Carceri: viaggio al termine della notte di Guido Ruotolo terzogiornale.it, 7 giugno 2024 Altro che “Colonna infame”. Vivere nelle carceri è diventato un inferno per chi è innocente e per chi non lo è. Lo ha appena scritto, in un comunicato, l’Unione delle camere penali, che protesta per “le inumane condizioni dei detenuti, per l’inefficienza del sistema, per la irresponsabile indifferenza della politica. I detenuti sono privati della dignità umana”. Gli avvocati penalisti denunciano “i decisori politici che, pur inevitabilmente consapevoli della eccezionale gravità della situazione, hanno offerto una indecorosa immagine di totale immobilismo”. Da mesi la Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private delle libertà personali - spiega il garante della Campania, Samuele Ciambriello (vedi qui) - “ha deciso la mobilitazione per ottenere misure alternative alla detenzione. Ben ventitremila i detenuti che devono scontare ancora tre anni, novemila quelli che devono aspettare un anno per essere scarcerati”. Come i disperati immigrati dovevano essere incriminati per “clandestinità” (un reato ridotto oggi a una sanzione amministrativa), ai detenuti adesso potrà essere contestato il reato di rivolta: “Chiunque - recita il nuovo articolo 415-bis del codice penale - all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi in tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, “la pena è della reclusione da uno a cinque anni”. Se il fatto è commesso con l’uso delle armi, la pena “è della reclusione da dieci a venti anni”. Da gennaio a oggi, trentanove detenuti si sono suicidati. Rivolte dei detenuti, e arresti per torture di decine di agenti della polizia penitenziaria o dirigenti degli istituti penitenziari, si alternano. L’ultima protesta è del 28 maggio, nel carcere minorile Beccaria di Milano. Lo stesso in cui è esplosa un’altra protesta agli inizi di maggio (incendio di una cella con evacuazione di una settantina di detenuti). Ma soprattutto, ad aprile, furono arrestati tredici dipendenti dell’amministrazione penitenziaria; altri otto furono sospesi per maltrattamenti, lesioni e torture avvenute nel carcere minorile milanese. In un dossier di Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, si denunciano “effetti distruttivi” sul sistema della giustizia minorile, per via del “decreto Caivano”, varato dal governo Meloni all’indomani di un episodio di stupro. In quel decreto si prevede l’arresto anche per chi viene trovato con una lieve quantità di stupefacenti. Da dodici anni, non si registrava un numero così alto di minorenni incarcerati (quasi 520). E il sovraffollamento, la mancanza di personale dell’amministrazione penitenziaria, degli psicologi e di altre figure importanti, è alla base delle proteste e dei danneggiamenti. Fino a pochi anni fa, le carceri minorili non conoscevano il sovraffollamento, e il trattamento rieducativo previsto dalla Costituzione aveva possibilità di successo. Nel carcere palermitano Malaspina, nel marzo scorso, in un’occasione tre detenuti sfasciarono la cella e inghiottirono pile e altri oggetti; nello stesso mese furono incendiate suppellettili in un’altra cella. A Viterbo, nel carcere Mammagialla, si registrarono proteste per il sovraffollamento. Sfogliando una rassegna stampa di questi primi mesi del 2024, si legge di “rivolte sedate” nelle carceri di Torino e di Prato. A Vigevano, roghi nelle celle e telecamere danneggiate. Nel carcere di Benevento è esplosa la protesta dopo il rifiuto del medico di visitare un detenuto. I detenuti delle celle del quarto piano hanno devastato computer, finestre, porte. Due agenti della polizia penitenziaria feriti con i vetri. Secondo le statistiche, nei primi mesi del 2024, dalle venti dell’anno scorso sono aumentate a trenta le proteste collettive. Prepariamoci al peggio. “Suicidi, le misure di prevenzione adottate finora sono inutili se poi le nostre carceri scoppiano” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 giugno 2024 Come già riportato anche sulle pagine di questo giornale, un uomo di trentun anni, in attesa di giudizio, si è tolto la vita impiccandosi alla porta della cella nella VII sezione del carcere di Regina Coeli. Era in “grandissima sorveglianza” per precedenti atti autolesivi, ma, come denunciano i Garanti, la carenza di personale e l’affollamento insostenibile rendono inefficaci anche le più stringenti misure di prevenzione. “Non si può andare avanti così”, affermano Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, e Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale. “La VII sezione di Regina Coeli deve essere immediatamente chiusa, ristrutturata e destinata a un solo uso”. Al momento, Regina Coeli ospita 1150 detenuti contro i 628 posti regolamentari, con un tasso di affollamento del 180%, il più alto nel Lazio e tra i più alti in Italia. La situazione è aggravata dalla cronica carenza di personale: nel turno notturno, gli agenti a disposizione sono pochissimi, mentre la conta dei detenuti supera le mille unità. “Ogni misura di prevenzione del suicidio è stata ideata, protocollata e applicata”, spiegano i Garanti. “Ma se le carceri scoppiano, a nulla servono. Non servono nuove carceri, né nuovi agenti che a malapena colmeranno i vuoti creati dai pensionamenti. Non serve neanche l’idea repressiva di risolvere tutto con l’ordine e la disciplina, nuovi reati e gruppi operativi speciali di polizia”. I garanti invitano a mettere fine alla propaganda. Infine concludono Anastasìa e Calderone: “È tempo di discutere delle soluzioni urgenti richieste dal Presidente della Repubblica tre mesi fa. Serve una drastica riduzione della popolazione detenuta, commisurata agli spazi e al personale effettivamente disponibili. Solo così si potrà garantire una detenzione dignitosa a chi non può attendere il giudizio o scontare la pena fuori dal carcere”. Il suicidio di Regina Coeli è il trentanovesimo in Italia dall’inizio dell’anno, il secondo nel carcere romano e il terzo nel Lazio. Lo scorso anno, a Regina Coeli, i suicidi sono stati cinque. Numeri drammatici che evidenziano l’urgenza di un intervento profondo e strutturale sul sistema penitenziario italiano. La dignità delle donne nelle carceri italiane di Giorgia Giuliano ilmillimetro.it, 7 giugno 2024 Reinserimento lavorativo e prevenzione, c’è ancora tanto da fare nelle carceri italiane, dove le donne che cercano un’altra opportunità sono circa 2.200. Non è legge che la libertà vada nella direzione da dentro a fuori. In Italia, le Onlus che si dedicano al reinserimento lavorativo e alla salute delle detenute in carcere invertono il senso di marcia da fuori a dentro. Nella Casa Circondariale di Taranto, cortile e spazi interni adesso sono dipinti. È il diritto di liberare la propria creatività, di sentirsi bene nell’attesa di uscire. La situazione delle carceri femminili in Italia - Stando all’ultimo rapporto Antigone del 31 marzo 2022 ci sono 2276 donne nelle carceri italiane: sono il 4,2% di tutti i detenuti, una percentuale che negli ultimi vent’anni si è assestata, ma che tra il ‘91 e il ‘93 è andata oltre il 5%. Settecento ventisette hanno origini romene, nigeriane, marocchine, bosniache, bulgare. Anche se il distacco è lieve, le donne (31,9%) sono di più rispetto ai prigionieri stranieri (31,3%). Il carcere femminile di Rebibbia a Roma è il più grande d’Europa: adibito per la detenzione di 260 donne, al 30 aprile 2024 ne deteneva 344. C’è un medico a loro disposizione h24. A Pozzuoli gran parte dello spazio comune serve a stendere il bucato pulito. In terrazza, le donne possono prendere il sole. Oggi nel carcere ce ne sono 138: lunedì 20 maggio, a causa delle forti scosse di terremoto che hanno colpito la zona dei Campi Flegrei, le donne sono state evacuate presso altre strutture campane. La sera prima hanno dormito in cortile con la Direttrice e le guardie carcerarie. Nel carcere femminile di Trani alcune fanno le imbianchine, guadagnano denaro e proteggono il valore antico della struttura, che nel 1800 era un monastero benedettino. Al 30 aprile 2024, le donne detenute erano 43, la capienza della struttura è di 32 posti. L’ultima Casa Circondariale femminile italiana è quella di Venezia-Giudecca, sul Rio delle Convertite. Ci si arriva in barca. C’è un pianoforte nella sala comune. Rispetto alle altre strutture, in questa, dall’anno scorso, non ci sono stati tentativi di suicidio, autolesionismo, morti, aggressioni al personale o ad altre detenute, provvedimenti di isolamento disciplinare. La capienza è di 111 persone, al 30 aprile 2024 ce n’erano 84. La questione delle carceri femminili in Italia presenta non una contraddizione. Essendo solo quattro strutture (ce n’era una quinta, chiusa nel 2016, a Empoli. Nel 1992 era un carcere mandamentale, due anni dopo un carcere maschile e solo nel ‘96 femminile), si associa quest’esiguità a un numero di detenute altrettanto scarso. Il divario di genere si traduce con l’assenza di risorse adeguate per le recluse. Spesso le donne non possono partecipare a corsi e attività sportive, perché la maggior parte è declinata sul modello maschile. L’unica divisione fattiva, prevista dalla legge, ha a che fare con la tipologia delle celle e i servizi - come quelli igienici. Dietro l’appellativo “detenute” ci sono spesso donne analfabete, segnate da abusi psicologici e violenze sessuali; donne che dai margini della società traslocano in un posto sempre sulla linea di quel margine: quello fino al carcere è un tragitto breve. Le sezioni femminili nelle carceri maschili sono 44, e da tempo si richiedono più attività congiunte a vantaggio delle detenute, spesso dimenticate. La minoranza è anche strutturale: essendoci solo quattro strutture femminili, gli spazi sono sovraffollati. Rispetto agli uomini, le donne soffrono di più il disagio psichico: 6 detenute su 10 assumono psicofarmaci regolarmente. A Roma e a Pozzuoli c’è un medico disponibile tutto il giorno, non è così a Trani e a Venezia: nelle carceri femminili italiane la sanità sembra incarnare un 50 e 50. La salute femminile in carcere: l’intervista a Carla Vittoria Cacace Maira, presidente Atena Donna Si sta facendo tanto per la salute delle detenute. Un esempio di cura è Atena Donna. E curative sono le parole della presidente Carla Vittoria Cacace Maira, che ha raccontato cosa vuol dire dare dignità alle donne in carcere. “Abbiamo già assicurato screening e incontri di prevenzione alle donne di 10 strutture detentive su tutto il territorio nazionale”, attraverso un protocollo sottoscritto con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per quattro anni: è il progetto Atena Together. Com’è la salute delle donne in carcere? “È importante considerare l’aspetto del benessere psico-fisico nel suo complesso. Abbiamo realizzato un progetto bellissimo nella Casa di reclusione femminile di Pozzuoli, in collaborazione con lo staff medico della struttura e con il monitoraggio del prof. Raffaele Landolfi. Abbiamo seguito le detenute per un anno: le abbiamo aiutate a superare comportamenti dannosi per la salute come il fumo, la cattiva alimentazione, la scarsa attività fisica all’interno della struttura carceraria”. È stato utile per loro? “Molto. Hanno imparato a prendersi cura di sé e a disinnescare il disagio psicologico che determina questi comportamenti dannosi per la loro salute. A settembre replicheremo questo progetto anche nella Casa Circondariale femminile di Civitavecchia, e speriamo presto anche in altre strutture detentive”. Come si sono mostrate le detenute davanti alla possibilità di effettuare screening gratuiti e prevenzione? “Sono state molto partecipative. Le detenute sono interessate soprattutto all’ambito della psicologia e della dermatologia. Dipende dalle strutture in cui ci rechiamo, ma in generale queste donne fanno sempre più attenzione al loro benessere psico-fisico”. Qual è la spinta propulsiva che vi spinge a impegnarvi per le detenute? “L’idea che il tempo che le donne hanno a disposizione in carcere possa diventare un’opportunità per investire su se stesse, pensando finalmente alla propria salute, al proprio benessere, al proprio accrescimento. E quindi al proprio futuro, una volta fuori dal carcere”. Come scegliete gli aspetti della salute da trattare nelle carceri femminili? “Ascoltando i referenti del Servizio Sanitario Nazionale all’interno delle strutture detentive, per capire insieme quali sono le esigenze maggiori, cercando di supportarli nel loro prezioso lavoro quotidiano e organizzando incontri di prevenzione e di screening mirati”. Anche il reinserimento lavorativo è importante. L’impegno di Luciana Delle Donne, founder di Made in Carcere “Per le donne in carcere il lavoro è una forma di libertà e di libertà di espressione. Alcune rivendicano un posto, altre, madri, lo dimostrano con l’onestà di lavorare: hanno figli da mantenere. Le detenute del reparto femminile della Casa Circondariale “Borgo San Nicola” a Lecce - il carcere più grande della Puglia - sono state le prime a cui il brand Made in Carcere ha offerto un lavoro regolare, un impiego part-time di 6 ore. Le altre dipendenti sono nelle carceri di Taranto, Trani, Matera e Bari. Il progetto compie 18 anni, reinventa donne e tessuti. Toglie manette, crea braccialetti. È il 2006 quando Luciana Delle Donne - che il Presidente Sergio Mattarella ha nominato “Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica” lo scorso 31 marzo 2023 - scuce la sua vita da dirigente di banca e ne cuce una nuova. L’ago e il filo sono da allora un passaggio di consegna dalle mani di una detenuta a quelle di un’altra”. Made in Carcere ha determinato un cambiamento importante nel Sud Italia? “La scelta di consolidarci soprattutto al Sud è dovuta al fatto che qui purtroppo la filantropia è praticamente nulla. Abbiamo sostenuto l’avvio di circa 20 sartorie sociali di periferia”. Cosa c’è oltre il materiale, oltre le borse e gli accessori realizzati dalle detenute? “C’è l’opportunità di cambiare. E anche di mettersi in contatto con l’esterno. Per esempio con le nostre sartorie, o accogliendo per un mese gli studenti in carcere. Generiamo socialità, nuove abitudini, un approccio più aperto e dignitoso”. Che cos’è il progetto BIL? “Si tratta di un modello di economia riparativa, trasformata in rigenerativa. Non solo circolare. Il nostro più grande successo è che oggi tutti stanno replicando il nostro modello, e noi ne siamo felici. Per fare del bene non serve l’esclusiva”. Non c’è bisogno di chiederle perché faccia tutto questo. Luciana Delle Donne ha anticipato la risposta e la domanda: “L’idea è di dimostrare che anche bellezza ed eleganza possono entrare in carcere. La logica non dev’essere mai punitiva, ma ripartiva e costruttiva”. Recluso in un Opg e poi nella Rems oltre i limiti di legge: Italia condannata dalla Cedu di Valentina Stella Il Dubbio, 7 giugno 2024 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 5, comma 1 e 3 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Carta: un uomo, assolto per incapacità di intendere e di volere, è rimasto internato in una residenza psichiatrica per l’esecuzione delle misure di sicurezza oltre i termini che sarebbero stati altrimenti previsti per lui nel caso di una condanna. I giudici di Strasburgo hanno stabilito che lo Stato dovrà versargli 8mila euro per i danni morali subiti, molti meno dei 60mila che l’uomo richiedeva. Il ricorrente, F. C., attualmente detenuto nel carcere di Firenze per reati estranei al presente caso, nel 2003 è stato condannato in primo grado per possesso illegale di armi e ricettazione. Nel 2004, la Corte d’Appello lo ha assolto per incapacità di intendere e volere ma ha ritenuto di dover prevedere di internarlo in un Opg. Negli anni successivi la misura di sicurezza è stata prorogata più volte. Nel frattempo, il decreto legge 52 del 31 marzo 2014, convertito in legge n., del 30 maggio 2014 (“la legge 81/ 2014”), ordinò la chiusura, entro il 31 marzo 2015, degli Opg. La legge 81/ 2014 ha inoltre introdotto, per le misure di sicurezza che comportano una restrizione della libertà personale, una durata massima pari alla durata massima della pena applicabile in caso di condanna. Il 5 maggio 2016 il ricorrente è stato trasferito alla Rems di Volterra. L’ 8 luglio 2016, la procura ha osservato che nel caso del ricorrente la durata massima della misura di sicurezza corrispondente alla durata massima della pena applicabile per i reati di cui era accusato - era di otto anni. Constatando che la misura era stata applicata il 28 febbraio 2007, ha osservato che era giunta la scadenza di tale durata di pena applicabile. Ha quindi chiesto al magistrato di sorveglianza di ordinare la liberazione del ricorrente. Il ricorrente ha denunciato di essere stato incarcerato illegalmente il 28 febbraio 2015, data che ha sostenuto corrispondente, nel suo caso, alla scadenza del termine massimo per le misure di detenzione preventiva introdotto dalla legge su citata. Inoltre il ricorrente ha evidenziato, tramite il suo legale Michele Passione e la collega Mori (recentemente scomparsa), che i successivi tentativi di ottenere un risarcimento sono falliti, in quanto i giudici nazionali hanno ritenuto che il ricorso previsto dall’articolo 314 del codice penale italiano fosse applicabile solo a misure di sicurezza provvisorie, e non a quelli applicati a seguito di una sentenza definitiva. La sentenza finale è stata emessa dalla Corte di cassazione il 20 marzo 2018. Si è dunque rivolto alla Cedu: il governo italiano ha sostenuto che il ricorrente aveva perso la qualità di vittima a seguito dell’ordinanza del tribunale di Firenze che ne ha ordinato la liberazione, mentre l’uomo, opponendosi a tale tesi, ha spiegato che ha dovuto attendere diversi mesi prima del suo rilascio. Ha commentato l’avvocato Passione: “Dopo una corsa ostacoli, passando dall’ufficio di esecuzione alla Tribunale di sorveglianza, al giudice dell’esecuzione, alla Corte Costituzionale, alla Cedu, l’Italia è stata condannata all’unanimità per assenza di base legale e per assenza di un rimedio effettivo nei confronti di una persona che è stata trattenuta 18 mesi oltre il limite massimo, prima in un ospedale psichiatrico giudiziario e poi in una Rems. Respinte tutte le contro deduzioni del governo rispetto alla perdita della qualità di vittima, alla tardività del tentativo di ricorrere alla Corte Costituzionale, impedito da due decisioni della Corte di Appello di Firenze e della Corte di Cassazione. E anche rispetto alla doglianza del governo che si sarebbe potuto ricorrere alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati: interessante a questo punto l’osservazione della Cedu che dà atto, come sempre accade - perché è una questione che viene posta in maniera ricorrente dal governo - che non c’è alcuna dimostrazione che questa legge abbia mai dato prova di essere un rimedio effettivo rispetto alle doglianze avanzate. Interessante anche il richiamo che la Corte fa, aderendo allo stesso riferimento giurisprudenziale, a una situazione che si era posta analogamente per i migranti trattenuti illecitamente e che non avevano ottenuto ristoro economico”. Sergio d’Elia: “Vi spiego perché solo il 2% delle persone in carcere riesce a votare” di Giulia Casula fanpage.it, 7 giugno 2024 Esiste una particolare categoria di elettori di cui nessuno sembra ricordarsi: i detenuti nelle carceri italiane. Sergio d’Elia, il segretario dell’ong Nessuno tocchi Caino, spiega perché per chi si trova in carcere “votare è una difficile corsa a ostacoli”. Mancano meno di ventiquattro ore all’apertura dei seggi per le elezioni europee di quest’anno. Durante quella che è stata un’accesa e intensa campagna elettorale, le diverse forze politiche del nostro Paese si sono rivolte ai cittadini italiani in cerca di voti e preferenze per portare i loro candidati a Bruxelles. Eppure esiste una particolare categoria di elettori di cui nessuno sembra ricordarsi, ovvero gli oltre 61mila detenuti presenti nelle carceri italiane. “Per loro votare è una lunga corsa ad ostacoli nella burocrazia comunale e carceraria”, dice intervistato da Fanpage.it, Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, ong che dal 1993 si batte per l’abolizione della pena di morte nel mondo. Sul totale della popolazione carceraria che potrebbe esercitare il diritto di voto, “di solito va a votare tra l’1% e il 2%, in pochissimi”, aggiunge. Una situazione che l’ex deputato conosce bene perché l’ha vissuta sulla propria pelle. In carcere infatti, ha scontato dodici anni dopo esser stato condannato per l’assalto di Firenze in cui venne ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi. “Se costituzionalmente esiste l’imperativo di risocializzare i detenuti e reinserirli nella società, fare esercitare loro quello che è un diritto sacro e un banco di prova della maturità acquisita dovrebbe essere interesse dello Stato”, spiega. Per il detenuto, “votare, compiere quel gesto, può essere l’inizio del cambiamento di un modo di pensare e per questo dobbiamo favorirlo”. Segretario, come funziona il voto all’interno delle carceri italiane? Comincerei col dire che non tutti i detenuti possono votare. Chi è stato condannato ad una pena superiore a 5 anni fino all’ergastolo ha la cosiddetta interdizione perpetua dai pubblici uffici, tra cui appunto il diritto di voto. Sotto i 5 anni di pena l’interdizione può essere temporanea e può variare da un anno a cinque anni. Anche chi è in attesa di giudizio può votare. E non sono pochi: si tratta di un numero compreso tra il 25% e il 30% dei 61 mila detenuti presenti in Italia. Tuttavia, nelle carceri, luoghi di privazione della libertà, spesso si finisce per essere privati dell’esercizio di tanti diritti tra cui quello di voto. Perché? Innanzitutto perché per poter votare bisogna che i detenuti sappiano che ci sono le elezioni. Ammesso che questo avvenga, chi si trova in carcere deve poter recuperare le propria tessera elettorale che spesso viene smarrita. Per fare ciò deve chiedere al proprio Comune di residenza, all’ufficio elettorale, la copia del documento, tramite naturalmente un parente o un familiare che si adoperi per richiederla. La copia dovrà comunque arrivare nelle mani del detenuto in tempo utile perché possa esibirla insieme a un documento d’identità al momento del voto, ma non basta. Per poter esercitare il proprio diritto di voto chi si trova in carcere deve anche fare la cosiddetta “domandina”, termine ancora in voga nel gergo carcerario seppure abolito dall’ordinamento penitenziario. In sostanza il detenuto deve chiedere di poter votare al direttore che predisporrà una lista di tutti coloro che hanno manifestato tale volontà da inviare all’ufficio elettorale del Comune in cui è collocato il carcere. Il Comune dovrà poi nominare un presidente di seggio e allestire un seggio speciale almeno uno o due giorni prima delle votazioni. Si tratta di una corsa ad ostacoli della burocrazia comunale e carceraria. Solo chi vince riesce a esercitare tale diritto. In base ai dati relativi alle precedenti tornate elettorali, in media quanti detenuti vanno a votare? Di solito va a votare tra l’1% e il 2% della popolazione carceraria. Sono in pochissimi. Alle scorse elezioni per esempio, in istituti come il Pagliarelli o l’Ucciardone, a Palermo, hanno votato sei o sette persone su oltre mille detenuti. Per questo motivo insieme a Elisabetta Camparelli, la tesoriera di Nessuno tocchi Caino e la presidente Rita Bernardini abbiamo incontrato il capo del Dipartimento della polizia penitenziaria, Giovanni Russo, che ha poi recepito la nostra richiesta. Dal Dap è stata inviata una circolare in tutte le carceri che raccomandava una massima informazione e sono state poi diffuse, con un avviso nelle bacheche delle sezioni detentive, delle linee guida per poter esercitare il diritto di voto. Qual è la situazione nel resto d’Europa invece? Ci sono delle differenze con il nostro paese? L’Europa si muove fra due estremi. L’esempio più positivo è la Danimarca dove tutti detenuti possono votare e non ci sono interdizioni. In Regno Unito invece c’è l’interdizione totale, che tu sia in attesa di giudizio o meno. Per il resto d’Europa di sono situazioni diverse tipo quelle italiana con interdizione in base al tipo di reato o all’entità della pena. La cosa che bisogna che si capisca è che, se costituzionalmente esiste l’imperativo di risocializzare i detenuti e reinserirli nella società, fare esercitare loro quello che è un diritto sacro e un banco di prova della maturità acquisita dovrebbe essere interesse dello Stato. Per chi è entrato per aver commesso un fatto più o meno grave, cominciare già ad esercitare le regole della democrazia, potrebbe risultare più dolce e sicuro il ritorno in società. Votare, compiere quel gesto, può essere l’inizio del cambiamento di un modo di pensare e quindi dovremo favorirlo perché è interesse della società. Lei ha passato in carcere dodici anni dopo esser stato condannato nel 1978, per l’assalto di Firenze in cui venne ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi. In quei dodici anni è mai riuscito a votare? No, non ho potuto votare perché avevo l’interdizione dai pubblici uffici. Non ricordo se in attesa di giudizio abbia potuto votare, non ho memoria di un seggio. Forse semplicemente perché era talmente dura e irta di ostacoli la corsa a esercitare il diritto di voto che poi uno finisce per rinunciare. Immagine Nella sua attività con Nessuno tocchi Caino lei lavora a stretto contatto con i detenuti per cui le chiedo: qual è la loro percezione delle elezioni europee? Le avvertono come un qualcosa di lontano, che non li riguarda oppure c’è un interesse rispetto a ciò che accade in Europa? Lontano o vicino è una dimensione molto relativa per i detenuti. Una cosa lontanissima può essere resa prossima da chi informa. E questo accade se chi sta in carcere viene informato sul fatto che ci sono le elezioni al parlamento di Strasburgo e se si guarda all’Europa come dimensione politica, come spazio giuridico. Perché in Italia il diritto viene assicurato non tanto dalla dal potere nazionale, ma sempre di più dal diritto internazionale. A proposito di carceri, ad esempio, l’ergastolo ostativo (cioè il fine pena mai) è stato superato dalla Corte di Strasburgo, una corte sovranazionale. Quindi se un detenuto, chiuso nel buio di una cella, venisse informato che da lì arriva il lume della speranza del cambiamento, allora ecco che quel detenuto forse dice: “Io voglio votare a queste elezioni”. Basti pensare che il Manifesto degli Stati Uniti d’Europa, dell’Europa federale, noto anche come il manifesto di Ventotene, è stato concepito da tre carcerati che durante il fascismo erano detenuti a Ventotene e lì hanno detto basta alla guerra e sì alla pace. Hanno deciso di creare un’Europa dove chi comanda non siano le istituzioni nazionali ma degli organismi sovranazionali, come il Parlamento europeo, a tutela dei diritti fondamentali. Da quel luogo è venuta questa visione, necessaria contro la violenza e la guerra nel nostro continente. Commissioni lottizzate al Csm: ecco perché il sorteggio è urgente di Simona Musco Il Dubbio, 7 giugno 2024 Cambia la geografia di Palazzo Bachelet, ma vince la spartizione correntizia: penalizzato l’unico indipendente, Mirenda, che avrà una sola commissione. Palazzo Bachelet cambia la propria geografia consiliare. E ancora una volta vince la lottizzazione, con un accordo tra correnti che lascia fuori, non a caso, l’unico consigliere indipendente. Andrea Mirenda, eletto grazie al “sorteggio residuale” già previsto dalla riforma Cartabia. Mirenda è l’unico componente del Csm assegnato a una sola commissione, la prima, quella per le incompatibilità. E nemmeno come presidente, ma come “soldato semplice”, marginalizzato, depotenziato: quasi un unicum nel suo genere. Mirenda si trovava precedentemente in quinta commissione, la più appetibile in termini di potere: è lì che il gioco delle correnti è più forte, dato che la posta in gioco sono gli incarichi direttivi e semidirettivi. E le sue posizioni si sono rivelate tutt’altro che accomodanti: più volte, infatti, ha denunciato quello che appariva ai suoi occhi come un fenomeno di “continuità” con l’epoca Palamara, in cui le correnti ragionavano sulle nomine in base a logiche diverse dal merito. L’ultima occasione per manifestare il suo dissenso era stata offerta dalla scelta dei candidati per l’incarico di procuratore a Catania: il 20 maggio scorso, infatti, la toga anti correnti ha abbandonato la seduta in segno di protesta “dopo l’ennesima riunione straordinaria per riscrivere le regole del Testo unico sulla Dirigenza”, aveva chiarito con una nota, “riunione resa inutile ancora una volta dalla mancanza di una seria volontà di arginare i ben noti arbitrii correntizi in tema di nomine”. In quell’occasione, Mirenda aveva invitato la quinta commissione “a deliberare senza indugio la nomina del procuratore di Catania”, in quanto “già completamente istruita alla data del 9 aprile 2023”. Gli altri consiglieri dell’organismo preposto a discutere le nomine avevano però ignorato la richiesta, rinviando ulteriormente la delibera, per far quadrare, sostiene Mirenda, i conti: la scelta relativa a Catania, spiegava infatti il togato indipendente, andava fatta “unitamente a quelle del procuratore generale di Napoli, del presidente della Corte di Appello di Salerno e del relativo procuratore generale. Il tutto, a mio sommesso avviso, nell’intento, non commendevole, di trovare una quadratura generale delle pratiche menzionate”. Di fatto un esempio in sedicesimi dell’antico, e tecnicamente oggi vietato, sistema delle nomine a pacchetto. Da qui Mirenda ha preso atto “con estrema amarezza” del fatto che “nonostante gli scandali che più è più volte lo hanno travolto, il Consiglio, immune a ogni revisione critica del proprio passato, persevera in dinamiche che, quando non opache, appaiono sicuramente estranee alle regole procedimentali e di merito che ne disciplinano l’attività”. Mirenda aveva dunque scelto di rinunciare alla commissione più desiderata, confermandosi però una spina nel fianco. Anche se potenzialmente ininfluente - perché da solo in un gioco fatto di squadre -, il suo voto ha finora avuto il merito di smascherare possibili ipocrisie di un sistema che cambia tutto per rimanere identico a se stesso. Sarà stata, forse, dunque l’attitudine alla denuncia - bipartisan - a far perdere a Mirenda il secondo posto in commissione: fino al 10 giugno, infatti, giorno in cui entrerà in vigore la nuova geografia, il magistrato siederà anche nella “Nona”, quella deputata ai rapporti istituzionali nazionali e internazionali, attività di formazione ed esecuzione penale. Il “nuovo” Csm rispecchia dunque il rapporto di forze attualmente vigente all’interno delle correnti, con 3 presidenze a Magistratura indipendente, la corrente in passato accusata dagli avversari di orientamento filo governativo, che ha piazzato Paola D’Ovidio alla “Terza” e alla commissione Verifica titoli e Maria Vittoria Marchianò alla “Settima”. Due le presidenze ad Area, con Tullio Morello alla “Prima” e Maurizio Carbone alla “Ottava”, e una a Unicost, con Roberto D’Auria alla “Sesta”, quella che fornisce i pareri sulle leggi del governo, fino a oggi guidata da Marcello Basilico di Area. Altre tre presidenze vanno ai laici di centrodestra, in particolare a tre consiglieri indicati da FdI: Daniela Bianchini (alla “Nona”), Isabella Bertolini (alla “Quarta”, che si occupa delle valutazioni di professionalità) e Felice Giuffrè, (all’Ufficio Studi). Una, la ambitissima “Quinta”, sarà presieduta da Ernesto Carbone, il laico voluta da Italia viva contrario alla separazione delle carriere. E c’è chi è componente di ben tre commissioni, ovvero Bianchini, che oltre alla carica da presidente porta a casa anche una presenza da vice, nella “Terza”, che si occupa dell’accesso in magistratura e mobilità, e una da “soldato semplice” in “Quarta”. Insomma, impossibile non notare l’anomalia Mirenda, che però non ne vuole sapere di farne un fatto personale. “Non sono qui per accaparrarmi posti - risponde laconico interpellato dal Dubbio - , sono qui per segnalare le cose che non vanno. Non ho alcun commento da fare”. Ma non c’è nessuno, all’interno del Csm, che non abbia fatto caso alla situazione. E c’è anche chi avrebbe manifestato solidarietà al consigliere laico, invitandolo a protestare perfino col Quirinale, invito che sarebbe stato respinto in maniera netta dal diretto interessato. “Troppo imprevedibile nel voto”, questo il commento più ricorrente riguardo al consigliere indipendente. Che però risulterebbe, al contrario, prevedibilissimo: il documento più citato da Mirenda è infatti il Testo unico, da cui più volte, stando alle pronunce del Tar e del Consiglio di Stato, il Csm si sarebbe invece discostato. Per evitare la lottizzazione, la soluzione sarebbe più semplice stata il sorteggio. Se non a monte - come accadrà qualora si realizzasse la riforma Nordio -, quantomeno a valle, per scegliere appunto i membri delle commissioni e affidare al caso i rapporti di forza che, comunque, si verrebbero a determinare. Anche perché la scelta dei componenti non passa attraverso una selezione relativa alla competenza attitudinale: il supporto logistico è infatti affidato ai magistrati segretari, che fanno il lavoro più grosso prima di passare la palla ai consiglieri. Basterebbe dunque un sorteggio per evitare quelle logiche da manuale Cencelli di palamariana memoria. Ma “perfino i magistrati segretari fanno riferimento alle correnti”, spiega sconsolata una voce interna al Csm. E se ciò non bastasse, anche la geografia fisica delle stanze di Palazzo Bachelet si richiama a questa logica: al pian terreno le correnti di centrodestra, al primo piano quelle di sinistra, al terzo piano i consiglieri punto di riferimento di Fratelli d’Italia. Tutto cambia perché nulla cambi. Lotta alla corruzione. Severino e Bonafede, due gocce nel mare di Carlo Berti e Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2024 Mentre i media forniscono una prospettiva alternativa alla storia di Tangentopoli, sorvolando sulle mazzette, il legislatore prova in ogni modo a ostacolare i magistrati che provano a indagare. Abbiamo visto come l’atteggiamento dell’opinione pubblica, desumibile in parte anche da sondaggi e dati statistici, sia orientato alla rassegnazione: è infatti diffusa la sensazione che poco o nulla sia cambiato negli ultimi 30 anni, mentre una parte della popolazione, quando interrogata, valuta la corruzione come ancora in aumento. I dati del Global Corruption Barometer 2021 ci raccontano però anche di una cittadinanza che pensa di poter avere un ruolo attivo nella lotta alla corruzione. Una politica attenta e sensibile a questi umori potrebbe cercare nuove vie per affrontare il problema, coinvolgendo attivamente i cittadini nell’attività anticorruzione. Stupiscono invece alcuni tentativi, provenienti in particolare dal mondo dell’informazione, di raccontare oggi la storia di Tangentopoli - e dunque, in un certo senso, della corruzione in Italia - con prospettive che sfiorano il revisionismo. Non è questa l’occasione per uno studio approfondito delle narrazioni e contro-narrazioni mediatiche del più grande scandalo corruttivo italiano, ma riteniamo utile fornire una manciata di esempi relativi al trentennale di Mani Pulite: il 2 gennaio 2022, il quotidiano Libero pubblica un articolo intitolato “Mani Pulite nel fango: la verità sulle toghe, 30 anni dopo Tangentopoli”; il 16 febbraio dello stesso anno, Il Riformista pubblica un editoriale di Piero Sansonetti dal titolo “Tangentopoli fu un colpo di Stato fatto dai Pm”. Entrambi gli articoli, più che aggiungere nuove informazioni rilevanti, sembrano mirati a fornire una prospettiva alternativa alla storia di Tangentopoli. Si potrebbero fare molti altri esempi, in cui non di rado vengono utilizzati toni forti e titoli roboanti da stampa scandalistica. (…) L’impressione è che una certa informazione sia poco interessata al tema della corruzione, e più rivolta a indicare (e forse acuire) una frattura tra magistratura e politica. Ciò si può associare in taluni casi a tentativi politici di ridurre i poteri di controllo della magistratura, per esempio in tema di intercettazioni telefoniche e telematiche, revisione o abrogazione di alcune fattispecie penali, separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e giudicanti e abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (queste ultime due con proposte di modifiche della Costituzione della Repubblica). A vigilare su eventuali tentativi di questo genere ci sono organismi internazionali e sovranazionali quali Ue, Consiglio d’Europa, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Onu, Ocse (…). L’attenzione sul tema della corruzione in Italia andrebbe mantenuta alta anche alla luce di considerazioni meramente economiche: siamo notoriamente afflitti da un enorme debito pubblico e da mancanza di risorse economiche, che non consentirebbero certo gli sprechi e l’inefficienza che una corruzione diffusa determina. Occorre quindi porre attenzione ai meccanismi che possono determinare il persistere del fenomeno nonostante lo smantellamento dei precedenti centri di corruzione accentrata incardinati sul finanziamento ai partiti. Due autorevoli studiosi suggeriscono che una “lente interpretativa utilizzabile per comprendere le dinamiche dello scambio occulto guarda alle caratteristiche del capitale sociale che ordina le relazioni tra gli attori della corruzione, ossia all’evoluzione dei meccanismi di governance extralegale capaci di contenere i costi di transazione”. Il permanere di un capitale sociale endogeno alle reti corruttive può contribuire a spiegare il persistere dei comportamenti illeciti, in contesti vari e con modalità diverse. In Italia, a fronte di iniziative legislative e politiche inefficaci o addirittura d’ostacolo a indagini e processi, le uniche due normative volte a contrastare la corruzione successive allo scandalo di Tangentopoli sono state la legge 6 novembre 2012, n. 190 (detta “legge Severino”, dal nome dell’allora ministro della Giustizia) e la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (definita “legge spazzacorrotti”). Quanto alla prima, vi furono polemiche specialmente relative alla decadenza da cariche pubbliche per i condannati in via definitiva (peraltro dovuta in tutti i casi in cui fosse inflitta la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici). La norma fu sottoposta a referendum abrogativo che non raggiunse il quorum. Questa legge non si focalizzo? soltanto sulla repressione della corruzione, ma anche su misure preventive come l’introduzione dei piani triennali anticorruzione obbligatori per tutti gli enti pubblici e le società partecipate, e basati sul Piano nazionale anticorruzione. Tuttavia, almeno fino a questo momento, l’impatto di queste misure preventive non è parso particolarmente significativo, mentre si è notato che molti piani triennali anticorruzione sono di scarsa qualità e svolgono una funzione di mero adempimento, senza dunque la capacità di instillare una vera cultura di contrasto alla corruzione. Quanto alla “legge spazzacorrotti”, le polemiche furono ancora più accese, soprattutto in tema di prescrizione (a dispetto del fatto che l’Italia è uno dei pochissimi Paesi europei in cui la prescrizione decorre anche dopo l’esercizio dell’azione penale) e di operazioni sotto copertura in materia di reati contro la Pubblica amministrazione. In particolare, si cercò a volte di confondere tali operazioni (che consistono nell’inserimento di un ufficiale di polizia giudiziaria o di una persona interposta in un’attività criminale presumibilmente già in atto) con la figura dell’agente provocatore (che è colui che induce qualcuno a commettere delitti), ignorando che le operazioni sotto copertura in materia di corruzione sono previste dalla Convenzione Onu di Merida. La figura dell’agente sotto copertura solleva questioni di natura etica da affrontare (…), nonché difficoltà pratiche nelle fasi di addestramento e infiltrazione, ma non è certo automaticamente sovrapponibile a quella dell’agente provocatore. A questo punto (…) abbiamo innanzitutto osservato il persistere della corruzione sistemica: pur attraversando una fase di “decentralizzazione”, che ha portato le reti corruttive ad abbandonare il sistema dei partiti (comunque già in crisi per altri motivi) per andare ad annidarsi a livello regionale o locale, la corruzione sembra resistere. Resiste anche la percezione di un Paese in balia della corruzione (…). Percentuali importanti della popolazione dimostrano un atteggiamento rassegnato o affermano che la corruzione sta persino aumentando. In questo ambiente a tinte piuttosto fosche, la politica si è dedicata negli ultimi anni ad alcuni tentativi di riforma, spinti in un caso da un governo “tecnico” (quello di Mario Monti) e nel secondo caso dalle proposte politiche del Movimento 5 Stelle. Queste riforme hanno in parte avuto successo, ma sono anche state ostacolate da altre forze politiche: se, dunque, qualcosa si è mosso in una buona direzione, v’è stata anche una certa dose di indolenza e, in alcuni casi, persino una spinta opposta, che ha spesso trovato sponda in una narrazione manichea e polarizzata del rapporto tra politica e magistratura. Giustizia che mi fa tremar le vene e i polsi di Francesca Sabella Il Riformista, 7 giugno 2024 Giustizia? Otterrai giustizia nell’altro mondo. In questo accontentati della legge. Forse. Già… Andatelo a spiegare al generale Mario Mori, perché è esattamente quello che pare abbiano in serbo per lui i magistrati che da vent’anni gli alitano sul collo. Senza sosta, senza tregua, con inchieste che gli piovono addosso e per quanto l’ombrello possa essere resistente, il vento di un’ossessione della magistratura poi lo spezza. Vent’anni di processi non sono bastati, né hanno saziato quella fame dei Pm le sentenze di assoluzione che scrivevano nero su bianco: la trattativa Stato-Mafia non c’è mai stata. Fatevene una ragione. No, la fame era troppa: divorare, divorare ancora. E così alla vigilia dei suoi 85 anni il generale veniva a sapere di essere indagato per i reati di strage, associazione mafiosa, associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Sì. Avete letto bene. L’incubo senza fine continua. La (in)giustizia stringe il cappio. Ancora. E così mercoledì si è presentato in aula, di nuovo per la centesima volta, per essere sentito dalla procura di Firenze. Tutto coperto da segreto: quello che ha detto o non ha detto Mori doveva rimanere lì, in quell’aula e invece magicamente le veline sono volate fuori dalla finestra e atterrate sui giornali. “Sono stato sentito dalla procura di Firenze. Al termine, l’atto istruttorio è stato secretato, il procuratore capo ha ribadito la segretezza dell’interrogatorio e il conseguente obbligo, per tutti presenti, di non divulgarne i contenuti- denuncia oramai stremato da questa magistratura Mori - Oggi su Repubblica, edizione Firenze, ci sono ampi riferimenti sia all’interrogatorio di ieri, sia all’audizione dell’anno scorso, atto parimenti coperto da segreto investigativo e, quindi, di contenuto non divulgabile. Constato che il circo giudiziario e mediatico, mi domando se non sia doveroso un intervento del Csm nella sua interezza e del ministro della Giustizia per verificare (e per i provvedimenti conseguenti) fonte e modalità di tale fuga di notizie, oltretutto imprecise”. E già… L’imputato tradito proprio da chi dovrebbe, sempre e in qualunque caso, tutelare le sue garanzie. Ma è la rivincita della magistratura questa. Poche settimane fa il governatore Toti aveva osato scombinare i piani dando lui alla stampa, prima che lo facessero gli altri, la sua memoria difensiva. Un atto rivoluzionario. E allora la magistratura s’è vendicata. Le parole di Mori sono uscite da lì, certo, non si sa da chi, ma da quel palazzo fiorentino. Un antico vizio che fa della stampa il megafono della Procura (quando alla Procura conviene, s’intende). Nulla di nuovo, di segreto. Ma forse è ora che il Csm dica qualcosa. A tutti quelli che si stanno strappando le vesti per la separazione delle carriere per l’autonomia dei magistrati in pericolo: alzate la voce per questo. Per un’ingiustizia che passerà alla storia. Il Csm alzi la voce. Perché il silenzio, talvolta, uccide. La premeditazione può essere esclusa nei casi in cui sia stato accertato uno scompenso psicotico di Simona Musco Il Dubbio, 7 giugno 2024 La Corte di Cassazione ritiene che nel caso di specie sia necessario valutare in maniera approfondita la situazione. La premeditazione può essere esclusa nei casi in cui sia stato accertato uno scompenso psicotico tale da determinare una condizione di parziale capacità, che logicamente potrebbe incidere anche sul sorgere e sul perdurare di una volontà lesiva. A stabilirlo è la Cassazione, prima sezione penale, con la sentenza numero 21894 del 31 maggio 2024 scorso. La vicenda è quella relativa ad un tentato omicidio pluriaggravato - commesso da R. M. nei confronti dell’ex moglie - e porto ingiustificato di due coltelli. L’uomo era stato giudicato con il rito abbreviato, condizionato alla verifica della capacità di intendere e di volere dell’imputato, capacità confermata dal Tribunale di Salerno, che lo ha condannato a 10 anni, con l’aggravante della premeditazione. La Corte di Appello di Salerno, il 16 maggio 2023, ha riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo il vizio parziale di mente con valutazione di equivalenza rispetto alle ritenute circostanze aggravanti (della qualità soggettiva della vittima, della minorata difesa e della premeditazione), rideterminando la pena in sette anni e sei mesi di reclusione. La Corte d’Appello ha disposto una nuova perizia anche in virtù del fatto che nel processo parallelo per maltrattamenti ai danni della stessa persona offesa si era giunti ad un riconoscimento del vizio parziale di mente. Secondo il perito nominato dai giudici d’appello, l’uomo sarebbe stato affetto da un disturbo psicopatologico psicotico depressivo, “tale da determinare una consistente e obiettiva riduzione della capacità di intendere e di volere al momento del fatto”. Nella perizia si fa riferimento alla presenza di “momenti acuti” di scompenso, che includerebbero anche il tentato omicidio oggetto del processo, intervallati a momenti di lucidità. Un lavoro completo, secondo la Corte, quello del perito, che sarebbe stato effettuato con un metodo corretto. Secondo i giudici d’appello, inoltre, la patologia sarebbe “senza dubbio alcuno” in rapporto di causalità col fatto commesso, giungendo dunque a stabilire la sussistenza del vizio parziale di mente. Per quanto riguarda la premeditazione, però, secondo i giudici d’appello non era da escludere, nonostante il vizio di mente, date le modalità di realizzazione del fatto, con l’attesa della vittima e la predisposizione degli strumenti di offesa. Per i giudici, nell’uomo non c’era “alcuna manifestazione incentrata su una “idea ossessiva”, che gli aveva creato vistose distorsioni della realtà che si erano spinte sino al punto di indurlo a coltivare un delirio allo scopo di liberarsi della donna”. L’imputato ha impugnato la sentenza, rilevando elementi di contraddittorietà laddove viene riconosciuta la sussistenza - e l’incidenza - del disturbo psichico sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto ma si esclude un’alterazione del processo volitivo per quanto riguarda la premeditazione. Secondo la Cassazione, l’accertamento della circostanza aggravante della premeditazione “richiede un approfondito esame delle emergenze processuali che porti ad escludere, con assoluta certezza, che la persistenza del proposito criminoso sia stata concretamente influenzata da uno degli aspetti patologici correlati alla formazione od alla persistenza della volontà criminosa”. I giudici di merito devono dunque valutare la “esistenza di una rimproverabilità in concreto della premeditazione (naturalisticamente intesa), rimproverabilità che è da escludersi quando l’atteggiamento psichico (fermezza del proposito criminoso) è influenzato da fattori patologici”. E sul punto la sentenza impugnata risulterebbe, secondo i giudici di legittimità, non adeguata. “Se infatti la “polarizzazione ideativa” descritta dal perito che ha caratterizzato le condotte del R. (sia persecutorie che di aggressione fisica) è stata ritenuta inquinata e condizionata a monte da uno scompenso psicotico tale da determinare una condizione di parziale capacità, non appare logico affermare che detta patologia non abbia inciso sul sorgere e sul perdurare di una volontà lesiva nei confronti della V. o, quantomeno, simile affermazione non può essere operata in modo assertivo (così come in sentenza), emergendo piuttosto un serio indizio di effettiva incidenza di detta condizione patologica sulla rimproverabilità della premeditazione”. Da qui l’esigenza di rivalutare il punto, “potendo una decisione in termini di esclusione della circostanza aggravante in parola avere effetto sul giudizio di comparazione, e dovendosi in ogni caso ritenere sussistente l’interesse (anche di ordine morale) del condannato alla esclusione della aggravante”. Venezia. Suicidio in carcere, aperta un’inchiesta: disposta l’autopsia del 32enne di Davide Tamiello Il Gazzettino, 7 giugno 2024 Non è ancora un caso chiuso quello del suicidio in carcere di un 32enne romeno. In un primo momento, infatti, pareva che l’uomo non fosse un soggetto “a rischio”, ora invece parrebbe che l’uomo avesse già tentato di togliersi la vita in un paio di occasioni. La pubblico ministero titolare del fascicolo (che non conta indagati), Anna Andreatta, ha quindi disposto l’autopsia. Se dovesse essere confermata la questione dei precedenti, si dovrà capire come mai quell’uomo, in quel momento, fosse stato lasciato da solo. Il 32enne era stato arrestato ad aprile per aver accoltellato, il 26 febbraio scorso, il titolare del bar Skb in corso del Popolo. L’uomo aveva una compagna e tre figli ed era molto provato perché voleva tornare a casa per vederli. Essendo detenuto per un caso di tentato omicidio, però, era necessario attendere i tempi tecnici della giustizia: un’istanza di scarcerazione, o comunque di cambio di misura come gli arresti domiciliari, non si ottiene dall’oggi al domani. Della tragedia si era interessato immediatamente il garante dei detenuti di Venezia, l’avvocato Marco Foffano, che si era recato in carcere per approfondire quanto accaduto. Si tratta del primo decesso in carcere del 2024. Giusto un anno fa, tra giugno e luglio, il mese nero con ben tre suicidi tra le celle del carcere lagunare. “Mi sono raccomandato con le guardie penitenziarie - continua Foffano - perché tengano alta l’attenzione, il rischio di emulazione è altissimo in questi casi”. I numeri sono il vero problema endemico: il carcere di Venezia è pensato per 160 persone, ma è pieno al 145%. Attualmente, infatti, il numero totale dei detenuti è di 250. “E se assistiamo a un evidente sovraffollamento - conclude Foffano - non possiamo che constatare i pesanti limiti di organico del personale di polizia penitenziaria”. Nello stesso giorno, oltre al suicidio a Venezia, ve ne era stato anche un secondo nel carcere di Cagliari. “Sale così a 39 - prosegue Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria - il numero complessivo dei suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, cui vanno aggiunti quattro appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che, parimenti, si sono tolti la vita. Mentre la politica sembra assorta fra la campagna elettorale e la separazione delle carriere della magistratura, ciò che tragicamente non si riesce a scindere è la morte dalle carceri”. Napoli. Suicidi in carcere, protestano i penalisti di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 7 giugno 2024 Maratona oratoria all’esterno di Poggioreale: situazione inaccettabile. In Italia dall’inizio dell’anno 39 detenuti si sono suicidati in carcere. Un dato che dimostra quanto urgente e immediata sia la necessità di risolvere le emergenze legate alle minime, dignitose condizioni di vita per i reclusi e, soprattutto, al sovraffollamento. E a Poggioreale, la struttura penitenziaria più affollata d’Italia e d’Europa, l’avvocatura si è data appuntamento ieri per una “maratona oratoria” organizzata dalla Camera Penale di Napoli. L’obiettivo resta quello di rappresentare alla società civile la condizione dei detenuti, il degrado della realtà carceraria nella quale si vedono costretti a svolgere la propria attività lavorativa anche gli agenti di polizia penitenziaria e gli altri operatori, le inefficienze del sistema, le mancate riforme, ma anche una certa indifferenza della politica. Il numero ufficiale dei suicidi nelle carceri - fa sapere ancora la Camera Penale partenopea - è salito a 39 dall’inizio dell’anno, a cui si aggiungono le morti non classificabili come suicidi, e i decessi per insufficiente o mancata assistenza sanitaria dei detenuti: “Numeri - si legge in una nota dei penalisti - che impongono di agire per arginare il fenomeno, e far sì che la pena, oltre che certa, sia scontata in maniera legale”. “Nessuno può rimanere indifferente a questo tema così importante - ha detto il presidente della Camera Penale, Marco Campora - e per questo partecipare a queste manifestazioni è un obbligo per tutti coloro che vogliono contribuire al miglioramento delle condizioni carcerarie”. “Abbiamo organizzato questa giornata - prosegue - per rappresentare alla società civile lo stato inumano in cui vivono oggi i detenuti in Italia, e quello di degrado delle carceri. Trentanove suicidi dall’inizio dell’anno sono un dato inaccettabile”. Per Campora “bisogna intervenire con provvedimenti seri e concreti e con misure di clemenza come l’amnistia e l’indulto, gli unici realmente idonei a evitare il sovraffollamento carcerario”. Alle parole del presidente della Camera Penale fanno eco quelle di Attilio Belloni, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Napoli: “Stiamo assistendo a una vera e propria strage nelle carceri. Lo dicono i numeri che indicano i 39 suicidi in cella, cinque dei quali sono avvenuti proprio qui. Questa è un’emergenza nazionale di cui la politica deve occuparsi. Non solo l’avvocatura deve mobilitarsi, ma anche la magistratura e le istituzioni”. Belloni spiega come il tasso di sovraffollamento degli istituti di pena sia arrivato al 128 per cento, il che significa che nelle carceri ci sono 13mila detenuti in più rispetto alle capienze ordinarie. Intervengono anche il Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, e quello di Napoli, don Tonino Palmese. “Sono necessarie l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento, l’accesso a misure alternative per i detenuti, il riordino del circuito della media sicurezza e l’importanza dell’affettività in carcere, aumentando telefonate e videochiamate. E poi chiediamo più figure sociali di ascolto. Voglio ricordare gli 83 morti in Italia, di cui 39 per suicidio, e i quattro agenti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. In Campania, dal 2024, abbiamo avuto cinque suicidi e altre cinque morti per altre cause, alcune ancora da accertare”. Il garante campano ha ricordato come ci sono 7573 reclusi su 5645 posti, e la regione è seconda per sovraffollamento, la prima è la Lombardia con 8944 reclusi su 5827 posti disponibili. “Il sovraffollamento - conclude - si vince anche con misure alternative al carcere, per coloro che per esempio, devono scontare una pena residua di due anni, che qui sono 2706, e facendo uscire subito i 503 detenuti che devono scontare appena 6 mesi di carcere”. Per Palmese “se quello come il carcere diventa il luogo nel quale ci si toglie la vita, allora vuol dire che la società, e tutti noi, abbiamo fallito”. Firenze. Mille giorni in carcere per violenze sulle figlie, ma era innocente: sarà risarcito di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 7 giugno 2024 Ha sopportato per anni l’accusa di aver abusato delle figlie. Mille giorni di carcere, 10 processi e, infine, l’assoluzione definitiva. Ora la Corte d’appello ha condannato il Ministero dell’Economia a versare a favore dell’operaio di 60 anni un indennizzo di 140 mila euro per ingiusta detenzione. “Difficile giudicare se una somma come quella indicata sia riparativa di una detenzione di più di mille giorni - dice il difensore Gianluca Gambogi - ma rimane il fatto che il mio assistito ha affrontato ben 10 processi in 12 anni e per ben 4 volte e la Cassazione gli ha dato ragione”. L’inchiesta parte nel 2012, la denuncia della madre delle bimbe di 4 e 8 anni. In primo grado l’uomo era stato condannato per violenza sessuale aggravata in abbreviato a 7 anni e mezzo, pena ridotta a 5 anni in appello. La sentenza fu annullata dalla Cassazione con rinvio a nuovo processo. L’Appello bis si era chiuso con l’assoluzione confermata nel 2021 in Cassazione. La Corte d’appello aveva inizialmente respinto la richiesta per ingiusta detenzione ritenendo che l’uomo, nell’interrogatorio di garanzia, non avesse contraddetto in maniera adeguata le accuse. La difesa ha impugnato la decisione e la Cassazione ha disposto un nuovo processo in Appello stabilendo il principio secondo cui le risposte ad un interrogatorio o il silenzio non possono incidere sul diritto di riparazione. Così la Corte d’appello ha disposto l’indennizzo. Catanzaro. Minori detenuti: promossa la struttura, ma pochi medici, pedagogisti e mediatori di Gaetano Mazzuca Gazzetta del Sud, 7 giugno 2024 Gli ospiti dell’Ipm sono per lo più stranieri e con reati di droga. È legata soprattutto alla carenza di funzionari della professionalità pedagogica la criticità più rilevante all’interno dell’istituto penale per minorenni Silvio Paternostro. È quanto emerge dalla relazione del garante comunale per le persone private della libertà Luciano Giacobbe. Il documento, approvato mercoledì dal Consiglio comunale, si occupa anche delle strutture detentive per i minori. Il Garante “promuove” la struttura dotata di celle dotate ciascuna di servizi igienici, compresa la doccia. “Le condizioni di vivibilità sono buone, in termini sia di igiene che di illuminazione e aerazione, tanto per le camere, quanto per i vani con i servizi igienici”. Alla pulizia delle celle provvedono i detenuti, ai quali è affidata anche la pulizia degli spazi in comune oltre che quella degli uffici, che rappresenta una delle mansioni del lavoro interno alle dipendenze dell’Istituto. Il garante sottolinea anche la qualità degli spazi comuni “ampi e luminosi”. La palestra è dotata di attrezzi nuovi e poi il campo di calcio, la cappella e il teatro. Tanti anche i progetti educativi e di reinserimento tenuti all’interno dell’Ipm. Il garante si sofferma anche sul tipo di ragazzi ospiti della struttura. Si tratta per lo più di cittadini stranieri. “Si conferma la presenza di giovani multiproblematici, dediti all’assunzione di sostanze stupefacenti e farmacologiche, con problemi di controllo e regolazione delle emozioni, degli impulsi e dei comportamenti. Limbiate (Mb). Sulle ceneri dell’ex manicomio è in costruzione la nuova Rems di Jessica Signorile monzatoday.it, 7 giugno 2024 Dopo Castiglione delle Stiviere sarà la seconda residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza della Lombardia. In Italia sono solo sei le strutture specifiche presenti, con liste di attesa lunghissime. I lavori sono partiti e il cantiere dovrebbe concludersi a marzo del 2026, tra circa due anni. E a Limbiate sorgerà la seconda Rems della Lombardia, l’unica della provincia di Monza e Brianza. Una Residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza per accogliere autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. E la nuova realtà, i cui lavori sono stati affidati con gara indetta lo scorso luglio, vedrà la luce su due ex padiglioni storici del complesso dell’ex ospedale psichiatrico di Mombello, chiuso definitivamente successivamente alla legge Basaglia nel 1999. Negli ex padiglioni Forlanini e Ronzoni, in via Garibaldi, ai piedi della collina di Mombello che si estende per circa 800mila metri quadrati dove un tempo c’era l’ospedale psichiatrico, sorgeranno due strutture dove verranno accolte persone autori di reato affetti da disturbi mentali. Il cantiere è iniziato lo scorso gennaio e i lavori procedono. Sul vecchio complesso svettano le gru e all’interno dell’area sono in movimento i macchinari con le maestranze all’opera. Un investimento di circa 15 milioni di euro con un cantiere da consegnare in un tempo stimato di 600 giorni dall’avvio dei lavori. “L’intervento prevede la completa ristrutturazione per recupero e riqualificazione funzionale e strutturale dei due edifici da adibire a Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza a Bassa Intensità Assistenziale” si legge nella presentazione. Un’operazione urbanistica su un lotto che si estende quasi su 18mila metri quadrati di superficie di proprietà dell’Asst Rhodense. Qui saranno ospitati due nuclei adibiti ad accogliere ciascuno venti ospiti. Nella progettazione i due storici padiglioni vedranno una divisione degli spazi tra “aree di soggiorno” e “attività diurne” in accordo con le scelte sanitarie. Le giornate verranno trascorse dai detenuti al piano inferiore, “in diretta connessione con il parco protetto esterno eliminando così le barriere architettoniche (che il piano rialzato dell’edificio storico creava) con la creazione di nuove terrazze esterne collegate al parco tramite rampe e movimenti di terra”. “La creazione di due aree attorno agli edifici segue la storica delimitazione territoriale: l’intenzione non è quella di murare il confine con chiusure di protezione antifuga (sbarre) che ricordino i precedenti OPG (ospedali psichiatrici giudiziari, Ndr) bensì indirizzare verso una delimitazione semitrasparente in accordo anche con la volontà della Soprintendenza in modo da rievocare la storia degli edifici, senza ricalcarne la funzione di isolamento e barriera”. Quando la Rems sarà realtà e sarà pronta, accendendo dal cancello lungo via Garibaldi, si entrerà nell’area verde e nel parcheggio a forma quadrata che nell’idea del progetto vuole anche essere un’area di “cuscinetto” verso i due edifici con il parco recintato. Per esigenze di sicurezza, come specificato nel progetto, “si prevede una recinzione aggiuntiva posta dietro ai muretti esistenti alta 4 metri”. Lungo via Garibaldi sarà conservato il muro di cinta dell’ex manicomio di Mombello. “Per l’area c’era il rischio di degrado totale” ha precisato il sindaco Antonio Romeo che giovedì 6 giugno è intervenuto durante il convegno organizzato “Disabilità intellettiva e autismo: dall’alienazione alla cura personalizzata”. Un appuntamento internazionale sul tema della salute mentale organizzato proprio a Limbiate che ha visto il coinvolgimento del board Eamhid (Associazione Europea per la Salute Mentale nella Disabilità Intellettiva), dell’Università Bicocca e dei professionisti di ASST Brianza. Il primo cittadino, insieme al direttore sociosanitario Antonino Zagari di ASST Brianza e a Sergio Terrevazzi, direttore della RSD Beato Papa Giovanni XXIII (Residenza sanitaria per disabili) ha illustrato le progettualità previste nell’area che punta a rinascere come città della Salute con la nuova Casa di Comunità della Asst Brianza, il futuro ospedale di comunità che sorgerà accanto al presidio Corberi, un tempo adibito ad ospitare i piccoli pazienti del manicomio, la nuova fermata della metrotranvia, il centro sportivo comunale e le realtà territoriali storicamente presenti in città, dal servizio cani guida dei Lions alla caserma dei carabinieri poco distante dove il comune sta investendo due milioni di euro per la realizzazione degli alloggi. “In questi anni abbiamo vissuto con due città nella stessa Limbiate: un paese reale e uno irreale, quello dell’ex ospedale che si estende su un’area grande 800mila mq. Una sorta di città nella città che ha sempre vissuto come un corpo a sè e non parte integrante nel paese che i cittadini vedevano come luogo di sofferenza fino a qualche anno fa. Ora vogliamo sognare una città diversa: da paese di dolore a una città della salute” ha spiegato Romeo. “Serve però un cambiamento culturale oltre che di servizio altrimenti c’è il rischio di chiusura: dobbiamo portare questa città nella città. Come sindaco sogno che si può ripartire, guardando un mondo diverso. È uno spazio unico in Italia: ha il verde, è dotato di strutture ospedaliere, scuole e una chiesa”. “Manca l’attenzione del mondo esterno. Fino a che non butteremo giù pezzi delle mura esterne tutti gli sforzi saranno vanificati perché il rischio è che queste mura siano ancora una città nella città che frena il cittadino che non frequenta questo spazio perché ha la percezione di un luogo chiuso” ha concluso. Verbania. “Semi di libertà”, iniziativa per il reinserimento lavorativo dei detenuti vcoazzurratv.it, 7 giugno 2024 Semi di libertà: un nuovo progetto per facilitare il futuro reinserimento lavorativo dei detenuti del carcere di Verbania. Un orto verticale all’interno della casa circondariale; con Vco Formazione possono così essere organizzati corsi dedicati alla manutenzione del verde, iniziativa fortemente sostenuta da Fondazione Comunitaria del Vco. Semi di libertà è stato presentato nel corso di un pranzo nel cortile del carcere. È stata l’occasione anche per raccontare gli altri progetti qui attivati e sempre volti al reinserimento sociale e professionale. A partire dai corsi di sala e cucina e per pizzaioli. E sono stati proprio i ragazzi che hanno seguito il percorso formativo a preparare il pranzo per gli ospiti. Esposti anche gli altri lavori che vengono eseguiti da chi qui sta scontando una pena. Qualcuno ha imparato a usare ago, filo e macchina da cucire. Sono stati loro a realizzare un nuovo gonfalone per la Protezione civile di Gravellona e a restaurare quelli dell’Anpi di Verbania e del comune di Baveno. Nel corso della mattinata conviviale i gonfaloni sono stati riconsegnati ai proprietari con una piccola cerimonia. La direzione del carcere vorrebbe aprire stabilmente alle commesse esterne il laboratorio di sartoria già attivo presso la casa circondariale. Orvieto (Pg). Autoritratti come paesaggi nelle fotografie dei detenuti di Lisa Ginzburg Avvenire, 7 giugno 2024 Noi pensiamo (e sempre troppo poco ci pensiamo) alle persone che vivono recluse nelle prigioni come a individui i cui sguardi sono opachi, costretti, mai ampi, né resi ampi da stimoli, occasioni, incontri. Riflettere su quegli sguardi ci aiuterebbe a immaginare la vita nelle carceri, per come essa si svolge ogni giorno, isolata, ripetitiva, fatta di soli silenzi e contorti rapporti con sé stessi e giusto a tratti con altri - gli altri detenuti. Pensare a come guarda e osserva chi in prigione vive magari per sempre sarebbe cruciale in una prospettiva che invece quasi del tutto manca alla visuale comune, condivisa dalla società; non fosse per singole iniziative che restano isolate e poco considerate, come piccole grandi indicazioni e possibili rivoluzioni. In Umbria, nella casa di reclusione di Orvieto, la fotografa Manuela Cannone ha realizzato per diversi mesi del 2023 un laboratorio con detenuti condannati a pene definitive, e con loro ha lavorato sul tema dell’autoritratto. Risultato è una mostra (in allestimento al Palazzo dei Sette di Orvieto ancora per qualche giorno) in cui sono esposti scatti di toccante, impressionante bellezza. Guidati dalla sapienza della fotografa, ispirati dalle sue suggestioni (per mesi ha proposto e fatto guardare una messe di lavori di grandi fotografi su singoli temi), provvisti di due macchine fotografiche da lei messe loro in mano, i detenuti (quindici uomini) hanno realizzato un piccolo capolavoro. Il percorso, progressivo, è stato orientato verso l’autoritratto, ma partendo da altri presupposti. Il paesaggio per primo: paesaggi esterni che in carcere mancano, e prima ancora, l’essere paesaggi a sé stessi (“se aprissimo le persone, dentro troveremmo dei paesaggi” diceva la regista Agnès Varda, un’idea che è stata faro per il lavoro laboratoriale di Manuela Cannone). Su sfondi scuri i volti ci si mostrano in una nudità che sferza, per come è autentica. Gli sguardi sono assorti, o meditabondi, o severi, o terribilmente tristi nel mentre i detenuti guardano sé stessi nelle pose che hanno scelto di tenere - e intanto è come guardassero anche noi, dicendoci tutta la violenza del nostro non voler guardare, né loro, né altro. Bellissimi anche gli scatti in cui raccontano dei loro cari, le persone che sono “fuori”, icone destinatarie di una quotidiana nostalgia che non trova cura. Fidanzate o compagne, figli bambini o già ragazzini. Le foto di quei cari ognuno le solleva in alto, sino a farsene coprire la faccia. Poi, ciascuno appoggiato all’unico albero che campeggia in mezzo al cemento del cortile della prigione, ecco di nuovo i quindici autoritrarsi. La natura manca, e cercarla - e trovarla - in piccoli interstizi è come trovare una nuova versione di sé stessi. Natura e autoritratto viatici di nuove definizioni: come quando un giorno, aveva appena incominciato a piovere, di nuovo nel cortile i quindici si sono fotografati. Stupore, meraviglia nei loro volti per un istante sgombri di ogni tristezza. “La luce quel giorno era caravaggesca”, è ancora la fotografa a raccontare, “e a loro che sono in carcere per causa della loro parte scura è stato importante chiedere cosa sia la luce”. Luminosa esperienza, luminosa iniziativa, luminosissima mostra (da non perdere). Per dire a tutti noi, senza discriminazione, che in quegli sguardi “dentro” sta racchiuso tutto il fuori: e annidata vi è una profondità che parla a noi, perché parla anche di noi. Cagliari. Le detenute di Uta autrici dei racconti creativi “Oltre” di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 7 giugno 2024 Il progetto durato un anno si aggiunge al murales realizzato nella sezione femminile della casa circondariale Ettore Scalas. “Oltre” è il titolo della raccolta di racconti elaborati da un gruppo di detenute dell’istituto penitenziario di Uta nell’ambito di un progetto di scrittura creativa che le ha impegnate nell’arco di un anno. Il prodotto editoriale, che si aggiunge al murales “Oltre” realizzato nella sezione femminile della casa circondariale “Ettore Scalas”, è il risultato della collaborazione tra l’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”, la Casa Editrice “Pettirosso” e il Festival Liberevento. Le finalità dell’iniziativa editoriale sono state illustrate in una conferenza stampa, presenti alcune detenute, da Marco Porcu, direttore del penitenziario, Giuseppina Pani, responsabile dell’Area Educativa, e da Federica Portoghese, Claudio Moica, Anna Lusso e Maria Grazia Caligaris. “In questo libro - ha detto Claudio Moica - troverete riflessioni, sogni speranze e illusioni di donne, senza aggettivi. Persone che al vissuto aggiungono un tocco di creatività che le rende infinite, lontane dagli stereotipi, capaci di leggere se stesse e il mondo che le circonda senza paura. E dentro ogni storia ci sono le nostre storie personali”. “È stata un’esperienza di notevole impatto emotivo che - ha sottolineato Federica Portoghese - mi ha offerto un’occasione di confronto con una realtà che non conoscevo direttamente. Insomma è stata una bella lezione. Ho aperto gli occhi sulla vita detentiva ma soprattutto ho conosciuto persone affettuose e sensibili, oltre qualunque stereotipo”. “Lavorare fianco a fianco con persone la cui esistenza è stata messa a dura prova dalla vita - ha aggiunto Anna Lusso - non è stato facile, soprattutto all’inizio quando era indispensabile trovare una modalità di relazione nel rispetto delle singole personalità. L’esperienza più interessante è stata proprio la creazione di una realtà “oltre”, andando a scoprire i tratti comuni della donna, delle donne”. Fra le autrici c’è Daniela, che ha parlato a nome delle compagne detenute: “È stata un’esperienza particolarmente coinvolgente - ha affermato la giovane - che ci ha permesso di riflettere e ripercorrere momenti della nostra vita. Un momento di creatività e di pensieri positivi”. “Il volontariato - ha evidenziato il direttore Porcu - ha un ruolo fondamentale nel funzionamento delle Istituzioni penitenziarie. Le associazioni che a vario titolo operano all’interno del carcere, compreso quello di Uta, contribuiscono in maniera determinante a realizzare quelle attività trattamentali su cui si basa la costruzione dei percorsi di risocializzazione dei detenuti, secondo il principio contenuto nella nostra Costituzione. SDR, in particolare, si è spesa efficacemente per migliorare la condizione dei detenuti dentro le mura del carcere, con un’attenzione privilegiata nei confronti delle detenute”. “In questi drammatici racconti, le donne - ha detto Giuseppina Pani - esprimono sofferenze profonde, ma anche grande coraggio e voglia di riscatto. Chiedono comprensione, non commiserazione, considerazione e non pregiudizio, accoglienza e rispetto, non giudizio”. “La condivisione costante di stati d’animo e sentimenti, in un ambiente dove la privazione della libertà è un segno immodificabile - ha concluso Maria Grazia Caligaris - ha permesso a noi e alle donne di fare un percorso creativo che ci ha permesso per qualche ora di stare insieme fuori dallo spazio e dal tempo. Attimi di libertà in cui abbiamo ritrovato la nostra più profonda identità. Per questo diciamo grazie”. Nelle carceri del vecchio continente il sovraffollamento è in aumento di Ettore Di Bartolomeo La Discussione, 7 giugno 2024 Il sovraffollamento delle carceri continua a rappresentare una criticità grave e persistente per numerose amministrazioni penitenziarie in Europa, come evidenziato dalle Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria (Space I) per il 2023, pubblicate oggi. Secondo il rapporto, in 12 amministrazioni penitenziarie di Paesi con oltre 500.000 abitanti, il numero di detenuti a gennaio 2023 superava la capacità disponibile. A livello complessivo, il numero di detenuti per 100 posti disponibili è aumentato del 2% dal 31 gennaio 2022 al 31 gennaio 2023, passando da 91,7 a 93,5 detenuti. Questo incremento mette in luce un crescente problema di sovraffollamento, con sette amministrazioni che hanno registrato una densità carceraria superiore a 105 detenuti per 100 posti. Tra questi paesi, Cipro si trova in una situazione particolarmente critica con 166 detenuti per 100 posti, seguito da Romania (120), Francia (119), Belgio (115), Ungheria (112), Italia (109) e Slovenia (107). Cinque altre amministrazioni penitenziarie hanno riportato una densità carceraria molto elevata, superiore ai 100 detenuti per 100 posti: Grecia (103), Svezia (102), Macedonia del Nord (101), Croazia (101) e Türkiye (100). Anche altre nazioni sono al limite del sovraffollamento, con densità carcerarie appena sotto i 100 detenuti per 100 posti: Irlanda (99), Portogallo (98), Finlandia (97), Danimarca (97), Inghilterra e Galles (Regno Unito) (97) e Azerbaigian (96). Al 31 gennaio 2023, il numero totale di persone detenute nelle 48 amministrazioni penitenziarie degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno fornito i dati era di 1.036.680. Questo dato rappresenta un incremento del tasso mediano della popolazione carceraria del 2,4% nei paesi con più di un milione di abitanti, passando da 113,5 a 116,2 detenuti per 100.000 abitanti rispetto all’anno precedente, un aumento in linea con quello registrato nell’anno precedente. Il rapporto SPACE I del Consiglio d’Europa mette in luce come il sovraffollamento carcerario rimanga una sfida significativa, non solo per la gestione delle carceri, ma anche per il rispetto dei diritti umani dei detenuti. Questo problema richiede urgenti misure di intervento per migliorare le condizioni di detenzione e garantire che i sistemi penitenziari possano operare in conformità con gli standard europei e internazionali. Le amministrazioni penitenziarie devono affrontare questa sfida attraverso politiche che includano, tra le altre, la riforma della giustizia penale, la promozione di misure alternative alla detenzione e il miglioramento delle infrastrutture carcerarie. Francia. Morte di Daniel Radosavljevic, la famiglia: “Il ministro Nordio faccia qualcosa” di Simone Alliva L’Espresso, 7 giugno 2024 Il pm di Roma insiste nelle indagini sull’italiano trovato cadavere in una cella in Costa Azzurra. E i parenti chiedono l’intervento del titolare della giustizia contro silenzi e omissioni delle autorità francesi. Branka Mikenkovic non si arrende al racconto osceno e al sabba di omertà francese che vorrebbe relegare a un suicidio la morte di suo figlio, Daniel Radosavljevic, il cittadino italiano di 20 anni trovato impiccato nel carcere francese di Grasse, in Costa Azzurra il 20 gennaio 2023. Una storia sommersa da ombre, contraddizioni e compromessa dallo scaricabarile tra Francia e Italia dove da più di un anno galleggiano elementi che non trovano un posto: manomessi, nascosti, dispersi. Sono sparite le prove. Nella relazione francese, esaminata da L’Espresso, mancano il lenzuolo usato come cappio, i vestiti macchiati di sangue. Mancano soprattutto le registrazioni delle videocamere di sorveglianza. Cosa sia successo al corpo di Daniel in quelle ore tra le decine e decine di agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici, infermieri e portantini che hanno disposto del suo corpo, non lo sappiamo. Così la famiglia si appella, tramite l’avvocata Francesca Rupalti, al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Lo ha fatto “con una richiesta di audizione che è stata formalizzata in queste ore, alla quale speriamo segua una pronta risposta”, spiega a L’Espresso la legale: “C’è la necessità di stimolare la leale collaborazione investigativa fra Stati dell’Unione, anche in un caso delicato come quello di una morte sospetta di un cittadino italiano all’interno di un carcere francese”. Per la Francia, “Daniel si è suicidato per impiccagione durante il regime dell’isolamento”. “Nonostante due giorni prima parlasse di progetti futuri alla madre”, racconta l’avvocata. Una versione, questa del suicidio, che non trova conferma nelle voci dei detenuti riprese da L’Espresso che, attraverso un cellulare clandestino, suggeriscono un finale diverso. L’irruzione di una squadra antisommossa nella cella del giovane proprio nel giorno della morte. Prima ancora, i pestaggi. Daniel è morto mentre era nelle strutture di uno Stato straniero. Era stato picchiato dalle guardie. “Come?”. “Normalmente”, rispondono i detenuti, quasi a implicare che ci sia una “giusta quantità” di abusi che una persona può subire da parte di esponenti di uno Stato democratico. “Non ha appeso un lenzuolo alla finestra. A tre metri d’altezza? Impossibile”, ripetono. Dalla relazione si possono vedere le foto della cella di Daniel. Secondo gli inquirenti francesi, il ragazzo italiano avrebbe annodato le lenzuola alla fessura di una finestrella minuscola posta a pochi metri da un lavabo. Poi avrebbe formato un cappio e si sarebbe impiccato. L’Espresso ha analizzato la relazione francese e le foto della cella dopo il ritrovamento del cadavere. Il colpo d’occhio è proprio sulla fessura della finestrella che avrebbe usato Daniel per compiere suicidarsi: troppo stretta per far passare con facilità un lenzuolo. E poi il lavabo a un’altezza così irrisoria, gli spasmi e le convulsioni avrebbero costretto Daniel a poggiare i piedi e quindi a salvarsi. La finestrella, inoltre, difficilmente potrebbe reggere il peso di un corpo. Impossibile però fare degli esami. Non solo è sparito il drappo con cui il giovane si sarebbe impiccato, ma non risultano provvedimenti di sequestro. E ci sarebbero poi le immagini del corpo del ragazzo a restituire una dinamica insolita. Le autorità francesi affermano di aver effettuato le manovre di rianimazione nel corridoio; eppure, nelle foto visionate da L’Espresso il corpo è ancora dentro la cella. Se sono state scattate dopo l’intervento di soccorso perché riportarlo in cella? Ma non solo spiega l’avvocata della famiglia: “Le richieste investigative inoltrate Oltralpe sono state solo parzialmente eseguite, benché lo spazio giudiziario comunitario imponga lo spirito di reciproca collaborazione. Non solo non sono state acquisite le videoregistrazioni di sicurezza né sentiti gli altri detenuti. La ferita che Daniel riportava in testa, in primo luogo ricondotta al prelievo di tessuti necessario per l’esame tossicologico, non è escluso che possa derivare da contusione. Approfondimenti istruttori omessi, già richiesti dal nostro Paese e mai riscontrati dalla Procura di Grasse che invece, sulla base delle citate parzialità, disponeva una frettolosa chiusura dell’inchiesta”. Il Tribunale di Roma, che ha la competenza per i delitti commessi all’estero a danno di cittadini italiani, si è interessato dall’inizio alla questione e ha autonomamente chiesto che ci fossero acquisizioni e investigazioni per conto dell’Italia. Sono state disattese. Il pm Erminio Amelio continuerà a chiedere che venga fatta luce sulle indagini, considerando che il procedimento italiano non ha subito chiusure. Anche il console di Nizza, Emilio Lolli, si sarebbe attivato per sentire i magistrati francesi. Dopo il lavoro de L’Espresso, Luigi Manconi, ex senatore e già presidente della commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei Diritti umani, ha chiesto attenzione sul caso. In Parlamento la deputata Laura Boldrini ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Un silenzio lungo un anno che ha trasformato il caso in una questione politica a tutti gli effetti che difficilmente il ministero della Giustizia italiano potrà ignorare. Una morte piena di misteri che indica ancora una volta il vicolo cieco e sistematico dei rapporti tra l’Italia e la Francia sui detenuti italiani che scontano pene Oltralpe. Nello stesso penitenziario di Grasse nel 2013 morì un altro italiano Claudio Faraldi, 29 anni, di Ventimiglia, solo in una cella, in circostanze ancora non del tutto chiarite. Prima ancora, nel 2010, la morte di un altro italiano, Daniele Franceschi, anche lui in circostanze mai del tutto chiarite e riconsegnato all’Italia senza organi. La richiesta di verità sulla morte di Daniel in Italia è vento che sale. Lettere, mail, telefonate, messaggi. Sono state centinaia le reazioni social che sollevano una grande richiesta: #GiustiziaPerDany. Lo Stato tutela dalle ingiustizie e dai soprusi, non li esercita. Dovrebbe essere un fondamentale per qualsiasi Paese dell’Unione europea. Gaza, 33 morti nella scuola dell’Unrwa a Nuseirat. L’Idf: “Era diventata una base di Hamas” di Paolo Brera La Repubblica, 7 giugno 2024 Gli Stati Uniti chiedono “completa trasparenza”. Fermata un’incursione in Israele dalla Striscia. Sinwar verso il no alla tregua. Missili israeliani hanno colpito una scuola gestita dall’Onu nella zona del campo profughi di Nuseirat, al centro della Striscia, provocando una strage: “Almeno 33 morti, tra cui 14 bambini e nove donne”, secondo le autorità sanitarie e l’ospedale Al-Aqsa di Deir el-Balah, dove sono stati portati i corpi. Karin Huster, responsabile medico di Msf che gestisce il pronto soccorso, descrive l’ospedale come “una nave che affonda con pazienti sul pavimento e sangue ovunque. Non ci sono letti, i cadaveri non vengono portati all’obitorio perché è sovraccarico e in sala operatoria i feriti sono a terra”. L’agenzia delle Nazioni Unite Unrwa, che gestiva la scuola colpita, afferma che l’edificio ospitava “seimila rifugiati”. “Stavamo dormendo. Alle due di notte abbiamo visto il soffitto, i muri e le finestre crollarci addosso”, racconta una testimone, Salman al-Maqdama. L’esercito israeliano sostiene invece che “i caccia hanno effettuato un attacco preciso contro una base di Hamas che al momento del blitz ospitava almeno 30 terroristi in una scuola dell’Unrwa nella regione di Nuseirat”, eliminandone “diversi” tra cui “alcuni responsabili del 7 ottobre”. Gli Stati Uniti chiedono a Israele “completa trasparenza” per un attacco che imbarazza anche loro: secondo Cnn è avvenuto usando almeno due bombe americane GBU-39, di cui ha identificato i rottami. Washington chiede che Israele “renda pubblici i nomi delle persone” uccise. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, definisce l’attacco “un nuovo terrificante esempio del prezzo pagato da uomini, donne e bambini a Gaza”. E il capo dell’Unrwa, lo svizzero Philippe Lazzarini, accusa Israele di avere colpito “senza preavviso” la scuola trasformata in un rifugio. Due settimane dopo l’ordine della Corte internazionale di giustizia che ha imposto a Israele di fermare l’aggressione, la nuova strage dimostra che la sentenza è lettera morta di fronte a una strategia bellica immutata. Fonti locali raccontano anche di altri attacchi scatenati ieri da aerei israeliani a Rafah. Ed emerge anche un nuovo tentativo di Hamas di sorprendere Israele varcando i confini della Striscia: l’Idf ha detto di avere eliminato un gruppo di terroristi che alle 4 del mattino si era infiltrato nella zona cuscinetto controllata da Israele sbucando da un tunnel 200 metri oltre le barriere. Erano armati di lanciagranate e fucili Kalashnikov. Tre miliziani sono stati uccisi, un quarto è riucito a fuggire. Nel nord, intanto, il rischio di un conflitto aperto con Hezbollah e di un attacco israeliano in Libano è altissimo. Ieri è stato ucciso un riservista italo-israeliano di 39 anni dell’esercito israeliano, Rafael Kauders. È caduto in un attacco di Hezbollah. Il sangue scorre anche in Cisgiordania: ieri tre palestinesi uccisi a Jenin. Purtroppo neppure sul fronte diplomatico arrivano spiragli; anzi, le notizie che filtrano sono poco promettenti. Alla proposta presentata dal presidente Usa Joe Biden non è ancora arrivata la risposta ufficiale di Hamas; ma mentre 17 Paesi chiedono ai leader di Israele e Hamas “i compromessi finali necessari per concludere” l’accordo sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, il leader dei miliziani Yahya Sinwar ha ribadito ai negoziatori arabi che non accetterà un accordo di pace in cui Israele non si impegni a un cessate il fuoco permanente, aggiungendo che “Hamas non consegnerà le armi né firmerà una proposta che lo richieda”. Una posizione che smentisce i “segnali positivi” che Hamas avrebbe lasciato trapelare secondo Al-Qahera News, un media vicino ai servizi egiziani. Nel frattempo, la Spagna si è unita al Sudafrica nel procedimento contro Israele davanti al Tribunale internazionale di Giustizia dell’Aia per “genocidio a Gaza”. E domani scade l’ultimatum che il ministro Benny Gantz aveva dato al premier Benjamin Netanyahu, minacciando di lasciare il governo se insisterà nel “guidare Israele verso l’abisso”. Ricorso all’Onu contro la Tunisia da un gruppo di famiglie sudanesi “scaricate” al confine di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 giugno 2024 Un gruppo di richiedenti asilo sudanesi, tra cui famiglie con bambini piccoli, vittime di un brutale sgombero e abbandono da parte delle forze di polizia tunisine al confine con l’Algeria, ha presentato un ricorso d’urgenza al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il Comitato ha emesso un ordine immediato alla Tunisia, chiedendo di fornire assistenza umanitaria e protezione dalle espulsioni e da qualsiasi forma di violenza ai ricorrenti. Il 3 maggio scorso, circa 500 persone migranti accampate davanti alle sedi di Unhcr e Oim a Tunisi sono state sgomberate con la forza. Un gruppo di loro è stato poi abbandonato in una zona rurale vicino al confine algerino, senza cibo, acqua o riparo. Nonostante le precarie condizioni e la presenza di minori, le autorità tunisine non hanno fornito alcuna assistenza e hanno anzi proceduto con l’arresto e la detenzione dei migranti per circa una settimana, culminati con l’espulsione in Algeria di alcuni di loro. Questi eventi si inseriscono in un quadro di crescente repressione e xenofobia in Tunisia, dove i migranti, da oltre un anno, vengono additati come capro espiatorio e vittime di politiche discriminatorie. Lo sgombero forzato e l’abbandono al confine algerino rappresentano l’ennesima violazione dei diritti umani da parte delle autorità tunisine, che mostrano un totale disinteresse per la tutela dei più vulnerabili. Eppure la gravità è sotto gli occhi di tutti. Amnesty International ha recentemente dichiarato che più di 12 organizzazioni tra Ong e media sono nel mirino, decine di migranti e rifugiati sono stati espulsi e dei giornalisti sono stati arrestati per il loro lavoro. Un quadro allarmante emerge dalle ultime due settimane in Tunisia, dove il governo del presidente Kais Saied ha dato il via a una repressione senza precedenti contro migranti, rifugiati, difensori dei loro diritti e giornalisti. Da inizio maggio, le autorità tunisine hanno arrestato, convocato e indagato decine di persone, tra cui attivisti, avvocati e giornalisti. Le accuse, spesso vaghe e basate su presunti” reati finanziari”, mirano a soffocare le voci critiche e ostacolare il lavoro delle Ong che si battono per i diritti dei migranti. Tra le organizzazioni colpite, il Consiglio tunisino per i rifugiati (Ctr) e Mnemty, un’associazione antirazzista che fornisce supporto ai migranti. I loro leader sono stati arrestati e detenuti in attesa di processo. Centinaia di migranti e rifugiati, compresi bambini e donne incinte, sono stati sgomberati forzosamente dai campi e dalle zone dove si erano accampati, spesso con l’uso di gas lacrimogeni e manganellate. Secondo le informazioni raccolte da Amnesty International, le forze di sicurezza tunisine avrebbero anche riportato forzatamente 400 persone al confine libico, in violazione del diritto internazionale. Tra l’8 e il 10 maggio, tre persone sono state arrestate e una condannata a otto mesi di carcere solo per aver offerto ospitalità a migranti senza documenti. Ma non solo attivisti e migranti, anche i giornalisti che raccontano queste violazioni sono nel mirino. Due reporter sono stati arrestati e accusati di “incitare all’odio” per i loro commenti critici sul governo. Sonia Dahmani, avvocata e personaggio pubblico, è stata arrestata per aver messo in dubbio le affermazioni ufficiali sul flusso migratorio. I due giornalisti saranno processati il 22 maggio, mentre tre rappresentanti di media privati sono stati convocati per essere interrogati. L’Italia, pur essendo a conoscenza delle gravissime violazioni dei diritti umani perpetrate in Tunisia contro i migranti, non ha espresso alcuna condanna nei confronti del governo tunisino. Anzi, ha continuato a sostenere politicamente ed economicamente il governo di Saied, confermando la sua posizione di considerarla la Tunisia un paese sicuro per i rimpatri. Questa posizione italiana è in netto contrasto con le evidenze concrete e con le decisioni prese da organismi internazionali come il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. L’Italia, con il suo silenzio si rende di fatto complice delle violazioni dei diritti umani commesse in Tunisia. Ma, e questo va evidenziato, non riguarda solo l’attuale governo presieduto da Giorgia Meloni, ma anche quelli precedenti. Senza contare che l’Unione Europea ha sottoscritto un memorandum. Guerra del Sudan, torna la pulizia etnica nel Darfur alla fame di Stefano Mauro Il Manifesto, 7 giugno 2024 Infuria il conflitto tra esercito e paramilitari. Oltre 1.300 morti in dieci giorni nell’assedio di el-Fasher. Ed è caccia ai non-arabi. La guerra in Sudan ha ormai assunto una dimensione etnica specie nel Darfur, dove la battaglia tra i militari dell’esercito sudanese (Fas), guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (Rsf) del generale Hamdane Dagalo (detto Hemedti) sta causando migliaia di vittime nella città di el-Fasher (Nord Darfur). Con oltre 2 milioni di abitanti - di cui 800mila profughi - el-Fasher è l’unica capitale dei cinque stati del Darfur a non essere nelle mani dei paramilitari di Hemedti e in questi mesi è diventata il principale centro di rifugio dei profughi e di raccolta degli aiuti umanitari, in un’area duramente colpita dalla carestia. In un comunicato ufficiale, Medici Senza Frontiere (Msf) ha annunciato questo mercoledì che sono almeno “1300 le vittime in dieci giorni di bombardamenti”, anche se il numero effettivo è sicuramente superiore “con i civili che stanno seppellendo i morti per strada” e con il rischio di chiusura per l’unico ospedale della città ancora funzionante a causa della “mancanza di medicinali e per l’impossibilità di curare i feriti”. “Gli intensi combattimenti a el-Fasher, con il lancio di granate su case, mercati e ospedali, dicono che non esiste un posto sicuro per i civili. Le vittime di massa si verificano quasi ogni giorno” ha detto Claire Nicolet, responsabile per il Sudan di Msf, precisando che anche l’ospedale della Ong è stato bombardato tre volte questa settimana, con altre vittime tra i feriti e precarie condizioni di sicurezza per il personale medico ancora presente. Negli ultimi mesi le Rsf hanno rafforzato le proprie forze nel tentativo di prendere il controllo di tutto il Darfur e hanno lanciato un assedio alla città, radendo al suolo i villaggi della zona e uccidendo tutti i civili di etnia non araba, in particolare i Massalit e gli Zaghawa. Un’ulteriore conferma dell’ultimo report pubblicato lo scorso mese da Human Rights Watch (Hrw) che ha sollevato la possibilità di un “genocidio in atto”, citando “la pulizia etnica e crimini contro l’umanità” commessi dalle Rsf contro le comunità non arabe. Proprio per questo alcuni dei gruppi armati locali presenti nell’area si sono uniti per respingere gli assalti degli uomini di Hemedti: il Sudan Liberation Movement (Slm) guidato dal governatore locale Minni Minnawi e il Justice and Equality Movement (Jem) di Gibril Ibrahim, che hanno rinunciato alla loro neutralità, per combattere a fianco dell’esercito. Altrettanto catastrofica sembra la situazione nei vicini campi profughi - in particolare quello di Abou Chouk, situato a nord della città con oltre 350mila profughi - che nei giorni scorsi sono stati bersagliati dai bombardamenti da parte dei miliziani delle Rsf e con oltre il 90% dei profughi ormai ridotti alla fame. A causa dei feroci combattimenti, la situazione alimentare in tutto il paese e nel Darfur è “catastrofica”, ha affermato su Radio France International (Rfi) Mathilde Vu portavoce del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc): “Siamo in una situazione di carestia, con persone costrette a mangiare foglie, terra e insetti per sopravvivere”. Solo il 5% degli aiuti è riuscito a raggiungere el-Fasher. Questo martedì, Martin Griffiths, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), in una conferenza dedicata al Sudan, ha precisato che la guerra civile è diventata “una tragedia umanitaria causata da una guerra di ego, tra due uomini pronti a sacrificare il proprio paese”. Da oltre un anno violenti combattimenti vedono contrapposti Al-Burhan a Dagalo senza che alcuna mediazione sia riuscita a fermare un conflitto che ha provocato ad oggi almeno 25mila vittime e oltre 9 milioni di sfollati interni o rifugiati nei paesi vicini come Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Etiopia e Sud Sudan.