persone giuridiche, invece il peculato per distrazione si limita a quelle fisiche. Poi la direttiva prevede che la pena massima non sia inferiore a quattro anni, mentre se ne è prevista una massima di tre. Ancora: il reato si limita a considerare la distrazione di denaro o altra cosa mobile, invece la direttiva prevede anche gli immobili. È il caso di un funzionario pubblico che ha la disponibilità di un ufficio e lo usa per fini diversi: ora non è punibile. In sede di conversione il parlamento dovrebbe correggere almeno questi difetti macroscopici. Cosa succede, intanto, ai procedimenti pendenti? L’introduzione del peculato per distrazione con un decreto già in vigore creerà una sfasatura temporale: prima della pubblicazione in Gazzetta della legge Nordio, nei processi in corso per abuso d’ufficio, il giudice dovrà valutare se i fatti rientrano nel peculato per distrazione e applicare la pena più favorevole. Ammesso che il testo venga convertito senza modifiche in 60 giorni. Per questo introdurre reati per decreto legge è esattamente quello che non si deve fare. Quando poi la legge che abroga l’abuso sarà promulgata, potranno essere revocate le oltre 3.600 condanne già passate in giudicato dal 1997 al 2022, a meno che non sia configurabile un altro reato. Inoltre si genererà un paradosso irragionevole: è ancora reato il fatto meno grave di omissione o ritardo di atti d’ufficio. Il pubblico ufficiale che omette o ritarda un atto è punito, quello che abusa no. Per il centrodestra i pm hanno abusato di questo reato, provocando clamore mediatico e poche condanne. C’è del vero? Le rispondo che, paradossalmente, abolire l’abuso d’ufficio è un favore ai magistrati, che sono spesso indagati per questo reato visto che un cittadino che si vede dare torto non di rado denuncia il giudice. L’autocritica che la magistratura può fare è di aver fatto poco filtro, aprendo troppi procedimenti con questa ipotesi di reato: forse molti non avrebbero nemmeno dovuto iniziare. Va detto che la riforma Cartabia proprio per questo ha stretto le maglie dei rinvii a giudizio, esigendo una ragionevole previsione di condanna. Si sarebbe potuto aspettare e vedere gli effetti di questa riforma. Anche perché si sa che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Busia: “La riforma Nordio farà male al Pil. Senza abuso d’ufficio cittadini più sfiduciati” di Grazia Longo La Stampa, 12 luglio 2024 Il presidente dell’Anticorruzione: “Così si creano vuoti normativi Rischiamo di ritrovarci davanti a casi di incomprensibili impunità”. Sono molti i dubbi e le perplessità di Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac in sigla). Sull’abolizione dell’abuso d’ufficio “non voglio entrare nel dibattito politico. Ricordo solo che in generale dai presidi anticorruzione dipende anche la crescita economica e lo stesso conseguimento degli obiettivi Pnrr: occorre garantire trasparenza e imparzialità dell’amministrazione per evitare che venga meno la fiducia dei cittadini nelle istituzioni”. Che cosa non la convince della nuova legge? “Lascia un vuoto, anzi una serie di vuoti. Viene meno la tutela penale in numerosi casi in cui un amministratore o un pubblico ufficiale invece di astenersi, agisce in conflitto di interessi. Oppure, pur non ricevendo in cambio una tangente, abusa del suo potere per favorire qualcuno o svantaggiare qualcun altro. Si tratta anche di comportamenti odiosi, come quelli del funzionario che nega il permesso a costruire al suo vicino di casa, solo perché ha litigato con lui o perché gli è antipatico. Si pensi ancora ad un concorso, nel quale un commissario favorisce il candidato suo amico: anche se non riceve nulla in cambio, danneggia comunque i candidati più capaci e mina la credibilità della sua istituzione”. Mi sembra di capire che vi sono altri esempi... “In altri casi, si avranno effetti paradossali: mentre se un funzionario scrive un bando di appalto ritagliandolo sull’impresa amica, potrà essere condannato per turbata libertà degli incanti; lo stesso funzionario che assegni direttamente il contratto alla medesima impresa, senza neanche preoccuparsi di pubblicare il bando, non sarà punibile. È poi possibile che, di fronte a tale disparità di trattamento, qualche magistrato contesterà comunque la turbativa d’asta, magari per sottoporre poi la questione davanti alla Corte costituzionale, per la sua evidente irragionevolezza”. Quindi, aumenterà la confusione a dispetto di chi diceva di voler superare la paura della firma? “Purtroppo, a fronte di una riforma che mirava al condivisibile obiettivo di evitare ambiguità normativa, fondamentale soprattutto in diritto penale, rischiamo di ritrovarci davanti a casi di incomprensibili impunità o a comportamenti altalenanti della giurisprudenza, con nuove incertezze e ambiguità”. Il peculato per distrazione basterà a sostituire l’abuso d’ufficio? “No, viene recuperata solo una vecchia fattispecie di reato che in parte era confluita nell’abuso d’ufficio, ma i vuoti a cui accennavo prima restano tutti, dal conflitto d’interessi all’abuso in danno di qualcuno”. Secondo lei d’ora in avanti con l’istituzione del collegio dei tre giudici il sistema di custodia cautelare preventivo rischia la paralisi? “Il pericolo esiste. Naturalmente, se a decidere sulla libertà personale sono tre giudici invece che uno, le garanzie sono maggiori e quindi la riforma astrattamente è più che condivisibile. Ma come si ovvierà al problema degli uffici giudiziari più piccoli che hanno problemi di organico? Tanto più che, se un giudice decida sull’arresto, non po’ poi intervenire sulle fasi processuali successive, moltiplicando le incompatibilità e l’esigenza di più magistrati”. In quali ambiti si ravvisa maggiormente la corruzione? “Certamente una delle attività a maggiore rischio è quella dei contratti pubblici, che invece sono una leva fondamentale per garantire crescita e sviluppo. Anche per questo, stiamo lavorando alla digitalizzazione dell’intero ciclo degli affidamenti, in modo che, da un lato, le procedure vengano semplificate e velocizzate, sia per le stazioni appaltanti che per le imprese. E, dall’altro, aumenti la trasparenza, la controllabilità ed anche la concorrenza, a tutto vantaggio del buon utilizzo delle risorse pubbliche”. Prima della legge Nordio il traffico di influenze metteva dei paletti all’attività lobbistica. Ora che cosa potrebbe succedere? “Anche tale reato è stato molto circoscritto, non solo perché non scatterà più nel caso in cui la mediazione illecita sia remunerata con utilità non economiche, ma soprattutto perché si richiede che il comportamento che ne è alla base sia finalizzato a commettere un altro reato. Tuttavia, il reato tipico al quale puntava il traffico di influenze era proprio l’abuso d’ufficio. Essendo quest’ultimo abrogato, viene meno anche il primo nel suo caso più frequente: quello in cui, appunto, mirava a far commettere un abuso da parte di un pubblico ufficiale.”. Quindi i portatori di interessi avranno più facilità ad influenzare le decisioni pubbliche? “In realtà, parte dell’ambiguità che la riforma ambiva a ridurre, deriva anche dal fatto che, nonostante i tanti solleciti internazionali, in Italia non esiste una normativa sulle lobby, che consenta quindi di capire quando le influenze sono lecite. Oggi abbiamo quindi ancor di più bisogno di una legge che renda finalmente trasparente l’attività dei portatori di interessi. Ciò, ovviamente vietando che la lobby remuneri, direttamente o indirettamente, il decisore pubblico”. Carriere separate, ora Forza Italia dà le carte: si parte a settembre di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 12 luglio 2024 La commissione Affari costituzionali della Camera scalda i motori sulla “madre” di tutte le riforme. Audizioni dalla prossima settimana. La macchina della separazione delle carriere si è messa in moto, ma per aver un buon abbrivio dovrà ancora attendere un po’. Quello che è certo, è che l’approvazione del ddl Nordio sull’abuso d’ufficio e sulle intercettazioni, col voto favorevole dei centristi dell’opposizione, ha dato al percorso della “madre” di tutte le riforme della giustizia nuova linfa. Se si considerano le dichiarazioni fatte in aula a Montecitorio dagli esponenti di Iv, Azione e +Europa, si può ragionevolmente prevedere che da parte loro ci sarà un sostegno anche al testo sul nuovo Csm, e il ministro Carlo Nordio è stato attento a non lasciare cadere nel nulla un segnale politico di grande importanza. Quanto all’iter vero e proprio, oggi in commissione Affari costituzionali della Camera, dove il testo è planato dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri, sono stati fatti dei passi avanti significativi, perché sono state incardinate le audizioni, che avranno inizio la prossima settimana. Per guadagnare del tempo, alcune audizioni che sono già state svolte per le proposte di iniziativa parlamentare depositate dall’inizio della legislatura sono state ritenute valide e quindi non saranno ripetute. Martedì prossimo, verosimilmente, il relatore azzurro Nazario Pagano illustrerà in breve i contenuti del ddl, prima di comunicare il calendario delle prime audizioni. Stando a quanto filtra dalla commissione, le audizioni andranno avanti almeno fino alla pausa estiva, e se la tabella di marcia sarà rispettata si dovrebbe entrare nel vivo dell’esame del provvedimento a settembre inoltrato. Un esame che sarà condotto, almeno per la prima lettura, da Forza Italia perché, contrariamente a quanto chiesto da alcuni deputati della Seconda commissione, ormai è pressoché certo che non vi sarà la “congiunta” Affari costituzionali-Giustizia. Fratelli d’Italia (che presiede la commissione Giustizia con Ciro Maschio), infatti, non ha insistito nel sostenere le richieste - tra gli altri - del deputato di Azione Enrico Costa, di procedere congiuntamente. D’altra parte, quando il testo passerà a Palazzo Madama, la situazione sarà riequilibrata dal fatto che, secondo lo stesso principio, l’esame del ddl sarà condotto dal senatore di FdI Alberto Balboni, presidente della Affari costituzionali. In quel caso, però, la richiesta della congiunta potrebbe essere avanzata dalla Lega, che esprime con Giulia Bongiorno la presidenza della commissione Giustizia. La concordia tra i partiti di maggioranza su come procedere nell’iter del ddl costituzionale, sarà un fattore determinante per il suo avanzamento, perché è probabile che nei prossimi mesi vi siano degli incroci con l’altra grande riforma in cantiere, e cioè col ddl Casellati sull’elezione diretta del premier, che è stato appena approvato in prima lettura al Senato e dovrà ora approdare nella stessa commissione in cui è incardinato ora il Nordio. Dalla capacità di “incastrare” le sedute nel modo più efficace possibile e di gestire il traffico dei decreti in scadenza da parte dei presidenti - al netto del certo ostruzionismo delle opposizioni, dipenderà il futuro della riforma. Intanto, tra i nomi fatti da Forza Italia per questo nuovo giro di audizioni e che sono stati inseriti nella lista, ci sono, oltre a quello già fissato del costituzionalista Giovanni Guzzetta, il procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione Alfredo Viola e il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Ancona, Roberto Rossi. Sul fronte politico, dopo i ringraziamenti del Guardasigilli all’ex-Terzo Polo, in casa azzurra serpeggia un sostenuto ottimismo riguardo alle chance di portare a casa la separazione delle carriere. “Abbiamo mantenuto l’impegno”, ha dichiarato il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, “assunto in campagna elettorale, di dare il via a interventi sulla giustizia tesi a garantire l’efficienza del sistema, senza mai penalizzare le garanzie. “Il testo è appena giunto nelle mani di Nazario Pagano”, ha aggiunto, “capace presidente della prima Commissione Affari costituzionali alla Camera, e presto sarà posto all’ordine del giorno e trattato. I tempi saranno quelli necessari”, ha concluso, “perché questa legislatura sia, finalmente, quella giusta”. Da Washington, dove presenziava al vertice Nato, il segretario del partito Antonio Tajani ha affermato che “ora è importante procedere con la separazione delle carriere, che non è una scelta contro i magistrati ma che piuttosto ne esalta il ruolo”. A spingere la riforma non c’è solo Forza Italia, nel centrodestra: per il responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, “le riforme sono un dovere politico e ci sono i tempi per fare tutto”. Contesta la domanda del giudice, avvocato finisce nel mirino del pm: “Ne risponderà in procura” di Antonio Alizzi Il Dubbio, 12 luglio 2024 L’avvocato Ugo Ledonne, del foro di Cosenza, si era opposto alle domande che il giudice aveva rivolto al testimone già sentito ad indagini difensive. La controversia è nata quando il penalista Ledonne ha ritenuto che tali domande potessero compromettere la genuinità delle risposte, inducendo il teste a fare confusione sugli eventi. Ricordiamo che il diritto di opporsi a domande suggestive o nocive è un pilastro fondamentale del contraddittorio. Tale diritto trova fondamento nel comma 6 dell’articolo 499 del codice di procedura penale e nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. Sez. IV, 6.2.2020 n° 15331, n. sez. 251/ 2020). La Camera penale di Cosenza, nel documento trasmesso al ministero della Giustizia, che sta vagliando le carte inviate dai penalisti calabresi, evidenzia che “tale diritto è stato esercitato dal nostro iscritto, l’avvocato Ugo Ledonne, quale difensore di imputato, che si è legittimamente opposto alle domande formulate dal Giudice monocratico “in quanto ritenute nocive per la genuinità della testimonianza” e “inducenti il teste a fare confusione sugli eventi”. Il pubblico ministero, successivamente alla opposizione, non è intervenuto nel merito della stessa e neppure ha atteso la decisione del giudice”, chiedendo “la trasmissione del verbale all’Ufficio di procura, così testualmente, “per il reato di oltraggio a un magistrato in udienza”“, scrive la Camera penale. “Lo stesso pubblico ministero, a fronte della immediata replica dell’avvocato, che ha rivendicato la legittimità della opposizione e ha chiesto al giudice di interloquire per precisarla, ha tentato di “zittire” l’avvocato prima della decisione del giudice, e gli ha rivolto l’inquisitorio ammonimento: “Lo farà in procura”“, riportano i penalisti sulla base delle trascrizioni di cui sono entrati in possesso. C’è da dire che prima di questo passaggio, il giudice aveva chiesto al pm se volesse “ritrattare” la sua richiesta, domanda caduta evidentemente nel vuoto. “Il fatto non è “semplicemente” grave e non può, soltanto, inquadrarsi nella generale violazione del diritto di difesa. È stato un vero e proprio “attentato” ai principi fondamentali su cui regge lo Stato di diritto: l’autonomia e l’indipendenza dell’Avvocatura. È stato un inedito e pericoloso modo di - tentare di - intimorire l’azione difensiva dell’avvocato dell’imputato, nei cui riguardi - durante l’attività costituzionale esercitata in difesa dei diritti dell’assistito e proprio in conseguenza della stessa - la pubblica accusa d’udienza ha prospettato la iscrizione nel “registro degli indagati” per un delitto punito sino a cinque anni di reclusione”, continua la Camera penale di Cosenza. “L’avvocato Ledonne - precisano gli avvocati penalisti cosentini - ha correttamente esercitato le prerogative costituzionali nelle forme previste dall’articolo 24, nel rispetto delle regole per l’esame testimoniale dettate dall’articolo 499 e nella interpretazione datane dalla Suprema Corte. Ad essere stata oltraggiata è la Toga dell’avvocato, non altro”. Inoltre, il richiamo alle norme contenute negli addebiti ai magistrati: “L’articolo 2 lett. d) del d. lgs n° 109 del 23 febbraio 2006 annovera, tra gli illeciti disciplinari dei magistrati nell’esercizio delle rispettive funzioni, “i comportamenti gravemente scorretti nei confronti dei difensori delle parti”“. In definitiva, la Camera penale di Cosenza invoca l’azione disciplinare per il pm di Verona, decisione che spetta al ministro della Giustizia Carlo Nordio, il quale, ai sensi e per gli effetti degli articoli 2 e 14 del d.lgs. 109/2006, dovrà valutare “la sussistenza della fattispecie contemplata nella lettera d) del richiamato articolo, “comportamento gravemente scorretto nei confronti del difensore di una parte processuale” e richiede, in caso affermativo, “il promovimento dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato del pubblico ministero che ha chiesto la trasmissione degli atti alla procura per il reato di “oltraggio a un magistrato in udienza” nei confronti dell’avvocato, per avere questi legittimamente e correttamente esercitato il diritto di difesa”. La Camera penale di Cosenza ha interessato del caso l’Unione delle Camere penali italiane, la Camera penale di Verona e il coordinamento delle Camere penali calabresi. Legale dal cliente in carcere, no al controllo delle carte di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2024 Tutela rafforzata per gli avvocati, essenziali per amministrare la giustizia. Interpretato l’articolo 8 della Cedu sul diritto al rispetto della vita privata. La Corte europea dei diritti dell’uomo rafforza il diritto alla difesa anche attraverso la protezione degli avvocati che, in base alla Convenzione europea, devono beneficiare di una tutela rafforzata in quanto essenziali nell’amministrazione della giustizia. Pertanto, per Strasburgo, le autorità nazionali non possono controllare i documenti di un avvocato che va in carcere per conferire con il proprio cliente. Il principio, che chiarisce la corretta interpretazione dell’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata), è stato affermato con la sentenza Namazli contro Azerbaidjan (ricorso n. 8826) che va applicato in tutti gli Stati che hanno ratificato la Convenzione. La vicenda aveva al centro un legale, iscritto all’Ordine degli avvocati del suo Paese, che era andato a trovare il suo cliente per discutere di un ricorso a Strasburgo. Le autorità carcerarie avevano condizionato il suo ingresso all’ispezione dei suoi documenti sia in entrata che in uscita, procedendo anche a sequestrare una dichiarazione scritta del detenuto. Di qui il ricorso alla Corte europea che, sottolineato il ruolo centrale degli avvocati nell’amministrazione della giustizia e della rule of law, ha accolto il ricorso. La libertà degli avvocati di svolgere la propria professione senza ingerenze - osserva Strasburgo - è essenziale per una società democratica ed è un prerequisito per garantire l’attuazione delle norme convenzionali. La corrispondenza con gli avvocati, inoltre, è coperta dal privilegio professionale della confidenzialità del rapporto cliente-legale. Certo - scrive la Corte - in via eccezionale, ad esempio nei casi in cui si ritiene che il legale stia partecipando a un reato con il proprio cliente è possibile adottare talune misure, ma è vitale che queste ingerenze abbiano natura eccezionale. In assenza di sospetti o indizi, ogni controllo sui documenti dell’avvocato che incontra il cliente in carcere è in contrasto con la Convenzione e, in particolare con il diritto al rispetto della vita privata (in cui è inclusa quella professionale) e della corrispondenza. Per la Corte, inoltre, va assicurata la protezione rafforzata di cui godono gli avvocati nella relazione con i propri clienti proprio alla luce dell’articolo 8, che impone agli Stati di distinguere tra i controlli sul legale rispetto a quelli sui familiari del detenuto, segno del riconoscimento del ruolo centrale dell’avvocato nell’amministrazione della giustizia. L’ingerenza connessa all’ispezione dei documenti era poi avvenuta senza un quadro normativo chiaro e senza possibilità per il legale di ricorrere a rimedi sul piano interno contro l’abuso e l’azione arbitraria dell’amministrazione penitenziaria. Concorso nel reato di spaccio, sì alla “lieve entità” solo per alcuni concorrenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2024 Lo hanno chiarito le Sezioni unite penali, sentenza n. 27727 depositata oggi, affermando un principio di diritto, al termine di una dissertazione di 50 pagine. Sì alla differenziazione delle posizioni tra i concorrenti nel reato di cessione di sostanza stupefacenti. È possibile, infatti, attribuire soltanto ad alcuni la “lieve entità” sulla base dei “mezzi”, delle “modalità o delle circostanze” dell’azione. Lo hanno chiarito le Sezioni unite penali, sentenza n. 27727 depositata oggi, affermando, al termine di una dissertazione di 50 pagine, che: “il medesimo fatto storico può configurare, in presenza dei diversi presupposti, nei confronti di un concorrente, il reato di cui all’art. 73, co. 1 ovvero co. 4, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309 e nei confronti di altro concorrente il reato di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo Dpr”. Ottiene dunque risposta affermativa il quesito posto dall’ordinanza di rimessione n. 32320 del dicembre 2023 della Quarta sezione penale, e cioè se: “Se, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti, il medesimo fatto storico possa essere ascritto a un concorrente a norma dell’art. 73, comma 1, Dpr 9 ottobre 1990, n. 309 e a un altro concorrente a norma dell’art. 73, comma 5, del medesimo Dpr”. Il tema della possibile differenziazione dei titoli di responsabilità tra concorrenti, a fronte di un medesimo fatto di reato in materia di detenzione e traffico di sostanze stupefacenti, spiega la Corte, affonda le sue radici nella ricostruzione dogmatica dell’istituto del concorso di persone nel reato, nonché nella natura, unitaria o differenziata, del fatto di reato realizzato plurisoggettivamente. Nell’ordinanza di rimessione vengono illustrati i due orientamenti che si contrappongono nella giurisprudenza di legittimità, e viene evidenziato che “la trasformazione della fattispecie del quinto comma da circostanza attenuante speciale ad effetto speciale a titolo autonomo di reato operata dal legislatore del 2013 sembrerebbe maggiormente calibrata sull’ipotesi della realizzazione monosoggettiva che non sulla eventualità che la condotta tipica sia frutto di un’attività in concorso ponendo, pertanto, problemi di compatibilità con la disciplina del concorso di persone nel reato”. Secondo la prima opzione interpretativa, ricapitolano le Sezioni Unite, il medesimo fatto storico, non può essere qualificato in termini diversi nei confronti dei coimputati, stante l’unicità del reato nel quale si concorre. Pertanto, in caso, di concorso in un medesimo episodio di detenzione o cessione illecita di sostanza stupefacente, identificata l’unica condotta tipica ascritta a più persone, la relativa qualificazione non potrebbe essere diversa per i concorrenti. Accanto a questo primo indirizzo, se n’è formato un altro, secondo cui dalla combinazione delle norme di parte speciale con quelle sul concorso di persone nel reato discendono tante fattispecie plurisoggettive differenziate quanti sono i concorrenti, che avrebbero in comune il medesimo nucleo di accadimento materiale, ma si distinguerebbero tra loro per l’atteggiamento psichico dell’autore e per taluni dati esteriori inerenti soltanto alla condotta, dell’uno o dell’altro compartecipe; di conseguenza, sarebbe ammissibile anche l’affermazione di responsabilità a diverso titolo per due o più dei diversi concorrenti. Il medesimo fatto di spaccio allora sarebbe qualificabile diversamente per ciascun concorrente. Sebbene, prosegue la decisione, i lavori preparatori del codice penale e il tenore letterale dell’art. 110 ss. cod. pen., secondo cui si concorre “nel medesimo reato”, costituiscono altrettanti indici indicativi dell’adesione legislativa ad una concezione “monistica” del reato concorsuale; le norme, tuttavia, vanno lette e interpretate alla luce della giurisprudenza costituzionale che “propende per una responsabilità penale sempre più sviluppata in senso personalistico, al fine di ricondurre la condotta dei singoli al loro effettivo disvalore, ritenendo che ciò sia più conforme al modello costituzionale delineato dall’art. 27, primo comma, Cost.”. E la scelta della lieve entità come reato autonomo, prevista dalla novella del 2013, continua la decisione, si è palesata come irreversibile con il decreto Caivano (Dl n. 123 del 2023), che “ha inteso ritagliare all’interno della fattispecie (autonoma) di lieve entità una fattispecie circostanziata di reato nel “fatto lieve non occasionale” in quanto, a fronte dell’identica descrizione del fatto, sostanzialmente operata per relationem, unico elemento circostanziale è appunto la non occasionalità della condotta. Del resto, la previsione dell’art. 73, comma 5, T.U. quale reato autonomo costituisce un unicum rispetto ad un sistema di diritto penale sostanziale in cui tutte le altre fattispecie di lieve entità del fatto (art. 648, co. 4, cod. pen. ricettazione; art. 5 legge 2 ottobre 1967, n. 895 di armi; art. 609-bis co. 3 cod. pen. in tema di violenza sessuale; art. 311 cod. pen. delitti contro la personalità dello Stato; all’art. 323-bis cod. pen. reati contro la Pa) sono costruite come ipotesi circostanziali. E proprio tale trasformazione ha reso necessaria la rielaborazione dei principi tradizionalmente affermati. Prima di quel momento, infatti, si era ritenuto possibile riconoscere la circostanza attenuante del fatto lieve solo ad alcuni dei concorrenti nel medesimo reato, in applicazione del principio consolidato in base al quale attenuanti e diminuenti possono avere riconoscimento differenziato tra coimputati. La nuova natura dell’art. 73, comma 5, T.U stup. ha, quindi, portato giurisprudenza e dottrina ad interrogarsi sulla possibilità che, in caso di realizzazione plurisoggettiva del delitto contemplato da tale norma, il fatto possa essere ritenuto “lieve” soltanto nei confronti di alcuni concorrenti. Tale norma è da ritenersi norma speciale, in quanto contiene, da un lato, tutti gli elementi costitutivi dell’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., che hanno valenza di norme generali, e presenta, dall’altro, quali requisiti propri e caratteristici, con funzione specializzante, i “mezzi, modalità o circostanze dell’azione” ovvero la “qualità e quantità delle sostanze”, che portano a ritenere il fatto di lieve entità. Ma quali tra questi elementi, in concreto, possono essere valutati in senso diversificato per i concorrenti nel medesimo fatto? Non paiono valorizzabili in tal senso “quantità e qualità delle sostanze”, cui si riferisce la norma, di regola uguali per tutti i concorrenti (se fossero diversificate si avrebbero già, ab origine, singoli e diversi reati ascrivibili a ciascuno). Vengono in rilievo, invece, “mezzi, modalità e circostanze dell’azione”. Potranno, dunque, essere valorizzate le finalità dell’attività delittuosa (si pensi al caso di una cessione occasionale), ovvero lo stato di tossicodipendenza del reo, come quando, ad esempio, si accerti che l’imputato ha svolto una piccola attività di spaccio per “l’acquisto di droga per uso personale”. Al contrario, l’aspetto relativo alla tossicodipendenza non dovrebbe assumere pregnante rilievo in presenza di sistematiche cessioni. Potrà e dovrà, invece, essere valutato se l’attività di spaccio sia stata svolta in un contesto di tipo organizzato. A diverse conclusioni, poi, si dovrà e si potrà pervenire in relazione a quei soggetti che, pur consapevoli della natura organizzata dell’attività delittuosa, non abbiano fatto parte dell’associazione ex art. 74 T.U. stup., tenuto anche conto del numero di volte in cui ciascun imputato ha partecipato a tali condotte. Così, tornando al caso affrontato dall’ordinanza di rimessione, per le S.U. il diniego dell’ipotesi attenuata è stato, correttamente motivato per uno dei ricorrenti, in quanto i giudici di merito esaminato il contesto complessivo, nonché il grado di offensività, hanno ritenuto che le stesse rivelassero inequivoci caratteri differenziali. Per un imputato, infatti, l’episodio di spaccio contestato “costituisce un’ulteriore manifestazione della sua perdurante e continua attività di smercio di stupefacente per conto dell’associazione”. Mentre un diverso ragionamento è stato effettuato per i due “correi”, per i quali i giudici di merito, “con motivazione esente da vizi logici e giuridici, hanno ritenuto la sussistenza dell’unico reato di cui all’imputazione, qualificato ai sensi dell’art. 73, comma 5, T.U. stup, sulla base delle intercettazioni e dei servizi di osservazione evidenzianti un ruolo di meri spacciatori al dettaglio”. E tale riqualificazione, tenuto conto dell’epoca di commissione del fatto, ha comportato sin dal primo grado la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Lazio. Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento al 138%, suicidi e atti di autolesionismo” di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 12 luglio 2024 Stefano Anastasia ha tracciato il bilancio del 2023 in 14 istituti di pena nella regione. Problemi e gravi carenze a Regina Coeli e a Rebibbia. Detenuti in aumento a Casal del Marmo e anche al Cpr di Ponte Galeria. Sovraffollamento cronico, strutture che necessitano di interventi urgenti, suicidi dietro le sbarre (anche di personale della polizia penitenziaria, come accaduto lo scorso fine settimana), episodi di autolesionismo e dipendenze da farmaci e stupefacenti (il 50% del totale in regione rispetto al 25-29% nazionale). Un quadro inquietante quello descritto ieri dal Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia presentando in Consiglio regionale la Relazione 2023 sull’attività del suo ufficio. In particolare, secondo Anastasia, a fine anno “il tasso di sovraffollamento nelle 14 carceri del Lazio era del 138%, con punte del 170% in tre strutture, visto che i posti effettivamente disponibili erano 4.745 con 6.537 presenze. Sulla carta i posti sarebbero 5.217 e anche in quel caso il tasso sarebbe stato del 125%, comunque superiore al 119% nazionale (60.166 detenuti per 51.790 posti). La situazione della nostra regione dal punto di vista dell’affollamento è la più critica d’Italia”, dice ancora il Garante, anche perché il Lazio è la quarta regione per numero di persone recluse dietro a Sicilia, Campania e Lombardia. Percentuali che riflettono scenari drammatici come quelli del Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria dove nel 2023 “c’è stato un incremento di presenze del 60% - spiega il Garante -: gli arrivi e transiti sono stati 1.145 (1.100 uomini e 45 donne, e anche otto minori), mentre nel 2022 erano state 714, che già rappresentava un +49% sul 2021, ma che avevamo considerato come rimbalzo determinato dalla progressiva uscita dalla emergenza pandemica”. Il dato sui transiti, sottolinea ancora Anastasia, “non ci è stato fornito dall’Ufficio immigrazione della Questura, come anche l’anno precedente”, mentre le persone che hanno lasciato il Cpr sono state 1.069, “ma solo 268 sono state rimpatriate in seguito al trattenimento”. Problemi anche nel carcere minorile di Casal del Marmo, al centro di continui incidenti soprattutto di notte. Attualmente ospita 63 detenuti, mentre a fine 2023 erano 46. “Tensioni interne e mancanza di risorse umane e finanziarie ostacolano la funzione rieducativa - avverte ancora Anastasia -. Ogni detenuto ha un programma individualizzato, ma mancano spazi per colloqui all’aperto e prolungati. L’attività scolastica include corsi di vari livelli, ma la continuità degli studi è difficile. La carenza di personale limita le attività trattamentali e i colloqui familiari”. Le strutture carcerarie del Lazio non facilitano il lavoro di chi opera all’interno. “Nonostante negli ultimi anni siano stati realizzati numerosi interventi di manutenzione straordinaria, molti istituti penitenziari hanno importanti problemi di carattere strutturale: infissi usurati e deteriorati che d’inverno sono un problema. A Latina - rivela Anastasia - nella sezione maschile andrebbero sostituiti quasi tutti. Gravi problematiche di spazi e condizioni detentive a Viterbo, Rebibbia - anche femminile, Regina Coeli, Latina e Cassino dove dopo la chiusura di un’intera area nel 2019 per problemi strutturali, è inagibile un’intera sezione con sovraffollamento nell’unica disponibile per detenuti per reati comuni. Altre sezioni sono state chiuse a Rebibbia e a Viterbo”. Condizioni difficili che favoriscono l’autolesionismo, passati da 1.153 a 1.161, e anche i suicidi che nel 2023 sono stati 6 (uno in meno rispetto al 2022) sui 71 in tutte le carceri italiane. “Vivere in carcere - commenta Marina Finiti, presidente del Tribunale di Sorveglianza - è molto più drammatico di quanto possa immaginare chi ne sta fuori, sia per detenuti sia per gli operatori. I tentativi di suicidio sono 3-4 volte più dei suicidi. Non riusciamo a tenere il passo”. Viterbo. Decesso e rivolta in carcere, presentata una denuncia per fare chiarezza di Marco Feliziani Il Messaggero, 12 luglio 2024 Presentata una denuncia sulla morte del 30enne romeno, avvenuta mercoledì in carcere. Una morte, subito liquidata come naturale, che ha portato oltre 50 detenuti del penitenziario alla rivolta. L’altro ieri nel carcere Nicandro Nizzo la giornata è stata infernale, la miccia della protesta presto diventata rivolta sarebbe stata proprio la morte del detenuto 30enne. La vittima è Alexandru Bustei, romeno finito in cella per rapina impropria. A presentare la denuncia l’avvocato del foro di Frosinone Danilo Dipani. “Vogliamo fare luce sul decesso, capire quali siano le cause - spiega il difensore. Io avevo parlato con lui lunedì scorso, al termine dell’interrogatorio di garanzia. Era in salute, era agitato e nervoso perché era la prima volta che finiva in carcere. La sua morte mi lascia molte domande”. L’avvocato mercoledì sera ha atteso l’arrivo a Fiumicino dei familiari di Bustei e poi ha presentato la denuncia, che ha lo scopo di capire cosa abbia portato alla morte il 30enne. “L’autorità giudiziaria accerterà quanto c’è da accertare sulle cause di morte di Alex in carcere da soli giorni, e su quello che ne è seguito”. Lo ha detto il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, nel corso della relazione sull’attività svolta nel 2023, nella sala Mechelli della Regione. Quella di Bustei non è la prima morte “sospetta” che avviene nel carcere viterbese. Basti ricordare la morte del giovane egiziano Hassan Sharaf, i cui strascichi giudiziari non sono ancora terminati. E non è la prima morte che getta i detenuti nel caos. Ma mai fino a mercoledì si era registrata una rivolta di quelle dimensioni. Le proteste tra le mura del penitenziario intitolato a Nicandro Izzo sono iniziate nella tarda mattinata di ieri, mercoledì 10 luglio. Man mano hanno preso sempre più piede, finché non sono sfociate in una vera e propria rivolta intorno alle 15,45. I detenuti si sono asserragliati nella sezione D1, reparto comune e padiglione di media sicurezza, lanciando bombolette a gas incendiarie contro la polizia penitenziaria. Per fronteggiare la situazione è stato necessario richiamare in servizio alcuni agenti, altri sono rientrati spontaneamente anche se erano in ferie dimostrando alto senso del dovere. Carcere cinturato - I detenuti sono stati accerchiati e la sezione isolata dalle altre, ma la rivolta è andata avanti. Il carcere di Mammagialla è stato circondato dalle forze dell’ordine: polizia penitenziaria, di stato e carabinieri. Le vie di accesso al penitenziario sono state presidiate, anche dalla polizia locale. I detenuti hanno incendiato lenzuola e materassi, con la sezione del carcere che si è riempita di fumo e odore acre. Il reparto è stato distrutto. Centinaia le forze dell’ordine intervenute, alla fine non è stato più necessario far entrare in azione il gruppo di intervento rapido della polizia penitenziaria da Roma. Sul posto anche cinque vigili del fuoco, con due mezzi e il funzionario di guardia oltre al vicecomandante. Questi ultimi hanno lasciato Mammagialla intorno alle 19,50. Trieste. Rivolta nel carcere: “Trattati come animali”. Sei intossicati per i lacrimogeni di Gianpaolo Sarti La Repubblica, 12 luglio 2024 Rivolta nel carcere di Trieste, con incendi e urla. Tutte le strade attorno alla casa circondariale, che si trova in centro, sono state chiuse per ragioni di sicurezza e polizia e carabinieri si sono schierati in tenuta antisommossa per un blitz nella struttura. Dopo un tentativo di mediazione tra agenti in strada e detenuti, anche il responsabile carcere della Camera penale Enrico Miscia e la Garante per i detenuti Elisabetta Burla hanno provato ad avviare un negoziato ma anche questo tentativo è fallito. Le forze dell’ordine, in tenuta anti-sommossa, hanno fatto irruzione nella struttura e sembra che ci siano stati scontri. Stando a quanto si apprende, ci sarebbero stati scontri tra le persone detenute e gli agenti. Dall’esterno si sono sentite urla, rumore di vetri rotti e si percepisce un forte odore di bruciato. Sul posto sono arrivati anche vigili del fuoco e ambulanze perché ci sono dei feriti. Le regioni della protesta, sempre più problematica da gestire, sono le condizioni di sovraffollamento cui sono sottoposti i detenuti. In serata i detenuti dalle finestre attraverso le sbarre hanno urlato più volte di essere costretti a dormire a terra, su materassi con cimici. Più volte è stata segnalata negli ultimi mesi la situazione difficile all’interno del carcere di Trieste, a causa del sovraffollamento e, con l’ondata di calore, anche di caldo. Sei le persone trasportate in ospedale di cui 4 con malori, una con un’intossicazione dovuta alle esalazioni di fumo, e due carcerati cardiopatici trasferiti fuori dal carcere per sicurezza. Lo riferisce in una nota Asugi, intervenuta, “in seguito alla rivolta iniziata” “intorno alle ore 19:30”, “attivando il proprio piano interno per le maxi emergenze. Alle ore 23:10, con l’accettazione della mediazione da parte dei carcerati, la maxi emergenza è considerata rientrata”. Conferma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria: “È rientrata verso le 23.00 la protesta scoppiata nel tardo pomeriggio di ieri presso la Casa Circondariale di Trieste. Da quanto apprendiamo, grazie all’opera di mediazione condotta soprattutto dalla Polizia penitenziaria del reparto triestino e dal Magistrato di Sorveglianza, intervenuto sul posto, non si sono registrate violenze alle persone. Per alcuni detenuti è stato necessario il trasporto in ospedale e quattro sarebbero rimasti ricoverati, uno a causa di un malore, tre per la probabile ingestione di farmaci sottratti alla locale infermeria”. “Dopo Firenze e Viterbo, Trieste è il terzo istituto penitenziario in cui si registrano pesanti disordini a pochi giorni dal varo, da parte del Consiglio dei Ministri, del decreto-legge n. 92 battezzato, sembra un ossimoro, ‘carcere sicuro’. Segno evidente che non solo non è riuscito a incidere sulle difficilissime condizioni carcerarie, ma che non è neppure in grado di farlo e sta disilludendo le molte aspettative. Resta dunque altissima la tensione nei penitenziari, dove peraltro i suicidi si susseguono con frequenza mai osservata in precedenza”, aggiunge il segretario della Uilpa pp. Bologna. La denuncia di Fp-Cgil: “Alla Dozza incendi e detenuti fuori controllo” di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 12 luglio 2024 Una situazione “a dir poco allarmante”, anzi, “fuori controllo” per certi aspetti: incendi, ricoveri in ospedale per assunzione eccessiva di farmaci, opposizioni rispetto alla misura di isolamento disciplinare. A denunciare, ancora una volta, la grave condizione del carcere bolognese della Dozza, già provato dal sovraffollamento - al momento i detenuti sono 845, a fronte di circa 500 posti - e dalla carenza cronica di personale, è stata ieri, scrivendo direttamente al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Fp Cgil, che ha ribadito come “gli eventi critici” si stiano susseguendo a un “ritmo vertiginoso”. “Le pretese dei carcerati”, poi, risultano essere sempre “più pressanti”, ha aggiunto il sindacato, segnalando anche come ai nuovi arrivati vengano fornite lenzuola di carta, in mancanza di quelle regolamentari. Negli ultimi giorni, come ha ricordato ancora la Fp Cgil e come successo nelle settimane scorse anche al carcere del Pratello, “si sono verificati incendi messi in atto da detenuti ampiamente segnalati per le loro intemperanze - ha spiegato il sindacato -: questo ha costretto il personale del reparto infermeria a evacuare l’intera sezione”. Alcuni detenuti in “isolamento disciplinare”, inoltre, rifiutano tale misura e pretendono “di passare intere giornate fuori dalla propria camera detentiva - ha proseguito la Fp Cgil -. Richieste che devono essere subito esaudite, compresa quella di poter parlare direttamente con il comandante di reparto”. Per di più, “sembrerebbe diventata usanza pretendere che gli ispettori in servizio di sorveglianza forniscano sigarette”. Criticità e problemi di gestione che evidentemente non possono essere risolti solo con la buona volontà e gli sforzi del personale: “A questo punto appare più che evidente che gli sforzi e lo spirito di abnegazione degli operatori non sono più sufficienti a gestire la situazione - ha rimarcato Salvatore Bianco, della Fp Cgil -, situazione che rischia seriamente di sfociare in situazioni ancora più gravi”. Da qui, dunque, la necessità di una ulteriore segnalazione al provveditorato. “Per l’ennesima volta chiediamo all’amministrazione di mettere in campo interventi seri e risolutivi per creare condizioni minime di vivibilità per la popolazione detenuta e condizioni di lavoro dignitose per il personale di polizia penitenziaria”, ha ribadito Bianco, per poi concludere con “un pensiero ormai ricorrente tra il personale dell’istituto e che lascia sgomenti oltre che suscitare comune indignazione: “Qui i detenuti dovrebbero scontare la loro giusta pena, ma in realtà siamo noi a scontare con loro le pene e quelle di un’amministrazione latitante”“. Venezia. Celle sovraffollate e condizionatori assenti. L’estate sofferta dei detenuti di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 12 luglio 2024 Nel carcere di Santa Maria Maggiore ci sono oltre 30 gradi negli spazi detentivi, in cui convivono 250 persone a fronte di 100 posti. La Cgil: “La casa circondariale? Una polveriera”. Caldo, dappertutto e per tutti, ma per alcuni, i più fragili, più di altri. Nelle celle della casa circondariale di Santa Maria Maggiore, a Venezia, i condizionatori non ci sono e nelle celle i gradi superano di gran lunga i 30. Un caldo ancora più difficile da sopportare, dal momento in cui il carcere è sovraffollato e conta 250 detenuti a fronte di un centinaio di posti, tanto che in alcune celle è stato inserito un terzo letto per farceli stare tutti. Spazi ristretti, sovraffollati, in cui l’afa è ancora più sofferta. In più, nella casa circondariale - pensata, appunto, come una struttura di passaggio - mancano spazi ricreativi e il cortile è al sole, quindi quasi inaccessibile in giornate come queste. “Una situazione che abbiamo segnalato al garante nazionale ancora tempo fa, ma non abbiamo ricevuto una risposta” commenta Franca Vanto (Cgil Fp), sottolineando come al problema del sovraffollamento si aggiunga quello della tossicodipendenza e della malattia mentale, entrambe situazioni che affliggono una buona percentuale di detenuti. “Bisogna fare attenzione e trovare delle soluzioni, perché Santa Maria Maggiore è una polveriera” avverte, non mancando di citare uno dei grandi problemi che affliggono il sistema penitenziario italiano, i suicidi in cella. “Una vera e propria emergenza sociale, non possiamo far finta che non esistano”. La situazione, inevitabilmente, si ripercuote sul personale penitenziario, troppo esiguo. “Il problema c’è sempre ed è noto, ovviamente in estate il lavoro si fa più complicato. Assistiamo a turni massacranti, riposi che saltano, ferie a rischio” conclude. Firenze. I ricorsi dei detenuti di Sollicciano. Il giudice: “Acqua calda? Non siete in hotel” di David Allegranti La Nazione, 12 luglio 2024 Le risposte del magistrato di sorveglianza alle richieste effettuate dai carcerati. Ma che fine fanno i ricorsi ex articolo 35 bis O.P. presentati dai detenuti nel carcere di Sollicciano? Finiscono davanti alla magistratura di sorveglianza, che può accoglierli o meno. Può capitare però che le risposte date ai ristretti lascino qualche perplessità: “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive, ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Lo scrive il magistrato di sorveglianza Claudio Caretto nell’ordinanza in cui rigetta il ricorso ex 35 bis presentato da un detenuto di Sollicciano che lamenta le scarse condizioni strutturali e igieniche della cella e dell’intera sezione che lo accoglie. Eppure, l’articolo 7 del Regolamento di esecuzione penitenziaria (e non delle linee guida sull’attribuzione delle stelle agli hotel) dice che “i vani in cui sono collocati i servizi igienici” sono forniti di acqua corrente, calda e fredda. “Esiste una ampia giurisprudenza italiana e Cedu che afferma che la mancanza di acqua calda rappresenta il trattamento inumano e degradante e violazione dell’articolo 3 convenzione europea dei diritti dell’uomo”, dice il filosofo del diritto Emilio Santoro. “Le pareti della cella presentano macchie visibili di umidità e di muffa. Tali formazioni funginee sono causate dalle frequenti infiltrazioni d’acqua che, in caso di precipitazioni atmosferiche, aumentano considerevolmente”, scrive ancora il ristretto. La presenza di infiltrazioni di acqua e di muffa, scrive il detenuto, “è resa ancor più grave se si considera che l’impianto di riscaldamento non è sempre funzionante, anche a causa del costante sovraffollamento nel quale il carcere di Sollicciano versa. Anche quando l’impianto termo-idraulico è funzionante la cella è fredda”. Il detenuto lamenta anche di essere stato morso dalle cimici. Ma per il magistrato di sorveglianza si può tranquillamente sorvolare sulle lamentele. E perché? Perché l’amministrazione penitenziaria dice che è tutto a posto. E quindi, “stante la discordanza tra quanto dichiarato dal detenuto e quanto attestato dalla amministrazione penitenziaria, si deve tenere veritiera la versione fornita ala (sic, ndr) seconda in quanto proveniente da pubblico ufficiale e quindi fidefacente”. In sostanza, se l’amministrazione penitenziaria dice che non ci sono problemi, allora deve essere tutto vero quello che dice l’amministrazione e falso quello che sostiene il detenuto. Anche sulla muffa presente in carcere. La colpa, dice il magistrato di sorveglianza, è degli stessi ristretti: “Le muffe sono anche conseguenti all’uso dei fornellini da camping (da parte dei detenuti) che formano condensa”. Eppure, osserva ancora Santoro, filosofo del diritto, “esiste ampia giurisprudenza italiana e Cedu anche sul fatto che l’amministrazione penitenziaria non può limitarsi a negare quanto sostenuto dal detenuto, ma deve dimostrare che è sbagliato, altrimenti il magistrato deve accogliere il ricorso”. Dunque, dice Santoro, “il provvedimento mostra che il dottor Caretto manca dell’umanità per capire che fare un rigetto del reclamo con quelle affermazioni a una persona che vive nelle condizioni descritte è un atto di crudeltà gratuita. Ma uno può solo sperare e non pretendere che il magistrato che lo giudica sia umano e non crudele. Invece può pretendere che conosca il diritto in questo caso l’articolo 7 del Regolamento di esecuzione e la giurisprudenza della Cedu, che è fonte normativa in Italia. Tanto è vero che l’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario parla di violazione dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, numero 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Firenze. La direttrice: “Così Sollicciano diventa inutile” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 12 luglio 2024 “La salubrità e l’igiene sono i requisiti minimi di un carcere. Sollicciano non può restare così. Se si esercita solo un’attività di contenimento è assolutamente inutile”. A dirlo è la direttrice del carcere fiorentino, Antonella Tuoni, dopo il suicidio in cella del 20enne Fedi. Ieri i funerali del ragazzo. “Ho vissuto questo suicidio come direttrice del carcere e come madre, perché la vittima è un giovane di 20 anni. Vedendo quel corpo sul pavimento il mio pensiero è corso immediatamente a mio figlio, poco più grande. È innegabilmente una sconfitta, e direi un lutto per lo Stato, poiché le persone detenute sono affidate alla sua custodia”. Sono le parole della direttrice del carcere fiorentino di Sollicciano Antonella Tuoni a pochi giorni dal gesto estremo di Fedi, il ventenne tunisino che si è tolto la vita nella sua cella. Direttrice, non crede che i suicidi siano anche la conseguenza delle drammatiche condizioni del carcere? “Credo che i requisiti minimi di ogni carcere dovrebbero essere la salubrità e l’igiene degli spazi di vita delle persone detenute e dei lavoratori. Difficile indagare i motivi che inducono una persona a togliersi la vita. Ma prima ancora di interrogarsi sulle cause del suicidio di un ventenne in carcere ci dovremmo interrogare sulle cause della sua presenza in carcere”. Quali sono i problemi più urgenti di Sollicciano? “Quelli strutturali ed impiantistici. È da circa mezzo secolo, cioè dalla sua costruzione, peraltro già all’epoca molto chiacchierata, che Sollicciano non beneficia di interventi manutentivi che ne risolvano i problemi. Basti ascoltare ciò che ha detto il governatore toscano a margine della seduta straordinaria della giunta regionale”. Ci sono sentenze di sconti di pena per le condizioni disumane del carcere: muffa, infiltrazioni, cimici, topi, acqua fredda. Come può avvenire la rieducazione in queste condizioni? “Come ho già detto, condizioni minime indefettibili, per legge, sono spazi detentivi dignitosi e funzionali ai percorsi di reinserimento oltre, ovviamente, a personale parametrato alle persone detenute presenti. In assenza, si esercita solo un’attività di contenimento, molto lontana dal dettato costituzionale e assolutamente inutile, volendo ragionare in termini biecamente aziendalistici”. Anni fa il ministero aveva stanziato 7 milioni per la ristrutturazione del carcere. A che punto sono i lavori? E perché alcuni si sono fermati? “Questa è una domanda molto delicata che non andrebbe rivolta a chi dirige Sollicciano. Mi spiego. I lavori di straordinaria manutenzione non vengono appaltati dal direttore di Sollicciano, che ha un potere limitato di spesa, peraltro nemmeno diretto ma delegato: spende quanto gli viene assegnato dal provveditorato, ufficio regionale. I lavori di straordinaria manutenzione di cui lei mi chiede conto sono stati appaltati dal dipartimento nel 2020, all’indomani di una visita ispettiva che già allora certificava le pessime condizioni della struttura. Sono stati avviati al femminile, sempre nel 2020 ma ad inizio 2023, a seguito di una mia segnalazione, sono stati poi sospesi poiché le infiltrazioni meteoriche non erano state eliminate e da allora, per quanto mi è dato sapere, sono ancora sospesi. Con l’insediamento, quest’anno, del nuovo direttore generale dell’ufficio beni e servizi ed interventi in materia di edilizia penitenziaria, è stata avviata una nuova progettazione per i reparti maschili di cui non conosco però i tempi di esecuzione”. C’è chi chiede che Sollicciano venga demolito e ricostruito. Lei che ne pensa? “Credo che decisioni del genere, così importanti ed onerose per l’erario e conseguentemente per i cittadini che pagano le tasse, debbano essere adottate con il supporto di tecnici che facciano un’analisi di contesto ed un serio bilanciamento costi benefici e non sull’onda di pulsioni momentanee. Ad ogni buon conto, Sollicciano così come è non può più essere lasciato, non solo rispetto alle persone detenute ma anche a chi ci lavora, di cui in verità non si parla un granché”. Perché solo una minima parte dei detenuti lavora? “Le persone detenute che svolgono attività domestiche all’interno della struttura devono essere remunerate. Anche in questo caso chi dirige Sollicciano non può spendere quello che non ha, per cui lavorano tanti detenuti quanti io ne posso pagare in base ai fondi che mi vengono assegnati. Quanto ai lavori alle dipendenze di terzi privati, l’avvio di serie progettualità è ostacolato da una percentuale del 70% di persone straniere con tutte le problematiche correlate alla permanenza regolare in Italia”. Il personale di sorveglianza è sufficiente? È a rischio la sicurezza? “Dai dati a mia disposizione al 31 luglio, al netto degli arrivi e delle partenze dei poliziotti interessati dalla mobilità nazionale e dalle assunzioni, l’organico di Sollicciano sarà deficitario di 74 unità. Un deficit grave in una struttura particolarmente problematica che nonostante tutto ha retto, miracolosamente, all’onda d’urto della recente rivolta, il cui esito era tutt’altro che scontato, grazie soprattutto al personale di polizia penitenziaria intervenuto a cui deve andare tutto il nostro plauso”. Roma. Suicidi in cella, la protesta dei penalisti di Angela Stella L’Unità, 12 luglio 2024 “Fermare i suicidi in carcere - Non c’è più tempo” è il titolo della manifestazione organizzata ieri dall’Unione delle Camere Penali a Roma. Ad oggi siamo a 55 suicidi. Oltre ai penalisti italiani, sono intervenuti tanti esponenti della società civile, dell’associazionismo, non solo forense, e della politica. Per la vice presidente del Senato, la dem Anna Rossomando: “Stiamo alzando la voce di fronte a una condizione che è insostenibile. Nel mio intervento ho ribadito come il tanto sbandierato decreto carceri del governo in realtà non servirà a niente rispetto alle emergenze che ci sono in carcere oggi. Da qui la nostra determinazione a sostenere in parlamento tutta una serie di proposte per riempire un decreto vuoto e provare a far fronte davvero all’emergenza”. Non poteva mancare Roberto Giachetti (Iv): “Purtroppo questa maggioranza, che non vuole votare la legge sulla liberazione anticipata, ha fatto slittare dal 17 al 23 luglio il dibattito sulla pdl. Scappano, sono anche un po’ codardi ma noi li rincorriamo. Siccome hanno presentato il decreto legge al Senato abbiamo trasformato la nostra pdl in un emendamento al decreto e quindi dovranno metterci la faccia lì. Vedremo cosa farà FI che fino ad ora si è distinta dal resto della maggioranza”. E poi l’annuncio: “Denunceremo il ministro della Giustizia perché se non prende le decisioni concrete per impedire quello che accade nelle carceri, può esserne ritenuto responsabile. L’art.40 del Codice penale recita che non impedire un evento che si ha l’obbligo equivale di impedire a cagionarlo”. Dopo ha preso la parola il deputato Riccardo Magi (+Europa): “Da un lato abrogano l’abuso di ufficio e poi nel ddl sicurezza creano nuovi reati e aggravanti. Questo delirio deve finire. Spiace che a via Arenula ci sia quello che possiamo ribattezzare lo smemorato di Treviso che aveva scritto a quattro mani con Giuliano Pisapia un testo in cui nella quarta di copertina c’era scritto a grandi lettere ‘basta nuovi reati, depenalizzazione, carcere come extrema ratio’”. Intervenuto anche il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Avevano avuto insieme all’Ucpi ad aprile a Roma 3 un incontro con il Ministro sul tema delle carceri e poi arriva un decreto legge che non dice nulla e contraddice se stesso: se si interviene con decreto legge è perché si ritiene ci sia necessità ed urgenza. Quindi ci saremmo aspettati di trovarvi qualche misura che potesse decongestionare il carcere nell’immediato. E invece nulla. Capisco le esigenze securitarie ma dico a chi le porta avanti che non c’è migliore sicurezza della società di un carcere in cui si rispetti la sua missione costituzionale”. Per Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, “nel 2023, 4700 detenuti sono stati risarciti per trattamenti inumani e degradanti, hanno avuto uno sconto di pena. Succede che quelle persone continuano a rimanere in quelle condizioni: e allora se i procuratori generali leggono i giornali e difendono l’obbligatorietà dell’azione penale come mai non intervengono?”. Intervento conclusivo del Presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli: “la forza delle nostre idee è la difesa degli ultimi e della tutela dei principi della nostra Costituzione. Il nostro nemico più forte è quel riflesso presente in tutti noi: le reazioni istintive che ciascuno di noi dinanzi al male in genere prova. Noi siamo i portatori del superamento di quelle pulsioni istintive. Maggiore è la de-carcerizzazione e l’utilizzo delle misure alternative, minore è la recidiva. Occorre svelare al Paese queste verità, e la gente ci verrà dietro”. Quel voto mancato indica il destino della democrazia di Franco Corleone L’Espresso, 12 luglio 2024 Lo stallo sul giudice costituzionale scaduto è un assaggio dell’abuso di potere della maggioranza. Per la terza volta il presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, è sceso in campo per denunciare la mancata elezione di un/a sostituto/a della giudice Silvana Sciarra, scaduta l’11 novembre dell’anno scorso, da parte del Parlamento. Sono passati quasi otto mesi e la mancanza del plenum si rivela imbarazzante. Cinque votazioni sono state senza esito, con l’espressione totale di schede bianche, senza alcuna indicazione di un nome per raggiungere il quorum dei 3/5 dei componenti dell’Assemblea, cioè 363 voti. L’ultima seduta si è svolta il 25 giugno scorso con la partecipazione al voto di poco più della metà di deputati e senatori aventi diritto, solo 330. Difficile lamentarsi dell’astensionismo dei cittadini, se l’esempio che viene da chi avrebbe il dovere istituzionale di esprimere una decisione delicata è di disinteresse colpevole. Ha fatto bene il presidente Barbera nell’intervista al Sole 24 Ore, il 28 giugno, a “esortare sia i gruppi di maggioranza, ma anche quelli di opposizione, a procedere all’elezione del giudice mancante sin da adesso, evitando di cedere alla tentazione di un’impropria attesa per un inammissibile spoils system su organi di garanzia”. L’ipotesi di uno stallo strumentale per compiere una grande abbuffata all’inizio del 2025, dopo che cesseranno dal mandato ben tre giudici di nomina parlamentare - oltre allo stesso Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti - nasce non da un pregiudizio, ma dalle parole pronunciate dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella conferenza stampa di inizio anno, durante la quale affermò che la novità essenziale era che la destra avesse il diritto di eleggere i quattro giudici, uno scaduto e tre in scadenza alla fine del 2024. La gravità di tale affermazione non è stata stigmatizzata adeguatamente, perché siamo di fronte a una usurpazione di una competenza del Parlamento da parte del governo. È la dimostrazione del destino della democrazia, se venisse approvata l’elezione del premier contestualmente a quella dei parlamentari. Il senso del quorum altissimo nelle prime tre votazioni e comunque significativo nelle successive è quello di ricercare nomi di prestigio, figure con particolare spessore professionale e di studi, soprattutto con una storia di onestà intellettuale e di indipendenza dal potere. Nonostante la distorsione nella attribuzione dei seggi prodotta dalla legge elettorale truffaldina - il cosiddetto Rosatellum, ora sotto la lente di osservazione della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) per violazione dei diritti di scelta libera dei cittadini - il quorum attualmente non è appannaggio della sola maggioranza. Le forze di opposizione raccolgano subito l’invito del presidente Barbera e individuino una rosa di giuriste/i con le giuste caratteristiche da sottoporre al confronto con la maggioranza; in ogni caso, si predispongano a votare una persona anche come candidatura di bandiera. È ora anche di pretendere che i presidenti di Camera e Senato annuncino un conclave laico, con votazioni continue fino all’esito positivo. Nel 2002, Marco Pannella - con uno sciopero della fame e della sete e con la bevuta delle sue urine in televisione - ottenne la promessa dei presidenti Marcello Pera e Pier Ferdinando Casini di una seduta fiume. Forse non si deve arrivare ad atti così drammatici, ma un segno di vita e di resistenza si impone. Droghe. Il Cbd è una sostanza stupefacente e d’ora in poi sarà venduto solo in farmacia di Viviana Daloiso Avvenire, 12 luglio 2024 Il decreto del ministero della Salute inserisce il cannabidiolo nella tabella B dei medicinali dopo i pareri dell’Iss e del Css. La protesta degli imprenditori della canapa. Sono - o meglio sarebbe dire “sono stati finora” - i protagonisti indiscussi sugli scaffali dei cannabis shop: infiorescenze da fumare, cristalli da fondere e inalare, resine, olii sublinguali, compresse. Tutti rigorosamente a base di cannibidiolo, noto anche come Cbd, una delle sostanze estratte dalla cannabis sativa insieme al ben più noto tetraidrocannabinolo (Thc). Sulla differenza tra i due s’è scritto molto, e cose molto diverse. Chi dei derivati della cannabis cosiddetta “legale” ha fatto il proprio business, anche nel nostro Paese, sostiene convintamente che il Cbd sia cosa buona e giusta, capace cioè di curare numerose problematiche di salute (dagli attacchi di panico all’insonnia, dai dolori cronici alle artriti fino all’epilessia) senza nessun tipo di rischio, visto che la sostanza non avrebbe proprietà stupefacenti come il Thc. Chi tutti i derivati della cannabis, invece, considera dotati di proprietà psicoattive, capaci cioè di alterare il nostro stato psichico e percettivo, raccomanda che anche sul Cbd ci sia attenzione: non a caso anche questa sostanza presenta effetti collaterali documentati come nausea, vertigini, sonnolenza, danni al fegato e - ciò che più conta, e anche questo è stato dimostrato da studi e recenti pubblicazioni - può influire sullo sviluppo cerebrale dei più giovani. Il governo italiano sull’argomento ha preso da subito una posizione chiara: anche il cannabidiolo va maneggiato con cura. E questo proprio per tutelare i più giovani, tra i principali fruitori dei cannabis shop, su cui la “normalizzazione” del consumo di prodotti derivanti dalla canapa ha sortito un effetto anche culturale dirompente: si compra in negozio come qualsiasi altra cosa? Allora non fa male, non ci sono rischi, si può fare... Di qui la decisione presa già un anno fa - poi congelata dal Tar del Lazio, poi ripresa, poi di nuovo congelata - che ora è diventata legge per decreto del ministero della Salute: il Cbd a uso orale è stato inserito nella tabella delle sostanze stupefacenti. Il che vuole dire, concretamente, che i prodotti a base di cannabidiolo d’ora in avanti non potranno più essere venduti nei negozi, nelle erboristerie e nei tabaccai, ma solo nelle farmacie con ricetta medica non ripetibile. La decisione, confermano dall’entourage di Orazio Schillaci, arriva dopo aver ricevuto i pareri aggiornati sia dall’Istituto superiore di sanità che dal Consiglio Superiore di Sanità, entrambi nella direzione presa col decreto. Ma l’industria della canapa e la solita Associazione Luca Coscioni sono sul piede di guerra: “Chiederemo immediatamente e formalmente i pareri dell’Iss e del Css. Se sono davvero favorevoli all’inserimento del cannabidiolo nella tabella B dei medicinali, contrasteremo tali decisioni, poiché vanno in direzione contraria a tutta la letteratura scientifica disponibile e contro le disposizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e della Comunità europea sulla sicurezza del cannabidiolo”. Il riferimento è proprio alla pronuncia del 2017 dell’Oms che raccomandava come il Cbd non andasse classificato a livello internazionale come sostanza controllata e a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 2020 con la quale si chiariva che un divieto di commercializzazione del Cbd può essere adottato “soltanto qualora tale rischio risulti sufficientemente dimostrato”. Gli imprenditori sollevano poi dubbi “sul fatto che questa serie di manovre legislative possa essere volta a favorire indebitamente le case farmaceutiche, consegnando loro un mercato dal grande potenziale economico”, ciò che senz’altro li interpella maggiormente. Ma sul tavolo, prima dei guadagni, c’è la salute. Medio Oriente. Corpi in ostaggio, fronte di guerra contro Hamas di Michele Giorgio Il Manifesto, 12 luglio 2024 Il caso della salma di Walid Daqqa, popolare detenuto politico palestinese deceduto tre mesi fa, non ancora restituita alla famiglia. “Questa non è una democrazia, una democrazia non porta avanti vendette”. Sanaa Salameh tre mesi fa avrebbe voluto dare un ultimo abbraccio al marito Walid Daqqa morto lo scorso 7 aprile di cancro in prigione. Sino ad oggi non è riuscita neppure a dargli una sepoltura. Il governo Netanyahu ha deciso di non restituire il corpo alla famiglia e di trattenerlo allo scopo di usarlo in uno possibile scambio di prigionieri. Non è una novità. Tuttavia, questa è la prima volta che le autorità non consegnano alla famiglia la salma di un cittadino arabo israeliano, ossia di un palestinese con cittadinanza israeliana, deceduto in carcere. Motivo di questa decisione, hanno fatto sapere il ministero della Sicurezza nazionale, guidato dal leader dell’estrema destra, Itamar Ben Gvir, e il ministero della Difesa di Yoav Gallant, sarebbe il “caso del tutto eccezionale” che rappresenterebbe Daqqa, un prigioniero politico molto noto e stimato tra i palestinesi, quindi una buona “merce di scambio”. “Il 15 luglio la Corte suprema ascolterà di nuovo le spiegazioni del governo, però non ci attendiamo novità positive, crediamo che i giudici concederanno all’esecutivo altro tempo per motivare la sua decisione”, dice al manifesto Nadia Daqqa, avvocata della famiglia Daqqa e parente del prigioniero deceduto. “Il punto sul quale battiamo è che Walid era un cittadino israeliano e le autorità stanno commettendo una violazione grave dello stesso principio di cittadinanza”, aggiunge l’avvocata, consulente della Ong HaMoked per i diritti umani. La famiglia aveva chiesto alle autorità carcerarie e ai giudici di liberarlo in quanto malato terminale. Daqqa, peraltro, a dicembre 2022 aveva scontato la condanna a 38 anni di carcere, ma la sua detenzione però è stata prolungata. Originario di Baqa al Gharbiya, città in territorio israeliano, dietro le sbarre era finito nel 1987 con l’accusa di aver fatto parte di una cellula del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (marxista) responsabile del rapimento e dell’uccisione di un soldato. Accusa che lui ha sempre respinto. Negli ultimi anni era divenuto un’icona tra i palestinesi, in Israele e nei Territori occupati, perché prigioniero politico da più tempo in carcere. I suoi testi scritti in detenzione sono stati letti da migliaia di persone. Per le autorità israeliane Daqqa è solo un “terrorista”, anche da morto, e sebbene non avesse mai fatto parte di Hamas o di altri gruppi islamisti, è finito al centro di nuovo fronte dell’offensiva a Gaza: la battaglia sui cadaveri. Israele, che si descrive come uno Stato democratico, ha già adottato da anni la politica di trattenere, come merce di scambio, i corpi di palestinesi, fino a tre mesi fa solo dei Territori occupati di Cisgiordania e Gaza. Non si comporta in modo diverso da Hamas che tiene a Gaza i corpi di soldati - e dopo il 7 ottobre anche di civili israeliani morti - per ottenere la scarcerazione di prigionieri palestinesi. “È senza precedenti che uno Stato in qualsiasi parte del mondo decida di tenere in ostaggio il corpo di un suo cittadino per liberarne un altro”, sottolinea Suhad Bishara della Ong Adalah, per i diritti della minoranza araba palestinese in Israele. “I diritti delle famiglie vengono violati; il diritto alla dignità, a seppellire i propri cari, ad avere una tomba da visitare. Questa politica dimostra che Israele tratta i membri della sua minoranza araba come cittadini di seconda classe, che siano vivi o morti”. Non è detto che trattenere la salma di Walid Daqqa porti a risultati concreti per Israele in una trattativa per lo scambio di prigionieri. Gershon Baskin, un attivista israeliano che ha contribuito al rilascio del soldato Gilad Shalit nel 2011 in cambio di oltre mille detenuti palestinesi, spiega che Hamas non è interessato a uno scambio di salme. “I suoi negoziatori - ha detto alla rivista Forward - dicono che i corpi (dei palestinesi) vengono comunque sepolti in Palestina e che le loro anime salgono al cielo perché sono martiri”. Baskin definisce la decisione del governo “stupida e malvagia”.