Non repressione ma relazioni umane per carceri più sicure di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 8 giugno 2024 Tutto è in evoluzione. Anche i concetti e la loro pratica. Pensiamo all’educazione. Non molto tempo fa si ricorreva alle pene corporali per correggere comportamenti di bambini considerati inappropriati oppure li si umiliava. I figli del baby boom certamente ricorderanno quando la maestra mandava dietro la lavagna chi disturbava in classe. Oggi nessuno si sogna di prendere a ceffoni un figlio o di bacchettare un alunno, men che mai di esporlo al pubblico ludibrio quando si ritiene abbia sbagliato. Organizzazioni internazionali, con mozioni e risoluzioni, incoraggiano una genitorialità positiva e nonviolenta. Poi c’è la sicurezza. Concetto ancora intriso di repressione quando invece è possibile, direi indispensabile, mutarlo verso una concezione improntata alla relazione. I fatti accaduti al carcere minorile Beccaria di Milano, prima il 7 maggio poi alla fine del mese di maggio, contribuiscono a far comprendere quanto questa evoluzione sia necessaria e urgente. Lo è a partire dalle difficoltà che il personale, a cominciare dalla polizia penitenziaria, incontra sul luogo di quotidiano lavoro. Perchè il carcere, per quanto in un istituto minorile il regime possa essere più flessibile, resta uno spazio in cui gli aspetti securitari sono dominanti. Dominano sull’ambiente di lavoro e sulle relazioni umane. Il coinvolgimento emozionale che deriva dalla costante esposizione all’angoscia di chi vi è recluso, a vissuti intrisi di dolore, al senso di sbandamento, è condizione di per sé stressante. In una situazione che è ulteriormente aggravata dal sovraffollamento, dalla ricorrente mancanza di risorse oltre che da condizioni materiali spesso degradanti. Per quello che ho potuto constatare nel corso delle visite agli istituti penali che con Nessuno tocchi Caino mi hanno portata a entrare nell’ultimo anno e mezzo in circa 150 delle 189 carceri del nostro Paese, posso dire che il compito affidato alla polizia penitenziaria è tale da esporre sempre di più gli agenti a continue prove e sfide tanto fisiche quanto psichiche. È come se fossero stretti in una tenaglia. Da un lato aumenta il sovraffollamento con un crescente allentamento delle interazioni con i detenuti. Dall’altro, l’accresciuta presenza di detenuti con disordini mentali amplia le difficoltà dell’interazione stessa. Un allentamento del legame detenuto-detenente che si traduce, per tutti, in un’esperienza logorante, in un senso di solitudine e di complessiva frustrazione. Il dibattito pubblico è stato alimentato dalle notizie sulla cronaca dei fatti accaduti al Beccaria e dall’immediata decisione di creare, con decreto ministeriale del 14 maggio, il GIO, “reparto di rapida reazione operativa, specializzato nella protezione e tutela della sicurezza delle strutture penitenziarie e delle persone in caso di rivolta in carcere”. Non vi è spazio di parola e di azione per valutare diverse e nuove forme di gestione della sicurezza improntate alla creazione e al rafforzamento di significative relazioni umane. In una recente visita in un carcere, un detenuto, nel descrivere la sua condizione di pena e nel tentativo di spiegare il perché di così tanta afflizione mi ha detto: “noi detenuti siamo troppo immaginati”. Perché in effetti il carcerato continua a essere pensato, dunque trattato, come una costante minaccia dalla quale bisogna proteggersi. Con la conseguenza che chi è preposto al suo controllo è costretto su una posizione difensiva, sulla concezione che la miglior difesa è l’attacco. Tutto si svolge in un recinto dove il confronto è fisico e l’arma della parola ha la punta smussata. Quando invece l’interazione tra persone e la gestione dei conflitti dovrebbe farsi forte proprio della parola, della sua pertinenza, del suo vigore, della sua forza di attrazione, influenza e propagazione. Perchè la vera sicurezza dipende non dai rapporti di forza ma dalla forza del legame che si crea tra persone come avviene tra gli organismi viventi. Questo significa che la stessa formazione degli agenti penitenziari deve lasciare più spazio ai metodi di costruzione di significative relazioni umane. Serve farsi forti di un concetto di sicurezza che non si basa sulla repressione ma sulla relazione. In un circolo virtuoso che può ripercuotersi anche sul detenuto contribuendo al suo pieno reinserimento sociale riducendone anche la recidiva. Decreto Caivano. La risposta sbagliata di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 giugno 2024 Con la solita grancassa mediatica che accompagna i provvedimenti securitari il Parlamento ha, qualche mese fa, convertito il cosiddetto decreto Caivano (legge 159/2023). Il provvedimento governativo era stato licenziato con il significativo titolo “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale”. Quattro le direttrici, tutte repressive, della riforma: daspo urbano esteso al minore degli anni 18, che dunque può essere allontanato dal territorio del Comune con provvedimento del Questore; misure di prevenzione applicate ai minori per reati commessi attraverso i social network; ampliamento delle ipotesi per le quali è possibile la custodia cautelare nei confronti dell’indagato minorenne; nuovi limiti e ostatività per il percorso di messa alla prova. L’iniziativa legislativa era nata sull’onda di una reazione emotiva a gravi fatti di cronaca che all’epoca coinvolsero minori, autori e vittime di reato. Quegli accadimenti hanno perso la loro centralità mediatica lasciando il posto ai pesanti effetti dell’applicazione dell’ennesima normativa emergenziale: sensibile aumento dei giovanissimi detenuti nei 17 IPM al punto che anche quel circuito carcerario oggi presenta il fenomeno del sovraffollamento di cui prima non aveva sofferto con il suo carico di tensioni e di dinamiche violente; la nuova legge, poi, consente l’immissione dei giovani detenuti, una volta raggiunta la maggiore età, nel circuito carcerario ordinario incidendo così in modo spesso irreparabile sulle loro giovani vite. Altra conseguenza dell’applicazione delle nuove norme è la maggiore difficoltà alla ammissione ai percorsi alternativi che nel processo minorile servono a evitare l’impatto della pena sui giovani imputati, così da realizzare attraverso di essi la finalità rieducativa della sanzione. Ai danni arrecati da questo approccio legislativo hanno reagito associazioni come Antigone, da sempre impegnate nella difesa dei diritti anche dei giovani detenuti. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha costituito uno specifico Osservatorio per garantire un focus continuo sulla giustizia minorile. La stessa giurisdizione dei minorenni ha evidenziato tutte le criticità delle nuove norme. L’Accademia ha sottolineato la contraddizione e l’inversione di rotta delle misure del decreto Caivano, cogliendone i profili di incompatibilità con le garanzie e gli obbiettivi costituzionali. Non disperdere il peculiare patrimonio di esperienza della giustizia minorile e affermare una cultura giuridica che sappia al contempo misurarsi con il crescente disagio giovanile non rinunciando a regole e princìpi nel momento dell’accertamento penale, è ciò che si deve contrapporre ad una società non dialogante che mostra di saper esprimere solo risposte repressive. Il carcere minorile dopo il Decreto Caivano di Susanna Marietti* Il Riformista, 8 giugno 2024 Lo scorso 20 febbraio Antigone ha pubblicato il suo ultimo rapporto sulla giustizia minorile in Italia dal titolo “Prospettive minori”. Per la prima volta dopo molti anni abbiamo con esso lanciato un messaggio di forte preoccupazione per un sistema che ha costituito un modello per l’intera Europa e che oggi vediamo minato nella sua filosofia più profonda. La giustizia minorile italiana è stata capace nel tempo di residualizzare la risposta carceraria. Anche oggi, a fronte di quasi 14.200 ragazzi in carico ai servizi minorili, ne troviamo circa 570 nei 17 Istituti Penali per Minorenni d’Italia, ovvero il 4%. La percentuale era tuttavia di poco superiore al 3% alla fi ne dello scorso agosto 2023. Da allora, i giovani detenuti sono cresciuti di 135 unità, con un aumento di oltre il 30%. L’approvazione del cosiddetto decreto Caivano del settembre 2023, convertito con modificazioni peggiorative nella legge 159 del novembre successivo, ha contribuito ad un’espansione del carcere che non trova riscontro nei dati sulla criminalità minorile. Ondivaghi negli ultimi quindici anni ma senza alcuna impennata che possa giustificare la necessità e l’urgenza. Il decreto Caivano mina l’impianto della giustizia minorile italiana per come l’aveva pensata il legislatore del 1988, che aveva improntato il processo minorile a quel superiore interesse del fanciullo che l’anno successivo verrà codificato dalla Convenzione delle Nazioni Unite, subordinando la stessa facoltà punitiva all’individuazione del percorso migliore per il recupero del ragazzo. Il codice di procedura penale minorile lascia al giudice il più ampio ventaglio di possibilità di gestione del minore, a seconda di cosa risulti meglio per lui. Le nuove norme, oltre alla scriteriata espansione nell’uso della custodia cautelare, introducono invece automatismi al fine di limitare l’applicazione della messa alla prova - e già a Bari è stata sollevata al proposito questione di legittimità costituzionale - o di obbligare il giovane ai lavori socialmente utili, che certo non per forza costituiscono il suo superiore interesse. Girando per gli Ipm, per la prima volta abbiamo trovato materassi messi a terra per creare posti di fortuna in ambienti sovraffollati. Ma non è solo la quantità a preoccuparci: è anche la qualità della detenzione, che sta abdicando a quella presa in carico individualizzata che gli straordinari operatori della giustizia minorile riuscivano in passato a garantire. Indubitabilmente l’utenza delle carceri minorili è cambiata nel tempo e continuerà a farlo. Con il progressivo smantellamento dell’accoglienza esterna, tanti minori stranieri non accompagnati costretti a vivere per strada nelle nostre città - specialmente al settentrione - si sono ritrovati a incrociare il carcere. Ragazzi dal vissuto tragico, spesso dipendenti da sostanze, alcol, psicofarmaci. Ragazzi con ben comprensibili difficoltà a gestire le emozioni, che meriterebbero ogni attenzione e presa in carico. Il carcere reagisce invece con strumenti di neutralizzazione piuttosto che di integrazione: continui sfollamenti da nord a sud, tour carcerari come fossero pacchi postali, isolamenti disciplinari (in un Ipm del sud ci è stato raccontato candidamente che nel 2023 sono stati emanati più di 100 provvedimenti, per un’utenza solo di una ventina di ragazzi), piogge di psicofarmaci senza adeguata presa in carico psicologica. Al Beccaria di Milano, teatro di tragici eventi, tra il 2021 e il 2022 la spesa in psicofarmaci era quasi triplicata. E poi, imputazioni su imputazioni. Il ragazzo entra con un furto e dopo pochi mesi ha collezionato altri dieci reati: un gesto d’ira contro l’armadietto diventa danneggiamento, una lite col compagno diventa rissa, una rispostaccia all’agente diventa oltraggio. E il ragazzo non esce più. Il reato di rivolta penitenziaria presente nel disegno di legge governativo oggi all’esame del Parlamento, punibile fino a otto anni di carcere anche in caso di resistenza passiva all’esecuzione degli ordini, farà strage dell’esuberanza adolescenziale nelle carceri minorili. Continuando di questo passo, tra qualche mese non sapremo più dove stipare questi giovani. Appena maggiorenni ci sbarazzeremo di loro spedendoli in quella fabbrica di criminalità che è il carcere per adulti. I minorenni resteranno chiusi in celle sovraffollate. E avremo per sempre distrutto un sistema che era stato capace di ispirarsi ai più alti princìpi costituzionali. *Coordinatrice nazionale Antigone Ragazzi privati del diritto ad avere un futuro a cura di Ornella Favero* Il Riformista, 8 giugno 2024 Due testimonianze “esemplari” che raccontano come la pena “cattiva” produca altro male, nonostante in tanti vorrebbero farci credere che più carcere equivalga a maggiore sicurezza. “Se non ti viene nemmeno data l’opportunità di migliorare, come puoi credere tu stesso di poterlo fare?”: sono parole di una giovanissima studentessa dopo un incontro con persone detenute, che raccontavano la loro esperienza al carcere minorile, che ha aperto la strada a reati più gravi e a una carcerazione lunga e tormentata nel carcere per adulti. Quella ragazza ha fotografato con poche parole l’assenza di un futuro, di una speranza, di una prospettiva di cambiamento che caratterizza oggi la vita detentiva anche negli Istituti di pena per minori. Eppure, questo sembra non bastare ai sostenitori della pena vendicativa, che parlano di punire di più quei ragazzi, come se non fosse già abbastanza privarli di un futuro. Quelle che seguono sono due testimonianze “esemplari” da questo punto di vista perché raccontano che la pena “cattiva” non fa che produrre altro male, nonostante in tanti vorrebbero farci credere che più carcere, anche per i ragazzini, ci rende più sicuri. Amin, che voleva diventare un boss Io mi chiamo Amin e voglio raccontare, come faccio quasi ogni settimana con le scuole che entrano in carcere, perché un ragazzo che viene da una famiglia perbene si trova a scontare anni di galera. Sono cresciuto insieme a mia mamma e mio nonno, che era una bravissima persona. Già a scuola vivevo un po’ emarginato dai miei compagni per via del mio nome, perché pur essendo italianissimo ho un nome straniero, Amin. E in un paese di 15.000 abitanti, dove c’era tanta ignoranza, non era facile andare avanti. Essendo emarginato dai ragazzi della mia età, trovo rifugio in un gruppo di ragazzi più grandi. A loro non interessava niente di me, da che famiglia venivo, ma gli interessava molto usarmi. Così da subito comincio a commettere piccoli reati, tipo vendere la bustina d’erba o portare piccole refurtive da una parte all’altra. Fino a quando un giorno un ragazzo ci propone di fare una rapina, un vero e proprio assalto in un’oreficeria armati. Quindi sicuramente sapevamo, avevamo messo in conto, che poteva succedere qualcosa se il gioielliere avesse avuto una reazione e quindi noi eravamo disposti a tutto. La rapina “va bene”, non si fa male nessuno e torno con un po’ di soldi, e sin da subito mi è venuto il pensiero: perché devo andare a lavorare o a scuola a fare i sacrifici che fanno gli altri ragazzi, se in 10 minuti di paura posso avere tutto quello che voglio? In realtà non è così semplice, perché alla fine vengo riconosciuto dalle telecamere di sorveglianza, arrestato. e portato all’IPM di Bari. IPM sta per istituto penale per minori, ma è un vero e proprio carcere, fatto di regole dure, e di bambini, perché alla fine eravamo ragazzini, che aspirano a diventare boss o malavitosi di grosso calibro, tutte illusioni alla fine. Ma purtroppo io ero uno di quelli e passavamo le nostre giornate a parlare di ogni reato commesso o che volevamo commettere una volta usciti da là. Alla fine esco e ritorno nel mio vecchio quartiere, e ricomincio come prima. Fino a quando un giorno decidiamo di fare un’altra rapina, ma questa volta succede una tragedia perché alla reazione del commerciante il mio compagno lo ammazza. E io ho avuto uno shock perché non sapevo più cosa mi stesse succedendo. Ho subito deciso di scappare dal mio paese, ma alla fine mi arrestano. Il processo dura un sacco di tempo e io vengo condannato per concorso in omicidio e concorso in rapina a 24 anni. Amir, diventato suo malgrado un “minore non accompagnato” La mia storia è iniziata all’età di 15 anni, quando in Tunisia, frequentavo la scuola e giocavo a calcio, ed ero bravo e appassionato. Un giorno mio padre mi chiama e mi dice che devo partire per l’Italia. Provo a spiegargli che vado bene a scuola, ho i miei amici e tutto quello che mi serve, ma lui dice che in Tunisia non c’è futuro. Appena vedo mia mamma capisco che neppure lei è d’accordo, ma mio padre è irremovibile, e comincio a prepararmi per partire il giorno dopo. Il viaggio è una tragedia, il secondo giorno il mare è agitato e la barca resiste un paio d’ore, poi per le onde alte si ribalta. Vedo alcune persone annegare, e non riesco a togliermi dalla mente una donna sudafricana che muore davanti a me con i suoi due figli. Per mia fortuna arriva la guardia costiera italiana che salva tutte le persone rimaste. Mi mettono in un centro di accoglienza, ma qualche giorno dopo scappo. Mi ferma la polizia e mi porta in caserma e poi in comunità. Il problema maggiore è non poter telefonare ai miei genitori. Fornisco il loro numero di telefono, ma la risposta è sempre la stessa: “Non sappiamo a chi appartiene questo numero, non puoi chiamare”. Decido di scappare di nuovo, incontro un mio paesano, mi faccio prestare il cellulare e chiamo casa. Risponde mio padre, gli racconto quello che è successo, e lui mi dice di non tornare in Tunisia ma di andare a Padova da mio cugino. Arrivo da lui, comincio a immaginare una vita finalmente più serena, ma il giorno dopo mio cugino mi consegna del fumo. “Così puoi fare un po’ di soldi per mantenerti”. Dopo sei mesi di spaccio vengo arrestato e portato al minorile di Treviso. È la prima volta che entro in carcere, sono spaventato e comincio a vedere cose brutte: ragazzini che si tagliano con le lamette, o che si impasticcano perché non resistono alla galera. Quelli che sento sono discorsi sui reati commessi, niente di costruttivo, nessun percorso da seguire, insomma non imparo nulla. Anzi, qualcosa imparo: quando dopo undici mesi esco, sono un accanito fumatore di sigarette e anche di canne. Non so dove andare, ho paura del carcere, non ci voglio più tornare, ma mio cugino mi dice che sono un irregolare e se voglio mangiare posso solo spacciare. Così ricomincio, dopo un po’ arrestano mio cugino e finisco col prendere il suo posto. Stavolta, però, non si tratta solo di vendere un po’ di fumo, ma la droga diventa “pesante”, prevalentemente cocaina. Naturalmente i guadagni aumentano, ben presto però vengo arrestato e portato nuovamente in carcere, ma stavolta in un carcere per maggiorenni. Quando esco voglio cambiar vita, affitto una casa e conosco una ragazza, ci vogliamo bene e abbiamo una bellissima bambina. Chiedo subito il permesso di soggiorno per lavorare, perché se continuo a spacciare prima o poi mi arrestano nuovamente, ma sono sotto indagine da tempo e finisco in carcere. Il cumulo delle condanne - tutte per piccolo spaccio, ma tante - arriva a 12 anni di reclusione. All’inizio la mia compagna viene a trovarmi tutte le settimane, ma un giorno durante un colloquio mi dice che non ce la fa ad aspettarmi per così tanto tempo, promette però che continuerà a portarmi nostra figlia. Purtroppo, i colloqui si diradano sempre più, e ora sono 7 mesi che non vedo la bambina. Dieci lezioni sul male A margine di queste storie segnaliamo Dieci lezioni sul male, il recente saggio di Mauro Grimoldi per Cortina Editore. Psicologo giuridico esperto in criminologia minorile e disturbi del comportamento in adolescenza, Grimoldi è, tra l’atro, consulente del Tribunale per i minorenni di Brescia. Dieci lezioni sul male è un libro di storie, che distingue il crimine dal criminale, in un viaggio verso la comprensione del lato oscuro dell’essere umano. È una riflessione generale sull’adolescente che commette crimini, percependoli, almeno in un primo momento, come un evento estraneo alla propria volontà, accidentale, esattamente come un fenomeno meteorologico: come la pioggia. Un ragazzo di 15 anni, per nulla problematico, si trova a fare per la prima volta il palo in una rapina. In mano ha un coltello e deve prendere una decisione che segnerà la sua vita. Un altro si presenta alla festa di fine anno della scuola con un fucile nella custodia della chitarra e i nomi di 54 persone nella tasca del giubbotto. Un altro spaccia droga vestito come un businessman. Karim, infine, ha sedici anni, una scuola interrotta alle spalle, è un gigante alto 1,98 con un quoziente intellettivo di 62. È stato arrestato undici volte da quando ha compiuto i 14 anni necessari per l’imputabilità, quasi sempre per aggressioni ed estorsioni. Ragazzi tra i 14 e i 18 anni in una personale guerra con il mondo sociale, reato per reato, un racconto dopo l’altro, alcuni noti al pubblico, altri meno. Un libro con poco di convenzionale, un saggio di psicologia giuridica che siede a cavalcioni della staccionata che separa i territori della manualistica da quelli della narrativa e rimane lì, in perfetto equilibrio su una zona di confine tra il saggio e il romanzo, tra la docenza e l’esistenza. Non è difficile rintracciare un’umanità consueta, nota, familiare sullo sfondo delle storie degli adolescenti autori di reato. Un libro come un ponte, un luogo di passaggio che spiega il male nelle sue innumerevoli declinazioni, lo rende più comprensibile, lo attraversa, lo tocca, lo accoglie, lo avvicina, dandone una versione che di molto si distanzia da una sentenza di irreparabilità priva di appello. Perché, in fondo, il cerchio non è sempre rotondo, la commissione del male ha la possibilità di essere ridefinita, il suo significato può essere letto e decodificato, ricollocato nelle trame di una storia che è scritta solo in parte e che, quando ha la fortuna di incontrare il trattamento e la presa in carico, può prendere una direzione altra, che rompe il cerchio, diventando, come nelle Dieci lezioni sul male, lezione a sua volta, dedicata a chiunque abbia, in questi adolescenti, riconosciuto un po’ di sé o di altri vicino a sé. *Direttrice di Ristretti Orizzonti I minori e la giustizia riparativa di Vania Patanè* Il Riformista, 8 giugno 2024 Per troppo tempo c’è stato un ostacolo a qualsiasi riduzione di formalismo nella composizione del conflitto. A fronte di precise indicazioni esistenti a livello internazionale in ordine all’esigenza di promuovere la più ampia diffusione di tecniche di gestione del conflitto derivante dal reato alternative alla formale perseguibilità del reo, la vigenza, nel nostro ordinamento, del principio costituzionale della legalità nella persecuzione penale ha frapposto, per lungo tempo, un ostacolo a qualsiasi riduzione di formalismo nella composizione del conflitto. Situazione, questa, che ha ulteriormente contribuito a fornire un supporto giustificativo alla difficoltà culturale del sistema giudiziario ad attribuire legittimazione a procedure alternative di composizione del conflitto fondate sul paradigma conciliativo-riparativo, che presuppongono una rinuncia, anche se, talora, solo temporanea e condizionata, all’esercizio della pretesa punitiva. Questo modello di giustizia, fondato sulla logica della negoziazione piuttosto che su un paradigma di tipo autoritativo-impositivo, non è volto alla restaurazione dell’ordine giuridico violato. Ma alla ricomposizione dei rapporti sociali, attraverso soluzioni provenienti dagli stessi protagonisti del conflitto, attraverso un percorso, guidato da un soggetto neutrale - il mediatore- che mira a ripristinare il canale di comunicazione interrotto dalla commissione del reato. Tale tecnica di intervento sul conflitto, pur avendo già trovato riconoscimento nella prassi, soprattutto nel sistema di giustizia minorile, attraverso protocolli operativi abbastanza consolidati, è rimasta priva di una cornice normativa fino all’approvazione del d.lgs. n. 150/2022, che ha introdotto, per la prima volta in forma organica e strutturalmente autonoma, una disciplina della giustizia riparativa in materia penale. A differenza del processo, che mira a ricostruire la verità dei fatti attraverso il contraddittorio tra le parti, la priorità teleologica della restorative justice è individuare una soluzione condivisa, attraverso un modello ontologicamente anticognitivo: una verità che si fonda su una ricostruzione dei fatti così come accettata dai protagonisti del conflitto e non resa oggetto di un giudizio formulato da un terzo. I programmi di giustizia riparativa e la mediazione penale in particolare, grazie a questa attitudine a gestire il conflitto derivante da reato secondo modalità che enfatizzano il ruolo delle parti nella ricerca di una soluzione, sono preziosi strumenti di intervento sul minorenne indagato o imputato, capaci, nel segno della minima offensività e della de-stigmatizzazione, di promuovere quel confronto reo-vittima, che rappresenta una componente cruciale del percorso di maturazione e responsabilizzazione. Il consenso delle parti - informato, libero e consapevole - è previsto quale condizione imprescindibile per avviare un percorso riparativo e garantire l’assoluta mancanza di coercizione, prevenendo qualsiasi forma di ricatto o pressione, diretta o indiretta, tanto sull’autore del reato come pure sulla vittima. Profilo, questo, che acquista un rilievo particolare nell’ipotesi in cui una o entrambe le parti siano minorenni; proprio focalizzando l’attenzione sulle esigenze riconnesse alla vulnerabilità della condizione minorile, la normativa sancisce un principio di specializzazione nei percorsi formativi dei mediatori e l’assenso dell’esercente la responsabilità genitoriale accanto al consenso prestato dal minore in ordine all’accesso ai programmi di giustizia riparativa. Attesa la sussistenza di profonde diversità strutturali e teleologiche tra la giustizia “tradizionale” e il modello conciliativo-riparativo, le articolazioni del rapporto tra l’una e l’altro risentono inevitabilmente dell’estrema mobilità delle frontiere che ne delimitano i rispettivi ambiti di esplicazione. Per capire fino a che punto il paradigma della giustizia riparativa, nelle sue molteplici declinazioni, possa aspirare a una autonomia funzionale rispetto al processo, occorre considerare la fase specifica in cui gli istituti che ne rappresentano l’attuazione risultano incardinati: è questo elemento, infatti, che concorre inevitabilmente a definire le possibili interazioni con il sistema della giustizia penale. *Prof. Ordinario di procedura penale Violenza di genere e giustizia minorile di Giuseppe Spadaro* Il Riformista, 8 giugno 2024 Il Rapporto criminalità minorile e gang giovanili della direzione centrale polizia criminale 2024 prende in esame le segnalazioni di minori della fascia d’età 14-17 anni, denunciati e/o arrestati sul territorio nazionale, con riferimento al periodo 2010-2023. In particolare, in ambito urbano a fronte del numero complessivo di segnalazioni di minori denunciati e/o arrestati diminuito del 4,15% nel 2023 rispetto al 2022, le segnalazioni di minori denunciati e/o arrestati per violenza sessuale, tra il 2022 e il 2023, registrano invece un incremento dell’8,25% sul totale. L’analisi dei dati condotta in base alla nazionalità dei minori denunciati e/o arrestati mostra che, nei valori annuali, il dato riferibile agli italiani è sempre superiore nell’intera serie storica, e negli ultimi due anni del periodo in esame l’incidenza delle segnalazioni di minori stranieri per violenza sessuale registra un lieve aumento (54,64% nel 2022 e 56,19% nel 2023). In alcuni episodi recenti che hanno richiamato un’alta attenzione mediatica sono ricorrenti reati di violenza sessuale di gruppo, associati a rapina e lesioni (Milano, 2022); produzione, detenzione e divulgazione di materiale di pornografi a minorile (Firenze, 2023); violenza sessuale di gruppo, ignoranza della persona offesa, corruzione di minorenne e pornografi a minorile (Caivano, 2023). Non vi è dubbio, che costituisce una costante la presenza di vittime minorenni o addirittura infraquattordicenni. Ancora più che in altri ambiti, il panorama informativo e il dibattito pubblico su questi dati e, più in generale, sul disagio giovanile, si caratterizza per un’elevata infodemia. Su giornali e televisione, così come sui social, abbondano pareri, servizi, interviste, numeri ancorché parziali e non strutturati. Eppure, è difficile arrivare a una sintesi, o perlomeno a un quadro chiaro su cosa stiano vivendo giovani e giovanissimi, su cosa stia davvero accadendo nel paese, in particolare, in tema di violenza sessuale, anche da parte degli stessi decisori, Legislatore compreso. Nell’ultimo libro di Jonathan Haidt, Anxious Generation, è svolta un’analisi complessa di dati relativi anche agli anni prepandemici, nei quali si era già verificato un aumento crescente di minorenni con gravi fragilità psicologiche con aumento esponenziale di stati depressivi e stati di ansia diffusi che con l’emergenza sanitaria hanno subìto un effetto di ulteriore accelerazione che ne ha determinato una vera e propria esplosione. È questo il quadro di fondo all’interno del quale collocare l’aumento dei reati di violenza sessuale e, anche dal mio osservatorio, si può rilevare una correlazione crescente e costante con il dato della diffusione degli smartphone che hanno letteralmente rivoluzionato la vita e i comportamenti individuali e di gruppo degli adolescenti. Fin dalla Convenzione di Lanzarote, adottata il 25 ottobre 2007, la comunità internazionale ha avvertito la necessità di approntare strumenti preventivi, normativi ed operativi più incisivi per la tutela dei minori vittime e minori autori di reati a sfondo sessuale cercando di contestualizzare il dato normativo all’interno di un tessuto sociale profondamente cambiato. Resta di assoluta attualità la duplice esigenza di conoscere il fenomeno della violenza sessuale commessa dai minori, e in danno dei minori stessi, e di comprendere come si sia evoluto e si stia evolvendo il fenomeno per mettere a fuoco modalità di intervento sempre più appropriate, sia nel trattamento diretto degli utenti sia nel campo della prevenzione dello stesso. Infatti, solo una sufficiente conoscenza dei fattori di rischio e dei fattori di protezione presenti nella vita del minore può assicurare una prognosi ragionevolmente attendibile sulla positività e sulla costruttività degli interventi, anche in sede penale, per prevenire la ripetitività di tali comportamenti, contemplando uno spettro di azione che guardi sia al minore vittima, sia al minore abusante. All’interno del quadro di fondo prima descritto, vorrei aggiungere tra i fattori di rischio significativi, le situazioni di solitudine e vulnerabilità del minore in un contesto relazionale e familiare sempre più esposto ad agenti disgreganti. Troppo spesso, l’atto sessuale è inteso come azione di sopraffazione e possesso in assenza di qualsiasi capacità di riconoscere l’altro da sé, associando alle pratiche sessuali l’uso della forza, di minacce o costrizione. Per tali ragioni, la crescita del disagio dei minorenni che commettono reati a sfondo sessuale rappresenta una delle espressioni più allarmanti che oggi abbiamo di fronte, riconducibili alla sempre più complessa condizione giovanile e tra i generi. Più che evocare “bollettini di guerra”, nonostante l’aumento che abbiamo visto di violenze e reati come stalking, violenze sessuali e maltrattamenti in famiglia anche tra i giovanissimi, limitandosi ad invocare risposte sul piano giudiziario, vorrei associarmi alla proposta fatta a Governo e Parlamento dell’Autorità Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, in occasione dell’ultima Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di attivare nel nostro paese centri antiviolenza specifici per i minorenni. Il tema principale dovrebbe essere l’introduzione di nuovi strumenti per promuovere e agevolare il meccanismo di segnalazione: innovazioni che dovrebbero confluire in una normativa organica, per superare la frammentazione legislativa in materia, con una definizione univoca di violenza. A questo si aggiunga, come anticipavo, la necessità evidente di investire nell’educazione alla legalità e all’affettività, nonché sulla prevenzione. *Presidente del Tribunale dei minori di Trento Diritto di difesa e processo minorile di Sabrina Viviani* Il Riformista, 8 giugno 2024 Gli ultimi provvedimenti legislativi hanno finito per dilatare il ricorso a misure di prevenzione e alla custodia cautelare, inasprire le sanzioni e limitare i benefici. Nell’immaginario collettivo la giustizia minorile è declinata essenzialmente in chiave di soluzione a manifestazioni estreme di disagio sociale. Tale pensiero di frequente lambisce anche la giurisdizione, essa stessa portata a ritenere che sia compito della giustizia minorile individuare percorsi volti a favorire l’uscita del minore dal circuito processuale quanto più rapidamente possibile. In tale logica, le regole del giusto processo, fissate nell’art. 111 della Costituzione prima ancora che nel codice di rito, e il principio di presunzione di innocenza con il suo indissolubile corollario della dichiarazione di responsabilità solo nei casi di prova del fatto reato oltre ogni ragionevole dubbio, perdono incisività. Assume invece centralità l’intervento educativo che però spesso rischia di sconfinare, come efficacemente sostenuto da Glauco Giostra, in “paternalismo pedagogico”. E così cosa si ritiene da un giudice esperto e magnanimo, a fronte di un comportamento collaborativo e ammissivo? Si ritiene che saprà risolvere il caso utilizzando nella loro massima estensione gli istituti di cui il legislatore ha voluto connotare il processo minorile prevedendo la sanzione quale extrema ratio al fine di pesare il meno possibile sul percorso di crescita e di evoluzione della personalità del giovane che vi è sottoposto. Peraltro, se questo poteva dirsi certamente vero fino a ieri, oggi le derive securitarie e l’ingravescente populismo giudiziario che hanno duramente inciso anche sul processo minorile, rischiano di minarne senso e finalità. I recenti provvedimenti legislativi che hanno insensatamente dilatato il ricorso a misure di prevenzione e alla custodia cautelare, inasprito sanzioni e limitato benefici, hanno drammaticamente finito per impattare anche in quel circuito carcerario differenziato che oggi mostra tutta la sua inadeguatezza ad accogliere giovani portatori di significative fragilità. Se comunque, grazie anche alle prassi virtuose di molti Tribunali, nonostante le rinnovate difficoltà, il processo minorile consente ancora il ricorso ad una molteplicità di scelte e percorsi processuali che si adattano alla personalità e alla situazione del minore, il difensore del giovane imputato assume un ruolo tutt’altro che marginale che non si risolve, come erroneamente spesso si pensa, nell’accompagnare l’imputato minorenne in un percorso processuale governato dall’iniziativa dei servizi sociali o dell’organo giudicante; egli è infatti chiamato alla individuazione delle più adeguate scelte difensive con capacità e competenze di tipo interdisciplinare. Bisogna sapere di psicologia, conoscere le dinamiche familiari ma anche approcciare paure che generano aggressività, abbandoni, ribellismi dovuti a inadeguatezza del contesto sociale di riferimento. All’avvocato, dunque, è richiesto un particolare impegno per declinare la funzione difensiva in un ambito aperto alle interlocuzioni, nella consapevolezza delle esigenze educative del giovane imputato e della necessità di mettere il proprio assistito e i suoi familiari in condizioni di acquisire le massime conoscenze del percorso da intraprendere e dell’impegno necessario per raggiungere gli obbiettivi. Se peculiarità del processo minorile è la necessità di assumere da parte dell’imputato una specifica posizione rispetto alla contestazione mossa, diviene allora centrale la scelta dell’ammissione o meno delle proprie responsabilità. In questo delicato e fondamentale passaggio compito del difensore è quello di accompagnare il giovane assistito nella sua scelta tenendo ben presente e facendo ben comprendere che il processo, anche quello minorile, è prima di tutto quell’insieme di regole e di garanzie che attengono alla prova e alla sua valutazione. Perché non è mai nell’interesse del minore - e certamente non ha alcun valore rieducativo - barattare benevolenza con rinuncia ai diritti, e perché non vi può essere crescita e maturazione senza giustizia. *Avvocata penalista “I miei 33 anni in carcere da innocente. In undici in cella, senza finestre, un bagno per tutti” di Walter Veltroni Corriere della Sera, 8 giugno 2024 Beniamino Zuncheddu: “Ho visto uomini impazzire, mi considero un sopravvissuto”. Il suo legale: “Lui venne accusato di una strage per coprire qualcuno”. Gli ultimi, i dimenticati. Se qualcuno potesse essere scelto come legittimo rappresentante di queste due condizioni, l’uomo che ho davanti, un solo dente nella bocca, lo sguardo dolce e la voce bassa, quasi impercettibile, sarebbe il naturale candidato. Si chiama Beniamino Zuncheddu, di professione pastore, trentatré anni in carcere da innocente. È entrato a ventisei anni, accusato di aver compiuto la strage di altri pastori, ed è uscito qualche mese fa, a quasi sessanta. Una vita sottratta. Non un matrimonio, non dei figli da vedere crescere, non un lavoro o una casa conquistata con la fatica della propria opera. Niente, una condanna a morte dissimulata in un ergastolo. Se lo erano dimenticato là dentro. Mi dice Beniamino: “Tutti i detenuti si dicono innocenti, ma io lo ero davvero. Non sapevo di cosa stessero parlando, quando mi accusavano. Vennero una sera a prendermi. Erano vestiti con la tuta mimetica. Mi hanno detto che dovevo andare in commissariato per degli accertamenti. Mi hanno interrogato per ore su cose di cui non sapevo nulla. Mi hanno fissato il polso a un termosifone che stava più in alto della sedia su cui ero seduto. Sono restato così tutta la notte, la mattina non sentivo più il braccio. Poi mi hanno portato in carcere e, da quella notte, la prima volta che ho rivisto il sole è stata undici anni e mezzo dopo”. Mauro Trogu, un giovane avvocato che ha dedicato anni a combattere per la revisione del processo, dice che di quell’interrogatorio, reso senza la presenza di un difensore, non esiste traccia nei verbali. Comincia così, l’odissea di questo pover’uomo che è stato vittima di un clamoroso errore giudiziario che gli ha sottratto la polpa della vita. Tutto è raccontato in un libro che descrive la vicenda. Si intitola, e mai il nome di un libro è stato tanto aderente alla realtà, “Io sono innocente”. I pastori assassinati - È una storia complicata. La sera dell’otto gennaio 1991 quattro uomini stanno lavorando a Cuili’e Is Coccus, un ovile collocato su una altura che sovrasta il paese di Sinnai (Cagliari). Sono Gesuino Fadda, suo figlio Giuseppe, il servo pastore Ignazio Pusceddu e il genero di Gesuino, Luigi Pinna, marito della figlia Daniela. All’improvviso spunta un uomo che prima uccide il capofamiglia con un colpo di fucile semiautomatico sparato con precisione alla base del collo, poi insegue gli altri tre che sono rifugiati nell’ovile. Giuseppe è freddato con un colpo della stessa arma, sparato in petto. Gli eventi concitati di quei momenti sono così descritti nel libro: “Il killer entrò nel fabbricato e dalla cucina urlò, in italiano: “Fuori di lì, fuori di lì!”. Poi aprì violentemente, forse con un calcio, la porta sgangherata che Ignazio e Luigi avevano chiuso. Nella stanza penetrò un fascio di luce giallognolo che tagliava l’estremo lato destro della camera (la luce arrivava dalla lampadina al centro della cucina, quindi dalle sue spalle a sinistra). L’assassino entrò rapido nel dormitorio, attraversò il cono di luce e, inquadrata la posizione delle vittime, si spostò verso di loro, al centro della camera immersa nel buio. Ignazio era accanto alla porta, a sinistra, in piedi davanti a una branda. Luigi era in fondo alla stanzetta, ancora più al buio”. Il killer uccide Ignazio e poi spara due colpi, uno al femore e l’altro alla testa, di Luigi Pinna. È convinto di averlo ucciso, ma non è così. Quando verrà trovato, ferito gravemente, dirà, così riferisce un maresciallo dell’Arma che: “Era una persona robusta con un giaccone bianco e una calza da donna al capo, armato di fucile a una canna corta”. L’identikit del killer - Beniamino Zuncheddu non è robusto, anzi, non parla l’italiano che il ferito riferisce aver sentito usare dal killer, e non ha mai avuto un’arma in mano in vita sua. Ma dal primo momento le indagini finiscono in mano a Mario Uda, un uomo della Criminalpol che tanto farà fino a portare, mostrando foto e convincendo testimoni, all’incriminazione di Zuncheddu. L’avvocato Trogu: “Beniamino fu scelto perché era una persona per bene, indifeso, straniero in quel mondo che non conosceva affatto. Gli attribuirono una frase in un presunto diverbio con la famiglia Fadda per una questione di vacche e convinsero i giudici che questa fosse sufficiente ragione per una strage che sembrava studiata ed eseguita con la professionalità del killer de I tre giorni del condor. La sera dei delitti, Beniamino la passò da un suo amico tetraplegico con il quale condivise sigarette e chiacchiere. Non aveva l’orologio e non era in grado di definire orari precisi. Qualsiasi killer si costruisce un alibi perfetto se deve uccidere qualcuno. Le indagini furono orientate o non fatte. I magistrati fecero un sopralluogo nel posto della strage ma non la cosa più semplice, mettersi nella posizione fisica in cui si trovava l’unico testimone, Pinna. Se lo avessero fatto, come era loro dovere, si sarebbero resi conto che da lì, al buio, non si poteva assolutamente percepire i lineamenti di una persona. Pinna invece aveva riconosciuto Beniamino in una foto di sospettati che Uda gli aveva fatto vedere per prima”. Ma perché decidono di incastrare Zuncheddu, chi volevano coprire e perché? Nella risposta che l’avvocato mi fornisce sta racchiusa una dinamica che sembra estratta da un romanzo di Leonardo Sciascia. Il bene e il male si lambiscono, si incrociano, si contaminano e finiscono con il confondersi. Il rapimento Murgia - “La storia della strage deve essere collegata a un rapimento avvenuto tempo prima, il rapimento Murgia. Probabilmente la famiglia Fadda aveva visto qualcosa, sapeva qualcosa, chiedeva qualcosa. Forse aveva a che fare con i cento milioni del riscatto pagati dalla famiglia che non arrivarono ai sequestratori. Va detto che in quel periodo un magistrato, il dottor Lombardini, agì duramente per sconfiggere l’anonima sequestri. Per farlo aveva messo in piedi una rete di informatori e una struttura quasi parallela che ha continuato ad agire anche quando lui non aveva più il compito di queste indagini. Tra gli informatori c’era anche un certo Boi, uno dei rapitori di Murgia e che, guarda caso, prenderà poi possesso dell’ovile dei Fadda. Boi aveva dimestichezza con i sequestri e le armi, aveva avuto ragioni di conflitto con i Fadda. Forse su di lui si sarebbero dovuto orientare le indagini, se solo si fosse messa in relazione la strage con il sequestro Murgia. Relazione che è contenuta in atti della questura di Cagliari che però non sono mai stati versati nel processo e sono letteralmente spariti per trentadue anni. L’ipotesi più probabile è che Boi fosse un informatore prezioso per gli inquirenti e che per salvaguardarlo abbiano deciso di sacrificare il più indifeso di tutti, il silenzioso, timido, discreto pastore Beniamino Zuncheddu”. Il giudice Lombardini nel 1998 verrà inquisito dalla Procura di Palermo per estorsione nei confronti del padre di Silvia Melis, un’altra sequestrata. La storia ha un esito tragico. I magistrati di Palermo vanno a Cagliari per interrogare Lombardini, poi chiedono di perquisire il suo ufficio, lui si offre di accompagnarli ma poi nel corridoio affretta il passo, si chiude dietro le spalle la porta e si spara un colpo di pistola. Da quel processo, va detto, gli altri accusati usciranno assolti. Su Luigi Lombardini i giudizi divergono, ma è un fatto che fu protagonista, con successo, della lotta contro la disumana macchina dei sequestri. Anche se usava metodi, si dice, non sempre ortodossi. L’avvocato Trogu: “La cosa strana è che tutti i protagonisti di questo gigantesco incastro che imprigiona un innocente pensavano di agire in nome della giustizia. Una giustizia sovraordinata, che prescinde da regole e leggi e che, proprio perché animata dal “buon fine”, si considera al riparo da ogni limite. Zuncheddu viene sacrificato, forse per coprire un informatore di cui si aveva bisogno per condurre una lotta contro la criminalità. Todo Modo”. Giorni interminabili - Beniamino come era la sua vita in carcere? “Ogni giorno uguale, per decine di anni. Le due ore d’aria al giorno, la televisione sempre accesa, le interminabili partite a carte. Eravamo in undici in cella, tre per ognuno dei tre letti a castello, due per terra. Un solo bagno, la finestra non c’era, esisteva solo la “bocca di lupo”. È stata molto dura. Ho visto ragazzi che si tagliavano le vene. Io mi sono sempre comportato bene. Infatti dopo undici anni e mezzo mi hanno dato la possibilità di uscire in permesso premio per tre giorni. Però dovete pensare cosa significa fare quella vita sapendo di essere innocente. È da impazzire, mai io non sono impazzito. Io mi considero un sopravvissuto”. La riapertura del processo si deve alla testardaggine della famiglia di Beniamino, alla determinazione dell’avvocato per il quale la causa di quest’uomo era diventata una “magnifica ossessione”, all’impegno di Irene Testa dei radicali ma, fattore decisivo, all’umanità e alla professionalità della dottoressa Francesca Nanni, che, come un angelo, è stata Procuratore generale a Cagliari per due anni, il tempo necessario per dar vita a una serie di nuovi accertamenti, tra i quali un interrogatorio di Pinna, al termine del quale l’uomo, intercettato in auto, dirà una frase, in sardo, che convincerà chiunque che la identificazione di Zuncheddu era stata estorta. Una grande magistrata, assetata solo di verità e di giustizia. Questo dato nuovo, insieme al lavoro della difesa, porterà nel gennaio di quest’anno la Corte d’appello di Roma ad assolvere e scarcerare Beniamino Zuncheddu. E ora, chi risarcirà per questo tempo perduto? L’avvocato Trogu: “Zuncheddu ha ottenuto finora il risarcimento di 30.000 euro per gli undici anni in una cella sovraffollata, otto euro per ogni giorno trascorso in quelle condizioni. Tra qualche giorno potremo depositare l’istanza per il risarcimento. Ma nel caso migliore ci vorranno quattro anni, nel peggiore otto”. Fine pena mai, anche per un innocente al quale è stata strappata la vita. Chiedo a Zuncheddu quale sia ora il suo desiderio di uomo libero. “Curarmi. I denti, gli occhi. E tutto il resto. E poi ritrovare la mia famiglia, la mia terra, scoprire il mondo come è diventato”. Beniamino Zuncheddu, ergastolano innocente, due giorni dopo la sua liberazione ha avuto, non per caso, un’ischemia con una emiparesi. La libertà, non va mai dimenticato, è sempre una meravigliosa emozione. “La giustizia riparativa? Lasciata in stand by”. La Caritas scende in campo Angelo Picariello Avvenire, 8 giugno 2024 A quasi due anni dall’inquadramento - attraverso la riforma Cartabia - della giustizia riparativa nell’ordinamento giudiziario è il momento di un primo “tagliando” a un lavoro che vede coinvolti, insieme, educatori, operatori delle carceri, vittime e “rei” in un percorso che tocca le persone singolarmente, i loro vissuti interiori e interpersonali, ma riguarda la comunità intera, in ottica di prevenzione dei conflitti. “La cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati”: le parole del Papa che campeggiano al fianco dei relatori all’incontro promosso dalla Caritas italiana alla Casa Bonus Pastor in via Aurelia. Sono numeri importanti, quelli del progetto sperimentale della Caritas, che ha visto coinvolte (soprattutto nell’opera di formazione e sensibilizzazione) quasi 7mila persone nelle 8 diocesi che hanno aderito. Ma, paradossalmente, è proprio all’interno degli istituti di pena, interessati più direttamente dalla riforma della Giustizia, che si registra una frenata, “una fase di incertezza, di attesa, che ha portato alla sospensione di molti progetti, alcuni dei quali stavano procedendo bene. Una mancanza di coraggio che ha lasciato il posto alla burocrazia carceraria”, è la denuncia di Andrea Molteni, sociologo della Caritas ambrosiana. Il progetto agisce in collaborazione con il Team delle pratiche di Giustizia riparativa dell’Università di Sassari. “Si lavora a livello individuale e interpersonale, con effetti che coinvolgono l’intera comunità”, spiega Patrizia Patrizi, docente di Psicologia giuridica e pratiche di giustizia riparativa a Sassari, presidente dell’European Forum for Restorative Justice, e coordinatrice del progetto: “Non sempre è possibile la mediazione, a volte bisogna accontentarsi di aprire almeno il dialogo, avendo sempre chiaro l’obiettivo, che è l’aiuto alla persona”. Ma poi scatta quella che la professoressa Patrizi chiama, “l’alchimia del momento”, a rendere percorribili strade impensabili il giorno prima in un “viaggio” che non riguarda solo le persone coinvolte (vittime e rei) o i mediatori impegnati a facilitare l’incontro. Ne beneficia un’intera comunità, l’affermazione di un clima, di un metodo, nei rapporti umani, che Gherardo Colombo propone di applicare sin dalle liti condominiali, emblematiche di un clima che rende le persone, da vicine che sono fisicamente, sempre più lontane, sempre più ostili e prevenute fra loro. I numeri - Otto, come detto, sono le Caritas diocesane coinvolte: Agrigento, Ancona, Cerignola, Fossano (oggi Cuneo-Fossano), Milano (in particolare la zona di Lecco), Napoli, Prato e Verona. Sono 137 i percorsi tracciati, 203 gli incontri di sensibilizzazione effettuati, 356 quelli di formazione e 94 gli interventi strettamente di giustizia riparativa avviati, molti di più dei 64 messi in programma all’inizio, perché altre esigenze sono emerse cammin facendo. Le buone pratiche - Questo fenomeno innovativo vive di “buone pratiche” da implementare, più che di progettazione, e si alimenta con il metodo del “contagio” positivo, facendo uso a piene mani di sano pragmatismo. Lo si evince ascoltando gli appassionati racconti delle diverse esperienze sul territorio delle Caritas diocesane. Gaetano Panunzio per Cerignola-Ascoli Satriano; Maria Paola Longo per Fossano-Cuneo: Alessandro Ongaro, di Verona, Annalisa Putrone di Agrigento; Micaela Furiosi, di Lecco, per la Caritas ambrosiana; Fabiola Sampaolesi per Ancona-Osimo; Valentina Ilardi di Napoli; Carlotta Letizia, di Prato. Moderati da Gian Luigi Lepri, psicologo coordinatore del Team allestito dall’Università di Sassari offrono una dimostrazione sorprendente di dove può arrivare questa nuova pratica che fa tesoro degli insegnamenti del Vangelo e dei valori della Costituzione, a beneficio della comunità intera, eppure fatica ancora a essere compresa in tutta la sua portata innovativa. La speranza fa capolino anche nell’inferno tristemente leggendario del carcere di Poggioreale; nelle attività di reinserimento di Cerignola, con la sua fabbrica di caramelle; o di Lecco, con la gestione di servizi sociali in una proficua collaborazione pubblico-privato. Un lavoro che sfocia a volte in attività non messe nel conto, in cui le istituzioni chiedono un aiuto per sanare una ferita nel corpo della società che nessuna pena da sola sarà in grado di curare. Colpisce il racconto che viene da Agrigento, in cui agli operatori della giustizia riparativa è stato chiesto di provare a mettere pace fra due gruppi di ragazzi, un tempo amici e che sono finiti invece in un’aula di tribunale, a seguito di una rissa. La “lezione” del giudice - Gherardo Colombo, uno dei giudici simbolo di “Maniipulite”, ossia della giustizia di che digrigna i denti, è oggi uno dei teorici più attrezzati di questo nuovo filone “che non fa altro che declinare i principi della Costituzione”, spiega. “Perché porta ad essere considerati, e a considerare gli altri degni di attenzione. Cercando di comporre i conflitti, invece di esasperarli. La giustizia si preoccupa di stabilire in genere chi ha ragione e chi torto, e tutto si chiude lì. Mentre qui si apre un percorso fra persone, applicabile a qualunque conflitto, anche fuori dalla sfera penale. È un percorso non semplice, perché riporta alla luce il dolore subìto e il male commesso. Un percorso che deve essere praticato, e praticato bene - continua Colombo -, anche perché la giustizia riparativa continua a non essere vista particolarmente bene. Mancano i decreti attuativi, e questo ritardo crea una situazione pericolosa”. L’ex giudice del “pool” ci mette del suo, come presidente della Cassa delle Ammende, a finanziare, con Caritas, alcuni progetti. La Caritas ci crede. “È un lavoro che affonda le sue radici nel Vangelo”, dice il direttore di Caritas italiana don Marco Pagniello. “Un paradigma da allargare a tutti i nostri interventi. Dove c’è un povero lasciato solo il nostro compito è fare comunità intorno a lui”. I pm e l’escamotage dei fascicoli clonati: i trucchetti nel cassetto per continuare a intercettare di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 giugno 2024 Pm che archiviano, ma trattengono un pezzetto del fascicolo e altri che lo tengono nel cassetto, magari ipotizzando un reato inesistente che gli consenta di intercettare. Proprio Nordio ha rivelato i trucchetti dei magistrati, Genova e Firenze sono solo le ultime gocce di una deriva molto pericolosa. Se lo dice il ministro di giustizia. Se lo afferma un guardasigilli che è stato pubblico ministero per quarant’anni. Se lo garantisce uno il cui ruolo come membro del governo è l’unico citato in Costituzione. Dovremmo non credergli? Ecco perché siamo convinti del fatto che abbia detto il vero, quando Carlo Nordio ha raccontato dell’esistenza del “fascicolo virtuale” e del “fascicolo clonato”. E a noi sono venute in mente subito due inchieste. Una che dura da 25 anni e ha gli ultimi sviluppi a Firenze, con la sottoposizione a indagini del generale Mori. L’altra, che è esplosa il 7 maggio a Genova con l’arresto del governatore Giovanni Toti, e la scoperta che era “spiato” da quattro anni. Che cosa succede a Firenze, da farci sospettare un caso di “fascicolo clonato”? Capita che ci sia un procuratore aggiunto, Luca Tescaroli, che in realtà sarebbe stato promosso come numero uno a Prato, dove oltre a tutto in tribunale sono sotto organico, ma rimane ostinatamente aggrappato alla “sua” inchiesta. Quella che avrebbe dovuto inchiodare per sempre la reputazione di Silvio Berlusconi, insieme a Marcello Dell’Utri, come mandante delle stragi più sanguinose d’Italia, quelle di mafia. Il dottor Tescaroli ha iniziato le indagini da giovanissimo a Caltanissetta e le ha continuate da adulto a Firenze a partire dal 2018. Questa ipotesi di reato, coltivata dal pm con l’attenzione di uno storiografo, è stata già archiviata quattro volte. Verso la fine del 2022 si avviava alla quinta chiusura quando era spuntato, come il solito fungo dopo la pioggia, il gelataio Salvatore Baiardo, con annessi Giletti e la sua trasmissione, e la storia di una foto mai vista del fondatore di Forza Italia con il boss Graviano, e poi il nulla. Arriviamo al 2024 e archiviamo, dunque? Anche perché ormai il dottor Tescaroli dovrebbe andare a Prato. Invece no. “Fascicolo clonato” dunque? Che cosa è il “fascicolo clonato”? Ce lo ha spiegato Carlo Nordio in un’intervista rilasciata il primo giugno a Hoara Borselli sul Giornale. Riportiamo le sue parole. “È quello del pm che, essendo scaduti i termini per le indagini, deve chiedere l’archiviazione. Lo fa, ma si trattiene un pezzetto del fascicolo, e riprende daccapo, e così per varie volte e vari anni. Intollerabile”. Intollerabile, ma evidentemente possibile. E forse non basteranno le grandi riforme di portata costituzionale come la separazione delle carriere, per ovviare a questo tipo di gravissimi problemi. Cui si aggiungono, nel caso di Firenze, altre due questioni. La prima: per quale motivo il ministero di giustizia, pur conoscendo le gravi mancanze di personale degli uffici giudiziari di Prato, ha consentito al procuratore Tescaroli di rimanere a Firenze per continuare a coltivare questa inchiesta assurda già archiviata quattro volte? La seconda riguarda il generale Mario Mori, su cui abbiamo scritto ieri con l’editoriale di Francesca Sabella. Per rimanere alle parole del ministro Nordio, sarebbe Mori, indagato per strage, associazione mafiosa, associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico, il “pezzettino” di inchiesta che consentirebbe alla procura di Firenze di continuare all’infinito a tenere aperto un fascicolo aperto 25 anni fa? Oltre a tutto con una grave, e sospetta, se i procuratori di Firenze ce lo consentono, violazione del segreto investigativo. Ne ha fatto ieri oggetto di un’interrogazione al ministro il deputato Roberto Giachetti il quale, facendo nomi e cognomi delle persone presenti all’interrogatorio del generale Mori del 5 giugno (l’avvocato Basilio Milio e i procuratori Luca Tescaroli, Luca Turco, Lorenzo Gesti e il capo dell’ufficio Filippo Spiezia), denuncia come parti di un verbale secretato siano state pubblicate dall’edizione fiorentina del quotidiano La Repubblica del giorno successivo. Siamo alle solite. Ma vogliamo almeno provvedere a risolvere il caso più clamoroso che sia mai esistito di “fascicolo clonato”? Se la procura di Firenze ha le prove di questo tipo di complotto politico su cui credevamo fosse stata pronunciata la parola fine con la sentenza di un anno fa sulla “trattativa”, chieda i rinvii a giudizio, lasciando perdere i “pezzettini” di fascicolo. E il ministro dia un’occhiata, come ha già fatto per il caso Open, che riguardava Matteo Renzi. E magari metta su un treno per Prato il neo procuratore capo di quella città. C’è poi il “fascicolo virtuale”. Usiamo di nuovo le parole del ministro Nordio per capire di che cosa si tratta. “È quello che un pm si tiene nel cassetto per indagare una persona, magari ipotizzando un reato inesistente, che gli consenta di chiedere le intercettazioni. Ad esempio contestando l’associazione mafiosa. Poi quel reato cade, ma le intercettazioni restano. È un sistema per eludere la legge”. Ora, noi non vogliamo affermare che i pubblici ministeri di La Spezia, che hanno avviato l’inchiesta o quelli genovesi che l’hanno in gran parte ereditata, abbiano inteso “eludere la legge”. Ma c’è una domanda che ci frulla nella testa, fin dal giorno degli arresti di Giovanni Toti e altri, un mese fa. Come mai non c’è in carcere o ai domiciliari nessuna delle persone sospettate di associazione mafiosa, sottoposte invece a misure cautelari più lievi? È evidente che l’aggravante mafiosa, non contestata a Toti né agli imprenditori con lui accusati di corruzione, è fragilissima e destinata a cadere in tempi brevi. Ma è stato lo strumento che ha aperto la porta alle intercettazioni, ai trojan e ai controlli che hanno consentito l’esistenza del fascicolo stesso sul governatore Toti. Chissà che cosa pensa, di questo come del caso di Firenze l’ex pubblico ministero Carlo Nordio. E anche il ministro che ci ha informato della possibile esistenza del “fascicolo virtuale” e del “fascicolo clonato”. Forse qualche altra interrogazione potrebbe sollecitarlo. Stragi del 1993, l’indagine a Firenze su Mori: quella fuga di notizie e le accuse già smentite di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2024 Fughe di notizie riservate, pubblicate da Repubblica, colpiscono la presunzione di innocenza e rimettono in scena il clamore mediatico e depistaggi. Rispunta di nuovo il colonnello Riccio, già smentito in Cassazione. Parliamo di un film già visto, l’eterno ritorno delle stesse ipotesi giudiziarie sconfessate da plurimi processi inflitti contro l’ex capo dei Ros Mario Mori. Stesse congetture, stessi accusatori, vecchie memorie dei procuratori di Palermo di allora che ripiombano nelle infinite indagini della procura di Firenze sui cosiddetti mandanti esterni delle stragi mafiose continentali del 1993. A questo, come denuncia Mori, si aggiungono le fughe di notizie riguardanti atti secretati e verbali di interrogatorio che dovevano rimanere segreti. Accade che Repubblica, edizione di Firenze, non solo riveli alcuni elementi dell’atto istruttorio secretato riguardante le indagini della Procura di Firenze a carico dell’ex Ros Mario Mori, ma renda noto anche i presunti particolari del primo interrogatorio che ha subito a maggio dell’anno scorso. La curiosità è che lo stesso procuratore di Firenze abbia raccomandato la segretezza agli avvocati di Mori. Non a caso La Nazione, che ha dato notizia dell’interrogatorio, ha giustamente precisato che il confronto tra i magistrati fiorentini e l’ex Ros è segreto. Invece arriva La Repubblica che addirittura riporta una risposta che avrebbe dato Mori sul fatto del perché non avrebbe avvisato le autorità sulle imminenti stragi: “Avevo altro da fare in quel periodo!”, avrebbe risposto secco. Ma è così? Ha dato solo quella risposta che effettivamente agli occhi dei lettori può giustamente apparire di cattivo gusto? Il Dubbio l’ha chiesto all’avvocato Basilio Milio, il legale storico di Mori, ma non ha voluto e potuto svelare quello che effettivamente rispose l’ex Ros nell’interrogatorio dell’anno scorso. Giustamente spiega che deve correttamente rispettare il segreto istruttorio. Il danno della fuga di notizie è quindi evidente. La presunzione di innocenza viene meno. Chi ha passato le carte secretate Repubblica? Questa fuga di notizie - a detta di Mori imprecise e quindi fuorvianti - da dove proviene? Di certo non dall’ex Ros e dai suoi legali. “Mi domando se non sia doveroso un intervento del Csm nella sua interezza e del ministro della Giustizia per verificare (e per i provvedimenti conseguenti) fonte e modalità di tale fuga di notizie, oltretutto imprecise”, denuncia Mori attraverso un comunicato stampa. Ma ora bisogna necessariamente attenersi a quello che ha riportato Repubblica. Cosa emerge di nuovo? Nulla. Rispunta l’ennesimo elemento vecchio, già vagliato processualmente e sconfessato. Ma andiamo con ordine sintetizzando la questione già raccontata su queste stesse pagine de Il Dubbio. Secondo i magistrati, Mori non avrebbe intrapreso iniziative investigative o preventive per fermare gli attentati. E dove e quando avrebbe appreso questa notizia? Sempre secondo la procura di Firenze, l’ex Ros avrebbe ricevuto tali informazioni per due volte. Una ad agosto del 1992: dal maresciallo Roberto Tempesta, tramite la fonte Paolo Bellini, avrebbe saputo che Cosa Nostra progettava di attaccare il patrimonio artistico italiano, in particolare la torre di Pisa. Poi il 25 giugno 1993: durante un colloquio investigativo a Carinola, Angelo Siino gli avrebbe riferito, basandosi su informazioni di Antonino Gioè, Gaetano Sangiorgi e Massimo Berruti, che Cosa Nostra aveva in programma attentati nel Nord Italia. Come già analizzato nei giorni scorsi, la questione del maresciallo Tempesta che ha riportato a Mori le dichiarazioni dell’informatore Paolo Bellini è ben conosciuta e già vagliata dai processi di Palermo e di Firenze stesso. Poi c’è Angelo Siino, all’epoca arrestato grazie al dossier mafia-appalti. Ebbene, bisogna dare atto che qualche giorno fa, su Il Fatto Quotidiano, Marco Lillo ha dimostrato che le accuse contro Mario Mori da parte della procura di Firenze sono infondate. Che Mori non abbia avuto alcuna notizia circostanziata sulla pianificazione delle stragi continentali del 1993, era già un fatto oggettivo. Il Fatto, diretto da Travaglio, ha fatto molto di più: ha tirato fuori il verbale di Siino del 1998, quando divenne collaboratore, e in particolare l’interrogatorio dell’allora procuratore fiorentino Michele Chelazzi sul punto. Come si evince dal verbale, in realtà Siino precisò subito che a Mori e De Donno, quando era solo confidente, non disse nulla di circostanziato. Siino taglia corto alle domande poste da Chelazzi: “Non gliel’ho mai detto (a Mori, ndr) e me ne sarei guardato bene”. Cosa c’è quindi di nuovo, come riportato da Repubblica? L’esposto del colonnello Michele Riccio, in cui accusa Mori di aver boicottato l’indagine sui mandanti esterni, e di avergli di fatto impedito di proseguire proficuamente il rapporto con Luigi Ilardo, assassinato a Catania il 10 maggio 1996. Ma anche qui, siamo di nuovo al vecchio. Fatto già vagliato processualmente dal “Mori - Obinu”, quello sulla cosiddetta mancata cattura di Provenzano. Un processo, finito in assoluzione, che si fonda soprattutto sulla testimonianza di Riccio. Ci viene in aiuto la sentenza di Cassazione. “Già in primo grado - scrivono i giudici supremi - il tribunale aveva analizzato con estrema cautela la sua deposizione, evidenziando gli elementi che minavano la credibilità del teste e l’attendibilità delle sue dichiarazioni”. E sottolineano: “Cautela che veniva in appello ad essere ulteriormente fondata dai giudici territoriali sulla veste assunta nel frattempo dal Riccio quale imputato di reato collegato. In particolare erano emerse nelle sue propalazioni diverse defaillance e molte di esse erano state smentite da dati oggettivi”. Tutto qui? La Cassazione elenca tutti i dati oggettivi che smentiscono categoricamente Riccio. I giudici, tra i vari elementi, aggiungono: “Le relazioni scritte trasmesse ai superiori contenute in floppy disk fortuitamente rinvenute dal Riccio si erano rivelate come costruite ad hoc”. Altro che ne bis in idem, il basilare diritto di non essere processato due volte per la medesima cosa: qui siamo alla quarta volta. Il processo che nemmeno Kafka è riuscito a concepire per descrivere l’alienazione, l’assurdità del mondo. Quel romanzo dove il protagonista alla fine preferisce farsi uccidere. Viene massacrato “come un cane” lasciandosi dominare da quella società che lo inchioda nonostante la sua innocenza. Nel caso reale sulle stragi continentali, da agonista Mori non si lascerà andare, ma non si può non osservare che esiste un limite biologico. E sembra quasi che qualcuno conti su quello. Milano. Detenuto di 22 anni muore San Vittore dopo aver inalato gas Il Giorno, 8 giugno 2024 L’allarme Uilpa: bisogna varare un decreto-legge per consentire il deflazionamento della densità detentiva, sono oltre 14mila i detenuti in più rispetto alla capienza utile. Quattro decessi in tre giorni. L’ultimo caso, ieri sera verso le 19, non sarebbe stato però un suicidio. Un detenuto di originario del Marocco di nemmeno 23 anni ha inalato del gas dal fornello del campeggio, ma si sarebbe trattato del “tentativo di procurarsi effetti allucinogeni finito male”. A dirlo, Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che ha precisato i contorni della morte del detenuto, dopo l’allarme suicidi lanciato stamane da Aldo Di Giacomo della sigla Spp. Il ragazzo è stato trovato esanime nella sua cella ieri sera verso le 19. Un decesso, che per De Fazio “ripropone pesantemente il tema dei detenuti tossicodipendenti, che dovrebbero seguire percorsi alternativi e di effettivo recupero, trovando anche le cure necessarie e che, nella situazione attuale delle carceri, sono molto prossime a una chimera”. Per il leader Uilpa dunque il Governo dovrebbe prendere atto dell’“emergenza senza precedenti” e varare un decreto-legge “per consentire il deflazionamento della densità detentiva, sono oltre 14mila i detenuti in più rispetto alla capienza utile”, prevedendo nel contempo “assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria, mancante di almeno 18mila unità”. Il dato dei decessi nei penitenziari italiani è impressionante: 93 dall’inizio dell’anno, di cui 39 per suicidio. A questi vanno aggiunti quattro appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Pavia. Accuse e dietrofront nel caso del trapper morto in carcere di Manuela Marziani Il Giorno, 8 giugno 2024 Jordan Jeffrey Baby ha subito violenze da Traffik? All’udienza a porte chiuse anche il padre di Jordan Tinti, il trapper di 26 anni trovato senza vita. Gianmarco Fagà, noto come Traffik, è accusato di maltrattamenti. Le ipotesi accusatorie sono state confermate anche in aula. Un teste del processo nei confronti di Gianmarco Fagà, il trapper noto come Traffik accusato di maltrattamenti nei confronti di Jordan Jeffrey Baby, Jordan Tinti all’anagrafe, ha raccontato gli episodi di violenza e le vessazioni subiti durante la detenzione dal 26enne che il 12 marzo si è tolto la vita in carcere. Un altro testimone ha raccontato d’aver subito delle presunte minacce da Fagà e il compagno di cella del trapper, invece, ha ritrattato cambiando completamente la versione fornita durante le indagini preliminari. “Non si sa se questo teste abbia mentito prima, in fase istruttoria - ha detto il legale della famiglia, l’avvocato Federico Edoardo Pisani -, se abbia subito anche lui delle minacce. Di certo non è facile per un detenuto testimoniare a un processo. Gli sono state mosse delle contestazioni e gli atti saranno trasferiti in procura”. All’udienza, che si è svolta a porte chiuse, era presente il padre di Jordan, Roberto Tinti, ma non l’imputato. “Non è stata un’udienza semplice per il padre di Jordan - ha aggiiunto il legale -, ma lo avevo preparato. I maltrattamenti oggetto del processo risalgono alla fine del 2022 e l’inizio del 2023 e non sono strettamente correlati alla morte di Jordan. Potrebbero avere un avuto un riflesso indiretto. Se il giovane si fosse tolto la vita volontariamente si potrebbe cercare di capire quanto abbiano influito”. Nella prossima udienza fissata per il 13 settembre saranno ascoltati ancora due testimoni, poi si procederà al dibattimento e molto probabilmente si arriverà anche a una sentenza. Genova. Epidemia di morbillo, poi covid e scabbia. È emergenza sanitaria al carcere di Marassi genovaquotidiana.com, 8 giugno 2024 Fabio Pagani, segretario Uilpa Polizia Penitenziaria: “Il provveditore ha bloccato qualsivoglia traduzione di detenuti in ingresso e in uscita dalla casa circondariale. Non ci sono pià spazi disponibili per l’isolamento sanitario. Si parla de tempo di un nuovo carcere a Savona, la cui costruzione viene sistematicamente rimandata. Intanto l’Italia costruisce un carcere in Albania” “Fino a ieri dodici i detenuti conclamati di Morbillo presso la Casa Circondariale di Genova Marassi, ma l’infestazione potrebbe estendersi. Soprattutto, si teme che i casi accertati siano la punta dell’iceberg, atteso che gli stessi ristretti tendono a nasconderli per evitare l’isolamento sanitario e le chiusure dalle attività. Inoltre ci riferiscono sempre a Marassi la presenza di un detenuto isolato per Covid e un altro per scabbia. Non ci sono più posti per isolare i detenuti, occupati tutti gli spazi disponibili. Da moltissimo tempo si parla, di costruire un carcere a Savona, che darebbe grosso supporto alle carceri liguri in sofferenza che, però, viene sistematicamente rimandata. In compenso l’Italia è già all’opera per realizzarne uno entro un mese in Albania”. Lo dichiara Fabio Pagani, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Siamo molto preoccupati per quanto sta avvenendo al carcere di Marassi dove abbiamo chiesto urgentissime misure di prevenzione e profilassi e la dotazione di idonei e sufficienti dispositivi di protezione individuale per i Poliziotti penitenziari - prosegue Pagani. Il provveditore ha bloccato qualsivoglia traduzione di detenuti in ingresso e in uscita da Marassi. Serve un nuovo carcere a Savona in tempi certi e ravvicinati. Forse il parallelismo con l’Albania potrebbe risultare ardito, atteso che lì il penitenziario si realizzerà con moduli prefabbricati, ma in Liguria sono almeno dieci anni che si aspetta il nuovo carcere di Savona, non c’è alcuna proporzione. Soprattutto, non c’è giustificazione che tenga, se non il menefreghismo dei governi, al di là delle dichiarazioni di facciata, a riguardo delle condizioni di detenuti e operatori”. “Ancor più se si considera che Marassi sono presenti 700 detenuti su una capienza di 450, ora alle prese con morbillo, covid e scabbia con enormi difficoltà di isolare i detenuti per problemi di spazio e il rischio di proteste. Il Ministro Nordio e l’esecutivo Meloni, anziché fantasticare sul riutilizzo di vecchie caserme, mettano in campo un programma per la sanificazione e la messa in sicurezza degli edifici esistenti, laddove possibile, o la riedificazione di nuovi penitenziari in patria. Non vorremmo che il sovranismo si professasse con la salute degli altri” conclude Pagani. Caserta. “Così insegno ai detenuti a lavorare e li riabituo alla vita quotidiana” di Marco Scotti affaritaliani.it, 8 giugno 2024 Parla la presidente dell’Asi di Caserta, Raffaela Pignetti, che da cinque anni ha creato progetti per i detenuti per inserirli nel mondo del lavoro. “Noi garantiamo 200 ore di formazione professionale ai detenuti e li inseriamo nel mondo del lavoro quando ancora scontano la loro pena. Partiamo dalla provincia di Caserta ma siamo già arrivati fino a Città del Messico”. Raffaela Pignetti, presidente dell’Asi (Aree di Sviluppo Industriale, ovvero consorzi d’imprese) di Caserta racconta come si è arrivati all’accordo firmato da Infratel insieme al Ministero della Giustizia e al Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio. Inutile far finta di niente: comunque la si pensi, il “dopo” per i detenuti rimane un enorme punto interrogativo: quale destino attende quelle persone che, una volta scontata la pena comminatagli, si riaffacciano nella società? Quanti sguardi carichi di diffidenza, quanto sospetto, quanta preoccupazione nell’assegnare a qualcuno che ha sbagliato in passato la possibilità di svolgere un lavoro onesto. E poi, gli anni passati dietro alle sbarre rappresentano un brusco stop per la formazione professionale di persone che passano anni in una cella o in cortile e poi, improvvisamente, vengono catapultati nuovamente nella vita reale. In molti Paesi del mondo, quindi, si è scelto di affidare ai detenuti lavori di diverso tipo per garantire il loro reinserimento. “La nostra esperienza inizia cinque anni fa - ci spiega la Pignetti - e oggi siamo una vera e propria best practice che da Caserta è arrivata fino a Città del Messico. Avevamo cominciato impiegando i detenuti per svolgere lavori di manutenzione del verde e delle aree all’interno dell’Asi che presiedo. Abbiamo garantito in primis una formazione intramuraria, che permettesse ai detenuti di imparare un lavoro. Nello specifico, sapendo che non è che ci si può improvvisare installatori della fibra ottica, abbiamo trasferito soprattutto le competenze per i cosiddetti giuntisti”. Ma chi sono i detenuti che potranno beneficiare di questa misura? Prima di tutto non devono avere una pena residua superiore ai tre anni; il secondo paletto è che il condannato stesso accetti di essere inserito in un percorso di riabilitazione che esclude alcuni tipi di reato e si concentra su coloro che hanno commesso i cosiddetti crimini “comuni”. Ma, ovviamente, è poi il magistrato di sorveglianza a dover decidere chi e in che misura potrà beneficiare di questa modalità. Posare la fibra nella provincia di Caserta non è un impegno banale e servono persone motivate. “Dopo una prima fase di formazione - prosegue la Pignetti - ci sarà quella di inserimento nell’attività lavorativa vera e propria. Questa seconda parte del lavoro avverrà in collaborazione con operai esperti e con Its specifici che hanno già personale formato. Quanti saranno i detenuti che verranno ammessi? Posto che i numeri li stabilisce il Ministero della Giustizia, cominceremo a livello regionale. Il primo progetto prevede l’impiego di almeno 50 persone contestualmente. Per cablare la provincia di Caserta serviranno almeno 100 persone, affiancate da personale qualificato”. In questo modo si garantisce alle persone di apprendere una professione per il “dopo”, ma anche di avere uno scambio con lavoratori e con altre persone: li si aiuta a tornare a una normalità, a una vita quotidiana altrimenti dimenticata. “Da pochissimo - conclude la presidente dell’Asi Caserta Pignetti - abbiamo avviato i nostri progetti. Inizialmente c’è stata grande curiosità, ma siamo molto indietro rispetto a Messico e Stati Uniti. Abbiamo sperimentato anche un pizzico di diffidenza da parte degli imprenditori di Asi: siamo 4.000 imprese in un territorio di 4.000 ettari e il primo impatto è stato di guardare con perplessità a dei detenuti liberi nelle aree comuni che poi la sera dovevano tornare in cella. Poi però ci si è resi conto che l’area industriale era stata riqualificata dalle braccia di quelle persone che hanno sì commesso dei reati, ma che hanno voglia di ricominciare. E se prima mi davano della pazza, oggi le nostre “squadre” sono richieste a gran voce. Un esperimento pienamente riuscito”. Milano. La ciclofficina sociale milanese che riabilita i detenuti ed educa i ragazzi disagiati di Max Cassani La Stampa, 8 giugno 2024 Metà laboratorio di sci e metà ciclofficina. Letteralmente. Nel senso che il negozio in zona Cascina Merlata, periferia Nord-Ovest di Milano, ha due stanze: l’ingresso che dà su via Appennini è adibito al reparto bici, la sala a destra alla riparazione e manutenzione degli attrezzi della neve. D’altronde Davide Mazzarrisi, 57 anni, ex direttore commerciale di una multinazionale e ora titolare di Skilifting&Bike, è esperto in entrambi gli sport: sul muro a fianco alla cassa campeggiano i diplomi di maestro di sci, allenatore di sci d’erba, guida di mountain-bike e ultimamente anche di istruttore roller - i pattini in linea - e maestro-accompagnatore del suo sci club Delta Milano. Non è invece esposta da nessuna parte la sua vocazione al sociale, che pure è il marchio distintivo, e il fiore all’occhiello, del progetto Skilifting. Fin da quando prima della pandemia il laboratorio si trovava ancora a Peschiera Borromeo e per conto della cooperativa Fuoriluoghi impiegava detenuti del carcere di Opera con intento socio-educativo alternativo alla pena in ottica di reinserimento lavorativo. La storia del tunisino Kais è esemplare. Nel 2008, a 28 anni, finisce dietro le sbarre per spaccio di droga. Una condanna dura: 13 anni e due mesi. Grazie al sostegno della cooperativa, dentro il penitenziario di Opera lavora come saldatore, specialità carpenteria metallica. Un mestiere che gli piace: alla fine arriva ad avere la responsabilità di 15 persone. Nel 2015, cinque anni prima della fine pena, inizia a uscire grazie ai permessi premio ottenuti per buon comportamento. Comincia così la sua esperienza formativa come messa alla prova al laboratorio Skilifting, sotto la guida dei tutor Davide e dell’ex socio Matteo: “L’idea iniziale era di creare una pasticceria per celiaci ma poi l’idea non è mai decollata perché servivano 300 mila euro solo per i forni - racconta oggi Davide Mazzarrisi -. Così abbiamo deciso di fare della nostra passione la nostra professione e abbiamo aperto il laboratorio di sci, che costava molto meno per l’avviamento”. Kais si occupava della rilaminatura a mano degli sci, della riparazione e sciolinatura della soletta fino al bootfitting, ovvero l’adattamento a caldo dello scarpone alla conformazione del piede. Grazie all’affidamento ai servizi sociali poteva dormire a casa con i suoi figli e con sua moglie, che è italiana. “Prima di lavorare al laboratorio non aveva mai visto uno sci in vita sua, men che meno uno snowboard - ammette Davide -. Grazie ai mesi di lavoro al laboratorio ha imparato tantissimo, ha potuto guadagnare qualcosa e soprattuttto ha acquisito una nuova professionalità che gli è poi tornata utile quando ha finito di scontare la pena”. Oggi Kais ha 43 anni, è un uomo libero e lavora ancora per Fuoriluoghi come responsabile di Olio di Gomito, il progetto della cooperativa che si occupa di ristrutturazioni edilizie. “Il carcere è un non-luogo - spiega Davide -. Lavorare aiuta, è una spinta in più per cambiare e lasciare le cose brutte alle spalle. Certo, non è facile ma con sacrificio e forza di volontà si può fare. Il contatto con le persone libere aiuta i ragazzi a resistere alle tentazioni e a tornare a una vita normale”. Quando nel 2017 Mazzarrisi rileva il ramo d’azienda e trasferisce il laboratorio Skilifting da Peschiera a Molino Dorino, per la ristrutturazione del negozio - che è di proprietà del Comune - si affida tramite la cooperativa a un altro detenuto di Opera: il calabrese Santo, di nome ma non di fatto visto sulla sua testa pendevano 17 capi d’accusa. “Un grandissimo lavoratore - riconosce Davide -. In poche settimane ha fatto tutto da solo. E il bello è che il giudice che l’aveva condannato è nostro cliente!”. Oggi Skilifting collabora con un’altra cooperativa, Età Insieme: ha sede a fianco al laboratorio e si occupa di servizi socio-educativi per giovani e famiglie disagiate. Tutti i mercoledì pomeriggio Davide fa da tutor meccanico per alcuni minori della zona che sono stati segnalati ai servizi sociali. Per lo più ragazzi con brutte storie alle spalle, fatte di violenza e disagio. Tra questi c’è il 14enne Mario - lo chiameremo così - capelli neri a spazzola e occhio vispo. Adora i film e lo sport, specie calcio e basket. La mattina va a scuola: frequenta il primo anno di Amministrazione, finanza e marketing. Per tre pomeriggi alla settimana è impegnato nei progetti della cooperativa, tra cui quello della ciclofficina di Davide Mazzarrisi: lo aiuta a riparare forature, a revisionare mozzi o a cambiare copertoni delle ruote. “Quello che c’è da fare, fa - dice Mazzarrisi -. E a differenza degli altri, che il mercoledì vengono e non vengono, lui non manca mai”. “Imparare a fare i lavori manuali è importante - dice Mario, le mani nere di grasso -. Riparare le biciclette, poi, aiuta a ragionare perché prima di metterci le mani devi ingegnarti a capire come fare”. E non è sempre così semplice. Gorgona (Li). Il lavoro in vigna avvia al reinserimento i detenuti di Alessandra Moneti ansa.it, 8 giugno 2024 Sull’isola di Gorgona, un fazzoletto di terra di 200 ettari e colline alte 220 metri nel mar Tirreno, poco meno di un centinaio di detenuti trascorrono l’ultimo periodo di pena, lavorando a contatto con la natura, tra orti e vigneti. E in tre sono impegnati a tempo pieno, otto ore lavorative al giorno, per la dodicesima vendemmia del progetto “Gorgona”, nato nel 2012 grazie alla collaborazione tra Marchesi Frescobaldi e l’istituto di pena insulare. Intorno a un piccolo vigneto sono tre i detenuti, stipendiati dalla Marchesi Frescobaldi, che curano i filiari di Vermentino e Ansonica con la supervisione degli agronomi ed enologi della casa vitivinicola toscana.?In totale sono circa 70 i reclusi coinvolti con la possibilità di entrare a lavorare nelle Tenute Marchesi Frescobaldi anche a seguito del periodo detentivo, come professionisti del settore. Oggi il vigneto ha raggiunto un’estensione di 2,3 ettari, con uve di Vermentino e Ansonica. Da qui nasce il vino bianco Gorgona, 9.000 bottiglie/anno con una speciale etichetta che cambia ogni anno e che per l’annata 2023, presentata ieri in anteprima, celebra il vento o meglio i venti che accompagnano tutto l’anno questi filari dove la raccolta è manuale con affinamento in barrique in una cantina di impronta artigianal-garagista condotta da Federico Falossi. Mentre il Gorgona Rosso vede la luce con la vendemmia 2015, da alcuni filari di Sangiovese e Vermentino Nero, coltivati in agricoltura biologica ed affinati poi in orcio in terracotta. “Gorgona è un vino “attraente e selvaggio” che sa di riscatto, intriso di speranza e voglia di rivalsa, in un progetto che ci rende ogni anno più orgogliosi” ha detto Lamberto Frescobaldi, presidente della Marchesi Frescobaldi. “Sono poco più di due ettari di vigna e danno vita a un vino inimitabile, - ha sottolineato - simbolo di speranza e libertà. Il progetto porta nel bicchiere il Dna di questo territorio e mare bellissimi ma anche fatiche e il rispetto per tutto e per tutti”. Tra i partner del progetto il cantante e produttore Andrea Bocelli che ha voluto realizzare il testo e firmare l’etichetta della vendemmia 2013. E Giorgio Pinchiorri, patron dell’Enoteca Pinchiorri, che nella sua cucina promuove il patrimonio enogastronomico dell’isola della Gorgona. L’annuale festa per il debutto dell’ultima annata è stata accompagnata da un menu realizzato dai detenuti stessi, guidati dalla cuoca Fernanda Zazzera, insieme a otto reclusi nel carcere lombardo di Bollate, impegnati nel ristorante “InGalera” in collaborazione con la cooperativa “Abc La sapienza in tavola”. Bollate, ha ricordato la presidente della cooperativa, Silvia Polleri, “ha la recidiva più bassa d’Italia, quindi adempie pienamente al mandato istituzionale previsto dall’articolo 27 della Costituzione che a Gorgona è declamato con una scritta sulle case del porticciolo. Il progetto della ristorazione, in 21 anni di presenza a Bollate con 120 detenuti coinvolti, è quello che abbiamo ritenuto tra i più efficaci per il recupero della pena perché il cibo è vita. E noi diamo un posto di lavoro vero, retribuito con busta paga, e soprattutto colmiamo quel buco che genera la prigione nel curriculum di una persona. Così quando loro escono potranno spendere questi anni di reclusione utilizzati bene in un mestiere che è molto spendibile sia in Italia che nel mondo, magari per tornare al proprio paese di origine”. Giuseppe Renna, direttore della casa di reclusione di Gorgona, ha ringraziato pubblicamente il team dell’azienda vinicola per la “presenza competente, illuminata e discreta. Quello che mi piace di questo evento è l’idea di gemellaggio, parola scelta dal presidente Frescobaldi che ha creduto nella possibilità di produrre un vino d’eccellenza qui, su un’isola, insieme all’amministrazione penitenziaria. Rappresentando così il nostro modo di lavorare, cioè il lavorare insieme per passare dall’io al noi”. Torino. Una “finta” giornata di sole di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 8 giugno 2024 Quando dopo qualche periodo uggioso la mattina ci alziamo e splende il sole la giornata, anche se si prospetta faticosa, inizia con una marcia in più, la luce ci incoraggia ad affrontare la vita con più energia. Prende spunto di qui “Una finta giornata di sole” il titolo di cinque puntate trasmesse dal programma “Tre Soldi” in onda su Radio 3 dal 3 giugno alle 19.45 e poi a disposizione su RaiPlay Sound. I protagonisti che danno voce al podcast, condotto dalla giornalista Francesca Berardi, sono 15 detenuti e detenute della Casa Circondariale torinese “Lorusso e Cutugno” accomunati dall’essere madri e padri. Frutto di un laboratorio promosso dietro le sbarre lo scorso gennaio dalla Fondazione Circolo dei lettori in collaborazione con la direzione carceraria e le Biblioteche Civiche torinesi, i ristretti sono stati sollecitati a riflettere sulla genitorialità in stato di detenzione e su cosa significa scontare una pena quando a casa si hanno figli che ti aspettano. Perché quando un congiunto è in carcere tutta la famiglia è in qualche mondo privata della libertà perché con papà e mamma non si può parlare quando si vuole, non ti possono rimboccare le coperte la sera né preparare il tuo piatto preferito. Papà e mamma reclusi si possono incontrare solo ai colloqui di un’ora e parlare durante le telefonate settimanali previste dal regolamento carcerario. Ma quando questo avviene, come raccontano nei podcast Concettina, Giuseppe, Daniele, Roberto e Mohammed, allora è come se dietro le sbarre splendesse il sole anche se è “finto” perché non puoi prendere per mano tuo figlio e andare a correre fuori in un parco, mangiare un gelato o accompagnarlo a scuola sotto il sole “vero”. “Ti devi accontentare di prenderlo sulle ginocchia e giocare con lui nella stanza dei colloqui ma già solo questo poco tempo è gioia pura, è come la luce del sole anche se è ‘finta’, perché tra poco finisce e il tuo bambino non lo vedi più fino al prossimo colloquio”, raccontano i genitori ristretti. Eppure le “Finte giornate di sole” sono fondamentali, come ha spiegato la conduttrice Francesca Berardi durante la presentazione nei giorni scorsi nella biblioteca del penitenziario torinese con i protagonisti dei programmi e alcuni compagni di cella. Perché, anche se detenuti e privati della libertà, non si perde il diritto di essere genitori e il periodo della pena può essere l’occasione per riflettere sul grande dono della paternità e maternità e prepararsi ad uscire sentendosi responsabili e più consapevoli di come spiegare ai propri figli perché si è arrivati a delinquere e perché si è finiti in galera. Spesso sono persone nate in “culle sbagliate”, con percorsi di crescita in famiglie disfunzionali, nell’illegalità, senza adulti “sani” di riferimento, con abbandoni scolastici precoci ed insegnanti che non hanno capito i motivi di comportamenti aggressivi o borderline. Ma tutto non è perduto. L’art. 27 della nostra costituzione recita che il periodo della pena “deve tendere alla rieducazione del condannato” e se non si è imparato ad essere madre e padre “fuori” lo si può fare in cella aiutati da percorsi di genitorialità ed affettività. Per rientrare se stessi, aiutati anche dai propri figli che diventano spesso il motivo di ritornare alla vita da liberi cambiati e per non commettere gli stessi errori. Varese. “Voci dal carcere”, una giornata speciale alla Casa circondariale varesenews.it, 8 giugno 2024 Gli studenti del corso di italiano per stranieri hanno letto alcuni dei loro testi relativi alla loro vita in carcere ed alla loro storia personale, scritti nel corso dell’anno scolastico insieme ad una docente del Cpia 2. Nella mattinata di venerdì 7 giugno nella Casa Circondariale di Varese gli studenti del corso di italiano per stranieri hanno letto alcuni dei loro testi relativi alla loro vita in carcere ed alla loro storia personale, scritti nel corso dell’anno scolastico insieme ad una docente del Cpia (centro provinciale di istruzione per adulti) 2 di Varese. Le letture sono state effettuate in sala colloqui/familiari ed è stato proiettato un video con delle musiche; all’iniziativa hanno partecipato i docenti del Centro di Istruzione di Varese con i loro corsisti della “Scuola in carcere”, la dirigente dello stesso centro, la Direttrice della Casa Circondariale, il Responsabile dell’Area Pedagogica e la referente “Scuola carceraria” dell’Ust di Varese, nonché un ulteriore gruppo di detenuti interessati. L’iniziativa nasce dalla lunghissima collaborazione tra le due Direzioni, della Casa Circondariale e della Scuola per adulti, che entrambe considerano di notevole importanza sia l’istruzione, che l’apprendimento nei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti. La scuola è anche un importante luogo di socializzazione, se pur graduale, grazie alle persone che in carcere vengono per lavorare, come gli insegnanti, che operando sempre senza pregiudizi, cercano di comunicare la loro esperienza e la loro didattica. E qui in carcere, chi lo vuole, può imparare non solo ciò che c’è scritto sui libri, ma anche, ma anche e soprattutto attraverso le relazioni interpersonali con gli insegnanti e con tutti gli operatori penitenziari, che rappresentano la comunità esterna. Si ringraziano per la realizzazione di questa iniziativa in particolare le due professoresse Milena Mantovani (docente italiano per stranieri Cpia 2 Varese) e Simona Marasca (responsabile della scuola in carcere del Cpia 2 Varese). Essere Liana Milella, una vita per la notizia. “Io cattiva? Se potessi farei anche a botte” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 8 giugno 2024 La giornalista con la toga che non accetta mai appuntamenti: “Li odio, mi ostacolano. Metto al primo posto il lavoro, la vita privata è secondaria. Liana Milella l’avete vista arrivare per prima nei palazzi di giustizia, al Csm, e pure alla Consulta. Ma di certo non l’avete vista sorseggiare un aperitivo ai tavolini di un bar, figuriamoci godersi una cena al ristorante. Il privilegio tocca a noi, ma solo perché si tratta di una colazione francese. Due ore rubate al rullo delle notizie. Poi si fila dritte alla scrivania per scrivere un nuovo pezzo del romanzo giudiziario consegnato a rate sulle colonne di Repubblica. Liana Milella fa questo da trent’anni: firma la giustizia, e alla fine la giustizia è diventata il suo nome. Tutto il resto è un optional, per la giornalista con la toga sulla penna. E difatti Toghe è anche il titolo del suo blog, che poi è diventata una newsletter letta dal pianeta giuridico senza risultare indifferente alla politica. “Diciamo che mi sento osservata, ma non lo dico per me, lo dico per il clima che c’è: non sei più libero di raccontare i processi perché poi dicono che fai il portavoce delle procure”. Liana Milella è venuta con l’armatura. Non cerca il ritratto, ma ci ha concesso lo sfizio. Riluttante alle domande come chi le fa di mestiere. “Spero di non dare l’impressione di essere arrogante o prepotente, perché uno si deve pure difendere dall’aggressività”. Ma nel bar francese il clima è sereno. La riforma Nordio le ha tolto un po’ di sonno. Ma ora si può tirare un respiro almeno per un cappuccino ben fatto. Non come quelle patate al microonde che Milella si ritrova per cena perché ha lavorato ben oltre il tramonto. “Una prigione”, dice prima di accettare l’invito. Ma è una prigione dolce per Liana Milella il suo mestiere: niente di melenso, fare la cronaca è solo una cosa che le è venuta bene. Prima a Bari, da ragazza, con il Corriere della Sera. Poi “per la prima volta una donna è comparsa alla Gazzetta del Mezzogiorno”. Cronaca del palazzo, dietro i consigli comunali. Dopo cinque anni il colpo: Milano con Il Sole 24 ore. Le pagine di cultura della domenica e la svolta professionale: “Gianni Locatelli ha deciso di puntare sul Mezzogiorno e sul rapporto mafia-impresa”. Milella gira tutto il sud. “Poi, beh, Tangentopoli. E a Palermo ho conosciuto Falcone”. Panorama dal ‘93, Roma, e infine Repubblica. Nella penna di Milella c’è anche un pezzo di storia del paese, a tu per tu con Buscetta. “Un paio di interviste quando era negli Stati Uniti, prima che si ammalasse. Mi prendeva in giro quando facevo certi discorsi e diceva: “tu non sei stata mafiosa, sennò avresti 200 omicidi addosso”“. Il discorso a cui allude riguarda il suo carattere. Dice che non è buono. “Se fossi stato un maschio... beh, ci sono delle situazioni che vorrei sbrigare facendo a botte”. Ma per fortuna Liana Milella è una donna e infatti ha affinato l’arte che si nasconde nella sua chioma elegante. L’unico vezzo che la reporter si concede per interrompere il servizio. Siccome le risulta impossibile fissare un appuntamento, fosse pure il dentista, risolve con l’abnegazione. “Detesto gli appuntamenti, mi ostacolano, perché poi capita sempre qualcosa”. C’è solo un modo per Liana Milella di fare la giornalista: fare quello e basta. “Quando lavori tutti i giorni vedi cose che gli altri non vedono, per la semplice ragione che non hai dei buchi. Poi certo, anche io vado dal parrucchiere”. Ma sempre con la coda dell’occhio sulle agenzie, dietro la notizia. “Ho un senso del dovere molto sviluppato quindi il lavoro viene prima di qualsiasi altra cosa, la vita privata è secondaria”. Fatta eccezione per gli otto amatissimi gatti, di cui uno in vita, che le hanno insegnato lo stile di vita. “Una grande avventura affettiva. Ora sono tutti nelle loro urnette”. Non ha mai avuto tempo per un partner, che diciamolo poteva solo risultarle di intralcio, e il grande amore è sua sorella di otto anni più piccola. “Troviamo sempre il modo di mangiare parlandoci al telefono”. Sull’asse Roma-Bari condividono la passione per gli animali, origini marchigiane da parte di madre e papà pugliese. Liana Milella, vegetariana doc. Nata a Macerata, cresciuta e laureata a Bari in filologia classica, e infine arrivata fino a Palermo, dove l’abbiamo lasciata nei pressi di Falcone. “Ho conosciuto i colleghi dell’antimafia, ho vissuto l’atmosfera fortemente divisiva del Palazzo di Giustizia di Palermo. Le angosce di Falcone rispetto al rapporto con i colleghi”. Ne ha pubblicato i Diari quando è morto. E si ricorda bene quel giorno del 1992. Divisa tra Palermo e Milano, lascia Mani pulite per precipitarsi nel luogo della tragedia. Insomma, sospira Milella: sono stati anni pesanti. “Anni sul campo che a rivederli adesso dopo 30 anni... non hai fatto solamente cronaca, hai vissuto un pezzo della storia, della terrificante storia di questo paese di cui a tutt’oggi non sappiamo completamente la verità”. Il giudice ammazzato a Capaci? “Ha messo in piedi un processo che è una pietra miliare di questo paese. Ha aperto una porta fino a quel momento chiusa, serrata per le complicità dello Stato sulla criminalità di questo paese che ha prodotto omicidi. Questo non ce lo dobbiamo dimenticare, perché sembra che ce lo stiamo dimenticando”. Di storie e processi Milella ne ha seguiti. E non si pente di nessuna delle sue mosse. Neanche di aver tradito la fiducia del pm partenopeo Henry John Woodcock per un’intervista strappata. Quella volta aveva vinto la smania dello scoop, il demone del giornalista che invece ha fatto un passo indietro per l’affaire dei verbali di Amara. Le sono arrivati direttamente a casa. “E sono stati una rogna infinita”. Ecco di cosa si pente: “Secondo me i giornalisti che ricevono le carte non devono denunciare niente, devono scrivere”. Lei invece ha denunciato e ha pure testimoniato a Brescia nel processo a Davigo. Ha testimoniato al Csm, per un’ora, per il caso Consip. E non sopporta che le dicano, come le hanno detto sul Foglio, che “scrive con le manette”, Milella la “sacerdotessa della giustizia”. “Io sarò libera in un mio pezzo, sia esso scritto con delle citazioni o con un’intervista, di dare voce a quello che pensa il mio interlocutore? Questi signori del Foglio, che io leggo da una vita incazzandomi ogni mattina, mi conoscono? Mi hanno mai chiamato?”. E ancora: “Cosa si sta pretendendo, che il giornalista sia un robot? Io non rinuncio alla mia ideologia nello scrivere”. Liana Milella sente un clima illiberale, evoca la censura. A breve compie 72 anni e non le piace il sentiero che abbiamo imboccato. Le sembra che i giornalisti oggi usino i guanti di velluto, ai quali lei preferisce di gran lunga i guantoni da sfoderare nel genere dell’intervista. Di sua è nota nell’ultimo anno quella al deputato Enrico Costa dopo il sì alla “legge bavaglio”: poteva sembrare una questione personale. Il “nemico giurato della giudiziaria” al corpo a corpo con la regina della giudiziaria. Definizione, quest’ultima, che lei rifugge, rivendicando invece la reputazione di intervistatrice severa. Se la scoccia la fama di “cattiva”? “No, va benissimo. Se per “cattivo” si intende l’essere competitivi nel proprio lavoro, estremamente rigorosi con le fonti e anche non accondiscendenti”. Non si confessa, Milella. Non crede, né cerca Dio: si attiene ai fatti. E li racconterà, statene certi, finché lo troverà divertente. Ma non chiedetele di intervistare un avvocato... L’odio toglie spazio alla ragione, siamo nella dittatura delle emozioni di Mario Giro* Il Domani, 8 giugno 2024 Lo spirito del tempo spinge a odiare sempre di più perché l’odio sembra la cosa più vera. Questo sentimento pare diventato una ovvia necessità, talvolta quasi una virtù civile anche se alla fine si ritorce sempre contro chi l’ha prodotto. Nessuno ne è immune. C’è troppo odio in giro, e la sua onnipresenza ci acceca. In genere si pensa che sia il prodotto di una situazione oggettiva che non controlliamo, ma è vero il contrario: più si odia e più si creano le condizioni perché l’odio esploda. Sui grandi temi internazionali e sulle crisi globali ci si combatte con astio allo scopo di generare sempre altro odio. In tali situazioni sono pochi coloro che continuano a ragionare mantenendo una certa lucidità, e pochissimi riescono a resistere allo spirito del tempo che spinge a odiare sempre di più. Si richiede a ciascun uomo, partito, popolo o nazione di schierarsi, di decidere chi è il proprio nemico e di odiarlo senza tregua. Pace, dialogo, confronto, conoscenza dell’altro, tolleranza, comprensione: sono tutti temi che non hanno più spazio se non per anime belle e ingenue. L’odio sembra la cosa più reale e più vera. Lo stimolo dominante è l’esaltazione della contrapposizione e la dittatura dell’emozione. Mostrare le fotografie o i video degli orrori quotidiani a cui siamo costretti ad assistere - le soldatesse israeliane rapite, ferite e umiliate, i bambini di Gaza affamati e uccisi, i civili africani sterminati da milizie o jihadisti, le religiose rapite, le città rase al suolo, ecc. - non serve ad aumentare la nostra consapevolezza o a farci indignare, ma diventano uno spin diretto ad aumentare l’odio e a eccitare le tifoserie. “Malattia dell’anima” - Etty Hillesum aveva riconosciuto questo odio nei lager: un sentimento che diviene indifferenziato, cioè verso tutto e tutti coloro che non sono “dei nostri”. Un odio “malattia dell’anima” che trascina nel gorgo infinito della guerra. In tale contesto è d’obbligo resistere: questa è la vera nuova resistenza da compiere. Dobbiamo fare in modo che siano preservati gli spazi di bene e di buono, che sia conservata la disposizione verso il bene e la pace. Non si tratta di una pia illusione o di buonismo, ma di sopravvivere e opporsi a una logica che rende schiavi. “Se il nostro odio ci fa degenerare in bestie come lo sono loro”, scriveva Hillesum prendendo spunto dai nazisti, “non servirà a nulla”. Lo sappiamo ma ce ne dimentichiamo. Tornare a riflettere sui pensieri di chi visse il “grande male” del nazismo e della shoà è utile a scuoterci dalle emozioni del presente. Diceva ancora Etty Hillesum (profeticamente): “Dopo la guerra due correnti attraverseranno il mondo: una corrente di umanesimo e un’altra di odio. Allora ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio”. Questo deve essere il programma comune europeo: prendere posizione contro l’odio e immettersi nella corrente dell’umanesimo. Prima ancora della pandemia e delle grandi guerre ucraina e mediorientale, il cardinale Matteo Zuppi aveva pubblicato un libro sulla malattia spirituale della nostra epoca - Odierai il prossimo tuo - con il coraggio di denunciare tutti gli aspetti dell’odio (anche quello dentro la chiesa). Con uno sguardo mai rassegnato e la sua ben nota positività, il cardinale scriveva: “L’odio che si respira nella nostra società, l’odio che sembra diventato un’ovvia necessità - persino una virtù civile, almeno sulla bocca di qualche voce autorevole - potrebbe rivelarsi non solo una tentazione a cui resistere ma un’occasione preziosa per riscoprire con rinnovata energia il grande valore della fraternità, unico materiale che può rendere solida la nostra casa comune”. La paura - In effetti una parte di questo odio nasce dalla paura, quella di non avere più una casa solida, fosse la società, il paese o l’Europa. La paura è una vecchia compagna che si è fatta veleno sottile e silenzioso e ha ucciso molte speranze. Tutto ciò che accade è visto come una minaccia: la paura spinge a non procreare, a non pensare alla vita dopo la propria, a temere il futuro, a non accettare il disagio degli altri, a non sopportare la presenza dei poveri, a non considerare le diversità… La paura costruisce muri, gabbie, barriere, difese. Basta pensare alle reazioni alla pandemia (e a tutto l’odio scatenato nella polemica sui vaccini che ancora continua) o alle guerre attuali ma anche alla trasformazione dei giudizi sull’Europa (una volta protettrice, ora causa di tutti i mali...). La paura spinge a cercare/creare un colpevole per odiarlo. Non avere paura è difficile: non si può ordinarlo o decretarlo. Bisogna con pazienza ricostruire - qualcuno usa la parola “ritessere” o “rammendare” - la fiducia scomparsa dentro le società o tra le nazioni. Come sarà possibile farlo tra russi e ucraini, tra palestinesi e israeliani? Ecco perché parlare di pace e celebrarla è utile e non ingenuo: serve come materiale per ricostruire la fiducia e sciogliere la paura. Avere stima del dialogo come metodo del convivere serve a tutti. La nostra vita comune è fatta di tanti aspetti ed elementi diversi: la famiglia, il lavoro, città dove viviamo, la regione, le idee politiche, la religione, l’Italia, l’Europa, le contese, l’economia, il mondo…. Ci stiamo abituando sempre di più a pensare che vivere con gli altri - soprattutto se diversi e/o stranieri - sia un’impresa difficile se non impossibile. Solitudine - “L’inferno sono gli altri”, diceva Sartre. Ci si incammina così per una via solitaria: solitudine per le persone, isolamento per gli stati, separazione tra le culture e le religioni. Vivere insieme è da sempre la sfida dell’umanità. Nella storia, dopo le grandi guerre, rinasce sempre la coscienza del destino comune che lega persone e popoli: nessuno è un’isola. Poi però l’eccitazione delle emozioni, il bisogno di schierarsi, l’impulso per l’identità uccidono tale volontà e separano di nuovo. L’idea d’Europa nasce dopo due guerre mondiali, maturando lentamente tra le élite per diventare a un certo punto un sentimento diffuso e popolare. Alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso il desiderio di pace era quasi un’ovvietà: basta guerre fra di noi! Jamais plus la guerre!, come disse Paolo VI alle Nazioni unite. Ma poi si è dimenticata tale regola saggia e si sono fatte tante altre guerre, sempre con delle giustificazioni: le guerre coloniali, di liberazione e indipendenza; quelle arabo-israeliane e del Medio Oriente; i conflitti legati allo scontro bipolare; quelli etnico-regionali, fino a giungere alle guerre dell’estremismo religioso e identitario e alla guerra al terrorismo. Non c’è da sorprendersi se, educato a tale scuola dell’odio e della contrapposizione, l’uomo contemporaneo abbia ceduto interiormente e oggi accetti come naturali i grandi conflitti ucraino o a Gaza o le numerose guerre d’Africa. Sempre la Hillesum scriveva: “Convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale”. È una saggezza che vale per tutti: seminare odio crea le condizioni perché quell’odio si ritorca contro di sé. Nessuno è immune dalla grande pandemia dell’odio. Giustamente ci lamentiamo tutti dell’hate speech nei social media e ormai anche sui media. Ma la malattia è più profonda: abbiamo lasciato il veleno insinuarsi dentro di noi, nelle persone, nelle società, nei paesi, accettando il male come un fenomeno naturale. Non lo è, come non lo è la guerra. L’odio deve essere considerato inaccettabile: una patologia che distrugge allo stesso tempo chi lo provoca e chi ne è oggetto. L’odio provoca l’ira e acceca: ciò vale per le persone, come per le comunità e gli Stati. Nessuna passione, nessun ideale potrà mai giustificare l’odio. *Politologo Migranti. Stop ai soccorsi in mare e diritti umani calpestati, così la Destra cavalca l’invasione che non c’è di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 giugno 2024 Inchiesta sullo stato della democrazia in Italia. Ferrara, davanti la questura Mamadou, 37 anni, senegalese, grida tutta la sua rabbia: “Non sono clandestino e non voglio diventarlo. Vivo qui da anni, ho anche comprato casa, pago il mutuo e bollette, ho un lavoro, ma adesso che non si può più convertire il permesso umanitario in permesso di soggiorno perderò tutto”. Potenza, Hamdi, 21 anni, tunisino, esce dal Cpr frastornato. Nel giro di poche ore è passato dalla scuola di cucina di Parma della Fondazione Barilla al Centro per i rimpatri, dalla felicità dell’inizio del lavoro tra pochi giorni per uno chef stellato a Rimini al terrore di essere rispedito in Tunisia. Il sogno spezzato da un cappotto mai rubato: il governo vuole rimpatriare Hamdi che ha già un lavoro in un ristorante a due stelle Michelin. E tutto per un giaccone che aveva tentato di rubare tre anni fa quando, a 18 anni, era stato messo in strada dalla comunità per minori che lo accoglieva. Ieri il giudice ha accolto il ricorso dei legali dell’associazione Baobab e Hamsi è tornato libero. Marina di Carrara, dalla Humanity 1 sbarcano due neonati con gravi problemi respiratori. Neanche la loro presenza tra i 70 migranti soccorsi cinque giorni prima ha convinto il Viminale ad assegnare alla Ong il porto sicuro più vicino. A Lampedusa sbarca solo una bimba di sei mesi in una bara bianca: morta per malnutrizione, la mamma diciannovenne partita dalla Tunisia è talmente devastata da non poterla più allattare. Perché adesso, non solo più dalla Libia, ma anche dalla Tunisia che l’Italia paga per tenere lontani i migranti, violenze e maltrattamenti sono la norma. Sono solo tre delle tante istantanee che fotografano l’aggressione dei diritti umani, per terra e per mare, sistematicamente perseguita dal governo Meloni con la sua ossessione della minaccia della sostituzione etnica e dell’invasione che non c’è. Diritti umani, diritto d’asilo, diritto alla vita e al soccorso, diritto agli aiuti umanitari. Costituzione italiana ignorata, convenzioni internazionali calpestate con prassi illegittime e provvedimenti legislativi e amministrativi che continuano ad essere annullati dai tribunali, inapplicati dai giudici, oggetto di sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Unico obiettivo tenere lontani i migranti, cacciare quelli che sono arrivati, rendere la vita impossibile anche a chi si è integrato, o a chi, come Michel Ivo, italiano, nato e cresciuto in Guinea, è stato costretto a salire su un barcone di migranti per arrivare nel suo Paese. Effetto deterrenza lo definisce Giorgia Meloni, pronta a buttare un miliardo di euro nel protocollo Albania, il fiore all’occhiello di quella politica di esternalizzazione del controllo delle frontiere di cui l’Italia si considera fiera apripista. Altro che ius soli o ius scholae, persino per il riconoscimento della cittadinanza agli italiani di seconda generazione ormai ci vogliono in media 15 anni. Giorgia Meloni, dopo l’approvazione del Migration Pact, ne fa un punto d’onore: “Adesso l’Europa ci segue”. La prima bocciatura arriva dalla Cei: “È il fallimento della solidarietà, confidiamo nella Costituzione come presidio sicuro per tutelare i richiedenti asilo”, dice Monsignor Giancarlo Perego. La vergogna di Cutro - All’emozione per le oltre 100 vite perse nel naufragio del caicco che nessuno ha voluto soccorrere, il governo ha risposto con il più cinico dei decreti: stringendo le maglie del diritto d’asilo, abolendo la protezione umanitaria, demolendo il sistema di accoglienza diffuso tagliando qualsiasi percorso di istruzione, formazione, per i richiedenti asilo, per interrompere i percorsi di chi in Italia sta già da anni, integrato e con un lavoro. “A Cutro l’Italia ha mostrato di avere un rapporto con i diritti umani simile a quello che hanno la Russia e l’Ungheria. Pezzi dello Stato sono indagati per aver causato la morte di oltre cento fra bambine e bambini, donne e uomini. Parliamo di diritto alla vita”, dice l’avvocato Francesco Verri, difensore di alcune delle famiglie delle vittime del naufragio. Il “lavoro sporco” in Tunisia - Un fuoristrada Nissan Navarra bianco, di quelli forniti dall’Italia alla Tunisia, scorta un bus carico di migranti. È la quotidiana caccia al nero. Rastrellati a Sfax, scaricati senza cibo e acqua al confine con il deserto algerino o consegnati ai trafficanti libici. Il lavoro sporco lo fanno i tunisini, ma il mandante è l’Italia con il suo patto con Kais Saied. Giorgia Meloni la chiama “gestione dei flussi migratori”, di fatto sono respingimenti di massa, in assoluta violazione dei diritti umani, documentati dal consorzio Lighthouse report. Altra istantanea: in una cella del carcere di Castrovillari, in Calabria, c’è una giovane donna iraniana. Si chiama Maysoon Majidi, 28 anni, regista e attivista curdo-iraniana in fuga dal regime. È arrivata in Italia il 31 dicembre su un barcone, l’hanno arrestata contestandole di essere una scafista ma i due migranti che l’hanno accusata sono irreperibili e la giovane attivista resta in cella, in sciopero della fame, e rischia una condanna a 16 anni. Ma se questo è il prezzo per tenere lontano gli odiati migranti dall’Italia il governo Meloni lo paga con assoluta disinvoltura. La guerra alle Ong - Quello che succede in mare poco importa. Se affondano centinaia di barchini con il loro carico di vite basta dare la colpa ai trafficanti e ignorare gli appelli (anche delle agenzie dell’Onu) che invocano un dispositivo di soccorso nel Mediterraneo. Ma se c’è una cosa che il governo è riuscito a fare è stato svuotare il Mediterraneo, costringendo le odiate navi delle Ong a una lunga spola verso i lontanissimi porti del centro e nord Italia. Matteo Villa, ricercatore Ispi, ha calcolato l’effetto concreto del decreto Cutro sulla flotta umanitaria: “Le Ong vengono mandate in media a 420 miglia nautiche da Lampedusa, quando la distanza media nel 2014-2017 erano 70 miglia nautiche. E ora ogni Ong ha in media a bordo solo 70 persone, contro le 190 durante il governo Draghi”. Insomma, deterrenza su tutta la linea, che costringe ogni nave a fare 6 giorni di navigazione in più, sprecando tempo e carburante. “Il decreto Piantedosi e la strategia di criminalizzazione delle Ong hanno demolito il sistema del soccorso in mare. A questo si unisce il sostegno alla guardia costiera libica per le intercettazioni. Chi ne paga le conseguenze sono i migranti e un mare che è diventato un deserto. C’è una questione enorme di diritti umani - spiega Marco Bertotto, di Msf - . Nel 2012 l’Italia fu condannata dalla Corte europea per i respingimenti diretti, oggi siamo ad una versione più raffinata. E ora con l’accordo con l’Albania si arriva a mettere in discussione il diritto di accesso ad un paese per chiedere asilo, siamo appena un passo prima del modello australiano di deportazione. I diritti umani sono usciti ormai dall’agenda politica italiana”. Boomerang del decreto flussi - I settori produttivi ma anche le famiglie li chiedono disperatamente. E i numeri dei decreti flussi parlano da soli: quest’anno per i 150.000 posti disponibili sono state presentate più di 700.000 richieste di ingresso per lavoratori stranieri. Per altro manipolate dalle organizzazioni criminali, come ha appena scoperto Giorgia Meloni, preoccupata che il decreto flussi si trasformi in un boomerang. Ma il governo stringe le maglie degli ingressi. Via la protezione umanitaria, via la speciale, un trend che Matteo Villa definisce “Duri a parole”: “Nel primo trimestre del 2024 si vede un primo calo dei livelli di protezione internazionale. Avendo organizzato la più grande regolarizzazione mascherata degli ultimi decenni, con i decreti flussi 2023-2025, hai norme dure raccontate molto, ma dall’effetto pratico non enorme; e poi norme paradossalmente più aperte e accoglienti, ma non raccontate perché non puoi rinunciare alla narrazione principale della sostituzione etnica”. La strategia per negare l’asilo - E poi ci sono le procedure accelerate di frontiera per chi arriva da Paesi sicuri con lista allungata a luoghi come l’Egitto dove la violazione dei diritti umani è la norma. E poco importa che tante sentenze della corte europea e di giudici italiani abbiano stigmatizzato questa erosione di un diritto sancito dalla Costituzione e dalla legislazione internazionale. Dice l’avvocata Nazzarena Zorzella dell’Asgi: “C’è un grande tema di diritto alla difesa per queste persone a cui non vengono date informazioni legali e che spesso non sono in grado di rappresentare la propria condizione alla commissione territoriale per l’asilo. Il grande contenzioso riguarda anche la conversione in permesso di lavoro di permessi di protezione umanitaria. La si nega anche a chi è in Italia, già integrato con un lavoro, una casa, relazioni sociali. Sono restrizioni molto gravi che aumentano l’irregolarità di chi vive sul territorio e ora sarà costretto a lavorare in nero”. Per migliaia di migranti già in Italia nel futuro c’è solo il ritorno alla clandestinità. “Si tratta di scelte gravi che cancellano gran parte della civiltà giuridica italiana ed europea. In questi quasi due anni di governo, si sono concentrati soprattutto sul criminalizzare e limitare, fino a provare a cancellarlo, il diritto d’asilo - dice Filippo Miraglia di Arci -. Siamo arrivati al paradosso che il giorno prima dichiarano di aver ridotto gli arrivi di più del 60% e il giorno dopo rinnovano lo stato di emergenza sbarchi: senza alcun imbarazzo”. Migranti. Hamdi Benali, dalle cucine stellate al Cpr: un’altra vittima del decreto Piantedosi di Marika Ikonomu Il Domani, 8 giugno 2024 Il 21enne di origine tunisina, dopo aver partecipato alla scuola di cucina di Fondazione Barilla a Parma, è stato portato nel centro di detenzione di Palazzo San Gervasio, lontano dalla sua radicata rete sociale. Grazie agli avvocati, il giudice non ha convalidato il trattenimento. “È libero! È libero!”, esulta al telefono Andrea Costa, presidente dell’associazione Baobab Experience, davanti al Centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio in Basilicata, quando scopre che ad Hamdi Benali non hanno convalidato il trattenimento. “Arrivi in questa piana e quello che vedi è una gabbia, sembra una gabbia per animali”, spiega Costa. Si prospettava un’estate nelle cucine di uno chef stellato, ma per Benali i piani sembravano cambiati quando si è ritrovato dietro le sbarre del Cpr vicino a Potenza. È riuscito ad uscire da quella struttura carceraria grazie agli avvocati che hanno fatto sì che il giudice non convalidasse. Benali ha 21 anni, è di origine tunisina ed è arrivato a Roma da minorenne. Nella capitale è conosciuto da tutti ed è passato da una cucina all’altra, cercando di lottare per i propri diritti di lavoratore e di allontanare i continui tentativi di sfruttamento nel mondo della ristorazione. Fino ad arrivare alla scuola di cucina di Fondazione Barilla a Parma ed essere selezionato tra i venti ragazze e ragazzi provenienti da contesti svantaggiati. Partito da Sfax, in Tunisia, è arrivato a Lampedusa via mare, ha vissuto senza un tetto per un po’. “Lo trovai per strada a 17 anni, in pieno Covid, era arrivato da uno sbarco e aveva il braccio ingessato”, racconta il presidente di Baobab, organizzazione che dà supporto alle persone con background migratorio. I volontari dell’associazione lo hanno accompagnato in questura ma, in base al sistema di accoglienza italiano, al compimento dei 18 anni, si esce dal programma minori e “si è ritrovato di nuovo per strada”, racconta Costa. La casa famiglia lo aveva abbandonato al freddo e il ragazzo aveva provato a rubare una giacca per coprirsi, senza riuscirci. Per questo gesto Benali è stato considerato dalla Questura una “gravissima pericolosità sociale”, una valutazione che ha portato al rigetto della sua domanda di conversione del permesso di soggiorno, da attesa occupazione a lavoro subordinato. Era in attesa di una risposta da due anni ed è arrivata con l’applicazione del decreto Piantedosi, varato dopo la strage di Cutro, che ha ristretto le possibilità di rimanere sul territorio italiano legalmente. Baobab evidenzia inoltre che non è stato nemmeno considerato il suo diritto alla protezione speciale, per “la profonda e sincera inclusione sociale di un ragazzo che considera Roma casa sua”. È stato quindi portato in commissariato e poi all’ufficio immigrazione della Questura, in via Patini, e portato al Cpr. Non al Cpr di Roma Ponte Galeria, dove c’erano posti liberi - segnala l’associazione - ma al centro di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, a 378 chilometri dalla sua radicata rete sociale. Baobab e gli avvocati sono riusciti a liberare Benali, a cui rimane però il decreto di espulsione con un termine di sette giorni, che gli avvocati hanno già impugnato. “Un fulmine a ciel sereno, uno squarcio nella vita del giovane ragazzo”, scrive Baobab. Perché Benali è diventato parte del tessuto sociale della città di Roma. Ha studiato italiano, ha preso la terza media e voleva continuare il percorso per ottenere il diploma delle superiori. Ha fatto teatro e lavorato come il lavapiatti, l’aiuto pizzaiolo, l’aiuto cuoco e in paninoteca. Una storia di risultati e di pieno inserimento nella comunità romana, anche grazie all’associazione Baobab, che gli ha fornito un tetto per consentirgli di concentrarsi sui progetti e sul futuro. Tanto che dopo i due mesi di formazione alla scuola, uno chef stellato gli ha proposto di lavorare a Rimini per la stagione estiva. Ora che è di nuovo libero gli ha promesso un contratto. “I sogni non sono per tutti, ma ognuno incontra ciò che davvero gli fa battere il cuore, può vivere il suo sogno si è disposto a pagarne il prezzo”, scriveva in un post su Instagram accanto a una foto con i suoi compagni di corso alla Barilla. L’entusiasmo contagioso di Benali è arrivato anche sulle pagine di Io Donna, l’inserto del Corriere della Sera, che lo ha descritto così: “Hamdi, 21 anni, tunisino, parla un ottimo italiano, è pieno di entusiasmo e ottimismo. “Ho fatto il lavapiatti, l’aiuto pizzaiolo, l’aiuto cuoco, oggi lavoro in una paninoteca. Ma vorrei diventare cuoco”“. “Luoghi di tortura” - “Un esempio di integrazione”, dice Costa, che si è trasformato in “un esempio di quanto possano essere fallimentari e ingiuste le politiche migratorie”. Dalle foto con Cannavacciuolo a quelli che il deputato di Più Europa Riccardo Magi ha definito “luoghi di tortura”, centri di detenzione amministrativa, di privazione della libertà personale, dove rischia di finirci chi si trova, anche temporaneamente, senza permesso di soggiorno. Nei Cpr, dove negli ultimi 5 anni sono morte 14 persone, sono nei fatti delle carceri, in cui - secondo moltissimi rapporti del garante nazionale delle persone private della libertà - vengono violati diritti fondamentali delle persone, come il diritto alla difesa, alla salute e soprattutto alla dignità. “Questa è una piccola battaglia vinta”, commenta Costa, “ma rimane lo scandalo dei Cpr. Sono centinaia le donne e gli uomini dimenticati, che non hanno una rete e la possibilità di avere avvocati di fiducia, e rimangono o spariscono nel limbo di questi centri”. Strutture che sono raggiungibili perché in Italia ma, conclude Costa, “cosa succederà alle persone che verranno portate nei centri in Albania? È necessario che la società civile faccia rete e tuteli queste ragazze e questi ragazzi che non hanno nessuna colpa”. Oltre 2.600 detenuti italiani all’estero in attesa di giudizio o di estradizione di Francesco Gentile La Discussione, 8 giugno 2024 L’atteso ritorno di Chico Forti in Italia, dopo oltre vent’anni di detenzione negli Stati Uniti, è stato accolto con grande favore nel nostro Paese. Ma questo caso solleva interrogativi urgenti sulle condizioni e sul destino degli oltre 2.600 detenuti italiani all’estero, molti dei quali in attesa di giudizio o di estradizione. Recarsi presso un Paese estero implica il rispetto delle leggi locali, una mancata osservanza porta inesorabilmente all’ingresso in un labirinto giudiziario di cui si conosce l’entrata ma non la via d’uscita. Gli italiani detenuti all’estero - Secondo i dati forniti dalla Farnesina e da alcune organizzazioni sindacali, gli italiani detenuti all’estero sono oltre 2.600, la maggior parte detenuta nelle carceri della Germania (1.079). Segue la Spagna (458), la Francia (231) e il Belgio (202). Nei Paesi extraeuropei primeggia il Regno Unito (192) seguito dalla Svizzera (131) e dagli Stati Uniti (91). Un numero di detenuti italiani, si riscontra anche nei paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania. Una metà di loro ha ricevuto una vera condanna in via definitiva mentre l’altra metà resta in attesa di giudizio, con sentenze non definitive, o in attesa di estradizione. Rispettare gli accordi - Una nota del Centro Studi Penitenziari del Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.-APS) a firma Sandro Libianchi e Assunta Giordano ricorda che l’esecuzione della pena all’estero, regolamentata dal Decreto legislativo n 161/2010, prevede che la persona possa dare deliberatamente il proprio consenso al trasferimento e che vengano rispettati gli accordi tra l’Italia e lo Stato estero. Oltremodo, la convenzione di Strasburgo prevede che entrambi gli Stati siano d’accordo sul trasferimento, che il reato venga ritenuto tale anche nel Paese di destinazione e che la pena che resta da scontare sia almeno di sei mesi. Accuse vere o non dimostrabili - Le accuse mosse, proseguono Libianchi e Giordano, sono prevalentemente di possesso di droga e di furto. In alcuni casi, come quello dell’italiano A.G.C. detenuto nel carcere di Abu Dhabi e le cui accuse non sono ancora del tutto chiare, le autorità sembrano avanzare l’ipotesi di favoreggiamento terroristico. Nei casi più gravi, come quello dell’italiana I.B., detenuta e successivamente rilasciata dal carcere di Higuey, vengono avanzate accuse di omicidio volontario. Alcune di queste accuse di reato risultano vere, ma ce ne sono altrettante che non sono del tutto dimostrabili vedendo degli innocenti dichiararsi colpevoli o perché incastrati o perché non a conoscenza della lingua locale. Le denunce - Le organizzazioni umanitarie, nonché gli stessi parenti, denunciano da tempo le pessime condizioni carcerarie che i detenuti italiani vivono nelle carceri estere. Come l’italiano F.M., ventinovenne detenuto nel carcere di Porta Alba in Romania costretto a condividere una cella di circa 30 mq con altri 24 detenuti in condizioni igienico-sanitarie disastrose. O addirittura c’è chi vi ha perso la vita, come il trentaseienne D.F. deceduto nel carcere francese di Grasse o il bancario S.R., deceduto nel carcere messicano di Playa del Carmen per mancata assistenza sanitaria. L’intervento dei consolati - Secondo la associazione Co.N.O.S.C.I la ragione principale dietro questa situazione complicata risiede nell’assenza di fondi che rendono debole l’intervento dei consolati e della Farnesina. Come dichiara Katia Anedda, presidente della Onlus “Prigionieri del silenzio”, è necessario che la politica intervenga affinché possano essere rivisti o sottoscritti gli accordi stipulati tra i diversi Stati per poter garantire ai detenuti italiani all’estero, condizioni più umane di trattamento e la possibilità di potersi difendere senza dover spendere centinaia di migliaia di euro, spesso non disponibili, per potersi garantire un giusto processo. In Pakistan governa il boia e la libertà viene trattata da blasfemia di Domenico Bilotti* L’Unità, 8 giugno 2024 Il Pakistan è il quinto Stato più popolato al mondo ed è, al netto delle sue contraddizioni, uno dei più grandi sistemi federali del pianeta. Per dare una misura pratica del tutto: nonostante la sua capitale sia l’antichissima città di Islamabad, il centro più importante, Caraci, ha un’area metropolitana da venticinque milioni di persone. La Costituzione vigente, adottata come testo fondamentale nel 1985, dopo tre decenni di aspri rivolgimenti etnici, politici, militari e confessionali, fissa l’Islam come religione di Stato. Un emendamento del 1988 ha accentuato la conformazione presidenziale del Paese, ridisegnando in parte le stesse suddivisioni amministrative: è passata tuttavia un’interpretazione marcatamente accentratrice del potere, distinta dalle rivendicazioni autonomistiche dei movimenti politici di base. A dispetto di ciò, il Pakistan ha sempre ospitato una demografia sostanziale molto più varia di ogni interdetto governativo. I sunniti rappresentano circa i tre quarti dei fedeli locali, ma la scuola hanafita (uno dei principali madhabid, orientamenti, sunniti) prevale nettamente sul radicalismo wahabita. C’è poi da tempo una cospicua componente sciita, dove è probabilmente presente la frazione ismailita più diffusa (prende il nome dal settimo imam, dalla presunta linea di successione legittima del Profeta). Queste ricchissime tradizioni culturali fanno a pugni con l’attuale legislazione e la presente struttura amministrativa del Paese, all’interno del quale, soprattutto nelle zone di confine, le minoranze religiose subiscono un trattamento ostile, per non dire, anche in senso tecnico-giuridico, persecutorio. Pena perpetua e pena di morte sono comminatorie formalmente accordate dalla legislazione sulla blasfemia. Il punto è che la mentalità del boia ha contagiato i tumulti popolari, nonostante le sue attribuzioni giuridiche siano sempre più spesso desuete. In assenza di un monitoraggio esaustivo e attendibile sulle esecuzioni capitali, è bene chiarire che in ogni caso esse difficilmente avvengono ad esito di processi per blasfemia. La tutela penale del culto, con la forte repressione dei comportamenti apparentemente irreligiosi o eterodossi, serve piuttosto da grimaldello e da costante strumento di pressione contro le minoranze - proprio a Caraci è radicata una comunità cattolica; al confine indiano, scuole e istituti induisti appartengono da secoli al vissuto collettivo. Sebbene nessuno sia stato giustiziato per blasfemia, anche solo un’accusa può provocare rivolte e incitare la folla alla violenza, ai linciaggi e agli omicidi. Il mese scorso, Nazir Masih, un cristiano di 72 anni sospettato di blasfemia è stato aggredito nel Punjab da una folla inferocita dopo che la gente del posto ha detto di aver visto pagine del Corano bruciate fuori dalla sua casa e ha accusato il figlio di esserne l’autore. Nazir è morto all’ospedale dopo un paio di settimane per le ferite riportate. È stato sepolto nella città di Sargodha da un gruppo di cristiani che lo hanno portato al cimitero in una bara avvolta in un panno nero e sopra un piccolo crocifisso. Dal piccolo corteo funebre svolto in mezzo a strette misure di sicurezza si sono levate grida come “Lode a Gesù” e “Gesù è grande”. Il potere, insomma, può riporre il cappio in cantina e la pistola nella fondina: dietro lo spauracchio della corruzione morale, finiscono additati a masse allo stremo soggetti diversamente credenti, oppositori politici e intellettuali secolari. In una terra che non ha ancora conosciuto un ceto borghese di scala e dove il caro prezzi e i costi energetico-climatici sono gestibili soltanto per i già abbienti, indicare le streghe è un’ottima scorciatoia alla soluzione dei problemi. Un vero e proprio pogrom anticristiano era del resto già avvenuto nel 2023, sempre nel contesto di agitazioni artatamente fomentate, che su tutto poggiavano meno che sulla cacciata degli eretici dalle moschee. Migliaia di persone incendiarono chiese e case di cristiani a Jaranwala, sempre nel Punjab. Anche all’epoca i residenti musulmani affermarono di aver visto due uomini profanare il libro sacro dell’Islam. A oltre quindici anni dall’uccisione della leader socialdemocratica, popolare e moderata Benazir Bhutto, il nuovo fondamentalismo ha perfezionato la sua strategia: frequenta poco la letteratura coranica, predilige allearsi con le forze armate, nella acquiescente connivenza-compiacenza delle magistrature superiori. Esse stesse, più che difendere la Costituzione, fanno da polizia morale, tenendo in mano il martelletto molto più del codice. *Docente di diritto ecclesiastico, Università “Magna Graecia” di Catanzaro