Un altro suicidio: sono 39. I penalisti sollecitano riforme per ridurre il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2024 Le recenti critiche sono rivolte in particolare alla trasmissione di Bruno Vespa, che ha dedicato un segmento alla vicenda di Chico Forti, dipingendo un quadro idilliaco della vita dietro le sbarre, ben lontano dalla realtà. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha lanciato un duro attacco contro la disinformazione mediatica che, secondo l’organizzazione, offusca la gravità delle condizioni carcerarie in Italia e ostacola il miglioramento del sistema penitenziario. Le recenti critiche sono rivolte in particolare alla trasmissione di Bruno Vespa, che ha dedicato un segmento alla vicenda di Chico Forti, dipingendo un quadro idilliaco della vita dietro le sbarre, ben lontano dalla realtà. Secondo l’Ucpi, la rappresentazione offerta da Vespa presentava le carceri italiane come una sorta di “Grand Hotel”, con pietanze prelibate, in netto contrasto con la realtà. In Italia, oltre 61.000 detenuti scontano le loro pene in condizioni di sovraffollamento, inumane e degradanti. Celle ammuffite, latrine alla turca, brande a castello per 10-15 detenuti per cella: queste sono le vere condizioni descritte dalle testimonianze raccolte dall’Osservatorio Carcere dell’Ucpi. Nel silenzio dei media, si consuma una tragica realtà. Solo dall’inizio dell’anno, 38 detenuti (ai quali ora si aggiunge il 39esimo avvenuto nel carcere romano di Regina Coeli) si sono tolti la vita e altri 52 sono morti per malattia o cause non accertate. Questi numeri drammatici evidenziano il fallimento di un sistema che non rispetta i principi sanciti dall’articolo 27 della Costituzione italiana, che stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Se le telecamere delle tv nazionali entrassero nelle varie sezioni delle carceri italiane, potrebbero testimoniare una realtà ben diversa da quella presentata. Le celle sono spesso sovraffollate e insalubri, con letti a castello affollati, spazi minimi e condizioni igieniche precarie. Le latrine alla turca, adattate dai detenuti per avere docce di emergenza, sono solo una delle tante testimonianze di una vita carceraria ben lontana dagli standard minimi di dignità umana. L’Ucpi denuncia che, invece di affrontare le vere criticità del sistema carcerario, si preferisce approvare proposte legislative che aumentano la repressione e il controllo, come il Ddl 1660, che introduce il reato di rivolta, e l’istituzione di corpi speciali anti- sommossa della Polizia penitenziaria. Queste misure, secondo l’Ucpi, riducono l’attenzione verso il mondo carcerario alla sola dimensione contenitiva e repressiva, ignorando le necessità di riforma e umanizzazione del sistema. Per contrastare la disinformazione e dare voce ai detenuti, l’Ucpi ha organizzato una ‘ maratona oratoria itinerante’ nelle piazze di diverse città italiane. L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere le istituzioni verso una riforma radicale del sistema penitenziario, basata sul rispetto dei diritti umani e sulla dignità delle persone detenute. Solo una narrazione aderente alla cruda realtà, denuncia l’Ucpi, potrà finalmente portare a un cambiamento concreto e porre fine alle vergognose condizioni delle carceri italiane. Il quadro dipinto dall’Ucpi evidenzia un sistema penitenziario in profonda crisi, aggravato da una narrazione mediatica che distorce la realtà e ostacola le necessarie riforme. La maratona oratoria itinerante rappresenta un tentativo di portare alla luce la verità e sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni. Solo attraverso una narrazione veritiera e un impegno concreto verso la riforma, sarà possibile migliorare le condizioni dei detenuti e rispettare i principi di umanità e dignità sanciti dalla Costituzione. I penalisti e i sindacati contro i “rambo” voluti dal governo per sedare le rivolte in carcere di Enrica Riera Il Domani, 6 giugno 2024 L’idea del sottosegretario Delmastro Delle Vedove di istituire un Gruppo di intervento operativo per sedare le rivolte in carcere non piace agli avvocati penalisti e ai sindacati della polizia penitenziaria. Chiedono che il decreto che istituisce il Gio, Gruppo di intervento operativo, e il Gir, Gruppo di intervento regionale, per sedare le rivolte nelle carceri, venga rivisto. Chiedono che si faccia un passo indietro o almeno si “modifichi” il documento che, firmato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, stabilisce l’istituzione di questo nuovo reparto di polizia penitenziaria, che potrà operare anche negli Istituti penali minorili (Ipm). È attraverso una lunga lettera che la Camera penale di Roma - l’associazione degli avvocati penalisti - prende posizione nei confronti della “creatura”, anzi delle “creature” fortemente volute dal sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove. “Il nuovo decreto sottrae risorse alla polizia penitenziaria, già numericamente del tutto inadeguata, per istituire nuovi corpi speciali per la repressione delle rivolte e per i quali prevede una formazione di soli tre mesi. Mentre davanti agli occhi scorrono le immagini terrificanti di Santa Maria Capua Vetere, di Reggio Emilia e dell’istituto minorile Beccaria di Milano, riteniamo che appaia indispensabile adottare strumenti che garantiscano l’assoluta trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine soprattutto all’interno degli istituti di pena troppo spesso percepiti come luoghi di buio impenetrabile”, si legge nel testo della Camera penale di Roma. “Garantire trasparenza” - Se i Gio e Gir nascono dunque per “le emergenze che possono pregiudicare l’ordine, la sicurezza e la disciplina penitenziaria, oltre che per particolari eventi critici sotto il profilo della sicurezza”, la stessa Camera penale ritiene che il gruppo speciale debba almeno “essere formato capillarmente al fine di fornire supporto psicologico e di attenuazione delle tensioni emotive”. Evitare che questo personale “utilizzi quanto più possibile caschi, scudi e manganelli, strumenti che esasperano lo stato di sofferenze nelle carceri e producono sterile violenza”, l’appello che suona come un grido d’allarme. Tra le richieste, ancora avanzate dalla Camera penale di Roma, anche l’utilizzo da parte dei Gio e dei Gir di body cam. “Questo - viene ribadito nel documento - per garantire trasparenza”. Per evitare, in altre parole, che ciò che accade nelle carceri, resti nelle carceri. Sorvegliare e punire - Ma non finisce qui. Ciò che viene messo in discussione dalla Camera penale è anche il disegno di legge, ora in commissione Giustizia, in tema di “sicurezza pubblica, tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. “Il disegno è caratterizzato da una visione carcerocentrica - scrive la Camera penale di Roma -. Prevede il reato di rivolta nelle carceri e soprattutto la rilevanza penale delle rivolte passive, quindi del dissenso e delle proteste pacifiche”. Delitti punibili con pene fino a otto anni e che “renderebbero gravoso per chi li commette l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative”. Un carcere, insomma, che sembra non allontanarsi dal Panopticon prospettato da Bentham, dove l’imperativo categorico è sorvegliare e punire. Secondo la Camera penale di Roma sottesa al disegno in questione “c’è una precisa volontà politica: quella di perseverare nella compressione dei diritti delle persone detenute trattandole come oggetto di controllo e di contenimento”. E l’associazione di avvocati continua: “La nuova rete di norme vessatorie e sanzionatorie guarda al carcere come a un luogo di punizione e repressione che relega anche il dissenso nella sfera del penalmente rilevante esasperando la minaccia attraverso la previsione di limiti ostativi alla possibilità di reinserimento”. Le criticità viste dagli agenti - Voci contrarie ai nuovi gruppi nascenti - messi in campo dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria e modellati sulle Eris francesi, le squadre di intervento e di sicurezza - arrivano anche dal sindacato Uil degli agenti penitenziari. Il suo segretario, Gennarino De Fazio, in una nota dichiara che il decreto di Nordio che istituisce i Gio “pur muovendo in direzione atta a garantire capacità ed efficacia d’intervento operativo al Corpo di polizia penitenziaria, non fa i conti con l’inadeguatezza degli organici e, puntando sulla repressione a discapito della prevenzione, rischia di rivelarsi un boomerang per la tenuta del sistema”. E c’è di più. “Nella situazione attuale le donne e gli uomini del Gio e dei Gir verranno sottratti a organici già mancanti di 18mila unità e rischieranno di diventare come una palla di biliardo che schizza da una parte all’altra per tentare di fronteggiare le emergenze, che sono continue e investono tutto il territorio nazionale”, spiega il segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Continuiamo a pensare che le emergenze e le criticità vadano soprattutto prevenute garantendo la vivibilità e la sicurezza delle carceri partendo da organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali sufficientemente formati e adeguati alle effettive esigenze pure di garanzia dei diritti contrattuali per gli operatori - conclude De Fazio nella nota - Puntare sulla repressione a danno della prevenzione potrebbe aumentare le già enormi difficoltà e portare al definitivo tracollo”. I dati - dal numero di suicidi a quelli sul sovraffollamento - confermano. Ddl sicurezza, mezzo no dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 giugno 2024 Trentuno anni appena compiuti, origini pakistane, in carcere da settembre per rapina e lesioni ma ancora in attesa di primo giudizio. Si è impiccato martedì intorno alle 23 nella sua cella del carcere romano di Regina Coeli. Era sottoposto, nella VII sezione, a regime di “grandissima sorveglianza” per episodi di autolesionismo. Ma, come spiegano Stefano Anastasia e Valentina Calderone, rispettivamente Garante dei detenuti del Lazio e di Roma, “la sorveglianza, grandissima o no che sia, ormai a Regina Coeli nel turno di notte è affidata a un numero di agenti che si contano sulle dita, mentre la conta dei detenuti arriva a 1.150 per 628 posti effettivamente disponibili, per un tasso di affollamento del 180%, il più alto nel Lazio, tra i più alti in Italia”. Il 38° suicidio nelle carceri italiane (più uno in un Cpr) dall’inizio dell’anno si registra, insieme ad altri due tentativi (ad Avellino una donna e a Rieti un uomo) sventati nelle stesse ore dalla polizia penitenziaria, mentre nelle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera continua in sede referente l’iter del ddl Sicurezza che ambisce a riempire ancora di più le carceri e a fare scudo ad ogni eventuale uso improprio della forza da parte di chi deve mantenere l’ordine in queste condizioni. Ma proprio riguardo al ddl Sicurezza va registrata - perché non usuale - la contrarietà, almeno in parte, che il Collegio del Garante nazionale dei detenuti nominato dal governo Meloni ha messo nero su bianco in una memoria depositata nelle Commissioni riunite. La proposta “considerata nella sua totalità” può comportare - scrivono Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio - “con riguardo ad alcuni profili sanzionatori, effetti parzialmente incrementativi della popolazione carceraria, ferma restando la valutazione parlamentare del disvalore sociale del fatto incriminato e delle conseguenze punitive connesse alla ragionevole considerazione del principio di offensività in riferimento alle singole fattispecie incriminatrici. È notorio che l’attuale periodo storico sia contraddistinto dal tema nevralgico del sovraffollamento carcerario anche legato ad una serie di vicende e criticità risalenti nel tempo”. Insomma, un modo formale per mettere in guardia la maggioranza sul ddl Sicurezza senza però prendere le distanze dall’ideologia che lo anima, e per dire che quel testo di legge non farà altro che aggravare una situazione già al collasso, con un sovraffollamento medio del 130,5%. “L’aspetto da segnalare - si precisa infatti - consiste nella crescita graduale e costante della popolazione detenuta, su cui sia il Garante nazionale sia il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, convergono”. In particolare, il Collegio “esprime perplessità” sulla nuova fattispecie di reato ascrivibile ai migranti (anche minori non accompagnati) che nelle strutture a loro riservate si ribellino in gruppo di due o tre, anche con “resistenza passiva”, agli ordini impartiti. “L’equiparazione delle condotte di violenza e di minaccia - scrive il Collegio - a quella di resistenza passiva potrebbero eccedere i limiti della ragionevolezza”. Potrebbero. Ora scelte coraggiose sul carcere di Guglielmo Starace L’Edicola del Sud, 6 giugno 2024 La parola “carcere” ferma il respiro, l’idea delle mura rigide e invalicabili che ne segnano i confini consegna alle cittadine e ai cittadini l’idea di un mondo che separa -come se fosse possibile farlo- il male dal bene e che rassicura i buoni punendo i cattivi. In realtà colpisce dritto al cuore della sensibilità umana il pensiero della privazione del bene più prezioso, ossia la libertà personale, per un cittadino, talvolta ancor prima che un Giudice abbia sancito la sussistenza della sua penale responsabilità. Nessuno può sapere quanto potrà resistere una persona che trascorre una parte della sua vita dipendendo da altre persone, dopo avere perso il diritto a scegliere, a decidere e finanche a pensare. Il concetto diviene ancor più grave se si pensa alle modalità di espiazione della sofferenza, rese terribili dall’alto numero dei detenuti, dal basso numero dei detenenti e dalla proverbiale inefficienza delle strutture penitenziarie. La Casa circondariale di Bari, ad esempio, è un edificio che risale al 1920, epoca nella quale la pena era vissuta esclusivamente come punizione, come castigo, come retribuzione in male da infliggere rispetto al male provocato a seguito del reato commesso. Ovviamente la struttura risente della mancanza della possibilità di prevedere attività di carattere risocializzante per le persone ristrette, le quali dovevano soltanto oziare nell’attesa del fatidico momento nel quale le porte che affacciano sulla società si sarebbero riaperte. Noi Avvocati pensiamo di conoscere il carcere perché accediamo negli edifici penitenziari per intrattenere colloqui con i nostri assistiti detenuti, ma in realtà conosciamo soltanto gli ingressi (accompagnati dal rimbombo nell’animo del rumore delle mandate della maxi chiave che chiude il cancello di ferro alle nostre spalle dopo l’accesso) e la sala Avvocati, stanza arredata da due sedie divise da un tavolo sul quale si appoggiano le carte e le speranze delle persone ristrette. Grazie all’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, abbiamo avuto più volte occasione di accedere davvero all’interno del carcere, sia in quegli ambienti nei quali le persone private della libertà personale sono costrette a passare la loro vita “privata”, giustamente conosciute come “celle” in cui condividere ogni attimo della vita e dell’intimità con persone estranee con cui non si è scelto di vivere, sia in quegli ambienti, noti come luoghi dedicati al “passeggio” oppure “all’aria”, in cui si ha la sensazione di vivere all’interno di un girone dell’Inferno dantesco, in cui tante anime vagano inseguendo il tempo che si consuma e le consuma. Si ha l’impressione di vivere in un mondo in bianco e nero e si prova un senso d’impotenza rispetto alla possibilità di trasformarlo in un mondo a colori, come se i colori fossero riservati soltanto a chi si trova al di là delle mura. Per evitare il susseguirsi dei suicidi delle persone divorate dall’ozio e dall’assenza della speranza, bisogna seriamente impegnarsi perché possano entrare in carcere meno persone possibile e soprattutto perché ne possano uscire di più di quelle che sono entrate. Non è possibile restare inerti sapendo che oltre un terzo delle persone detenute in Italia abbia da espiare una pena residua inferiore a tre anni. Occorre una scelta emergenziale, come quella della liberazione anticipata “speciale”, affiancata da una scelta prospettica di razionalizzare l’uso della massima misura cautelare, che dovrebbe davvero rappresentare un’eccezione, e di evitare gli accessi al carcere per i condannati ad una pena inferiore a quattro anni di reclusione, con un favor incondizionato per la detenzione domiciliare. Con risparmio di spese e di salute per tutti e con un tuffo in un Paese con un sistema giudiziario civile ed efficiente. Sport in carcere, 1,4 milioni di euro per il terzo settore Italia Oggi, 6 giugno 2024 “Sport di tutti - Carceri” è un’iniziativa promossa dal ministro per lo sport e i giovani, per tramite del dipartimento per lo sport, realizzata in collaborazione con Sport e salute spa. Obiettivo dell’iniziativa è utilizzare lo sport come strumento contro il disagio sociale ed economico, deterrente sociale contro il rischio criminalità, mezzo di rieducazione per la popolazione detenuta. L’avviso ha una dotazione di 1,4 milioni di euro e finanzia progetti di valore dell’associazionismo sportivo di base e del terzo settore che operano con categorie vulnerabili, soggetti fragili e a rischio devianza. I progetti potranno affrontare temi sociali quali lo sport contro la povertà educativa ed il rischio criminalità, lo sport come strumento rieducativo per la popolazione detenuta, lo sport come strumento di dialogo e di gestione dei conflitti, nonché lo sport come opportunità di reinserimento nel contesto sociale e lavorativo con corsi di formazione certificata. I destinatari dell’avviso sono associazioni sportive dilettantistiche e società sportive dilettantistiche iscritte al rispettivo registro nazionale ed enti del terzo settore di ambito sportivo iscritti al registro nazionale del terzo settore. I destinatari possono realizzare le attività progettuali in partenariato con ulteriori enti, associazioni e istituzioni pubbliche. Ciascun beneficiario potrà presentare un solo progetto in qualità di capofila, a pena di esclusione di tutte le domande presentate. Le attività progettuali organizzate dai destinatari sono indirizzate ad uno solo de seguenti soggetti: detenuti adulti all’interno degli istituti penitenziari, giovani di età compresa tra i 14 e i 24 anni che si trovano in custodia cautelare e espiazione della pena detentiva presso gli istituti penali per i minorenni, nonché giovani di età compresa tra i 14 e i 24 anni in carico agli uffici di servizio sociale per i minorenni sottoposti a procedimenti e provvedimenti penali, inseriti in centri diurni polifunzionali, comunità ministeriali o del privato sociale. Il progetto presentato dovrà garantire lo svolgimento di attività sportiva gratuita, per almeno 2 ore a settimana, in favore dei beneficiari, per l’intera durata del progetto, fissata in 18 mesi. Inoltre, dovrà prevedere un piano di allenamento strutturato per i beneficiari del progetto, con l’obiettivo di garantire ai beneficiari un benessere psicofisico duraturo. L’importo massimo erogabile al destinatario per ciascun progetto approvato, per lo svolgimento di 18 mesi di attività, è pari a 20 mila euro, oneri inclusi. Il budget di spesa dovrà contemplare un costo massimo di attività sportiva e attività aggiuntive pari a 15 mila euro, una quota obbligatoria di minimo 500 e massimo mille euro per lo svolgimento delle attività di formazione, nonché una quota per beni, servizi, ed assicurazioni pari a un massimo di 4 mila euro. Le candidature dovranno essere presentate attraverso la piattaforma informatica disponibile su www.sportesalute.eu entro le ore 12 dell’11 giugno 2024. Nessun divieto di pubblicazione per gli atti contenuti nel fascicolo archiviato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2024 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 22503 depositata oggi, segnalata per il “Massimario”. Legittima la pubblicazione in un libro delle intercettazioni, e di altri atti, facenti parte di un provvedimento archiviato. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 22503 depositata oggi, segnalata per il “Massimario”, che ha respinto il ricorso del Procuratore della Repubblica di Bolzano contro l’assoluzione dei due autori disposta dal Gip per “insussistenza del fatto”. Dunque, dopo la chiusura delle indagini preliminari, anche se l’azione penale non viene esercitata, il divieto di pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero deve ritenersi “caducato”. A rafforzare una simile orientamento, argomenta la Corte, è anche il testo dell’art. 114 Cpp che, al co. 3, prevede la prosecuzione di un divieto di pubblicazione solo quando “si procede al dibattimento”, e al comma 5 stabilisce una “specifica procedura” per applicare il divieto di pubblicazione qualora non si proceda al dibattimento. “Gli atti contenuti in un fascicolo per il quale è stata disposta l’archiviazione, quindi - scrivono i giudici -, devono ritenersi non coperti da segreto e non colpiti da un generale divieto di pubblicazione”. Né, prosegue la Corte, conta il fatto che il Pm avesse operato uno stralcio dell’originario procedimento formando un nuovo fascicolo a carico soltanto di alcuni degli originari indagati e contenente “le medesime indagini” e dunque anche le “predette intercettazioni”. Per la Prima sezione penale, infatti, “l’avvenuta archiviazione del procedimento stralciato, contenente tali atti, ha reso gli stessi pubblicabili, perché la chiusura delle indagini preliminari, avvenuta senza l’esercizio dell’azione penale, ha fatto venir meno il divieto di pubblicazione, che ai sensi dell’art. 114, comma 3, Cpp prosegue solo “se si procede al dibattimento”. Mentre l’estensione di tale divieto ad un’ipotesi non prevista, quale l’archiviazione del procedimento, costituirebbe un’analogia non ammissibile, perché diretta ad ampliare il contenuto del reato previsto dall’ art. 684 Cp. Gli atti contenuti nel nuovo fascicolo, pertanto, non soggiacciono al divieto di pubblicazione stabilito dall’art. 114 Cpp, “perché relativi ad un procedimento archiviato, per il quale cioè le indagini preliminari sono concluse, non si è proceduto al dibattimento, e non è stato adottato alcuno specifico divieto di pubblicazione”. E la tutela del principio costituzionale del giusto processo e del libero convincimento del giudice non può avvenire per analogia in malam partem. Del resto, argomenta la Cassazione, una via d’uscita era nelle facoltà del Pm che avrebbe potuto adottare una diversa procedura. In particolare, avrebbe potuto omettere di inserire, nel procedimento stralciato per il quale intendeva chiedere l’archiviazione, gli atti che voleva utilizzare nel dibattimento relativo ad altri indagati o ad altri reati, oppure avrebbe potuto chiedere al giudice di estendere su questi ultimi il segreto (ai sensi dell’art. 114, co. 5, Cpp). In definitiva, conclude la Corte, “la possibilità di conciliare i due principi costituzionali della libertà di stampa e del giusto processo applicando una procedura prevista dalle norme del codice di procedura consente di escludere che la pubblicazione di atti inseriti nel fascicolo di un procedimento per il quale è stata disposta l’archiviazione possa costituire il reato di cui all’art. 684 Cp”. Bergamo. Suicidi e sovraffollamento nelle carceri, la maratona oratoria dei penalisti di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 6 giugno 2024 L’11 giugno, a Bergamo, si terrà una speciale maratona, quella dei penalisti che vogliono denunciare i problemi delle carceri italiane, via Gleno compresa. Dal sovraffollamento alla mancanza di risorse, dalle 14.30 alle 16.30 in piazza Matteotti, davanti al Comune, gli avvocati terranno la loro “maratona oratoria”. L’iniziativa è promossa dall’Unione delle camere italiane, a cui aderisce la Camera penale di Bergamo “Roberto Bruni”. “Dall’inizio dell’anno 39 suicidi e 91 decessi sono stati registrati tra i detenuti delle prigioni italiane, a cui si aggiungono 4 suicidi tra il personale della polizia penitenziaria - si legge nella nota inviata alla stampa -. Il numero di persone morte all’interno degli istituti di pena del nostro Paese lascia sconcertati. Si tratta di persone affidate allo Stato, persone che tuttavia lo Stato lascia impunemente e consapevolmente in una situazione di illegalità. Celle sovraffollate e maleodoranti, in cui i detenuti dormono in letti a castello su materassini di gommapiuma a pochi centimetri dalla “turca” utilizzata da tutti, assenza o insufficienza di attività trattamentali e di personale qualificato, difficoltà nella gestione psichiatrica e sanitaria; sono solo alcuni dei principali problemi”. Anche a Bergamo, i dati sul sovraffollamento sono impressionanti. A fine luglio 2023, quando l’associazione Nessuno tocchi Caino organizzò una visita nel carcere intitolato a don Fausto Resmini, risultò che a fronte di una capienza di 317 persone, nelle celle si trovavano 523 detenuti (pari al +170%). Cifre incredibili, che però sono la normalità. A luglio 2021, i detenuti erano 529. A giugno 2022, “solo” 487. E questo con un organico previsto sulla carta per la polizia penitenziaria di 234 agenti, mentre in servizio ce ne sono 132. Tra i principali problemi, quello legato a dipendenze e disagio psichico: allora erano stati segnalati circa 300 detenuti tossicodipendenti e il 60% di questi, quindi 180, con anche problematiche di tipo psichiatrico. Colpì moltissimo il caso di Federico Gaibotti, ma ci sono state anche altre morti silenziose. “Lo Stato italiano - prosegue la nota dei penalisti - è chiamato rispondere di questa situazione illegale e a porvi urgente rimedio. La società civile non può più stare a guardare, né ad ascoltare bugie raccontate per rappresentare una realtà diversa dalla drammatica e costante violazione dei diritti umani in atto. I mezzi di informazione non conoscono o non sono nella posizione di dire la verità, una verità che noi avvocati delle Camere Penali conosciamo direttamente, toccandola con mano quotidianamente, frequentando personalmente quelle carceri. Per questo tocca a noi dare voce a chi non ha voce, tocca a noi dire basta, tocca a noi dire allo Stato italiano di intervenire per fermare questo scempio. Perché in uno Stato che ha abolito la pena di morte non sia legalizzata la morte per pena”. Cosenza. Suicidi in carcere, “lo Stato è indifferente rispetto alle soluzioni proposte” Corriere della Calabria, 6 giugno 2024 La Camera Penale in piazza dei Bruzi a Cosenza. “Non siamo pronti ad accettare l’idea di un carcere incostituzionale”. Oramai siamo indifferenti rispetto alle continue morti nelle carceri italiane. E allora, siamo certi di non essere pronti ad accettare l’idea di un carcere incostituzionale, di un carcere tortura, di un carcere che è pena di morte?”. È il presidente della Camera Penale di Cosenza, Roberto Le Pera, a parlare in piazza dei Bruzi a Cosenza. Pochi i partecipanti alla Maratona Oratoria organizzata dagli avvocati cosentini per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza carceri, ma soprattutto sull’aumento dei suicidi all’interno degli istituti penitenziari. Numeri da mattanza quelli annunciati in piazza, “ma le persone si mostrano evidentemente poco sensibili dinanzi ad un tema così importante” aggiunge Le Pera. Presenti il sindaco della città dei bruzi e avvocato penalista, Franz Caruso e la consigliera comunale e avvocata Chiara Penna. “Lo Stato è rimasto sordo” Dopo l’ultimo appuntamento organizzato dinanzi al Tribunale di Cosenza, quando venne data lettura di un lungo elenco di nomi di persone che hanno deciso di togliersi la vita in carcere, non solo detenuti ma anche agenti di polizia penitenziaria, si ritorna in piazza per dare seguito a quella iniziativa. “Più che sensibilizzare noi oggi intendiamo rivolgerci all’opinione pubblica perché spesso la disinformazione o le informazioni distorte sul tema del dramma carcerario inducono inevitabilmente a stimolare sempre più una mentalità del “gettiamo la chiave” o “lasciamoli lì”, sostiene l’avvocata Valentina Spizzirri, componente dell’Osservatorio carcere UCPI. “Ci chiediamo - aggiunge - se il carcere debba tendere realmente all’umanizzazione al recupero dell’uomo e se vogliamo difendere l’umanità ormai perduta. Ci chiediamo perché quel 70% ed anche più di persone che entrano nel circuito penitenziario - a volte anche per sbagli commessi da incensurati - non riescono più ad uscirne”. “Perché - continua Spizzirri - se entro nel circuito penitenziario esco o peggiorato o morto o comunque torno a delinquere” dunque “il carcere non svolge la funzione per cui è preposto secondo Costituzione, è importante che la gente lo comprenda”. L’avvocato chiosa: “Oggi rivolgiamo un grido, non solo alla cittadinanza, perché comprenda la vera essenza di una maratona fortemente voluta dall’Osservatorio Carceri dell’Unione Nazionale delle Camere Penali unitamente alla Giunta, ma anche allo Stato rimasto sordo, cieco, indifferente anche alle proposte di immediata risoluzione del problema”. Catanzaro. Il carcere lontano da standard di legalità: celle affollate, muffa e infiltrazioni di Gaetano Mazzuca Gazzetta del Sud, 6 giugno 2024 La relazione del Garante comunale dei detenuti Luciano Giacobbe evidenzia numerose criticità nella casa circondariale. Anche il sistema fognario è insufficiente. Rispetto alla pianta organica prevista mancano all’appello 94 agenti della Polizia penitenziaria. “Un carcere così si allontana di molto dagli standard di legalità sanciti sia dalla nostra Carta costituzionale che dalle fonti internazionali”. È il garante dei detenuti del Comune di Catanzaro Luciano Giacobbe a sintetizzare in questo modo la situazione del carcere di Siano. Carenze strutturali, di uomini e mezzi emergono nella relazione che ieri ha presentato al Consiglio comunale. I numeri restituiscono l’immagine dell’emergenza, nei primi tre mesi del 2024 si sono registrata del penitenziario cittadino 562 eventi critici, tra questi 14 tentativi di suicidio, 34 atti di autolesionismo, 5 manifestazioni di protesta e 4 aggressioni fisiche a personale della polizia penitenziaria. Personale. Nel carcere di Catanzaro mancano rispetto alla pianta organica prevista ben 94 agenti di polizia penitenziaria. Una carenza che, secondo il Garante, “genera una serie di effetti a catena che recano danno all’intero sistema, oltre a causare problemi di sicurezza”. Mancano i funzionari giurdico-pedagogici, si registra una carenza di 6 in meno (su 10 previsti). Questo ha conseguenze negative sia sotto il profilo trattamentale e della osservazione scientifica della personalità (essendo a rischio la stessa presa in carico del detenuto), sia per quello che riguarda l’accesso alle misure alternative (rallentandosi i tempi di elaborazione/trasmissione delle relazioni di sintesi ai Tribunali di Sorveglianza). C’è un solo mediatore culturale nonostante l’elevata percentuale di detenuti stranieri. “Occorre garantire - scrive Giacobbe - la presenza stabile di tali figure con un aumento di personale ed implementare la conoscenza delle etnie più diffuse da parte degli stessi (si considerino, ad esempio, le difficoltà che incontrano l’Area sanitaria al momento della visita di primo ingresso dei detenuti extracomunitari)”. La struttura. La relazione del garante descrive un istituto penitenziario “vetusto, locali con infiltrazioni, privi di manutenzione costante e freddo d’inverno”. Diverse sezioni non sono state ancora ristrutturate e alcune celle risultano prive di docce o sono ricoperte da muffe e infiltrazioni. In non tutte le celle sono garantiti i tre metri quadrati calpestabili per detenuto. Gli ambienti destinati ai colloqui sarebbero “privi di decoro; il sistema fognario o di smaltimento dei rifiuti insufficiente”. Infiltrazioni d’acqua piovana si sarebbero verificate anche in alcune camere di pernottamento e nella zona docce del Sai (Servizio di Assistenza Intensiva). E poi “il wc è composto da una turca posizionata ad angolo e a vista e un lavabo d’acciaio; sono corredate di un mobiletto e uno sgabello ancorato a terra così come il letto. I materassi sono in pessime condizioni e per lo più privi di materiale lettereccio”. Parma. Medico in servizio in carcere usciva dal penitenziario per lavorare in studi privati La Repubblica, 6 giugno 2024 Timbrava in ingresso e poi si recava in altre strutture sanitarie. Un medico di guardia in servizio nel carcere di Parma è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di truffa aggravata ai danni dello Stato e falso in atto pubblico. Il medico incaricato dall’azienda sanitaria locale di assistere i reclusi all’interno del penitenziario per un compenso mensile lordo di settemila euro riferito all’ultimo triennio per 150 ore, in base a quanto accertato usciva dal carcere negli orari in cui avrebbe dovuto svolgere il servizio per svolgere attività professionale in altre strutture sanitarie cittadine. A carico dell’indagato è stato emesso un sequestro di circa 82mila euro. “Si sarebbe allontanato sistematicamente dalla struttura penitenziaria in orario di lavoro al fine di recarsi in altre strutture sanitarie private o studi professionali riconducibili a medici di assistenza primaria che provvedeva a sostituire nei periodi assenza emettendo svariate ricette mediche”. Le indagini sono scaturite da un controllo della spesa pubblica in ambito sanitario condotto dalla Guardia di Finanza di Parma in merito agli incarichi professionali conferiti dall’Ausl di Parma all’indagato sin dal 2012 e annualmente prorogati. I preliminari approfondimenti hanno consentito di accertare che l’indagato, oltre a tale attività, svolgeva da tempo diversi e ulteriori incarichi professionali in strutture mediche private ed erogava prestazioni in sostituzione di medici di medicina generale in città. Le successive attività investigative sono state condotte dalle Fiamme Gialle attraverso pedinamenti, il tracciamento del Gps collegato all’autovettura in uso all’indagato, l’installazione di una videocamera per inquadrare il marcatore del badge, nonché l’incrocio dei tabulati telefonici e delle registrazioni di tre diversi badge di pertinenza uno dell’Ausl e due dell’Istituto penitenziario. In definitiva, è emerso che le timbrature registrate dai rilevatori gestiti dall’istituto penitenziario e quelle di cui al rilevatore installato dall’Ausl all’interno del carcere non coincidono con una differenza in eccesso nel periodo gennaio 2021-marzo 2024 pari a 3.632 ore: 2.944 ore di effettiva presenza rispetto a 6.576 ore di presenza attestata dall’indagato nei confronti dell’Ausl. Firenze. Quattro chef per 10 detenute, il progetto con lezioni di cucina a Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 6 giugno 2024 Il progetto ha visto impegnate dieci detenute. La direttrice: “Piccolo grande passo”. Dall’antipasto al primo, dal secondo fino al dessert: piatti prelibati dentro Sollicciano. Dieci detenute della sezione femminile hanno appreso le basi della cucina da quattro noti chef stellati toscani all’interno della grande cucina del carcere fiorentino. Otto lezioni attraverso le quali le recluse hanno imparato i segreti dei grandi maestri della gastronomia fiorentina e potranno metterli in pratica una volta uscite dall’istituto penitenziario, magari trovando lavoro proprio nell’ambito della ristorazione. Gli chef sono Filippo Saporito, Paolo Gori, Michele Berlendis e Gabriele Andreoni, che nei giorni scorsi hanno tenuto un mini master nell’ambito del progetto promosso dalla cooperativa San Martina e dall’associazione Seconda Chance, realizzato con il contributo della Fondazione Cr Firenze, che ha stanziato 30 mila euro. Un progetto che punta a colmare una delle carenze più importanti di Sollicciano e del carcere in generale, ovvero quello della mancanza di lavoro tra le sbarre e quello della mancanza di formazione una volta terminata la pena, condizione che spesso è origine di un’altissima recidiva fra i reclusi che si ritrovano fuori dal carcere senza gli strumenti professionali adeguati per iniziare una nuova vita. “Quello che mi ha colpito di questa esperienza a Sollicciano — ha detto lo chef senese Saporito — è l’umanità che si respira nel carcere, una detenuta alla fine del percorso mi ha detto che sarebbe venuta a trovarmi nel mio ristorante, come cliente o magari come collega”. Il direttore della Fondazione Cr Gabriele Gori, presentando il progetto, ha detto che “siamo disponibili ad aumentare le risorse su questo fronte”, rivolgendosi alla direttrice di Sollicciano Antonella Tuoni, la quale non ha nascosto “i numeri non altissimi” di reclusi impegnati in attività formative e professionali, “ma questo è un primo piccolo grande passo importante” visto che “l’inserimento lavorativo è la chiave di volta dell’abbandono della recidiva”. Il progetto è stato fortemente voluto dall’associazione Seconda Chance, la cui sezione fiorentina è coordinata da Stefano Fabbri, che punta a far conoscere alle imprese la legge Smuraglia che offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti in art. 21, cioè ammessi al lavoro esterno. Lodi. In carcere si alza il sipario: “Un teatro dietro le sbarre come simbolo di riscatto” di Mario Borra Il Giorno, 6 giugno 2024 Nella Casa circondariale di Lodi nasce uno spazio per spettacoli, mostre e seminari. Entusiasta la direttrice: promettente usare la prigione per raccontare umanità ferite. Un teatro polifunzionale per andare oltre le sbarre. Ieri mattina è stato presentato il progetto che vedrà la nascita di uno spazio interno alla casa circondariale di Lodi dedicato non solo alle rappresentazioni e agli spettacoli ma anche a mostre e seminari. Il nuovo allestimento è stato possibile grazie all’impegno finanziario di Fondazione Comunitaria e di Fondazione Banca Popolare di Lodi, che hanno stanziato 25mila euro mentre una cifra in aggiunta per rifare la pavimentazione sarà ricavata dalla rinuncia ai gettoni di presenza da parte dei membri del Collegio sindacale della Fondazione Pop Lodi. Entusiasta la direttrice del carcere, Annalaura Confuorto, ai vertici dell’istituto di pena lodigiano da novembre 2023. “Il carcere di Lodi è situato dentro la città - premette la funzionaria - e questo fa sì che possa diventare un luogo iconico, simbolico, e un punto di riferimento. E quindi pensare di usare il carcere di Lodi come un luogo che racconti la storia di tante umanità ferite mi è sembrata un’idea promettente, che consente anche di superare l’immagine del carcere esclusivamente visto come contenitore e non come il motore del cambiamento che deve essere. Queste mura devono riprendere vita per trasformare questa “città dell’attesa” in un luogo vivo dove il detenuto sia protagonista attivo e non elemento passivo. Il teatro fa parte di un progetto più ampio, che mira al reinserimento futuro del carcerato, all’aspetto educativo e per evitare anche lo spettro del fenomeno suicidario”. Per Duccio Castellotti della Fondazione Popolare di Lodi “l’obiettivo è creare un percorso di autonomia, di libertà di espressione e dignità, rendendo i carcerati partecipi rispetto a quello che sarà un pezzo della loro vita futura”. Per Castellotti il tema delle carceri è un po’ dimenticato dai grandi dibattiti e “questo non è un bene” perché il “grado di civiltà di un Paese lo si misura anche dalle condizioni degli istituti di pena”. “Ci sono stati appuntamenti teatrali in carcere nei mesi scorsi e, proprio in uno di quei momenti, abbiamo verificato la necessità di costruire un percorso per arrivare a concretizzare il progetto della nuova sala teatrale”, ha ribadito invece Mauro Parazzi. I lavori per l’allestimento degli spazi inizieranno a breve e la sala sarà inaugurata a dicembre con uno spettacolo, completamento creato e sceneggiato dai detenuti sotto la supervisione e con il prezioso contributo dell’Associazione Il Ramo di Lodi. Catania. “Catartiche”, convegno sulle pratiche creative di arte e teatro in carcere di Ivana Parisi* Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2024 Il 30 e 31 maggio, presso la Casa Circondariale di Catania Bicocca, ha avuto luogo l’evento “Catartiche - Convegno sulle pratiche creative di arte e teatro in carcere”. Si tratta di una tavola rotonda che ha messo a confronto le realtà creative attive presso la struttura detentiva Catanese. A organizzare l’evento, la Direzione della Casa Circondariale, l’area Giuridico Pedagica, la Cooperativa “Prospettiva Futuro” e l’Associazione Culturale La Poltrona Rossa. A fare gli onori di casa il direttore della Casa Circondariale Giuseppe Russo e il responsabile dell’Area Giuridico Pedagogica Maurizio Battaglia. Tra gli ospiti sono intervenuti il direttore dell’Istituto Penale per Minorenni di Catania Bicocca Maria Covato, Vito Minoia, docente dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino e presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, Piero Mangano, presidente del CNCA Sicilia, Domenico Palermo, direttore del Progetto Koinè - Presidio per la Giustizia Minorile e di Comunità della Sicilia Orientale; Enrico Lanza, professore dell’Università degli Studi di Catania; Angelo Litrico, musicista e docente; Rosaria Sicari docente del Laboratorio d’Arte nella Casa Circondariale Bicocca CT; Gioacchino Palumbo, regista e professore dell’Accademia delle Belle Arti di Catania; Giovanni Quadrio, psicologo arteterapeuta, Alessandro De Filippo (CT) regista di teatro in carcere e docente di cinema, fotografia e televisione all’UNICT, Cinzia Caminiti Nicotra (CT), Samantha Intelisano (Augusta) Rita Stivale (CL); Ivana Parisi (CT); Marco Pisano (CT), questi ultimi tutti esperti di teatro in carcere. Durante le giornate di confronto, si sono esibiti per una prova aperta gli attori detenuti della compagnia gli ir-ritati in Catarsi, dell’associazione La Poltrona Rossa, con la regia di Ivana Parisi, presidente della Poltrona Rossa, in collaborazione con la professoressa Rosanna Fiume. Durante la performance sono state offerte al pubblico alcune scene dello spettacolo La Profezia (andato in scena lo scorso dicembre) e del nuovo spettacolo La Furia di Orlando che debutterà a fine luglio. Nel pomeriggio del 30 e 31 ha debuttato invece la compagnia formata da attori detenuti, guidata da Cinzia Caminiti che ne ha curato la regia e Marco Pisano, entrambi della Cooperativa “Prospettiva Futuro” con il testo Storie di Giufà. E ancora video su esperienze di teatro, arte e cinema. Ma soprattutto c’erano loro, gli attori della Casa Circondariale di Catania Bicocca che hanno regalato momenti indimenticabili anche con molta professionalità. L’evento è inserito all’interno del calendario degli incontri che celebrano la XI Edizione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, promossa dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere in accordo con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. *Associazione culturale La Poltrona Rossa Migranti. Lo spot elettorale di Meloni: i Centri in Albania “sono un investimento” di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 giugno 2024 La promessa: si parte l’1 agosto. Secondo la premier “il protocollo farà da deterrenza alle traversate”. Con l’amico Edi Rama un’ora di attacchi alla stampa. I Centri in Albania apriranno il primo agosto. Lo ha promesso ieri la premier Giorgia Meloni durante la conferenza stampa con l’omologo Edi Rama, a margine del tour nelle strutture di Gjader e Shengjin. Lui altissimo, con la faccia seria, davanti alla bandiera rossa con l’aquila stampata sopra. Lei più piccola, con l’espressione concentrata, annuisce alle parole del partner politico o affila lo sguardo alle domande dei cronisti. L’incipit è una lunga tirata contro i giornalisti italiani. Per Rama hanno dipinto l’Albania come un narcostato, arrivando a Tirana con notizie già scritte. “È un sollievo vedervi qui sani e salvi, in quest’area che è il cuore della malavita albanese, dove agiscono clan legati al traffico di esseri umani, secondo quello che ha scritto un quotidiano del vostro Paese”, dice. L’ironia che non riesce a dissimulare il fastidio per le inchieste sui presunti rapporti tra esponenti del suo governo e della criminalità organizzata albanese. Parla in italiano Rama “perché qui siamo in territorio italiano”. E in questa lingua ripete una frase sentita altre volte: “La mafia non esiste”. Lo direbbe la procura speciale secondo cui la criminalità di Tirana è organizzata su base familiare, senza la struttura gerarchica di Cosa nostra, Ndrangheta o Camorra. Meloni rinnova la solidarietà all’amico, vittima della macchina del fango, e ripete che le critiche sono legittime, “per carità”, ma i giornalisti devono stare attenti a non minare l’interesse nazionale quando in mezzo ci sono altri paesi. Quella di essere un nemico interno è un’accusa grave, anche se pronunciata con il sorriso. È a metà del suo intervento, comunque, che la presidente del consiglio dichiara: “Vogliamo fare le cose per bene. Perché se funzionerà, e funzionerà, inaugureremo una fase completamente nuova nella gestione del problema migratorio. L’accordo potrebbe essere replicato in altri paesi e diventare parte di una soluzione strutturale”. È questa la vera partita che Meloni sta giocando. Non è detto che riuscirà a portarla a casa, ostacoli e punti oscuri non mancano: come quel mare dove i migranti non sono “irregolari” ma “naufraghi” e le operazioni di screening risultano particolarmente complesse, o quei giudici che hanno mandato alla Corte di giustizia Ue la norma sul trattenimento e contestano la definizione governativa di “paesi sicuri”. Se non funzionasse avrebbe dei capri espiatori, in caso contrario segnerebbe un gran colpo. Meloni sa di avere le spalle coperte a livello europeo perché la volontà di esternalizzare le pratiche d’asilo è trasversale agli schieramenti e ben vista anche in Germania. Lo testimonia la lettera con cui 15 paesi Ue, su 27, hanno chiesto di usare hub nei paesi terzi. Modello Meloni-Rama. Per questo la premier non intende badare a spese. È convinta che i soldi necessari, cita 670 milioni ma siamo già sul miliardo, non siano perdite ma “investimenti”. Il cui rendimento atteso è la diminuzione dei flussi, secondo la teoria della “deterrenza” alla base delle strategie migratorie del governo. Funziona così: rendo sempre più difficile e costoso raggiungere l’Italia - finanziando i regimi nordafricani, ostacolando il soccorso in mare o mandando le persone in Albania - affinché sia sempre meno conveniente partire. Il protocollo permette di settare il modello sulla categoria dei migranti provenienti dai paesi definiti “sicuri” per decreto. Solo loro saranno portati oltre Adriatico: per adesso le procedure d’asilo in stato di trattenimento non riguardano altri casi. Recentemente l’esecutivo ha esteso la lista da 16 a 22 stati, includendo Egitto e soprattutto Bangladesh, il nuovo obiettivo delle destre sul fronte sbarchi e su quello dei decreti flussi. Il paese è in testa a entrambe le classifiche e per il governo questo dipende dalle reti criminali, non dalle condizioni di vita in quel lembo di Asia. Meloni fa i conti: nel 2024 sono sbarcati 11mila migranti dai paesi sicuri. Tolta una metà di possibili vulnerabili, tutti gli altri sarebbero potuti esseri rinchiusi nei centri in Albania, se fossero stati a pieno regime. Né Meloni né Rama spiegano cosa succederà a chi non ottiene l’asilo, ovvero come e da dove sarà rimpatriato. Non c’è ancora chiarezza neanche su luogo e modalità degli screening per separare i migranti in base a provenienza e vulnerabilità. Si sa solo che la nave privata noleggiata dal Viminale dal 15 settembre farà da “hotspot fluttuante” e coprirà le spalle alla marina, che potrebbe essere necessaria altrove nel complicato scenario mediterraneo. Fino a quel giorno, comunque, i trasferimenti li faranno le navi militari italiane. Migranti. Battibecco con la premier sui Cpr. E Magi viene strattonato dalla polizia di Giacomo Puletti Il Dubbio, 6 giugno 2024 “Se accade questo davanti alle telecamere a un parlamentare, figuriamoci cosa può accadere a quei poveri cristi”. Sta tutto in questo sfogo diretto alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni il blitz che ieri il segretario di +Europa, Riccardo Magi, ha fatto in Albania per contestare l’accordo sui migranti tra Roma e Tirana, ribadito ieri dalla visita della leader di Fd’I al porto di Shengjin e al cantiere di Gjader, le due località che accoglieranno i migranti in arrivo dall’Italia. La frase di Magi si riferiva a quanto accaduto pochi istanti prima, quando il deputato è stato strattonato dagli uomini della sicurezza albanese mentre tentava di avvicinarsi al corteo delle auto per protestare con in mano un cartello “No alla Guantánamo italiana”. “Come vi permettete”, ha urlato Magi cercando di divincolarsi, fino al momento in cui l’auto si è fermata a pochi metri dal parapiglia e la presidente del Consiglio è scesa per sincerarsi della situazione. Il tutto davanti a decine di telecamere dei media italiani che stavano riprendendo la scena. “Lasciatelo, per favore”, ha detto Meloni, mentre Magi l’accusava di aver fatto “la vittima per un’ora senza rispondere a una domanda”. Fino a che la presa dei “gorilla” albanesi si è allentata. “Almeno questo ci è rimasto”, ha replicato il deputato prima di inveire di nuovo contro la presidente del Consiglio. Fino alla frase “questo ci dice tutto su quello che accadrà: se accade questo davanti alle telecamere a un parlamentare, figuriamoci cosa può accadere ai poveri cristi che saranno chiusi qua dentro”, che ha suscitato la risposta della presidente del Consiglio. “Abbiamo portato qui la legislazione italiana ed europea, lei non era quello che voleva Più Europa?”, ha chiesto ironicamente Meloni tornando in auto. Finita lì? Macché, perché Magi ha insistito urlando “Si vergogni presidente” e a quel punto l’inquilina di palazzo Chigi è scesa di nuovo dall’auto rivolgendosi di nuovo a Magi. “Ho fatto un sacco di campagne elettorali in cui non sapevo se avrei superato la soglia di sbarramento: le do una mano io”, ha detto Meloni ironica, con Magi che le ha intimato di “togliersi il cappello da candidata e mettersi quello da presidente del Consiglio”. Insomma, la visita di Meloni in Albania, che appariva scivolosa fin dall’inizio, è stata accolta malamente dalle opposizioni, con il Pd che già in mattinata aveva criticato la scelta. “Quanto costa e chi paga la passerella elettorale della presidente del consiglio che oggi sbarcherà in Albania per “inaugurare’” i centri per migranti che ancora non ci sono?”, si sono chiesti i deputati dem Enzo Amendola, Simona Bonafè, Matteo Mauri e Matteo Orfini che, a fine maggio, sono stati in missione nei luoghi dove, secondo l’accordo Italia- Albania sottoscritto dal governo, dovevano essere già operativi i centri per migranti. Dai dem solidarietà a Magi, con il senatore Filippo Sensi che parla di “brutto episodio” e di “ariaccia”. Vicinanza a Magi anche dal leader di Iv Matteo Renzi, che del deputato è compagno di avventura alle Europee nella lista Stati Uniti d’Europa, e secondo il quale quanto accaduto “merita la condanna unanime” di tutti i partiti. “Il fatto che la presidente del Consiglio anziché dare solidarietà al collega parlamentare italiano ironizzi sul 4% con la consueta volgarità e maleducazione istituzionale - aggiunge Renzi - la dice lunga su quanto Giorgia Meloni sia inadeguata al ruolo che ricopre”. A metà pomeriggio poi riusciamo a parlare con Magi, il quale ci concede alcuni minuti per spiegare l’accaduto. “Ero venuto per capire se quella di oggi fosse una visita istituzionale e in questo caso avrei voluto visitare la struttura come prerogativa parlamentare, oppure se si trattasse di una iniziativa elettorale - dice il deputato al Dubbio - E mi sembra sia corretta questa seconda ipotesi. Parliamo di un miliardo di euro dei contribuenti italiani speso per questi centri, ma non si è capito nulla su come funzioneranno: e abbiamo ascoltato per più di un’ora di buone maniere e amicizia tra i due paesi, ma la struttura del porto non è adibita nemmeno al pernottamento mentre nell’altro non c’è ancora nulla”. Magi spiega anche di non aver avuto altri contatti con le autorità albanesi e dunque di non a ver ricevuto alcun tipo di scuse per il trattamento ricevuto. “Il problema non è quello che è successo a me ma quello che potrebbero subire i migranti”, conclude. Il viaggio infernale di un migrante con disagi psichici tra carcere e Cpr di Marika Ikonomu e Nello Trocchia Il Domani, 6 giugno 2024 Da richiedente asilo gli è stato notificato un decreto di espulsione e per questo portato al centro per il rimpatrio. Arrestato per le proteste dopo la morte di Ousmane Sylla, è stato a Regina Coeli per mesi. Ma la sua patologia è incompatibile con la detenzione. Un caso che rivela la mancanza di comunicazione tra istituzioni e l’approssimazione delle autorità. Ha assistito a un suicidio nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Roma Ponte Galeria, ha visto altre sei persone provare a togliersi la vita ed è stato arrestato per aver protestato contro le condizioni della struttura di detenzione amministrativa. Sono gli ultimi tre mesi di John, un ragazzo di origine pakistana di 26 anni, al quale attribuiamo un nome di fantasia per tutelarne l’identità. Ma bisogna partire dall’inizio per ricostruire questa storia di ingiusta privazione della libertà, gravi violazioni e mancata comunicazione tra le istituzioni, che ha portato John da un luogo di detenzione a un altro, prima al Cpr poi in custodia cautelare a Regina Coeli, e poi, di nuovo, nel Cpr, pur essendo incompatibile con le strutture detentive. Il Cpr è un luogo in cui le persone sono recluse - fino a un massimo di 18 mesi, come voluto dal decreto Piantedosi - anche solo per non avere il permesso di soggiorno. John è entrato per la prima volta nel Cpr di Roma pochi giorni prima del suicidio di Ousmane Sylla, il ragazzo 22enne guineano, che ha deciso di togliersi la vita con un lenzuolo, per “riposare in pace”, aveva scritto in francese sul muro del centro. “Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me”, continuava il messaggio. Incompatibilità - Dopo quell’atto tragico, la 14esima morte nel sistema Cpr in 5 anni, la protesta dei trattenuti a Ponte Galeria è finita con l’intervento delle forze dell’ordine, 14 persone sono state arrestate con le accuse di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, danneggiamento e incendio doloso. Tra queste c’era proprio John, finito nel carcere di Regina Coeli, ma la sua condizione è incompatibile con la detenzione. Una perizia psichiatrica ha infatti diagnosticato al ragazzo un disturbo psicotico NAS che, “come tutti i disturbi psicotici”, scrive l’esperta del tribunale, “si caratterizza da una scarsa aderenza al piano di realtà con episodi, più o meno ricorrenti, di acuzie a carattere delirante”. Una patologia che rende, si legge, “il soggetto scarsamente compatibile con strutture detentive in senso assoluto”. John ha piuttosto bisogno, scrive l’esperta, “di una presa in carico dei servizi territoriali”. Non solo, al momento del fatto il ragazzo 26enne “versava in uno stato di mente tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere”, conclude la perizia, che esclude inoltre la sua pericolosità. L’avvocata del ragazzo, Paola Bevere, ha quindi chiesto al pm il proscioglimento. Ma se è stata dichiarata l’incompatibilità per ragioni psichiatriche con il regime penitenziario, sottolinea l’avvocata, “dove, al contrario che in Cpr, esiste un piano antisuicidario e l’assistenza sanitaria è garantita dal Sistema Sanitario nazionale, non si sa come possa poi essere stato condotto in Cpr il richiedente asilo”. Perché il regolamento ministeriale che disciplina le strutture come Ponte Galeria dice chiaramente che alla persona che accede al Cpr deve essere garantita una visita medica per “accertare l’assenza di patologie evidenti che rendono incompatibile l’ingresso e la permanenza del medesimo nella struttura”. Tra queste, malattie infettive e pericolose per la comunità, ma anche disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative che non possono ricevere le cure adeguate in comunità ristrette. E il Cpr di Ponte Galeria, come tutte le strutture di questo tipo presenti in Italia, non assicura assistenza psichiatrica né ha un piano antisuicidario. Si aggiungono, come emerso da molte inchieste e relazioni del garante nazionale per le persone private della libertà, pessime condizioni igienico-sanitarie, una carenza cronica dell’assistenza sanitaria, abuso di psicofarmaci, un aumento delle problematiche relative alla salute mentale per chi è rinchiuso dietro le alte sbarre dei Cpr. Ne consegue un alto tasso di tentativi di suicidio e di atti di autolesionismo. Dopo la morte di Sylla, sei persone hanno provato a togliersi la vita in sette giorni. Secondo giro - John non doveva essere portato al Cpr fin dall’inizio, non solo per il disturbo psichiatrico ma anche perché in quel momento era richiedente asilo. Per le autorità non era irregolare e “ci si chiede perché la questura abbia emesso l’espulsione quando aveva in corso una richiesta di asilo”, precisa Bevere. “A mio parere la vicenda di quest’uomo tradisce e svela le reali intenzioni, il vero scopo, dei Cpr. Cioè allontanare e rinchiudere gli indesiderabili”, dice la garante del Comune di Roma, Valentina Calderone. E conclude: “Spesso sono persone con disagio mentale, che non vengono seguite dai servizi e sono relegate alla più totale invisibilità, fino a quando non finisco in posti come Ponte Galeria”. E infatti, lo stesso giudice per le indagini preliminari, sulla base della perizia, ha revocato la misura della custodia cautelare e disposto che “la direzione sanitaria dell’istituto penitenziario si attivi per assicurare la presa in carico”, ribadendo che non è un soggetto socialmente pericoloso. Peccato che, “dopo una detenzione di tre mesi la questura abbia disposto nuovamente il trattenimento nel Cpr, nonostante una perizia psichiatrica evidenziasse che questa persona non è socialmente pericolosa ma anzi necessiterebbe di una presa in carico da parte dei servizi territoriali”, spiega Rita Vitale, coordinatrice degli sportelli legali di A Buon Diritto, a cui si è rivolto il fratello di John. E, quindi, invece di assicurargli assistenza sanitaria per le gravi patologie psichiatriche, come chiesto dal giudice, il ragazzo viene definito socialmente pericoloso e portato, di nuovo, al Cpr, perché nel frattempo gli è stata rigettata la richiesta di asilo. La visita medica nel centro si è poi limitata a stabilire l’assenza di malattie contagiose. Non è un pericolo per la comunità, ma nessuno - nonostante la perizia e la decisione del gip - ha verificato se quella condizione ristretta fosse o meno pericolosa per lui. Per la seconda volta. Nessuna diligenza - Di fronte a una decisione così invasiva come quella di privare della libertà una persona, ci si aspetterebbe una comunicazione tra i vari uffici dell’amministrazione. Non solo la questura non ha rispettato l’ordinanza del giudice, ma la richiesta di asilo di John è stata rigettata perché irreperibile. Il ragazzo però era in carcere ed “era facilmente rintracciabile con una richiesta al Dap come si fa quando una persona è irreperibile”, spiega a Domani Bevere, “è allarmante una tale mancanza di comunicazione tra due istituzioni, il ministero della Giustizia e dell’Interno”. Il giudice civile, anche grazie al lavoro degli avvocati Paola Bevere e Gennaro Santoro, non ha convalidato il trattenimento e ha chiesto che, nonostante il decreto di espulsione, venga preso in carico dal Centro di salute mentale. John ora è libero e può fare ricorso per la sua richiesta di protezione internazionale. “Una storia gravissima e inaccettabile”, commenta A Buon Diritto, sottolineando che “sono molti gli elementi problematici e inquietanti che si intrecciano e continuiamo a chiedere la fine dell’utilizzo spregiudicato di uno strumento inutilmente afflittivo e criminalizzante come quello del trattenimento”. Migranti. Ai domiciliari dopo 7 mesi la donna iraniana accusata di essere una scafista di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2024 Il Garante nazionale è intervenuto più volte nella vicenda di Marjan Jamali. Dai dati che ha fornito emerge come al 31 maggio sono 9.407 i detenuti in misura cautelare. Il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale (il Presidente Felice Maurizio D’Ettore e i componenti Irma Conti e Mario Serio), ha espresso soddisfazione per la sostituzione della misura detentiva a carico di Marjan Jamali, una cittadina iraniana detenuta a Reggio Calabria, con gli arresti domiciliari. Questa decisione, presa dalla magistratura in attesa dell’esito delle indagini, rappresenta un significativo passo avanti nella tutela dei diritti umani. Il Garante, attivando i suoi mandati nazionali e internazionali, ha giocato un ruolo cruciale nella vicenda, incontrando Jamali durante la sua detenzione e seguendo da vicino la sua richiesta di protezione internazionale. Il caso della giovane iraniana, detenuta per sette mesi sotto accuse controverse, mette in luce diverse problematiche del sistema penitenziario italiano, in particolare l’uso eccessivo della custodia cautelare. Secondo i dati forniti dal Garante nazionale, al 31 maggio 2024, 9.407 persone sono detenute in misura cautelare negli istituti penitenziari italiani, contribuendo significativamente al sovraffollamento delle carceri. Questa situazione è aggravata da un preoccupante tasso di suicidi tra i detenuti: nel 2024, fino al 3 giugno, ci sono stati 38 suicidi (nel frattempo si aggiunge l’ennesimo suicidio avvenuto al carcere romano di Regina Coeli ndr.), di cui 15 (40,54%) riguardavano detenuti in misura cautelare. Questi numeri sono in aumento rispetto al 2023, quando i suicidi complessivi furono 68, di cui 26 (38,23%) in custodia cautelare. Questi dati sollevano serie preoccupazioni sulla gestione della custodia cautelare, che dovrebbe essere usata come ultima risorsa e non come una pena anticipata. È essenziale, come ribadito dal Garante nazionale, un uso equilibrato di questa misura, nel rispetto dei principi costituzionali e processuali. La vicenda di Marjan Jamali è emblematica delle complessità e delle sfide del sistema giudiziario e penitenziario. Jamali, una 29enne iraniana, è arrivata in Italia con un viaggio della speranza via mare, sbarcando a Roccella Jonica. Accusata di essere una scafista, ha trascorso sette mesi in carcere a Reggio Calabria, periodo durante il quale ha costantemente proclamato la propria innocenza. La donna ha finalmente potuto riabbracciare il figlio di otto anni, accolto nel centro di accoglienza a Camini gestito dalla cooperativa “Jungi Mundu”. Durante la sua detenzione, Jamali ha dichiarato di essere venuta in Italia per offrire una vita migliore a suo figlio, sottolineando il dramma della separazione forzata. Il processo contro Jamali inizierà il prossimo 17 giugno. Le accuse contro di lei provengono da tre uomini che erano a bordo dell’imbarcazione partita dalla Turchia e che, secondo la sua testimonianza, avrebbero abusato di lei. Accanto a lei, anche Amir Babai, un 31enne che avrebbe cercato di difenderla dagli abusi e che, per questo, avrebbe subito la ritorsione dei tre uomini. Questi, una volta sbarcati e fatti perdere le proprie tracce, hanno accusato Jamali e Babai di essere i responsabili del traffico di esseri umani. Il caso di Marjan Jamali non solo evidenzia le difficoltà e le ingiustizie che possono colpire i migranti in cerca di una vita migliore, ma solleva anche questioni fondamentali sulla gestione delle misure cautelari e sulle condizioni di detenzione in Italia. La soddisfazione espressa dal Garante nazionale per la concessione degli arresti domiciliari a Jamali rappresenta una vittoria per i diritti umani, ma è anche un promemoria della necessità di un approccio più umano e giusto nella gestione della giustizia. In un contesto di sovraffollamento carcerario e di preoccupante aumento dei suicidi tra i detenuti, per il Garante è imperativo che le misure cautelari siano applicate con maggiore discernimento e nel pieno rispetto dei diritti umani. Il sistema giudiziario deve garantire che la custodia cautelare non diventi una pena anticipata, ma rimanga una misura eccezionale, utilizzata solo quando strettamente necessario. E a proposito di custodia cautelare, martedì sera si è ucciso l’ennesimo detenuto. Aveva 31 anni, originario del Pakistan, e si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere romano di Regina Coeli. L’uomo, in attesa di primo giudizio per rapina e lesioni, era detenuto nello stabilimento penitenziario da settembre dello scorso anno. I soccorsi della Polizia Penitenziaria e dei sanitari, giunti tempestivamente sul posto, non sono purtroppo riusciti a salvarlo. Si tratta del 39esimo suicidio di un detenuto dall’inizio dell’anno, a cui si aggiungono i 4 casi di agenti di Polizia Penitenziaria che hanno scelto la stessa tragica strada. “Non si attenua la drammatica situazione all’interno delle carceri italiane - denuncia Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UilPa Polizia penitenziaria - mentre la politica assiste impassibile a questo scempio. È necessario un intervento immediato e concreto per garantire la sicurezza e la salute di chi vive e opera all’interno degli istituti penitenziari”. Migranti. Quanto costa davvero il Protocollo Italia-Albania al nostro Paese? di Francesco Grignetti La Stampa, 6 giugno 2024 Il fact checking voce per voce: ecco cosa abbiamo scoperto. Un miliardo come dicono le opposizioni o 130 milioni come afferma la premier Giorgia Meloni? Quanto costa davvero il Protocollo Italia-Albania? I due schieramenti politici brandiscono numeri molto diversi. E bisogna addentrarsi nei numeri per capire meglio come stanno le cose. Intanto una premessa: l’Albania cede due aree del suo territorio in affitto gratuito all’Italia per farvi costruire dei centri di riconoscimento e trattenimento di migranti. Si comincia con 1.000 posti; ma il programma è di arrivare a 3.000 presenze in contemporanea. Quindi è evidente che si comincia con una spesa minore, ma che dovrà triplicarsi quando si andrà a regime. Infine, il protocollo dura cinque anni, ed è rinnovabile tacitamente. L’Italia si impegna a coprire tutte le spese. E qui c’è il primo nodo. Quali spese? C’è un capitolo di investimento (per costruire l’infrastruttura e dotarla del necessario); e poi c’è un capitolo per la gestione. Il primo è una tantum, il secondo si rinnova ogni anno. Vediamo le spese di infrastruttura. Secondo il Centro studi della Camera, sono previste una “spesa di 31,2 milioni di euro per l’anno 2024 in favore del ministero dell’Interno e di 8 milioni di euro in favore del ministero della Giustizia per la realizzazione delle strutture previste nel territorio albanese”, più altri 8,48 milioni di euro per gli oneri relativi alle dotazioni strumentali. Totale: 50,68 milioni. In verità il costo è anche stato corretto perché il terreno del centro da costruire in montagna si è rivelato fragile, e di qui maggiori lavori, maggiori spese, tempi più lunghi. Alla fine saranno 65 milioni di euro, finanziati con un articolo inserito nella conversione del decreto-legge sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Poi ci sono le spese di gestione: vitto e alloggio dei tremila migranti trattenuti, spese di trasferta e diaria per il personale dello Stato, rimborso spese per gli avvocati che avranno il diritto di assistere i loro assistiti in sede. Va ricordato che secondo il Protocollo potranno essere portati in Albania solo i migranti maschi, maggiorenni, in buona salute e provenienti da paesi “sicuri”, ossia dove il governo italiano ritiene che siano rispettati i diritti fondamentali e l’ordinamento democratico. Secondo il decreto “Cutro”, e appoggiandosi al Patto per le migrazioni della Ue appena approvato, le domande di asilo presentate dai cittadini di paesi “sicuri” devono seguire una procedura accelerata che deve concludersi al massimo in 28 giorni. In queste 4 settimane, le domande di asilo saranno esaminate dalle Commissioni prefettizie; nel caso albanese, ci saranno alcune sezioni speciali presso la prefettura di Roma. Il Protocollo prevede che all’interno dei centri lavorino solo personale italiano, trasferito temporaneamente in Albania: oltre allo stipendio riceveranno anche una diaria, e verranno coperti tutti i costi di viaggio, vitto e alloggio. Prevista una spesa di 250 milioni di euro in cinque anni, a cui vanno aggiunti i costi delle assicurazioni sanitarie in Albania, che costeranno 900mila euro nel 2024 e poi 1,7 milioni di euro all’anno. Infine, all’interno del Cpr di Gjader sarà costruito un piccolo carcere, con una capienza massima di 20 detenuti, nel caso in cui alcuni migranti trattenuti nei centri dovessero essere messi in custodia cautelare. La realizzazione della struttura costerà 8 milioni, e saranno inviati in Albania 46 agenti di polizia penitenziaria. Si sono prenotati già mille agenti della penitenziaria perché la vedono come una vacanza e per di più ben pagata. In complesso, sommando tutte le voci di spesa previste dalla relazione tecnica curata dalla Camera dei deputati e dal Servizio bilancio dello Stato si arriva a circa 610 milioni di euro tra il 2024 e il 2028. E in pratica, la spesa annua non è così distante dai 130 milioni dichiarati dalla premier. Ci sono poi i trasferimenti in nave. È stato reso pubblico un bando per il noleggio di una nave che faccia la spola dall’area di Lampedusa all’Albania e ritorno. Ogni viaggio impegnerà la nave per una settimana. Sono previsti quindi 4 viaggi al mese. Per il primo trimestre, sono 13,5 milioni di noleggio. Diventano 54 su base annua; 250 milioni per l’intera durata del protocollo. Alla fine, insomma, il preventivo si aggira sugli 875 milioni da qui alla fine dei cinque anni. Con il dubbio, se non la certezza, che lungo la strada lieviterà qualche altra voce di spesa. Migranti. Il tribunale annulla il più lungo fermo di una Ong dall’entrata in vigore del decreto Piantedosi di Giuseppe Legato La Stampa, 6 giugno 2024 L’imbarcazione Sea-Eye 4, Ong battente bandiera tedesca oggetto del più grave e lungo fermo amministrativo (60 giorni) dall’entrata in vigore (e per la presunta violazione) del decreto Piantedosi non doveva essere sanzionata, né - ergo - inibita - nella continuazione della sua attività cioè il salvataggio in mare. Banalmente perché le contestazioni sollevate dall’Italia - per mezzo della capitaneria di porto di Reggio Calabria secondo le quali la nave non avrebbe “ottemperato alle indicazioni dell’autorità libica rifiutando i contatti con la stessa durante il soccorso a un’imbarcazione con 84 migranti (tratti in salvo) il 7 marzo scorso nel Mediterraneo - non sono provate”. Lo ha deciso, ieri 5 giugno, il tribunale civile di Reggio Calabria di fronte al quale Gorden Isler e Dominik Reisinger, legali rappresentanti della “Sea-Eye 4”, sede in Regensburg, proprietaria della nave omonima hanno citato in giudizio il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la Capitaneria di Porto, la Guardia Costiera di Reggio Calabria, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, la Guardia di Finanza, sezione operativa navale di Reggio Calabria, il Ministero dell’Interno. I giudici hanno accolto la richiesta di annullamento del provvedimento del fermo redatta dai legali Dario Belluccio, Daniele Valeri e Lidia Vicchio. Da Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) commentano con soddisfazione: “Questa pronuncia fornisce giustizia rispetto alle attività di soccorso in mare messe in campo dalle organizzazioni della società civile, oltre che interessanti spunti di riflessione giuridica e sulle modalità con le quali le autorità italiane utilizzano le informazioni ricevute dalla cd. guardia costiera libica allo scopo di limitare le capacità di soccorso delle persone nel Mare Mediterraneo”. Ma cosa è davvero successo? “Nel verbale - si legge in sentenza - si contesta (alla Ong ndr) che, nonostante l’Autorità libica avesse inviato nell’area di intervento due pattugliatori, denominati “Marzuq” e “Fezzan” che avevano avvistato la Sea Eye 4 nel mentre procedeva verso un’imbarcazione in distress e mentre inviava una barca veloce per rimorchiare la barca in pericolo, la nave Sea-Eye 4avrebbe risposto alle chiamate effettuate dalle motovedette libiche”. In sostanza: “La contestazione ha ad oggetto operazioni di soccorso che sarebbero avvenute senza l’autorizzazione o il coordinamento delle Autorità libiche, pur presenti in loco e non intervenute al fine di evitare disordini ed il rischio che i migranti si gettassero in mare, all’interno dell’area SAR di responsabilità di queste ultime”. È andata davvero così? È stato violato il decreto Piantedosi? Il parere dei giudici - Per i giudici no. Scrivono “La tesi, recepita nel verbale di fermo amministrativo si fonda su un unico elemento probatorio, ossia una mail inviata dalle Autorità libiche il 9 marzo 2024 alle 18,38 di sette righe nella quale si spiega che Sea-Eye4 non avrebbe risposto alle richieste di contatto procedendo al salvataggio degli 84 (tra cui 34 bambini). Per i giudici questa mail “non contiene alcun allegato documentale attestante i tentativi di contatto effettuati: non contiene una o più mail inviate all’Ong attestanti i tentativi di contatto e le indicazioni fornite; non contiene l’indicazione di una registrazione audio/video attestante le comunicazioni avute o tentate”. Chiosano i giudici: “All’evidenza, una simile circostanza ha carattere dirimente giacché la tesi libica (esposta in sette righe), recepita dalle Autorità italiane, contrasta con il rimanente materiale probatorio”. La Ong ha documentato tutto - La Ong ha in realtà prodotto tutta una serie di comunicazioni inviate all’autorità libica (ma anche all’Mrcc di Roma) fin dalle 10 del mattino. Si legge infine in sentenza come nel materiale a supporto del decreto di fermo “non è esplicitata quale sia l’indicazione che l’Autorità libica avrebbe fornito (esempio desistere dalla prosecuzione delle operazioni; trasferire i migranti in un porto libico etc.), né quella che avrebbe tentato di fornire, e che la Sea Eye 4 avrebbe omesso di rispettare; né è provato, come detto, che l’Autorità libica abbia contattato la Sea Eye 4 per fornire delle indicazioni in qualità di Autorità responsabile SAR”. Sui migranti si prepara il futuro dell’Unione europea di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 6 giugno 2024 Aver scelto di competere sul terreno del razzismo e della riduzione dei diritti, con Orban, Le Pen, Salvini e Meloni, cioè con i conservatori e l’estrema destra, da parte di coloro che dichiarano di volerle arginare, rappresenta un regalo ingiustificato ad una cultura che è diventata egemone al di là di ogni nesso con la realtà. La resa alle destre xenofobe da parte delle cosiddette grandi famiglie politiche europee, con qualche defezione interna (tra queste, per fortuna, il Pd che non ha votato il Patto Europeo su migrazioni e asilo), è davvero una tragedia per l’Ue e può rappresentare la pietra tombale per il suo futuro. Popolari, socialisti e liberali europei, quindi la quasi totalità delle maggioranze che governano i Paesi dell’Ue e la maggioranza dell’attuale Europarlamento, hanno deciso di investire principalmente su due direttrici in materia di immigrazione e diritto d’asilo: esternalizzazione delle frontiere e detenzione amministrativa come strumento ordinario di gestione dei flussi migratori. La lettera rivolta da 15 dei 27 governi alla Commissione europea per chiedere, oltre a quelle già contenute nel Patto, ulteriori misure volte a promuovere la dimensione esterna delle politiche migratorie - ossia trasferire sui paesi extra Ue le nostre responsabilità in materia di diritti umani e diritto internazionale - è la dimostrazione che al peggio non c’è mai fine. Aver scelto di competere sul terreno del razzismo e della riduzione dei diritti, con Orban, Le Pen, Salvini e Meloni, cioè con i conservatori e l’estrema destra, da parte di coloro che dichiarano di volerle arginare, rappresenta un regalo ingiustificato ad una cultura che è diventata egemone al di là di ogni nesso con la realtà. Definire sicuri Paesi dove si pratica la tortura e dove l’opposizione politica viene regolarmente fatta oggetto di persecuzione, in nome della difesa delle frontiere significa negare i principi basilari delle democrazie. Per quale ragione le frontiere andrebbero difese da persone che si presentano spontaneamente alle autorità dei Paesi dell’Ue per chiedere protezione? In che modo queste persone possono attraversare le frontiere in maniera legale e sicura? Vorremmo fare queste domande al nostro governo e agli altri che hanno firmato quella lettera, sapendo che non troverebbero argomentazioni per rispondere, perché le ragioni della propaganda non consentono spiegazioni. In questo quadro il nostro Paese ha assunto un ruolo guida, su questo Meloni ha ragione. Le iniziative promosse dall’Italia, non da sola, hanno determinato un effetto valanga che sta di fatto travolgendo tutta l’Ue. L’accordo con la Tunisia di Saied non è nuovo ma rappresenta, come quello con la Turchia di Erdogan, la negazione del diritto internazionale: facciamo fare a qualcun altro ciò che i tribunali interni ed internazionali ci impedirebbero. Il tentativo neo coloniale di usare il territorio albanese per impedire a chi fugge dalle violenze della Libia o dalle persecuzioni della Tunisia di approdare in Italia, è una novità che, al di là dei costi esorbitanti e della dubbia efficacia, che verificheremo presto, rappresenta soprattutto una indicazione culturale prima che politica. Queste misure italiane, come le altre messe in campo da altri governi, come quelle richiamate nella lettera dei quindici Paesi o scritte nel nuovo Patto europeo, hanno un effetto sulle opinioni pubbliche dell’Ue proporzionale all’assenza di alternative altrettanto forti, che le forze democratiche non sembrano in grado di sostenere perché incapaci di una visione giusta e praticabile. Nei prossimi giorni la Commissione europea presenterà il piano per implementare in ogni Paese il Patto approvato in via definitiva lo scorso 14 maggio. Entro gennaio del 2025 i singoli governi dovranno approvare un piano nazionale. La società civile, i movimenti e le organizzazioni sociali dovranno fare ogni sforzo per monitorare questo processo, portando in piazza le ragioni dell’Europa dei diritti e dell’accoglienza, rivolgendosi ai tribunali per denunciare e ostacolare le misure discriminatorie e illegittime e costruendo una vasta alleanza capace di far emergere un’alternativa possibile. In questo processo anche le elezioni europee sono un passaggio determinante e, qualunque sia l’esito, dopo il 9 giugno, sperando in una battuta d’arresto delle forze di destra, sarà importante vigilare sulla coerenza di programmi e candidati, cercando di pesare sulle scelte che verranno fatte a livello nazionale ed europeo nell’avvio della nuova legislatura. *Arci Mezza Europa sogna una propria Albania dove deportare i migranti di Marina Della Croce Il Manifesto, 6 giugno 2024 Dopo il via libera di Bruxelles sono molti gli Stati che chiedono hub nei paesi terzi. L’occasione è quella che è e quindi va da sé che Giorgia Meloni, in Albania per la visita all’hotspot di Shengjin, non risparmi sulla propaganda, tanto più quando mancano poche ore al voto europeo. “Se quello che qui abbiamo immaginato funzionerà, e funzionerà, - assicura la premier - allora avremo inaugurato una fase completamente nuova nelle gestione del problema migratorio. L’accordo potrebbe essere replicabile in molti paesi, potrebbe diventare una parte della soluzione strutturale dell’Unione europea”. L’ennesimo spot elettorale, certo, che però questa volta potrebbe essere più vicino alla realtà di quanto forse sperato dalla stessa premier italiana. Presente da anni ma sempre sotto traccia, la voglia di esternalizzare i rimpatri dei migranti sta prendendo sempre più piede in Europa tanto da attirare l’attenzione di molte cancellerie, a prescindere dal colore politico. E non solo. La prima a parlare del patto tra Italia e Albania come di un “modello” è stata infatti Ursula von der Leyen aprendo di fatto la strada a un via libera da parte di Bruxelles. Per la presidente della Commissione europea, hanno reso noto il 13 dicembre scorso fonti Ue, l’accordo raggiunto tra Meloni ed Edi Rama sarebbe “un esempio di pensiero fuori dagli schemi basato su un’equa condivisione delle responsabilità con i paesi terzi”. Era l’annuncio tanto atteso da Palazzo Chigi, anche perché per Bruxelles il meccanismo messo a punto da Roma e Tirana, e in base al quale a valere nei Cpr albanesi sarà la giurisdizione italiana, è “in linea con gli obblighi previsti dal diritto dell’Ue e internazionale”. Parole che, ad esempio, in Germania hanno l’effetto di mettere d’accordo la Spd di Olaf Scholz, che non ha mai nascosto l’interesse per l’esperimento italo-albanese, con la Cdu. Di più: entro il 20 giugno il governo federale dovrà presentare alle regioni i risultati di uno studio fatto dal ministero dell’Interno sulla possibilità di esaminare le richieste di asilo dei migranti “in paesi di transito o terzi”, come farà l’Italia in Albania. “È un modello interessante con cui mi sto confrontando con il mio collega italiano” Matteo Piantedosi, ha detto pochi giorni fa la ministra dell’Interno Nancy Faeser. Ma il fronte di chi sogna un proprio modello albanese da replicare è molto più largo. Come dimostra la lettera che 15 paesi hanno indirizzato il 16 maggio scorso alla Commissione Ue per chiedere di trasferire i migranti irregolari in paesi terzi. In particolare Italia, Danimarca, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Cipro, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Romania e Finlandia hanno chiesto alla Commissione “l’esame della potenziale cooperazione con i paesi terzi sui meccanismi di hub di rimpatrio, dove i rimpatriati potrebbero essere trasferiti in attesa del loro allontanamento definitivo”. Nel frattempo c’è chi fa da solo. Come il nuovo governo di destra olandese che ha annunciato di voler chiedere “al più presto” l’uscita del paese dalla politica europea di asilo e migrazione. Cosa accadrà nel prossimo futuro ai migranti che arrivano nel Vecchio continente dipenderà molto anche da che tipo di Europa uscirà domenica dalle urne. Dal primo luglio la presidenza di turno dell’Unione spetterà all’Ungheria e questo non mancherà di rafforzare il fronte dei paesi sostenitori di una linea ancora più dura nei confronti dei migranti. Ma un peso decisivo lo avrà anche il nuovo presidente della Commissione Ue, sul cui nome, invece, regna ancora molta incertezza. Tunisia. Dopo gli avvocati Saied sbatte in cella chi aiuta i migranti di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 6 giugno 2024 Perquisizioni e raffiche di arresti per i dirigenti delle principali ong umanitarie Sono accusati di “associazione a delinquere” perché denunciano le deportazioni. Dopo il brutale attacco all’avvocatura con gli arbitrari arresti dei legali nella maison de l’avocat di Tunisi, la scure del presidente Saied ora si abbatte sulle organizzazioni umanitarie che assistono i migranti. Nelle ultime due settimane sono centinaia gli uomini, donne e bambini deportati ai confini del paese e spesso abbandonati nel deserto. L’episodio più eclatante il 3 maggio a Tunisi quando le forze dell’ordine sono arrivate davanti al campo migranti, allestito di fronte alla sede dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nel quartiere Berges du Lac. Qualcuno è riuscito a fuggire ma molti sono stati arrestati. Altri rifugiati invece si trovavano accampati nelle vicinanze perché dovevano ricevere lo status di protezione internazionale da parte dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite provenendo da zone di guerra come il Sudan. Ma la stessa sorte è toccata anche alle persone che si trovavano nella periferia di La Marsa vivendo nel Centro Giovanile fin dalla chiusura del campo di Choucha nel 2017. Ma non è finita perché, come riferiscono le ong, oltre agli sgomberi, sono stati spiccati almeno un’ottantina di mandati di arresto così come successo in precedenza nella regione di Sfax. Lunedì 6 maggio, durante un consiglio di sicurezza, il presidente Saied ha riconosciuto le espulsioni collettive da parte delle autorità tunisine, rendendo noto che 400 persone sono state respinte al confine orientale. Un attacco sistematico verso la popolazione nera, infatti come segnalato da Salsabil Chellali, direttore dell’ufficio di Tunisi di Human Rights Watch: “In generale, gli arresti e le deportazioni vengono effettuati senza alcuna valutazione caso per caso dello status degli esiliati, al di fuori di qualsiasi quadro giuridico”. La strategia di Saied è apparsa chiara fin dal 2023 quando ha cominciato a parlare di orde di migranti illegali che vogliono cambiare l’identità arabo- islamica del Paese, un complotto che riedizione, ormai conosciuta, della tesi della sostituzione etnica o del fantomatico piano Kalergi. La repressione chiaramente si è estesa contro le organizzazioni internazionali o della società civile. Il 6 maggio è finita in cella Saadia Mosbah, presidente di Mnemty, un’associazione che lotta contro la discriminazione razziale, l’arresto è stato effettuato sulla base della legge sulla lotta al terrorismo e la repressione del riciclaggio di denaro. Mosbah da piu di un anno non aveva mai smesso di attaccare le politiche anti migranti di Saied. Anche la sede di Terre d’asile Tunisie, la sezione tunisina della ong francese, è stata perquisita da agenti di polizia a Tunisi e Sfax. Il suo ex direttore, Sherifa Riahi, è stato ascoltato e poi posto in custodia della polizia sulla base della stessa legge che ha colpito Mosbah. Ma probabilmente l’episodio più grave è quello relativo alla detenzione del presidente e del vicepresidente del Consiglio tunisino per i rifugiati (CTR). Sono accusati di associazione criminale con l’obiettivo di aiutare le persone ad accedere al territorio tunisino, almeno da quanto si apprende da un comunicato della procura. La pesantezza dell’arresto riguarda anche il fatto che il CTR assiste l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nella registrazione dei richiedenti asilo, in assenza di una legge che disciplini il diritto di asilo in Tunisia. Il tentativo dichiarato è quello di spaventare e scoraggiare il lavoro delle ong fino a impedire l’opera di assistenza rendendo i migranti piu vulnerabili e soggetti all’espulsione senza alcuna difesa. D’altro canto lo stesso Saied ha attaccato pubblicamente le associazioni che ricevono denaro dall’estero: “Non c’è posto per le associazioni che potrebbero sostituire lo Stato”, e ha definito i responsabili “traditori e agenti”. Incarcerati o scaricati al confine: così la Tunisia perseguita i migranti, nonostante le richieste dell’Onu di Angela Gennaro Il Domani, 6 giugno 2024 Un gruppo di famiglie sudanesi ha presentato ricorso al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite contro i trasferimenti forzati. Ma il paese di Saïed, sostenuto politicamente e finanziariamente da Italia ed Europa non si ferma. Respinti, incarcerati o scaricati al confine. È l’incubo che stanno vivendo da un mese alcune famiglie di origine sudanese, anche con bambini e bambine piccoli, in Tunisia. Quella stessa Tunisia sostenuta - politicamente e finanziariamente - da Italia ed Europa e ritenuta dal governo guidato da Giorgia Meloni “paese sicuro” in cui rimandare le persone. Nel limbo e in pericolo, nonostante le Nazioni unite continuino a chiedere al governo di Kaïs Saïed di fermare le persecuzioni. L’incubo incomincia il 3 maggio scorso a Tunisi: alcuni accampamenti informali di fronte alla sede dell’Agenzia Onu per i rifugiati e dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a Lac 1 Tunisi e vicino al Jardin Public Lac 1, vengono sgomberati con la forza dalla polizia tunisina. Secondo le segnalazioni arrivate ad alcune associazioni del paese, almeno 500 persone vengono arrestate: sono prevalentemente di nazionalità sudanese, sud-sudanese e ciadiana, chiedono protezione internazionale e alcune di loro si sono registrate per i servizi di Unhcr e Oim. All’alba vengono “caricate con la forza su almeno sette autobus e trasferite verso destinazioni sconosciute, probabilmente nelle regioni di Jendouba e Medjez el Bab, secondo le ultime coordinate gps ricevute”. Una settantina di loro - tra cui anche 9 bambini e bambine e 7 donne - vengono scaricati in mezzo al nulla, a 25 km dal confine algerino, senza cibo né acqua. Un altro gruppo viene lasciato da cinque autobus oltre la frontiera, vicino alla città algerina di Sidi Abdelaziz. La battaglia legale - È a questo punto che alcune persone del gruppo, tutte di origine sudanese, presentano un ricorso di urgenza al Comitato per i diritti umani delle Nazioni unite con il sostegno delle avvocate di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione e la collaborazione di diverse associazioni tra cui Refugee in Libya. Il Comitato, pochi giorni dopo, interviene dichiarando una situazione di pericolo per i migranti. E chiede alla Tunisia di fornire loro l’assistenza necessaria, compresa quella medica: nel gruppo ci sono anche bambini piccoli. Chiede anche di non espellerli dal paese “mentre il loro caso è all’esame del Comitato e di prevenire qualsiasi minaccia, atto di violenza o rappresaglia a cui potrebbero essere esposti in seguito alla presentazione della richiesta al Comitato”, in attesa della decisione definitiva sulla effettiva violazione delle convenzioni internazionali ratificate anche dalla Tunisia. Richieste che il governo di Saïed ignora: un gruppo di persone, minori inclusi, tornano a piedi verso Tunisi ma vengono arrestati e detenuti per circa una settimana e processati per ingresso irregolare nel paese. “Eppure ci sono famiglie e bambini piccoli, e vengono tutti dal Sudan, paese con un altissimo tasso di riconoscimento della protezione internazionale”, racconta Lucia Gennari, una delle avvocate che per Asgi sta seguendo il caso. “I ricorrenti sono registrati all’Unhcr in Tunisia come richiedenti asilo, e avevano con loro i tesserini: un dato quindi disponibile alle autorità tunisine”. Dopo il processo e la scarcerazione alcuni di loro, soprattutto gli uomini in viaggio da soli, vengono deportati in Algeria. Gli altri, comprese le famiglie con bambini, restano comunque nel limbo: bloccati in Tunisia, un paese che non li vuole, in attesa della decisione del Comitato delle Nazioni unite. Decisione che, tra l’altro, non arriverà prima di un anno, visto che la Tunisia ha tempo fino a novembre per mandare le proprie considerazioni rispetto al caso. “Bisogna accendere i riflettori e creare giurisprudenza anche sulla Tunisia alla luce delle politiche xenofobe portate avanti nel paese da oltre un anno”, aggiunge Gennari. “Poi lavoreremo con la società civile tunisina per la tutela dei diritti di queste persone: dal risarcimento del danno alla possibilità di richiesta specifica di protezione alle organizzazioni internazionali”. Le condanne, pubbliche e reiterate, anche da parte delle Nazioni unite “continuano a non influenzare i rapporti tra l’Italia, l’Europa e la Tunisia”, dice l’avvocata. Nel frattempo sono più di 4.700 le persone sbarcate sulle coste italiane ad aprile, nonostante il meteo prevalentemente avverso, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Dato che segna un calo di arrivi rispetto al mese precedente (6.857). Libia e Tunisia si confermano ancora una volta come principali paesi di partenza, ma proprio ad aprile il paese governato da Saïed è tornato a essere il primo paese di partenza per gli arrivi via mare in Italia dal settembre 2023, con il 73 per cento di tutti gli arrivi. “Sappiamo anche che chi viene intercettato in mare, magari grazie alle motovedette finanziate dall’Italia e l’Europa, viene mandato ai confini”, conclude Lucia Gennari. In Libia come in Algeria, paese comunque ostile, “dove restano in mezzo al nulla, nel deserto. Abbandonati totalmente, rimbalzati tra un paese e l’altro o ulteriormente respinti a sud verso il Niger”.