Carceri, l’inferno e l’amnistia tabù di Luigi Manconi La Repubblica, 10 luglio 2024 La situazione è di irreversibile emergenza, vanno adottate misure urgenti, capaci di ridurre drasticamente la popolazione reclusa. Aveva trentasei anni ed era nato a Civitanova di Reggio Calabria il poliziotto penitenziario che si è tolto la vita nella notte dello scorso 6 luglio: è il sesto dall’inizio dell’anno. Della crudele epidemiologia carceraria, questo è forse il dato più trascurato: secondo alcune stime sindacali, nell’arco del decennio 2010-2020, sarebbero stati circa cento i suicidi tra gli agenti della penitenziaria (un dato decisamente più alto di quello riscontrato all’interno degli altri Corpi di polizia). È il segnale più inequivocabile del fatto che l’organizzazione penitenziaria è ormai diventata una macchina patogena che produce frustrazione, angoscia, psicosi, autolesionismo e morte. Sia tra i custodi che tra i custoditi. Nel corso della prima metà del 2024, sono già 54 i detenuti che hanno deciso di porre fine alla propria esistenza. Si sa, ogni suicidio è una storia a sé, ma le dinamiche soggettive possono essere potentemente acuite e rese dirompenti dalle condizioni ambientali. Il carcere, sin dalla sua struttura fisico-materiale - tutta ferro, cemento, acciaio -, è un sistema incombente e immanente, qualcosa di estremamente pesante e oppressivo, un apparato che immobilizza e leva il respiro. Al dispositivo di privazione della libertà corrisponde un meccanismo invalidante, che non solo blocca i movimenti e i desideri, ma che rimpicciolisce i corpi e gli spazi, annichilisce i pensieri, rallenta i ritmi, induce narcolessia e afasia. Esserne imprigionato perché carceriere o carcerato determina quella depressione e quella claustrofobia emotiva che è tra le prime cause dell’autolesionismo. Tutto ciò è nella natura e nella forma dell’istituzione detentiva e le attuali condizioni in cui essa si trova portano al parossismo le pulsioni di morte che vi covano. Quando si dice “sovraffollamento” il richiamo non è a un vagone della metropolitana all’ora di punta, bensì a una di quelle sculture di Auguste Rodin dove un gruppo di dannati, avvinti tra loro, patiscono le pene dell’inferno. Una congestione di corpi, membra, arti che si incrociano, si scontrano, si sovrappongono, tra respiri, sudori, umori, secrezioni, eiezioni e odori acri, in una promiscuità coatta e senza scampo. Solo chi non è mai stato in un carcere può ritenere esagerata questa descrizione. In una simile situazione, la prima vittima è la dignità umana: quando, tuttora, in molte celle delle nostre carceri il detenuto è costretto a orinare e defecare davanti ai propri compagni, converrete che preservare uno straccio di rispetto per sé è impresa davvero eroica. Questo è oggi lo stato del sistema penitenziario italiano, dove si trovano circa 14 mila reclusi oltre la capienza regolamentare. C’è da stupirsi se - all’interno di quella popolazione dolente, ammaccata, stressata - la percentuale di suicidi è venti volte superiore a quella registrata tra le persone libere? Di fronte a una simile catastrofe dell’umanità e del diritto, cosa è possibile fare? La risposta del governo è stata finora risibile. Va riconosciuto, innanzitutto, che la situazione è di irreversibile emergenza e che vanno adottate misure urgenti, capaci di ridurre drasticamente la popolazione reclusa. Finalmente la parola proibita è stata detta: il magistrato Bernardo Petralia, già capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha affermato: “Bisogna cominciare seriamente a riflettere su un’amnistia”. Già, ma in fretta ché il tempo stringe. I provvedimenti di clemenza quali amnistia e indulto subiscono ormai una sorta di interdizione politica, ridotti a tabù impronunciabili. Eppure, come ricorda Stefano Anastasia, filosofo e sociologo del diritto, “si trovano lì, al comma 2 dell’art. 79 della nostra Carta costituzionale”. E aggiunge: “La clemenza è la virtù dei forti”. L’ultimo indulto venne approvato nel 2006 dal parlamento con la maggioranza dei due terzi. A quasi due decenni da allora i dati relativi a quella misura andrebbero riletti lucidamente e valutati con serenità. All’epoca ne beneficiarono 36.741 condannati. Di questi, dopo cinque anni, sono rientrati in carcere 12.462, con un tasso di recidiva complessivo del 33,92 percento (è il professor Giovanni Torrente a fornire questi dati). Una percentuale in apparenza assai elevata, ma inferiore di oltre la metà alla recidiva ordinaria (68,45 percento). Inoltre, tra i 7.878 in regime di misura alternativa che beneficiarono del provvedimento, il tasso di recidiva si ridusse al 21,97 percento. In sostanza, quell’indulto, che purtroppo non fu accompagnato da una contemporanea amnistia, ebbe un esito assai positivo: anche se, in assenza di ulteriori interventi strutturali, gli effetti di deflazione sul sovraffollamento si esaurirono nell’arco di pochi anni. Oggi, quell’esperienza così significativa e così diffamata andrebbe ripresa. Si troverà, all’interno dell’attuale classe politica, sufficiente intelligenza per affrontare, senza codardia, una prova così importante? Se il carcere diventa una condanna a morte di Dacia Maraini Corriere della Sera, 10 luglio 2024 Matteo, 23 anni, Stefano 26 anni, Alam 40 anni, Fabrizio 59 anni, Mohamud 38 anni, Andrea 33 anni, Jeton 34 anni, Ivano, 35 anni, Sasha 38 anni, Carmine 22 anni, Sylla 22 anni, e non nomino gli altri per mancanza di spazio. Questi uomini si sono suicidati in carcere e noi tutti dobbiamo sentirci responsabili. In Italia non esiste la pena di morte, ma questi dati ci dicono che la stiamo applicando. E senza processo o condanne. Quando un fenomeno si ripete così spesso non possiamo più parlare di un caso di depressione, di un momento di follia, di un innamorato deluso, di un drogato in overdose. Quando in un periodo di pace si contano nei primi mesi dell’anno già 70 suicidi nelle galere del Paese, ricordando che nel 2023 sono stati 80 in tutto l’anno, siamo obbligati a parlare di un sistema che non funziona e va corretto, anche al più presto, perché non si può giocare con la vita delle persone. Il paradosso sta nel fatto che proprio il nostro Paese che è stato fra i primi a esprimere geniali personaggi come Beccaria e Basaglia, sia oggi il più arretrato nell’applicare le loro rivoluzionarie teorie. Cesare Beccaria ha fatto capire a tutto il mondo quanto il carcere come luogo di punizione che esprime solo voglia di vendetta sociale sia ingiusto, e Franco Basaglia - anche lui in anticipo sui tempi e punto di riferimento per il mondo intero - ha dimostrato che la follia non è una menomazione definitiva, ma una malattia da guarire con comprensione, gentilezza, cure non solo chimiche ma di responsabilità e libertà. Aggiungerei fra i grandi rivoluzionari anche Altiero Spinelli e il gruppo di antifascisti che hanno teorizzato una Europa libera e unita. Perfino il bei progetti di Ventotene che ci hanno dato pace e sviluppo sono oggi messi in discussione con incoscienza. I tanti suicidi ci fanno capire che il carcere è diventata una condanna a morte e ciò va contro ogni nostra conquista legale. La prigione dovrebbe essere il luogo dove una persona impara a riflettere su se stessa, sul mito della violenza e delle armi che lo hanno portato a semplificare il linguaggio delle relazioni umane. Il carcere dovrebbe essere il luogo dove si impara un mestiere e si assimila l’abitudine di relazionarsi in modo costruttivo e pacifico con gli altri e non solo uno spazio angusto di forzato ozio che suscita pensieri lugubri. Ho fatto diversi seminari nelle carceri romane assieme al gentile e innovativo magistrato Vincenzo Anania parlando di libertà e di poesia. E ho avuto modo di constatare che molti detenuti, esclusi quelli talmente attaccati ai propri vizi interiori da essere diventati di pietra, ma coloro che sono più disponibili al cambiamento, si trasformavano comprendendo la forza delle parole e del pensiero creativo. Le armi sono un linguaggio con cui molte persone pensano di risolvere i problemi che li angosciano. Ma le armi semplificano la realtà: il mondo si riduce ad amici da proteggere e nemici da distruggere. Ogni rapporto di conoscenza, di confronto, viene interrotto. Mentre la parola è pontifex, ovvero costruttrice di ponti. La parola come espressione di un pensiero autonomo conduce alla ragione, alla chiarezza della logica, alla curiosità dubitativa. Per questo aiuta a maturare, a diventare responsabili, mentre le armi portano alla semplificazione e alla divisione. I fucili e le bombe dettano la legge del più forte. Mentre la parola espressiva non cerca vincitori ma confronti, alleanze, metodi di convivenza civile. Degrado carcerario e ipocrisia della politica di Alessandro Gamberini La Repubblica, 10 luglio 2024 Applausi per l’iniziativa dell’Unione delle Camere penali di accompagnare un’astensione dalle udienze, per protestare per le terribili condizioni delle carceri italiane, con una maratona oratoria in numerose città italiane, che consenta agli avvocati, ai magistrati, ai protagonisti istituzionali e a tutti i cittadini di portare la loro attiva solidarietà. Le condizioni delle nostre carceri sono drammatiche per sovraffollamento e degrado delle strutture (presenza di cimici, topi, muffe alle pareti, servizi igienici non funzionanti): il lugubre elenco dei suicidi che quasi quotidianamente vengono annunciati dà la misura di quanto avviene. La manifestazione è un segnale che permette di comprendere il ruolo dei penalisti, attenti alle garanzie anche dei dannati della terra, che riempiono prevalentemente i nostri istituti di pena. È certamente importante che a queste iniziative partecipino non solo gli addetti ai lavori e esponenti della società civile, ma esponenti politici di tutti schieramenti, perché il tema (drammatico) deve superare gli steccati e coinvolgere tutte le persone di buina volontà. Così è avvenuto anche a Bologna dove lunedì mattina in Piazza Galvani, sfidando la lancia termica del sole estivo, si sono alternati, oltre agli addetti ai lavori, il cardinale Zuppi, il Sindaco, un senatore di FDI e perfino la candidata del centro destra- così ha rivelato ai giornalisti dopo il suo intervento - alle prossime elezioni regionali. Occorre però fare chiarezza: tutto bene se coloro che intervengono considerano il carcere come una soluzione in taluni casi resa necessaria dalla pericolosità dei protagonisti dei fenomeni criminosi, quando ogni alternativa è preclusa. Diversamente la sfilata diviene un omaggio strumentale e ipocrita. Chi invece ritiene che il carcere sia il luogo terribile e simbolico della difesa sociale e della propria legittimazione politica, il lavacro dei mali della società, porta la responsabilità del degrado al quale stiamo assistendo. Un tema che ha attraversato gli schieramenti politici e del quale ben pochi possono dirsi esenti (a parte la parentesi della ministra Cartabia, fautrice della giustizia riparativa). I primi responsabili vanno oggi ricercati nell’inerzia di questo Ministro di Giustizia e nell’attitudine forcaiola di questo Governo - basti pensare alla provocazione che ha messo in campo con i recenti provvedimenti che lungi dallo svuotare il carcere varranno ulteriormente “a rimpinzarlo”, come è stato scritto. Impallidisce perfino quel Ministro pentastellato che, con i suoi provvedimenti, oggi fortunatamente in parte cancellati, ebbe il proposito di modellare una società nella quale la punizione fosse celebrata senza limiti di tempo e senza garanzie. Ho detto un’attitudine forcaiola. Basta esaminare i decreti che, fin dal suo sorgere, ha approvato: dal decreto Rave, al decreto Cutro, al decreto Caivano, tutti orientati a un aumento generalizzato della pena carceraria su tutti i versanti, ma in particolare rispetto a quelli destinati proprio a coloro che vanno abitualmente in carcere, tossicodipendenti, destinatari di misure di polizia, immigrati, manifestanti e coloro che resistono agli ordini dell’autorità. Mentono, sapendo di mentire, rispetto a un inesistente aumento esponenziale dei reati che, stando alle statistiche ufficiali, non esiste: i reati diminuiscono e i carcerati aumentano. La carcerazione si allarga, sconvolgendo anche gli strumenti della giustizia minorile: ma il tasso di criminalità minorile in Italia è dell’1 per mille tre volte inferiore a quello della Gran Bretagna, quattro volte inferire a quello della Germania (4,3), otto volte inferiore a quello della Francia (8,2), secondo i rilevamenti Eurispes. Per non dire dei disegni di legge già approvati che comprendono l’abolizione del reato di tortura - così cancellando le numerose inchieste che hanno messo sotto accusa ignobili episodi di pestaggio proprio dentro le carceri - nuovi delitti addirittura di resistenza passiva e perfino di rivolta carceraria. Il pannicello caldo della divisione delle carriere, che certo varrà a rendere più netta una separazione sulla quale insiste la terzietà del Giudice, pur senza attese messianiche, non vale certo a rendere meno drammatica la condizione carceraria e a garantire più efficacemente coloro che vi entreranno in misura crescente. Rispetto mancato allo stillicidio quotidiano di suicidi in carcere di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 10 luglio 2024 Sono a ringraziare la Camera penale di Bologna unitamente al suo Osservatorio Carcere nella persona della dottoressa Minutiello e dell’avvocato Bricola che ancora una volta hanno voluto e saputo organizzare una necessaria e urgente intera mattinata per il continuo e crescente stillicidio di suicidi in carcere, 54 fino ad oggi agenti di custodia compresi. Mi rendo conto del tema estremamente divisivo (che al contrario dovrebbe unire per natura i detenuti ed ogni persona degna di questo nome); capisco che il panorama cittadino e peggio ancora mondiale, sia spostato, come avviene ormai da tempo sul metodo della “sostituzione italiana”: avanti la cronaca: notizia passata, avanti un’altra. Ma almeno, per l’evento di lunedì, avere un po’ più di attenzione e maggiore rispetto per l’argomento tortura, diritti, violenza e “impreparazione” da parte dello stato in primis, sarebbe stato giusto doveroso e civile averlo. Non mi stupisco più della “politica”, dei “ partiti” (nei confronti di chi se n’é andato per sempre seguito da chissà quanti altri ancora), dei “governi” a cui abbiamo lasciato ogni delega quasi in bianco perché tutto questo continui; sono più perplesso nel vedere paginate di giornali non interessarsi al momento che la Camera ha dedicato al tema carcere e morte, non nominando nemmeno a latere per esempio, Ernest, presente ieri con la sua storia “dal vivo”(incarcerato ingiustamente e vicinissimo a togliersi la vita se qualcosa non si fosse mosso in extremis)… É la stampa bellezza? No la bellezza è stato vedere lì qualcuno che non è “partito” per l’altro mondo ma provava a narrare come cambiarlo, come ci si sente, cosa si può fare, insieme a tutti noi presenti, come il cappellano della Dozza ed altri in prima linea tutti i diavoli giorni. Poche righe su tutta questa bellezza (un semplice “regionali a parte”… Regionali? Ma ieri si faceva propaganda elettorale?) Titoloni sulla neo candidatura della dottoressa Elena Ugolini che, e me ne scuso, conosco pochissimo e che certamente è persona di ottima volontà. Regionali, presidenti uscenti entranti, coalizioni, movimento civico (ormai siamo tutti postini in cerca di un numero dove recapitare una raccomandata). Ma un secondo, un minuto di “raccoglimento” di scuse (da porgere a questi invisibili, non da trovare per dire che siamo meglio noi di altri)? Un soffio di vergogna per far sentire il nostro respiro all’unisono con chi l’ha perso per sempre? L’idea sarebbe quella di riavvicinare i cittadini alla politica? Di “uscire dagli schemi” (cito testualmente), mentre 60.000 soffocano nella “normalità “? Decideranno le candidature i “vertici nazionali Vedo pianure, fossi e fosse; si dovrebbe riavvicinare la politica ai cittadini, specialmente quelli reclusi pur se rei, in un luogo di tortura connivente a cui siamo assuefatti da sempre anche noi adesso rei. Non una parola sugli sforzi che l’avvocatura i volontari, le chiese, certi magistrati, mille associazioni, fanno per dirci che quello che manca è un’anima politica (ma può esistere un sole spento, un mare fermo, un naso senza narici?) Messaggio ricevuto. Avanti un altro. C’è posto per tutti e per ogni migliore intenzione, escluso abolire la detenzione e investire soldi (nostri?) in tutto e per tutto, ma non per i cattivi, che non meritano case, alternative, lavoro, come i buoni, e che in più, di massima, non votano però sono votati: votati al sacrificio, causa vendetta, a cui ogni Stato al mondo, li obbliga con l’alibi di una pena che pena non è. É dovere di sofferenza mai diritto di conoscenza. E obbligo nostro di universale coscienza. Vinca il migliore nelle regionali nelle infinite coalizioni dell’Immutabile. Pianeta carceri: suicidi e salute il doppio volto dell’emergenza di Antonio Mattone Il Mattino, 10 luglio 2024 Emergenza carceri, emergenza suicidi. Se n’è parlato ancora una volta durante la conferenza stampa del Garante regionale dei detenuti della Campania, tenutasi ieri presso il Consiglio regionale. Appelli e denunce che vengono lanciati periodicamente in determinati periodi dell’anno, come quando il caldo torrido rende difficile la vita all’interno delle celle, o quando il numero degli eventi esige una inevitabile presa di posizione, come nel caso dei sei suicidi avvenuti nei primi 8 giorni di luglio. Stesse tematiche, stesso refrain di quello degli anni scorsi. Nulla è cambiato allora? Tutto resta come prima? A me sembra che si va peggiorando nei numeri, ma non solo. I detenuti attualmente presenti nelle carceri italiane sono oggi 61.480, a fronte a una capienza di diecimila posti in meno. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno sono quasi 5mila in più. La piaga dei suicidi si allarga e continua a sanguinare. Una triste contabilità a cui si fa fatica a stare dietro. L’ultimo bollettino elaborato da Ristretti Orizzonti, la rivista che raccoglie e documenta le vicende della vita penitenziaria, parla di 54 detenuti che si sono tolti la vita nell’anno in corso, mentre in tutto il 2023 ne furono 69. Anche in Campania le cose non vanno bene: oltre 1300 presenze in più della capienza regolamentare, sei carcerati si sono tolti la vita, oltre tre decessi da accertare, tra cui quello di un giovane maliano morto a Poggioreale nel marzo scorso. Tuttavia, l’emergenza più grande è quella della salute. Si sta riducendo il numero dei medici presenti negli istituti di pena. Sottopagati, con responsabilità sempre maggiori e oggetto di frequenti aggressioni da parte dei detenuti, sono in fuga dal carcere. Proprio recentemente la direttrice sanitaria di Poggioreale ha rassegnato le dimissioni. Per chi è malato la permanenza tra quelle sbarre è talvolta drammatica. Tempi di attesa infiniti per ricoveri ed esami clinici creano disperazione in chi ha gravi malattie. Pensiamo a chi ha un tumore e non riesce a fare una TAC cosa significhi vedere scorrere il tempo senza che nulla accada. E poi, quando arriva il giorno fatidico della visita, può succedere che manca la scorta che dovrebbe accompagnarlo in ospedale e il detenuto resta in carcere. Non è vero che la difficoltà di curarsi è uguale per chi è libero e per chi non lo è. Troppo spesso carcere e sanità si sono beccati come i capponi di Renzo, addossandosi colpe e responsabilità, a discapito dei detenuti. Poi c’è tutto il problema della psichiatria che è esploso esponenzialmente nella società e che si è analogamente propagato anche all’interno degli istituti di pena. Non è pensabile che in un istituto come Poggioreale, con oltre duemila presenze ci siano solo due psichiatri, zero riabilitatori e infermieri specialisti per questi pazienti. Cosa sta succedendo nelle carceri italiane? Perché questo aumento così repentino di suicidi? Tuttavia forse le domande che dovremmo porci sono altre: perché non è stato fatto nulla in questi anni per migliorare le condizioni detentive nonostante le numerose criticità evidenziate a partire dalla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2013? Le grandi riforme promesse dai governi di sinistra non sono state realizzate se non in misura marginale, lasciando incancrenire la situazione. In più questo Governo, aumentando le fattispecie di reato e inasprendo le pene, ha dato l’illusione che una risposta muscolare potesse servire a rendere più sicura la nostra società. Il recente decreto del Guardasigilli Nordio ha invece lasciato insoddisfatti persino gli agenti di polizia penitenziaria. In effetti l’aumento delle telefonate, contenuto nel provvedimento era già in vigore durante la pandemia, e rappresenta solo un piccolo spiraglio. Mentre bisogna vedere se i 1000 agenti che saranno assunti nel 2025 riusciranno a sostituire almeno quelli che sono andati in pensione o che ci andranno nel prossimo anno. La fatica di chi lavora nei reparti detentivi, in numero sempre più ridotto, con turni massacranti, comincia a diventare insostenibile. “Stasera smonto a mezzanotte poi torno a casa e domani mattina alle 8 sarò di nuovo in servizio”, mi dice sfiduciato un appuntato. D’altra parte ridurre a 4 mesi il tempo di formazione per i nuovi assunti, appare decisamente insufficiente per intraprendere un lavoro così delicato e complesso. C’è anche da dire che nelle carceri oggi è cambiata la tipologia di chi è detenuto. Le prigioni sono sempre di più contenitori di povertà e di disagio. Accanto ai criminali incalliti ci sono tanti marginali. Mi colpisce sempre incontrare dei senza fissa dimora, come quell’anziano di 80 anni, incontinente senza un occhio che ha perso quando era bambino perché fu morsicato da un animale, che appare confuso e non sa neanche perché si trova in carcere. Che fare allora? Il ricorso a misure alternative è la cosa più auspicabile. Non solo per alleggerire la pressione all’interno delle carceri, ma anche per abbattere la recidiva. Sappiamo che passare all’improvviso dal carcere alla vita pone ostacoli e difficoltà che invece potrebbero essere superati da un graduale inserimento nella vita di tutti i giorni. La possibilità di riallacciare relazioni, di cercare un lavoro, insomma di ricostruire la propria vita. Del resto, la paura di uscire senza prospettive resta una delle cause per cui ci si toglie la vita dietro le sbarre. Bisogna allora ricordare che la Costituzione parla di pene al plurale, che la galera non è l’unico modo per scontare una condanna. E che umanizzare le carceri può solo far bene a chi vi è recluso e a chi ci lavora. Carcere e suicidi, stiamo tornado al diritto delle caverne di Giuseppe Milli* lecceprima.it, 10 luglio 2024 L’argomento è di quelli purtroppo che ad un essere umano dovrebbe far accapponare la pelle e, disgustato, balzare su dalla sedia e reagire in qualche modo. Chi vi scrive è un avvocato che, soprattutto nei primi dieci anni di attività professionale, si è occupato dei “problemi” (nei processi) ma anche dei diritti dei detenuti (durante la cosiddetta attività carceraria consistita in interrogatori e colloqui). Non posso non ricordare un episodio (senza citare alcun nome per rispetto della famiglia) che ha caratterizzato in negativo l’incipit della carriera di un giovane avvocato, rappresentando in buona sostanza un vero trauma mai dimenticato. Faccio riferimento a un detenuto presso la Casa Circondariale di Lecce in stato di custodia cautelare per reati legati all’immigrazione irregolare di clandestini che il 19 settembre 1998 morì di infarto in una cella nonostante avesse richiesto invano 17 volte di essere visitato da un cardiologo. Pur non assimilabile ad un suicidio questo episodio segnò tanto la mia coscienza di avvocato in quanto non mi davo pace alla ricerca di una mia omissione o errore giovanile; tale lacerante dubbio poi fu destinato a svanire allorché, oltremodo favorito dal fatto di esercitare la professione presso lo studio del mai troppo compianto mio maestro, senatore e avvocato Antonio Lisi, ebbi la possibilità di stimolare un’indagine parlamentare unitamente al senatore Antonino Monteleone durante una visita a sorpresa presso l’istituto di pena salentino. Orbene, quanto i due parlamentari ebbero ad accertare (mancava ogni elementare mezzo di soccorso sanitario) suscitò scalpore nell’opinione pubblica ma non fu decisivo affinché la magistratura inquirente, sollecitata da un mio esposto denuncia, evitasse di richiedere ed ottenere un provvedimento di archiviazione. Sto parlando di tempi lontani, ma, purtroppo, le condizioni di vivibilità all’interno del carcere in Italia, se non peggiorate, sono comunque rimaste immutate: dalla carenza di personale penitenziario (altre vittime al pari dei detenuti), alle pessime condizioni igienico-sanitarie, sovraffollamento nelle celle, all’utilizzo promiscuo dei servizi igienici in cella, dalla presenza di letti a castello che sfiorano il tetto all’assenza di sistemi di refrigerio durante la canicola estiva (si fa riferimento anche ad un modesto mini ventilatore), all’uso delle docce razionato come si fosse in guerra, etc. Ovviamente, allora come ora si odono le stesse parole e gli stessi argomenti: la responsabilità più evidente è in capo ai governi che hanno legiferato in materia (di qualsiasi colore e natura) prevedendo solo e soltanto il carcere non come extrema ratio in caso di misura custodiale, ma come ordinaria abitudine a imprimere una punizione preventiva. A questi vanno segnalate le condotte della Magistratura Inquirente che richiede la misura della custodia cautelare molto spesso in carcere laddove si potrebbe utilizzare quella meno afflittiva degli arresti domiciliari con uso coatto del braccialetto elettronico (comunque capace di garantire il rispetto delle esigenze di cautela: in caso pericolo attuale di reiterazione delle medesima condotta criminosa, inquinamento delle prove o pericolo di fuga), ma anche quella Giudicante (Gup) o più specificatamente quella del Tribunale di Sorveglianza che si occupa della fase esecutiva della pena (e quindi della possibilità di gradarla sostituendo la detenzione in carcere con altre misure pur consentite per reati di non grave allarme e pericolo sociale). Se si analizzano gli ultimi pacchetti-legge emanati dagli ultimi governi ci si potrà rendere conto di come si siano moltiplicate le ipotesi di reato costruite ed ideate dal Legislatore che prevedono, anche per reati bagatellari, il carcere quale massimo sistema punitivo che possa soddisfare l’indifferente opinione pubblica italiana. È di pochi giorni fa, come accaduto in tante parti d’Italia, un interessante incontro con la cittadinanza, con la finalità di sollecitare l’interesse delle persone, organizzato e promosso dalla Camera Penale di Lecce. Ero presente e quando ho preso la parola sono stato applaudito da sole due persone che, passando da Piazza Mazzini, si sono incuriosite ad ascoltare noi avvocati, al contrario di tutti gli altri che per ore nell’indifferenza più assoluta sciamavano nel passeggio o nello shopping nel cuore commerciale di Lecce. E le prospettive che si intravedono sono ancora più negative del passato: carcere per tutti, per chi protesta con il proprio corpo, per chi disobbedisce alle leggi o viola il foglio di via, per le donne detenute in stato di gravidanza o con un bimbo molto piccolo, per chi protesta con manifestazioni non violente di resistenza passiva, per gli occupanti abusivi di case. Lo sbandierato processo di umanizzazione carceraria del governo attuale deve fare i conti con un dato terribile: oltre quindicimila esuberi in carcere di detenuti e oltre 50 (53 fino a giorni fa) suicidi di detenuti, ovviamente non certo colletti bianchi, che ci stanno facendo tornare al diritto delle caverne. Piuttosto che propagandare le strutture di accoglienza fuori nazione sarebbe davvero il caso di mettere la mano, che sarebbe benedetta da Dio, per scrivere una semplice legge: “Si fa divieto di porre in carcere, sia in fase custodiale che esecutiva, un soggetto se non è assicurata lui la permanenza in cella in un numero massimo di due persone (oggi sono anche quattro…); in attesa dello sblocco di tale “numero chiuso” il soggetto sarà posto in stato di detenzione domiciliare con uso del braccialetto elettronico e costante controllo quotidiano delle Forze dell’Ordine a ciò deputate”. *Avvocato penalista del Foro di Lecce Il decreto “Carcere sicuro” può generare ulteriori rallentamenti per l’ottenimento della liberazione anticipata di Ines Casciaro* Il Dubbio, 10 luglio 2024 Il D.L. 92/2024, che vara misure urgenti in materia penitenziaria, raggiunge certamente lo scopo di sgravare le procure da una serie di adempimenti, ma dubito possa velocizzare l’ottenimento del beneficio della liberazione anticipata da parte dei condannati. La procedura ipotizzata creerà, piuttosto, rallentamenti e confusione, per la magistratura di Sorveglianza la cui funzione viene, con questa impostazione, ad essere snaturata. Sembrerebbe eliminato l’obbligo per le procure (organo normalmente deputato, per legge, all’esecuzione della pena) di calcolare il nuovo “fine pena” ogni qualvolta sia concesso il beneficio. Sarà quindi più complesso verificare quando il condannato si trovi nelle condizioni di accedere ad una misura alternativa. L’unico Ufficio, infatti, in grado di rendere certo e chiaro, in ogni momento del percorso rieducativo, lo stato di esecuzione della pena è proprio la procura che ha emesso il titolo esecutivo, “riferimento unico” per qualunque Ufficio di Sorveglianza del territorio nazionale che decida su qualsiasi beneficio. Non è un caso che la legge, da sempre, preveda che il provvedimento, in qualunque territorio venga emesso, debba essere comunicato alla procura che ha emesso il titolo, che aggiorna lo stato di esecuzione. I condannati, infatti, soprattutto se detenuti, sono spesso trasferiti in vari Istituti di pena; le persone in misura alternativa, sovente, cambiano il proprio domicilio. Ebbene, ciò comporta che le decisioni possono competere a magistrati di Sorveglianza di territori diversi. Gli Uffici di Sorveglianza potrebbero generare involontariamente errori, oltre che rallentamenti nell’emissione del beneficio, con ulteriore aggravio di adempimenti. Immaginate la confusione? Si stanno affrontando analoghi insormontabili problemi per l’esecuzione delle sanzioni sostitutive, laddove le procure non ritengano di emettere lo stato di esecuzione. La posizione giuridica di un condannato è in continua evoluzione per il sopravvenire di eventi diversi: nuovi titoli, fungibilità, presofferti. Dubito che il nuovo procedimento, così come pubblicato, possa avere effetto deflattivo. In verità, la liberazione anticipata è un beneficio, “impropriamente” inserito nel capo VI dell’Ordinamento penitenziario, che disciplina le misure alternative alla detenzione. Impropriamente, perché non consente una modalità alternativa di espiazione della pena, ma prevede una riduzione di pena, attualmente di 45 giorni, per ciascun semestre di pena espiata, a chi abbia dato prova di partecipazione all’opera rieducativa. La detrazione di pena si applica anche a chi espia la pena in regime alternativo al carcere. Lo scopo della norma, dunque, è quello di incentivare la “buona condotta” dei condannati, che possono beneficiare di uno sconto di pena grazie al loro atteggiamento collaborativo. Un reale effetto deflattivo deriverebbe da una riforma dell’art 54 dell’ordinamento penitenziario che escludesse ogni valutazione discrezionale sulla riduzione di pena. Invece di essere agganciato ad una valutazione sulla “partecipazione all’opera rieducativa” potrebbe, ad esempio, essere legato “all’assenza di contestazioni disciplinari o di diffide”, in ipotesi di espiazione in misura alternativa, ed essere decurtato automaticamente, implementando il sistema informatico in dotazione alle procure, prevedendo una semplice impugnabilità innanzi al magistrato di Sorveglianza di eventuali dinieghi o un decreto di approvazione. Nulla di incompatibile con l’articolo 27 della Costituzione. Questo non lederebbe alcun diritto del detenuto e gli consentirebbe di fruire della detrazione in tempo reale. Occorrerebbe soltanto un sistema informatico implementato da tutti gli attori della vicenda dell’espiazione. Si teme che, così facendo, si possa attribuire troppo potere alle Direzioni degli Istituti di pena, organi amministrativi e non giurisdizionali, dimenticando però che ogni contestazione disciplinare e applicazione di sanzione può essere oggetto di reclamo innanzi al magistrato di Sorveglianza. In altri termini, la “cura svuota carceri”, se adottata, non deve essere peggiore del male! Deve “impattare” nel modo più accettabile possibile sul sistema. I magistrati di Sorveglianza, negli ultimi anni sommersi da competenze aggiuntive, decidono migliaia di procedimenti ad armi spuntate, in condizioni non paritarie rispetto agli altri uffici giudicanti di merito, ovvero senza che siano stati assunti gli addetti all’Ufficio per il processo, previsti per le Sorveglianze dal decreto 151/ 2022. Per gli altri Uffici giudicanti gli addetti all’Upp sono stati assunti con i fondi del Pnrr (previste assunzioni per più di 16.700 unità), quindi Tribunali e Corti di Appello emettono più sentenze, ingolfando gli Uffici di Sorveglianza che dovrebbero decidere, spesso con la massima urgenza, “come” la pena deve essere espiata, vigilando anche sui diritti dei detenuti, e cercando di contribuire a contenere il pericolo suicidio. *Giudice di sorveglianza del Tribunale di Lecce Questa è “l’umanizzazione delle carceri” secondo il governo Meloni? di Sergio Segio Il Manifesto, 10 luglio 2024 Il decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale” n. 155, reca “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia”. Sintetizzato dai giornalisti in “Decreto Nordio” è, al solito, mistificato negli effetti e nel significato: “Via libera in cdm al decreto “svuota carceri”. Nordio: “Intervento di umanizzazione carceraria”, titola, ad esempio, l’editoriale del Domani. Per le carceri vi sarebbe davvero necessità di ridimensionare presenze e ingressi, di mitigarne le condizioni e di riformarne in profondità le strutture. Ma non è certo questo l’intento del decreto e la volontà del governo. Il quale, anzi, sta adoperandosi a una strategia repressiva a vasto raggio a base di anni di carcere per attivisti ambientali, occupanti di case, lavoratori che blocchino la produzione, studenti che occupino o cittadini che effettuino blocchi stradali, oltre che, come sempre, giovani che consumino innocui spinelli. Strategia che non mancherà di intasare maggiormente le celle, rendendole vieppiù invivibili. Già ora, in effetti, un numero crescente di detenuti sceglie di non viverci del tutto, preferendo il suicidio al tormento quotidiano in una detenzione senza speranza, ormai avvitata in dinamiche di microconflittualità perenne e di violenza crescente. Sembra questo, in realtà, l’obiettivo delle scelte politiche e legislative in corso: buttare benzina sul fuoco sino all’esplosione, onde poter ancor meglio e con maggiore consenso militarizzare le carceri e seppellirne i residenti. Avendo già provveduto nei mesi scorsi, col DDL sicurezza, a prevedere pesanti pene non solo per rivolte o violenze in carcere ma persino per la “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. In un Paese che vede ogni giorno superato il record di autolesionismo e detenuti suicidi, che nel marzo 2020 aveva visto una strage “sudamericana” con 13 detenuti morti senza che ciò inducesse una riflessione e una svolta, il governo non ha neppure accolto il pannicello caldo della proposta Giachetti di ampliamento della liberazione anticipata per buona condotta. Nel decreto in questione si è limitato a una sistematizzazione della misura attuale, giocando sull’improbabile effetto psicologico: la pena decurtata sarà indicata già nell’ordine di esecuzione, salvo revoca o mancata concessione nel caso “il condannato non partecipi all’opera di rieducazione”. In definitiva, l’unica reale miglioria consiste nella possibilità di deroga (già prevista durante la pandemia) al numero massimo di colloqui e telefonate; mentre la sola misura potenzialmente in grado di incidere sul sovraffollamento - ma non immediatamente operativa - è l’istituzione di un elenco di strutture residenziali accreditate “idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale”. Un altro discutibile contributo a ipotesi di esternalizzazione della pena reclusiva. Infine, per i sottoposti al 41bis viene escluso l’accesso a programmi di giustizia riparativa. Il che, oltre a una logica vendicativa e fuori tempo che vuole questi detenuti murati vivi, implicitamente e indirettamente indica che quella particolare forma di giustizia introdotta dalla riforma Cartabia si configura come una misura non dissimile da altri meccanismi premiali che, a fronte di un “pentimento”, consentono riduzioni di pena. Con la più insidiosa differenza che in questo caso il reo (o anche solo l’imputato!) dovrà guadagnarsi la possibilità di benefici non già facendo arrestare o condannare altre persone, bensì accettando di essere inserito in un percorso di incontro con le vittime del reato. Ovvero, attraverso l’adesione a una concezione della pena privatistica e da Stato etico. La direzione di marcia è, insomma, reprimere e drammatizzare. Altro che umanizzazione. Nelle carceri minorili sovraffollate è più difficile vedere un futuro di Vanna Iori vita.it, 10 luglio 2024 Per la prima volta anche le carceri minorili sono sovraffollate. Puntare solo sulla risposta punitiva però è controproducente: c’è bisogno di comunità educanti che dialoghino con gli Ipm e che accompagnino le fragilità dei ragazzi. La sfida? Evitare di ripetere contesti è impossibile guardare con fiducia al futuro. Lo scorso 20 giugno l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, ha presentato a Montecitorio la Relazione annuale al Parlamento. I reati a carico dei 14-17enni sono calati in un anno del 4,15%, tuttavia oggi anche il sistema carcerario minorile, oltre a quello per gli adulti, è in grande difficoltà. C’è un dato, tra le statistiche pubblicate dal Ministero della Giustizia, che certifica questa emergenza: sono 516 i ragazzi reclusi negli istituti penali per minorenni (Ipm) al 31 gennaio 2024. Si tratta del numero più alto mai registrato dal 2006, da quando vengono diffuse le statistiche sulla giustizia minorile. Un anno fa i minorenni e i giovani adulti (18-24 anni) reclusi negli Ipm erano 385, circa un terzo in meno. Questo sovraccarico rischia di compromettere l’efficacia dei percorsi di rieducazione e recupero indispensabili per restituire i ragazzi al loro futuro una volta terminata la detenzione. Il disagio giovanile è un fenomeno difficile e complesso che non si può affrontare soltanto in un quadro repressivo e sanzionatorio senza intervenire sulle cause, sulla prevenzione e mettere in campo azioni efficaci. In primo luogo occorre conoscere i vissuti dei ragazzi, agendo nella prospettiva della costruzione di una prospettiva preventiva ed educativa che eviti un possibile effetto della carcerazione come sorta di avvio alla carriera criminale ai condannati. Il monito è quello di recuperare i ragazzi alla società: in linea, del resto, con la specificità positiva e all’avanguardia del sistema della giustizia penale minorile nel nostro paese, che lo rende un modello per l’intera Europa. Questo significa avere gli strumenti e la capacità di non fondare la risposta sulla sola dimensione carceraria, articolandola invece sul rafforzamento di un approccio educativo presente nel Codice di procedura penale minorile. Investire sulla giustizia riparativa - Parliamo nella maggior parte di ragazzi che hanno abbandonato la scuola e vengono reclutati dalla criminalità, avviati allo spaccio, adolescenti che vivono in contesti degradati con famiglie fragili, povere e incapaci di sostenere ed educare i propri figli. Non è quindi solo sanzionando o ricorrendo a misure esclusivamente repressive e punitive che si potranno ricostruire i loro vissuti: se non si porta il lavoro educativo dentro le istituzioni penitenziarie per un recupero valoriale socio-educativo, quando usciranno dal carcere saranno ancora più aggressivi. Per citare il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei: “occorre investire sulle carceri minorili, aiutare il reinserimento dei minori che lasciano gli istituti di pena, lavorando sulla giustizia riparativa, garantendo i mezzi e la continuità perché possa svolgere il suo ruolo”. Come? Con soluzioni improntate a un modello educativo ma anche alla costruzione di un sistema preventivo fondato su reti territoriali e sulla comunità educante, soprattutto, laddove le istituzioni fanno più fatica a sostenere i bisogni, dove la povertà è più feroce e le politiche sociali spesso completamente assenti. Giustizia minorile chiama comunità educante - La punizione è un aspetto necessario e non va certo trascurata, ma senza una responsabilizzazione collettiva non basta. Abbiamo bisogno di insegnanti, educatori, assistenti sociali, operatori della cultura. E questo bisogno di costruire una comunità educante è dentro e fuori le carceri minorili. Per questo occorre offrire opportunità e fornire strumenti e servizi, accompagnandoli con l’educazione alla progettualità, alla costruzione di progetti di vita, di avviamento e orientamento al lavoro. Una comunità che accompagni le fragilità e dia risposte ai bisogni. Il nostro compito è riempire il vuoto in cui spesso hanno vissuto questi ragazzi che ha determinato le premesse affinché si riproducessero contesti in cui mancano le condizioni minime per guardare con fiducia al futuro. Dobbiamo dire a quei ragazzi che il loro destino non è già segnato in modo inesorabile. E questo è il compito più difficile ma indispensabile: prevenire e aver cura. Dare opportunità concrete con la formazione, i servizi educativi, sociali, culturali che ridiano ai ragazzi dignità esistenziale e progettuale. Affettività in carcere, quella sentenza della Corte ignorata di Ilaria Dioguardi vita.it, 10 luglio 2024 Il Governo ha bloccato la sperimentazione al carcere Due Palazzi di Padova degli spazi per l’affettività in carcere, sostiene che la costruzione non sia di competenza delle associazioni ma del Dap. Ornella Favero: “Temo che l’istituzione di un tavolo tecnico per la realizzazione della sentenza sia un modo per rimandare la sua attuazione”. Il Due Palazzi di Padova è la sede della redazione di Ristretti Orizzonti, storica rivista legata all’associazione “Granello di Senape” che da anni si occupa di diritti delle persone in carcere e a cui lavorano anche le stesse persone detenute. È in questo carcere che è stata bloccata la sperimentazione degli spazi per l’affettività, sarebbero stati i primi in Italia. Il motivo? Il governo considera che non siano di competenza delle associazioni ma del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap. Contatto telefonicamente Ornella Favero, presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice di Ristretti orizzonti, per saperne di più. Favero, cosa può dirci riguardo all’attuazione della sentenza della Corte sull’affettività in carcere, ora che la sperimentazione al Due Carceri di Padova è stata bloccata... Abbiamo fatto una riunione stamattina su come andare avanti. È stato istituito un tavolo tecnico per la realizzazione della sentenza della Corte costituzionale (n.10 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non permette di avere colloqui “con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”, ndr). Abbiamo chiesto più volte di avere notizie sullo stato dei lavori, ma non ci è stato detto nulla. Sappiamo che, dopo un incontro collettivo, sono stati creati dei sottogruppi di lavoro, che uno di questi si occupa dell’edilizia penitenziaria, ma per il resto non sappiamo nulla, né i termini né i tempi. Temo che sia un modo per rimandare l’attuazione della sentenza. Cosa chiedete? Chiediamo di partecipare al tavolo tecnico come Terzo settore. Ci sembra che ne abbiamo tutto il diritto. E avevamo chiesto che i lavori, la composizione del tavolo fossero pubblici: non capiamo cosa voglia dire questa specie di segretezza. La prossima settimana ho un appuntamento con il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, a cui chiederò di accelerare i lavori sull’attuazione della sentenza e di dare un segno. Non tutte le carceri sono in grado rapidamente di fare una sperimentazione, anche perché gli spazi per l’affettività in carcere riguardano principalmente Case di reclusione in cui ci sono detenuti con pene medio-lunghe. In che modo siete andati avanti, al Due Palazzi di Padova, con il progetto per la costruzione di spazi che permettano alle persone detenute di esercitare il loro diritto all’affettività e alla sessualità? Stamattina abbiamo deciso di mandare una lettera, nelle carceri, per invitare i detenuti a chiedere di fare questi colloqui intimi. Solo così si può innescare un meccanismo virtuoso per cui un detenuto fa richiesta di poter effettuare un colloquio intimo, secondo la sentenza. A questa richiesta il direttore non risponde oppure risponde dicendo che non ci sono strutture idonee. A quel punto, si fa reclamo ai magistrati di sorveglianza, che sono favorevoli a questi colloqui: si parla del rispetto di una sentenza della Corte costituzionale. È un meccanismo virtuoso, ma che non ha tempi rapidi. Speriamo che serva a costringere a creare questi spazi rapidamente. Si potrebbero creare spazi per colloqui intimi, in tempi rapidi? Se si volesse, basterebbe mettere una struttura prefabbricata nelle molte carceri in cui è possibile. Si potrebbe fare rapidamente. L’architetto Cesare Burdese si era reso disponibile a regalare al carcere un progetto per la costruzione degli spazi? Sì, e abbiamo chiesto di intervistare l’architetto Burdese come redazione. La provveditrice solleciterà la nostra richiesta: stiamo ancora aspettando da due mesi l’autorizzazione del Dap. (Come ci aveva spiegato Ornella Favero in una recente intervista, due circolari introdotte lo scorso anno chiedono di comunicare le attività che vengono fatte nei vari istituti penitenziari perché il Dap vuole esserne a conoscenza, spesso questo le rallenta o le blocca, ndr). All’incontro che avrò a breve con il capo del Dap, come presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, uno dei temi che solleverò è anche quello di queste circolari, che considero assurde. Domani, nella Commissione Giustizia del Senato, parteciperò ad un’audizione sul Decreto Carceri (disegno di legge n. 1183, d.l. 92/2024 in materia penitenziaria e giustizia civile e penale, ndr). Può anticiparci cosa dirà domani all’audizione sul Decreto “Carcere sicuro”? Dirò che l’unica forma di prevenzione dei suicidi è il potenziamento dell’affettività: le telefonate e le stanze degli affetti. Il carcere non rieduca, ma annulla le persone di Massimo Lensi Left, 10 luglio 2024 L’inutile decreto “Carcere sicuro” del governo. Dopo il suicidio del ventenne Fedi Ben Sassi - che aveva presentato reclamo per le condizioni in cui si trovava, senza ricevere risposte - non si può accettare “il ritorno alla normalità dell’emergenza carceraria permanente”, dice il presidente di Progetto Firenze che sottolinea il fatto che ora si prevedono mille agenti in più ma non educatori, psichiatri o mediatori. Il 4 luglio, Fedi Ben Sassi si è suicidato nel carcere fiorentino di Sollicciano. Aveva vent’anni e arrivava dalla Tunisia. È il cinquantaquattresimo recluso che decide di togliersi la vita negli istituti penitenziari italiani nel 2024. Sappiamo della sua breve vita solo che è trascorsa nella marginalità urbana. Per mille motivi di varia natura, non sono così disinibito da mettere un suicidio in carcere in relazione causale con i grandi problemi legati alle condizioni di vita negli istituti penitenziari italiani. Nel formarsi della decisione di suicidarsi c’è tutto, anche il degrado carcerario, certo, ma c’è anzitutto un mistero, che obbliga al silenzio e al rispetto. Un dovere assoluto della coscienza. L’indifferenza generale ai drammi della carcerazione si nutre della visibilità che un suicidio offre al dibattito politico. Quei drammi e quei problemi che scorrono quotidianamente invisibili, si scoprono soltanto quando qualcuno decide di farla finita. Qualche giorno di normale indignazione e tutto rientra nei ranghi, l’indifferenza riprende il suo cammino. Sollicciano è piegato dai suoi due principali problemi da tantissimi anni: il sovraffollamento e le condizioni strutturali fatiscenti. Un mix ad alta tensione distruttiva. Qualche anno fa, in un torrido agosto, l’allora sindaco di Firenze, Dario Nardella, visitò il carcere di Sollicciano. In contemporanea, c’ero anch’io con un’ampia delegazione che organizzammo con l’associazione Progetto Firenze, rimanendo fino al tardo pomeriggio. Nardella, invece, uscì dopo poco. Non eravamo insieme e non c’incontrammo. Una volta fuori si disse “sconvolto” e tirò fuori dal cappello la proposta “demolizione & ricostruzione”. Noi, invece, cercammo di far capire le urgenze, quelle che dovevano e potevano essere affrontate hic et nunc, subito, senza applicare la clausola del tempo infinito. Tale, infatti, era il sottointeso palese della proposta di Nardella. Una sorta di appello agli Dei per far retrocedere il caos e far coincidere il giusto per legge con il giusto per natura. Aristotele argomentava di giustizia commutativa, quella cieca con la bilancia per capirsi, contrapposta ad altri modelli: distributiva, compensativa, correttiva. Dopo il suicidio di Fedi Ben Sassi, molti sono tornati alla carica chiedendo di demolire e ricostruire Sollicciano, anche lo stesso Nardella, ora parlamentare europeo. E ancora viene da chiedersi a quale sorta di giustizia si stia facendo riferimento con codeste invocazioni. Si è appreso poi che il sottosegretario Delmastro ha annunciato il trasferimento di ottanta detenuti di Sollicciano in altri istituti. Guarda caso ottanta è proprio il numero dei reclusi che il giorno successivo al suicidio di Fedi, avevano protestato. Ancora il Decreto sicurezza non è in vigore, ma se lo fosse gli ottanta rischierebbero grosso. Il nuovo reato di rivolta in carcere parla chiaro: anche la sola resistenza passiva è punita da due a otto anni. Perfino protestare pacificamente in carcere diventa un reato. Carcere che chiama carcere. Giustizia correttiva? Si parla sui giornali anche dei lavori infiniti e dei fondi per la ristrutturazione del carcere fiorentino - che, chissà perché, non sarebbero andati a buon fine - e di tante altre questioni aperte che fanno di Sollicciano un fenomenale cantiere di visibilità mediatica, dove si dice tutto e il contrario di tutto, poiché è così che funziona. Il suicidio di Sollicciano ha dunque provocato l’usuale nubifragio di parole buone, sdegnate e sensate. Si è tornati, come il solito, al rito dell’attesa di cambiamenti, ritenuti essenziali ma che mai arriveranno a compimento. Dopo qualche giorno l’emergenza comunicativa termina sempre. L’elaborazione del lutto civico collettivo è sostituita dal ritorno alla normalità dell’emergenza carceraria permanente. Il problema, invece, è l’aristotelica giustizia commutativa, che si è persa, cieca com’è, nei rivoli della repressione e della rieducazione. Se tornassimo a discutere insieme di quest’aspetto, forse la soluzione si troverebbe. Anche se la strada è tutta in salita. La notizia più interessante l’ho letta in un articolo di David Allegranti su La Nazione. Vi si dice che Emilio Santoro, dell’associazione Altro Diritto, ha ricordato che Fedi Ben Sassi aveva presentato un reclamo senza ottenere alcuna risposta. Riferisce Santoro: “Il giovane detenuto aveva provato a chiedere alla magistratura di sorveglianza di ordinare all’amministrazione penitenziaria il ripristino delle minime condizioni accettabili di vita all’interno del carcere”. “Se c’è il rischio che una persona indiziata commetta un reato il magistrato si deve muovere entro 48 ore, se un detenuto dice sono in condizioni inumane si può prendere 4 mesi”. Il presidente di Altro Diritto conclude: “Vorrei che la gente provasse a mettersi nei loro panni prima di giudicare la reazione. Se vengono chiamati i pompieri per un pericolo e i pompieri non vengono, e poi vedo il mio vicino morire, avrò diritto di arrabbiarmi?”. Quello descritto da Santoro è l’aspetto più grave della crisi del diritto penitenziario, perché la procedura dei reclami e dei ricorsi è l’unica via per dare un senso compiuto all’esecuzione di pena e alla tutela dei diritti dei detenuti. La magistratura si chiama, appunto, di Sorveglianza. Sorveglia, o almeno dovrebbe. Ed è anche l’unica forma di compensazione alla rabbia che monta all’interno degli istituti. Scopro l’acqua calda, lo so. I diritti dei detenuti sono di natura affievolita, lo status detentivo modifica in peius le necessarie piene tutele dei loro diritti e la Costituzione non riesce a superare i cancelli di un carcere. Ma è questo il punto su cui battere, la via giurisdizionale: interna, amministrativa ed esterna penale. Altro onestamente non vedo se non il solito, inutile, nubifragio di parole e di buone intenzioni. I pompieri, però, nel caso del suicida di Sollicciano, non sono arrivati. L’inutile decreto “Carcere sicuro” del governo, che nel frattempo ha iniziato il suo iter, non ce la farà a “umanizzare” la carcerazione, che è disumana in sé: un principio teleologico. L’aspetto positivo del decreto è che finalmente pare sia stata abbandonata l’idea bislacca di costruire nuove carceri o utilizzare a scopo detentivo vecchie caserme dismesse. I principi ispiratori del decreto sono la detenzione alternativa ma sicura in luoghi di comunità a predeterminate condizioni, la velocizzazione delle procedure per la liberazione anticipata ordinaria (quella che prevede lo sconto di pena di 45 giorni per ogni sei mesi di detenzione in regime di buona condotta) e l’estradizione attiva dei reclusi stranieri. Nel decreto poi c’è anche, a mo’ di ciliegina sulla torta, l’assunzione di mille agenti di Polpen, che è certo necessaria, ma non c’è proprio nulla sul fronte degli operatori sociali e sanitari - educatori, mediatori, psichiatri, eccetera. Queste descritte sopra sono le principali misure ipotizzate dal governo per risolvere il sovraffollamento carcerario. Potrebbero essere più che sufficienti per allontanare lo spettro di una nuova sentenza pilota della Corte Edu sulle politiche carcerarie italiane oberate dal sovraffollamento cronico, ma non a risolvere i problemi che affliggono i nostri istituti di pena. Tentare altre vie ora è pressoché inutile, l’unica agibile è testimoniare la lontananza politica dall’impianto del decreto. Il problema principale è il tempo. Il decreto non risolve il più importante problema del nostro sistema carcerario: il sovraffollamento cronico. Lo potrebbe soltanto addomesticare se si realizzassero le condizioni descritte, ma per sperare che ciò avvenga ci vuole anzitutto una buona dose di fede nell’utopia carceraria. L’altra faccia della luna, infatti, si palesa con la concretezza di una produzione industriale di nuove fattispecie di reato e con l’innalzamento delle pene per molti di quelle esistenti. Il carcere giacché tale non è “illegale”, non viola la Costituzione. Il carcere non ha personalità giuridica. Dire che il carcere è illegale perché non rispetta la dignità e i diritti fondamentali dei detenuti è una figura retorica. Sono i responsabili istituzionali, le persone fisiche, eventualmente a non rispettare le leggi dell’ordinamento. In questo caso però, diventa sempre più difficile anche ipotizzare una via giurisdizionale di resistenza. Il Decreto carcere sicuro è strutturato in maniera tale da resistere a qualsiasi attacco. Il populismo penale si è nel frattempo perfezionato. Si deve prendere in esame, in conclusione, un altro e decisivo elemento. Il concetto di punizione è lo stesso per entrambi gli schieramenti: i populisti penali e i garantisti. La punizione retributiva e rieducativa, farcita di buona condotta e infantilizzazione del detenuto, è alla base dei ragionamenti teorici di entrambi. Gli schieramenti rappresentano due scuole di “Ventisettisti”, interpreti fedeli dell’articolo 27 della Costituzione, eredi delle grandi Scuole del diritto penale del nostro Paese: la Classica e la Positiva. Uscire da questa dialettica è una delle possibili vie da seguire. Il suicidio allora non è soltanto un mistero, perché nel tempo si è trasformato in emergenza permanente. Misteriosi, se mai, sono i ritardi politici nell’affrontare l’emergenza, che è emergenza da quando esiste il carcere, da quel “Bisogna aver visto” di Piero Calamandrei almeno. Ci vuole poco, infatti, a trasformare il suicidio in carcere in fenomeno di natura inevitabile, dimenticandosi che la vera emergenza è proprio il modello di esecuzione di pena in carcere. Un modello che non rieduca, non punisce, non riabilita, non ripara, non previene. Il carcere semplicemente oscura, allontana, opacizza, annulla, e trasforma una persona in rifiuto solido detentivo. Attenzione però: è quello che tutti, o quasi tutti, vogliono. Per questa ragione il silenzio e il rispetto per chi ha deciso di andare via disegnano un preciso obbligo morale, perché allo stesso tempo si ha un analogo e contrario dovere per chi in quegli istituti sopravvive tra mille difficoltà. L’anomalia è questa: c’è ancora qualcuno che ha deciso di sopravvivere. A questi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. E non solo dentro gli istituti, perché i problemi “dentro” nascono di solito “fuori” dal carcere. Forza Italia vuole aumentare la liberazione anticipata per fare uscire 10 mila detenuti. Scontro con Meloni di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2024 A Forza Italia non piace il Decreto Carceri approvato il 3 luglio scorso in Consiglio dei ministri: il partito di Antonio Tajani vuole modificarlo durante la discussione al Senato per garantire la liberazione anticipata di 10 mila detenuti da qui ai prossimi mesi, risolvendo in parte il problema del sovraffollamento carcerario. Il partito azzurro vuole farlo con pochi ma puntuali emendamenti per rendere più “incisivo” il decreto Carceri. Nello specifico la proposta principale sarà quella di accogliere - anche se in parte - la proposta del renziano Roberto Giachetti alla Camera: la detrazione della pena resterà di 45 giorni per ogni sei mesi scontati per tutti i condannati per reati ostativi (mafia, terrorismo, tratta di esseri umani…), e aumentarla a 60 per tutti gli altri tipi di reati, da quelli di microcriminalità a quelli contro la Pubblica Amministrazione. Questo per un periodo limitato fino al 2026. A questo si aggiungono altri due emendamenti: il primo prevedrà che per coloro che sono agli arresti domiciliari per motivi di salute di restarci e non tornare in carcere in caso di assenso del tribunale di Sorveglianza; l’altro, invece, specifica che sarà esclusa la pena detentiva in carcere per tutte le condanne sotto i 4 anni che non riguardino i reati ostativi (quindi ancora una volta mafia e terrorismo). Un blocco di proposte, studiate dal deputato di Forza Italia Tommaso Calderone, che porterebbe a regime la fuoriuscita dalle carceri di 10 mila detenuti, secondo la relazione tecnica. Una proposta che però rischia di aprire uno scontro all’interno della maggioranza di destra: Fratelli d’Italia, con la premier Giorgia Meloni e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, è contraria ad allentare le maglie di un decreto che è stato in gestazione per settimane. Prima delle elezioni europee Forza Italia aveva sostenuto la proposta di legge di Giachetti alla Camera sull’aumento da 45 a 60 giorni di detrazione di pena per tutti i detenuti ogni sei mesi scontati. Ma Fratelli d’Italia, che inizialmente aveva aperto a questa opzione, teme che si possa parlare di un nuovo “Svuota-carceri” e quindi alla fine ha fatto approvare un decreto light che prevede solamente la semplificazione delle procedure per uscire dagli istituti penitenziari. Non è un caso che il giorno prima dell’approvazione del decreto in Consiglio dei ministri - che, secondo fonti parlamentari, sarebbe stato richiesto direttamente dal Quirinale - il sottosegretario Delmastro sia andato a Palazzo Chigi per fare il punto con la premier Meloni e con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Il decreto approvato in Consiglio dei ministri ha deluso il mondo dell’avvocatura e le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti e dello stato delle carceri italiane. Gli attriti nella maggioranza rischiano di rallentare il decreto che invece il governo vuole convertire nel più breve tempo possibile, entro la pausa estiva dell’8 agosto. Per questo al Senato la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno ha iniziato uno sprint: ieri sono partite le audizioni per far arrivare in aula il decreto a fine mese. Forza Italia si è distinta anche sul disegno di legge Sicurezza in discussione alla Camera: gli azzurri non hanno partecipato al voto su una norma un articolo che rende, tra l’altro, facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli di meno di un anno. Proverà a reintrodurlo in aula. Approvato invece un emendamento della Lega che inasprisce le pene per i reati commessi sui treni e in metro. Le risposte securitarie dei governi non servono. Ora mobilitiamoci di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 10 luglio 2024 Si terrà domani pomeriggio a Piazza Santi Apostoli la manifestazione nazionale organizzata dall’Unione delle Camere Penali a conclusione della staffetta che ha visto i penalisti impegnati nelle strade e nelle piazze di tutta Italia in altrettante maratone oratorie di denuncia dello scandalo delle condizioni delle carceri italiane. Si tratta di una iniziativa che ha coinvolto l’intera società civile dimostrando l’esistenza di una diffusa sensibilità rispetto un tema che è sempre parso difficile da trattare. Ma il dramma che abbiamo denunciato ha assunto dimensioni così straordinariamente gravi da muovere la coscienza di ciascuno di noi. Non era mai stato registrato, infatti, sino a oggi, nel nostro Paese, un tasso di suicidi così elevato: 54 detenuti si sono infatti tolta la vita dall’inizio dell’anno, con una frequenza che è di venti volte maggiore a quella riscontrata nella vita libera, e con numeri di gran lunga superiori a quelli registrati negli altri paesi europei. Altrettanto drammatica la piaga del sovraffollamento che ha raggiunto una media del 140% con picchi superiori al 200%. Sotto gli occhi di tutti la condizione oggettiva di carceri fatiscenti, dai servizi minimi del tutto insufficienti, nelle quali la promiscuità imposta dal sovraffollamento diviene un supplizio additivo che trasforma la detenzione, di imputati in attesa di giudizio e di condannati, in un trattamento disumano, se non in una vera e propria inaccettabile forma di tortura. Ci si interroga tutti sul rapporto fra questi due terribili fenomeni, ma in assenza di risposte scientificamente certe, deve imporsi un principio di precauzione, ovvero l’adozione di misure immediate che possano eliminare le possibili cause dell’atroce proliferazione di tali atti disperati. Nel 2017, quando il fenomeno suicidario, non aveva neppure lontanamente raggiunto i limiti attuali, venne istituito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri un “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti” con il quale si poneva al centro la “rilevazione del rischio” e l’incremento della “comunicazione fra il personale tutto, coadiuvato dallo svolgimento di assidue riunioni di equipe, al fine di parlare regolarmente del detenuto che abbia dato segni di rischio”. Si tratta di intenti virtuosi rimasti tuttavia sulla carta e resi oggi certamente inattuabili a causa del sovraffollamento, che rende inattingibili le pur modeste risorse tuttora disponibili all’interno delle strutture che concernono l’assistenza psichiatrica, psicologica e sanitaria. Al di là della qualità e delle buone intenzioni del personale nessuna risorsa in simili condizioni di sofferenza generalizzata appare sufficiente a dare risposte concrete. Nessun Governo può dirsi esente da colpe, perché il rapporto fra la politica ed il carcere non è mai stato un rapporto facile. Troppo spesso l’esecuzione penale, è stata trattata dai nostri governanti come un materiale ostile e pericoloso. Il trattamento dei detenuti, l’idea stessa di una pena detentiva vendicativa e repressiva, è stata considerata un veicolo di consenso. Istintivo il riflesso punitivo e di rifiuto nei confronti di chi ha violato le regole della convivenza civile. Meno intuitivo considerare che un carcere migliore produce più sicurezza. Radicati in quel diverso sentimento di vendetta, il populismo ed il giustizialismo hanno fatto degli slogan della “certezza della pena”, del “gettare via le chiavi” e del “marcire in galera” un facile strumento di propaganda elettorale. E anche chi si era avviato a fare del miglioramento delle condizioni delle carceri e della riforma dell’esecuzione penale un proprio obbiettivo politico, ha ritenuto poi di rinunziarvi per timore di una perdita di consenso. Si tratta di un limite evidente che, oggi, deve essere tuttavia necessariamente superato, per ragioni etiche e civili assieme, perché vi sono valori fondamentali che riguardano la dignità e la vita delle persone e il diritto alla speranza di tutti i cittadini, che devono farci abbandonare le asfittiche prospettive del consenso immediato. La politica è tale se è capace di guardare al futuro, indicando un orizzonte valoriale aperto e condiviso. E tale deve essere l’impegno profuso da tutti nella salvaguardia della vita e della dignità di coloro che sono affidati alle cure dello Stato. Le risposte securitarie non servono. Di fronte ai mutamenti evidenti della popolazione carceraria, dell’incremento del disagio e della marginalità, occorre l’adozione di strategie nuove che si interroghino seriamente sul significato e l’efficienza e la razionalità del nostro sistema punitivo. Ma questo implica tempo ed impegno comune, mentre la tragedia si consuma sotto i nostri occhi. Il buon senso esige di prendere atto del dramma di troppe vite che questo sistema consuma, quelle dei detenuti suicidi (o morti per altre cause) ai quali si sommano i suicidi degli appartenenti alla polizia penitenziaria (sei dall’inizio dell’anno). Vi sono nel Paese professionalità e forze intellettuali pronte ad assumere l’impegno condiviso di una rifondazione del sistema, ma intanto l’incendio che sta distruggendo la fiducia stessa in un carcere possibile deve essere domato e spento e solo un intervento deflattivo forte ed immediato, che incida sulle detenzioni brevi, sui soggetti fragili, sui detenuti anziani può restituire un minimo di legalità e di dignità al nostro sistema. Se si ritiene ancora impronunciabile la parola amnistia, si converga intanto, ragionevolmente, sulle proposte di liberazione anticipata speciale che sono sul campo, si dimostri che alcuni valori fondamentali che stanno scritti nella costituzione e nella coscienza di ogni cittadino non possono restare in eterno ostaggio degli slogan, sia per chi si dice liberale sia per chi si dice progressista. *Presidente Ucpi Via libera al carcere per le donne incinte. Ma la sicurezza spacca la maggioranza di Francesco Grignetti La Stampa, 10 luglio 2024 I deputati di Forza Italia non partecipano al voto. Salvini rilancia la castrazione chimica. Inasprite le pene per l’impiego di minori nell’accattonaggio. Il carcere è sempre più un tema di bandiera per l’ala più a destra della maggioranza. E così ieri, sul carcere per le donne incinte o con neonati fino a 1 anno, in Parlamento si è consumata una rottura tra i partiti che appoggiano il governo: Forza Italia ha tenuto il punto e si è astenuta, a favore invece Lega e Fratelli d’Italia. Indignazione delle opposizioni. Ma questo sembra proprio l’obiettivo di Matteo Salvini: tornare interprete di un certo cattivismo nazionale e rubare la scena a Giorgia Meloni. Perciò il leader della Lega, un minuto dopo che si è votato nella commissione Giustizia della Camera (per il voto finale probabilmente si dovrà aspettare settembre, stante un ingorgo di decreti di qui alla pausa di agosto), esulta con tutto il fiato che ha: “Le donne incinte o con figli minori di un anno che si macchiano di reati che lo prevedono andranno in carcere. Una misura voluta dalla Lega contro quelle vigliacche borseggiatrici e ladre che, sfruttando lo stato di gravidanza, agiscono impunite e derubano cittadini, lavoratori e turisti, spesso cercando di colpire i più fragili e anziani. Basta!”. Toni volutamente sopra le righe che suscitano l’immediata risposta di Michela Di Biase, capogruppo Pd nella commissione bicamerale Infanzia: “Quando mandi in carcere un bambino chi è il vero vigliacco? Io ho un’idea chiara. Il problema, ministro Salvini, è che andranno in carcere anche i bambini. Ora io ho un’idea piuttosto chiara di chi sia il vigliacco e di chi continua ad incitare odio senza mai assumersi una responsabilità”. Oppure di Mara Carfagna, Azione: “Stupisce che un governo che esalta la maternità e il garantismo promuova una norma che consentirà alla magistratura di tenere in carcere donne incinte, anche al nono mese, o madri di figli con meno di un anno di età. Il tutto sfidando il rischio che queste donne partoriscano dietro le sbarre e che ai loro bambini venga negata l’immediata assistenza neonatale. I bambini in ogni caso non hanno colpe”. È dal 1933, con il codice Rocco, non propriamente un democratico, che si prevede l’obbligo di “differire” l’esecuzione di una pena quando si tratti di donne incinte o con neonati. La logica è persino ovvia: un carcere, specie in stato di sovraffollamento come è ora, sporco e scomodo, non è luogo per ospitare una donna che sta per partorire, tantomeno una che ha appena partorito e deve allattare il suo neonato. Questo “obbligo”, ora, e con la firma del garantista Carlo Nordio, decade. Al suo posto c’è una “facoltà” concessa alla magistratura. Le donne incinte potranno finire in cella oppure no. Lo deciderà il giudice. Il quale, però, se non deciderà per la detenzione, si prenderà le accuse di lassismo alla prima borseggiatrice che verrà colta in flagranza di reato pur con il pancione. Forza Italia, come detto, aveva annunciato che questa forzatura non l’avrebbe votata e così è stato. In vista del passaggio in Aula, annuncia un paio di emendamenti per cercare soluzioni più miti, quantomeno per le donne con bambini di pochi mesi. E non è finita qui. Le Commissioni hanno votato anche l’articolo 13 del ddl Sicurezza che riguarda il reato di “impiego di minori nell’accattonaggio”: prevede l’innalzamento da 14 a 16 anni dell’età per la quale viene punito l’impiego di minori nell’accattonaggio; si innalza da tre a cinque anni la pena massima per questa condotta. “La deriva repressiva della destra a trazione Lega è sempre più pericolosa. Il ddl-monstre condanna i bimbi al carcere e inventa aggravanti assurde se i reati vengono commessi in metro. Dove è finito l’orgoglio garantista? Scatta solo per difendere gli amici inquisiti?”, polemizzano Devis Dori e Filiberto Zaratti, Avs. Restano ancora da votare tra gli altri emendamenti quello del governo che prevede una stretta sulla cannabis light e quello della Lega sulla castrazione chimica.Anche su questo, Salvini fa la voce grossa: “C’è un emendamento della Lega. Serve per pedofili e stupratori: è una pillola per bloccare gli impulsi di gente che è malata. Un pedofilo, uno stupratore seriale deve essere non solo messo in carcere ma anche curato, perché è un malato”. La destra (senza Fi): stop all’obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli neonati di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2024 Bocciati tutti gli emendamenti. Via libera dalle Commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia della Camera all’articolo 12 del ddl Sicurezza che rende, tra le altre cose, facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli sotto l’anno. Come già anticipato negli scorsi giorni, Forza Italia non ha partecipato al voto sugli emendamenti delle opposizioni che chiedevano di modificarlo: gli azzurri hanno però hanno annunciato che in Aula presenteranno un emendamento per mantenere l’obbligo. “Chiederemo all’Aula di mantenere l’obbligo di differimento della pena o l’obbligo di scontarla in un istituto protetto per la madri con figli tra 0 e 12 mesi per scongiurare che anche solo un bambino sia costretto a crescere dietro le sbarre per colpe della madre”, aveva dichiarato nelle precedenti sedute Paolo Emilio Russo di Forza Italia. Niente obbligo di differimento della pena. Se dovesse diventare legge, l’articolo 12 renderà solamente facoltativo il rinvio della pena. A esultare è il vicepremier e leader della Lega: “Le donne incinte o con figli minori di un anno che si macchiano di reati che lo prevedono andranno in carcere. Una misura voluta dalla Lega contro quelle vigliacche borseggiatrici e ladre che, sfruttando lo stato di gravidanza, agiscono impunite e derubano cittadini, lavoratori e turisti, spesso cercando di colpire i più fragili e anziani. Basta!”, ha scritto sui social Matteo Salvini. Critiche allo stop dell’obbligo di rinvio della pena i partiti di opposizione. “È sconcertante l’uso propagandistico che governo e maggioranza stanno facendo del codice penale con il ddl sicurezza. Un modo assurdo, caotico, ideologico e totalmente inutile di scrivere le leggi che piega il codice penale alla propaganda”, ha affermato il segretario di +Europa, Riccardo Magi. Sulla stessa linea Mara Carfagna, presidente di Azione: “Stupisce che un governo che esalta la maternità e il garantismo promuova una norma che consentirà alla magistratura di tenere in carcere donne incinte, anche al nono mese, o madri di figli con meno di un anno di età. Il tutto sfidando il rischio che queste donne partoriscano dietro le sbarre e che ai loro bambini venga negata l’immediata assistenza neonatale”, sottolinea l’ex ministra che aggiunge: “I bambini in ogni caso non hanno colpe, pensare che possano crescere in carcere solo perché la loro madre ha commesso un reato è una crudeltà inutile”. “Se davvero vogliono stroncare i racket del borseggio e del furto - continua Carfagna - ne colpiscano i capi, che di sicuro non sono le donne incinte o i loro neonati”. La Camera approva il ddl Nordio: è legge. Cancellato l’abuso di ufficio e nuova stretta sulle intercettazioni di Gabriella Cerami La Repubblica, 10 luglio 2024 È legge il disegno di legge Nordio che abolisce l’abuso di ufficio e rivede in parte la disciplina sulle intercettazioni, impedendo la trascrizione di quelle non rilevanti e vietando ai giornalisti di pubblicare quelle che non sono contenute negli atti dei giudici. Con 199 voti a favore e 102 contrari la Camera ha dato il via libera definitivo al testo. Ieri sono stati respinti tutti gli emendamenti e oggi le opposizioni sono andate in ordine sparso con Italia Viva e Azione che si sono espresse a favorevole votando con la maggioranza. “Noi dall’opposizione apprezziamo il lavoro del governo su questo disegno di legge e il lavoro svolto dal ministro Nordio”, dice Enrico Costa di Azione: “È un primo passo, sono passi limitati con tante deroghe che speriamo siano sfrondati” nel tempo, aggiunge Costa che rimarca “l’approccio” per contenuti “del gruppo sui provvedimenti del governo: su tanti ci siamo opposti, su questo voteremo convintamente a favore”. Anche Roberto Giachetti di Italia Viva pur non considerandola “una riforma epocale”, perché per noi è “il minimo sindacale” annuncia il voto a favore. “Avete abrogato l’abuso di ufficio, dovendo pagare comunque un dazio alla magistratura con l’inserimento nel decreto carceri di un contentino”, dice riferendosi all’inserimento del reato di peculato per distrazione. Dunque Iv attende “la riforma strutturale della giustizia che è quella che prevede la separazione delle carriere” e “rischia di non andare in porto” per una questione di tempi, “spero così non sia”. Alleanza verdi sinistra, Movimento 5 Stelle e Partito democratico, seppur con sfumature diverse, alzano la voce. A partire da Devis Dori che definisce il provvedimento “ddl Silvan”, perché si introduce una “limitazione alla pubblicabilità delle intercettazioni”, ovvero “un ulteriore bavaglio-bavaglietto al diritto di cronaca giudiziaria. Per quanto ci riguarda i reati contro la Pubblica amministrazione sono estremamente gravi e con questo disegno di legge c’è un vero arretramento rispetto alla tutela del cittadino davanti agli abusi della Pa”. Lo spiega bene anche il capogruppo M5s in commissione Giustizia Cafiero De Raho per il quale con il ddl Nordio, che modifica anche le norme sulle intercettazioni “si vuole impedire la conoscenza dei contenuti delle indagini. E la conoscenza è alla base della democrazia, che dovrebbe agevolare la diffusione delle conoscenze. Vogliono rendere più difficile le indagini sui colletti bianchi riducendo la pubblicazione e rendendo queste meno efficaci. Perché ci sono persone diverse dagli indagati che in quel momento possono apparire irrilevanti e questo non può essere selezionato dall’ufficiale di polizia giudiziaria di turno”. Inoltre, aggiunge l’esponente M5S, “l’abrogazione dell’ufficio è gravissima, è un reato spia sia per il sistema della corruzione sia per le infiltrazioni mafiose”. Risponde la Lega con Davide Bellomo: “Si perseguono i reati, non le persone”. Oggi in radio il ministro della Giustizia ha ripetuto: “È una premessa sbagliata” dire che l’abolizione dell’abuso d’ufficio “sia un colpo a lotta corruzione, chi lo dice sa benissimo che l’abuso d’ufficio non ha nulla a che vedere con la corruzione” che “riguarda soldi che vengono pagati”, afferma a Radio24. Il reato d’abuso d’ufficio “era così evanescente che poneva sotto indagine amministratori e sindaci per le questioni più svariate e su 5mila e passa processi instaurati ogni anno, che costavano la paralisi della Pa e la paura della firma ma anche la carriera politica e salute personale, non c’erano mai condanne. Abbiamo liberato 5mila e passa amministratori l’anno dalla paura della firma”. Invece, sulle intercettazioni e la loro pubblicazione “con questo provvedimento salviamo il terzo: se Tizio parla con Caio di Sempronio, almeno salviamo Sempronio che non ha niente a che fare con l’indagine - spiega ancora Nordio - Da noi l’articolo 15 della Costituzione che tutela la riservatezza delle comunicazioni è stato stracciato e alcuni magistrati hanno intercettato persone che non erano indagate: su questo l’Europa ha fatto una sentenza umiliante per noi e la magistratura”. Carlo Nordio e il coraggio di una vera riforma: verso una giustizia penale diretta e immediata di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 10 luglio 2024 Dopo l’approvazione nottetempo in commissione Giustizia, sono 170 i sì con i quali la Camera ha approvato l’art. 1 del ddl Nordio e, conseguentemente, abolito l’art. 323 del codice penale, rendendo definitiva l’azione più divisiva contenuta dal disegno di legge presentata dal Guardasigilli. Tra le principali contestazione mosse vi era chi sostiene come la cancellazione del reato fosse in contrasto con le norme europee sull’anticorruzione, le quali prevedono la permanenza di questo reato. Poco più di un anno fa la Commissione europea ha presentato un nuovo progetto di direttiva anticorruzione che prevede espressamente la conservazione di una fattispecie di reato per punire l’esecuzione o l’omissione di un atto, da parte di un funzionario pubblico, quando ne ha conseguentemente ottenuto un indebito vantaggio. Il ministro Nordio ha però annunciato, alla riunione dei ministri della Giustizia Ue, di aver trovato una mediazione, riconoscendo che l’Italia dispone di un ampio arsenale di strumenti in grado di contrastare in maniera efficace i reati contro la pubblica amministrazione. I più incalliti oppositori però non si arrendono e sostengono che trattandosi di un reato contro i cosiddetti “colletti bianchi” la sua abrogazione renderà, d’ora in avanti, leciti comportamenti il cui disvalore sociale è chiaro; secondo alcuni, si tratta di un delitto “spia”, le cui indagini spesso conducono a scoprire violazioni più gravi. Tesi, queste, sconfessate a più riprese dallo stesso Nordio. Il reato - nonostante abbia subito una riscrittura nel 2020, sotto la direzione del Governo Conte II, il quale già aveva asciugato in maniera significativa l’area della rilevanza penale - aveva una condotta mal definita, riducendosi il più delle volte a una valenza esclusivamente mediatica che, spesso, danneggiava esclusivamente gli amministratori, soprattutto quelli locali. Non vi sono parole più nitide, in questo senso, di quelle pronunciate appena due anni fa dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 8 del 2022, per la quale i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”); si è infatti ben messo in luce che “il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario a imboccare la via per sé più rassicurante”, con inevitabili “riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”. È ben inteso che alcun presidio di sicurezza viene sottratto ai cittadini con l’abrogazione del delitto succitato: per converso, godrebbero degli strumenti di cui al diritto amministrativo per sollevare potenziali storture degli atti dell’amministrazione, considerati illegittimi. Già in precedenza la ridotta sfera d’applicabilità dell’abuso d’ufficio portava la conseguente maggiore ampiezza dell’eccesso di potere, così come vizio dell’azione amministrativa. La necessità di intervenire in modo incisivo sul reato d’abuso d’ufficio era ampiamente sostenuta anche dai dati statistici raccolti dal ministero della Giustizia: nell’anno 2021, su 5.418 procedimenti definiti dall’ufficio gip/ gup, le archiviazioni sono state 4.613 (di cui 148 per prescrizione); quanto alle sentenze di condanna, ne sono state pronunciate 9, con 35 patteggiamenti, mentre sono stati 370 i decreti che hanno disposto il giudizio. All’esito del dibattimento, poi, su 513 procedimenti definiti le condanne sono state 18 (a fronte di 37 nel 2020 e di 54 nel 2019) e le assoluzioni 256. Numeri, questi, testimoni che la fattispecie dell’art. 323 era fallace ed inefficace ed è per queste ragioni che l’abrogazione trova la sua giustificazione nel riconoscimento dell’inutilità dell’attività investigativa svolta, alla luce degli esiti processuali avviati per questo reato. Allora quello che mancava era il coraggio di attuare una vera riforma, aderente alla filosofia di concepire la giustizia penale quale diretta ed immediata, nella consapevolezza che la lotta alla corruzione è già vigilata dal sistema multilivello varato con la L. 190/ 2012, voluta da altro ministro riformista e lungimirante quale è stata la prof. ssa Severino. Non resta che concludere in adesione alle parole del prof. T. Padovani, in un suo brillante lavoro del 2020 proprio sulla “Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio”, per il quale “in questa palude infetta, il rischio di essere contaminato da una denuncia incombe anche sul più scrupoloso ed onesto degli amministratori pubblici, proprio perché la sua attività si svolge in una dimensione precaria, labile, fumosa, dove ogni scelta, ogni decisione può essere contestata e censurata”. Solo la certezza del diritto può evitare “rinnovato Lamento di Federico, la solita storia del pastore…/ Il povero ragazzo voleva raccontarla/ E s’addormì”. *Avvocato, direttore Ispeg Quanto è pericolosa una magistratura che non accetta critiche di Giacinto della Cananea Il Foglio, 10 luglio 2024 La reazione della giunta distrettuale torinese dell’Associazione nazionale magistrati all’articolo di Ermes Antonucci sul Foglio del 6 luglio, in cui si segnalavano i risultati negativi conseguiti da un pubblico ministero, merita qualche riflessione nella prospettiva del costituzionalismo liberale. La reazione si è manifestata nella “condanna” dell’articolo per i toni e le espressioni che “di certo, superano il diritto di critica giudiziaria” e per aver erroneamente considerato i risultati da conseguire. Nessuno di questi rimproveri, però, regge a un’accurata disamina. Il rimprovero relativo ai risultati è confutato dalla storia e dall’assetto istituzionale. In sede storica, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino adottata a Parigi il 26 agosto 1789 l’enunciazione di vari diritti dell’individuo era completata, rafforzata da un principio istituzionale: “la società ha il diritto di chiedere conto della sua amministrazione a ogni pubblico funzionario”. Quel principio è alla base delle costituzioni delle democrazie liberali, come la nostra. Non dovrebbe, quindi, la libera stampa fornire dati e valutazioni alla società tutta, se i poteri del pubblico ministero sono esercitati con modalità invasive delle libertà personali, non avallate dalle corti? Non dovrebbe la società, attraverso le sue istituzioni, chiedere conto della sua azione (e inazione) a quel pubblico ministero? Non dovrebbero quelle istituzioni garantire che anche la magistratura agisca nel perimetro stabilito dalla Costituzione? In breve, la magistratura dev’essere non soltanto indipendente, ma anche accountable. La reazione della giunta distrettuale dell’Anm è discutibile anche per quanto riguarda il diritto di criticare i provvedimenti giurisdizionali. Come ha affermato la Dichiarazione del 1789, “la libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo”. La Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue ribadiscono questo diritto, lo circondano di garanzie. Lo ha ribadito l’avvocato generale presso la Corte di giustizia nella controversia riguardante l’entità del risarcimento imposto da un giudice spagnolo al quotidiano francese Le Monde e a uno dei suoi giornalisti. Per ottenere l’esecuzione alla sentenza di condanna, il giudice spagnolo si è rivolto al collega francese, ma quest’ultimo ha ritenuto eccessiva l’entità del risarcimento, per l’effetto dissuasivo rispetto agli organi di stampa. La questione è stata sottoposta alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale, e l’avvocato generale ha ritenuto legittimo il rifiuto di dare esecuzione alla sentenza del giudice spagnolo per la sua incidenza negativa sulla libertà di espressione. In attesa che la Corte di giustizia si pronunci, è stata pubblicata la nuova direttiva dell’UE sulla protezione delle persone attive nella partecipazione pubblica da procedimenti giudiziari manifestamente infondati o abusivi. Essa serve soprattutto a proteggere i giornalisti e gli organi di stampa dalle azioni legali di tipo strumentale, ma dovrebbe indurre a valutare con maggiore cautela le presunte violazioni del diritto di critica giudiziaria. Poiché fortunatamente la magistratura italiana esprime una varietà di posizioni, è auspicabile che prevalgano quelle più consapevoli del valore della libera stampa in una democrazia. Caso Lucano, definitiva l’assoluzione per associazione. Ma la procura fa ricorso per la truffa di Simona Musco Il Dubbio, 10 luglio 2024 In 33 pagine, la procura generale di Reggio Calabria prova a salvare il processo contro il sindaco di Riace in Cassazione, dichiarando utilizzabili le intercettazioni. Per i giudici d’appello non lo erano, ma in ogni caso non avrebbero dimostrato nulla. Le assoluzioni dalle accuse di associazione a delinquere, peculato e due falsi sono ormai definitive. Ma la procura generale di Reggio Calabria vuole comunque riaprire il processo a Domenico Lucano, sindaco di Riace e neo eurodeputato, chiedendo alla Cassazione di rivalutare le assoluzioni per truffa aggravata ai danni dello Stato, un abuso d’ufficio (reato ormai abolito) e un falso relativo ad 56 delibere. A firmare la richiesta l’avvocato generale Adriana Costabile e i sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari, che con sole 33 pagine cercano di smontare la corposa motivazione d’appello, che aveva di fatto demolito ogni accusa, capovolgendo la narrazione che aveva fatto a pezzi il modello d’accoglienza di “Mimmo il curdo”. La procura generale contesta, soprattutto, la ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni disposte con riferimento al reato di cui truffa aggravata, sin da subito contestata da decine di giuristi: per la Corte d’Appello, al momento genetico dell’intercettazione, non sarebbero stati presenti “i presupposti di legge per disporre il mezzo di ricerca della prova, sulla scorta di una riqualificazione del reato operata solo nel secondo grado di giudizio”. I giudici d’appello, però, scrivono i due magistrati, non avrebbero “considerato che proprio nel caso in esame la captazione correttamente autorizzata, per come ancor meglio si esporrà più oltre, è stata disposta sul presupposto della esistenza di gravi indizi del reato di cui all’art. 640 bis cp e, pertanto, rimane del tutto insensibile al fisiologico sviluppo del procedimento”. Una questione “cruciale” per i firmatari dell’impugnazione, dal momento che “le gravi irregolarità sulla rendicontazione, attinenti al complesso meccanismo della erogazione di contributi pubblici emerso nel corso delle indagini e su cui è stata resa ampia testimonianza in dibattimento trovano spiegazione logica circa le intenzioni truffaldine solo in esito alla valutazione del compendio probatorio derivante dai dialoghi intercettati, dai quali in modo inequivoco emerge il ruolo centrale nella vicenda del Lucano”. Per i due magistrati reggini, le intercettazioni, proverebbero l’intento di “far confluire anche acquisti e spese non pertinenti alle finalità istituzionali previste dalla legge tutti nella causale relativa al progetto di accoglienza e integrazione in favore dei rifugiati”. E i giudici d’appello, scrivono, si sarebbero limitati a “uno sterile e fuorviante richiamo di pronunce della Suprema Corte di Cassazione senza approfondirne il contenuto” in merito alle intercettazioni. L’argomento, però, fa a botte con un fatto non di poco conto: i giudici d’appello avevano sì contestato l’utilizzabilità di quel materiale, ma erano andati oltre, analizzando in maniera certosina l’assenza di riscontri all’ipotesi di reato. E chiarendo, in maniera specifica, per quali ragioni l’assoluzione fosse l’unica cosa giusta. Il Tribunale di Locri, che lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi, scrivevano i giudici, “per alcune ipotesi di reato, ha dato al fatto una diversa qualificazione giuridica, il che pone il problema” dell’utilizzabilità delle intercettazioni “per reati non autonomamente intercettabili”. Considerarle legittime significherebbe “da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo, dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di “autorizzazione in bianco”, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”. Ma anche a fingere che non ci sia stata forzatura nell’utilizzo delle intercettazioni, ciò che manca sono le prove. Che erano necessarie per dimostrare “l’effettivo impiego, e soprattutto l’impiego illecito, delle somme prelevate dai vari rappresentanti legali, prova il cui onere incombeva sul pm”. Dal canto suo, la difesa di Lucano - rappresentata dagli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia - ha presentato ricorso per l’unica delibera sulle 57 passate in rassegna giudicata falsa, per la quale il sindaco di Riace è stato condannato a 18 mesi di reclusione, pena sospesa. Sarà una battaglia in punta di diritto, dunque. La Consulta estende il patrocinio a spese dello Stato di Tiziana Roselli Il Dubbio, 10 luglio 2024 Incluse le procedure di liquidazione controllata, che vengono equiparate a quelle giudiziali: per la Corte costituzionale l’ammissione è necessaria per garantire l’effettività del diritto alla difesa. La Corte costituzionale, con la sentenza numero 121/2024, ha esteso il patrocinio a spese dello Stato alle procedure di liquidazione controllata, equiparandole a quelle delle liquidazioni giudiziali. La decisione è scaturita da una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Verona, che riguardava gli articoli 144 e 146 del Dpr numero 115/2002, relativi al patrocinio a spese dello Stato nelle procedure di giustizia. Tali articoli includevano la liquidazione giudiziale, ma escludevano la liquidazione controllata. Il Tribunale di Verona ha ritenuto che questa esclusione violasse gli articoli 3 e 24 della Costituzione italiana. Entrambe le procedure, infatti, mirano al soddisfacimento dei creditori e dovrebbero quindi essere trattate allo stesso modo. La Corte costituzionale ha accolto le argomentazioni del Tribunale, dichiarando l’illegittimità costituzionale degli articoli 144 e 146 del Dpr numero 115/2002 nella parte in cui non prevedono il patrocinio a spese dello Stato per la liquidazione controllata. La Consulta ha sottolineato che la disparità di trattamento tra liquidazione giudiziale e controllata crea un’ingiustificata disuguaglianza, violando il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Inoltre, ha evidenziato che negare il patrocinio a spese dello Stato per la liquidazione controllata compromette il diritto di difesa, contravvenendo all’articolo 24 della Costituzione. La Corte ha quindi stabilito che l’ammissione automatica al patrocinio a spese dello Stato per le procedure di liquidazione controllata, in presenza di un’attestazione di mancanza di attivo, è necessaria per garantire l’effettività del diritto alla difesa. Pur riconoscendo l’importanza del contenimento della spesa pubblica, la Consulta ha affermato che questa esigenza non può giustificare trattamenti irragionevoli. In conclusione, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 144 del Dpr numero 115/2002, nella parte in cui non prevede il patrocinio a spese dello Stato per la procedura di liquidazione controllata quando il giudice delegato abbia attestato la mancanza di attivo per le spese. Ha inoltre dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 146 dello stesso Dpr, nella parte in cui non prevede la prenotazione a debito delle spese della procedura di liquidazione controllata. Campania. il Garante regionale dei detenuti: “Misure alternative a detenzione contro suicidi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2024 Anche il presidente del Consiglio regionale Oliverio si espone: “La strategia politica nazionale dovrebbe guardare con un occhio più attento alle vicende umane e carcerarie”. “Per prevenire e contrastare il dramma dei suicidi e degli atti di autolesionismo nelle carceri occorre contrastare il sovraffollamento, rafforzare la presenza di psicologi, psichiatri, assistenti sociali ed educatori, migliorare le prestazioni sanitarie, aumentare le attività educative e ricreative e, soprattutto, favorire l’adozione di misure alternative alla detenzione, come l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare e altre forme di pene non detentive, riservando la detenzione in carcere ai casi più gravi, garantendo, comunque, un percorso di rieducazione e di reinserimento nella società”. Lo ha detto il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania, Samuele Ciambriello, questa mattina in conferenza stampa nella sede del Consiglio regionale della Campania con il presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero e il Garante cittadino di Napoli don Tonino Palmese. Ciambriello ha presentato il dossier “Morire in carcere” contenente un aggiornamento dei dati sui suicidi nelle carceri campane. “In Campania - ha spiegato Ciambriello - si sono verificati complessivamente 6 suicidi dall’inizio dell’anno, di cui 3 a Poggioreale, uno a Secondigliano, uno a Carinola e uno ad Ariano Irpino. Inoltre, si sono verificati 6 suicidi tra gli agenti di Polizia penitenziaria. Ad oggi i rimedi previsti dal Governo con il Decreto Legge per l’umanizzazione delle carceri appaiono insufficienti per fermare questo dramma”. Il presidente del Consiglio regionale della Campania Gennaro Oliviero ha annunciato “una seduta monotematica del Consiglio, alla ripresa autunnale dei lavori consiliari, sulle problematiche del mondo carcerario in Campania e, in particolare, sul problema dell’assistenza sanitaria nelle carceri, per dare vita ad una giornata di lavoro che, partendo dai dati raccolti dal Garante nel proprio dossier, possa tradursi in iniziative nei confronti del Governo centrale affinché intervenga per contrastare il sovraffollamento delle carceri, per adottare misure alternative al carcere e per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. La strategia politica nazionale dovrebbe guardare con un occhio più attento alle vicende umane e carcerarie, da parte nostra c’è l’impegno a sostenere la sanità carceraria che, però, sconta il dramma della carenza di medici in tutta la regione”. Secondo don Tonino Palmese “occorre puntare su una forte azione di vera umanizzazione delle carceri e su percorsi alternativi alla detenzione, anche favorendo un coinvolgimento più diretto e concreto della magistratura di sorveglianza nelle carceri, affinché le situazioni dei detenuti vengano affrontate non solo per via documentale ma in presenza, tenendo ben presenti le loro esigenze umane”. Varese. Detenuto si impicca nel bagno della cella: la strage in carcere arriva a quota 54 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2024 Ancora un suicidio negli istituti di pena. La Cedu intanto condanna l’Italia per trattamenti degradanti: dovrà risarcire un detenuto con problemi psichiatrici che ha tentato più volte il suicidio. Un detenuto italiano di 57 anni, con problemi di tossicodipendenza, si è suicidato ieri notte nel carcere di Varese, impiccandosi nel bagno della propria cella. Questo tragico evento porta a 54 il numero totale di suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Includendo anche i suicidi degli agenti di polizia penitenziaria, il bilancio sale a 60 vittime. Il sindacato Uilpa, in particolare il segretario generale Gennarino De Fazio, denuncia questi “numeri pazzeschi, senza precedenti”, definendoli “inumani persino per un regime totalitario”. Sindacati della Polizia penitenziaria e associazioni come Antigone criticano l’insufficienza delle misure governative recentemente adottate, chiedendo interventi più incisivi per affrontare quella che definiscono un’emergenza carceraria. Come riportato, ufficialmente si contano 54 suicidi, ma Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino fa sapere che secondo altre fonti sarebbero 56, poiché altri 2 suicidi sarebbero stati inseriti nei “casi da accertare”. Mentre è in corso un vero e proprio bollettino di guerra, il nostro Paese si trova al centro di un’altra controversia: la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha infatti emesso una sentenza di condanna contro l’Italia per il trattamento inumano riservato a un detenuto con gravi disturbi psichiatrici, il quale aveva tentato di togliersi la vita ben cinque volte durante la sua detenzione. Nonostante la sua evidente vulnerabilità, A.Z. è stato detenuto in condizioni che non tenevano adeguatamente conto del suo stato di salute mentale. Lo Stato italiano non ha fatto nulla per proteggerlo, nonostante le autorità fossero a conoscenza del suo elevato rischio di suicidio. Per questo motivo l’avvocato difensore Michele Passione ha portato il caso alla Corte europea dei diritti umani e ora giunge la sentenza di condanna. La vicenda di A.Z., che ha attraversato diverse strutture carcerarie italiane, getta una luce inquietante sulle profonde criticità che affliggono il sistema penitenziario e giudiziario del paese. Nell’arco di poco più di un anno, tra l’agosto del 2019 e il settembre del 2020, A.Z. ha intrapreso un drammatico percorso di autodistruzione, tentando il suicidio per ben cinque volte. Questa escalation di disperazione si è intrecciata in modo perverso con i ritardi burocratici e le inefficienze croniche di un sistema che sembra incapace di proteggere i suoi detenuti più vulnerabili. La cronologia di questi eventi dipinge un quadro desolante. Il primo atto di questa tragedia si è consumato il 14 agosto 2019 nel carcere di Bari, dove A.Z. ha tentato per la prima volta di togliersi la vita. La stessa struttura è stata teatro di altri due tentativi di suicidio: il 20 settembre 2019 e il 2 gennaio 2020. Questi episodi ravvicinati sollevano interrogativi pressanti sulla capacità dell’istituto barese di gestire e proteggere i detenuti a rischio. La scena si sposta poi a Spoleto, dove il 4 luglio 2020, presso l’Atsm (Articolazione per la Tutela della Salute Mentale), A.Z. ha compiuto il suo quarto tentativo di suicidio. Il fatto che questo gesto estremo sia avvenuto in una struttura specializzata nella tutela della salute mentale dei detenuti è emblematico, ma non sorprende visto le problematiche di queste articolazioni. L’ultimo atto di questa discesa agli inferi si è svolto il 26 settembre 2020 nella struttura di Santa Maria Capua Vetere, dove A.Z. ha tentato per la quinta volta di porre fine alla sua vita. Questo ennesimo episodio, avvenuto in una terza struttura diversa, evidenzia come il problema non sia circoscritto a un singolo istituto, ma sia sintomatico di una crisi sistemica che attraversa l’intero apparato penitenziario nazionale. Il primo segnale d’allarme si manifesta immediatamente dopo l’inizio della detenzione di A.Z.: i suoi avvocati presentano un’istanza urgente per il rinvio o la sospensione dell’esecuzione della pena, o in alternativa per la detenzione domiciliare, sottolineando le evidenti problematiche psichiche del loro assistito. Tuttavia, il magistrato di Sorveglianza di Bari impiega ben tre mesi per rispondere, disponendo un’osservazione psichiatrica solo il 18 settembre 2019, dopo che A.Z. aveva già tentato il suicidio una prima volta. Questo ritardo iniziale si rivela essere solo l’inizio di una lunga serie di inefficienze. L’osservazione psichiatrica, ordinata a settembre 2019, non viene effettivamente avviata fino al 18 giugno 2020, nove mesi dopo il provvedimento del magistrato di Sorveglianza. Nel frattempo, A.Z. tenta il suicidio altre due volte. Nonostante i numerosi solleciti della difesa e gli evidenti rischi per la salute di A.Z., i provvedimenti giudiziali continuano a subire “gravissimi ritardi” sia nell’emissione che nell’esecuzione. La situazione raggiunge livelli critici quando, nonostante una relazione del Reparto di osservazione psichiatrica di Spoleto che indica la “scarsa compatibilità” di A.Z. con il regime carcerario, il detenuto viene trasferito a Santa Maria Capua Vetere. Qui, il 26 settembre 2020, tenta il suicidio per la quinta volta, in violazione di una misura provvisoria disposta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che imponeva al governo italiano di fornire ad A.Z. adeguata sorveglianza e trattamenti psichiatrici. La mancanza di tempestività nelle decisioni, unita a una serie di errori burocratici e alla scarsa coordinazione tra le istituzioni coinvolte, ha esposto A.Z. a rischi continui per la sua incolumità, minando gravemente i suoi diritti fondamentali e la possibilità di ricevere cure adeguate. I rilievi della Corte Europea - La Corte - grazie alle osservazioni sollevate dal difensore Passione - ha rilevato che, nel periodo compreso tra il 4 luglio 2019 e il 3 settembre 2020, le autorità italiane non hanno fornito a A.Z. un trattamento adeguato per le sue condizioni psichiatriche. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno criticato la mancanza di una strategia terapeutica completa e di una supervisione regolare e sistematica del detenuto. La sentenza evidenzia anche i significativi ritardi nel valutare lo stato di salute di A.Z. e le sue esigenze terapeutiche. Ci sono voluti nove mesi per iniziare le osservazioni psichiatriche del detenuto e sedici mesi per ottenere una decisione sulla sua richiesta di scarcerazione. La Corte ha sottolineato che il governo italiano non ha fornito alcuna giustificazione per questi ritardi, considerati eccessivi. Particolarmente preoccupante è stato il fatto che, durante questo periodo, lo stato di salute di A.Z. è peggiorato notevolmente, come dimostrato dai ripetuti tentativi di suicidio. La Corte ha ritenuto che le autorità italiane non abbiano adempiuto al loro dovere di proteggere la salute e il benessere del detenuto, come richiesto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, la Corte ha anche riconosciuto che, dopo il trasferimento di A.Z. nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 3 settembre 2020, il trattamento fornito è migliorato significativamente. In questa struttura, A.Z. è stato sottoposto a un regime che prevedeva un follow-up di routine da parte di un team multidisciplinare, con incontri regolari con psichiatri e psicologi. La Corte ha notato che, dopo questo trasferimento, la salute di A.Z. è migliorata e non si sono verificati ulteriori episodi psichiatrici acuti. La Corte ha stabilito che l’Italia ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, per il periodo che va dal 4 luglio 2019 al 3 settembre 2020. L’Italia è stata condannata a risarcire ad A.Z. 10.000 euro per danni morali e 8.000 euro per le spese legali sostenute. Questa decisione rappresenta un importante monito per il sistema carcerario italiano e sottolinea la necessità di migliorare il trattamento dei detenuti con problemi di salute mentale. Il caso di A.Z. mette in luce le carenze sistemiche nel sistema penitenziario italiano, in particolare per quanto riguarda la gestione dei detenuti con disturbi psichiatrici. Augusta (Sr). Muore detenuto ergastolano, era in sciopero della fame dopo il no ai domiciliari di Irene Carmina La Repubblica, 10 luglio 2024 È morto nel carcere di Augusta Giulio Rena, l’ergastolano di 67 anni che da dicembre dello scorso anno aveva smesso di bere e di mangiare per protestare contro una condanna che riteneva ingiusta. A tenerlo in vita nei sette mesi di sciopero della fame e della sete era stata la nutrizione artificiale. Rena aveva deciso di lasciarsi morire. “Se va avanti così non vivrà a lungo”, era stato il grido di allarme lanciato dal garante dei detenuti di Siracusa, Giovanni Villari, sulle pagine di Repubblica a febbraio. È andata esattamente così. “Una morte annunciata, l’ennesima in questo inferno silenzioso che è il carcere”, accusa Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo. Rena era un pianista, prima della detenzione insegnava al conservatorio. “Un uomo colto e rispettoso - lo descrive così Villari - ma soprattutto un essere umano che aveva perso la speranza e ogni ragione per stare al mondo”. Gli altri detenuti provavano a tirarlo su di morale. Educatori, psicologi, medici e infermieri avevano tentato di aiutarlo. La famiglia no, sembrava averlo lasciato al suo destino. Prima della corsa in ospedale di domenica scorsa, l’ergastolano passava il tempo a guardare il soffitto e a stento riusciva a parlare. Rifiutando cibo e acqua, sperava nei domiciliari, ma ha trovato la morte. “Questa morte, come le altre dei detenuti avvenute in ospedale in seguito a lunghi scioperi della fame, devono essere annoverate come suicidi, in quanto forme di protesta pacifica e passiva estrema”, dice Santi Consolo, garante siciliano dei detenuti. Anche Consolo aveva provato a fargli cambiare idea: “Quando sono andato a trovarlo l’ho supplicato di desistere da quel comportamento, era un uomo molto educato e corretto”. All’Ucciardone, sabato, è morto un altro detenuto affetto da cardiopatia e diabete. “Se rimaniamo fermi a guardare, la storia continuerà a ripetersi: di carcere si muore non solo per suicidio, ma anche per l’indifferenza di chi dovrebbe applicare misure alternative al carcere - osserva Apprendi - Non possiamo più aspettare, il tempo è scaduto e il decreto carceri del Governo è pari al nulla”. Firenze. Disposta l’autopsia sul giovane detenuto che si è suicidato a Sollicciano di Viola Giacalone controradio.it, 10 luglio 2024 L’autopsia dovrà verificare la natura di eventuali e ulteriori lesioni sul corpo del ragazzo oltre a quelle riconducibili al suicidio. Sarà fatta l’autopsia sulla salma del detenuto tunisino di 20 anni che si è tolto la vita, impiccandosi, a Sollicciano. Cosi ha stabilito la pm Ornella Galeotti che ha aperto un fascicolo, così da poter svolgere l’esame autoptico. L’autopsia dovrà verificare la natura di eventuali e ulteriori lesioni oltre a quelle riconducibili al suicidio. Nel frattempo in seguito alla riunione di giunta straordinaria sulla situazione degli istituti penitenziari a livello regionale che si è tenuta ieri pomeriggio, il presidente di regione Eugenio Giani ha annunciato che scriverà al ministro della Giustizia Carlo Nordio per avere chiarimenti sul futuro del carcere fiorentino. Giani ha detto che la situazione a Sollicciano è “devastante” e che “non è più il caso di procedere così, anche perché ne va dell’immagine della Toscana, anche se è competenza del Governo”. “Scriverò al ministro sollecitandolo ad avere chiarezza sugli interventi a Sollicciano: se ristrutturare il carcere, se demolirlo e ricostruirlo. Se ne parla da anni, ma ora è il momento di prendere una decisione, mettere le risorse e farlo perché la condizione del carcerato deve essere umana e non vogliamo che in qualche modo si identifichi Firenze e la Toscana con un carcere dalle condizioni disumane. Questo non è possibile”. Roma. Regina Coeli, il ragazzo delle pannocchie morto suicida nel “braccio degli infami” di Arianna Egle Ventre e Giacomo Zandonini Il Manifesto, 10 luglio 2024 Dal Pakistan a Torpignattara, Mohammad Ishaq Khan era stato condannato per tentato furto. “La giudice non ha potuto disporre accertamenti né è stato possibile attivarsi a livello difensivo. Si rileva una chiusura ermetica del sistema carcerario”, dice l’avvocato Dini Modigliani. “Davvero nelle carceri italiane le persone possono morire così?”, ha chiesto incredulo Irshad dopo aver saputo del decesso del fratello minore: Mohammad Ishaq Khan. La salma è arrivata all’aeroporto di Islamabad, capitale del Pakistan, il 2 luglio. Ad attenderla tutta la famiglia. Secondo la comunicazione ufficiale ricevuta dall’avvocato difensore, lo scorso 4 giugno il detenuto si sarebbe tolto la vita nel carcere romano di Regina Coeli. La Casa circondariale è una delle poche ancora sopravvissute nei centri storici italiani e detiene un record inquietante. Subito dopo la morte di Khan, una nota congiunta dei Garanti per i diritti dei detenuti del comune di Roma e della regione Lazio ha spiegato che Regina Coeli è il carcere italiano con il maggior numero di suicidi: 15 dal gennaio 2020 alla fine del mese scorso. Un record negativo che si accompagna a un altro dato: con il 183% di presenze rispetto ai posti disponibili è anche il carcere più sovraffollato della penisola. Quello di Khan era il trentanovesimo suicidio dietro le sbarre del 2024, ma il conto è già salito a 54 (gli ultimi due tra lunedì e martedì a Potenza e Varese). In ognuno di questi casi dietro un nome e un numero c’è una storia personale, intessuta di relazioni e progetti, scontratasi con l’assenza di diritti in carcere. Nel quartiere romano di Torpignattara, dove aveva trovato sostegno e amicizie affrontando con fatica la precarietà della vita da rifugiato, Khan amava definirsi “quello delle pannocchie”. Nell’estate 2023, appena ventiseienne (anche se per i documenti italiani gli anni erano 31), aveva trascorso un breve periodo a vendere il mais lungo la spiaggia del Circeo, nel sud del Lazio, con un carretto autocostruito. Le parole di Khan, raccolte dalla casa di produzione AntropicA che su di lui stava girando un documentario, e le testimonianze dei parenti lontani raccontano di una vita in viaggio. Il ragazzo era cresciuto nella regione di Mohmand Agency, area di confine con l’Afghanistan che fa parte del Pakistan, abitata da comunità di lingua e cultura pashto. Un territorio travagliato, che spinge molti giovani a partire. Così Khan arriva in Turchia, poi incontra la violenza delle frontiere balcaniche, l’Austria e un approdo incerto nel Lazio, dove ottiene i documenti. Vive la strada e una precarietà lavorativa e abitativa che rafforzano e riflettono quella personale. Pur se non autorizzata, la vendita delle pannocchie è un piccolo progetto di riscatto che però viene interrotto improvvisamente: la polizia gli sequestra il carretto. Khan sente di affondare in un terreno ostile. Prova ad arrangiarsi. Riceve una condanna per tentato furto: due anni e otto mesi. Dal carcere, però, non uscirà più. Perché dopo meno di otto mesi di detenzione il suo corpo viene trovato esanime in una cella della settima sezione: nel gergo carcerario la definiscono il “braccio degli infami”. “Il suicidio di Ishaq è l’ennesimo che avviene in quella parte del carcere. È da tempo che chiediamo sia chiusa”, denuncia Valentina Calderone, Garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma. Dai primi di luglio Khan riposa in un cimitero di Mohmand Agency. Una targa su un cumulo di pietre, immersa tra montagne maestose. “Ogni giorno arrivano persone per farci le condoglianze”, racconta al telefono il fratello. Chiede sia fatta luce sulla morte “anche per evitare che succeda ancora”. Le indagini in corso dovranno chiarire se l’incolumità del detenuto è stata tutelata a dovere. Pochi giorni prima del decesso, Khan era stato finito in regime di grandissima sorveglianza, il quale può derivare da esigenze di sicurezza dell’istituto o della persona. Di questo, però, non è stata data notizia né alla giudice titolare, né all’avvocato difensore Andrea Dini Modigliani. Il legale spiega che “in assenza di notizie nei giorni precedenti al suicidio, la giudice non ha potuto disporre per tempo alcun accertamento, né è stato possibile attivarsi a livello difensivo. Emerge una chiusura ermetica del sistema carcerario”. Secondo le informazioni raccolte da Calderone sembra che Khan abbia subito violenze da altri detenuti e avrebbe manifestato paura di essere spostato nel settimo reparto. Il trasferimento, però, è avvenuto ugualmente. Proprio nel giorno del decesso. Per Calderone ciò “deve far scaturire domande sul fatto che quello di Khan sia un suicidio annunciato”. Nell’anno in cui le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre si avviano a segnare un nuovo record, battendo le 85 del 2022, l’Unione delle camere penali italiane (Ucpi) ha proclamato tre giorni di astensione dalle udienze, da oggi al 12 luglio. “La protesta segue una maratona oratoria di denuncia della situazione - spiega l’avvocata Maria Brucale, responsabile della commissione carcere della camera penale di Roma - Le misure adottate dal governo non sono neppure dei palliativi rispetto all’urgenza di provvedimenti deflattivi, vista la più che patologica situazione di sovraffollamento”. Firenze. Amira è ancora in carcere dopo l’aborto. “Non trova una casa per i domiciliari” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 luglio 2024 Otto mesi fa la giovane detenuta di Sollicciano ha perso il bambino. L’appello delle associazioni. Da quasi un anno, per l’esattezza otto mesi, cerca una casa per scontare la sua pena agli arresti domiciliari, come previsto dal giudice, ma questa casa ancora non è riuscita a trovarla. E quindi continua a scontare la pena in una cella umida e con infiltrazioni nel carcere di Sollicciano. È la storia di Amira (nome di fantasia), la detenuta tunisina di 27 anni che lo scorso marzo ha perso il figlio al quarto mese di gravidanza. Dopo il drammatico evento la reclusa, in arresto per spaccio di sostanze stupefacenti con una pena di quattro anni, è caduta in uno stato psichico critico, con frequenti crisi di pianto alternati a stati depressivi. Per lei, il suo avvocato e i volontari del penitenziario fiorentino si sono attivati per trovare una casa (non soltanto dopo l’aborto ma anche all’inizio della gravidanza). Non avendo un proprio alloggio, l’unica possibilità per la detenuta è quella di trovare un’alternativa sul mercato privato. Suo cugino potrebbe garantirgli un supporto economico di 500 euro ma c’è un doppio problema: da una parte l’impossibilità di trovare una casa (anche soltanto un monolocale) a questa cifra in città o nei dintorni; dall’altra la resistenza dei proprietari ad affittare un appartamento ad una detenuta agli arresti domiciliari. Ecco perché l’associazione Pantagruel si è rivolta alle istituzioni e soprattutto al Terzo Settore: “Ho fatto almeno ottanta telefonate tra amici e note associazioni del territorio, ma non ho trovato alcuna disponibilità - ha detto amaramente la presidente dell’associazione Pantagruel Fatima Benhijji, da anni attiva a Sollicciano - Nei convegni sul carcere tutti parlano di svuotare il carcere attraverso misure alternative, ma poi nei fatti nessuno sembra intenzionato a farlo concretamente”. E così, nonostante una ricerca forsennata che va avanti da quasi un anno, nessun alloggio è stato trovato. Nella città della rendita, dove gli affitti sono sempre più cari e il prezzo del mattone lievita sempre più in alto, non ci sono soltanto le famiglie povere e gli studenti fuori sede a farne le spese. Le vittime sono anche le detenute come Amira, che avrebbe il diritto di scontare la pena fuori dal carcere ma che non riesce a farlo perché l’alloggio non si trova. Nelle ultime ore, l’appello dei volontari di Sollicciano è arrivato direttamente all’arcivescovo Gherardo Gambelli, già cappellano a Sollicciano, ma per ora nessuna soluzione. Amareggiato anche l’avvocato della donna, Samuele Zucchini, che dice: “La mia assistita ha fatto ingresso nel nostro penitenziario fiorentino nel novembre scorso in stato di gravidanza e con un quadro emotivo estremamente fragile. Oggi, a distanza di otto mesi e nonostante le aperture del giudice ad una modifica-alleggerimento del quadro cautelare, si trova ancora ristretta per la endemica mancanza di strutture in grado di poterla accogliere in misura custodiale. In tanti anni di professione posso dire che non ci sono ancora state concrete ed efficaci iniziative realmente capaci di accorciare la distanza tra il “dentro” ed il “fuori”, soprattutto per le donne”. L’ex legale della donna, l’avvocata Sabrina Del Fio, era inizialmente riuscita a trovare una collocazione per porla agli arresti domiciliari. Ma durante un primo controllo della polizia presso l’abitazione aveva fatto fare retromarcia al giudice: a quell’indirizzo risultava domiciliata un’altra persona con precedenti per droga. E così l’ipotesi era sfumata e ancora dopo un anno si cerca una sistemazione per Amira. È questa un’altra delle storie drammatiche che si registrano giorno dopo giorno all’interno del carcere di Sollicciano, dove giovedì scorso si è tolto la vita, impiccandosi nella sua cella, il ventenne tunisino Fedi, un gesto a cui è seguita la rivolta di alcuni reclusi, che hanno reso inagibili due sezioni e necessario il trasferimento di decine di reclusi. Firenze. La città che lascia indietro Di Alessio Gaggioli Corriere Fiorentino, 10 luglio 2024 Nella città in cui oramai tutto è preso è inevitabile il dramma della giovane Amira. Ci sono gli studenti che non trovano alloggi perché a Firenze, come racconta l’ultima ricerca sul mercato immobiliare, una stanza (letto, scrivania, finestra e armadio) costa 600 euro al mese, ci sono i lavoratori - in gran parte occupati nel mangificio - che schiacciati dai part time imposti dai titolari dei ristoranti guadagnano una miseria. Ci sono i residenti che scappano dal cuore di una città che non ha più cuore. E c’è Amira, una storia problematica alle spalle, ma esemplare della Firenze di oggi: avrebbe diritto agli arresti domiciliari dopo aver perso un bambino a Sollicciano, ma è da un anno che nessuno riesce a trovarle un posto fuori. Nella città che “non lascia indietro nessuno” (uno degli slogan della campagna elettorale), una donna che ha avuto un aborto in carcere (e che in carcere non doveva starci) è costretta a restare in quell’inferno di cui in questi giorni siamo tornati a accorgerci perché la città che non lascia indietro nessuno è la città con uno dei penitenziari più disumani del Paese. Dove un ragazzo di 20 anni, con un anno di pena da scontare, si è tolto la vita dopo aver lasciato come fosse un testamento quel reclamo in cui chiedeva che si prendesse coscienza che a Sollicciano la detenzione è una tortura o quasi. Detto del carcere fiorentino che non regge più nemmeno i rattoppi fatti - malamente - negli anni, anche il fuori è desolante. Difficile immaginare una svolta di fronte a ciò che pare ormai ineluttabile. Negli anni abbiamo assistito ad annunci-medaglie, leggi dalle buone intenzioni, ma senza la volontà politica di fare un tagliando dopo la loro messa in pratica. Perché poi, di fatto, il mangificio si è allargato a dismisura, resort ed hotel di lusso (gli ultimi casi, riportati da Repubblica Firenze, l’allargamento del Four Season’s o Palazzo Sassetti) hanno continuato ad aprire o cominciato i lavori, i negozi di vicinato spariscono minuto dopo minuto perché non ci sono i residenti, b&b e airbnb non hanno arrestato la loro marcia. È così che i costi degli affitti galoppano e il mercato delle compravendite (specie in centro dove ormai, appunto, tutto pare essere stato preso), rallenta. Passato l’effetto della sbornia dell’aver “respinto l’assalto della peggior destra neofascista di sempre” il nuovo (si vedrà quanto) corso targato Sara Funaro, così come la classe dirigente di questa città, dovranno dar seguito agli impegnativi annunci-slogan da campagna elettorale con visione, ingegno, coraggio e piani straordinari. L’emergenza casa non la si risolve solo con la battaglia - tardiva - agli affitti turistici o con la legge Nardella anti airbnb se resisterà alla prova del Tar. Quella norma ha già creato distorsioni e se il tribunale non la casserà ci sarebbe da ragionare su come allargare lo stop al di fuori del centro storico e come controllare il rispetto delle regole. Funaro ha promesso di investire 100 milioni di euro per dare risposte a 12 mila cittadini, tra case popolari e social housing; vuole convincere l’Asl a non disfarsi dell’ex San Giovanni di Dio e terminare alla svelta la ristrutturazione di centinaia di alloggi popolari sfitti. Alla sindaca, oltre ai fondi, servono uomini e donne - anche in aziende partecipate come Casa spa - all’altezza dell’emergenza in cui si è ficcata la città. Il tempo è scaduto, purtroppo, l’altro ieri. Magari, intanto, Firenze potrebbe battere un colpo e trovare una casa ad Amira. Un primo - piccolissimo, ma significativo - passo. Bolzano. Carcere di via Dante, debellata la scabbia. Rientra dopo mesi l’emergenza sanitaria di Silvia M. C. Senette Corriere dell’Alto Adige, 10 luglio 2024 Da gennaio ad aprile il carcere di Bolzano ha vissuto una grave emergenza sanitaria: dieci contagi accertati di scabbia, di cui un agente, con tre casi così gravi da richiedere il ricovero in ospedale. La situazione ha evidenziato le carenze di un sistema penitenziario al collasso, ma ha anche dimostrato la forza della collaborazione tra enti e la resilienza della popolazione carceraria. Ora per fortuna l’emergenza è rientrata, grazie ad una complessa opera di disinfestazione e ieri si è svolta una piccola cerimonia all’interno della struttura per celebrare questo risultato. “Gran parte della popolazione detenuta ha apprezzato lo sforzo profuso: la quasi totalità ha aderito con grande impegno alla terapia di cura e preventiva e all’intensa attività di sanificazione di spazi ed effetti personali” ha dichiarato Giovangiuseppe Monti, direttore della struttura di via Dante. “Con il supporto dell’Azienda sanitaria, della Protezione civile, della Croce Bianca e di chi vive gli spazi del carcere abbiamo fatto un ottimo lavoro”. La crisi è iniziata con pochi casi isolati, seguita da un’escalation di contagi e una diffusa insicurezza tra i detenuti. “In un clima di insofferenza e insicurezza - ha spiegato il sanitario dell’Azienda sanitaria, Pierpaolo Bertoli - diversi detenuti non si sono sottoposti ai controlli, rendendo difficile una quantificazione precisa”. La scabbia è un’infezione cutanea legata alla presenza di un microrganismo che si insinua nella cute per contatto con persone infette o tramite biancheria. La terapia, per bocca o con l’uso di pomate, va assunta con modalità e tempistiche precise. “Quando questi dieci casi iniziali hanno lamentato difficoltà nella presa in carico per le nostre difficoltà strutturali, il problema sanitario è diventato un problema di sicurezza - ha ammesso Monti -. Insofferenza, malessere e autolesionismo sono diventati critici e per il personale di polizia penitenziaria è stato difficile gestire e contenere contagi e il rischio che la situazione diventasse ingestibile”. “Avevamo paura della reazione che potevano avere i detenuti - ha confessato Alfonso Pilato, ispettore e comandante delle guardie carcerarie - quindi devo ringraziare i detenuti che hanno sensibilizzato i loro compagni perché aderissero spontaneamente al trattamento. Si sono tutti adoperati a pulire e igienizzare le stanze, facendosi portavoce delle esigenze della struttura”. Romina Rossi, coordinatrice del personale infermieristico, ha raccontato l’esperienza con emozione: “La collaborazione massima, tra il personale e i detenuti, è stata una grande crescita umana e professionale. Abbiamo vissuto un’emergenza nell’emergenza, ma anche un punto di svolta”. Dopo i primi casi isolati, la necessità di un intervento massivo è stata chiara a marzo. “Nonostante diverse settimane di terapia, non si riusciva a eradicare la scabbia - ha spiegato Bertoli -. Abbiamo deciso di attivare un intervento su larga scala, i nostri responsabili si sono coordinati con la Protezione civile e la Croce Bianca per allestire tutto il necessario”. L’operazione ha comportato una pulizia e disinfezione completa della struttura. “Abbiamo dovuto igienizzare tutte le aree vissute dai detenuti e disinfettare effetti personali, materassi, letti e vestiti - ha riferito Rossi -. La Protezione civile ha allestito tende e docce in cortile per permettere la decontaminazione durata due settimane, mentre l’Azienda sanitaria ha fornito a tutti pigiami ospedalieri”. Il comandante Pilato ha espresso la sua gratitudine alla Protezione civile, consegnando una targa d’onore: “Gli agenti di polizia penitenziaria qui a Bolzano soffrono per la carenza di organico e le difficoltà strutturali. Quel giorno, quando siete arrivati, ci siamo sentiti appoggiati e ci avete dato qualcosa che avevamo perso: la sensazione di appartenenza”. Tiberio, un detenuto che ha svolto un ruolo chiave nel convincere i compagni a sottoporsi alla terapia e al protocollo, ha raccontato: “Di 127, solo quattro si sono rifiutati. È stata dura, ma nel rispetto di chi ha sofferto del contagio lo abbiamo fatto tutti quanti e ha funzionato”. Il trattamento ha richiesto circa un mese. “L’intervento di maggiore disagio è stato pulire tutte le aree vissute dai detenuti e disinfettare effetti personali, letti e vestiti per permettere la decontaminazione” ha precisato Rossi. Un’operazione resa possibile dal coordinamento tra tutti i soggetti coinvolti che sono riusciti a garantire condizioni di sicurezza e sorveglianza. Roma. Il manicomio dei migranti di Cecilia Ferrara e Angela Gennaro ansa.it, 10 luglio 2024 “Se non sei pazzo, qui lo diventi”: viaggio all’interno del Cpr di Ponte Galeria a Roma. Un tentativo di suicidio ogni due giorni, un “evento critico” ogni 24 ore. Autolesionismo, consumo di psicofarmaci “a scopo contenitivo”, vulnerabilità sanitaria e mentale. E il caso di una donna con chiari tratti psichiatrici rinchiusa e isolata per 9 mesi, che porta all’Italia l’ennesima condanna da parte della Cedu. Tutto questo nel Centro di permanenza per i rimpatri che si trova nel sud della capitale. “Vi prego sperando di inviare questa lettera al mio bene più prezioso, la mia cara madre”: è uno dei tanti giovani uomini che si avvicinano. A differenza degli altri non vuole parlare. Non può, forse, visto che non parla italiano. Ha un sorriso dolce, lo sguardo basso, e allunga una lettera. “Help me”, sussurra con un filo di voce. È scritta in arabo. Proviamo a spiegare che non siamo in grado di leggerla. Un altro detenuto ci aiuta e traduce ad A. le nostre parole: faremo in modo di farcela tradurre, se per lui va bene. Annuisce, abbassa ancora di più lo sguardo, il sorriso è sempre dolce. Se ne va, non si farà più vedere per il resto della visita. “Vi prego sperando di inviare questa lettera al mio bene più prezioso, la mia cara madre”, si legge in quella lettera. “Mia cara mamma, mi sei mancata moltissimo e sai quanto ti amo, ma sai anche, mamma, quanto desideravo vedere il mio caro fratello, ma il mio caro desiderio mi ha ucciso e non posso più sopportare me stesso”. Siamo nel Cpr di Ponte Galeria, il Centro di permanenza per i rimpatri che si trova a Roma sud vicino alla Fiera di Roma e all’aeroporto di Fiumicino. È tra i più grandi tra gli otto Cpr funzionanti oggi in Italia, e l’unico con una sezione femminile: l’ANSA ha ottenuto dalla prefettura di Roma l’autorizzazione all’ingresso con telecamere: due videomaker e un fotografo. La voce di A., le sue parole, che riusciremo a tradurre solo due giorni dopo, sono una mazzata. Dopo averla letta, inviamo una segnalazione per rischio suicidario a tutte le autorità competenti, prefettura, questura, ufficio immigrazione, ente gestore del Centro per i rimpatri di Ponte Galeria, autorità garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. E presentiamo un esposto. “Grazie per quello che fa”, dice il carabiniere. Dopo qualche giorno il ragazzo viene ricoverato al San Camillo e poi dimesso con una diagnosi di disturbo della personalità non meglio specificata. Viene comunque riportato a Ponte Galeria il 5 giugno. Il 15 giugno tenta il suicidio, viene salvato, ma i medici ritengono il tentativo “non credibile”. Ci riprova il giorno dopo. In maniera evidentemente più “credibile”, visto che viene portato al pronto soccorso. A. esce dal Cpr il 19 giugno, 20 giorni e due tentativi di suicidio dopo il suo annuncio di volerla fare finita nella lettera che ci aveva consegnato. Torino. “Travolti dai fascicoli”, la vita di trincea dei magistrati della giustizia minorile di Elisa Sola La Stampa, 10 luglio 2024 Nostro viaggio tra i tuttofare della Procura dei minori: dai carabinieri in pensione al poliziotto che smista le mail. L’agente del Ferrante Aporti manda le notifiche. “Sono qui per senso del dovere. Ho lavorato una vita in Procura. So come muovermi. Un giorno mi ha chiamato il maresciallo. Era sepolto dai fascicoli. Mi ha chiesto se per caso potevo dare una mano. Quando ho visto la situazione sono rimasto. Pazienza se sono in pensione. Qui sono messi peggio che alla Procura ordinaria”. Settimo cammina svelto lungo il corridoio del primo piano. Ha in mano una pila di cartelline. Raggiunge Giovanni Scaraggi, militare in congedo come lui, che aggiunge: “C’è da fare l’archivio, smistare la posta, scaricare le notizie di reato. Come si fa a non restare, vedendo come sono messi?”. Settimo e Giovanni sono le prime due figure che, silenziose e affaccendate, compaiono nel corridoio della Procura dei minori. Al piano terra del palazzone di corso Unione Sovietica ci sono le aule del tribunale. Una madre aspetta con la figlia. Avrà dieci anni e porta il velo quasi integrale. Emma Avezzù, la procuratrice dei minori, esce dall’udienza e sale di corsa. Prima di entrare nella sala interrogatori ribadisce ciò che ha denunciato a La Stampa l’altro ieri: “Siamo messi così. Con i volontari a caricare i fascicoli. Gestiamo novemila casi all’anno. Siamo in sei magistrati e non abbiamo più personale. Sono rimasti tre funzionari, due cancellieri su quattro, tre assistenti quando ne servono sette”. Quello che colpisce e illumina, a guardare la decina scarsa di persone che si affrettano a scrivere verbali e mandare notifiche, è che in questo posto ogni ruolo muta a seconda del bisogno. Nessuno si lamenta. Parlano tutti col sorriso. L’autista Orazio è stato messo a iscrivere le notizie di reato. “Siamo in grado di guidare da sole le nostre macchine, di lui abbiamo bisogno al computer”, dice Avezzù. A smistare le mail c’è un poliziotto penitenziario. “Vengo dal Ferrante Aporti, ne ho viste di tutti i colori. Fatichiamo. Potrei chiedere il trasferimento, ma sono minori. E per loro si fa di tutto”. In questo deserto di personale corrono indaffarate persone instancabili. Nadia Ricco, 65 anni, era la dirigente amministrativa. Anche lei è in pensione. Sposta faldoni ingialliti da uno scaffale metallico in uno scantinato. “Vengo a dare una mano”, dice timidamente mentre scartabella plichi con Graziella Covacci, la funzionaria. “Questa era la sala intercettazioni, là c’era il bar. Ci siamo presi lo spazio perché nell’archivio non ci sta più un ago”, spiega Avezzù. Scende a controllare cosa succede Marco Russomando, 39 anni, poliziotto penitenziario del tribunale. Lo chiamano “il factotum”. Si occupa della vigilanza, sulla carta. L’altro giorno ha rincorso fino a bordo del tram 4 tre ragazzini spacciatori. Li ha riportati al Ferrante Aporti, questa volta dentro. È tardi. Bisogna salire. Due agenti della pg interrogano un sedicenne. È accusato di spaccio e stalking. “I messaggi che ha sul telefono sono uguali a quelli che Filippo Turetta mandava a Giulia Cecchettin. Sembra incredibile. Eppure ce ne sono tanti, di stalker così”. Disagio e violenza sono esplosi tra i minorenni dopo la pandemia. Aumentano i reati e diminuiscono gli impiegati. Giuseppe Sorrentino, 50 anni, è rimasto uno dei pochi segretari. Anche il tirocinante è solo. La procuratrice deve scappare in udienza. Ci starà in fino alle 20. Rapina, detenzione di materiale pedopornografico. Furti a catena. È il menu del giorno. Senza contare gli arresti. Tornando al primo piano, la pm di turno è sola. Ha due figli molto piccoli e non ha chiesto il congedo che le spetterebbe. Il turno dura otto giorni e otto notti di fila. In tre ore arrivano 17 telefonate dal Piemonte e dalla Valle d’Aosta. “Ogni tanto ci viene la febbre per la stanchezza”, mormora. Non perde la concentrazione. Ogni chiamata può salvare la vita di un bambino. C’è un casolare abbandonato dove due genitori litigano davanti a due sorelline. C’è un padre che in ospedale inveisce contro una donna che ha appena partorito. Il neonato è un minore. Per questo chiamano qui. Il telefono squilla con la frequenza di un call center. Ma sono tutte tragedie. C’è un ragazzo di 16 anni che dorme solo in macchina. Parte la ricerca di qualcuno che possa ospitarlo. Non si trova nessuno. Non c’è nessuno. Le strutture sono piene. Forse resterà solo. Sguardi rassegnati. Solo. Come sono rimasti i magistrati e gli impiegati della Procura dei minori di Torino. Napoli. Progetto IV Piano: un aiuto concreto per i detenuti con dipendenze di Poggioreale di Maria Nocerino napoliclick.it, 10 luglio 2024 Un aiuto concreto per i detenuti con problemi di dipendenza all’interno del carcere di Poggioreale, perché la vita in cella possa essere “riempita” e resa più umana grazie ad attività di socializzazione ed inclusione sociale. È quello che offre quotidianamente l’équipe integrata del Progetto IV Piano, intervento realizzato da circa 9 anni all’interno della Casa Circondariale di Poggioreale e promosso dal Dipartimento Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro - in collaborazione con la UOS Serd Area Penale e in stretta integrazione con la Direzione di Poggioreale - insieme al gruppo di imprese sociali Gesco attraverso la cooperativa sociale Era. Due le principali aree di intervento di IV Piano: socializzazione e misure alternative. Da una parte, ci sono le attività socio-riabilitative realizzate attraverso vari laboratori, tra cui il teatro, la lettura ad alta voce, lo sport, la produzione di manufatti, la realizzazione di piccoli aggiusti sartoriali, passando per gli incontri sui diritti e sulla Costituzione. “Si tratta di attività inclusive, rivolte alla popolazione con diverse dipendenze detenuta a Poggioreale, che corrisponde complessivamente a circa il 30% su un totale di poco più di 2000 persone che sono recluse nella casa circondariale napoletana” spiega la coordinatrice nonché ideatrice del progetto Marinella Scala. Negli ultimi anni, c’è stata una stretta sulle droghe. E sono sempre più le persone incarcerate anche per piccoli reati legati alle sostanze stupefacenti. Sebbene il Padiglione Roma sia diventato quello in cui si trattano i tossicodipendenti, i laboratori coinvolgono molte più persone, intorno alle 150 in tutta la casa circondariale, anche se si tratta di una cifra dinamica perché i partecipanti cambiano di volta in volta. “Le cose sono cambiate in positivo negli ultimi anni, grazie anche alla nostra presenza e alla integrazione che siamo stati capaci di realizzare non solo per un modello in cui convivono pubblico e privato, ma anche per la stretta collaborazione con la Direzione del carcere e con gli educatori che sono straordinari - sottolinea la dottoressa Scala - Si è un po’ allungata l’ora d’aria, i detenuti del piano riescono a intrattenersi di più fuori alle celle o nella stanza grande a giocare a bigliardino o leggere qualche libro. La privazione della libertà resta ma almeno le condizioni di vita di queste persone stanno diventando più umane” Il secondo asse di intervento del Progetto IV Piano è rappresentato dallo sportello per l’implementazione delle misure alternative rivolte ai detenuti residenti all’interno della Asl Napoli 1 Centro. “Il Serd è presente all’interno stesso delle mura del carcere, ed è un caso rarissimo in Italia. Riceviamo le segnalazioni dei casi diagnosticati, poi realizziamo dei colloqui motivazionali che danno luogo alle nostre richieste di collocazione in comunità terapeutiche - racconta Marinella Scala - Sulla misura alternativa alla pena naturalmente si esprime la magistratura. Nell’anno 2023, siamo riusciti a collocare in comunità 123 persone, dato per fortuna in aumento negli ultimi anni”. Il momento conclusivo dell’ultima attività del progetto - Si parlerà di questo e del modello di lavoro integrato tra pubblico e privato martedì 16 luglio dalle ore 11 alle 14, all’interno della Chiesa della casa circondariale “G. Salvia” di Poggioreale, nell’ambito di una iniziativa in cui saranno resi noti i risultati del corso più recente realizzato con i detenuti: un laboratorio sulla gestione dei conflitti in famiglia e sulla genitorialità. Durato complessivamente 6 mesi e condotto da Ludovica Mauriello e Lucia Rossi, il percorso ha portato alla produzione di un libricino sulle emozioni, con alcuni disegni realizzati dagli stessi reclusi per i loro figli. Nel corso dell’incontro, in programma la mattina del 16, saranno coinvolte anche le famiglie che avranno un momento di dialogo e confronto con i propri cari detenuti e, alla fine, si mangerà una pizza. Per l’occasione, sono stati invitati i magistrati di sorveglianza. Saranno presenti: il direttore della casa circondariale di Poggioreale Carlo Berdini, il direttore del Dipartimento Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro Gennaro Pastore, il presidente del gruppo di imprese sociali Gesco Giacomo Smarrazzo, il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello. Venezia. Detenuti al lavoro per la Biennale di Marco Belli gnewsonline.it, 10 luglio 2024 Creare e promuovere opportunità di lavoro retribuito per i detenuti, che avranno così la possibilità di acquisire anche nuove competenze professionali spendibili nel mercato dell’occupazione una volta usciti dal carcere. È l’obiettivo del protocollo d’intesa “Rinasco con l’arte - Detenute e detenuti al lavoro alla Biennale”, sottoscritto nei giorni scorsi dai direttori degli istituti penitenziari di Venezia Santa Maria Maggiore, Enrico Farina, e Venezia Giudecca, Mariagrazia Bregoli, con il presidente della Fondazione Biennale di Venezia Pietrangelo Buttafuoco, la responsabile dell’Ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna (UIEPE) Annamaria Raciti e la presidente dell’Associazione Seconda Chance Flavia Filippi. L’intesa intende realizzare misure e interventi finalizzati a implementare l’offerta lavorativa rivolta ai detenuti attraverso il pieno coinvolgimento delle strutture dell’esecuzione penale con il territorio veneziano e la sua comunità di imprese. Nello specifico, la Fondazione Biennale di Venezia offrirà ai detenuti della Casa circondariale e alle detenute della Casa di reclusione femminile opportunità di impiego retribuito all’interno sue sedi presso l’Arsenale, i Giardini, il Lido e Ca’ Giustinian. Servizi di ristorazione, decoro del verde, manutenzione edile, portierato, pulizie, ma anche attività di supporto alla logistica e all’accoglienza dei visitatori nelle iniziative e nelle manifestazioni della Biennale: saranno individuati sensibilizzando e coinvolgendo nel progetto le aziende fornitrici di servizi accessori e strumentali che già collaborano con la Fondazione. I detenuti saranno selezionati presso i due istituti attraverso ricognizioni curate dall’Associazione Seconda Chance insieme ai responsabili delle aree educative e trattamentali e l’UIEPE di Venezia. Successivamente saranno formati a svolgere le attività lavorative individuate, alle quali potranno accedere attraverso appositi programmi di ammissione al lavoro all’esterno o alla semilibertà approvati dalla magistratura di sorveglianza della città lagunare. Il protocollo avrà una durata di tre anni e potrà essere tacitamente rinnovato per un ulteriore triennio. Egitto. Luigi, in sciopero della fame dopo un anno in cella al Cairo di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 luglio 2024 Arrestato per possesso di “piccole dosi” di stupefacenti. Interrogazione di Avs al ministro. Nessun contatto diretto con la famiglia, se non via lettera. “È stato maltrattato”. Rinchiuso da quasi un anno in un carcere egiziano perché trovato in possesso di “un piccolo quantitativo di marijuana per uso personale” durante un soggiorno turistico; sottoposto a carcerazione preventiva per sei mesi e poi a processo con l’ultima udienza rinviata per mancanza di traduttori; “maltrattato e torturato” in carcere, “abbandonato da oltre cinque mesi” al suo destino dall’ambasciata italiana al Cairo, il 31enne Luigi Giacomo Passeri - padre italiano e madre sierraleonese - non ha più contatti diretti con la famiglia da pochi giorni dopo il suo arresto in Egitto, il 23 agosto 2023. Stremato nel corpo e nella psiche, nell’ultimo messaggio che è riuscito ad inviare domenica 16 giugno 2024 alla madre e ai quattro fratelli maggiori (il padre è morto), ha infine annunciato di aver intrapreso lo sciopero della fame. La storia è stata raccontata dai giornali abruzzesi nei giorni scorsi e raccolta dal deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Marco Grimaldi, che ieri ha depositato un’interrogazione a risposta scritta al Ministro degli Affari esteri affinché “sia garantita ogni forma di assistenza e supporto da parte dell’Ambasciata italiana in Egitto, vengano verificate le condizioni di detenzione e di salute psicofisica del detenuto” e “sia garantito un equo e giusto processo in tempi celeri e attivandosi perché il giovane possa rientrare presto in Italia”. E scongiurare così un altro caso Salis o, peggio, Regeni. Poche ore dopo il deposito dell’interrogazione, la Farnesina avrebbe spronato l’ambasciatore Michele Quaroni ad intervenire con più vigore sul caso. Secondo la ricostruzione del deputato Avs e confermata al manifesto dal fratello del detenuto, Andrea Passeri, la famiglia “non riesce più ad avere contatti diretti con il giovane dal 28 agosto 2023”, se non per lettera, malgrado abbia saputo che Luigi “subirebbe torture e dopo un intervento chirurgico di rimozione dell’appendice sarebbe stato abbandonato senza ricevere neanche le dovute cure mediche”. Il giorno dopo l’arresto, Luigi sarebbe dovuto rientrare a Londra dove lavora e vive con la sorella, mentre gli altri fratelli insieme alla madre vivono tra Pescara, dove la famiglia si è trasferita nel 1997 dalla Sierra Leone, Roma e gli Usa. E invece il 31enne è finito nel “Centro di correzione e riabilitazione” di Badr, 65 km a est del Cairo, aperto nel 2022 da Al-Sisi per dare un volto “umano” alla carcerazione dei detenuti cairoti, ma giunto in pochi mesi ad avere la stessa terribile reputazione del famigerato carcere di Tora. Un complesso penitenziario che, come conferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, era stato propagandato come il fiore all’occhiello del regime egiziano, “con standard di detenzione occidentali, e si è rivelato invece - afferma Noury - come tutti gli altri, con decine di miglia di detenuti, via via trasferiti da Tora, che vivono in condizioni disumane e degradanti”. A fronte dell’accusa di “possesso di stupefacenti con intenzione di spaccio” formulata ufficialmente dalla procura cairota, a suo supporto Luigi Giacomo ha solo un avvocato difensore egiziano “che ha già chiesto 30 mila dollari di parcella, non sarebbe mai andato a trovare in cella l’assistito (ma è possibile che gli sia stato impedito, ndr) e sarebbe stato in grado di inviare solo pochi documenti e verbali scritti in arabo”. Che la famiglia sta ancora cercando di tradurre. L’ambasciata italiana in Egitto (che ad aprile ha inaugurato la nuova sede “presso la maestosa Nile City Tower”, come riportano le cronache), “al momento sarebbe riuscita a fare solo una visita in carcere, a febbraio 2024”, mentre “dalle scarse lettere che il giovane è riuscito a mandare ai familiari si evince un peggioramento delle sue condizioni psicofisiche e la famiglia teme che Luigi possa commettere atti di autolesionismo”. Nel frattempo, dopo un paio di udienze del processo, posticipate perché alcuni testimoni dell’accusa non si sarebbero presentati davanti al giudice, “l’ultima udienza del 22 maggio 2024 si è conclusa con un nulla di fatto a causa dell’assenza di un interprete”. Tutto rinviato a fine agosto, con probabile sentenza. Andrea Passeri teme per la vita di suo fratello: “Non lo abbiamo incontrato né gli abbiamo parlato al telefono, ma abbiamo ricevuto solo due lettere che ci hanno allarmato non poco sulle sue condizioni. Un altro mio fratello ha fatto richiesta di andarlo a trovare in carcere ma da un mese e mezzo attende risposta”. La famiglia ha aperto una raccolta fondi su GoFundMe per far fronte alle spese legali. Russia. Mandato d’arresto per Yulia Navalnaya: “Putin è un assassino” di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 10 luglio 2024 Un tribunale russo ha emesso un mandato d’arresto per la vedova di Aleksei Navalny. Per Yulia, diventata presidente dell’Human rights foundation all’inizio di luglio, l’ordine arriva da Putin: “È un criminale di guerra. Il suo posto è in prigione”. Il marito era stato a lungo una spina nel fianco per Vladimir Putin, fino alla sua morte misteriosa in una prigione siberiana a febbraio. Lei, Yulia Navalnaya, non ha avuto il buon gusto (la prudenza?) di defilarsi e continuare la sua vita in silenzio. Così ecco che ora anche contro Yulia, che si trova all’estero, è stato spiccato un mandato di cattura dal tribunale del distretto Basmanny, famigerato per le sue decisioni. Arresto preventivo di due mesi in attesa di un eventuale processo perché fa parte di una “organizzazione estremista”. Stessa accusa che era stata lanciata contro Aleksei e che aveva portato al suo calvario. Yulia ha subito reagito alla decisione del tribunale chiamando direttamente in causa colui che, a suo avviso, è il mandante di ogni cosa. Si è rivolta ai giornalisti di tutto il mondo: “Quando scriverete di questo fatto, non dimenticate la cosa principale. Vladimir Putin è un assassino e un criminale di guerra. Il suo posto è in prigione, e non all’Aia, in una comoda cella con tv, ma in Russia, nella stessa colonia penale e nella stessa cella di due metri per tre in cui ha ucciso Aleksei”. Poi si è chiesta con sarcasmo come mai nel suo caso abbiano saltato la solita procedura (“prima l’etichetta di agente straniero, poi l’apertura di un procedimento penale”) e siano invece partiti subito con l’arresto. Ma perché proprio adesso il sistema repressivo russo se la prende con la moglie di colui che è stato il nemico numero uno del presidente? Già dopo la morte del marito, Yulia aveva annunciato solennemente che avrebbe continuato la battaglia per “una Russia giusta e senza Putin”. Ma pochi giorni fa, il primo luglio, c’è stato un evento che potrebbe aver messo in movimento l’apparato. La Human rights foundation (Hrf) l’ha eletta come suo presidente al posto del campione di scacchi e dissidente russo Garry Kasparov. La Hrf, che annovera tra i fondatori il cacciatore di nazisti Elie Wiesel e il dissidente cecoslovacco Václav Havel, si occupa proprio di promuovere le libertà nei Paesi dove è più a rischio. “In questi momenti difficili”, ha detto Navalnaya accettando l’incarico, “difendere i diritti fondamentali e la libertà è cruciale come non mai”. Un simile mandato di cattura internazionale (che nessuno in Europa eseguirà) era stato all’origine delle ultime vicissitudini di Aleksei. Lui si trovava in Germania per curarsi dopo il tentativo di avvelenamento che aveva subito in Siberia nell’agosto 2020. La magistratura chiese il suo arresto perché non si era presentato a un’udienza a Mosca. Navalny decise di tornare in patria a gennaio del 2021 e fu subito sbattuto in cella, prima con un’accusa, poi con un’altra, fino all’ultima condanna a 19 anni per la creazione di una associazione estremista e altri reati. Quindi il trasferimento in una delle peggiori colonie penali nell’Artico siberiano e poi la misteriosa morte il 16 febbraio scorso. Secondo il sito internet “Mediazona”, l’udienza della corte che ha deciso l’arresto di Yulia si è svolta nel tardo pomeriggio, senza che fosse stata annunciata preventivamente. Forse gli stessi giudici volevano farsi notare il meno possibile.