Un decreto marginale di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 11 luglio 2024 Il provvedimento “carcere sicuro” non affronta i nodi cruciali di un sistema affetto da sovraffollamento degli istituti e alto tasso di suicidi. È stato chiamato decreto “carcere sicuro” il provvedimento varato dal Consiglio dei ministri che inizialmente era nato come “svuota carceri” e già il cambio di appellativo ci può fare immaginare che il problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari non sarà risolto. In molti tra coloro che si occupano dei problemi carcerari l’hanno definito quanto meno insufficiente. L’obiettivo dichiarato dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è quello di semplificare le procedure per accelerare i tempi della burocrazia nel carcere e umanizzare gli istituti garantendo anche l’alternatività della pena in comunità. Il decreto prevede l’istituzione di un albo delle comunità che potranno accogliere alcune tipologie di reclusi, come coloro ai quali rimangono periodi brevi di pena, i tossicodipendenti e i condannati per alcuni generi di reato. Prevista anche la semplificazione delle procedure per la concessione della liberazione anticipata, o di misure alternative, che potrebbe diventare automatica. Nordio ha spiegato che “ci sarà una specie di ‘patto’ per mettere il detenuto subito al corrente dei suoi diritti e degli sconti che potrebbe ottenere se si comporta bene in carcere”. Il numero di telefonate che i detenuti potranno fare e passerà da 4 a 6 al mese. Per la segretaria confederale della Cgil, Daniela Barbaresi, si tratta di misure che non affrontano i nodi del problema carcerario nel nostro Paese, soprattutto a fronte degli ultimi dati del Dap sul sovraffollamento: “Va evidenziata la drammatica condizione negli istituti negli istituti penitenziari - afferma -, dove al 30 giugno si registravano 61.470 detenuti, quasi 4000 in più in un anno con un livello di sovraffollamento che, se lo calcoliamo sui posti regolamentari, supera il 120% con punte sino al 210%. Ogni mese il numero dei tenuti cresce ulteriormente e arriverà a quei livelli che quindici anni fa portarono la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia per violazione dei diritti umani”. Il sovraffollamento carcerario va di pari passo con le condizioni di vita dentro le istituzioni penitenziarie che “non consentono di realizzare quella che è la finalità della pena, vale a dire la rieducazione e il recupero sociale dei detenuti. Bisogna ricordare - prosegue Barbaresi - che nelle carceri c’è un grande numero di persone con problemi di salute mentale, tossicodipendenti, immigrati irregolari e detenuti con pene di breve durata o per reati di scarso allarme sociale che potrebbero scontare la pena in luoghi diversi e con un forte legame con il territorio. A tutto ciò si aggiunge il drammatico problema dei suicidi”. I detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno sono infatti ben 55, due solamente nelle ultime 48 ore, nella Casa circondariale di Varese e di Viterbo, dove è inoltre scoppiata una protesta. Il numero dei suicidi in carcere sale poi a 61 se aggiungiamo i 6 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. “C’è carenza di personale di ogni profilo professionale, agenti di polizia di penitenziaria, educatori, psicologi, figure sanitarie. Questo decreto non interviene efficacemente per affrontare i nodi della condizione carceraria perché si tratta di interventi assolutamente insufficienti, marginali e inadeguati rispetto alla vastità del problema e buoni solamente per la propaganda - dice la segretaria nazionale della Cgil - e le parole suggestive che vengono usate sono ben lontane dalla realtà. Il governo, sin dal suo insediamento, ha perseguito una politica proibizionista e repressiva che ha continuato a introdurre nuovi reati anziché affrontare i temi cruciali”. Inoltre non vi è nessuna azione “per garantire il diritto di chi sta in carcere al lavoro e a un percorso di formazione. Una battaglia che la Cgil sta portando avanti da tempo, ad esempio, è quella per il riconoscimento del diritto alla Naspi per i lavoratori detenuti: stiamo facendo ricorso e stiamo vincendo le sentenze, ma sarebbe necessario che questo diritto venisse riconosciuto senza fare ricorsi. Se si vuole umanizzare la condizione carceraria - conclude Barbaresi -, lo si faccia con misure concrete e soprattutto alla luce dei numeri importanti che ci sono”. Il Ministro Nordio: “Sì alla pena certa, ma non sempre va espiata in carcere” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 11 luglio 2024 Il Guardasigilli dopo aver incassato l’ok dalla Camera su abuso d’ufficio e intercettazioni, ha commentato la drammatica situazione degli istituti penitenziari dove i suicidi ormai non si contano più. È un Nordio evidentemente soddisfatto, quello che ha incassato ieri alla Camera l’ok definitivo al suo ddl sull’abuso d’ufficio e sulla nuova disciplina delle intercettazioni. In Transatlantico, il ministro della Giustizia, circondato dal suo staff, si è intrattenuto con alcuni cronisti per sottolineare ancora una volta gli aspetti a suo avviso positivi della riforma e indicare i prossimi punti di intervento sul dossier giustizia, a partire ovviamente dalla separazione delle carriere, che sta cominciando a muovere i suoi primi passi in Parlamento, in commissione a Montecitorio. Poi, il Guardasigilli ha accettato volentieri di soffermarsi col nostro giornale sulla questione dei suicidi in carcere, il cui computo si aggiorna quotidianamente e in modo drammatico e sembra non trovare contromisure adeguate sia sul fronte legislativo che amministrativo. Ministro, dall’inizio dell’anno siamo già arrivati a 54 suicidi di detenuti e sei di agenti penitenziari, e siamo entrati nell’estate, periodo notoriamente più duro per i reclusi. Con questo ritmo, entro la fine del 2024 i morti potrebbero superare il centinaio. Cosa pensa di fare su questo fronte drammatico? Il suicidio ha una motivazione psicologica estremamente complessa e difficile da ricostruire. Vi sono dei suicidi persino tra persone che non avrebbero nessuna ragione plausibile di togliersi la vita: abbiamo visto suicidarsi un generale, un rettore universitario. Questo significa che non si può parlare del suicidio in termini lineari. Certo, il sovraffollamento delle carceri può essere una induzione maggiore al suicidio ma non sempre vi è un rapporto di causalità, perché per esempio le nostre carceri sono state più sovraffollate di adesso in alcuni anni passati e vi sono stati meno suicidi. Il che significa che occorre comprendere quali siano le ragioni profonde, senza essere così lineari nell’attribuire il suicidio al sovraffollamento carcerario. Anche se, lo ripeto, il sovraffollamento è un problema enorme che peraltro riguarda tutti i paesi. Ieri all’esordio del nuovo governo inglese si è parlato del sovraffollamento carcerario. Ci sono delle priorità, riguardo a ciò che può fare il governo? Anzitutto sostegno psicologico: abbiamo aumentato i fondi per avere l’aiuto psicologico per capire quali siano i segnali di allarme che possono essere indicativi di una propensione al suicidio e dare il sostegno necessario in questi casi. Poi, bisogna intervenire in tre settori: la limitazione della carcerazione preventiva, perché circa il 30 per cento dei detenuti sono in attesa di giudizio e in questo senso la riforma di oggi (ieri, ndr), pone dei paletti alla custodia cautelare preventiva e avrà una certa efficacia, anche se non immediata. La seconda è di far scontare la pena ai detenuti stranieri nel loro paese d’origine, perché occorre tenere presente che il 50 per cento dei detenuti in Italia sono stranieri. Anche qui è un lavoro un po’ lungo, ma qualche cosa siamo già facendo. La terza cosa da fare, e forse la più importante, è di differenziare il regime di detenzione, perché non tutti i rei sono uguali e non tutti i reati sono uguali. In realtà, da alcuni suoi colleghi di governo e di maggioranza arrivano segnali di chiusura su questo fronte... Il fatto che noi tutti siamo garantisti, perché garantiamo la presunzione di non colpevolezza prima del processo e la certezza della pena dopo la condanna definitiva, non significa che la certezza della pena coincida necessariamente con la prigione, il catenaccio e le sbarre. Per i detenuti di reati minori e soprattutto per i tossicodipendenti stiamo lavorando molto per una riforma alternativa di esecuzione della pena, che però non significa il venir meno alla limitazione della libertà. Una detenzione dentro le comunità, per cui la persona non viene liberata ma viene trasferita in sistemi protetti che per alcuni tipi di detenuti sono anche più idonei alla rieducazione, nel senso indicato dalla Costituzione. L’urgenza estrema della situazione, però, impone celerità... Legislativamente stiamo intervenendo e siamo già intervenuti. Alcune comunità sono già state individuate, ci sono già gli accordi e questo sarà l’elemento più importante e più immediato. Il capo del Dap Russo: “Sovraffollamento simile agli altri anni, ma ora più telefonate” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 11 luglio 2024 Dopo le audizioni, tra cui quella di Gian Luigi Gatta e della presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari Maria Cristina Ornano, le opposizioni hanno fortemente criticato il decreto. Si sono svolte ieri le audizioni commissione Giustizia al Senato sul decreto carceri, tra cui quella del capo del Dap, Giovanni Russo. “Il sovraffollamento è oggettivo ma non è dissimile a quello degli anni scorsi o registrati in altri istituti penitenziari di altri paesi della Ue”, secondo il quale tra i detenuti “c’è un disagio di fondo nel mancato accoglimento e nella mancata risposta delle istituzioni alle basilari richieste”. Russo, sottolineando le assunzioni di agenti penitenziari, ha spiegato che “una parte significativa” dei suicidi “è correlata a soggetti che hanno perso il contatto con la società e i legami famigliari, che non ricevono la visita dei difensori” parlando di “una pauperizzazione delle relazioni che fa il pari con una sorta di pauperizzazione sociale”. E dunque ha chiesto l’aumento delle telefonate tra detenuti e mondo esterno, legate al “diritto di mantenere rapporti con i familiari, che è un diritto assoluto del detenuto e importante dal punto di vista del trattamento”. E sulla necessità di svuotare le carceri ha detto che l’intento del decreto è “connotare la missione del Dap come orientata all’esecuzione dell’articolo 27 ossia una esecuzione della pena correlata al fine della rieducazione” mentre lo svuotamento “non era il tema prioritario” nel provvedimento. Sulle assunzioni degli agenti ha risposto a Russo Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, precisando che “le assunzioni nella legge di bilancio (n. 197/ 2022) erano spalmate su quattro anni, 250 all’anno per ciascuno degli anni dal 2023 al 2026, così come le mille ulteriori previste dal decreto- legge in esame si conseguiranno a scaglioni di 500 all’anno, non prima della fine del 2026”. Dopo le audizioni, tra cui quella di Gian Luigi Gatta e della presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari Maria Cristina Ornano, le opposizioni hanno fortemente criticato il decreto. “Dalle audizioni in commissione Giustizia sul decreto carceri presentato dal ministro Nordio emerge quello che abbiamo detto fin dall’inizio: lo sbandierato decreto legge sulle carceri è completamente inutile e non risolve il problema del sovraffollamento cronico, parola totalmente assente nel testo del decreto e nelle parole del ministro Nordio”, ha detto la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi, mentre per il capogruppo Pd in commissione, Alfredo Bazoli, “le audizioni sul decreto carceri, da parte di professori universitari, tribunali di sorveglianza, garanti, vanno oltre le nostre peggiori preoccupazioni”. Secondo l’esponete dem “non solo le norme introdotte non saranno in grado di offrire alcun sollievo al grave sovraffollamento dei nostri penitenziari, ma anzi addirittura aggraveranno il lavoro dei tribunali di sorveglianza, ritardando l’emissione dei provvedimenti di liberazione anticipata”. Le opposizioni, con un comunicato unitario, hanno criticato duramente l’assenza del Garante per le persone private della libertà. “Troviamo veramente incredibile che il Garante, che è organo collegiale composto da tre persone, non possa inviare (e nemmeno collegare da remoto) alcun membro del collegio per interloquire con il Parlamento. La presentazione di una memoria scritta non consentirà ai componenti della Commissione di formulare alcuna domanda al Garante: ci si dovrà dunque accontentare di ciò che alla Commissione sarà comunicato in via unilaterale, senza alcuna possibilità di ottenere alcun chiarimento o approfondimento su una questione cruciale per il Paese - si legge nella nota -. Ci chiediamo quali impegni più importanti possa mai avere il Garante di relazionare al Parlamento della Repubblica, massima sede della rappresentanza democratica”. A replicare è proprio uno dei componenti dell’ufficio del Garante, Mario Serio: “Abbiamo ricevuto questa mattina (ieri, ndr) alle 10 una convocazione per la giornata di domani (oggi, ndr), giorno in cui il presidente è impegnato a Milano, in Commissione Antimafia, per discutere dei gravissimi fatti verificatisi al carcere Beccaria - ha spiegato al Dubbio -. Abbiamo offerto la nostra disponibilità ad essere ascoltati ogni giorno, da venerdì a martedì, inclusi sabato e domenica, aggiungendo che ove non fosse stato possibile effettuare l’audizione avremmo volentieri inviato una memoria. È falso e grave, in un momento come questo, far passare il messaggio che il Garante ha inteso snobbare il Parlamento o sminuirne le prerogative”. Intanto non cala l’attenzione dell’Unione camere penali sull’emergenza suicidi, perché “prosegue la mancanza di un programma di serie riforme strutturali e di ripensamento dell’intera esecuzione penale e l’irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento ed alla tragedia dei fenomeni suicidari”. E quindi “in chiusura delle maratone oratorie organizzate dalle singole camere penali sui rispettivi territori”, l’Unione organizza una manifestazione nazionale a Roma, in Piazza dei Santi Apostoli, dalle ore 14.30”. Parteciperanno, oltre ai penalisti italiani, tanti esponenti della società civile, dell’associazionismo, non solo forense, e della politica. “Dal Cnf azioni concrete contro la piaga dei suicidi nelle nostre celle” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 luglio 2024 Intervista all’avvocata Francesca Palma, coordinatrice della commissione detenuti. Attuazione della funzione istituzionale del Consiglio nazionale forense e concretezza nell’agire. Sono questi i due principi ispiratori che animano il programma della Commissione per le persone private della libertà personale del Cnf, coordinata dall’avvocata Francesca Palma. “Abbiamo voluto rimarcare questi principi - dice Palma - considerato il particolare momento che stiamo vivendo. Un momento di emergenza che richiede l’impegno e il coinvolgimento di tanti soggetti”. Avvocata Palma, i suicidi in carcere non si fermano. Rispetto a questa emergenza il Cnf ha intrapreso delle iniziative ben precise. Di cosa si tratta? Il Consiglio nazionale forense, in persona del suo presidente Francesco Greco, attraverso la Commissione che coordino, composta dai consiglieri Leonardo Arnau e Tonino Gagliano, e dagli avvocati Antonella Calcaterra, Giorgia Montanaro, Angela Maria Odescalchi, Andrea Pallaver, Ninfa Renzini, Tonino Ricciardo e Loredana Satriani, con la collaborazione della consigliera segretario Giovanna Ollà, ha delineato l’attività istituzionale da svolgere individuando azioni concrete. Partiremo con un monitoraggio presso gli Ordini territoriali, finalizzato alla raccolta di alcuni dati informativi necessari alla costituzione di una rete di referenti ordinistici. Questa attività servirà pure ad individuare gli interventi da compiere nelle singole realtà locali e diffondere tra i Coa le buone prassi da seguire per la tutela dei detenuti. Il ruolo degli Ordini dei avvocati è, dunque, fondamentale? Certo. È stato chiesto ai Coa di indicare le caratteristiche delle strutture carcerarie esistenti nel circondario ove ha sede il Consiglio per l’eventuale istituzione di una commissione dedicata alla analisi delle problematiche relative alla esecuzione penale e alle condizioni dei detenuti all’interno delle strutture carcerarie. Sarà, inoltre, utile sapere se esistono dei protocolli stipulati con la direzione carceraria e-o con il Tribunale di sorveglianza e se sono in corso progetti finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Ci sono stati dei primi riscontri? La risposta favorevole al progetto da parte dei Coa è stata immediata. Già molti hanno indicato il referente e fornito una serie di dati. Il recente confronto con i Fori del Distretto di Genova, promosso dal Consiglio nazionale forense e svoltosi la scorsa settimana, ha rappresentato l’occasione per presentare il progetto e le attività della Commissione che coordino. A Genova abbiamo avuto un ulteriore riscontro in merito all’utilità delle iniziative messe in campo, trovando adesione da parte dei presidenti dei Coa liguri. Adesso occorre concretizzare e dar corso a quello che abbiamo pianificato e iniziato a condividere con l’avvocatura dei territori. Quale sarà il passaggio successivo? Ci saranno altri soggetti che verranno coinvolti? Completato il monitoraggio al quale facevo riferimento poco fa, si costituirà la rete dei referenti con lo scambio di esperienze che porterà alla individuazione di azioni per realizzare i migliori progetti possibili. L’avvocatura istituzionale sarà in grado di attuarli anche con il necessario supporto delle associazioni forensi, le quali, da sempre, operano nel settore. Inoltre, il presidente Greco ha già richiesto, in attuazione della delibera del plenum del Consiglio nazionale forense e su proposta della Commissione per le persone private della libertà personale, ai presidenti di tutte le Regioni e agli assessori regionali alla Sanità di estendere la partecipazione all’”Osservatorio permanente interistituzionale per la salute in carcere” ai rappresentanti degli avvocati di tutti i circondari del territorio. In questo modo potranno contribuire attivamente alla ideazione e all’attuazione dei programmi di tutela della salute delle persone private della libertà personale. Sono molto fiduciosa rispetto al fatto che tale invito troverà accoglimento da parte delle autorità sanitarie regionali. La Regione Veneto in passato ha già esteso la partecipazione a un rappresentante degli avvocati. L’esperienza dell’avvocatura può dare un apporto significativo per la prevenzione dei suicidi e, più in generale, per migliorare la vita dei detenuti. Siamo al tempo stesso consapevoli che la problematica attuale del sovraffollamento carcerario richiede ulteriori interventi da attuare con urgenza. A tal proposito è utile che ci sia un impegno da parte di tutti. A cosa si riferisce? L’attuale situazione di emergenza richiede alla politica l’emissione di provvedimenti altrettanto di emergenza, che non sono contenuti nel recente Dl n. 92/24, al quale si plaude per gli effetti che le nuove norme produrranno, ma a lungo termine, come l’aumento del personale di polizia penitenziaria, l’elenco delle strutture residenziali di accoglienza, la semplificazione delle procedure di liberazione anticipata. Credo che sia assolutamente necessario ed urgente rendere la detenzione meno degradante ed evitare gli effetti nocivi del sovraffollamento che squalificano il nostro sistema di giustizia e la società civile tutta. Carcere per le donne incinte: nel ddl Sicurezza c’è una norma contro mamme e bambini di Laura Liberto* huffingtonpost.it, 11 luglio 2024 Un pacchetto di misure inutili e gratuitamente repressive in materia penale, penitenziaria e nel diritto dell’immigrazione. Tra inasprimenti di pene, nuove e pleonastiche fattispecie di reato e misure di prevenzione, il disegno di legge in materia di sicurezza, appena licenziato dalle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati, contiene un pacchetto di misure inutili e gratuitamente repressive in materia penale, penitenziaria e nel diritto dell’immigrazione. Dalle previsioni mirate a colpire la libertà di manifestazione e a criminalizzare il dissenso, a quelle che puniscono la resistenza passiva nelle carceri e nelle strutture di detenzione e trattenimento delle persone migranti, all’ampliamento delle possibilità di revoca della cittadinanza, l’intero testo conferma la scelta, da parte della maggioranza di Governo, dell’uso simbolico del diritto penale come filo conduttore delle proprie politiche in tema “sicurezza”. Tra le disposizioni contenute nel testo, spicca, per insensatezza e gratuità, la norma che apre la possibilità all’ingresso in carcere per le donne incinte e le madri con bambini di meno di un anno di età, rendendo facoltativo il differimento della pena che in questi casi, oggi, è obbligatorio. Negli ultimi anni, come Cittadinanzattiva, abbiamo lavorato tanto sul problema della presenza dei bambini ristretti in carcere assieme alle madri detenute; attraverso la campagna “L’infanzia non s’incarcera” abbiamo contribuito alla costruzione di misure ad hoc e di proposte di legge finalizzate a scongiurare nuovi ingressi dei piccoli negli istituti di pena e di soluzioni normative capaci di coniugare la tutela della salute psico-fisica dei bambini con le ragioni di sicurezza e le esigenze legate alla esecuzione della pena a carico delle madri. Non solo quelle iniziative legislative sono state, nel tempo, totalmente affossate dalle forze politiche di maggioranza, ma oggi ci troviamo a fare i conti con un diametrale rovesciamento di prospettiva, con misure che, peggiorando la normativa vigente, determinano un arretramento significativo sul terreno delle garanzie e della civiltà giuridica. Introdurre la possibilità che i neonati siano ristretti in carcere con le madri significa mettere in discussione principi consolidati sul piano costituzionale ed internazionale per i quali le scelte del legislatore devono privilegiare la tutela superiore dei bambini su altre ragioni di ordine pubblico; prevedere l’ingresso in carcere di donne in stato di gravidanza, oltre a contraddire elementari principi di civiltà, significa non tenere conto delle condizioni in cui versano gli istituti penitenziari anche dal punto di vista dell’accesso all’assistenza sanitaria. Il Ministro Salvini rivendica l’approvazione di una simile misura intestandola come vittoria del proprio partito. E lo fa utilizzando sui social un linguaggio che stride con il suo ruolo istituzionale e che nel metodo è quello consolidato della propaganda, che produce false emergenze, che fa leva sui sentimenti più retrivi delle persone e costruisce ad arte nemici pubblici, in questo caso donne borseggiatrici - con chiaro seppure sottinteso riferimento ad una loro origine rom - che strumentalizzerebbero le loro gravidanze per garantirsi l’impunità. È forte la nostra preoccupazione per questa disposizione e, in generale, per i pericoli autoritari connessi all’approvazione dell’intero DDL e richiamiamo le forze politiche ad un atto di responsabilità, chiedendo loro di invertire la rotta nel successivo passaggio in Aula. *Coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti - Cittadinanzattiva Le vite a perdere del carcere di Livio Ferrari* Ristretti Orizzonti, 11 luglio 2024 L’attualità dei drammi e morti che si consumano nelle carceri italiane, il trovare uno spazio quotidiano nell’informazione, il continuare a parlarne non ha prodotto alcuna modificazione del sistema. Il parlarne sembra quasi fautore di un’esorcizzazione nei confronti delle macabre notizie sugli esseri umani che vengono stipati nelle nostre patrie galere e, a parte qualche labile protesta in alcuni istituti, in questi mesi la popolazione detenuta ha sentito profondamente il senso di vuoto esistenziale che c’è nei loro riguardi da parte del mondo libero. In fondo sono nella stragrande maggioranza poveri, molti stranieri, e con nessuna funzione di bacino elettorale, perciò non interessano in quanto sono vite a perdere per una società che non è in grado di integrare, soprattutto non coloro che hanno il torto di essere soprattutto ai margini. E nonostante le informazioni da bollettino di guerra dei morti, l’opinione pubblica è stata ancora una volta privata di un’autentica conoscenza di quali siano le reali condizioni di povertà, di privazione, di sofferenza e dolore in cui versano le persone recluse. La vulnerabilità sociale e la mancanza di risorse, per chi è ristretto nelle carceri italiane, è l’elemento caratterizzante della distanza che li separa dal resto della società, del disinteresse o peggio dell’odio nei loro confronti da parte dei liberi che non hanno nessuna predisposizione ad approfondire la questione. La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea la mancanza di responsabilità verso il proprio comportamento e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta. Il carcere ha una funzione falsa e ideologica perché finge di controllare, evitare e prevenire i reati, mentre li produce e riproduce, con l’aggravante di organizzare scientemente con pretesa fondatezza ed efficacia un’istituzione sostanzialmente improduttiva, se non controproducente, in cui i diritti fondamentali dei suoi ospiti sono pressoché violati. Niente di nuovo comunque, anche le violenze di questi anni, documentate dalle immagini e suffragate da faldoni di carte processuali, non hanno smosso l’inerzia governativa, come non stanno producendo alcunché da parte dell’attuale compagine che non ha una cultura ancorata alla Costituzione, che nonostante tutto è comunque ancora vigente, e nella quale non troviamo da nessuna parte il termine carcere, cosa che dovrebbe far assai riflettere. Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo autorizzare la pratica della cattiveria di Stato, con l’imposizione del dolore e della sofferenza ai ristretti. È possibile vivere in un mondo migliore, invece di reprimere è più utile, sicuro e degno investire in politiche pubbliche per ridurre le diseguaglianze sociali. È urgente scegliere percorsi di pace per ridare dignità alle persone che commettono reati, ridurre la sofferenza e la vendetta di questi luoghi disumani che alimentano solo l’odio, ridare ai condannati la responsabilità per quanto hanno commesso affinché possano essere messi in grado di produrre gesti di restituzione del danno e di riconciliazione. Solo se saremo capaci di abbattere questi muri la repubblica Italiana tornerà, almeno per questo verso, ad essere uno Stato di diritto. *Portavoce “Movimento No Prison” Ddl Nordio, proteste e cartelli in Aula: “L’Italia è più ingiusta”. Il nuovo fronte sui decreti di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 11 luglio 2024 La protesta dei deputati di Alleanza Verdi e Sinistra dopo il voto finale alla Camera sul ddl sull’abuso d’ufficio. “Salva-colletti bianchi, vergogna!”, “Reati aboliti, indagini impossibili!”. I deputati di Alleanza Verdi Sinistra manifestano tutta la loro contrarietà all’approvazione del disegno di legge Nordio, brandendo cartelli in Aula. Ma l’opposizione, componente centrista a parte, è durissima nella critica: “Da oggi l’Italia è un Paese più ingiusto, i cittadini non potranno più avere giustizia davanti ad abusi in concorsi e appalti”, è il monito di Giuseppe Conte, presidente del M5S. “Perché il governo da una parte abolisce l’abuso d’ufficio e dall’altra introduce nel decreto Svuota carceri il nuovo reato di peculato per distrazione? - provoca Debora Serracchiani, Pd. La verità è che l’abolizione dell’abuso d’ufficio apre una voragine nella tutela della Pubblica amministrazione che il governo ha dovuto in fretta e furia arginare per non incorrere in una procedura di infrazione europea”. Si concentra sulla stretta relativa alle intercettazioni, Devis Dori di Avs: “Il ddl Silvan - dice il deputato in aula ribattezzando il provvedimento Nordio - mette un altro bavaglio alla libertà di stampa. E abolendo l’abuso d’ufficio, la destra cancella i reati dei colletti bianchi pensando non ai sindaci e alla loro presunta paura della firma, ma ai suoi amici condannati”. Anche l’associazione nazionale magistrati è molto critica: “Introdotte norme che peggiorano il grado di efficienza del sistema giustizia”, dice il presidente Giuseppe Santalucia. Lamentano il “rischio cappa di silenzio sull’informazione” Ordine dei giornalisti e Federazione della stampa. Dopo l’approvazione del disegno di legge Nordio, però, si apre anche una contesa tutta procedurale tra le forze politiche: da qui alla pausa estiva il Parlamento sarà impegnato in un tour de force per smaltire otto decreti in scadenza. Il calendario prevede i decreti sullo sport, sulla semplificazione edilizia, sulla salute, sulle infrastrutture, sulle carceri e sulla Protezione civile e forse quello di Valditara sul voto in condotta. In questo quadro, slitterebbe al 5 agosto l’avvio della discussione sulla Sicurezza. Durante la conferenza dei capigruppo, le opposizioni respingono il nuovo ordine dei lavori. Quindi si rivolgono al ministro per i rapporti col Parlamento, Luca Ciriani, e al presidente della Camera, Lorenzo Fontana: “Fermate questa vergognosa deriva”. “Fate più decreti dei governi tecnici”, rimprovera Benedetto Della Vedova (+Europa). “Svuotate il Parlamento dalla funzione che la Costituzione gli assegna”, ammonisce Angelo Bonelli di Avs. Tommaso Foti di FdI difende (relativamente) la posizione: “Potete dire che i decreti sono troppi ma non che questo governo non è disponibile ad ascoltare le modifiche anche proposte dalle opposizioni”. Ma niente da fare: sul calendario dell’Aula prima di agosto il clima resta rovente. Né paradiso garantista, né inferno giustizialista di Massimo Adinolfi La Stampa, 11 luglio 2024 L’approvazione definitiva del ddl Nordio che elimina dal codice il reato di abuso d’ufficio, limita la diffusione delle intercettazioni, restringe le possibilità di ricorrere all’appello per il Pm e irrobustisce le garanzie in materia di custodia cautelare non è il paradiso, ma non è nemmeno l’inferno. Non è la riforma che ci monda da tutte le storture del sistema, ma non è neppure la fine di ogni idea di giustizia nel nostro paese. Non è il ripristino dello Stato di diritto, ma non è nemmeno uno scandaloso lasciapassare per corrotti e corruttori. E allora cos’è? Forse lo si capisce meglio se lo si guarda nei punti che suscitano meno polemiche, che inaspriscono meno gli animi, ma che introducono un cambiamento effettivo. Ma ci arriviamo. Intanto, parliamoci chiaro: l’abuso d’ufficio è un reato solo sulla carta. Uno legge la parola “abuso” ed è portato a pensare, per il semplice significato della parola, che, se si tratta di un abuso, non può trattarsi di una condotta particolarmente commendevole da parte del pubblico ufficiale, e allora perché eliminare la fattispecie in questione? Ma poi guarda le statistiche e si accorge che le condanne si contano sulle dita di una mano, e l’unica pena che viene irrogata è, in sostanza, il ludibrio da cui è investito chi si becca l’imputazione e finisce a processo. Se si volesse ragionare sulla cosa come si deve, bisognerebbe far così: ai garantisti, a coloro che difendono principi diritti e garanzie, bisognerebbe chiedere di dimostrare che a dar loro retta il sistema non perde (troppa) efficienza, non dà licenza di delinquere e non lascia a piede libero i corrotti; ai giustizialisti, invece, a coloro che non dubitano mai di imputazioni e manette, e mettono innanzi a tutto la lotta alla corruzione e alla criminalità, bisognerebbe chiedere, al contrario, di dimostrare che, così facendo, non si comprimono diritti fondamentali e non ci vanno di mezzo quelli che non c’entrano nulla. Orbene, nel caso dell’abuso d’ufficio, i primi, i garantisti, hanno facilmente partita vinta, perché è il sistema com’è adesso che non funziona, che a fronte di migliaia di processi produce pochissime condanne, e che quindi se ha un valore deterrente nei confronti dell’amministratore ce l’ha solo per il clamore che suscita un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio, non per l’esito dell’azione penale. Dopodiché è da vedere cosa accadrà davvero, nella giurisprudenza, se i magistrati proveranno a far rientrare dalla finestra quello che ora è cacciato via dalla porta, ricorrendo a reati connessi per perseguire comunque le condotte che l’abolizione dell’abuso d’ufficio non consentirebbe più di perseguire. Spesso l’attenzione della pubblica opinione è tutta concentrata sui testi di legge e non s’accorge che, nella prassi, poco o nulla cambia veramente. Dove le cose cambiano di sicuro è invece in materia di custodia cautelare, perché introdurre l’interrogatorio prima della misura preventiva dà effettivamente una carta in più alla difesa. E così pure l’elemento della collegialità per l’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà (attualmente in capo a un giudice monocratico) è un passo ulteriore a garanzia dell’inquisito. Ed è un cambio sostanziale anche la limitazione della possibilità, per il Pm, di proporre appello in caso di sentenza di primo grado favorevole alla difesa. Tutte queste misure sono introdotte con qualche prudenza, esentando certi reati più gravi, ma vanno tutte nella stessa direzione e, per mio conto, è una direzione di civiltà. È un principio di civiltà, infatti, quello che dice: in dubio pro reo. Ma se c’è una sentenza di assoluzione in primo grado, il dubbio ci sarà per forza, anche dopo una futura condanna. Ed è un principio di civiltà - fissato nella nostra Costituzione - quello che pensa al carcere come extrema ratio, e che richiede quindi tutte le verifiche possibili, prima di farvi ricorso. Se poi anche in questo caso si guarda ai numeri - al sovraffollamento carcerario, e all’abnorme percentuale di detenuti in attesa di giudizio - ci si rende conto che, di nuovo, non c’è motivo di preoccuparsi per l’efficienza di un sistema che, in realtà, è già drammaticamente inefficiente. Cionondimeno, c’è qualche preoccupazione. Un po’ per il quadro politico generale, e una maggioranza che mostra un profilo schiettamente liberale su certi argomenti, ma non su altri (vedi, soprattutto, alla voce immigrazione, ma vedi pure, in materia di giustizia, all’ansia di introdurre nuovi reati: e che, si toglie l’abuso d’ufficio dopo aver introdotto il variopinto reato di rave party?); un po’ perché, in genere, non sembra che Meloni voglia andare tanto per il sottile nei confronti dei cosiddetti contropoteri (vedi, più che il trattamento riservato alla magistratura, le ruvide attenzioni verso la stampa e il servizio pubblico); un po’ infine per la materia ancora in via di definizione, quella delle intercettazioni, su cui il governo è già intervenuto e su cui il ministro promette un riordino generale che non si sa ancora quale assetto avrà, in concreto. Non sono quisquilie, certo, ma non devono spostare l’attenzione dal merito del provvedimento approvato ieri. Che, dati causa e pretesto - cari i miei giudici austeri, cari i miei militanti severi - bisogna valutare come un passo avanti, anche se ci si avvelena un po’. Decreto sicurezza e “riformetta” della giustizia, acqua fresca e più prigione di Piero Sansonetti L’Unità, 11 luglio 2024 Ci vuole un bel coraggio per dire che questa cosetta qui è una riforma della giustizia. Diciamo che per essere una riforma della giustizia, mancano due cose: la riforma e la giustizia. C’è poco da scherzare. Ci avevano detto che avrebbero fatto la separazione delle carriere, la riforma del carcere, la responsabilità civile del giudice, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, e tantissime altre cose importanti, cioè che avrebbero provato a rimettere in piedi lo Stato di Diritto sfidando i veti dell’Anm (l’associazione dei magistrati) e di Scarpinato e di Travaglio. Hanno partorito un piccolo topolino, e non è nemmeno questa la cosa più grave. La cosa più grave è che insieme al topolino hanno partorito una bestia feroce che rende il nostro sistema giudiziario ancora più repressivo di quanto non fosse prima. Dico di più: in alcuni aspetti hanno peggiorato le norme del codice Rocco che aveva voluto Mussolini. Noi ogni tanto scriviamo che questi al governo sono un po’ fascisti, e tutti ci danno addosso. Dicono che siamo ideologici. Altro che fascisti: talvolta sono molto peggio. Le riforme che si stanno discutendo sono due. Una è questa briciolina che chiamano riforma della giustizia. L’altra è la conversione in legge di una serie di decreti sicurezza, voluti soprattutto da Salvini, che trasformano il nostro codice penale in qualcosa che più che Beccaria ricorda Pol Pot. La riforma che esalta gli animi dei “garantisti un po’ così” consiste nell’abolizione dell’abuso di ufficio (che però in parte viene ripristinato nei decreti sicurezza), nel ridimensionamento del reato di traffico di influenze, che comunque resta (e che finora ha portato a un numero di condanne definitive vicino allo zero), e in un gioco delle tre carte che finge di limitare le custodie cautelari ma non le limita affatto. La riforma della custodia consiste nell’obbligo, da parte del Gip di ascoltare il futuro prigioniero prima di metterlo in prigione. Che sarebbe una cosa buona. Ma poi la legge precisa che questo interrogatorio può essere evitato per i reati minori (in particolare solo quelli dei colletti bianchi) e solo se il magistrato ritiene che ci sia il rischio di fuga o di inquinamento delle prove. Questo scherzetto permette ai magistrati di continuare ad arrestare chi vogliono senza problemi. Basta dire che siccome se lo avverti che lo arresterai quello poi inquina le prove, e allora è meglio non interrogarli. L’unico aspetto non negativo della riforma sono alcune norme che riducono (ma non moltissimo) la possibilità per i giornalisti di pubblicare col copia-incolla tutte le carte che sputtanano gli imputati e sputtanano anche moltissime persone che non sono imputate. Non potranno più fare il copia-incolla, i giornalisti, dovranno riassumere. E questo comporterà un aumento della fatica per loro, e la cosa li fa infuriare, ma non è detto che diminuiscano le possibilità della gogna. Tutto qui. Squit squit. E mentre si porta a casa questo sconquasso, che stavolta forse neanche l’Anm troverà la faccia tosta per protestare (visto che in pratica ha vinto su tutta la linea), si fanno altre due cose. La prima è quella di affossare la legge Giachetti sulla liberazione anticipata, che permetterebbe di alleggerire il sovraffollamento attraverso delle piccolissime riduzioni delle pene (legge che ha provocato le convulsioni di Travaglio e della Lega e di Fratelli d’Italia), e visto che quella legge sarà affossata è difficile spiegare ai lettori come e perché Italia Viva abbia deciso di votare la riformetta Nordio. La seconda cosa è il decreto sicurezza, in discussione in commissione. È un decreto che definire giustizialista è un eufemismo. Si ispira al più cristallino salvinismo: carcere carcere carcere e butta la chiave. Prendiamo in esame due soli elementi. L’aumento delle pene per resistenza a pubblico ufficiale, con l’aggiunta che diventa reato la resistenza passiva. Si tratta delle norme “anti-no-ponte” che introducono il nuovo reato di “terrorismo della parola”, che prevede un inasprimento delle pene “se la violenza o la minaccia è commessa per impedire la realizzazione di una infrastruttura strategica”. Avete capito bene, sì: “terrorismo della parola”. È il frutto di un emendamento del leghista Igor Iezzi. Sono idee che effettivamente forse sarebbero piaciute a Mussolini, ma per varie ragioni non gli vennero in mente. A Mussolini invece era venuta in mente una legge che proibiva la detenzione in carcere delle donne incinte e soprattutto dei bambini con meno di un anno di età. La legge fu introdotta nel codice Rocco. Beh, a questo governo è sembrato un cedimento inammissibile del duce al liberalismo, e ha deciso di abolire quella norma. Con l’opposizione, se Dio vuole, anche di Forza Italia. Salvini ha tuonato felice, quando ha annunciato la fine della vecchia norma umanitaria fascista e ha gridato contro le borseggiatrici schifose e vigliacche. Gli ha risposto per fortuna la deputata del Pd Michela Di Biase che ha ribaltato l’accusa. Gli ha detto: “Caro Salvini, il vigliacco è lei”. Effettivamente è difficile non parlare di vigliaccheria se viene approvata una legge contro i bambini appena nati. Che stabilisce che per cause di forza maggiore questi bambini devono trascorrere in cella i primi anni della loro vita. In condizioni atroci. Che danneggiano in modo irreparabile la loro psiche, i loro sentimenti, la sensibilità, la possibilità di essere felici. E se uno poi pensa che leggi di questo genere vengono proposte e accettate, in un’orgia inarrestabile di ipocrisia, da chi esalta la maternità, la famiglia, la cristianità, il patriottismo! Mammamia che spettacolo agghiacciante. È assurdo non tenere insieme i decreti sicurezza e la riforma della giustizia. Perché è dal combinato disposto che si capisce che si tratta di una operazione politica di netto sapore giustizialista. Che sta dentro la scia delle politiche oscurantiste dell’ex ministro Bonafede. Il bilancio di questo governo sulla giustizia è tutto nell’aumento dei reati e delle pene. Di garantista c’è zero, virgola zero. L’unico fatto non negativo è l’attenuazione dei reati per i politici, e questo va bene, perché qualunque attenuazione dei reati è un fatto positivo. Ma se qualcuno mi viene a dire che si è avviato un cammino garantista vuol dire che il garantismo non sa nemmeno dove sta di casa (diceva così il mio professore di lettere, alle scuole medie…). Ribellarsi a una Repubblica fondata sullo strapotere delle procure si può di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 luglio 2024 Meno reati evanescenti, più limiti alla gogna. Solo chi è affezionato all’idea che l’Italia debba essere condannata a vivere in una Repubblica giudiziaria può non rallegrarsi di fronte a una legge che altro non fa che dare una spolverata allo stato di diritto. Quando il Parlamento approva una riforma che si occupa di limitare i reati evanescenti, che si occupa di governare gli abusi delle indagini, che si occupa di limitare le intercettazioni irrilevanti, che si occupa di proteggere la privacy dei cittadini, che si occupa di porre un argine al sistema della gogna, che si occupa di evitare che ogni richiesta di custodia cautelare venga approvata automaticamente, che si occupa di non trasformare ogni avviso di garanzia in un ventilatore di letame e che in definitiva cerca di non assecondare l’idea che l’Italia debba essere necessariamente una repubblica fondata non sul lavoro ma sullo strapotere delle procure e sull’egemonia del circo mediatico-giudiziario. Ecco, quando capita tutto questo, esistono due modi di reagire. Il primo modo è disperarsi, chiamare l’esercito, evocare il golpe, invocare lo scandalo, agitare il bavaglio, organizzare girotondi e disperarsi per ragioni evidenti. Perché - con la riforma approvata ieri, riforma che va ad abrogare l’abuso d’ufficio, che precisa i contorni del traffico di influenze, che introduce il divieto di riportare nei verbali di trascrizione delle intercettazioni espressioni irrilevanti, che introduce l’istituto dell’interrogatorio preventivo della persona sottoposta alle indagini preliminari - i magistrati avranno un po’ meno possibilità di condire le proprie indagini con elementi irrilevanti, di trasformare i sospetti in reati senza pistole fumanti, di utilizzare il processo mediatico per far sì che gli indagati possano essere trasformati in colpevoli fino a prova contraria. Ci si può disperare, si può chiamare l’esercito, si possono organizzare girotondi. Oppure ci si può rallegrare per il fatto che, per una volta, vi sia un Parlamento desideroso di onorare due articoli della Costituzione che gli apostoli della Carta tendono spesso a ignorare. Articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni è inviolabile. Articolo 27: ogni indagato è innocente fino a sentenza definitiva. La battaglia politica e culturale che si presenta di fronte ai nostri occhi ogni volta che si ragiona attorno ai confini del garantismo non è solo tra chi vuole difendere il circo mediatico-giudiziario e chi lo vuole limitare, non è solo tra chi accetta il libero sputtanamento degli indagati e chi invece lo considera un abominio dello stato di diritto, non è solo tra chi chiede che i magistrati si occupino di combattere i fenomeni e chi i reati, ma è tra chi considera legittimo avere una Repubblica fondata sul processo mediatico e chi considera la Repubblica fondata sulla gogna una vergogna. La battaglia, anche in questo caso, di fronte alla riforma Nordio, è tra chi considera necessario difendere la Costituzione dagli sciacalli dello stato di diritto e chi considera legittimo spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento. Il pacchetto della riforma Nordio, che speriamo venga presto accompagnato anche da un’accelerazione in Parlamento della riforma che riguarda la separazione delle carriere e i nuovi criteri di nomina dei membri del Csm, può essere criticato perché non è abbastanza coraggioso. Perché l’abuso d’ufficio viene abrogato ma contestualmente viene introdotto un bizzarro peculato per distrazione. Perché l’interrogatorio prima della custodia cautelare non vale per molte ipotesi di reato. Perché il giudice collegiale verrà introdotto solo tra un paio di anni e non varrà per gli arresti domiciliari. Perché l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm varrà solo per reati minori, i così detti reati a citazione diretta. Ma solo chi è affezionato all’idea che l’Italia debba essere condannata a vivere in una Repubblica giudiziaria fondata sullo strapotere delle procure può non rallegrarsi di fronte a una riforma che altro non fa che dare una spolverata allo stato di diritto mettendolo al riparo dai finti amici della Costituzione. Avanti così, grazie. Perché l’approvazione del ddl Nordio segna una svolta garantista per la giustizia penale di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 luglio 2024 L’attenzione mediatica si è concentrata soltanto sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ma la riforma approvata mercoledì contiene tante altre misure volte a rafforzare le tutele di indagati e di terzi: dal gip collegiale ai maggiori controlli sulle intercettazioni. Il disegno di legge Nordio, approvato ieri definitivamente dalla Camera, non risolverà tutti i problemi della giustizia italiana, ma rappresenta sicuramente un importante intervento in senso liberale e garantista per il nostro paese, assuefatto da decenni di populismo penale. Negli ultimi mesi, l’attenzione mediatica si è concentrata soltanto su una delle misure contenute nel testo (l’abolizione del reato di abuso d’ufficio), ma la riforma elaborata dal Guardasigilli contiene norme che mirano a correggere alcune delle principali storture della giustizia penale italiana, rafforzando le tutele degli indagati e anche dei soggetti terzi. Le novità più importanti, in questo senso, riguardano il campo delle misure cautelari (carcere preventivo, arresti domiciliari, ecc.). Da un lato, viene introdotto l’istituto dell’interrogatorio preventivo della persona sottoposta alle indagini preliminari rispetto all’eventuale applicazione della misura cautelare, ovviamente in tutti i casi in cui non risulti necessario che il provvedimento cautelare sia adottato “a sorpresa”. Dall’altro lato, in maniera innovativa, viene attribuita al giudice in composizione collegiale la competenza a decidere l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere. In altre parole, la richiesta di arresto dell’indagato avanzata dal pm non sarà più valutata da un solo giudice, ma da tre giudici. Questo per evitare l’appiattimento del giudice delle indagini preliminari sulle tesi accusatorie del pm, una tendenza emersa in maniera piuttosto diffusa. Considerate le risorse necessarie, le misure entreranno però in vigore tra due anni. Altre importanti novità riguardano poi la materia delle intercettazioni. La riforma infatti introduce il divieto di riportare nei verbali di trascrizione delle intercettazioni “espressioni che consentano di identificare soggetti diversi dalle parti”. Inoltre, è introdotto l’obbligo per il pm di stralciare dai cosiddetti brogliacci “espressioni lesive della reputazione o riguardanti dati sensibili di soggetti diversi dalle parti”. Per quanto riguarda l’attività dei giornalisti, viene introdotto il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni in tutti i casi in cui quest’ultimo non sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento. In altre parole, i giornalisti potranno continuare a pubblicare le intercettazioni riportate nei provvedimenti giudiziari (come le ordinanze di custodia cautelare), ma non potranno più “pescare” da quelle depositate tra i materiali di indagine, ottenute sempre per vie “traverse”. Insomma, nessun bavaglio alla stampa. E Nordio annuncia una riforma più radicale: “Stiamo lavorando a una riforma organica delle intercettazioni per dare un’attuazione radicale all’articolo 15 della Costituzione, che indica nella segretezza delle conversazioni l’altra faccia della libertà”. Il ddl Nordio approvato ieri, poi, interviene sull’informazione di garanzia, ormai trasformata dagli organi di informazione in una condanna anticipata. Si specifica che l’informazione di garanzia deve essere trasmessa “a tutela del diritto di difesa”. A questo scopo si prevede che essa dovrà contenere una “descrizione sommaria del fatto”, oggi non prevista, e che la notificazione dovrà avvenire con modalità che tutelino l’indagato. Novità anche sul fronte del divieto di appello da parte del pm. Viene infatti escluso il potere del pm di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento per una serie di reati di contenuta gravità. Confermata l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, tanto auspicata da sindaci e amministratori locali. Il reato si era infatti trasformato in una fonte di indagini, quasi sempre finite nel nulla, ma capaci di diffondere la cosiddetta paura della firma. L’abolizione non creerà nessun vuoto di tutela per il cittadino: le condotte in questione potranno essere perseguite sul piano amministrativo. Sisto: “La giustizia cambierà, è una riforma storica, ora la separazione delle carriere” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 11 luglio 2024 Il Viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, Forza Italia: “Con il Ddl Nordio approvato adesso inizia per l’Italia un ‘new deal’ che restituisce fiducia nel sistema giudiziario”. Adesso la maggioranza punta sulla separazione delle carriere, “norma sulla quale iniziò a lavorare Giacomo Matteotti nel 1911”. La situazione delle carceri? “Stiamo verificando se si può fare di più”. Dopo trent’anni dal golpe giudiziario di Mani Pulite, il sistema-giustizia conosce un tentativo di riforma importante. A volerlo, nella maggioranza di centrodestra, è soprattutto Forza Italia. Gli eredi di Silvio Berlusconi pungolano il ministro Carlo Nordio, lo incoraggiano a non lasciarsi intimidire dalle resistenze corporative. A esercitare una particolare pressione riformatrice è il viceministro, appunto di FI, Francesco Paolo Sisto. Avvocato e giurista garantista. A lui abbiamo chiesto una fotografia delle riforme in votazione. “Premesso - ci dice ancora prima di iniziare, il Viceministro Sisto - che il Governo e Forza Italia in tema di giustizia fanno sempre sul serio, non posso nascondere la profonda soddisfazione per l’approvazione della nostra prima riforma organica della giustizia tracciata su una direttrice a doppio effetto: il rispetto granitico dei principi costituzionali finalizzato alla migliore tutela del cittadino, quasi fosse un nobile dolo specifico”. Viceministro, stavolta fate sul serio? L’iter della riforma della giustizia vede il traguardo... “Abbiamo mantenuto l’impegno assunto in campagna elettorale, dare il via ad interventi sulla giustizia, tesi a garantire l’efficienza del sistema, senza mai penalizzare le garanzie. E siamo solo all’inizio. Cancellare un reato inutile, se non dannoso, come l’abuso d’ufficio, razionalizzare il traffico di influenze, riabilitare il significato dell’informazione di garanzia, eliminare i rischi della diffusione incontrollata delle intercettazioni, ribadire che le misure cautelari debbano essere extrema ratio mediante l’interrogatorio anticipato e il giudice collegiale per le misure carcerarie sono interventi che, pur nella loro delicatezza, hanno meritato l’approvazione del Parlamento, e con numeri importanti. Tanto significa che la sensibilità nel Paese incomincia a restituire alla giustizia una funzione conforme ai canoni costituzionali. Oltre al plauso a Carlo Nordio è giusto riconoscere, in Silvio Berlusconi, l’infaticabile difensore del garantismo e, attribuire ad Antonio Tajani, il merito di averne raccolto felicemente il testimone”. La separazione delle carriere dovrebbe essere un principio giuridico fondamentale, arriva in porto? “La separazione delle carriere è un principio che è già patrimonio della Carta costituzionale. L’art. 111 stabilisce che solo il giudice è terzo e imparziale, i pm, come tutti i magistrati, sono solo autonomi e indipendenti. Fra il giudice e il pm deve esserci la stessa distanza che c’è fra il giudice e l’avvocato: per dirla con la geometria piana, una sorta di triangolo isoscele, in cui il giudice è in cima e le parti, alla stessa distanza, sono alla base. Per noi di Forza Italia è la riforma delle riforme, tanto antica (la propugnava anche Matteotti nel 1911) da essere il futuro, per una giustizia davvero giusta. La scelta del Governo di “metterci la faccia” la dice tutta sulla generale percezione della decisività della riforma. Il testo è appena giunto nelle mani di Nazario Pagano, capace presidente della prima Commissione affari costituzionali alla camera e presto sarà posto all’ordine del giorno e trattato. I tempi? Saranno quelli necessari perché questa legislatura sia, finalmente, quella giusta”. L’Anm naturalmente ha già proposto iniziative di contrasto. Come state portando avanti il dialogo con la magistratura associata? “È naturale, che l’ANM in un Paese aperto come il nostro, possa legittimamente esprimere la propria opinione, anche con toni aspri. L’art. 101 della Costituzione, però, disegna con un “tratto di penna” i confini tra Parlamento e Magistratura. Il parlamento scrive le leggi e la Magistratura le applica. Ben venga il dibattito, il dialogo, in sano contraddittorio animato da reciproca onestà culturale, ma, dopo il confronto, ognuno ha solo i compiti che la Costituzione gli affida”. L’Alta Corte rivoluzionerà anche il Csm. A partire dal prossimo anno giudiziario... “L’Alta Corte nasce da un’idea di Luciano Violante e, abbiamo appreso, condivisa anche dal PD. Porre l’organo di disciplina al di fuori del CSM, con una serie di garanzie di altissimo profilo dei suoi componenti, non può che fare bene all’indipendenza di giudizio. Le tristi vicende che hanno riguardato l’organo di autogoverno della magistratura sono sotto gli occhi di tutti e, fortunatamente, buona parte, la più illuminata, della Magistratura stessa è stata capace di un’apprezzabilissima autocritica”. Via l’abuso d’ufficio, una conquista di civiltà. La paura della firma ha inciso a fondo sulla P.A. italiana... “Non c’era scelta. I costi di un reato come l’abuso di ufficio sono stati intollerabili sia sul piano giudiziario, sia per i profili economici, ma soprattutto per il devastante effetto sulla vita delle persone: in un Paese in cui “il processo penale mediatico” batte sempre quattro a zero “il processo penale delle aule”, l’antica riflessione datata 1946 di Carnelutti assume drammatica attualità. Se “Il processo penale è la vera pena” (e non quella della sentenza) è evidente che il 94% di archiviazioni, proscioglimenti e assoluzioni comporta un’inaccettabile sanzione a carico di coloro che, prima di essere riconosciuti non colpevoli, attendono spesso anni. Senza dire del conseguente miglioramento dei rapporti PA- cittadino derivanti dalla perdita della “paura dell’atto lecito”, potendo scaturire un addebito di abuso di ufficio da una qualsiasi denuncia per una qualsiasi attività amministrativa. Tutti questi timori, grazie alla nostra riforma, non ci saranno più”. Ci saranno vuoti normativi e vulnus interpretativi come paventa qualcuno o, in caso di illecito amministrativo, le fattispecie di reato ci sono già tutte? “Chi ha lanciato anatemi contro la riforma ipotizzando paralisi applicative o crescite esponenziali di contestazioni più gravi, lo ha fatto nel tentativo, non riuscito, di impressionare lo spettatore. Come ha riconosciuto Carlo Nordio, il nostro Paese dispone di un arsenale normativo anticorruzione di tutto rispetto, oltre alla tutela derivante dal giudice amministrativo e dal giudice contabile. Ci siamo solo e consapevolmente liberati di un reato spesso utilizzato senza alcuna reale condotta antigiuridica”. Che dire del Pd, che ha tutti i sindaci mobilitati per l’abolizione dell’abuso d’ufficio e in Parlamento vota contro? “Questa riforma, sotto sotto, piace a tutti coloro che hanno responsabilità di pubblici uffici, tanto sono consci di quanto fosse ingiustificato il rischio derivante dalla sua esistenza. Io stesso ho ascoltato tanti amministratori e funzionari, di tutte le provenienze, inneggiare alla “libertà dall’abuso”. La politica delle convenienze, poi, e l’ossessione del fare opposizione, sono altro”. Le carceri scoppiano. Ci sono diverse proposte, tra cui quella di Giachetti sullo sconto di pena accessorio. State lavorando al caso? “Il Governo ha a cuore il tema delle carceri, Forza Italia di più. Proprio in queste ore è in corso, dopo il recentissimo decreto-legge sul tema, una ulteriore riflessione per verificare se “si può fare di più”. Vedremo”. Si va verso l’ammissione di donne incinta in carcere. Forza Italia si è finora astenuta. Qual è il suo pensiero? “Noi di Forza Italia, laddove è in gioco la vita delle persone più deboli con i bambini in primo piano, siamo portatori una particolare sensibilità, e lo abbiamo dimostrato, senza infingimenti”. Lancio la bomba: amnistia. O indulto. So che con lei se ne può parlare, e anche con il ministro Nordio. Ma con il resto della maggioranza no, sbaglio? “Sono temi allo stato estranei al dibattito interno alla coalizione; se dovessero essere posti all’ordine del giorno assumeremo, sempre con occhio privilegiato alla compattezza del Governo, la nostra posizione”. Devis Dori (Avs): “Ma quale garantismo? Il Governo ha creato tanti nuovi reati” di Mario Di Vito Il Manifesto, 11 luglio 2024 “Come il mago Silvan, Nordio ha fatto sparire l’abuso d’ufficio con una mano mentre con l’altra lo ha fatto riapparire nel decreto sulle carceri. Striscioni, proteste, un dibattito che si è limitato alle dichiarazioni di voto. Il ddl Nordio è stato licenziato dalla Camera quasi nel tempo di un sospiro. Se ne parla ormai da un anno, in commissione si è discusso parecchio, ma quando poi la maggioranza è uscita allo scoperto e ha affrontato l’aula ha fatto di tutto per chiudere i giochi in fretta e furia. Riuscendoci. Devis Dori, deputato di Avs, membro della commissione Giustizia, lei ha definito il ddl Nordio come “il decreto Silvan”… Sì, perché il ministro Nordio, come il mago Silvan, con una mano ha fatto sparire dal codice penale l’abuso d’ufficio mentre con l’altra lo ha fatto riapparire, sotto le false vesti del peculato per distrazione, all’interno del decreto carceri. Il punto è che, tra un passaggio e l’altro, gli sono stati ricordati i nostri obblighi internazionali. C’è una convenzione europea che ci impone di avere un reato come l’abuso d’ufficio. Però nel tempo anche da sinistra sono arrivati impulsi a modificarlo... È vero, noi non siamo contrari a una riforma del reato di abuso d’ufficio. Abbiamo anche presentato una proposta di legge che rimandava alla commissione Morbidelli del 1996 e prevedeva lo spacchettamento dell’abuso d’ufficio in tre fattispecie. Ma? Ma non se n’è fatto nulla. A gennaio, nella sua relazione sull’amministrazione della giustizia, Nordio aveva detto di aver provato in tutti i modi a riformare l’abuso d’ufficio e di aver scoperto che però non era possibile farlo, dunque non restava che tagliarlo. Un’assurdità. Nordio è solito fare annunci che poi vengono smontati da altri ministri. Come vede la sua posizione all’interno del governo? Nel governo Meloni Nordio pesa molto poco. E lo dico con dispiacere, perché all’inizio si era presentato come un garantista, cosa di per sé apprezzabile. Poi però si è dimostrato un garantista a giorni alterni, che fa spot e che in realtà pensa solo alla salvezza dei colletti bianchi. Nell’ultimo anno sono stati introdotti oltre venti nuovi reati: come fa questo governo a dirsi garantista? Anche questa storia dell’abuso d’ufficio: la paura della firma da parte dei sindaci non sparirà, lo ha detto anche l’Anci. Il rischio è che al posto dell’abuso d’ufficio, i magistrati dovranno aprire fascicoli per reati più gravi, tipo la corruzione… Infatti l’abolizione dell’abuso d’ufficio non è affatto un favore ai sindaci. Dirò di più, non mi sembra proprio che il governo abbia pensato agli amministratori del futuro e non vorrei che in realtà avessero in mente qualche nome del presente… Mi spiego meglio: l’abolitio criminis prevede anche la decadenza delle pene, quindi molte condanne dovranno essere riformulate. Ecco, non vorrei che nella testa della maggioranza ci siano nomi e cognomi di persone che trarranno benefici dalla cancellazione di questo reato. Siamo alla vigilia delle ferie estive e il parlamento è ingolfato di provvedimenti da approvare in fretta. Perché si è creata questa situazione? Evidentemente la maggioranza ha preferito non affrontare certi nodi durante la campagna elettorale delle europee, e adesso siamo costretti a correre. Il problema, ovviamente, non è il troppo lavoro, ma il come siamo costretti a lavorare. Possiamo solo proporre ordini del giorno che spesso poi finiscono in nulla. Ma questo potrebbe non avere solo risvolti negativi. Cosa vuole dire? Che la stessa maggioranza potrebbe lasciar andare alcuni provvedimenti. Penso al decreto sicurezza: se, come pare, verrà smembrato, potrebbe finire nel nulla. Da tempo mi batto per la questione delle madri detenute, una misura inumana e incivile, sarei contento se alla fine la stessa maggioranza ci mettesse una pietra sopra. Mariastella Gelmini: “Anni di tentativi vani. Ora la paura della firma non sarà più un freno” di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 11 luglio 2024 La senatrice e vicesegretaria di Azione: la stretta sulle intercettazioni? Nessuno vuole togliere uno strumento importante ma evitare che le conversazioni di chi non c’entra siano pubbliche. Mariastella Gelmini, perché Azione ha votato il ddl Nordio? “Sull’abuso di ufficio il Parlamento è intervenuto più volte cercando di circoscriverne l’ambito. Eppure, nonostante questi interventi, ancora nel 2022 su oltre 4 mila indagini oltre l’80% sono finite in un nulla di fatto. Senza neppure arrivare al processo, ma con tutte le conseguenze di un avviso di garanzia, in primis la cosiddetta “paura della firma” che genera una burocrazia difensiva che è un freno per investimenti e crescita. Mi lasci dire che iniziammo ad affrontare questo tema anche con il governo Draghi e ricordo bene quanti sindaci del Pd ci chiedevano allora di abrogare questo reato. Direi quindi che una parte dell’opposizione quantomeno ha cambiato idea”. Ma eliminato l’abuso d’ufficio gli amministratori non rischiano di avere imputazioni più gravi? “Non è così. I comportamenti illeciti verranno perseguiti, le fattispecie di reato ci sono e anche gli strumenti del codice penale. Il punto era che con l’abuso d’ufficio facevamo finire sui giornali persone, rovinando le loro vite, che in oltre l’80% dei casi neanche finivano a processo. Mi parrebbe una cosa di cui tenere conto”. Per Conte ormai chiunque potrà subire un abuso di potere... “Conte sa bene - da avvocato - che i reati sono reati e il codice penale fornisce, anche senza l’articolo 323, le necessarie tutele a chi subisce un torto. Le condanne per abuso d’ufficio si contano sulle dita di qualche mano, quindi non mi pare che i cittadini abbiano perso giustizia. Semmai abbiamo evitato che cittadini innocenti finiscano nel tritacarne mediatico senza una ragione in grado di giustificare non dico una condanna, ma almeno un processo”. C’è anche la stretta sulle intercettazioni… “Nessuno vuole togliere uno strumento importante per le indagini serie e importanti. Il problema è evitare che chi non c’entra niente si ritrovi le proprie conversazioni penalmente irrilevanti sui giornali e le intercettazioni a strascico”. La maggioranza ha dedicato il ddl a Berlusconi... “È comprensibile, ma la strada per una giustizia realmente garantista è ancora lunga e non sempre questo governo ha avuto atteggiamenti altrettanto liberali. Non è liberale e garantista, ad esempio, pensare che l’unica soluzione per rispondere alla richiesta di sicurezza dei cittadini sia aumentare le pene o tenere in carcere i lattanti. Però questa riforma come anche la separazione delle carriere - se sarà mai approvata - può rappresentare passi avanti significativi”. La semilibertà “surrogatoria” non presuppone i due terzi di pena espiata di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2024 Se la pena inflitta rientra nei limiti previsti per l’affidamento in prova e il titolo di condanna non è per uno dei reati di prima fascia la semilibertà va concessa senza limiti rispetto al periodo di espiazione. La semilibertà cosiddetta surrogatoria dell’affidamento in prova non prevede quale presupposto di ammissione al beneficio penitenziario che via sia stata una quota di pena già espiata. La sentenza n. 27441/2024 della Cassazione penale ha perciò accolto il ricorso del condannato che riteneva inapplicabile alla sua domanda di ammissione alla semilibertà il requisito di una quota proporzionale di pena espiata. Infatti, ciò che rileva per la concessione della semilibertà ai sensi del terzo periodo del comma 2 dell’articolo 50 dell’Ordinamento penitenziario è che la pena inflitta rientri nel perimetro di concedibilità dell’affidamento in prova, ossia tre anni. I giudici di merito secondo la Cassazione non hanno colto nel segno nell’applicare la citata disposizione che regola il beneficio della semilibertà quando l’affidamento in prova non possa essere concesso, ma la persona sia stata condannata per un reato diverso da quelli del comma 1 dell’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, reati cosiddetti di “prima fascia” e con una pena che ne consenta teoricamente l’affidamento in prova. In effetti, il regime della semilibertà in generale si fonda sia sul tempo di concreta espiazione della pena inflitta sia sul tipo di reato per cui è stata comminata. E se ne distinguono cinque ipotesi. Il range va dal caso in cui non è previsto alcun periodo minimo di reclusione già sofferta, se la pena è fino a 6 mesi, a quello in cui se è stata inflitta la pena dell’ergastolo l’ammissione al beneficio richiede che la pena già espiata ammonti almeno a 20 anni. Negli altri casi, invece, il presupposto è che sia stata espiata almeno metà della condanna al carcere, che viene elevata a due terzi nel caso di reati contemplati dai commi 1, 1-ter e 1-quater dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Ma esiste, appunto, una quinta ipotesi che è quella della semilibertà surrogatoria dell’affidamento in prova contemplata dal terzo periodo del comma 2 dell’articolo 50 dell’ordinamento penitenziario e che, come indica la Cassazione non richiede un periodo minimo di espiazione e risulta preclusa solo nel caso di reati di prima fascia, cioè quelli contemplati dal solo comma 1 dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario e non quelli di seconda e terza fascia contemplati dai commi 1-ter e 1-quater dello stesso articolo per i quali il tempo di pena espiata non rileva. Sicilia. Sovraffollamento dei penitenziari, superata la soglia del 116% di Alessia Candito La Repubblica, 11 luglio 2024 Fino a 18 persone in circa 30 metri quadrati, con un gabinetto alla turca, senz’acqua e circondati. Uno si è spento all’Ucciardone sabato pomeriggio dopo aver inutilmente chiesto per mesi di uscire per potersi curare. L’altro si è lasciato morire rinunciando ad acqua e cibo per protestare contro una condanna che credeva ingiusta. “Due morti annunciate nel giro di una settimana, è così che si vuole risolvere il sovraffollamento delle carceri in Sicilia?”, tuona il presidente regionale di Antigone, Giorgio Bisagna. “Non è ammissibile che in carcere e di carcere si debba continuare a morire. Lo Stato - sottolinea - ha il dovere giuridico e morale di tutelare le esistenze di chi è trattenuto”. Ma stando al rapporto del Garante per le persone private della libertà sullo stato degli istituti di detenzione, è difficile credere che ci riesca davvero. Soprattutto in Sicilia. Nell’Isola non c’è carcere con faccia registrare tassi più o meno importanti di sovraffollamento. Gli istituti al momento accolgono 6.835 persone, formalmente “solo” circa quattrocento in più dei posti disponibili, per un grado di sovraffollamento pari a circa il 105 per cento. Ma spesso diverse camerate se non intere sezioni sono inagibili, dunque il dato vero - emerge dal report - è pari al 116,88 per cento. Ed è percentuale statistica. In alcune strutture, soprattutto quelle più grandi, la situazione è di gran lunga peggiore. Un esempio? La sezione 9 del carcere dell’Ucciardone di Palermo, di recente teatro di una protesta dei detenuti. Lì le condizioni - denuncia il garante cittadino Pino Apprendi - sono disumane. “Due detenuti in poco più di dieci metri quadrati, senza potere fare alcuna attività che tenda a un possibile ravvedimento e conseguente reinserimento nella società”. L’ora d’aria spiega è di fatto garantita solo sulla carta. Dovrebbero essere due al mattino e due al pomeriggio, ma “spesso diventano un’ora e mezza per la mancanza di personale”. Nel concreto si traduce in guppi anche di 18 persone che si dividono “circa 30 metri quadrati, con un gabinetto alla turca, senz’acqua e circondati da rifiuti,”. E con il caldo la situazione peggiora. In nessuno dei penitenziari c’è condizionamento, le strutture sono vecchie e fatiscenti e al cuni provvedimenti sembrano quasi una provocazione. Ad Agrigento, spiegano da Antigone, sono state modificate le prese elettriche per poter usare i ventilatori, ma tocca ai detenuti comprarli. “In queste condizioni - spiega chi in carcere lavora - la protesta è sempre dietro l’angolo”. E a cascata, provvedimenti disciplinari, isolamento, guai. Che in futuro non possono che peggiorare. “Il nuovo decreto sicurezza ha introdotto il reato di rivolta carceraria, che di fatto sanziona anche la resistenza passiva - spiega l’avvocato Giorgio Bisagna - Significa che lo Stato al problema carceri sa rispondere solo con la repressione”. E non potrebbe essere più sbagliata. Negli istituti- ed è questo il vero problema - manca tutto: operatori, educatori, personale medico, psicologi, mediatori. La scelta di aumentare solo il personale di sicurezza - tuonano da Antigone - significa puntare sulla repressione per nascondere criticità e carenze strutturali. In assenza di strumenti, personale e opzioni di costruzione di vita fuori dal carcere, la funzione rieducativa della pena rischi di rimanere solo su carta. E poi, sottolinea Bisagna, “c’è una totale inadeguatezza della risposta trattamentale per i tanti detenuti affetti da disturbi, se non malattie psichiatriche certificate”. Ma questo spiega solo in parte lo straordinario aumento dei suicidi in cella. In Sicilia, dall’inizio dell’anno se ne contano tre, innumerevoli sono stati i cosiddetti eventi critici - atti di autolesionismo, scioperi della fame o della sete, tentativi di togliersi la vita - registrati anche in uno dei due minorili della regione. Con il decreto Caivano, anche gli istituti di ragazzini sono stati riempiti a scoppiare. Per la prima volta da anni il Malaspina è in sovraffollamento. “Adesso i problemi non si risolvono, si spostano - dice un operatore che chiede l’anonimato - i ragazzi vengono sballottati da un Ipm all’altro senza approfondire le ragioni del loro disagio. L’unico risultato è di rendere ancor più complicati i legami familiari o sociali”. Nel vuoto di relazioni e attività, a crescere è solo la frustrazione. Ma forse il vero nodo è che la maggior parte dei detenuti in carcere neanche ci dovrebbe stare. In Italia, quasi diecimila detenuti su 45.600 sono stati condannati a pene inferiori a tre anni, ad altri 16mila circa ne rimangono meno di due da scontare. Ma le misure alternative sono ancora lusso per troppo pochi. Toscana. Emergenza salute mentale in carcere, “Sollicciano e Livorno contesti più problematici” firenzetoday.it, 11 luglio 2024 Oltre al dramma dei suicidi aumentano gesti autolesivi e aggressioni. “Nelle carceri italiane c’è anche un’emergenza salute mentale. In Toscana i contesti più problematici sono le case circondariali di Sollicciano a Firenze e Le Sughere a Livorno. Oltre al dramma dei suicidi, registriamo purtroppo gesti autolesivi o eterolesivi di cui è difficile avere un numero certo”. A dirlo è la dottoressa Ilaria Garosi, membro del gruppo di lavoro sulla psicologia penitenziaria dell’Ordine toscano, facendo una fotografia dello stato di salute psicologica dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria nelle carceri toscane. I dati diffusi dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per la Regione Toscana aggiornati al giugno 2023 registrano quattro suicidi nel carcere fiorentino, 44 gesti di autolesionismo, 128 scioperi della fame e 50 aggressioni al personale di polizia. Lunedì scorso l’ultimo caso eclatante. “Il sovraffollamento dei penitenziari - dice Garosi - è un fattore che evidentemente incide in maniera negativa, così come la tipologia delle persone detenute: molti individui già problematici vengono detenuti anziché adeguatamente trattati nelle strutture sanitarie. Parliamo di casi in cui il quadro psicopatologico dovrebbe prevedere soluzioni alternative al carcere. Ci sono poi moltissimi stranieri che vivono una condizione di solitudine maggiore causata dalla non presenza dei familiari e da differenze culturali che rendono complesso l’adattamento alla vita detentiva. Ci sono persone detenute tossicodipendenti che avrebbero necessità di percorsi terapeutici esterni al carcere”. “Non tutti i suicidi sono però riconducibili a disagio mentale - continua la psicologa -. Altre possibili cause di un evidente e crescente disagio psicologico possono essere connesse all’ ambiente detentivo complesso o a momenti precipitanti come comunicazioni di atti giuridici o eventi collegati alla vita familiare”. Garosi allarga lo sguardo anche agli agenti di polizia penitenziaria: “Gestire detenuti con profili così fragili rappresenta in egual misura una condizione di sofferenza. Assistere a suddetti eventi critici espone le nostre forze dell’ordine a traumi psicologici e stress”. “I colleghi psicologi che lavorano nelle carceri toscane, sia che siano coinvolti nell’area sanitaria sia come esperti ex articolo 80, cioè i professionisti che operano nelle strutture su disposizione del ministero della Giustizia - rimarca Maria Antonietta Gulino, presidente dell’Ordine degli psicologi della Toscana - possono offrire un contributo importante nella rilevazione dei bisogni e dei fattori di rischio e sarebbe importante quindi che il lavoro integrato che gli stessi fanno nelle equipe multiprofessionali dei vari istituti fosse valorizzato. Sul piano del personale prosegue invece l’esperienza portata avanti dal Centro criticità relazionali di Careggi insieme al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Toscana Umbria che aveva preso avvio proprio da una collaborazione con il nostro Ordine. Ci auguriamo che la nostra professionalità possa essere messa a sistema per aumentare la possibilità di intervenire in termini preventivi, per ridurre il malessere generato nell’istituzione totale e poter così smettere di rincorrere l’emergenza”. Lazio. Suicidi, sovraffollamento, isolamento. Il Garante dei detenuti in Regione di Marianna Rizzini Il Foglio, 11 luglio 2024 Situazione drammatica, in alcuni casi esplosiva: questo emerge dalla relazione annuale del Garante dei diritti delle persone private della libertà, con riferimento al 2023 e al territorio laziale, e questi dati verranno oggi illustrati al Consiglio regionale guidato da Francesco Rocca dal Garante dei detenuti per il Lazio Stefano Anastasia, con particolare riferimento alla popolazione ristretta nell’istituto penale minorile di Casal del Marmo, nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria. Il Garante riferirà sulle molte segnalazioni ricevute sia attraverso un’intensa attività di monitoraggio sia direttamente da detenuti, avvocati e familiari. Dalla relazione annuale, intanto, emergono criticità rese ancora più allarmanti dall’alto numero dei suicidi, specie a Regina Coeli. “Uno dei temi più critici e urgenti relativi al sistema penitenziario è sicuramente la questione del sovraffollamento”, si legge nel rapporto (che cita dati del ministero della Giustizia aggiornati al 30 giugno del 2024): a Rebibbia femminile, per esempio, risultano 358 presenze per una capienza regolamentare di 272 posti e a Rebibbia Nuovo Complesso 1556 per una capienza di 1170 posti. Ma è a Regina Coeli che “si registra senza dubbio la situazione più drammatica in termini di sovraffollamento e mancanza di spazi per attività e aree verdi, cui bisogna sommare le carenze strutturali e igienico sanitarie dell’istituto”. Questa condizione, è il punto, sta comportando “una serie di disordini e proteste a opera della popolazione detenuta, esasperata da condizioni di vita insostenibili”, con casi di assenza di acqua corrente in stanza, posti letto insufficienti e sostituzione dei locali di socialità con “provvisorie stanze di pernotto”, situazione aggravata dal caldo e dall’assenza di ventilatori. Segue il triste elenco dei suicidi, compreso quello di Ousmane Sylla, ventunenne originario della Guinea, impiccatosi il 4 febbraio 2024 nel Cpr di Ponte Galeria. Il rapporto, facendo anche luce sulla necessità di promuovere l’integrazione degli sportelli per il lavoro e di orientamento, raccomanda, per alleviare la condizione di solitudine e isolamento, di consolidare negli istituti la comunicazione digitale “sia con riguardo alla cura delle relazioni familiari sia per motivi di studio, formazione e lavoro” e di “consentire la partecipazione ad attività in comune” tra persone di generi e circuiti diversi. Augusta (Sr). Storia di Giulio, che ha scelto di morire piuttosto di vivere nell’inferno del carcere di Irene Carmina La Repubblica, 11 luglio 2024 Giulio Arena, 67 anni, aveva avviato la protesta nel dicembre scorso. Sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio, è spirato in ospedale. Lo sapevano tutti che era solo una questione di giorni. Giulio Arena, ergastolano palermitano di 67 anni, è morto lo scorso 28 giugno all’ospedale di Catania dove era tenuto in vita da una soluzione fisiologica salina, che gli veniva somministrata via flebo giorno e notte. Da dicembre dello scorso anno, mentre scontava la pena nel carcere di Augusta, aveva smesso di bere e di mangiare per protestare contro una condanna che riteneva ingiusta. Arena aveva deciso di lasciarsi morire. “Se va avanti in questo modo non vivrà a lungo”, era stato il grido di allarme lanciato dal garante dei detenuti di Siracusa, Giovanni Villari, sulle pagine di Repubblica a febbraio. È andata esattamente così. “Una morte annunciata, l’ennesima in questo inferno silenzioso che è il carcere”, accusa Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo. Arena era un pianista, prima del carcere insegnava Metodologia dell’analisi musicale al conservatorio di Palermo e avevo fondato la casa editrice Unda Maris, specializzata in edizioni musicologiche e di ricerca musicale. “Un uomo colto e rispettoso - lo descrive così Villari - ma soprattutto un essere umano che aveva perso la speranza e ogni ragione per stare al mondo”. Gli altri detenuti provavano a tirarlo su di morale. Educatori, psicologi, medici e infermieri avevano tentato di aiutarlo. Anche il magistrato di sorveglianza andava spesso a fargli visita. La famiglia no, sembrava averlo lasciato al suo destino. Passava il tempo sdraiato a guardare il soffitto, contando i giorni che gli restavano da vivere. A stento aveva la forza di parlare. “No”, riusciva a dire solo questo quando gli passava davanti il carrello del cibo e qualcuno insisteva a offrirgli qualcosa da mangiare o anche solo un bicchiere d’acqua. Poi tornava a trincerarsi dietro al suo silenzio, salvo aprire bocca per ribadire la sua verità: “Piuttosto che sopravvivere in un istituto penitenziario, preferisco farla finita”. Parole sussurrate, ma decise, con le labbra socchiuse. Sperava in una revisione del processo. Voleva i domiciliari. Impossibile, vista la condanna all’ergastolo e le cure ricevute. “Finché queste sono ritenute adeguate, si applica il regime detentivo” spiega Villari. La domanda allora è: se Arena è morto, le cure erano davvero adeguate? Non c’era un modo per salvarlo? “Rispondendo a una logica di principio, se si cedesse alle richieste di uno, si dovrebbe venire incontro a quelle di tutti e allora lo sciopero della fame e della sete potrebbe diventare la regola tra i detenuti - osserva Villari - Il tragico paradosso è che si sapeva che Arena sarebbe morto, ma non è stato possibile evitare l’inevitabile: in carcere ti danno la possibilità di ucciderti, ma non di vivere in modo dignitoso”. Forse, però, qualcosa si poteva fare. Riflette ad alta voce il garante di Siracusa: “Nei casi di astinenza totale dal cibo e dall’acqua, andrebbe resa obbligatoria la nutrizione artificiale. La soluzione fisiologica salina endovena è un trattamento minimo, che non può salvare una vita”. La morte di Arena, a rigore, non può essere considerata un suicidio, non essendosi tolto la vita da solo. “Questo decesso, come gli altri dei detenuti in seguito a lunghi scioperi della fame, andrebbe annoverato come suicidio, essendo la morte diretta conseguenza di una forma di protesta pacifica estrema”, dice Santi Consolo, garante siciliano dei detenuti. Anche lui aveva provato a fargli cambiare idea: “Era un uomo molto educato, quando sono andato a trovarlo l’ho supplicato di desistere da quel comportamento”. Non c’è stato verso, di carcere si continua a morire. Viterbo. Ritrovato morto un detenuto di 32 anni, scoppia la rivolta di tutta la sezione di Giulia Merlo Il Domani, 11 luglio 2024 Dopo che un detenuto è morto - sembra per cause naturali - sono scoppiati disordini nella sezione D1. I detenuti si sono barricati e hanno dato fuoco a suppellettili e materassi, nell’istituto si registra da tempo una carenza di personale penitenziario. È esplosa una rivolta nel carcere di Mammagialla, a Viterbo, dopo la morte di un detenuto. L’uomo, 32enne, sarebbe morto per cause naturali. I disordini sono scoppiati a partire dalle 15:45 di mercoledì. I detenuti si sono barricati nella sezione D1 dell’edificio del penitenziario, che ospita solitamente circa cinquanta persone. Sono stati incendiati suppellettili e materassi e sono state lanciate bombolette di gas incendiarie contro i poliziotti penitenziari. Fuori dall’istituto penitenziario si sono radunate le forze dell’ordine, i vigili del fuoco e un’ambulanza. La polizia penitenziaria sta cercando di circoscrivere la protesta e si è in attesa dell’arrivo del gruppo di intervento rapido della polizia penitenziaria da Roma. La frequenza - “Tutti i nostri avvertimenti sono rimasti inascoltati. Questa di Viterbo sarà una delle tante rivolte che caratterizzeranno l’estate. Speriamo solo che non ci scappi il morto”, ha detto all’Ansa Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria S.PP. Maurizio Somma, segretario nazionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) del Lazio, ha sottolineato come la frequenza delle rivolte sia arrivata ad una al giorno sia nelle carceri per adulti che in quelle per ragazzi. In alcuni momenti, “dobbiamo fronteggiarne anche due contemporaneamente”, dice Donato Capece, segretario generale del Sappe. Interviene anche Massimo Costantino, Segretario generale Fns Cisl Lazio che denuncia in una nota il sovraffollamento dei detenuti e le carenze nelle dotazioni di personale della polizia penitenziaria. Attualmente il sovraffollamento regionale in Lazio risulta in aumento rispetto al mese precedente, con 6.779 detenuti reclusi nei 14 istituti, rispetto a una capienza prevista di 5.281 persone. Il personale di polizia penitenziaria nella regione risulta essere di circa 930 unità, con una carenza solo a Viterbo di novanta poliziotti. “Mi domando cosa si sta aspettando ancora per adottare provvedimenti straordinari per fronteggiare una situazione diventata esplosiva,” aggiunge Capece. “Preghiamo il Signore che non accada mai il peggio, perché se mai succedesse qualcosa di irreparabile qualcuno se ne dovrà assumere la responsabilità”. Firenze. La cooperativa Girasole trova casa ad Amira: sconterà la pena ai domiciliari di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 11 luglio 2024 Dopo gli appelli per la giovane tunisina che aveva perso il bambino a Sollicciano. Amira, la 27enne tunisina che aveva diritto ai domiciliari ma non poteva beneficiarne perché senza casa, potrà lasciare Sollicciano: la cooperativa Girasole è pronta ad accoglierla presso casa Luna, una struttura protetta per sole donne. La giovane pochi mesi fa aveva avuto un aborto. In suo favore c’era stato l’appello dell’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli. La cooperativa Girasole è pronta ad accogliere Amira presso casa Luna, struttura di accoglienza per sole donne. E così la 27enne tunisina che può beneficiare degli arresti domiciliari (ma che si trova ancora nella sua cella umida a Sollicciano) potrà uscire dal penitenziario fiorentino e scontare fuori la sua pena di quattro anni come previsto dal giudice otto mesi fa. Una notizia importante per Amira, la cui storia è stata raccontata ieri sulle pagine del Corriere Fiorentino, una ragazza in arresto per spaccio di sostanze stupefacenti con una detenzione travagliata. Rimasta incinta, pochi mesi fa ha avuto un aborto al quinto mese di gravidanza, in seguito al quale è caduta in uno stato psichico molto critico, tanto più che le condizioni della sua cella non sono ottimali. Venuta a conoscenza della storia, la cooperativa Il Girasole, che si occupa di accoglienza e marginalità, ha messo a disposizione una stanza all’interno di una propria struttura femminile. Soddisfazione è stata espressa dall’associazione Pantagruel, che tanto si è battuta per trovare una soluzione: “Siamo felici di questa notizia, finalmente dopo tanti no ricevuti dalle strutture del territorio, siamo riusciti a trovare qualcuno che si è fatto coraggiosamente e generosamente avanti per aiutare la ragazza a scontare la sua pena agli arresti domiciliari”. Nelle ultime ore, l’appello era arrivato fino alla Curia, con tanto di richiesta diretta al neo arcivescovo Gherardo Gambelli. E ieri l’arcivescovo parlando del carcere e del suicidio del ventenne tunisino ha detto: “Purtroppo abbiamo tante volte parlato di questa situazione, non è una sorpresa perché in tante situazioni che stiamo vivendo se non si danno risposte adeguate si arriva a queste cose drammatiche. A livello di Caritas ci stiamo interrogando su come cercare di dare una ri100 sposta più concreta a questa situazione di disagio. Dobbiamo unire le forze e, come dice il Papa, i problemi trasformarli sempre in sfide”. E sempre in tema di Sollicciano, il garante comunale dei detenuti Eros Cruccolini, propone di “costituire un comitato civico, perché la questione carceraria riguarda tutti noi”. Cruccolini fa inoltre un appello a tutti i politici per “esercitare una pressione sul ministero e sul dipartimento perché intervengano sull’emergenza della casa circondariale di Sollicciano inviando il personale necessario: agenti della polizia penitenziaria, completando l’organico degli educatori e incrementando le risorse per dare più opportunità di lavoro alle persone detenute”. Come gli altri garanti nazionali, Cruccolini sostiene la proposta del Papa per l’indulto e l’amnistia: “Il governo non può continuare a fare finta di risolvere i problemi. Sollecitiamo i parlamentari toscani a promuovere in Parlamento interrogazioni e quant’altro possa fare emergere proposte serie da parte del governo e del Parlamento per risolvere il problema delle carceri”. Sul tema, dopo la lettera scritta dal governatore Giani al ministro della Giustizia Nordio, è intervenuto anche il deputato e membro della commissione Affari Costituzionali di Fratelli d’Italia Francesco Michelotti: “È quantomeno singolare che il governatore della Toscana invii una lettera al ministro della Giustizia per chiedere al governo, con urgenza, di intervenire sulla situazione delle carceri nella nostra regione. Questo esecutivo è il primo ad aver stanziato risorse sia sul fronte dell’incremento del numero del personale destinato agli istituti penitenziari, che su quello dell’edilizia carceraria. In Toscana sono in arrivo proprio in questi giorni 140 nuovi agenti”. Caltanissetta. Storia di Famous Williams, il carcere ingiusto per tre anni e la gamba amputata di Sandra La Fico Corriere del Mezzogiorno, 11 luglio 2024 Poi la svolta: “Sono libero e ho un lavoro, faccio il cuoco”. Il giovane nigeriano, 26 anni, assolto dall’accusa che l’ha tenuto tre anni in cella, dove ha sviluppato un’infezione, mal curata, alla gamba, è stato assunto dalla cooperativa Etnos di Caltanissetta: “È il nostro orgoglio”. “Sono molto contento, non mi aspettavo tutto questo!”. Con queste parole Famous Williams commenta l’assunzione a tempo indeterminato per la Cooperativa Etnos di Caltanissetta, dopo aver scontato tre anni di carcere da innocente, durante i quali ha subito l’amputazione di una gamba per un’infezione malcurata. Famous Williams è un giovane nigeriano di 26 anni, arrivato in Italia all’età di 20 come tanti suoi connazionali, su un barcone, alla ricerca del sogno italiano. Ma durante la sua permanenza al Cara di Mineo viene arrestato con l’accusa di far parte della mafia nigeriana. Ha dovuto attendere che passassero tre anni prima di avere l’assoluzione, arrivata dalla Corte di Appello di Catania. Tre anni difficili e di sofferenza, non solo perché stava scontando una condanna ingiusta e in isolamento, ma perché in carcere gli è stata amputata una gamba per una ferita al piede che si era procurato al Cara di Mineo con un pezzo di ferro acuminato, e che si era trasformata in una grave infezione, e successivamente, in cancrena. “Ha tentato il suicidio varie volte, solo la fede l’ha salvato - racconta Fabio Ruvolo, presidente della Cooperativa Etnos. Dopo il carcere la nuova battaglia di Famous è stata ottenere la protesi, per la quale abbiamo dovuto fare una richiesta pubblica per essere ascoltati. Famous risultava residente al Cara di Mineo, mentre lui si trovava a Caltanissetta e per questioni burocratiche non si riusciva a trovare una soluzione. Siamo stati contattati dalle Iene e grazie al loro interessamento, l’Asp di Caltanissetta è riuscita a far avere la protesi a Famous e da lì è iniziata la sua risalita. Lui è il nostro orgoglio”. La cooperativa Etnos da anni si occupa di accoglienza a trecentosessanta gradi, dalle donne vittime di violenza ai di minori stranieri non accompagnati, promuove l’inclusione lavorativa per disabili ed ex detenuti, gestisce una casa di riposo e favorisce percorsi di recupero per uomini autori di violenza, si è occupata del ragazzo dalla sua scarcerazione fino al suo percorso di inserimento nel mondo del lavoro. Oggi Famous è uno dei 150 dipendenti a tempo indeterminato della cooperativa, con la mansione di aiuto cuoco e prepara le arancine più buone della città per “N’arancina Speciale”, l’ambizioso progetto con cui Etnos fa lavorare ragazzi con disabilità. Vive in una casa in affitto e ha un grande sogno nel cassetto che ha portato su dalla Nigeria, dove vive la sua famiglia di origine, cantare. “Sono partito dalla Nigeria, spiega Famous, per conoscere una cultura diversa dalla nostra, con tante speranze e tanti sogni, uno fra tutti quello di cantare. Ed è questo il prossimo obiettivo che voglio realizzare”. “Famous è un ragazzo ambizioso con una grandissima forza di volontà e riesce a raggiungere quello che vuole, spiega Fabio Ruvolo. Quando racconto la sua storia mi emoziono sempre. Lui è arrivato in Italia per realizzare i suoi sogni, che purtroppo però sono stati spezzati”. “In carcere è stato terribile, spiega Famous, non potevo sentire nessuno, neanche la mia famiglia. Ho tentato tante volte di farla finita, solo la preghiera e la vicinanza a Dio mi ha aiutato a superare quei momenti”. La notizia dell’assunzione è stata comunicata al giovane a sorpresa, con una messa e un momento di riflessione spirituale, durante il quale padre Fabrizio, uno dei parroci brasiliani della parrocchia di Sant’Agata al Collegio della città, che durante la sua omelia ha parlato dell’importanza dell’impegno sociale e di come per gli operatori di questo settore sia difficile portare avanti il proprio lavoro senza arrendersi. Venezia. Sit-in di 4 ore per dire basta ai tanti suicidi nelle carceri. “È ora di agire” di Gabriele Fusar Poli Corriere del Veneto, 11 luglio 2024 Non c’è afa che tenga, davanti a temi così delicati e tragici: ha fatto tappa in Campo Santa Margherita a Venezia la maratona oratoria itinerante organizzata dall’Unione delle camere penali per arrestare la piaga dei suicidi in carcere. Il computo totale del 2024 ha raggiunto proprio ieri quota 54, un numero elevatissimo se si pensa che il record negativo - fatto segnare nel 2022 - ha visto 84 detenuti arrivare a togliersi la vita. “Una cifra agghiacciante afferma Renato Alberini, presidente della Camera penale veneziana - che non può e non deve più crescere: bisogna agire subito, perché non c’è più tempo da perdere”. L’analisi di Alberini si basa su dati altrettanto emblematici, in quanto fotografano al meglio la situazione delle carceri italiane: “Al 30 giugno i detenuti rinchiusi a livello nazionale erano 61.480 a fronte di una capienza effettiva di 47 mila, il che vuol dire avere un indice medio di sovraffollamento che supera il 130 per cento. Ma basta prendere quale esempio la casa circondariale di Santa Maria Maggiore per capirlo: qui l’indice di sovraffollamento è del 164%, perché avrebbe 159 posti ma al momento i carcerati sono 245. Lo Stato deve intervenire immediatamente se vuole evitare la proliferazione di atti disperati: la condizione di vita nelle celle è degradante e disumana”. La necessità di ripensare doverosamente alle funzioni delle carceri è stato il trait d’union del sit-in, durato quattro ore e che ha visto decine di persone sfidare il caldo pur di capirne maggiormente di una problematica che, a giudicare dal tenore degli interventi, è quasi considerata tabù. C’è chi, come don Nandino Capovilla, cita l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) prima di denunciare a gran voce “la brutalità del sistema carcerario italiano, le cui condizioni ci devono far vergognare: ogni volta che una delle voci dei detenuti si spegne è il fallimento della nostra società”. C’è chi, invece, racconta la storia di un carcerato che dopo aver donato alla moglie le margherite che aveva raccolto nel cortile durante l’ora d’aria si è tolto la vita il giorno stesso, mentre Marco Foffano, garante comunale dei detenuti, evidenzia la necessità di “far lavorare i detenuti, i quali sono i primi a volerlo: l’oziare in cella, per loro, è un supplemento di pena”. Siena. Carceri, la testimonianza dei giudici: “Suicidi sconfitta per tutti” di Laura Valdesi La Nazione, 11 luglio 2024 Grande successo della maratona oratoria organizzata dalla camera penale di Siena e Montepulciano. Il magistrato di sorveglianza Cornetti: “Vi racconto la storia di un detenuto e del suo amore per il figlio”. “Non se ne parla, il carcere è un argomento scomodo. Ci si investe poco, non interessa a nessuno. In cella ci sono gli ultimi”, osserva la presidente della Camera penale di Siena e Montepulciano Michela Rossi. L’obiettivo di questa maratona di interventi davanti al tribunale era di richiamare l’attenzione dei cittadini, facendo sentire la nostra voce anche alle leve del potere”, aggiunge. Missione (parzialmente) compiuta: qualcuno si ferma ad ascoltare. Anche a lungo. C’è curiosità. Certo non basta per far entrare, come dice il garante dei detenuti del Comune di Siena Stefano Longo, “un po’ di luce nelle celle. Siamo già a 54 suicidi in Italia. Ricordo il tragico evento a Sollicciano, gli agenti della penitenziaria che si sono tolti la vita”. “Il sovraffollamento è un problema forte - aggiunge a margine Rossi - anche se Siena e Ranza si va meglio rispetto al dato nazionale”. “Non si può arrivare alla tragedia, serve lavorare preventivamente”, invita tra l’altro il presidente del tribunale Fabio Frangini ricordando come dopo il crollo del Ponte Morandi sia iniziato il monitoraggio di tutte le strutture simili. Racconta la storia di un detenuto, il magistrato di sorveglianza di Siena Ilaria Cornetti. “Poco più di 30 anni, già una pena di 15 per l’articolo 74 (testo unico sugli stupefacenti, ndr) con una condanna in primo grado ad altrettanti per lo stesso reato. Appellata. Prima della sentenza era ai domiciliari, la compagna è morta. Poco dopo è entrato in cella e ha perso il rapporto con il figlio. Da qualche mese lo sente in video-chiamata ogni 15 giorni”, premette ricostruendo il lavoro che sta svolgendo, grazie agli operatori e ad un avvocato “bravissimo” per riuscire “a proteggere l’unico valore positivo che questa persona ha nella sua vita. Sono dell’idea di rischiare autorizzandolo ad andare fino in Puglia per incontrarlo, senza scorta”. E legge le parole dell’educatrice a cui ha chiesto riscontro. Un punto di osservazione privilegiato quello del giudice Cornetti che invita gli avvocati a smettere di usare l’argomento “in maniera strumentale contro la magistratura, lavorando con essa per trovare le soluzioni. Quest’ultima deve smettere di pensare che il problema non la riguarda e che non l’ha determinato”, dice raccogliendo un applauso. “C’è la scritta ‘la legge è uguale per tutti’. Ma nessuno può tacere l’ipocrisia del sistema penale che, solo per fare un esempio, punisce allo stesso modo, da 3 a 10 anni di reclusione, il furto pluriaggravato e la bancarotta fraudolenta. Chi con destrezza ruba una borsa nel bus e chi svuota fondi di una società in stato di dissesto”, sottolinea il giudice Francesco Cerretelli evidenziando “come purtroppo, spesso, siamo a parlare fra noi. Come una terapia di gruppo, comunque fa bene ricordarcelo”. Poi sferza: “Se in carcere finisse qualcuno che non è ai margini della strada forse sentirebbe questo problema come attuale, sensibile da trattare”. “C’è un concetto che sto sperimentando, l’opportunità. Credo che gli strumenti per poter già fare molto per neutralizzare le conseguenze terribili di fatti terribili ci sono, le pene sostitutive”, interviene il giudice Andrea Grandinetti. “Ho avuto la fortuna di applicare la prima a Siena, il 7 gennaio, trovando fortunatamente sponda nell’avvocatura”, osserva invocando responsabilità di toghe e magistrati “altrimenti i soliti noti che finiscono in cella purtroppo torneranno ad avere esperienze con la giustizia non perché deviati ma perché lo Stato non gli assicura opportunità. Non dobbiamo invocare i politici, ci sono già gli strumenti”. Il sostituto procuratore Siro De Flammineis annuncia che l’Anm ha elaborato un documento che i giudici leggeranno ad ogni udienza sulla condizione delle carceri dalle udienze. “Bisogna contemperare l’esigenza della sicurezza pubblica, in alcuni casi il carcere è necessario per prevenire la commissione di reati, non si può eliminare del tutto”, osserva ricordando “ l’arrivo di fondi del Pnrr che potevano, per una buona quota, essere usati per creare nuove strutture carcerarie”. E condizioni migliori di reclusione. Racconta poi il caso doloroso di un detenuto che ha dovuto perseguire per fatti di droga: “Recentemente si è suicidato in una comunità di recupero. Una sconfitta per tutti”. “Il governo e il Parlamento tutto sono chiamati a lavorare profondamente sul tema mettendo da parte i contrasti - le parole dell’onorevole Francesco Michelotti, lette dall’avvocato Valeria Biagetti - e credo che la manifestazione delle Camere penali ha riattualizzato il dibattito sul sistema carcerario. Abbiamo il dovere di affrontare e risolvere il problema” Reggio Emilia. La maratona oratoria: “Troppi suicidi in carcere. Cambiare il sistema” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 11 luglio 2024 Oltre tre ore di interventi di avvocati, magistrati, operatori del penitenziario e volontari in piazza Prampolini per sensibilizzare sulla condizione dei detenuti. “Eravamo a 53 suicidi di detenuti nelle carceri italiane, stamattina (ieri, ndr) ho dovuto aggiornare il cartello: siamo a 54 dall’inizio dell’anno. Non è accettabile: è una strage di Stato”. In piazza Prampolini, ieri mattina si sono susseguiti gli interventi della ‘Maratona oratoria’ organizzata dalla Camera penale reggiana, presieduta dall’avvocato Luigi Scarcella, per sensibilizzare sui problemi che affliggono i penitenziari. Partendo da ottiche diverse, per oltre tre ore legali, magistrati, operatori del carcere e volontari, e anche i nuovi amministratori del Comune, hanno portato un contributo di esperienze, critiche e proposte. Sovraffollamento, Scarcella, affiancato nella conduzione dall’avvocato Cecilia Soliani, ha invocato la necessità di diffondere maggiore consapevolezza attraverso “pubblicità-progresso” e l’istituzione di una ‘Giornata del carcere’ “in cui i cittadini possano entrare nei penitenziari, prendere contezza del degrado, soprattutto percepire odori e rumori”, ma anche conoscere ciò che i detenuti sanno produrre, “se messi nelle condizioni”, ovvero “teatro, manufatti, fotografia, un concerto...”. E propone: “L’esecuzione della pena dev’essere altro: pene sostituive e alternative, affidamento in prova ai servizi sociali, riabilitazione in comunità, domiciliari e altro. I dati - rimarca Scarcella - sono inconfutabili: così si abbatte il pericolo di recidiva e si restituisce alla società un soggetto migliore e meno incline al delitto”. Nel pubblico c’è Tonino D’Angelo, padre di un detenuto all’ex Opg, membro del direttivo dell’associazione ‘Sostegno e zucchero’: “Come genitore - ci dice - constato l’abbandono dello Stato che incide su chi sta in carcere e chi vi opera”. Parola, poi, al sindaco Marco Massari, che ha sollevato una questione che fa periodicamente discutere: “È vero, i ragazzini fanno uso di stupefacenti e spesso li spacciano: vogliamo allora affrontare il tema della depenalizzazione delle droghe leggere, com’è stato fatto in Germania? E del disagio giovanile, sociale e psichico? La risposta non può essere solo la galera, anche per ragazzini di 14 anni se c’è pericolo che fuggano”. Interverrà poi anche l’assessore alle Politiche educative e diritti umani Marwa Mahmoud. È stata la volta del presidente del tribunale Cristina Beretti che ha parlato dell’importanza del reinserimento e delle misure alternative: “‘Buttare la chiavè vuol dire invocare una vendetta pubblica e vedere una persona soffrire sino alla fine. Il carcere non dev’essere una discarica sociale”. Il procuratore capo Calogero Gaetano Paci ha parlato della consapevolezza dei magistrati inquirenti del fatto che l’esecuzione penale è un momento delicato, che richiede diversi attori e competenze: “Ma in carcere, anche nelle migliori condizioni come in questa regione, mancano queste risorse. Il personale della custodia è insufficiente e non adeguatamente formato per compiti rieducativi. Manca spesso l’assistenza psicopedagogica”. Parola poi agli avvocati Giovanni Tarquini e Nicola Tria. Infine è intervenuto Francesco Campobasso del Sappe, sindacato della polizia penitenziaria, presente con Michele Malorni, spiegando i problemi di chi deve sorvegliare. In comune coi detenuti c’è la disperazione. Ha ricordato che nel turno 16/24 “un solo poliziotto deve vigilare su 60-70 detenuti: che osservazione e sicurezza può fare?”. E con un implicito riferimento a vicende controverse, come quella della presunta tortura a un detenuto a Reggio, ha detto: “La polizia penitenziaria prende le distanze anche da chi eventualmente tra noi usa metodi distorti: siamo un corpo, soffriamo in silenzio”. Parla anche il medico del carcere da trent’anni, Stella Capitani: “Il carcere è un sistema: se non funziona non si va da nessuna parte”. Reggio Emilia. Don Daniele Simonazzi: “La prigione risponde a una giustizia retributiva” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 11 luglio 2024 Il cappellano denuncia le condizioni carcerarie e chiede giustizia riparativa per i detenuti. Volontari e associazioni si impegnano per migliorare la vita di chi è dietro le sbarre. Don Daniele Simonazzi, cappellano dell’ex Opg, chiede di fare 30 secondi di silenzio “per chi è morto”. Poi presta la sua voce agli uomini che incontra dietro le sbarre. Legge la lettera di M., che qui pubblichiamo. Fa domande collettive e sferzanti: “Se noi fossimo al loro posto, vorremmo essere trattati così?”. Loro definiscono il carcere “come un inferno in cui si è privati della vita”. Possono usufruire “di 4,8 metri quadrati, perché vanno tolti i letti a castello. Ma una legge europea a parità di volume assicura più spazio alle galline ovaiole”. La soluzione, dice polemicamente, potrebbero essere “nuove deportazioni, dovremo aprire binari 21 in molte stazioni perché adesso i detenuti saranno deportati in Albania ed è disastroso”. Descrive il penitenziario come “dove si fatica a volere bene, anche se c’è una chiesa che vive la condizione del carcere: il vescovo lo ha capito benissimo e ci ha fatto visita una volta al mese”. Dice che il carcere “risponde a una giustizia retributiva: noi aggiungiamo male al male”. Che “l’autorità giudiziaria esclude la vittima, se si vive il processo come identificazione tra il reato e chi lo ha commesso”. Chiede che sia messa in campo “la giustizia che ripara”: “Non si è investito abbastanza, la legge Cartabia è stata disattesa”. Parla dei nuovi agenti penitenziaria, “più giovani e preparati, a contatto fino a 8 ore con chi soffre di disagio mentale”. Pone quesiti in toni forti, che vanno al dunque delle condizioni: “Io userei - domanda retoricamente - il loro cesso?”. È stata letta una lettera di Massimo Castagna, per 35 anni educatore nelle carceri: ha invocato che i meno pericolosi siano accolti in strutture “più simili a una comunità terapeutica, con personale educativo e sanitario, insegnanti, formatori e artisti, nessun limite ai contatti con le famiglie”. Sfila anche l’impegno dei volontari: Cecilia Di Donato per MaMimò, che fa teatro coi detenuti e una sperimentazione, ‘Pre-text’, condotta da Sara Oboldi; Monica Franzoni (Uisp), che propone 20 ore di attività motoria nei reparti; Manuela Rapetti (sportello detenuti Dimora d’Abramo) che crea progetti per chi entra e chi esce. Poi Silvia Dell’Amico di Telefono Azzurro, che ha allestito una ludoteca e organizza feste per detenuti e parenti: negli ultimi mesi 142 famiglie e 215 minori hanno usufruito dello spazio giochi. Fabio Salati, presidente del centro ‘Papa Giovanni XXIII’, ricorda Stefano Dal Corso e la sua morte controversa in cella a Oristano: “Lui fu anche ospitato a Reggio alla Papa Giovanni nel 2012 per due anni, in detenzione alternativa. Fece un percorso positivo nonostante le sue fragilità”. La Spezia. Il silenzio dei fantasmi: lenzuola e fiori in aula per i morti di carcere di Massimo Merluzzi La Nazione, 11 luglio 2024 La Camera penale spezzina ha aderito allo sciopero nazionale degli avvocati. Il numero dei suicidi negli istituti di pena continua tristemente a crescere. Sono fantasmi che si aggirano nelle carceri italiane, invisibili e trasparenti che fanno rumore soltanto quando cadono. In quel preciso istante in cui però è ormai troppo tardi e la loro vita si è spenta nel silenzio assordante di stanze malsane, reparti stracolmi, situazioni già ben oltre limite della sopportazione. Sono 54 le vittime già registrate nel tragico bollettino di radio-carcere Italia, le cui modulazioni di frequenza si dovrebbero ascoltare da ogni latitudine del Paese. Invece sul tavolo restano i nomi di detenuti che si sono tolti la vita insieme a quelli dei 6 agenti della polizia penitenziaria. Fantasmi. Per una mattinata hanno indossato i loro panni da invisibili anche gli avvocati della camera penale del Tribunale di Spezia che si sono ritrovati ieri mattina nell’aula “Vincenzo Faravino” per un flash mob silenzioso e toccante proprio perché molto diretto e sentito. Messo in scena non certamente per fare colore ma possibilmente riuscire a far uscire dall’aula tanto rumore. E comunque dare impulso al movimento di protesta che proseguirà in tutta Italia anche oggi. Non sono servite tante parole ma è bastato sistemarsi di fronte alla cella, qualcuno lo ha provocatoriamente definito “gabbione” proprio a significare il termine meno collegabile a una vita umana, della Corte d’assise e calarsi sul volto un lenzuolo bianco. Per poi rimanere silenziosi, come i fantasmi. Hanno voluto testimoniare in questo modo il dramma che si sta vivendo nelle carceri italiane, aggiungendo nuove cifre all’elenco nero che si rinnova e allunga ogni anno. Per fortuna, nonostante le grandi difficoltà strutturali e di carenza di personale, nei numeri non ci sono casi spezzini. Anche se un detenuto poi suicida a Chiavari era transitato anche dal penitenziario di Villa Andreino. Gli avvocati penalisti spezzini nonostante lo sciopero si sono ritrovati dunque all’iniziativa che proseguirà poi a livello nazionale a Roma organizzata dalla camera penale presieduta da Fabio Sommovigo e dall’ordine degli avvocati presieduto da daniele Caprara. Due cartelli scritti a mano, un mazzo di rose rosse da dedicare idealmente alle vittime e 25 lenzuola bianche e candide che improvvisamente sono calate sui volti, per oscurarne la vista. i contorni, le forme e uniformare il quadro. Tutti uguali, nessuna differenza. Tutti fantasmi e quindi invisibili. “Fermare i suicidi in carcere. Non c’è più tempo” questo il titolo della manifestazione organizzata a livello nazionale per dare voce alle 54 persone che si sono tolte la vita. Stanche, sfinite, inascoltate nel loro dolore. “Siamo qui per dare voce a tutti coloro che non possono parlare - hanno motivato le ragioni del sit in Fabio Sommovigo presidente della Camera penale spezzina r Daniele Caprara presidente dell’ordine - perché lo Stato non sta risolvendo i problemi, non usa le mani per affrontare il dramma di questa situazione ma anzi alimenta il disagio e la difficoltà. Siamo arrivati al punto che sia l’indulto che l’amnistia sono diventati ormai necessari”. Il sovraffollamento è ormai divenuto una costante del sistema carcerario. Da anni registriamo il costante incremento della popolazione detenuta, nella totale assenza di interventi legislativi che affrontino in modo organico la questione. Volendo declinare in numeri il concetto, se i dati a disposizione sono corretti, oggi ci sono circa 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza. Nella quotidianità ciò significa assenza di spazi vitali, inadeguatezza dei servizi, difficoltà a svolgere le più banali attività giornaliere. Una condizione che aumenta lo sconforto e il senso di abbandono, soprattutto durante i mesi estivi, più torridi. Colpito di Carabinieri con il taser, operaio pugliese di 42 anni muore in Alto Adige di Luigi Ruggera Corriere del Trentino, 11 luglio 2024 Viveva nello Sporthotel di Colle Isarco, una foresteria per lavoratori fuorisede, dove è avvenuto l’intervento dei carabinieri: lavorava per un’impresa edile di Vipiteno. Era stato lui stesso a chiedere aiuto, chiamando il numero d’emergenza 112: all’arrivo dei carabinieri ha però perso il controllo, avventandosi contro i militari, che lo hanno colpito con la pistola taser. L’uomo, immobilizzato dalla scossa elettrica, ha poi accusato un grave malore ed è deceduto dopo oltre un’ora. È questa la dinamica della tragedia avvenuta nella notte di martedì a Colle Isarco, secondo quanto riferito dai carabinieri in un comunicato stampa diffuso dopo che la notizia era stata anticipata dal Corriere dell’Alto Adige. I fatti risalgono alla nottata del 9 luglio, quando i carabinieri della compagnia di Vipiteno sono intervenuti presso lo Sporthotel, in pieno centro a Colle Isarco. L’edificio di piazza Ibsen 6 è di fatto una foresteria per lavoratori: le sue 16 stanze sono quasi interamente occupate da operai di fuori provincia che lavorano nei cantieri edili della zona. Anche il protagonista di questa tragica vicenda - un pugliese di 42 anni - si trovava in Alto Adige per lavoro, prima a Bolzano e solo dal primo luglio a Colle Isarco (non si trattava dunque di un ladro come emerso in una prima versione). Sembra che l’uomo fosse impiegato come lavoratore stagionale in un’impresa edile di Vipiteno che avrebbe in appalto anche alcuni lavori nei cantieri del tunnel del Brennero. Proprio dalla sua stanza allo Sporthotel, verso le 2 di notte tra lunedì e martedì, l’uomo ha chiamato il 112, in evidente stato di agitazione, segnalando la presenza di persone non meglio precisate che si sarebbero trovate al di fuori della sua stanza. I carabinieri sono così subito intervenuti sul posto, assieme al personale sanitario (coinvolto nell’intervento proprio perché l’uomo sembrava in uno stato di agitazione), tentando di accedere nella sua stanza. “L’uomo, in evidente stato confusionario dovuto presumibilmente all’uso di alcool e stupefacenti - si legge nel comunicato dei carabinieri - si rifiutava di aprire urlando frasi sconnesse e lanciando i mobili all’interno della stanza”. Non servivano a calmarlo nemmeno le rassicurazioni fornite all’uomo, al telefono, dall’operatore della centrale operativa dei carabinieri di Vipiteno, chiamato ripetutamente dallo stesso 42enne per denunciare la presenza di sconosciuti alla sua porta (erano in realtà proprio i carabinieri intervenuti per aiutarlo). A un tratto l’uomo si è lanciato dalla finestra della sua camera, al primo piano dell’hotel, compiendo un volo di circa 2 metri e mezzo. “Nonostante la violenta caduta il soggetto si rialzava e subito si scagliava contro i carabinieri nel tentativo di aggredirli inveendo contro di loro e costringendoli ad utilizzare il dispositivo ad impulsi elettrici taser in dotazione - aggiunge la nota dei carabinieri. Lo stesso, seppur colpito, continuava ad opporre resistenza obbligando i militari ad immobilizzarlo a terra per permettere così ai sanitari di poter procedere alle cure del caso ed evitare che lo stesso potesse continuare ad essere pericoloso sia per sé che per gli altri. Dopo alcuni minuti il soggetto accusava un malore costringendo il medico d’urgenza già presente sul posto ad effettuare le manovre di rianimazione, le quali purtroppo non riuscivano ad evitare che l’uomo venisse colpito da arresto cardiocircolatorio, decedendo dopo oltre un’ora”. Nel corso della successiva perquisizione nella stanza, i carabinieri hanno rinvenuto alcune dosi di stupefacente, verosimilmente cocaina, ed alcolici vari: queste sostanze sono ritenute dai militari intervenuti “la causa del grave stato di agitazione e di confusione in cui versava l’uomo”. L’uomo, residente nella zona di Bari, già in passato si era reso protagonista di episodi simili. Le cause del decesso sono ora al vaglio dell’autorità giudiziaria, che ha disposto l’autopsia nell’ambito di un’indagine penale avviata dalla Procura a carico di ignoti. Sarà dunque l’esame autoptico a chiarire le cause di morte dell’uomo: l’esito risulterà decisivo per chiarire eventuali responsabilità. Tra le ipotesi più probabili del decesso c’è quella dell’arresto cardiocircolatorio. Sarà stato causato dalla scossa elettrica del taser oppure dall’abuso di sostanze stupefacenti? Oppure, ancora, da cause multifattoriali? Sarà appunto l’autopsia a fornire delle risposte. Solo in seguito a questa perizia, verrà concesso il nulla osta per i funerali, che verranno celebrati in Puglia, nella città d’origine del 42enne. Intanto l’azienda Axon Italia, produttrice del dispositivo Taser, è intervenuta per “ricordare che oltre 800 studi indipendenti e più di otto milioni di impieghi in 25 anni hanno escluso una correlazione tra attacchi cardiaci e l’uso del dispositivo”. In una nota Axon Italia aggiunge: “Certificata come l’arma meno letale al mondo, il Taser provoca l’immobilizzazione neuromuscolare del soggetto per cinque secondi. È importante quindi che venga accertato quanto accaduto prima che le autorità intervenissero, facendo così chiarezza su questa tragica vicenda”. Si registra infine la presa di posizione di Unarma, l’associazione sindacale dei carabinieri, che in una nota esprime “il suo pieno supporto ai due carabinieri coinvolti nell’incidente”. Il segretario generale di Unarma, Antonio Nicolosi, osserva: “Auspichiamo che non venga aperto nessun procedimento che possa comportare degli oneri a carico dei carabinieri. L’azione dei due colleghi che hanno agito secondo i protocolli e le procedure stabilite, sembrerebbe essere stata senza dubbio legittima e mirata a prevenire ulteriori rischi per la pubblica incolumità. Non vorremmo che la solita politica dei soliti noti cerchi di eliminare il taser, visto che è un elemento fondamentale per il nostro servizio”. Sarà ora l’indagine della Procura a dover accertare l’esatta dinamica dei fatti. Taser elettrico: ecco come funziona, quando si usa e i limiti di legge di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 11 luglio 2024 Carabinieri, poliziotti e agenti della Guardia di Finanza hanno in dotazione le pistole elettriche taser dal 2022. Come funzionano? Quali sono i rischi? La pistola taser è entrata nelle dotazioni di tutte le forze di Polizia nel 2022, dono anni di sperimentazioni. Dopo la morte di un uomo colpito dalla scarica elettrica della pistola impiegata da un carabiniere a Colle Isarco, in Alto Adige, riproponiamo questo approfondimento sull’arma, sulle regole per il suo corretto utilizzo e sulle norme di legge in materia. Taser: quali sono le regole d’ingaggio? Il protocollo prevede cinque passaggi obbligatori da parte dell’operatore di polizia: individuazione del pericolo, dichiarazione di essere armato di pistola elettrica, esposizione dell’arma, warning arc (scossa di avvertimento con puntamento della pistola), lancio dei dardi. Quanto può durare la scossa elettrica? Non più di 5 secondi per una potenza massima di 50 mila volt, a basso amperaggio. I dardi devono essere collegati a cavi lunghi sette metri. Nella pistola c’è una memoria che registra tutte le fasi dell’intervento, anche l’orario. Non è modificabile. Sull’arma poi un visore segna il conto alla rovescia fino all’esaurimento dell’energia. Perché si chiama “taser”? È l’acronimo di Thomas A. Swift’s Electronic Rifle. “Il fucile elettronico di Thomas A. Swift” è un racconto per ragazzi del 1911 edito dal Stratemeyer Syndicate, con la firma di Victor Appleton, che narra la storia dell’inventore di un’arma elettrica che spara proiettili di energia durante un safari in Africa. Il testo è stato accusato di razzismo. L’attuale taser è stato sviluppato da Jack Cover negli anni 70 e venduto dalla Taser International. Cos’altro prevedono le linee guida per l’utilizzo? Gli operatori, secondo il sindacato di polizia Coisp, hanno l’obbligo di considerare “la visibile condizione di vulnerabilità” e “i rischi associati con la caduta della persona” colpita dalla scossa elettrica. “Sono valutazioni complesse - spiegano -, se non impossibili. Tutto avviene in un arco temporale brevissimo. I poliziotti potrebbero essere esposti a richieste di indennizzo da parte di soggetti colpiti, per lesioni da caduta non valutate”. Quali sono i pericoli per la salute di chi viene raggiunto dalla scarica? “C’è un rischio teorico, anche se molto basso, di un’aritmia mortale in persone con cardiopatie o che abbiano assunto sostanze eccitanti, come la cocaina. Queste ultime perché hanno già una propensione alle aritmie e la scarica di adrenalina provocata dalla scossa può mandare il cuore in fibrillazione - rivela Francesco Perna, cardiologo aritmologo del Policlinico Gemelli di Roma -. In caso di portatori di pacemaker, l’impulso del taser potrebbe, sempre in teoria, interrompere il battito cardiaco per 10-15 secondi con conseguenze gravi. Il problema - aggiunge il medico - è che ci sono pochi dati, le uniche ricerche provengono dagli Usa dove l’arma viene usata dalla polizia. Comunque sia, la corrente arriva al cuore già attenuata dalla pelle, dai muscoli e dal grasso. Ma un rischio minimo di mortalità cardiaca esiste”. Il taser può essere utilizzato in ordine pubblico? No. Per il momento, così come avviene per lo spray al peperoncino, non è previsto l’utilizzo dell’arma a impulsi elettrici nel corso di incidenti durante sit-in e manifestazioni. Serve per bloccare persone considerate pericolose per gli operatori o altri, oppure ancora fuori controllo in maniera palese. Quanti sono i Paesi dove la pistola elettrica viene utilizzata dalla polizia? Sono 107, dalla Gran Bretagna alla Germania, dalla Francia alla Grecia, a Finlandia, Repubblica Ceca e Grecia. Poi negli Usa, in Canada, Australia, Nuova Zelanda, Kenya, Brasile. Ottocento studi indipendenti hanno contestato il fatto che il taser non possa essere dannoso per la salute. È vero che l’Onu ha classificato la pistola elettrica come “strumento di tortura”? Sì, in particolare il modello X26. E Amnesty International ha sottolineato come “prima di mettere a disposizione della polizia questo tipo di armi, andrebbe effettuato uno studio sui rischi per la salute”. Per l’organizzazione negli Usa e in Canada “i morti direttamente o indirettamente collegati all’uso del taser sarebbero oltre mille, il 90% dei quali persone disarmate”. Perché l’Italia tiene in cella chi combatte per la libertà? di Angela Stella L’Unità, 11 luglio 2024 Sono tre ragazzi palestinesi. Appartengono alla resistenza armata della Cisgiordania. Il nostro governo li ha fatti arrestare per consegnarli a Israele. Ma il diritto internazionale riconosce il diritto all’autodeterminazione, anche con la lotta armata. E quindi? Oggi la Corte di Cassazione deciderà se far rimanere in carcere tre ragazzi palestinesi arrestati perché ritenuti appartenenti alla resistenza armata operante in Cisgiordania, qualificata come attività terroristica dai giudici dell’Aquila. Piazza Cavour dovrà quindi decidere se la resistenza è un diritto del popolo palestinese oppure costituisce un reato perseguibile in Italia. Ma ripercorriamo la vicenda così come la illustra il loro avvocato, Flavio Rossi Albertini. “A gennaio 2023 - spiega il legale - il governo italiano accoglieva la richiesta di arresto provvisorio a fini estradizionali avanzata dal governo israeliano nei confronti di Anan Yaeesh. Il crimine a lui addebitato era quello di essere un membro attivo della resistenza palestinese intrapresa in Cisgiordania”. Pertanto, il nostro governo inoltrava la domanda di arresto alla Corte di Appello de l’Aquila che ne disponeva “pedissequamente” la custodia cautelare in carcere. A febbraio la difesa ha avanzato la revoca della misura cautelare per i seguenti motivi: “concreto ed effettivo pericolo che Anan, qualora estradato in Israele, sarebbe stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, a tortura, rischio documentato dai report delle organizzazioni non governative ritenute affidabili sul piano internazionale, dal Rapporto delle Nazioni Unite redatto dalla Relatrice Speciale sulla situazione diritti umani nel territorio palestinese. Infine perché il rischio di violazioni dei diritti umani di Anan era già stato espressamente riconosciuto dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Foggia, ovvero da una articolazione del Ministero degli interni, la quale dal 2019 aveva ritenuto sussistenti i presupposti per la concessione della protezione speciale”. Inoltre la difesa ha evidenziato la “clausola di non discriminazione che si sostanzia nel doppio standard normativo e giudiziario - cd. Apartheid -, applicato ai palestinesi dei territori occupati rispetto ai coloni israeliani; nella deportazione e detenzione dei palestinesi in territorio israeliano; nella detenzione amministrativa”. A marzo la Corte d’Apnon pello de L’Aquila, in accoglimento degli argomenti difensivi, disponeva la revoca della custodia cautelare in favore di Yaeesh e dichiarava luogo a provvedere in ordine all’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione, ritirata nel frattempo da Israele. Tuttavia, esattamente due giorni prima la revoca della custodia cautelare disposta dalla Corte d’Appello, ad Anan, unitamente a due ragazzi palestinesi amici dello stesso e con lo stesso dimoranti a l’Aquila, Irar Ali e Doghmosh Mansour, veniva notificata un’ordinanza di custodia cautelare perché accusati di terrorismo per aver partecipato alla lotta armata contro l’occupante straniero in Cisgiordania, fenomeno resistenziale ricondotto dalla magistratura requirente e giudicante alla categoria del terrorismo invece che al legittimo diritto alla autodeterminazione dei popoli. “Ciò, nonostante il diritto internazionale umanitario - spiega Albertini - riconosca alle popolazioni sottoposte all’occupazione il diritto, anche con la lotta armata, all’indipendenza, salvo il limite integrato dal compimento di azioni militari di ribellione contro la popolazione civile”. La difesa ha proposto il riesame evidenziando, tra l’altro, “la pacifica riconducibilità dei fatti sottesi alla presente vicenda nell’alveo del diritto internazionale umanitario in tema di autodeterminazione dei popoli” e “l’impossibilità di ricondurre i territori teatro dei fatti alla nozione di Stato Estero” in quanto “gli atti di violenza sarebbero commessi in Palestina, ossia in un territorio, che da una parte non è stato ancora riconosciuto come tale dal diritto internazionale, e dall’altro è un’occupazione”. In data 4 aprile il Tribunale della Libertà confermava l’ordinanza del Gip, in particolare ravvisando il superamento del limite posto alla ribellione armata per il diritto all’autodeterminazione, ossia il compimento di azioni contro obiettivi civili, nella pianificazione di un attentato ad Avnei. Pertanto, la difesa si è rivolta alla Cassazione. Ci dice l’avvocato Rossi Albertini: “Nonostante la collocazione del governo italiano a sostegno dello stato di Israele, la speranza è che la Corte di Cassazione faccia prevalere il diritto e le convenzioni internazionali riconoscendo la piena legittimità del popolo palestinese di lottare contro la potenza occupante e conseguentemente annulli le misure cautelari”. L’Onu: “Sospendere la cooperazione con i libici su migranti e asilo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 11 luglio 2024 Invece Piantedosi andrà a Tripoli il 17 luglio. Intanto con il bel tempo ricominciano le partenze: oltre mille tra soccorsi e sbarchi. Due ong sotto attacco. “Chiedo alla comunità internazionale di rivedere e se necessario sospendere la cooperazione su asilo e migrazione con le autorità libiche coinvolte nelle violazioni dei diritti umani”, ha detto l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Volker Türk, intervenendo a Ginevra nella 56esima sessione dell’organismo delle Nazioni unite. Poco prima Türk aveva descritto il quadro rilevato sul terreno dalla missione indipendente Unsmil: deumanizzazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo; tratta di esseri umani; torture; lavoro forzato; fame indotta; vendita di uomini, donne e bambini. A marzo 2023 nel sud-ovest della Libia è stata trovata una fosse comune con almeno 65 persone, presumibilmente migranti. Di una seconda fossa di questo tipo arrivano notizie dall’area desertica al confine con la Tunisia. Mentre le persone continuano a morire in mare e le autorità libiche non rispondono di nulla, le stesse sono anche impegnate in una dura repressione del dissenso interno. Türk cita “detenzioni arbitrarie”, “uccisioni extragiudiziali” e persecuzioni contro chi si oppone al governo e contro le relative famiglie. È ai responsabili di questa situazione che politici e funzionari italiani ed europei stringono la mano quando volano in Tripolitania, o meno spesso in Cirenaica, per promettere risorse e sostegno in cambio della guerra ai migranti. Il prossimo 17 luglio a Tripoli il Governo di unità nazionale, che però controlla solo la parte ovest del paese, ha organizzato il Trans-Mediterranean Migration Forum, una conferenza internazionale sulla “lotta alle migrazioni illegali”. L’obiettivo, secondo un documento tradotto da Agenzia Nova, sarebbe “garantire un coordinamento integrato sotto un’unica egida” tra paesi di origine, transito e destinazione dei flussi. “Non possiamo continuare a ospitarli, sono 2,5 milioni. Troppi”, dicono le autorità libiche. Avrebbero confermato la partecipazione Spagna, Malta, Germania e ovviamente Italia. Secondo la stessa agenzia, non smentita dal Viminale, Roma sarà rappresentata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Gli ultimi dati ufficiali dicono che la Libia ha di nuovo sorpassato l’altro partner strategico dell’Italia nella lotta ai migranti, ovvero la Tunisia. Mentre nel 2023 era stato quest’ultimo paese a far registrare le maggiori partenze, quest’anno circa 15mila delle 28mila persone sbarcate in Italia sono partite dalla Tripolitania e in misura molto minore dalla Cirenaica. Il numero degli arrivi complessivi è stato fortemente ridotto rispetto al 2022, quando a questo punto della stagione se ne contavano già 72mila, ma resta in linea con i 30mila del 2021. Ieri, intanto, la nave Geo Barents di Medici senza frontiere ha denunciato un attacco subito dalle motovedette libiche. Mentre stava realizzando un soccorso, un mezzo dello Stability Support Apparatus “si è avvicinato pericolosamente, mettendo in pericolo la sicurezza delle persone”, fa sapere l’ong. La quale aggiunge che di conseguenza “molti sopravvissuti si sono lanciati dal gommone in acqua”. Sono stati tutti tratti in salvo dal team di Msf: 87 persone, tra cui molti minori e bambini. Il porto assegnato è Salerno. Martedì, invece, una circostanza simile era stata vissuta dalla Ocean Viking di Sos Mediterranée. Durante un intervento di salvataggio due gommoni non identificati, verosimilmente provenienti dalla Libia, e carichi di miliziani armati sono arrivati sulla scena. “Due uomini col volto coperto si sono imbarcati sulla barca coi sopravvissuti ancora a bordo, generando il panico tra i naufraghi. Diverse persone si sono dunque gettate in acqua”, ha comunicato la ong. Una quindicina di naufraghi sono stati recuperati dal mare. In totale sulla nave ne sono stati portati 98. Gli uomini armati hanno poi recuperato il barcone di legno trainandolo in direzione della terraferma. Successivamente la Ocean Viking ha salvato altre 27 persone, mentre 141 le ha soccorse ieri in due interventi nella zona di search and rescue tunisina, recentemente istituita. In totale 261 naufraghi sono in viaggio verso il porto di Massa Carrara, indicato dal Viminale. 74, invece, sono sulla Life Support di Emergency. Intanto, con la finestra di bel tempo, nel Mediterraneo centrale sono ripresi anche gli sbarchi. Ieri, fino al tardo pomeriggio, a Lampedusa erano arrivati 372 migranti in undici approdi (numero destinato ad aumentare nelle ore successive). All’interno dell’hotspot di Contrada Imbriacola le presenze avevano così raggiunto quota 589. Un maxi-sbarco di 377 persone è invece avvenuto a Pozzallo, alle prime ore di ieri mattina. Il motopeschereccio era stato avvicinato in alto mare dai mezzi italiani che lo hanno alleggerito delle presenze e poi scortato in porto. La giornalista di Agi Giada Drocker ne ha ricostruito il viaggio: era partito dalla città libica di Sirte, una provenienza inedita. Egitto. Giacomo Passeri scrive alla famiglia: “Giorni ammanettato al letto” di Serena Giannico Il Manifesto, 11 luglio 2024 Sono brani della lettera che l’italiano è riuscito a far uscire dal carcere di Badr, inoltrata alla mamma via whatsapp. Il fratello: “Stiamo premendo per una videochiamata, non conosciamo le sue reali condizioni”. “Me la sono passata molto male. All’inizio i poliziotti mi hanno derubato di tutto, maltrattato. Mi sono dovuto operare (l’appendicite, ndr). Ho passato giorni ammanettato al letto con sei agenti che mi odiavano e mi molestavano di continuo, mi lavavano buttandomi bottiglie d’acqua sulla ferita aperta, tanto che è dovuto intervenire il medico. Lo hanno forzato a farmi uscire dall’ospedale dopo tre giorni per portarmi alla Centrale, dove c’erano solo loro e mi hanno tenuto in una stanza con altri 48, e merda e piscio ovunque, lasciandomi, di mio, solo le mutande che avevo addosso”. Sono sprazzi di un quotidiano che arriva dal carcere di Badr, nel nord del Cairo, dove Luigi Giacomo Passeri, 31 anni, di Pescara, è recluso dalla fine di agosto del 2023 con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Era l’estate scorsa quando il giovane, che da due anni si è stabilito a Londra dove fa il pizzaiolo e l’animatore alle feste, è stato fermato durante un viaggio nella terra delle piramidi e rinchiuso in un “centro di correzione e riabilitazione”. Ieri al ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è stata chiesta un’informativa urgente “su un detenuto italiano che, da più di 10 mesi, non riesce nemmeno a sentire i suoi familiari. Chiediamo che la Farnesina faccia al più presto quello che deve. Tajani può e deve accertare come sta quel ragazzo e pretendiamo che l’estradizione sia una di quelle misure che il nostro Paese chiede. Non è possibile che questo Governo lo faccia solo per degli ergastolani, magari andando in aeroporto ad accoglierli”. Lo ha detto, in aula alla Camera, il deputato di Avs Marco Grimaldi, facendo riferimento a quanto accaduto con Chico Forti. Alla richiesta si sono associati i deputati Riccardo Magi (+Europa) e Laura Boldrini (Pd), presidente del comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo. Entrambi rimarcano la necessità di interessarsi a un ragazzo “detenuto in Egitto in condizioni drammatiche e in condizioni di salute estremamente precarie e che non ha minimamente consapevolezza di cosa gli stia accadendo perché non riesce nemmeno a comprendere cosa avviene nelle udienze”. Perché è in corso anche il processo a suo carico. “Occorre - hanno concluso - una presenza costante delle istituzioni”. “Dallo scorso 28 agosto, quando l’hanno bloccato - sottolinea il fratello Andrea - non siamo mai riusciti ad avere contatti con lui. Abbiamo ricevuto, sporadicamente e raramente, qualche lettera che è riuscito a far uscire di nascosto dalla prigione e che ci è poi stata inviata tramite Whatsapp. Circa un mese e mezzo fa l’altro fratello che sta Roma, Marco Antonio, tramite Ambasciata, ha fatto richiesta di andare a visitarlo, siamo in attesa di risposta. Stiamo premendo anche per una videochiamata, perché non conosciamo le sue reali condizioni e siamo preoccupati. È un fardello che ci portiamo sulle spalle da quasi un anno in silenzio”. Giacomo Passeri è finito nei guai perché deteneva droga. Su quanta e quale al momento non c’è chiarezza, ma i familiari parlano di marijuana per uso personale. “Al di là dei fatti e delle contestazioni che gli vengono mosse - continua Andrea - a noi preme sapere che stia bene, che venga curato in caso di necessità e trattato come un essere umano. Finora, su questa vicenda, abbiamo riscontrato disinteresse generalizzato. Ora che ci siamo esposti, speriamo in un cambio di passo delle istituzioni”. Passeri, che è il più piccolo di 5 fratelli nati in Africa, a Freetown, capitale della Sierra Leone, dove il padre ingegnere, originario di Pescara, si era trasferito per lavorare, ha annunciato in un ultimo messaggio fatto recapitare ai suoi l’inizio dello sciopero della fame.