“Dopo 52 anti di Beccaria, vi spiego perché il carcere minorile così non serve” di Sara Cariglia it.insideover.com, 9 giugno 2024 Mentre va in scena il balletto delle carceri della “follia” al grido di “sono i nuovi manicomi”, un plotone di giovani carcerati si asserragliano per qualche ora, minacciando azioni aggressive, in un’ala dell’istituto penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano, già scosso dagli arresti e dalle sospensioni di 21 agenti, portati in cella perché accusati di pestaggi e torture nei confronti di minori autori di reato. Abbiamo raggiunto lo storico cappellano don Gino Rigoldi. Che avvisa tutti: “Io sono un prete cattolico, ho il segreto sacramentale, ma non sono abituato né a tacere né a ubbidire”. Ben 52 anni di “carcere dei piccoli”. Conoscerà vita, morte e miracoli del Beccaria... “É proprio il caso di dirlo: conosco vita, morte e miracoli di quel luogo. I primi 25 anni sono stati molto intensi. I ragazzi erano solo italiani. Ricordo ancora quando ne arrivavano più di mille all’anno. Negli anni Settanta eravamo il modello italiano e europeo poi, una volta andato in pensione Antonio Salvatore, l’allora direttore, nei vent’anni successivi siamo andati a scatafascio. Dopo di lui si sono succeduti tanti direttori. Chi rimaneva 4, chi 7 mesi. Da poco, però, si è provveduto ad avere una direzione stabile e non più facente funzione”. Chi sono i detenuti del Beccaria oggi? “Allo stato attuale il penitenziario è abitato da circa 60 reclusi, 4 sono italiani, 2 dello Sri Lanka. Tutti gli altri sono arabi. Approdano a Milano in quantità significativa, perché è una meta molto attrattiva. Gli enti privati comunali riescono ad accoglierne solo 600-700. L’altra metà vive in strada e tira a campare facendo reati, soprattutto di sopravvivenza e, non avendo né casa né alloggio, purtroppo, trova consolazione in prodotti chimici che usa per drogarsi”. Quindi i giovani migranti (e non) entrano nella vostra struttura detentiva già con dipendenze pregresse e una storia di abuso da sostanze psicotrope... “Sì, arrivano da noi, come si diceva una volta, “inscimmiati”. La città di Milano offre una quantità enorme di Rivotril, (appartenente alla classe di medicinali chiamata benzodiazepine ndr.) di Lyrica, (indicato per il trattamento dell’epilessia e per trattare il disturbo d’ansia generalizzata ndr.) di Fentanyl, (oppioide sintetico, 50 volte più potente dell’eroina pura ndr.) e una miriade di altre sostanze da sintesi chimica”. Come fate a controllare chimicamente l’umore di persone giovanissime aventi il peso della pena da scontare e per giunta affette da sindrome astinenziale? “Abbiano sempre puntato sulla famosa terapia “calma ragazzi”, altrimenti si berrebbero litri di gocce. Però con l’afflusso di queste nuove sigle, ultima quella americana, il Fentanyl, è un bel casino. Come facciamo a contenere l’astinenza? Stiamo osservando clamorosamente che la nostra cura non serve a niente. Il Rivotril è un sedativo che mi sono preoccupato di far escludere da tutte le carceri lombarde a causa della forte dipendenza che crea. Dell’eroina conosco bene le conseguenze: in 53 anni avrò celebrato 300 funerali. Mentre del Fentanyl e del vasto assortimento di queste altre moderne molecole dagli effetti stupefacenti, sappiamo ancora poco. Vorrei davvero verificare che tipo di astinenza producono”. Qual è il nuovo piano d’attacco? “Con l’ausilio di farmacologi, psichiatri e qualche neuropsichiatra, stiamo già iniziando a ragionare su possibili farmaci antagonisti, un po’ più consistenti, capaci di contrastare la dipendenza da tali sostanze. O facciamo quelli che raddoppiano la dose, ma contribuiremmo a mantenere la dipendenza e, non vogliamo, o facciamo quelli che danno una risposta di contenimento. Come fare, lo vedremo”. Che cosa accade quando i condannati minori di età vengono privati della loro dose di “serenità artificiale”? “Può capitare che abbiano esplosioni di rabbia o di violenza incontrollata e incontrollabile. Soprattutto i primi tempi. L’astinenza è una brutta roba. Pertanto al bando anche i moralisti che dicono “non diamo sigarette ai detenuti perché fanno male alla salute”. Gliene diamo due pacchetti al giorno, maledizione, se questo serve a tenerli tranquilli. Oltretutto in carcere questi adolescenti vivono una doppia frustrazione: sono arrivati in Italia per far soldi e vivere una vita più dignitosa e la prigione è la smentita più clamorosa al senso del loro viaggio. Il personale penitenziario, in rapporto al sogno che avevano, viene visto e percepito un po’ come un nemico naturale”. È anche questa la ragione per la quale la giovane combriccola di “galeotti” del Beccaria ha di recente scatenato l’ultima protesta carceraria? “Bisognerebbe avere la capacità di mediare perché se ci si sovrappone, si diventa a maggior ragione il nemico. Tutto è partito dopo un’ispezione antidroga. I cani cinofili hanno fatto irruzione in un gruppo mossi dal sospetto che alcuni ragazzi potessero avere della droga. Non so se l’abbiano trovata o meno e uno di loro è stato messo in isolamento. Questo ha creato un contenzioso. In carcere funziona così: c’è sempre un leader titolare di un diritto offeso o immaginario e un gruppetto di amici che protesta in difesa di quel capo banda. Ora hanno tutti le orecchie basse, ma partono all’attacco e si sentono degli eroi”. Qualche mese prima che il minorile finisse al centro dell’attuale indagine, una fonte anonima in servizio presso il Beccaria, denunciava così in una inchiesta condotta da me per conto de Il Giornale e InsideOver: “I nostri ragazzi vengono sedati con farmaci somministrati in abbondanza e, spesso, non a scalare. Ovviamente ne chiedono sempre di più perché stanno male, ma gli vengono dati più per tranquillizzare la custodia che per un loro effettivo bisogno”. Vuole dire qualcosa in proposito? “Posso anche verificare ma, onestamente, non mi pare che ci fosse una risposta farmacologica esagerata. Le risse continue tra infermieri e detenuti erano legate perlopiù alle basse dosi di farmaci somministrate. Se poi venissero elargite 20 o 30 gocce di psicofarmaco, non lo so. Ma non erano certamente 200”. Le parole di chi conosce bene le carceri, raccontano di uno spaccio interno di farmaci ansiolitici. Le risulta che ci sia anche al Beccaria? “Mi pare di no, però succede una cosa comica”. Dica... “In passato arrivavano dentro all’istituto dei pezzi di fumo lanciati con la fionda. Per sopperire abbiamo realizzato una seconda recinzione. Credevamo di avere stroncato la cosa, fino a quando sono arrivati i droni. Ci siamo accorti della loro esistenza quando uno di essi si è infranto contro una finestra con all’interno 20 grammi di fumo. Dopo quell’episodio abbiamo pensato di tornare ai vecchi metodi di perquisizione”. Funzionano? “Anche se si fa attenzione suppongo che qualcosina entri comunque. Quei pochi reclusi che escono a lavorare qualche sostanza, “di riffa o di raffa”, credo che riescano a portarla all’interno. Però non mi focalizzerei tanto su questo aspetto”. La stessa testimone, il cui nome resta secretato, si era espressa in modo molto duro riguardo al Beccaria. Ne parlava in questi termini: “Assistiamo a scene dove vediamo ragazzini sedati da psicofarmaci, buttati fuori dalle celle come se fossero una mandria di buoi, di maiali. Spintonati e messi in riga come delle bestie”. Che ne pensa? “Penso che l’espressione “mandria di buoi” sia una opinione. Quello che ho visto tante volte è piuttosto il contrario. Il bue della situazione che veniva spintonato, maltrattato e insultato, era l’agente. I ragazzetti non sono esattamente signorinelle delicate. Facciamo un fifty-fifty”. Lei si è mai accorto delle (presunte) torture perpetrate da alcuni agenti nei confronti dei minori? “Sono un prete cattolico e sono tenuto al segreto sacramentale. Ciò che posso affermare è che quando è capitato di aver visto qualche schiaffo in più, sono sempre intervenuto”. Immagino che non possa spingersi oltre un certo limite di comunicazione, quindi... “Assolutamente no. L’ho spiegato anche al pubblico ministero: lei fa le indagini, io rispondo ad alcune domande, ma ad altre non rispondo. Ho il sacramento, ma dico sempre quel che penso anche quando è sgradevole per chi ascolta, tanto che al Beccaria vengo vissuto un po’ come un rompiscatole. Poi, però, ho dei limiti”. Ritiene che il “personale in divisa” abbia strumenti adeguati per gestire responsabilmente i prigionieri minori di 18 anni e per intervenire in modo professionale ed efficace? “I turni degli agenti di Polizia penitenziaria dovrebbero essere di 8 ore giornaliere, al Beccaria, invece, è facile che siano di 12-16. E 8 ore con una decina di ragazzetti come i nostri sono una esagerazione. Le guardie sono stressatissime e fanno una vitaccia. Qualcuna ha l’età dei detenuti, 23-24 anni, ha alle spalle qualche mese di formazione e solo un’infarinatura di nozioni pedagogiche. Inoltre c’è anche da dire che nel nostro minorile è mancato un comandante per 20 anni, il cui ruolo è fondamentale nel verificare la funzionalità e il benessere dei propri agenti. Se manca, manca. Allora si è andati avanti a fantasia. Ragion per cui mi risulta difficile dire se le guardie sono adeguate o inadeguate”. Dietro alle sbarre del Beccaria c’è carenza di psichiatri, psicologi o di altre figure di riferimento? “Più che altro mancano adulti che si prendano cura dei ragazzi e scarseggia personale capace di relazionarsi a loro. Io mi occupo anche della formazione degli educatori. D’ora in poi punteremo su un programma di riaddestramento alla relazione e dialogo continuo che coinvolgerà anche gli agenti, perché anche loro devono essere un elemento che si qualifica da un punto di vista educativo, insieme a pedagoghi e a formatori. La forza sta nell’equipe e non nel singolo più o meno brillante. D’altronde la relazione non casca dal cielo come il panettone a Natale. Bisogna andare a scuola di relazione. L’addestramento insegna a non aver paura, ma soprattutto a riconoscere i bisogni di questi adolescenti che necessitano anzitutto di essere visti e riconosciuti. Quando si accorgono di valere finalmente per qualcuno, si aprono. Solo così può nascere un rapporto di fiducia”. Qual è il “tallone d’Achille” del Beccaria? “C’è una grande quantità di tempo vuoto, che è poi la debolezza delle carceri in generale. Si è andati avanti per anni a riempire gli spazi con “cazzatine”. Robettine da poco. Dobbiamo essere consistenti, concreti, e dare a questi giovani il segnale che stiamo addestrandoli a fare bene quello per cui sono arrivati qui. Impareranno a fare la pizza. Impareranno la ristorazione, l’agricoltura e a lavorare il cartongesso”. Ora le cose come procedono? “Beh, sono sospese. Credo che tra domani e dopo ci sarà qualche tipo di ridefinizione. Vedremo un po’ come ripartire e con quali numeri. Occorre fare un ordine complessivo che abbia come fino primo la crescita di queste persone. Vogliamo fare tanti articoli 21, perché il carcere non è solo una porta che si chiude, ma una porta che si apre. Sono detenuti, ma io desidero dare loro la possibilità di uscire dal penitenziario di giorno per lavorare”. Anche all’interno della sua una Fondazione? “Certo. Si trova di fronte al Beccaria. Facciamo molta formazione per i ragazzi del quartiere, perché non farla pure per quelli del nostro istituto, in accordo con la sorveglianza? La sera tornerebbero in cella, ma intanto li si terrebbe occupati. Terminata la parte di addestramento, potrebbero giocare una partita a pallone e non stare dentro una gabbia con la porta di ferro chiusa, attaccati alla PlayStation!”. Al netto delle sue parole, pensa che i minorili così come sono servano? “No, andrebbero chiusi. Avremmo bisogno di trovare delle strutture alternative, comunitarie. Noi ci troviamo nella condizione di avere molti ragazzi, al momento 20, a cui i giudici prescrivono la comunità, ma la comunità non c’è. Di conseguenza li teniamo al Beccaria per un po’, dopodiché li rimettiamo in strada”. Con o senza paracadute? “Per molti dei nostri giovanotti non c’è un paracadute o se c’è è finto. A casa mia ne vivono 15, almeno 4 o 5 sono maggiorenni. Potrebbero andare via domani, perché hanno il posto di lavoro e la patente. Ma dove li metto? Dove trovo un monolocale per loro? Chi da una casa a un siriano o a un egiziano ex-detenuto? Uno è diplomato perito chimico e guadagna quasi 3mila euro al mese. Aveva appena contrattato con l’agenzia un appartamento fuori Milano, stava per firmare il contratto, ma glielo hanno stracciato. Sa perché? Perché è nero! Se gli studenti protestano con le tende davanti al Politecnico di Milano contro il caro affitti, i miei ragazzi cosa devono fare per avere un tetto?”. Ha in testa qualche idea? “In Francia esiste il modello delle “jeunes maisons”. Si tratta di case che ospitano 15-20 ragazzi e ragazze senza dimora o provenienti da comunità, nelle quali c’è un educatore e dove lanciano diverse iniziative culturali. Vorrei fare un po’ di maisons da queste parti, che non somiglino però a quegli squallidissimi pensionati operai di una volta dove i giovani andavano a vivere anonimamente. No! Pensavo piuttosto a dei complessi misti, con all’interno delle attività sportive e musicali rappresentate da una specie di tutor, un calciatore famoso o un cantante importante. Ne parlavo proprio qualche giorno fa con Lorenzo Jovanotti che, peraltro, ho sposato”. Servirebbero degli spazi però... “Sì. Il Comune di Milano, che spende in media 30 milioni di euro l’anno per le comunità, possiede una serie di ville e villettine che potrebbero essere adibite a questo progetto. Perché non investire un paio di milioni anche per un’iniziativa di questo tipo?”. Pensa che il Comune meneghino accoglierà il suo appello? “Non lo so, ci spero. É una idea colorata a una risposta di emergenza. Ma Milano ha più soldi che progetti!”. Duemila ventilatori per i detenuti di 30 penitenziari L’Azione, 9 giugno 2024 Grazie alla Chiesa italiana e all’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri. Ricordiamo le parole che papa Francesco ha rivolto ai detenuti nella residenza di Santa Marta nell’ottobre 2021: “Chi ha sbagliato non resti sbagliato”. Non sono parole casuali o di rito, non sono nemmeno parole riferite unicamente ai detenuti, ma all’intera collettività: è responsabilità di tutti offrire un soffio di speranza a chi risiede nell’ombra affinché possa tornare, un passo dopo l’altro, a camminare nella luce. Talvolta, sono le piccole attenzioni e le cose semplici che ti ricordano che esisti e che la tua vita è importate quanto quella di ogni altro essere umano. Le attenzioni le ritroviamo nelle buone parole, nell’ascolto paziente; altre volte in gesti - piccoli o grandi - che si trasformano in progetti o iniziative. La Chiesa desidera ricordare la propria vicinanza ai detenuti, ribadire che c’è vita oltre quelle sbarre e che loro sono nella condizione di poter sperare che un giorno, dopo il percorso riabilitativo, quelle porte possano riaprirsi. Dentro a questa visione e grazie all’8xmille, la Chiesa cattolica, in collaborazione con l’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri e il sostegno della Presidenza Cei, ha previsto la donazione in 30 istituti penitenziari sul territorio nazionale di oltre duemila ventilatori per i detenuti, soprattutto i più fragili delle sezioni “Infermeria”, per affrontare il caldo estivo con un minor disagio. Giustizia riparativa. “Chiamati a fare opere segno che aprono nuove vie” di M. Elisabetta Gramolini agensir.it, 9 giugno 2024 Per riparare a un danno non basta solo la volontà di chi l’ha commesso, ma serve anche la disponibilità ad accogliere da parte di chi il torto l’ha subito. Da questa base partono le fondamenta della giustizia riparativa, recentemente regolata dalla riforma Cartabia, sulla quale la Caritas italiana ha dedicato un percorso costituito da più tappe in varie parti di Italia. Alcune delle iniziative sono state illustrate in apertura del convegno promosso dalla stessa Caritas, in programma fino a oggi a Roma, in cui non sono state tralasciate le criticità, Per riparare a un danno non basta solo la volontà di chi l’ha commesso, ma serve anche la disponibilità ad accogliere da parte di chi il torto l’ha subito. Da questa base partono le fondamenta della giustizia riparativa, recentemente regolata dalla riforma Cartabia, sulla quale la Caritas italiana ha dedicato un percorso costituito da più tappe in varie parti di Italia. Alcune delle iniziative sono state illustrate in apertura del convegno promosso dalla stessa Caritas, in programma fino a domani a Roma, in cui non sono state tralasciate le criticità. “La giustizia riparativa è un paradigma”, sottolinea Patrizia Patrizi, ordinaria di Psicologia giuridica e pratiche di giustizia riparativa presso l’Università di Sassari, presidente dell’European forum for restorative justice. “Dobbiamo ripeterlo - continua - perché il cambiamento è difficile. Non è un modello e non è limitato a un sistema penale, se lavoriamo con le comunità riusciamo ad adottare il cambiamento”. A novembre dello scorso anno, in occasione della Settimana internazionale della giustizia riparativa, tenuta a Tallinn in Estonia, sono stati presentati gli eventi italiani, molti organizzati da Caritas: “I progetti - riconosce Patrizi - hanno riscosso molto interesse. Bisognava iniziare e questo ha portato un cambiamento nel territorio italiano”. La docente spiega inoltre i passi necessari per attivare il paradigma della giustizia riparativa: “Invece di allontanare ed escludere chi ci minaccia, occorre mettere insieme per alleviare la sofferenza attraverso il dialogo in tutti i luoghi della nostra vita”. Durante lo scorso anno, Caritas ha promosso un progetto sperimentale, in collaborazione con la Scuola romana di psicologia giuridica PiscoIus, che ha coinvolto otto Caritas diocesane, impegnate in un percorso di 87 ore di formazione, suddivise in cinque appuntamenti residenziali, ai quali se ne sono aggiunti dieci online di confronto e crescita. Le otto iniziative hanno complessivamente attivato, nei propri territori, 137 diversi percorsi, realizzando 203 incontri di sensibilizzazione, 356 di formazione e 94 interventi di giustizia riparativa, per un totale di più di 1.580 ore di attività. “L’obiettivo è stato abbattere il muro di indifferenza che esiste fra gli istituti penitenziari e il resto del territorio”, racconta Valentina Ilardi, referente del progetto nella diocesi di Napoli. Per l’area di Agrigento, parla Annalisa Putrone: “Ci siamo trovati in un contesto che non conosceva la giustizia riparativa e nel momento in cui le persone ascoltavano abbiamo assistito a un cambiamento tangibile. C’è stata una apertura all’ascolto, una crescita dell’interesse, dalle parrocchie alle scuole, agli istituti penitenziari. Siamo partiti da una attività teorica a una più pratica. L’esperienza ci ha consentito di comprendere che il percorso è difficile ma possibile”. In tutte le testimonianze, emerge l’esigenza di fare conoscere l’istituto della giustizia riparativa e di coinvolgere le persone. “La competenza nella gestione del conflitto non è degli esperti ma, giocata in maniera diversa, da tutte le persone che partecipano alla risoluzione del conflitto. L’importante è che l’errore venga riconosciuto, per affrontarlo in maniera diversa”, ricorda Andrea Molteni, sociologo della Caritas ambrosiana. “La comunità su cui si lavora - spiega - è territoriale, ossia vive dentro dei confini definiti, oppure è una comunità di relazioni perché le persone sono legate da scopi o dall’obbligo di ricambiare un dono. Le comunità non sono solo un paradiso perché possono essere identitarie e espulsive verso le persone straniere o le persone che commettono reati. Non è un idillio e va capito come si usa il termine ‘comunità”. Sulla necessità di coinvolgere nei progetti di formazione i docenti delle scuole, interviene Maria Costanza Cipullo, referente per l’educazione alla salute alla legalità e all’educazione finanziaria del del ministero dell’Istruzione e del Merito. “Sono contenta - afferma - che facciate degli interventi con i ragazzi ma credo che dovremmo parlare di più con i docenti che hanno in mano la situazione, per dare loro gli strumenti per gestire i conflitti e insegnare ai ragazzi a stare insieme. Come ministero, con il protocollo stretto con la Caritas stiamo portando avanti nelle scuole l’ascolto e la conoscenza”. Secondo Gherardo Colombo, presidente della Cassa delle ammende, intervenuto con un videomessaggio, con la giustizia riparativa le persone coinvolte riescono a comporre il conflitto in modo che il responsabile diventi consapevole e la vittima sia riparata dal male subito. “Siamo abituati - osserva l’ex magistrato - a ritenere che i rapporti siano verticali e che il male si elida attraverso l’applicazione del male”. Il futuro della giustizia riparativa “dipende - prosegue - dall’impegno che le persone ci mettono e prima ancora dalla pratica perché non è semplice e coinvolge le emozioni. Affinché abbia un futuro, è necessario che la giustizia sia praticata. Quello che fa Caritas è essenziale e lo fa con la dovuta attenzione. Sarebbe importante che Caritas promuovesse la giustizia riparativa attraverso iniziative come questa, infatti, quanto più si diffonde la giustizia riparativa tanto più ci sarà possibilità di ascoltarsi reciprocamente”. Chi ricorda infine l’impegno di Caritas è il suo direttore, don Marco Pagniello: “Abbiamo un’opportunità perché intorno al povero, che non è solo il povero economico, ma è anche la persona che non ha relazioni, può nascere una comunità. Ricomporre legami - prosegue - è un tema che fa parte della nostra storia, la quale affonda le sue radici nel Vangelo e per la quale non dobbiamo temere di dire chi siamo. Questo non significa che non mettiamo da parte altre realtà, ma l’identità è chiara”. “Se la giustizia riparativa è un paradigma - spiega - lo dobbiamo diffondere in tutte le azioni che la Caritas porta avanti. Ci sono altri paradigmi che seguono gli stessi obiettivi e usano gli stessi strumenti, ma questo paradigma deve lasciarsi contaminare negli altri ambiti di servizio”. “Usciamo fuori - l’invito - dal nostro ambito Caritas rimanendo nella Chiesa. La nostra identità, la famosa via da percorrere, il ‘non fare da soli ma insieme’, parte per prima cosa da casa nostra e poi cerca di allargarsi. I fatti possono a volte parlare più di tante chiacchiere perciò siamo chiamati a fare opere di segno che annunciano e aprono nuove vie”. Csm, il destino segnato dei togati indipendenti: l’isolamento di Simona Musco Il Dubbio, 9 giugno 2024 Il record di Nino Di Matteo: l’unico senza una presidenza nell’intero quadriennio. Poi c’è quello dell’avvocato ligure: tante commissioni per tenerlo “occupato”. “Sì al sorteggio”. “Confermo tutto. Anche nei miei punti su una possibile riforma del Csm c’è il sorteggio per la composizione delle commissioni”. Il commento è di Stefano Cavanna, ex membro laico del Csm. E ciò che conferma è la lottizzazione delle Commissioni al Consiglio superiore della magistratura, dove l’ultimo turnover ha confermato la geografia delle correnti, penalizzando l’unico indipendente (insieme ad un altro agguerrito magistrato, Roberto Fontana) del Consiglio, Andrea Mirenda, “confinato” in una sola Commissione come semplice componente. La si potrebbe chiamare la solitudine dei senza corrente, parafrasando Paolo Giordano. Un po’ com’era successo anche a Nino Di Matteo nel corso della scorsa consiliatura, l’unico consigliere - e non a caso il più agguerrito tra i togati in Consiglio - al quale non è mai stata attribuita una presidenza di Commissione, nonostante la disponibilità manifestata dallo stesso a presiedere la Prima - quella per le incompatibilità - o la Quinta - quella dove si decidono le nomine. Commissione, quest’ultima, molto calda nel periodo in cui il pm palerminato si trovava a Palazzo Bachelet, dopo la devastazione portata dall’affaire Palamara (che cambiò profondamente gli equilibri di quella consiliatura) e nella quale, alla fine, non fu neppure inserito come componente. La battaglia contro gli accordi spartitori, dunque, Di Matteo se la giocò tutta in plenum, dove assieme al consigliere Sebastiano Ardita ha sempre denunciato - talvolta scontrandosi con i colleghi - ipotesi di inciuci e logiche correntizie. E fu suo il “merito” di svelare il caso verbali, dopo l’invio di un plico anonimo con le dichiarazioni dell’avvocato esterno di Eni Piero Amara. Era anche per evitare la lottizzazione delle Commissioni che l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva tentato di proporre il sorteggio - poi depennato - e introdotto il divieto di formare gruppi all’interno del Csm, regola che, all’epoca, fu fortemente criticata proprio dalle correnti e che era stata pensata per attenuare il legame tra le associazioni di magistrati e l’operato dei componenti togati del Consiglio, evitando ingerenze dirette nei lavori di Palazzo Bachelet. Ma la riforma Cartabia cancellò tutto, compresa una regola di buon senso che ora in molti invocano nuovamente. “Il tema del sorteggio delle Commissioni è importantissimo - spiega al Dubbio Cavanna - perché in questo modo si rompe il giochino del mantenimento dell’equilibrio consiliare. Quando io discutevo di questo argomento coi colleghi del Csm mi veniva detto che in una certa Commissione non potevo starci perché, ad esempio, c’era il collega Alessio Lanzi, anche lui espressione del centrodestra, anche se io raramente votavo come Lanzi. Ma la regola era questa. Ed è rimasta questa”. Insomma, un vero e proprio “meccanismo” che prescinde dal colore politico del Consiglio: la regola esiste ed esiste grazie a tutti. E si applica. “Mirenda è stato isolato con una sola Commissione e questo è uno dei modi possibili. Con me, invece, è andata nel modo opposto: mi caricavano di commissioni come una molla, tutte di servizio - spiega ancora -. Negli ultimi due anni ne ho avute cinque, tutte commissioni pesanti. Ero presidente dell’Ottava, che nessuno voleva. Io chiedevo ogni anno Prima e Quinta e non mi è mai stata assegnata, nemmeno come componente. Allora a quel punto ho usato la tattica opposta: chiedevo qualcosa per non averla”. Il sorteggio sulle Commissioni sarebbe dunque “devastante per le correnti”, spiega l’ex consigliere. “L’equilibrio consiliare sarebbe scompaginato”. Ma questa soluzione, da sola, non basterebbe a risolvere il problema. “Un’altra cosa che farei è rendere pubbliche le Commissioni. Perché devono essere segrete? - si chiede - Non si capisce. Anche se, devo ammettere, molto spesso si trovavano scuse per segretare le sedute. Le cose più sporche diventano segrete”. Ma tra le venti idee di Cavanna ce n’era anche un’altra: la modifica del Comitato di Presidenza, “che rappresenta un centro di gestione e persegue una politica. È un potere all’interno del Consiglio. Oggi la nobiltà giuridica della magistratura viene riconosciuta dal ministro Carlo Nordio con l’Alta Corte: non sarebbe un’eresia pensare ad un rappresentante dei laici in seno al Comitato”. Vittime del caporalato. Il ricordo di Paola Clemente a Pistoia di Giovanni Fiorentino La Nazione, 9 giugno 2024 La cerimonia ieri con le associazioni Il Granello di Senape, Libera e altri volontari. Un esempio e un monito per la giustizia. All’iniziativa anche il vescovo Tardelli. Nel pomeriggio di ieri, presso l’associazione il Granello di senape, ha avuto luogo l’iniziativa “Il Giardino della memoria e il ricordo di Paola Clemente”, in via Collegigliato 36. Il Giardino della memoria nasce nel 2014 dall’incontro dell’associazione il Granello di Senape con Libera Pistoia e dalla volontà di dedicare uno spazio alla memoria delle vittime innocenti delle mafie, non solo a quelle più note ma anche a quelle più sconosciute e dimenticate. Ogni associazione, dopo aver donato una pianta intitolata ad una vittima, ha il compito di curarla e farla crescere nel tempo. Quest’anno la “cura del Giardino” è stata dedicata a Paola Clemente, bracciante agricola pugliese vittima di caporalato, morta il 13 luglio 2015 a soli 49 anni, per la quale memoria è stata donata una pianta dal Coordinamento Donne Spi Cgil Pistoia. La memoria dunque non vuole essere soltanto commemorazione ma anche stimolo alla consapevolezza e all’impegno nel presente a partire dall’esempio di chi è stato ucciso. La messa a dimora delle piante è stata realizzata inizialmente con la collaborazione dell’allora Corpo Forestale e ha coinvolto, oltre a Il Granello di Senape e Libera, anche altre associazioni, tra le quali Amici Di Francesco, Associazione Palomar, Legambiente, Parrocchia di Santomato, Associazione L’Acqua Cheta e i Giovani di Libera Pistoia. Dopo i saluti iniziali, a cui ha preso parte anche il vescovo di Pistoia Fausto Tardelli, sono state brevemente ripercorse le storie delle vittime alle quali è intitolato per ognuna un albero da frutto, per poi arrivare al momento della donazione della pianta in ricordo di Paola Clemente da parte della Coordinamento Donne Spi Cgil Pistoia. Successivamente ha avuto luogo un incontro in cui sono intervenuti Alberta Bresci a nome del Coordinamento donne Spi Cgil, Silvia Biagini, Segretaria Camera del Lavoro Pistoia, e Domenico Gallo, presidente di Sezione emerito della Corte di Cassazione. Assieme a loro anche Alessandra Pastore, Referente Coordinamento provinciale Libera Pistoia, che si è occupata di coordinare l’evento. Le piante di cui il Giardino è costituito sono state dedicate a: Angelo Vassallo, Caterina e Nadia Nencioni, Dario Capolicchio, Don Peppe Diana, Bambini della Terra dei fuochi, Emanuela Setti Carraro, Giancarlo Siani, Emanuela Loi, Giuseppe Letizia, Giuseppina Savoca, Lea Garofalo, Pio La Torre, Placido Rizzotto, Peppino Impastato, Rita Atria, Rossella Casini, Rosario Livatino, Hyso Telharaj, Giuseppe Di Matteo, Iqbal Msih, Nicholas Green, Nino e Ida Agostino, Roberto Mancini, Renata Fonte, Emnuela Sansone, Maria Concetta Cacciola. Gratuito patrocinio, i carichi pendenti per reati patrimoniali non escludono il beneficio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2024 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 22854/2024, affermando un principio di diritto. Più garanzie per l’imputato di ottenere il beneficio del gratuito patrocinio in caso di presentazione di una dichiarazione di reddito sotto soglia. La Corte di cassazione, sentenza n. 22854/2024, affermando un principio di diritto, ha infatti chiarito che il tribunale non può ritenere la dichiarazione inattendibile semplicemente perché il richiedente “sarebbe gravato da carichi pendenti per reati contro il patrimonio” peraltro “non meglio indicati” e perché non è statO depositato il “certificato del casellario giudiziale”. Per la IV Sezione penale non si tratta di “specifici ed oggettivi elementi fattuali” di portata tale “da far ritenere che l’imputato percepisse redditi illeciti nel corso dell’anno 2019”. Accolto dunque il ricorso di un uomo contro l’ordinanza del Presidente del Tribunale di Sciacca che aveva rigettato la sua opposizione contro il decreto del GIP che ne aveva respinto la domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. L’imputato con istanza autocertificata aveva attestato la consistenza del nucleo familiare e un reddito 6.573,80 euro, inferiore a quello stabilito dalla legge per l’ammissione al beneficio. Il GIP, tuttavia, aveva considerato “rilevante” anche il reddito non rientrante nella base imponibile “perché tratto da attività illecita”, valorizzando “almeno quattro procedimenti per reati contro il patrimonio”. Procedimenti che “facevano presumere che l’imputato si alimentasse con attività illecite e che avesse un reddito superiore”. L’imputato si è rivolto alla Suprema sostenendo che il ragionamento del presidente del Tribunale segue “uno schema logico presuntivo basato sulla circostanza, negativa, della mancata produzione del certificato del casellario giudiziale, in modo da inferirne il ragionevole convincimento della esistenza di redditi occultati derivanti da attività illecita”. Ma, prosegue, si tratta di un ragionamento di “portata meramente congetturale” che nasconde una “sostanziale elusione dell’obbligo di motivare i provvedimenti giudiziari”. E la Cassazione gli ha dato ragione chiarendo in primis le ragioni del proprio rigore sul punto. Nell’ammissione al diritto alla difesa gratuita, argomenta la Corte, “pur non difettando un profilo di carattere patrimoniale, acquista innegabile peso la circostanza che il diritto di cui si discute si riverbera sull’effettivo esercizio del diritto di difesa nel processo penale”. “In tale ambito, quindi, appare razionale e conforme ai principi dell’ordinamento ritenere che, dato il carattere accessorio della controversia rispetto al processo penale, debbano trovare applicazione, fin dove è possibile, i principi e le regole dell’ordinamento penale”. Dunque, a seguito del rigetto dell’istanza, il ricorrente può devolvere l’intera questione al giudice dell’opposizione che dovrà applicare la regola del giudizio prevista dall’art. 96 Dpr n. 115/2002, secondo la quale l’istanza va respinta “se vi sono fondati motivi per ritenere che l’interessato non versa nelle condizioni di cui agli articoli 76 e 92 del Dpr n. 115/2002, tenuto conto delle risultanze del casellario giudiziale, del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle attività economiche eventualmente svolte”. Un giudizio che però “comporta per il giudice l’obbligo di motivare in relazione ai contenuti probatori, anche indiziari, acquisiti al processo”. Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto: “Il giudizio di cui all’art. 99 Dpr n. 115/2002 avverso il provvedimento con cui il magistrato competente rigetta l’istanza di ammissione non è a critica vincolata e consente una piena devoluzione delle questioni relative all’accertamento dei presupposti del beneficio al giudice competente”. “A seguito del rigetto dell’istanza, a prescindere dalle ragioni indicate nel provvedimento, posto che il ricorrente può devolvere l’intera questione al giudice dell’opposizione, lo stesso giudice dovrà applicare la regola di giudizio corrispondente a quella prevista dall’art. 96 Dpr n. 115/2002, con l’obbligo di procedere alla valutazione composita degli indici ivi indicati, compresi quelli indiziari (nel rispetto delle previsioni dell’art. 192 cod. proc. pen.), secondo le acquisizioni del processo e senza dare ingresso a presunzioni assolute o a criteri di gerarchia tra le medesime fonti di prova”. Campania. Fare luce sull’emergenza delle carceri campane retesei.com, 9 giugno 2024 L’appello dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale della Regione Campania del garante regionale Samuele Ciambriello, dei garanti provinciali di Avellino Carlo Mele e di Benevento Patrizia Sannino e del garante comunale di Napoli Don Tonino Palmese, dopo la loro riunione, in vista della Conferenza dei Garanti territoriali d’Italia del prossimo 11 giugno a Roma, per fare luce sull’emergenza delle carceri campane ed elencare alcune proposte concrete per le criticità più preoccupanti: dal sovraffollamento, al numero dei suicidi e agli atti di autolesionismo, alla presenza dei detenuti tossicodipendenti e malati di mente nelle carceri campane. La prima preoccupazione riguarda le detenute del carcere di Pozzuoli, evacuate a seguito del fenomeno sismico. I Garanti Ciambriello, Mele, Sannino e Palmese chiedono che al più presto possano tornare tutte in un unico carcere a Secondigliano: “Vogliamo che ci sia una risposta univoca per tutte le detenute a Napoli, per il corpo di polizia penitenziaria, per gli educatori, gli amministrativi e gli operatori sociosanitari. Le detenute sono state trasferite tra Secondigliano, Avellino, Lauro, Benevento, Salerno, Santa Maria Capua Vetere, altre addirittura fuori regione, tra Milano, Venezia e Perugia. Tutto ciò è sintomo di superficialità nella trattazione di un problema che era già noto da tempo. La Campania è la seconda regione per indice di sovraffollamento, con la presenza di 2.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili. La prima è la regione Lombardia. Pertanto, riteniamo necessarie misure alternative al carcere e riteniamo urgente approvare immediatamente misure deflattive. In Campania sono 800 le persone con una pena residua di sei mesi e 2000 con una pena inferiore ai due anni.” Un’altra emergenza denunciata dai Garanti territoriali è quella relativa alle mancate traduzioni dei detenuti per effettuare visite mediche in ospedale: “Si tratta di diritti fondamentali che vengono ripetutamente negati! Molti i ristretti che pur avendo prenotazioni per visite e operazioni non vengono tradotti negli ospedali per mancanza di personale. Ci sono molti detenuti in attesa di REMS e serve con un’urgenza l’apertura di una nuova REMS in provincia di Napoli.” Denunciano anche: “Tanti spazi inutilizzati in carcere come le A.T.S.M. (Articolazioni a tutela della salute mentale) del carcere di Benevento e di Sant’Angelo dei Lombardi, con una disponibilità rispettivamente di posti sei e dieci, entrambe chiuse. Motivo per cui, le persone con disagio psichico che potrebbero essere seguite da personale medico specialistico, usufruire di spazi adeguati alle loro esigenze, restano invece in sezioni comuni.” L’appello è rivolto anche alle Direzioni e al Prap: “I detenuti hanno bisogno di utilizzare campi sportivi, palestre, aree verdi lì dove presenti, e di avere più telefonate sin da subito e più progetti di trattamento socio lavorativo per evitare che i detenuti restino per più di 20 ore nelle celle.” Conclude il garante campano Samuele Ciambriello: “Chiediamo soluzioni immediate alla comunità penitenziaria, alla politica, alle direzioni delle carceri, alle direzioni sanitarie. Il carcere ha bisogno di risposte immediate, urgenti e concrete, sia nella contingenza che nell’urgenza, sia a medio che a lungo termine. Non c’è più tempo!” Caltanissetta. Detenuto suicida, alla sbarra direttrice e medico del carcere di Vincenzo Falci castelloincantato.it, 9 giugno 2024 Omicidio colposo e mancata vigilanza. Sono le contestazioni che pendono su un dirigente di carcere e un medico per una morte in cella. Quella di un detenuto nisseno. Parentesi che vedrà sul banco degli imputati la direttrice della casa di reclusione di Augusta e il medico dell’istituto - assistiti dagli avvocati Valerio Vancheri, Massimo Vitale e Michelangelo Mauceri - i soli sui quattro iniziali indagati per i quali è stata disposta l’apertura di un processo. Tutto ruota attorno al decesso del quarantenne nisseno Emanuele Puzzanghera, indicato come “detenuto fragile”, che s’è tolto la vita in carcere la sera del 14 maggio 2021. Un proposito che, in qualche modo, durante qualche colloquio avrebbe anche manifestato. Lui che ai magistrati, nel suo breve periodo di collaborazione con i magistrati nisseni, aveva anche rivelato un presunto progetto d’attentato contro il giudice Giovanbattista Tona, di cui avrebbe appreso in carcere. Poi il programma di protezione gli è stato revocato dal servizio centrale perché è stato arrestato per una serie di furti in appartamento a Udine. E adesso il padre, Giuseppe Puzzanghera, le sorelle Rosa e Maria Vanessa Puzzanghera e la compagna, Catena Tortorici - assistiti dall’avvocato Ernesto Brivido - si sono costituiti parti civili. Inizialmente ai due imputati è stato contestato il reato di istigazione al suicidio. Ma poi la procura ha riformulato l’imputazione e ne ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio per mancata vigilanza e omicidio colposo. Firenze. “Città e carcere, serve senso di comunità” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 giugno 2024 A colloquio con il nuovo arcivescovo Gambelli e l’imam di Sollicciano Al Zeqri. Il nuovo arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli e l’imam di Sollicciano Hamdan Al Zeqri dialogano sul carcere e sulla necessità di riportare la speranza in cella, a partire dalle profonde criticità del penitenziario fiorentino. Un luogo conosciuto da entrambi visto che Gambelli è stato cappellano per alcuni mesi prima di essere nominato arcivescovo. Nella prima intervista rilasciata nella sua nuova veste di arcivescovo, Gambelli, prima di affrontare il tema carcere, si sofferma brevemente sulla città in senso più ampio. Secondo lei a Firenze l’assalto del turismo e gli interessi privati hanno fatto perdere il senso di comunità? E come si fa a recuperarlo? “La nostra è una città dove effettivamente il senso di comunità si sta perdendo un po’, motivo per il quale ritengo che sia importante puntare sulla tradizione del volontariato, riscoprirlo e valorizzarlo, superare la burocrazia e le leggi che talvolta lo ostacolano e scoraggiano le persone. Tutto questo per mettere al primo posto umanità e fraternità, questo può aiutarci a diventare più solidali tra noi, in questo ho molta speranza nei giovani, che purtroppo noi adulti non ascoltiamo abbastanza”. La sicurezza secondo lei è uno dei temi principali della città? “È un tema importante, che deve essere affrontato come un cammino quotidiano, partendo dal rispetto delle persone: per rendere sicura una città bisogna prendersi cura delle persone che la vivono, questo vale anche per il carcere, che non può essere soltanto una discarica sociale”. Tema Sollicciano, qual è la situazione del carcere che avete riscontrato negli ultimi tempi? Gambelli: “Impressiona vedere che tante persone nel carcere di Sollicciano siano abbandonate a se stesse. Molti detenuti hanno problemi di natura psichica e quello che viene fatto per aiutarli è semplicemente dare loro delle pasticche per addormentarli e renderli innocui, questo fa male”. Al Zeqri: “Sollicciano è un luogo che sembra una discarica sociale, un luogo non luogo, dove le persone non riescono ad essere distinti dal delitto che hanno commesso, ma bisogna sempre ricordare che sono persone, oltre che detenuti, anche se talvolta ce lo dimentichiamo. Basti pensare che soltanto pochissime persone recluse tra quelle che ho incontrato negli ultimi giorni erano al corrente della possibilità di votare alle elezioni”. Qual è secondo voi il problema principale di Sollicciano? Gambelli: “C’è un problema di rieducazione. Oggi è difficile fare educazione fuori, figuriamoci fare rieducazione dentro al carcere, tante volte si alza bandiera bianca davanti a persone che sembra impossibile rieducare, però manca l’immaginazione e l’odio nasce proprio dalla mancanza di immaginazione. Non riusciamo più a parlare con le persone, vedere il valore in ognuna di loro, tendiamo invece ad abbandonarle e allora non ci si può meravigliare se qualcuno si toglie la vita o tenta di farlo”. Al Zeqri: “A Sollicciano permangono troppe persone detenute con problemi psichiatrici, non dovrebbero stare in cella ma scontare misure diverse in strutture destinate alle fragilità. E invece restano in carcere e, come ha detto don Gherardo, vengono infarciti di pasticche per diventare innocui, ma così si toglie dignità e speranza e quando a una persona gli togli la speranza, è come se si ammazzasse vivo”. Quali soluzioni per superare le tante difficoltà di Sollicciano? Gambelli: “Serve investire sulle misure alternative, anche per diminuire il sovraffollamento delle carceri. Se non vengono attuate queste misure, è forse anche perché esiste un pregiudizio verso queste persone, ma non può esistere solo la giustizia vendicativa, serve anche quella riparativa. Penso al carcere di Bollate e al suo ristorante, dovremmo cercare di investire anche a Firenze su questi progetti”. Al Zeqri: “Qualsiasi cosa di sociale, culturale o spirituale si porti dentro al carcere, viene apprezzata tantissimo dalle persone detenute, figuriamoci se portiamo il lavoro. È quindi prioritario investire per portare lavoro ai detenuti. Anche perché non può esserci un carcere come questo a Firenze perché questa città è la culla della civiltà e del Rinascimento e non può permettersi di avere questo penitenziario dove purtroppo continuano a dilagare tra i detenuti atti di autolesionismo e suicidi”. Pavia. Il carcere “in condizioni igienico-sanitarie drammatiche”. Il rapporto choc di Antigone di Manuela D’Alessandro agi.it, 9 giugno 2024 Celle sovraffollate, con ridotta aerazione e illuminazione. In alcune è forte l’odore di urina. E poi ci sono i detenuti con problemi psichici abbandonati a se stessi. Il carcere di Pavia, dove dall’inizio dell’anno già due persone si sono tolte la vita, si trova “in condizioni di sovraffollamento e igienico-sanitarie drammatiche”. Lo riferiscono gli esponenti dell’Osservatorio Antigone che hanno visitato la struttura, evidenziando quei casi in cui la dignità dei detenuti sarebbe violata. “In particolare questa situazione - spiegano - si riscontra nel reparto osservazione-nuovi giunti al piano terra, dove un detenuto affetto da sclerosi multipla dorme in una cella con il letto con le spondine assistito dal compagno su base volontaria; al primo piano il reparto ‘isolamento’ presenta una scarsa illuminazione e aerazione. Un detenuto nell’ultima cella si trova in una stanza in cui sono state rotte le pareti della sala bagno. Dalla cella, da cui già perveniva un forte odore di urina, durante la visita Il detenuto ha rotto il wc con un calcio, riversando altra urina in tutta la cella. Le condizioni dell’intero reparto, dove si trovano 17 persone, sono inaccettabili, sia per quel che riguarda gli spazi comuni, sia per quel che concerne le condizioni delle stanze”. A impressionare i visitatori c’è anche l’igiene molto scarsa dei reclusi con problemi di salute mentale. “Le persone fragili non vengono assistite né aiutate da questo punto di vista” dice all’AGI Valeria Verdolini, annunciando che una relazione di quanto riscontrato durante la visita sarà trasmessa alle autorità competenti. “Le 12 persone dell’Articolazione di salute mentale presenti sono assistite ma non quotidianamente per quel che concerne la manutenzione della cella e l’igiene personale. Ancora, nel reparto di isolamento, una delle sezioni destinate ai protetti, abbiamo incontrato un detenuto che presentava bruciature sulle braccia, aveva scaricato negli indumenti e tremava. In generale, in questi reparti le persone con gravi fragilità psichiche non sono assistite dal punto di vista della cura personale e tanto loro quanto i reparti versano in condizioni non accettabili per una custodia dello Stato”. “Ciò che sollecitiamo - concludono gli esponenti di Antigone - è una verifica delle autorità competenti e, se necessaria, una chiusura del reparto di isolamento disciplinare del primo piano, in assoluto quello che presenta le condizioni più gravi, oltre a un ripensamento della gestione igienica della fragilità in istituto”. Firenze. Elezioni amministrative, don Vincenzo Russo: “Nessuno parla del carcere” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 giugno 2024 “Nei programmi presentati dai vari candidati a sindaco e nelle intenzioni propagandate dai vari partiti politici a loro sostegno, non si è mai fatta vera menzione di Sollicciano. Eppure qui, ogni giorno, come più volte i mezzi di informazione hanno rilevato, si consuma una “morte per pena”, generata da condizioni di detenzione al limite dell’indescrivibile”. Sono le parole di don Vincenzo Russo, responsabile dell’Ufficio diocesano per la pastorale in carcere ed ex cappellano del penitenziario fiorentino. Secondo don Russo “è difficile accettare che, nel momento in cui ci si presenta quali possibili nuovi amministratori della città di Firenze, non si riservi alcuno spazio né parola per il carcere, parte integrante della stessa città. Nessuno conosce quali siano gli impegni che i vari partiti politici intendano assumere nei confronti di Sollicciano o quali progetti intendano mettere in campo per porre fine alla sua disastrosa situazione in cui lì vivono le persone detenute. È ovvio che si cerchi di evitare con cura ciò che non attira consenso, ciò che non interessa ai più; ma questa cosa è ingiusta e inaccettabile”. Como. Al carcere del Bassone serve l’attivismo del Terzo settore di Luigi Nessi ecoinformazioni.com, 9 giugno 2024 La visita di un deputato e un senatore di Alleanza Verdi e Sinistra al Carcere del Bassone il 7 giugno ha riportato alla luce le problematiche di quel luogo: sovraffollamento, mancanza di organico nella Polizia penitenziaria, carenze a livello sanitario, e soprattutto la scarsità di personale educativo. Questo personale dovrebbe impegnarsi affinché le persone recluse, come stabilito dalla nostra Costituzione, possano rientrare nella società dopo aver scontato la propria pena. Nonostante queste criticità, l’impegno continuo di chi lavora in queste condizioni non viene mai meno. Oltre alle questioni evidenziate durante l’ispezione parlamentare che la politica, in particolare quella nazionale, dovrebbe risolvere, vorrei segnalare una mancanza di impegno della città e della sua società civile verso il Bassone. Su questo vorrei aprire un dibattito. Per esempio, poche sono le proposte di lavoro offerte ai detenuti dall’esterno, cosa che in molte altre città avviene con maggiore frequenza. Anche il coinvolgimento delle associazioni sportive e culturali è insufficiente. Inoltre, chi esce dal carcere spesso non trova un luogo di accoglienza o una casa, specialmente se non ha una famiglia che lo aspetta. Le amministrazioni potrebbero proporre lavori socialmente utili, ma anche qui l’impegno è scarso, così come il volontariato. Queste mancanze evidenziano politiche inadeguate, ma anche una scarsa attenzione da parte della società civile e della città. Tali riflessioni sul carcere sono collegabili a molte altre situazioni che dovrebbero interpellare la politica, la nostra città e il nostro cuore. Situazioni che dovrebbero sempre farci riflettere e pensare. La mancanza di un dormitorio aperto tutto l’anno, la poca attenzione ai minori stranieri non accompagnati e ai senza dimora sono problemi reali. Come si può sopportare la visione quotidiana di colazioni all’aperto sotto una tettoia quando piove, o in altri giorni all’inizio di via Napoleona? Tante persone vagano per strada tutto il giorno con poche prospettive, dormono sotto i portici delle chiese. Le fragilità della nostra città sono tante, come ci comportiamo con le solitudini di molti anziani sia nel centro che nelle periferie? E la recente lettera aperta di una persona con disabilità ha fatto riflettere su altre tematiche importanti. Diritti, tutti diritti, che troppo spesso vengono dimenticati. Firenze. I musei entrano in carcere con attività per i detenuti di Maurizio Costanzo La Nazione, 9 giugno 2024 Al Museo Galileo il progetto “Musei dentro e fuori” che ha l’obiettivo di creare una sinergia fra il carcere e la città passando attraverso la scuola e i luoghi della cultura. Prosegue per il quarto anno consecutivo il progetto “Musei dentro e fuori”, nato dalla collaborazione fra la rete Musei Welcome Firenze e l’Istituto scolastico CPIA 1 Firenze presso la Casa Circondariale di Sollicciano. Nei giorni scorsi, infatti, grazie all’iniziativa, al Museo Galileo di Firenze, si è svolto un incontro al quale hanno partecipato gli studenti detenuti della scuola di Sollicciano; i funzionari giuridici-pedagogici del carcere; gli insegnanti e il preside del Cpia 1; la dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale di Firenze, oltre alla Direzione beni, istituzioni, attività culturali e sport della Regione Toscana. Un importante momento di riflessione per raccogliere osservazioni e nuove idee per pianificare gli sviluppi futuri dell’iniziativa. A conclusione della mattinata un pranzo conviviale è stata l’occasione per creare connessioni fra gli studenti, gli insegnanti e tutti gli operatori dei musei. La giornata si è conclusa con una visita al Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria dove è stato presentato uno spazio espositivo con i manufatti creati durante i laboratori realizzati dalle classi femminili e maschili di Sollicciano. Il progetto “Musei dentro e fuori” prevede un ciclo di attività educative pensate per i detenuti nell’intento di creare una sinergia fra il carcere e la città di Firenze, passando attraverso la scuola e i musei. L’obiettivo di queste attività è offrire agli studenti una finestra sul mondo esterno mettendoli in contatto con l’arte, la scienza e la cultura attraverso le esperienze portate dagli educatori dei sette musei fiorentini. La Rete Musei Welcome Firenze, che ha ottenuto il riconoscimento della Regione Toscana, è infatti composta da Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria, Il Giardino di Archimede - Un museo per la Matematica, Museo di Casa Buonarroti, Museo Fondazione Scienza e Tecnica, Museo Galileo, Museo Horne e Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Firenze. Ogni museo, in base alla propria specificità, ha proposto attività che potessero dare spazio alla manualità e alla sperimentazione creativa dei partecipanti e che al tempo stesso stimolassero confronti fra culture diverse. All’interno della rete Musei Welcome Firenze sono presenti realtà museali eterogenee per tipologie e appartenenza, ogni incontro è stato quindi dedicato ad approfondire temi di competenza dei diversi musei quali scienza, arte, lingua, archeologia e antropologia. Il progetto è nato nel 2021 con un ciclo di incontri svolti a distanza, risultato della sinergia fra gli educatori della Casa Circondariale Firenze Sollicciano, gli insegnanti CPIA1 Firenze e i referenti della rete Musei Welcome Firenze. Dal 2022, grazie all’impegno di Claudio Pedron, coordinatore didattico del Cpia 1 Firenze, gli incontri si sono svolti all’interno della scuola. Questa nuova edizione ha visto un ulteriore passo in avanti: le attività si sono estese alla sezione femminile della Casa Circondariale di Sollicciano, ampliando così l’offerta delle proposte e il numero dei partecipanti coinvolti. Inoltre nel mese di dicembre, un piccolo gruppo di detenuti, accompagnati da insegnanti e educatori, ha avuto l’opportunità di visitare il Museo Galileo. La visita è stato un importante momento di scambio e condivisione. La rete Musei Welcome Firenze si propone infatti, non solo di diffondere la conoscenza delle collezioni museali, ma soprattutto di contribuire a identificare i musei come luoghi di accoglienza, partecipazione e benessere. “Musei dentro e fuori” si propone dunque come una proficua ed intensa esperienza di collaborazione. I musei fiorentini escono dalla propria sede per raggiungere un pubblico solitamente escluso dai processi culturali della città, creando così nuove opportunità di partecipazione. Ancona. Studenti in visita al carcere tra storie di detenuti e impegno di chi ci lavora di Valerio Baroncini Il Resto del Carlino, 9 giugno 2024 È stato un momento molto intenso la visita al carcere di Montacuto. Gli avvocati dall’Associazione Camera Minorile Dorica hanno accompagnato una classe di seconda superiore in una visita all’interno dell’Istituto penitenziario di Ancona, durante la quale i ragazzi hanno incontrato e interagito con il personale di Polizia, gli educatori e ascoltato le storie di alcuni detenuti. È stata una delle tante attività dell’Associazione che si è articolata in 20 incontri. Veri protagonisti gli studenti delle scuole secondarie di primo grado dei tre istituti comprensivi della città e della scuola secondaria di secondo grado “Laeng-Meucci” (sede di Osimo). Ormai da qualche anno gli avvocati dell’Associazione, Paolo Mengoni, Donatella Balenai e Elisa Pavoni, hanno avviato un percorso di sensibilizzazione su tematiche di interesse per il mondo giovanile, che ogni anno si arricchisce e rinnova, grazie anche alle sollecitazioni e suggerimenti che arrivano direttamente dai ragazzi. I temi trattati sono stati i più vari: dal percorso di formazione delle leggi all’analisi dei principali organi costituzionali, dal bullismo al cyberbullismo fino ad affrontare argomenti di più stretta attualità, le baby gang, l’uso-abuso degli stupefacenti e tutto ciò che gravita e intorno al mondo giovanile. Con particolare attenzione è stato trattato l’argomento della violenza sulle donne. Gli avvocati hanno evidenziato quali sono i comportamenti dai quali trarre i campanelli di allarme, in modo da poter fornire loro i primi strumenti per riconoscere con anticipo possibili situazione di pericolo. Messina. Una storia di “redenzione” grazie all’Associazione Overland di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 9 giugno 2024 Quella di Marco (nome di fantasia) che, dall’inferno della tossicodipendenza, ora è un uomo e un padre rinato. “Tra qualche anno terminerò la pena che mi è rimasta e ho già in mente di avviare un’attività: una coltivazione di fragoline”. Questa nuova impresa rappresenta non solo una speranza di rinascita economica, ma anche simbolica, coltivando il futuro con la stessa cura che dedico alla mia famiglia”. Da tossicodipendente a padre redento il passo è stato tortuoso e possibile grazie all’associazione “Overland”. E doppie storie si intrecciano. Un uomo e le sue pene e una giovane messinese che ha dato voce alla sua anima turbolenta nella sua tesi di laurea. Ma procediamo per gradi. Marco, nome di fantasia, oggi ha 39 anni e la caduta verso il baratro è piovuta in piena adolescenza quando i suoi genitori hanno deciso di mettere un punto al loro rapporto. Non senza screzi: “Sono nato a Messina - racconta - in un quartiere della zona Nord in una famiglia della media borghesia. E il peso più forte che ha segnato la mia infanzia è stata la separazione dei miei. Un evento che ha lasciato cicatrici profonde nel mio animo”. Successivamente il primo approccio con le droghe, la marjuana prima e la cocaina dopo, che diventa una compagna quotidiana da mantenere commettendo furti. Cosa quasi inevitabile? Restare imbrigliato nelle maglie della giustizia venendo arrestato e condannato a tre mesi da scontare in una comunità per minorenni. Una pausa per la vecchia vita che riprende purtroppo tristemente uguale appena gli vengono concessi gli arresti domiciliari. Infatti, il giovane continua a frequentare spacciatori e malavitosi attratto dal falso mito di una vita agiata e senza pensieri. Ignorando che è solo un passo in più verso il fondo: “Senza tentennamenti posso dire - afferma pensando al passato - che non condivido più le scelte che allora facevo”. Il salto verso la luce lo ha “suggerito” colei che sarebbe diventata sua moglie e soprattutto la nascita di sua figlia. Marco, ormai uomo, si rende conto che la droga aveva preso il controllo della sua esistenza, rendendolo schiavo: “Il cammino verso la redenzione non è stato immediato. Le porte del carcere si sono aperte altre volte così come altri centri di accoglienza terapeutica. E la svolta decisiva arriva con questa associazione messinese e con il percorso di recupero al rifugio Santa Eustochia di Larderia. Qui ho trovato davvero un’accoglienza priva di pregiudizi. La cosa bella è che non vedono chi ero stato, ma chi avrei potuto diventare”. E qui è avvenuto un altro piccolo evento perché l’uomo ha incrociato il volto della ventitreenne Ilaria Caprì, una studentessa che ha deciso di cristallizzare questa storia nella sua tesi di laurea che aveva come oggetto l’evoluzione dell’istituzione carceraria tra storia, legislazione e sociologia, da strumento di repressione a strumento di reinserimento sociale. E di fatto impegnarsi attivamente: “Sono una studentessa - sottolinea - iscritta al quarto anno di Giurisprudenza e mi sono laureata lo scorso anno in Scienze delle Investigazioni Private. La mia vita, però, non è fatta solo di studi giuridici. Sono anche una volontaria della cooperativa Overland. Mi occupo di reinserimento sociale di detenuti e tossico-dipendenti, partecipando anche ad attività di protezione civile, di cui sono componente, insieme al Presidente della stessa Overland, il mio caro amico Antonino Mandia, che mi ha dato l’opportunità di inserirmi in questa bellissima realtà facendomi sentire sempre come in una grande famiglia”. Una passione per l’esecuzione penale sbocciata tra i banchi universitari: “Un grazie lo dico a colei che è diventata la relatrice della mia tesi, la dottoressa Elena Militello. Sono stati proprio i suoi racconti circa il funzionamento delle carceri sia in Italia che all’estero, data la sua esperienza di ricerca di stampo internazionalistico, e le sue appassionanti lezioni sul tema dell’esecuzione penale e penitenziaria a far nascere in me l’intento di affrontare un tema delicato”. E Marco è la testimonianza viva di chi cerca un riscatto: “Da questa storia profonda e forte - sottolinea -sono riuscita a comprendere una serie di cose molto importanti che, a mio avviso, dovrebbero stare a cuore a tutti. Il mondo penitenziario è fatto di sofferenze, voglia di riscatto, dolore, rabbia e a volte di richieste di aiuto magari poco ascoltate. Con questo non voglio dire che il carcere sia inutile o, peggio ancora, che andrebbe abolito; anzi l’esatto contrario, sono fermamente convinta che la privazione della libertà personale sia il prezzo da pagare per l’offesa commessa alla vittima e allo Stato, ma credo anche che sia importante analizzare le problematiche e le questioni inerenti questo delicato tema, perché solo così il carcere può effettivamente assolvere alla sua reale funzione di rieducazione. Se così non fosse si trasformerebbe questo istituto giuridico in un semplice strumento per incattivire ancor più l’animo di chi ha sbagliato”. E l’insegnamento è uno: “Il vissuto “del padre redento” mi ha insegnato che il carcere è fatto non solo di sbarre, di porte che si chiudono dietro le spalle, di echi di corridoi che spesso arrivano come pugni nello stomaco, ma è fatto anche di amicizie che possono nascere. Scoperta di talenti, riscoperta delle proprie passioni e ispirazioni”. E Ilaria spera che ci sia un’apertura verso questo mondo partendo dalle scuole, e lancia una proposta prima di congedarsi: “Sarebbe meraviglioso che i detenuti scrivessero delle “cronache delle sbarre” - conclude - al fine di raccontare ai cittadini le piccole quotidianità di una vita sconosciuta e spesso incompresa”. Napoli. Una Rete per la difesa del mare: occasione di riscatto per i giovani del carcere di Nisida di Francesca Piccolo Il Mattino, 9 giugno 2024 Questa mattina al Borgo dei Marinari i ragazzi dell’Area penale di Napoli continueranno la loro simbolica risalita in superficie. Grazie infatti al progetto Bust Busters i ragazzi si immergeranno con i palombari della Marina Militare, gli istruttori di MareNostrum, il Dipartimento Marino di Archeoclub Italia tutti protagonisti di un intervento di pulizia dei fondali nel Golfo. L’imbarcazione “MareNostrumDike” ha aperto un nuovo orizzonte per i giovani detenuti, quasi tutti incappati in reati di spaccio, oggi diverranno invece palombari certificati. Un’occasione “Da cogliere per un lavoro vero - ci spiega Mariangela Cigliano, coordinatrice Area Tecnica del dipartimento di Giustizia. “Una rete virtuosa nata all’ombra del Castel dell’Ovo, per una prima collaborazione tra Stato Maggiore della Marina militare e Dipartimento della Giustizia minorile - ci spiega il comandante di Vascello Nello Cuciniello - partita tre anni fa con il coinvolgimento delle associazioni, in primis Archeoclub Italia e Arpa Campania - Il mare è nelle corde dei nostri ragazzi ospiti dell’Area penale - continua Mariangela Cigliano- grazie anche alla sinergia con l’area esterna, dove i ragazzi vengono individuati dal servizio sociale attraverso la prova e l’orientamento al fine di intraprendere un percorso di uscita dalla devianza attraverso la formazione, l’apprendimento delle tecniche subacquee, ma soprattutto tramite l’educazione all’ambiente e il coaching. L’obiettivo è sedimentare il concetto di squadra e scalfire quello di gruppo di appartenenza delinquenziale”. Testimone tangibile di un riscatto per la legalità è il vascello MareNostrumDike. Il veliero - oggi tirato a lucido e ormeggiato in banchina - fu testimone di “Storie crudeli che oggi si incrociano, un tempo, questa imbarcazione si chiamava Oceanis 473 - ci racconta Rosario Attanasio presidente nazionale di Archeoclub Italia - con la quale gli scafisti trafficavano persone, bambini, anziani, donne, sulla tratta dalla Turchia. Intercettata con 104 disperati a bordo, sequestrata dalla Guardia di Finanza, il bene è stato affidato in custodia ad Archeoclub D’Italia dalla Procura della Repubblica di Ragusa e da 3 anni è protagonista del percorso di riscatto per questi ragazzi, inseriti nell’Area penale di Napoli”, conclude Attanasio. Cultura della legalità e della sostenibilità sono la mission del progetto: “Sosteniamo da anni un meccanismo virtuoso per il bene dell’ecosistema marino con la pulizia dei fondali coordinandoci con le Istituzioni - ci spiega il responsabile di SAE Ambiente Ferdinando Sarno - “Noi facciamo rete con i ragazzi dell’Area Penale, offrendo loro khow how e strumenti, da anni l’azienda si impegna attivamente nel recupero di materie prime da rifiuti vegetali per la produzione di Biogas avanzato, come il diesel rinnovabile (HVO), il carburante sostenibile per l’aviazione (SAF) e il biodiesel. La maggior parte dei rifiuti raccolta in mare sarà riciclata- precisa Sarno”. Nell’organizzazione è stato fondamentale il contributo del Circolo Savoia, da sempre partner del progetto Bust Busters: “Siamo felici di essere ancora tra i protagonisti di un’iniziativa di pulizia dei fondali che interesserà il Borgo Marinari è un modo per tenere alta l’attenzione verso il senso civico e il voler prendersi cura della città e di offrire opportunità ai giovani” - ha dichiarato Fabrizio Cattaneo della Volta, presidente Reale Yacht Club Canottieri Savoia. Si incrociano negli occhi dei ragazzi storie straordinarie, Mirko, già maggiorenne, ci dice orgoglioso “oggi ritirerò il brevetto di sub di II livello, vorrei lavorare con i turisti”. Il comandante Cuciniello ci dichiara con emozione che “...i ragazzi, inseriti nei percorsi da 10-15 unità nel triennio, partecipano a numerose operazioni di pulizia dei fondali prima Amalfi, poi saranno con gli uomini della Marina militare a Positano, la Marina - conclude Cuciniello - è da sempre supporto per chi decide di abbracciare una nuova vita in difesa del mare”. Napoli. Chiuso il carcere di Pozzuoli, il cappellano: “Il mio servizio prosegue” di Roberta Barbi vaticannews.va, 9 giugno 2024 Don Fernando Carannante, da 24 anni in servizio volontario nella casa circondariale femminile napoletana, assicura ancora l’assistenza spirituale alle “sorelle detenute”. Dopo le scosse di terremoto, il provveditore delle carceri della Campania ha disposto la chiusura dell’istituto per qualche anno per consentire lavori di ristrutturazione. 20 maggio 2024, ore 20.10: la terra trema in Campania, siamo nell’area Campi Flegrei, tra Napoli e Pozzuoli. La gente di qui è abituata alle scosse, ma questa appare da subito più forte, arriverà a misurare magnitudo 4.4. Molti hanno paura e si riversano in strada, scappano, il più lontano possibile. A Pozzuoli c’è un carcere storico, giuridicamente è una casa circondariale femminile, una delle poche strutture in Italia dedicate alla detenzione delle donne, fiore all’occhiello nell’ambito del reinserimento al lavoro grazie alla torrefazione delle Lazzarelle e a una sartoria, ma non solo. “Le ragazze hanno avuto molto coraggio quella sera, al di là della paura, nel farsi guidare dalle agenti e nel farsi mettere in sicurezza, hanno affrontato l’emergenza con serenità”, testimonia a Radio Vaticana-Vatican News don Fernando Carannante, accanto a loro da 24 anni. Le ospiti del carcere di Pozzuoli hanno fatto tante esercitazioni, ma quando la minaccia diventa reale, è un’altra cosa. Quella prima notte alle detenute uscite in permesso di lavoro è consentito dormire a casa; per le altre vengono preparati giacigli all’aperto, all’addiaccio. La situazione dello stabile già da subito non appare delle migliori, così la direttrice decide di trascorrere la notte nella struttura, accanto alle sue ragazze: “Sono cappellano qui da 24 anni e posso testimoniare che c’è e c’è sempre stata un’attenzione amichevole alle ospiti - racconta don Fernando - tutto questo sempre nel dovuto rispetto dei ruoli, ma che non nega l’umanità, l’affetto, talvolta l’amicizia, i tentativi reciproci di comprendersi e soprattutto di mettersi a servizio l’uno dell’altro”. Seguono, poi, le opportune verifiche sul grado di agibilità del palazzo. Il responso arriva il 30 maggio ed è una doccia fredda: chiusura. Così le detenute, che già il giorno successivo al sisma erano dovute salire sui pullman per raggiungere gli altri istituti della Campania e non solo - anche Milano, Roma e Perugia - che le avrebbero ospitate, adesso sono smarrite e non sanno quando né soprattutto dove potranno tornare. “Era già stato molto triste vederle andare via, erano circa 145, perché qui ci consideriamo una grande famiglia - dichiara il cappellano - ora sono stato contattato dal cappellano di Bollate, dove ne sono arrivate alcune, e mi aggiorno continuamente con quelli di Lauro e Secondigliano. Fortunatamente il Dipartimento ha autorizzato chi, come me, gode dell’ex articolo 78, di poterle andare a trovare negli altri istituti dove sono state temporaneamente sistemate”. L’articolo dell’Ordinamento penitenziario cui fa riferimento il sacerdote consente al magistrato di sorveglianza di autorizzare persone idonee a frequentare gli istituti di pena con l’obiettivo di partecipare ad attività di risocializzazione, sostegno morale e reinserimento: in pratica disciplina l’ingresso degli assistenti volontari, che a Pozzuoli sono circa 120. La chiusura del carcere di Pozzuoli è un vero e proprio dramma per le detenute, sia perché molte di loro sono state trasferite, come detto, anche molto lontano da casa e dagli affetti, sia perché quelle che lavoravano in carcere o in contesti vicini ad esso ora saranno costrette a interrompere il lavoro, e così viene meno di fatto l’obiettivo stesso del carcere che è la rieducazione di chi lo abita e la restituzione alla società di una persona riabilitata. Anche il cappellano per un po’ sarà un cappellano ‘itinerante’, ma don Fernando non si scoraggia: “Un cappellano penitenziario sa che dovrà sempre affrontare sfide difficili - afferma - da sempre mi occupo anche dei bisogni materiali delle ragazze, in carcere con gli altri volontari gestivamo una boutique completamente gratuita dove potevano trovare ciò che occorreva loro, nel rispetto della dignità della donna. Ora tutto quello che c’era l’ho portato dalle suore, pian piano ci riorganizzeremo per distribuirlo nelle varie strutture. A Lauro c’è un gruppo nutrito delle nostre ospiti, tra loro ce ne sono molte che tra l’altro hanno intrapreso un serio cammino di fede; un altro gruppo è stato portato a Secondigliano dove mi dicono che forse potranno essere trasferite tutte quante”. Già, perché adesso aleggia anche lo spettro della chiusura definitiva e della riconversione ad altro uso dell’edifico storico che ospitava il carcere femminile di Pozzuoli, fatto che danneggerebbe in primis le strutture lavorative che con il tempo vi sono state attivate. “Il problema è per tutti, per le ragazze ma anche per il personale, penso alle giovani poliziotte penitenziarie che con le ospiti avevano costruito un buon rapporto e che ora dovranno lavorare altrove - ricorda don Fernando - spesso in questi giorni passo davanti al carcere e scambio qualche parola con le agenti che stanno fuori di guardia. Cerco di far sentire loro che il cappellano c’è, perché io sono il cappellano di tutti”. Castrovillari (Cs). Concluso il progetto “Con le mani in pasta” nel penitenziario femminile cosenzachannel.it, 9 giugno 2024 Promosso da Laura Barbieri, ristoratrice e presidente della Fipe Cosenza, è stato realizzato in collaborazione con l’Ipseoa K. Wojtyla Alberghiero. Nella casa circondariale di Castrovillari “Rosetta Sisca” si è concluso il progetto “Con le mani in pasta”, promosso dalla dottoressa Laura Barbieri, ristoratrice e presidente della Fipe Cosenza, in collaborazione con l’Ipseoa K. Wojtyla Alberghiero di Castrovillari, e riservato alle alunne della sezione femminile. Alla fine del loro percorso le studentesse hanno ottenuto un attestato, che come ha sottolineato la professoressa Simona Verta, referente dell’istituto presso la casa circondariale, può offrire una possibilità di lavoro per chi ha avuto problemi con la giustizia e si è ravveduto, grazie anche alla Legge Smuraglia che prevede agevolazioni fiscali per le aziende che assumono persone ex detenute. La dottoressa Barbieri ha sottolineato l’importanza di questo progetto evidenziato dal simbolo costituito da una bustina contenente prodotti da forno, accompagnati da frasi scelte dalle detenute: “Un battito di ali verso la libertà”, “Croccantino d’amore”, “Resilienza” e tanti altre. I molti ospiti hanno potuto gustare i crostini con ‘nduja e fico dottato caramellato, pizza di lievito madre preparata seguendo le ricette della tradizione, biscotti alle noci, giurgiulena, polpette fritte, salciccia, accompagnate da un cocktail rinfrescante al lime preparato dalla professoressa Carmen Antonucci. Il tutto frutto di un duro lavoro iniziato fin dalle prime luci del mattino da parte delle studentesse. Un progetto destinato a durare anche nei prossimi anni come ha annunciato il dottor Luigi Bloise, responsabile dell’Area Educativa della casa circondariale. Pistoia. Carcere e commercio equo insieme per dare vita a nuove magliette e shopper valdinievoleoggi.it, 9 giugno 2024 Da pochi giorni c’è un nuovo progetto equo e solidale alla bottega del commercio equo e solidale L’acqua cheta. Sono nel negozio di via della Madonna magliette e shopper del progetto O’Press, nate dalla collaborazione tra la bottega solidale pistoiese, quella di Genova e il carcere Marassi. “Abbiamo sempre venduto - spiega Beatrice Iacopini presidente dell’associazione L’acqua cheta - le t-shirt di O’Press, ma questa primavera abbiamo deciso di dare vita ad una collezione personalizzata. Su magliette e shopper abbiamo fatto stampare, insieme ad una simpatica immagine, il proverbio del Burkina Faso che da sempre accompagna il nostro impegno: “Se le formiche si mettono d’accordo possono spostare un elefante”. Crediamo molto in progetti come questo, che permettono ai detenuti di mettere a frutto il tempo di detenzione, uscendo dal circolo vizioso del carcere punitivo e imparando un mestiere, secondo il dettato costituzionale”. La grafica delle magliette è infatti pensata e realizzata insieme ai detenuti. I prodotti O’Press rispettano inoltre appieno la filosofia del commercio equo: sono realizzati con cotone biologico al 100%, proveniente da filiera equa e solidale certificata, e gli inchiostri sono non inquinanti e atossici. Insomma fanno bene a chi li produce e al pianeta. “Just Closer”, podcast con le storie dei ragazzi che hanno incontrato la giustizia minorile in Italia Ristretti Orizzonti, 9 giugno 2024 Il progetto di Defence for Children, raccoglie testimonianze di ragazzi e ragazze coinvolti in procedimenti penali, per promuovere una giustizia realmente “a misura di minorenne”. Disagio sociale, discriminazione, futuro incerto, Istituto Penale Minorile e l’idea di una giustizia che serva davvero a (ri)educare e non a punire come prevede il nostro ordinamento insieme agli standard internazionali. Sono solo alcuni dei temi che, attraverso le voci dei ragazzi, vengono affrontati nel podcast “Just Closer” di Defence for Children, che verrà lanciato domani. Si tratta di un progetto dell’Associazione, co-finanziato dall’ Unione Europea, che ha raccolto in Italia, durante tutto il corso del 2023, testimonianze di ragazzi e ragazze coinvolti in procedimenti penali e sottoposti a diverse misure di giustizia. Il progetto e la serie di podcast nascono per dare a voce a realtà troppo spesso invisibili e dimenticate e per mostrare, oltre alle eclatanti situazioni di cronaca, come il sistema di giustizia, dentro e fuori gli Istituti Penali, debba migliorare per svolgere efficacemente la propria utile funzione. Il podcast, articolato in dieci puntate, vuole evidenziare la necessità di una giustizia che dovrebbe essere child friendly ossia “amica delle persone minorenni” e che prenda in considerazione gli elementi di qualità, competenza ed efficienza che il Consiglio d’Europa propone come essenziali per una giustizia utile per i minorenni e per la società nel suo complesso Si tratta di riferimenti sempre più attuali e urgenti dal momento che anche a seguito del recente Decreto Caivano e, più in generale, delle politiche che spingono per un inasprimento delle pene nei confronti dei minorenni, la popolazione giovanile detenuta negli Istituti Penali Minorili sta aumentando, invertendo quel trend virtuoso che era stato innescato dal 1988 con il DPR 448 e che aveva reso il nostro paese un modello da seguire in tutta Europa. “Abbiamo cercato attraverso questa azione di ascoltare con attenzione le storie e le parole dei ragazzi” spiega Pippo Costella direttore di Defence for Children “è proprio questo ascolto che deve caratterizzare un sistema di giustizia attento, efficace e capace di proporre ai ragazzi modelli e prospettive alternative come prevede chiaramente la nostra legislazione” La serie di 10 podcast, realizzata con la generosa partecipazione al progetto degli attori e doppiatori Maurizio Merluzzo e Katia Sorrentino e dell’artista Massimo Sirelli, affronta in “presa diretta” con i ragazzi tutti gli elementi che dovrebbero rendere il sistema “just closer” (più vicino) a loro e a soluzioni possibili, finalmente positive, per le loro storie di vita. Defence for Children Italia: è un’associazione di volontariato indipendente, parte del movimento Defence for Children International presente in oltre 30 paesi del mondo per promuovere attivamente i principi le norme della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Ha sede sede operativa nazionale a Genova e dal 2005 lavora in Italia e in Europa per la tutela dei diritti delle persone minorenni. Il Podcast è su spotify: https://open.spotify.com/show/6WgPjueTRKW1olc6KtyzVd Dopo il voto serve un patto per il progresso di Concita De Gregorio La Repubblica, 9 giugno 2024 Ci vorrebbe un’agenda condivisa, un dialogo fra forze anche distanti ma accomunate dal desiderio del bene comune. Ci vorrebbe una cultura comune. Su questa sì, si potrebbe fondare un’idea di Paese, di Patria, di Europa. Si va invece in direzione opposta. Dunque da lunedì 10 giugno, a urne chiuse e conti fatti, si potrà finalmente riprendere a chiedere ragione di quel che manca al Paese e non del “rutto libero” al quale, avete visto, come da previsioni siamo effettivamente arrivati nei comizi finali. Chiedere ragione è un concetto forte. Domande e risposte sono una pratica scomparsa, nei desideri e dunque nelle pratiche del centrodestra di governo. Sostituite da monologhi, battute di spirito, dirette Facebook, TikTok e canali tv di produzione propria. Un confronto, una vera conferenza stampa, un’intervista con domande concrete e incalzanti è qualcosa di totalmente fastidioso, per la presidente e il suo entourage. Non desidera, sostituisce o fa sostituire chi non si adegua, promuove in cambio comici e cabarettisti, ballerini e simpatici presentatori - la tv pubblica della nuova auspicata egemonia culturale. Anche cultura è un concetto forte. Se ce ne fosse di più, di cultura scientifica per esempio, la premier e la sua chiamiamola classe dirigente non sarebbero certi di andare sul velluto ad ammiccare ai negazionisti, ai complottisti, a quel mondo un tempo semisommerso e oggi totalmente emerso e assai agguerrito che con la stessa facilità nega l’esistenza dei virus, dello scioglimento dei ghiacci, forse della rotazione terrestre, certamente degli elementari diritti umani e dei popoli in transito, “seh, poveri cristi”. Se ci fosse più investimento nella scuola, che non sono le classi made in Italy andate poi deserte, nella cultura di base e diffusa, nel sostegno a chi ha difficoltà e dunque, per esempio, un’educazione alla differenza e alla convivenza dove certo si premia il merito, ma si riconosce intanto la fatica di chi parte da più lontano e fa più strada per superare gli ostacoli. Se ci fosse un atteggiamento laico e rispettoso delle libertà rispetto alle identità, alla cittadinanza, alla possibilità di disporre del proprio corpo e di fare le proprie scelte. Ecco, già che si vota la nuova Europa, se ci fosse un’idea di Europa. Allora si potrebbe, in questa cornice, discutere senza giocare a chi urla più forte in tv e dire di quel che davvero conta, perché un Paese cresca: non basta che ci sia più lavoro, bisogna che non sia lavoro povero. Non servono le statistiche su quanti, bisogna stabilire come: che i redditi siano dignitosi, che siano uguali per uomini e donne, che non sia disincentivato il lavoro femminile perché le donne è più utile che si prendano cura della casa, dei genitori e dei figli, che i figli non abbiano contratti capestro con il ricatto incorporato, se non accetti queste condizioni avanti un altro, c’è la fila. Non basta un decreto per sanare gli abusi che fa contenti tutti, perché così finalmente si fa prima a fare un po’ come ci pare, la burocrazia è lenta e corrotta: bisogna snellire la burocrazia, non strizzare l’occhio a chi corrompe e a chi evade, non parlare di pizzo di Stato, non incentivare chi agisce in modo illegale tanto poi col pagare si risolve. Bisogna, bisognerebbe, educare alla legalità e punire chi non la rispetta. Non additare la magistratura come nemica, distinguere l’architettura della Giustizia dall’errore giudiziario, non cavalcarlo. Trattare con rigore e dignità chi è in carcere, punire i carcerieri che abusano. Per risolvere il problema delle liste d’attesa negli ospedali non basta dire fate le analisi privatamente, se i soldi per i rimborsi non ci sono e se tutto il carico finisce poi sulle spalle delle Regioni, che non li hanno. Non basta pagare i medici presi a contratto, medici che se ne sono andati dal pubblico perché guadagnano più decentemente a farsi assumere, anche a tempo, in supplenza del pubblico. Non basta promettere cantieri, quindi più lavoro nei cantieri: bisogna scegliere le opere realmente indispensabili e fare in modo che nei cantieri si lavori senza morire, non in subappalti a cascata fino al lavoro nero ma con le garanzie anche costose che servono a salvare le vite. Io non credo che siano concetti di sinistra. Credo che una destra liberale, una destra moderna e non nostalgica del dispotismo in maschera, dovrebbe e potrebbe volere altrettanto. Ci vorrebbe un patto per il progresso, un’agenda condivisa, un dialogo fra forze anche distanti ma accomunate dal desiderio del bene comune. Ci vorrebbe una cultura comune. Su questa sì, si potrebbe fondare un’idea di Paese, di Patria, di Europa. Si va invece in direzione opposta. Sempre più rumorosamente, cialtronescamente, pericolosamente. Ci vorrebbe la politica. Qualcuno che sa farla. Non era molto tempo fa che Almirante e Berlinguer si portavano rispetto. Mi pare che La Russa lo abbia ricordato di recente. Eppure, invece. Ecco, forse da lì, dal rispetto, si potrebbe riprendere il bandolo. Meno insulti, meno scherno, più ascolto e più dialogo. Tanto più questo sembra impossibile quanto più bisogna, senza stancarsi, ripeterlo. Europee, migranti e coppie gay: chi difende i più deboli di Francesca Sforza La Stampa, 9 giugno 2024 Sono 27,3 i milioni di cittadini non europei che a oggi vivono nel continente. Le questioni relative ai diritti - di donne, comunità Lgbtq+ e migranti - sono quelle che più di altre, durante le campagne elettorali, permettono di definire il proprio posizionamento. E questa non ha fatto eccezione: in un’Europa che vede per la prima volta una forte componente dei partiti di destra nelle maggioranze di governo, ogni volta che si è parlato di diritti si è partecipato a rafforzare il collante che tiene insieme entità politiche altrimenti piuttosto diverse. Limitazioni dell’aborto, culto della famiglia tradizionale, messa al bando delle comunità Lgbtq+, xenofobia e disprezzo per le persone di altri Paesi, attacchi alla libertà di stampa (che nelle democrazie contemporanee agiscono anche sotto forma di retorica contro il politicamente corretto) rappresentano temi - ma più che altro slogan - capaci di radunare sotto un unico ombrello gli elettori della Lega, di Fratelli d’Italia, di Vox, degli olandesi di Wilders, dei partiti finlandesi, ungheresi, cechi, del Pis polacco, dell’Afd tedesca, e di Marine Le Pen o Éric Zemmour in Francia. Anche i partiti, tra questi, con una più spiccata vocazione europeista - convinti ad esempio che cedere sovranità su temi fiscali o mettere in comune i debiti siano obiettivi da perseguire - quando si parla di diritti tornano a uno stadio pre-comunitario, in cui dominano istinti di conservazione nazionale, di sovranismo, di fastidio e sostanziale rifiuto del principio di solidarietà fra i popoli. Come mai? Cosa c’è nell’affermazione dei diritti civili di tanto avverso alle compagini di destra? E cosa c’è da aspettarsi da un’Unione Europea che arretrasse sul fronte dei diritti, quand’anche riuscisse ad avanzare su altri - apparentemente più strategici - settori? Tra le ragioni che spingono le destre a far leva sulle limitazioni dei diritti c’è senz’altro la paura. Lo dimostra la campagna elettorale dell’Afd in Germania, o quella di Marine Le Pen: quando si punta l’indice sullo straniero e sul pericolo che rappresenta per la propria integrità o per il proprio benessere, non è difficile aumentare i consensi. Uno come Jordan Bardella, figura di spicco del Ressemblement National francese, ha condotto una campagna martellante su TikTok opponendo l’identità “nazionale europea” alle pericolose contaminazioni che vengono dall’esterno (un esterno sia geografico che valoriale), come se l’Europa fosse un paesello di mille anime assediato da un turismo rapace volto a stravolgerne il paesaggio. Sulla sua linea si sono mossi in tanti, dai rumeni ossessionati dalla cosiddetta “ideologia gender” agli ungheresi convinti che la cultura woke di Bruxelles attenti alla loro stessa esistenza fino ai tedeschi dell’Afd che, puntando a conquistare i giovani più scontenti, hanno invaso le piattaforme social di slogan in cui l’attenzione al clima, alle minoranze o agli stranieri venivano per lo più associate a una generale mancanza di virilità (“così non troverete mai una ragazza”). E allora, per tornare alla domanda su cosa bisogna aspettarsi se le questioni sui diritti non troveranno sufficiente affermazione, ecco apparire all’orizzonte una strana Europa-paese, in cui le istituzioni comunitarie rischiano di diventare il grimaldello dei sovranisti per scardinare dall’interno il sistema della solidarietà che ne costituisce, fino a oggi, l’ossatura portante. Più del 90% dei rom è a rischio povertà: “Basta misure assistenziali, serve avere voce in Europa” di Chiara Sgreccia L’Espresso, 9 giugno 2024 Sono la minoranza etnica più numerosa dell’Ue. E anche la più giovane. Ma restano esclusi. Così in vista delle elezioni hanno redatto un manifesto con proposte concrete per favorire l’integrazione. Ne abbiamo parlato con la comunità romanì al campo di via dei Gordiani a Roma. Fa caldo e c’è aria di festa al campo rom di via dei Gordiani, a Roma. Ma solo perché manca poco al momento in cui circa 359 milioni di persone voteranno per rinnovare il Parlamento europeo e l’organizzazione Roma for Democracy, guidata dai rom, assieme al Movimento Kethane (che significa “insieme”) di rom e sinti, ha organizzato una tribuna elettorale dentro il villaggio che esiste dall’inizio degli anni Duemila. Da quando un grosso incendio ha distrutto le baracche che erano state costruite ancora prima da chi si è trasferito dopo essere scappato dalle guerre nei Balcani, alla ricerca di un nuovo spazio da abitare. L’obiettivo dell’incontro è di portare la politica dove di solito non va, per costruire un’Europa democratica nel vero senso della parola, ma anche per fare in modo che chi ne è stato finora escluso entri nel processo d’integrazione e si veda riconosciuti i diritti umani, civili e politici. “Dopo l’incendio del 2001 hanno messo i prefabbricati. Dovevano essere temporanei, invece ci viviamo ancora oggi”, spiega Dragan indicando i container ormai fatiscenti, che si avvicendano rendendo difficile capire dove finisca il campo. È un omone dal volto buono, punto di riferimento della comunità rom a Centocelle, non solo perché raccoglie le istanze dei suoi membri e cerca di portarle all’attenzione delle istituzioni, ma anche perché è stato suo padre a fondare l’insediamento. Circa 300 persone che vivono in un ghetto presidiato notte e giorno dalla polizia municipale, troppo vicino alla strada su cui corrono le auto per perdere d’occhio i bambini che giocano. Molti vorrebbero una vita migliore. Impossibile, non solo perché non ci sono alloggi popolari disponibili, ma soprattutto per le discriminazioni. Dei pregiudizi che “gli altri” nutrono nei confronti degli “zingari”, i quali rendono difficile costruirsi una vita dignitosa, trasferirsi in un nuovo quartiere, avere vicini, trovare lavoro. “Questa mattina l’autista che avrebbe dovuto consegnarci il gazebo che avevamo prenotato per la tribuna elettorale si è rifiutato di farlo, quando è arrivato ai cancelli del campo. Ha detto che questo “non è un luogo normale”. Non potevano lasciare il gazebo perché non avevano la certezza che l’avremmo riconsegnato”, riferisce Giorgio. Che prima della pandemia aveva un lavoro, ma dopo il lockdown non ne ha più trovato uno. “Bevo ogni tanto”, confessa mentre sorseggia una birra, “ma senza esagerare”. Sono nella sua stessa condizione anche tanti altri che gli siedono accanto, in attesa che il dibattito inizi. Annuiscono, vorrebbero un’occupazione, ma nessuno gliela offre. La maggior parte delle donne ha bambini a cui badare, gli uomini chiacchierano in una lingua che sembra romaní misto a serbo. Hanno quasi tutti i documenti in regola e affermano che andranno a votare l’8 e il 9 giugno. Alcuni hanno già le idee chiare, altri devono informarsi meglio, altri ancora fanno confusione con le elezioni amministrative. Ma applaudono quando sentono dire che c’è chi vuole che la loro voce conti nell’Ue: s’interrompe il brusio, gli speaker sul palco catturano l’attenzione. A confrontarsi ci sono Christian Raimo, insegnante e candidato con Alleanza Verdi e Sinistra, e Vauro Senesi, vignettista e capolista di “Pace Terra Dignità” di Michele Santoro. A introdurre la tribuna è Adela Militaru, direttrice di Roma for Democracy Italia. Presenta il manifesto per la rete transnazionale della Fondazione rom per l’Europa, che contiene proposte concrete della comunità rom e sinti per contribuire alla crescita economica e sociale dell’Ue, Dijana Pavlovic, portavoce del Movimento Kethane. Ci sono sei milioni di membri della comunità romanì in Europa, secondo le stime del 2020 della Commissione europea. Se si prendessero in considerazione anche quelli senza cittadinanza, si arriverebbe a 12 milioni. Si tratta della minoranza etnica più numerosa dell’Unione, ma anche di uno dei gruppi più vulnerabili. Sebbene la Commissione sia impegnata a tutelarne i diritti e a prevenire le discriminazioni (ci sono sette obiettivi da raggiungere entro il 2030, come contrastare l’antiziganismo, colmare il divario con i cittadini autoctoni, promuovere la partecipazione nella società civile), l’80 per cento dei rom è a rischio povertà ed esclusione sociale. Nei Paesi dell’Europa meridionale, tra cui l’Italia, la quota supera il 90 per cento. “La minoranza rom e sinti ha subìto e subisce segregazione razziale abitativa e scolastica in quasi tutti i Paesi. Un esempio: tra i cittadini rom europei 1 su 3 vive senz’acqua potabile e senza un bagno in casa. Le politiche finora praticate sono state insufficienti e inefficaci perché pensate con un approccio assistenzialista”, spiega Pavlovic. È, invece, importante che gli elettori rom e sinti partecipino al processo democratico, votino per assottigliare il divario con la politica. Visto che sono anche una risorsa: i membri della comunità romanì sono il gruppo più giovane dell’Ue, mentre dal 2009 al 2023 la popolazione in età lavorativa è diminuita (da 272 milioni a 263) e si prevede che decrescerà ancora. “I 2 milioni di nostri giovani rappresentano un’opportunità, a condizione che possano realizzarsi attraverso adeguati investimenti in programmi educativi e di preparazione professionale. Non è un atto di carità, ma un investimento intelligente che corrisponde a un guadagno di 600 miliardi di euro ogni 10 anni. L’assistenza che gli Stati membri sarebbero costretti a dare al 72 per cento di ragazze e al 55 per cento di ragazzi che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione costerebbe assai di più”, si legge nel manifesto redatto per le Europee. “Servono incentivi fiscali e sussidi per stimolare gli imprenditori che impiegano gruppi etnici e sociali esclusi; programmi di sostegno educativo a lungo termine per i minori; formazione sul campo”. Per salvaguardare la democrazia in Europa. Per costruire un futuro migliore, a partire dal villaggio di via dei Gordiani. Migranti. In Italia come in Iran: liberare Maysoon di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 9 giugno 2024 Maysoon Majidi è in un carcere italiano accusata di essere una scafista. Le autorità italiane fingono ancora di non sapere che i veri trafficanti restano a terra. E lei, oggi, paga il suo coraggio. Come ti chiami, dove sei nata? Aspettate, vorrei spiegarvi. Non preoccuparti, vieni con noi. Clack, le manette. Sarà stata distrazione o negligenza. I mediatori culturali e gli interpreti sono una lotteria, devi trovare quello giusto. Maysoon Majidi è stata sfortunata. Nessuno le ha dato il tempo di parlare, dopo essere sbarcata il 31 dicembre scorso nei pressi di Crotone, al termine di un viaggio durato quattro giorni. Da sei mesi è detenuta nel carcere di Castrovillari, in Calabria, con l’accusa di aver pilotato la barca che ha trasportato lei ed altri disperati dalla Turchia. Maysoon è curda, ha studiato teatro e sociologia a Teheran. Disegnatrice, videomaker, nei mesi di detenzione ha imparato a scrivere in italiano. Negli anni scorsi è stata premiata 33 volte per i suoi reportage. Ci vuole una robusta dose di idiozia o malafede per accusarla di essere una “scafista”. È il concetto stesso a essere irreale nel 2024. Solo la narrazione acida, distorsiva e “a buon mercato”, costruita dalle destre in questi ultimi due anni, poteva vomitare il folk devil dello scafista. Tale poteva essere trenta anni fa chi conduceva nell’Adriatico imbarcazioni partite dall’Albania e territori limitrofi, cariche di persone migranti. In cambio di congrue ricompense, traghettavano i “dannati”, li scaricavano e tornavano indietro. Oggi nessuno si presterebbe a compiere un’impresa così priva di convenienza, senza ritorno. È vero, sulle barche dei disperati possono trovarsi soggetti costretti a collaborare con chi ha organizzato i viaggi. Ma non Maysoon che quando è sbarcata aveva 150 euro in tasca! Parlava troppo, durante la traversata, questa attivista 27enne che ha avuto duri scontri verbali con quelli che poi in un primo momento la avrebbero indicata come “scafista” ai poliziotti impegnati nella caccia al “capitano”. Senza confermare le presunte accuse, queste persone si sono poi dileguate. Ora vivono altrove e hanno paura di tornare in Italia per testimoniare l’innocenza di Maysoon nelle aule di giustizia. A bordo c’era pure chi aveva una cabina tutta per sé. E qualcuno occupava una poltrona, mentre la maggioranza, compreso un neonato di un mese, dormiva a terra o era compressa nella stiva. Non ha esitato a schierarsi dalla parte di chi viaggiava in basso Maysoon che da ragazzina ha militato per sette anni nel Komala, l’organizzazione curda che ha combattuto contro il potere fascio-religioso iraniano. Forse anche per questa sua temerarietà, qualcuno ha deciso di fargliela pagare. Bisognava trovarlo a tutti i costi, lo scafista. E per ammanettarla è bastato che qualcuno mormorasse: “Manteneva la calma a bordo”, “distribuiva cibo e acqua tra gli altri passeggeri”, “ha girato un video, appena avvistate le coste italiane, e lo ha inviato a chissà chi”. Potenza immaginifica di certi inquirenti: non ci voleva il tenente Colombo per scoprire che alla partenza dalla Turchia i trafficanti - quelli veri, che restano a terra - avevano sequestrato a tutti gli smartphone a lei, affidandoli a uno di coloro che poi hanno rivolto lo sguardo infame contro di lei. Alla vista della sponda italiana, Maysoon e gli altri profughi hanno riottenuto l’uso del cellulare. Le è stato restituito per consentirle di comunicare alla famiglia che poteva (e doveva) versare alla malavita turca la seconda rata degli 8.500 dollari pagati per il viaggio. Un “biglietto” costato il doppio, perché prima della partenza i soldi le erano stati rubati. Ne raccontano anche la bellezza, i parlamentari che hanno incontrato Maysoon nel suo calvario italiano degli ultimi mesi: occhi neri e profondi, naso delicato, labbra disegnate, riesce ancora a sorridere amara, mentre narra la sua storia kafkiana. I legali riferiscono che è smagrita da uno sciopero della fame a tre riprese e che, come la maggior parte dei detenuti, soffre di attacchi d’ansia e panico, ma rifiuta i farmaci, vuole restare presente a se stessa. Per la legge iraniana, non è grave uccidere una donna: equivale a dare uno schiaffetto a un uomo. Lei è scappata dall’Iran per approdare in Italia, dove una giudice donna la imprigiona. Maysoon, che da reporter documentò la condizione dei curdi fuggiti in Iraq dall’Iran, nella terra di Cesare Beccaria oggi vive la loro medesima, orribile, condizione. Adesso però in gioco è la credibilità stessa del sistema giudiziario. Venerdì il tribunale di Crotone ha di nuovo respinto la richiesta di sostituzione della misura cautelare. Maysoon resta in carcere. Ma se c’è un giudice in Calabria che vuole dimostrare che i tribunali italiani giudicano ancora applicando i principi costituzionali, liberi Maysoon. Migranti. Perfino i morti indirizzati verso un “porto sicuro” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 giugno 2024 Recuperati dalla Geo Barents e dalla Ocean Viking: navi poi spedite dal Viminale una a Genova (1.500 km in 5 giorni di navigazione con 11 cadaveri in cella frigorifera tra 109 soccorsi) e l’altra a Carrara (1.000 km) Va bene che quelli che affogano nel Mediterraneo sono i più “vinti” tra tutti i “vinti”: senza nome (sconosciuto), senza volto (consumato), senza storia (ignota) e senza diritti, manco quello di essere riconosciuto almeno scarabocchio fra “tutti gli uomini che passano sui fogli del mondo come scarabocchi” (Baglioni). Ma neanche i pacchi postali deperibili vengono trattati come i cadaveri (in acqua da chissà quanti giorni di chissà quale naufragio) avvistati in zona Sar libica dall’aereo di una ong, 11 recuperati dalla Geo Barents e 1 dalla Ocean Viking: navi poi spedite dal Viminale - in base al decreto Piantedosi sotto minaccia altrimenti di fermo amministrativo - come “porto sicuro” una a Genova (1500 km in 5 giorni di navigazione con 11 cadaveri in cella frigorifera tra 165 soccorsi) e l’altra a Carrara (1000 km). Fino ieri alla parziale concessione - il trasbordo almeno delle salme di Geo Barents su una motovedetta della Capitaneria per lo sbarco a Lampedusa - che il Viminale si é affrettata a giustificare “esclusivamente per ragioni umanitarie”, non sia mai che si dubiti che “il porto sicuro è prerogativa del ministero dell’Interno”. Già il 7 marzo la Sea Watch 5, con il cadavere di un 17enne pakistano a bordo, si era vista assegnare come porto Ravenna, prima di ottenere la grazia di attraccare a Pozzallo. Ma dei pesci si ha ormai anche la (assuefatta) memoria breve. Migranti. Deportazioni in Albania. Diritti e garanzie contro l’azzardo di Meloni di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 giugno 2024 La premier ha le spalle coperte in Europa, ma sulla strada dei Centri per migranti rimangono ostacoli logistici e giuridici. Sui trattenimenti deve decidere la Corte Ue. Traballa la definizione di Paesi sicuri. La legge di ratifica del protocollo Italia-Albania è stata votata dal parlamento e Giorgia Meloni sa di poter contare sull’appoggio politico di molti Paesi Ue. Il suo governo vuole archiviare la questione dei costi spropositati, per ora circa un miliardo in cinque anni, sostenendo che si tratta di “investimenti” e non spese. Per il funzionamento dei centri nel Paese delle Aquile, però, restano diversi scogli da superare. Alcuni sono di natura logistica. In primo luogo rispetto alle procedure di selezione dei migranti che possono essere detenuti al di là dell’Adriatico: solo quelli che non presentano condizioni di vulnerabilità e provengono da Paesi che l’Italia considera “sicuri”. Non è chiaro dove saranno effettuati gli screening e con quale personale. Il fatto che ci sia di mezzo il mare complica i progetti dell’esecutivo. C’è poi un tema di sicurezza durante trasferimenti e detenzione amministrativa. La storia dei Cpr italiani è costellata di rivolte. Su dieci centri operativi due, Torino e Trapani, sono chiusi per le ribellioni dei trattenuti, altri hanno una capienza limitata per la distruzione di interi settori. Altri ostacoli sono di carattere giuridico: non di poco conto visto che l’azzardo meloniano apre scenari completamente nuovi sul piano giurisdizionale. Nuovi saranno dunque i problemi in tema di diritti e garanzie. Due su tutti: la legittimità del trattenimento dei richiedenti asilo e la definizione di “Paesi sicuri”. A marzo 2023 il decreto Cutro ha introdotto la possibilità di detenere durante l’iter per la protezione internazionale i migranti che sbarcano in Italia se sono originari di Stati “sicuri”. Lo scorso autunno è esploso un contenzioso giuridico perché il tribunale di Catania non ha convalidato questi trattenimenti. Il ricorso del Viminale è finito alle Sezioni unite della Cassazione, che hanno interrogato la Corte di giustizia Ue sul punto della norma che prevede una garanzia finanziaria come alternativa alla detenzione. La legge nazionale rispetta le direttive Ue? La risposta non arriverà prima di un paio d’anni. Il problema per il governo è che si tratta della stessa norma alla base dei trattenimenti in Albania. Sulle quali dovrà esprimersi il tribunale di Roma, la sezione specializzata in materia di immigrazione. È verosimile che con il quesito pendente davanti alla Corte Ue i giudici di merito si muovano in direzione analoga ai colleghi catanesi. Fermo restando che il governo potrebbe modificare la norma e far ripartire la storia da zero. Nei centri Gjader e Shengjin, però, la situazione sarà eccezionale: vale la giurisdizione italiana, ma sono in territorio albanese. La Commissione Ue, ovvero il potere esecutivo, ha sostenuto che per questo non si applica il diritto comunitario, ma solo quello nazionale. Significherebbe che i trattenimenti non sono di competenza dei giudici del Lussemburgo. È da vedere come interpreterà la questione il potere giudiziario, italiano ed europeo. Se valessero solo le norme nazionali, comunque, si aprirebbe una questione ulteriore sulla legittimità della detenzione amministrativa. Le leggi comunitarie la consentono a determinate condizioni e fini, ma è assente dal dettato costituzionale. A monte resta poi la domanda su chi decide se un Paese è “sicuro” oppure no. Recentemente il governo ha esteso la lista a 22 Stati. Significa che i rispettivi cittadini sono sottoposti a procedure d’asilo accelerate e con molte meno garanzie. Se la richiesta è presentata in frontiera, come detto, è possibile trattenerli. L’allegato I della “direttiva procedure” stabilisce i criteri per ritenere un Paese sicuro: fondamentalmente deve valere lo Stato di diritto, perché oltre a essere escluse in senso generale persecuzioni, torture, trattamenti inumani o degradanti deve esistere “un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di diritti e libertà”. È difficile credere che tali presupposti siano presenti in Bangladesh, Egitto o Camerun, aggiunti di recente, oppure nella Tunisia in cui Kais Saied ha assunto pieni poteri. Per questo lo scorso autunno il tribunale di Firenze ha disapplicato il decreto contestando la previsione di sicurezza per quest’ultimo Paese. Di recente le Sezioni unite hanno stabilito che il magistrato ha il potere di vigilare sulla lista dei Paesi sicuri. Ma il giudice civile, a differenza di quello amministrativo, valuta il caso singolo e non può obbligare a nulla l’amministrazione. La Tunisia resta dunque nell’elenco. Del resto dopo le decisioni fiorentine non si è consolidato un orientamento in altre corti, anzi una diversa sezione dello stesso tribunale ha optato per un’interpretazione opposta. Al momento la disapplicazione del decreto, per ragioni procedurali, è passata in secondo piano. Potrebbe però riproporsi con le detenzioni di massa in Albania. Il conflitto sulla definizione di Paesi sicuri è intanto arrivato in Lussemburgo. Una causa di un giudice ceco e due del tribunale di Firenze chiedono alla Corte Ue di stabilire se Stati in cui la “sicurezza” non vale in tutto il territorio, come la Moldavia per la presenza della Transnistria, o per l’intera popolazione, come Nigeria e Costa d’Avorio a causa dell’esclusione di vari gruppi sociali, possano rientrare o meno nell’elenco. Nel primo caso la Grande Camera deciderà nei prossimi mesi, gli altri due sono stati sollevati tre settimane fa e, a meno vengano accorpati a quello ceco, avranno bisogno di tempo. Queste decisioni, competenza Ue permettendo, possono avere effetti importanti sul progetto albanese. Le cose cambieranno radicalmente con il nuovo Patto europeo su immigrazione e asilo, regolamento Ue direttamente applicabile che sostituisce le direttive e prevede il trattenimento generalizzato non solo dei richiedenti di Paesi sicuri ma di tutti quelli provenienti da Stati per cui il tasso di riconoscimento dell’asilo è inferiore al 20%. Entra in vigore il prossimo 11 giugno, ma sarà attuabile dal 2026. Forse tardi per gli obiettivi di Meloni, non certo per rendere strutturale la detenzione di massa dei cittadini stranieri fuori dai confini Ue.