Le carceri italiane sono illegali, ma il governo pensa solo a creare nuovi reati di Antonella Soldo Il Domani, 5 giugno 2024 Gli istituti penitenziari, da sempre, forniscono la fotografia precisa dei problemi non risolti della nostra società. Lo scorso 2 giugno ci sono stati gli ultimi due suicidi, a Venezia e Cagliari. Davanti ai problemi strutturali di un intero sistema, dal sovraffollamento all’indifferenza generale, le proposte del governo definiscono un degrado istituzionale senza precedenti. Un uomo di 31 anni si è tolto la vita nel carcere Santa Maria Maggiore, a Venezia, lo scorso 2 giugno. Era romeno, si trovava in custodia cautelare, e proprio mentre lui decideva di legarsi un lenzuolo intorno al collo e togliersi la vita un altro uomo nel carcere di Cagliari faceva lo stesso. Portando così a 38 il numero di suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Un dato terribile da registrare proprio nel giorno della festa della Repubblica. Le carceri da sempre forniscono la fotografia precisa dei problemi non risolti della nostra società: la povertà, l’immigrazione, la tossicodipendenza. Chiunque si candidi a ricoprire un ruolo istituzionale dovrebbe frequentare questi luoghi per essere in grado di fare proposte concrete e mirate su come affrontare le questioni più rilevanti. Per questo venerdì scorso, da candidata alle elezioni europee e insieme ad alcuni esponenti di +Europa Venezia e radicali Venezia, ero stata a visitare la casa circondariale Santa Maria Maggiore. In questo istituto da poco c’è un nuovo direttore, Enrico Farina, che è al suo primo incarico e ha in mente tanti progetti legati soprattutto al lavoro. L’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario - quello che consente e promuove il lavoro dei detenuti dentro e fuori le strutture - però spesso si scontra con problemi banalissimi di logistica: per esempio quello della disponibilità di una cella in cui il detenuto che lavora all’esterno possa rientrare, rimanendo separato dal resto della popolazione detenuta, come previsto. Così la volontà e la determinazione dei singoli da sola si scontra con i problemi strutturali di un intero sistema. A Santa Maria Maggiore ci sono 260 detenuti compressi nello spazio che per legge potrebbe contenere al massimo 150. In celle di circa 12mq convivono 6 detenuti. Con letti a castello a 3 piani. Mentre guardo questi spazi fatiscenti penso che sono passati oltre 10 anni dalla cosiddetta “sentenza Torreggiani” con cui la Corte europea dei diritti umani condannava l’ltalia per le condizioni disumane di sovraffollamento e stabiliva il limite di 3mq di spazio per ogni detenuto sotto il quale non scendere. Le nostre carceri sono nell’illegalità. E l’incapacità istituzionale di gestire queste tragedie fa leva sulle strumentalizzazioni e sull’indifferenza di chi in fondo ritiene che i reclusi sono lì dentro perché “qualcosa avranno fatto”. Ma quando quel qualcosa riguarda la fragilità, la malattia, la povertà, il fatto di essere straniero o il fatto di avere problemi psichici o di tossicodipendenza, quando rinchiudiamo in condizioni disumane le questioni sociali che non riusciamo a risolvere, perdiamo tutti. Cosa fa il governo - Non c’è sicurezza senza legalità. Le proposte del governo di fronte a tutto questo definiscono un degrado istituzionale senza precedenti. Alla crisi del carcere rispondono solo con più carcere e nuovi reati: addirittura arrivando a immaginare il reato di “rivolta in carcere”. Un provvedimento che nelle premesse prende atto delle condizioni di sovraffollamento e carenza di servizi degli istituti penitenziari come causa di proteste in carcere, e che dispone quindi di far fronte a questa situazione con un nuovo reato che con pene fino a 8 anni per i detenuti che facciano anche resistenza passiva agli ordini impartiti. Ci sarebbe da sorridere, se non fosse che tutto questo causa una lunga scia di morti. Per questo le carceri sarebbe meglio che fossero riportate alla legalità. Più carcere e manganelli contro i tipi d’autore di Francesco Lo Piccolo vocididentro.it, 5 giugno 2024 Forgiare e reprimere come teorizzava la pedagogia nera; governare con la pena del carcere, tanto carcere; giudicare e condannare secondo il diritto penale del nemico e dunque orientato su tipologie d’autore (i poveri, i migranti, eccetera); non prevedere e non accettare alcun dissenso. In estrema sintesi è questo il punto di arrivo della politica italiana per quanto riguarda la giustizia. Parole e fatti lo svelano in tutta evidenza. Le parole, ed è solo un esempio, sono quelle pronunciate pochi giorni fa da Andrea Delmastro delle Vedove, sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega alla polizia penitenziaria e riferite alla protesta al Beccaria: “Non conosco le motivazioni più profonde della rivolta al Beccaria onestamente perché le stiamo ancora analizzando. È pur certo ed è pur vero che appena gli uomini e le donne della polizia penitenziaria hanno indossato il casco operativo la rivolta è cessata”. Parole chiare che alludono all’uso della forza e al prodigio del manganello, al carcere come esclusivo luogo di pena dove si tace e si obbedisce. Parole di chi non vuole ascoltare e tantomeno conoscere il perché di una protesta e più in generale i problemi degli istituti di pena. Gli atti sono l’istituzione del Gruppo di intervento operativo (GIO) per garantire ordine, sicurezza e disciplina a tutti i costi, ignorando che “l’ordine negli istituti penitenziari serve soprattutto a garantire la sicurezza che costituisce la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento dei detenuti e degli internati”. E negando la realtà delle carceri dove 61 mila persone vivono in spazi dove c’è posto per 50 mila, in condizioni vergognose, anche senza acqua corrente come fino a pochi mesi fa succedeva a Santa Maria Capua Vetere, abbandonate in celle umide abitate da topi e scarafaggi, senza alcun reale progetto, senza scuola, senza lavoro e senza futuro. E dove, 24 ore su 24, pochi medici intervengono con psicofarmaci a gogò e per tutti e la polizia penitenziaria - anche questa ridotta ai minimi termini, con turni anche di 18 ore di seguito, con gli straordinari neppure regolarmente pagati - è costretta a affrontare situazioni critiche, suicidi, risse, furti e aggressioni. Davvero sembrano passati secoli dai lavori della Commissione Ruotolo che proponeva “interventi necessari per il miglioramento della quotidianità penitenziaria”. In un passo dello studio, a proposito dell’uso della forza, è scritto: “L’uso della forza fisica non è consentito, se non nei soli limiti indicati nell’art. 41 della legge, e costituisce comunque l’ultima risorsa, da adoperarsi nella misura minima indispensabile e per il più breve tempo possibile”. E, ancora, gli atti sono nel disegno di legge n. 1660/C “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” in discussione presso la Camera dei Deputati e che è in continuazione con tanti altri atti di questo governo tutti finalizzati al controllo, al contenimento, alla coercizione e alla discriminazione. Un disegno di legge che consta di 29 articoli uno più ingiusto dell’altro e che mostrano un solo volto: quello della ferocia con cui si guarda l’altro, non più a cittadini con diritti, ma a persone considerate nemiche. Ecco perciò la carcerazione per le donne autrici di reato anche se madri o in stato di gravidanza per le quali non vale più il rinvio dell’arresto (Regole di Bangkok); ecco la pena del carcere anche fino a tre anni (in caso di recidiva) per le proteste politiche e civili con imbrattamento di “cose altrui” trasformate in atti vandalici “contro il decoro delle istituzioni”; ecco la protesta in carcere che diventa rivolta con un aumento di pena ulteriore in caso di violenza (anche lieve o lievissima) o per resistenza commessa nei confronti di un agente di polizia, anche se la resistenza è passiva, anche garantendo una sorta di immunità di funzione delle forze dell’ordine che così godrebbero di un privilegio giuridico in caso di lesioni subite durante le proteste. Articoli ingiusti e disumani in tutti i sensi come la pena a otto anni per il reato di evasione; o gli articoli a presidio della sicurezza urbana attraverso l’introduzione di due nuovi reati, uno contro l’occupazione del domicilio altrui e l’altro contro l’ostruzione delle strade (blocchi) chiaramente mirato contro le proteste politiche anche se pacifiche; per non parlare dei Daspo urbani e della revoca della cittadinanza italiana nei confronti degli stranieri che, dopo averla ottenuta, sono stati condannati e negando così il principio di uguaglianza tra cittadini. A proposito della protesta che viene equiparata a rivolta e la rivolta infine anche a terrorismo viene da pensare a Dossetti, Moro, Giolitti che nel 1946 volevano che la resistenza individuale e collettiva agli atti del potere pubblico che violano libertà e diritti finisse addirittura scritta e riconosciuta nella Costituzione. Davvero altri tempi e ben altri volti. Certo, allora si era usciti dalla guerra, adesso ci stiamo di nuovo entrando. Molti sonnambuli, molti incoscienti, molti assenti... per gli affari di pochi. In guerra contro vecchi e nuovi nemici, con il ricorso al solito capro espiatorio anticrisi che ricompatta e rimette ordine. Ordine e disciplina, forgiare e reprimere, dentro il carcere e fuori dal carcere. Ddl sicurezza, quegli emendamenti minano la Costituzione? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 giugno 2024 Il disegno di legge sulla Sicurezza comincia a suscitare preoccupazione per i numerosi emendamenti che rischiano di minare diritti e libertà fondamentali dei cittadini. Si tratta di un corposo pacchetto di oltre 300 emendamenti, presentato dai vari schieramenti. Tra le proposte più controverse spiccano quelle della Lega di Matteo Salvini, che puntano a introdurre il “reato di integralismo islamico”, con un albo nazionale per gli imam e un tracciamento dei finanziamenti alle moschee. Una proposta che potrebbe contrastare con l’articolo della Costituzione che garantisce la libertà di culto. Viene inoltre chiesta una stretta sui requisiti per il riconoscimento della cittadinanza a chi ha commesso reati da minorenne, misura che andrebbe a colpire la possibilità di recupero e reinserimento dei giovani. Non mancano poi proposte dall’impronta apertamente liberticida, come l’introduzione dell’arresto obbligatorio per chi indossa caschi o mezzi “per rendere difficoltoso il riconoscimento nelle manifestazioni in luogo pubblico”. Non manca la vecchia proposta riguardante l’introduzione della castrazione chimica per chi si è macchiato di violenza sessuale. Forte preoccupazione desta anche l’emendamento del governo per vietare la commercializzazione della cannabis light. Qualche giorno fa, in Aula, durante il question time con il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, il presidente di +Europa, Riccardo Magi, ha portato delle bustine di cannabis con il volto della presidente del Consiglio. In contemporanea, gli attivisti del suo stesso partito distribuivano all’esterno la porzione monodose ai passanti. “Eccellenza italica”, la scritta sulla bustina in plastica, evocava il rilancio del Made in Italy. Come se non bastasse, la Lega ha presentato un altro controverso emendamento. Parliamo di una proposta secondo cui non dovrebbero più essere i Pm a indagare sugli episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine, bensì l’Avvocatura dello Stato, organo della pubblica amministrazione che normalmente si occupa di difendere nei processi l’amministrazione statale. L’emendamento recita: “se non ravvisa la sussistenza del reato o la responsabilità dell’imputato chiude rapidamente il procedimento”. Il Pm potrebbe intervenire solamente nel caso siano necessari “atti urgenti, relativi alla prova di reato” per i quali “non è possibile rinvio”. Andando nello specifico, si tratterebbe di scongiurare il cosiddetto “atto dovuto” ed è la previsione che i procedimenti penali a carico degli operatori di polizia, quando vi è l’uso di armi o di strumenti di coazione fisica, siano gestiti direttamente dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello e, quando sussistono cause di esclusione della pena, possa essere prevista direttamente l’archiviazione del procedimento; questo sempre dopo che siano stati esperiti tutti gli accertamenti necessari e che nelle prime fasi l’Avvocatura si sia assunta la responsabilità di rappresentare l’amministrazione per gli eventuali accertamenti urgenti o di natura tecnica. Nel medesimo emendamento viene prevista anche l’introduzione della tutela legale con la previsione di due distinte ipotesi. La prima è che le spese legali per fatti di servizio siano corrisposte direttamente dall’amministrazione, mentre nella seconda ipotesi viene previsto un innalzamento dell’anticipo spese da 5 mila euro a 30 mila euro. Sulle barricate le opposizioni, che parlano di una misura “incostituzionale”. “Sì, perché - come denuncia il capogruppo AVS in commissione Affari costituzionali Filiberto Zaratti - creerebbe esclusivamente per gli agenti di polizia un canale privilegiato e, di fatto, si infrange contro il principio costituzionale dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”. Durante la conferenza stampa alla Camera, + Europa e la Società della Ragione hanno denunciato gli aspetti critici del ddl sicurezza. In particolare sono intervenuti i parlamentari Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova, insieme ai rappresentanti della lista “Stati Uniti d’Europa” e a Franco Corleone. Secondo +Europa, il testo è “per molti aspetti in evidente contrasto con la Costituzione” ed esprime “tutta la natura repressiva e reazionaria” dell’esecutivo, con misure volte a colpire le fasce più deboli della società. Il ddl, accusano, “inventa nuovi reati” concependo la sicurezza solo in termini di “proibizione e punizione”, tanto che persino Gandhi verrebbe condannato e incarcerato secondo le nuove norme. Una dura critica al ministro Nordio, reo di non opporsi a questo “aberrante e semplicemente inaccettabile” provvedimento. Siamo al rischio concreto di un disegno di legge che nelle intenzioni dovrebbe garantire più sicurezza, ma che rischia di comprimere pesantemente diritti, libertà individuali e introdurre privilegi in nome di una pretesa di ordine pubblico. Il ddl sicurezza accelera ora c’è anche la cannabis light nel mirino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 giugno 2024 Le associazioni Antigone e Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) hanno presentato un dossier ai parlamentari delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera per denunciare la deriva securitaria del provvedimento. Mentre la tragedia nelle carceri italiane resta invisibile ai più, il ddl sicurezza accelera in Parlamento, arricchendosi di nuovi emendamenti repressivi. Tra questi, uno targato Lega che equipara la cannabis light, con basso contenuto di Thc, a quella illegale. Un’ulteriore stretta che evidenzia il carattere punitivo del ddl, pronto a sferrare un altro colpo al fragile Stato di Diritto. Per comprendere le criticità, è utile rifarsi all’audizione scorsa del presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, che ha presentato il documento redatto con l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) ai parlamentari delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera. “È con misure di welfare comunale e di dialogo sociale, non criminalizzando le persone, che un governo dovrebbe agire di fronte a comportamenti che affondano le proprie radici nella disuguaglianza sociale ed economica”, è in sintesi il giudizio delle organizzazioni. “Il testo in discussione in Parlamento presenta un evidente contrasto con troppi principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento giuridico, in particolare nel campo del diritto penale, del diritto dell’immigrazione e del diritto penitenziario. Se questo provvedimento diverrà legge segnerà una deriva del sistema democratico verso un modello autoritario e repressivo nelle nostre comunità colpendo anche con intenti discriminatori, diverse situazioni di marginalità sociale”, si legge nel documento. “Le nuove disposizioni che il governo vorrebbe introdurre appaiono, infatti, impostate a una logica repressiva, securitaria e concentrazionaria: la sicurezza è declinata solo in termini di proibizioni e punizioni, ignorando che è prima di tutto sicurezza sociale, lavorativa, umana e dovrebbe essere finalizzata all’uguaglianza delle persone. Il disegno di legge del governo strumentalizza, invece, le paure delle persone e contravviene ai doveri di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione” proseguono Asgi e Antigone. Tra le disposizioni più criticate del ddl sicurezza spiccano quelle che riguardano le donne incinte e le proteste pacifiche in carcere. Viene cancellata la possibilità di rinvio della pena per le donne in stato di gravidanza. Una scelta che, come sottolineano le associazioni, appare come una repressione simbolica verso un gruppo sociale specifico, le donne rom. Il nuovo reato di rivolta carceraria equipara le proteste violente a quelle pacifiche. In pratica, chi si oppone in modo non violento agli ordini in carcere, nei centri di accoglienza o nei Cpr (ad esempio rifiutando di entrare in una cella sovraffollata) rischia fino a 8 anni di carcere, con regime di 4- bis (previsti inizialmente solo per terrorismo e mafia). Una misura che rischia di sovvertire il modello penitenziario italiano, riportandolo indietro al regolamento fascista del 1931. Infine, con il disegno di legge, “si favorisce - riporta il dossier di Asgi e Antigone - la proliferazione delle armi nelle strade e, più in generale, nei luoghi pubblici, consentendo a circa 300 mila persone appartenenti alle forze dell’ordine di usare un’altra arma, diversa da quella di servizio, mettendo a rischio la sicurezza delle persone, in una deriva del modello securitario che tenderebbe così ad assomigliare sempre più a quello statunitense. Più armi ci sono per le strade, più morti ammazzati ci saranno”. L’arma della sicurezza, governo senza limiti di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 5 giugno 2024 Il disegno di legge sulla sicurezza attualmente in discussione alla Camera, segna un radicale cambio di passo rispetto agli approcci securitari degli ultimi trent’anni. Se prima si puntava quasi esclusivamente al cosiddetto decoro e alla sicurezza urbana, col varo di un ampio ventaglio di provvedimenti amministrativi e legislativi rivolti alla repressione criminalità di strada e delle “inciviltà urbane”, adesso si punta alle libertà politiche. In particolare, ci sembra opportuno soffermarci su alcuni degli aspetti più significativi del provvedimento. Il punto di raccordo tra il vecchio e il nuovo securitarismo riguarda l’articolo 20 del Ddl, che amplia i poteri delle forze di polizia. I membri delle forze dell’ordine godranno della prerogativa di potere utilizzare, fuori servizio, le armi di cui dispongono a titolo personale. Un provvedimento che allarga a dismisura i poteri discrezionali delle forze di polizia, scavalcando le limitazioni poste dalla legge e le regole d’ingaggio. Essere membro delle forze dell’ordine conferirà la qualifica per valutare se una situazione sia turbativa dell’ordine pubblico e se è il caso di utilizzare le armi, rischiando di moltiplicare abusi e repressioni in modo esponenziale. Il Ddl si spinge oltre, introducendo l’articolo 634-bis, rivolto agli occupanti di immobili altrui, introducendo sanzioni penali da 2 a 7 anni di reclusione. Al di là dell’eccesso delle pene, che va in direzione delle scelte muscolari della compagine governativa, è palese l’intento da parte dell’esecutivo di prevenire ogni possibile conflitto in merito ai problemi relativi agli alloggi, agli spazi e alla gestione del territorio. La proprietà privata appare come un feticcio da tutelare a tutti i costi, contro chi pone la questione dei bisogni sociali, come gli alloggi, e di un uso condiviso degli spazi urbani. Il terzo punto riguarda le misure di contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata, attraverso l’articolo 270 ter e il comma 2 dell’articolo 435. Non si interviene sulla commissione effettiva di atti terroristici o mafiosi, bensì sul possesso, la distribuzione e la divulgazione di materiali che illustrano come preparare atti terroristici. Anche in questo caso, la discrezionalità appare ampia e pericolosa: si possono possedere certi materiali per motivi di studio, o averli ricevuti, per esempio, per strada, senza badare al contenuto. Sembra di trovarsi davanti ad una riedizione della teoria dei cattivi maestri degli anni 70, nella misura in cui la discussione e la circolazione di certe tematiche rappresentano un elemento predittivo delle cattive intenzioni individuali o collettive da parte di chi le porta avanti. Last but not least, sortisce preoccupazione l’introduzione del reato di rivolta penitenziaria, previsto dall’articolo 18. Un provvedimento che appare come il collettore delle altre misure previste dal decreto. Aumentano le tipologie di reato, le pene edittali, quindi anche il sovraffollamento. Carceri più invivibili, dovranno essere governate a mezzo della disciplina e diventare in misura maggiore luoghi di afflizione. Continuare ad opporsi, dopo che si è stati arrestati e condannati, viene letto dal governo come un grave atto di pervicacia, da punire anche nel caso in cui la resistenza sia passiva o individuale. Due secoli e mezzo dopo Thomas Paine, e il suo common sense, che raccomandava la ribellione contro istituzioni e leggi ingiuste, l’esecutivo ribalta le fondamenta della democrazia. Attraverso un provvedimento propagandistico, che riduce i diritti fondamentali a mero optional, il governo punta a legittimarsi tra i fautori di legge ed ordine, criminalizzando i comportamenti di ampie fasce di popolazioni, e creando le condizioni per l’inasprimento della conflittualità. Da parte nostra, continuiamo a pensare che Thomas Paine avesse ragione. +Europa: “con il ddl sicurezza finirebbe in galera pure Gandhi” di Angela Stella L’Unità, 5 giugno 2024 Il ddl sicurezza a firma dei Ministri Piantedosi, Nordio, Crosetto proposto al Parlamento dal Governo “meriterebbe tutto lo scandalo possibile in una democrazia fondata su un’idea liberale di giustizia. Non c’è nulla che possa far sperare ai cittadini di avere maggiore sicurezza”. Lo ha detto ieri Riccardo Magi, segretario di +Europa, in una conferenza stampa alla Camera, illustrando gli emendamenti al provvedimento insieme al deputato Benedetto della Vedova, ai candidati alle europee della lista Stati Uniti d’Europa e a Franco Corleone della Società della Ragione. Per +Europa il ddl, che “esprime tutta l’ispirazione repressiva e reazionaria del governo Meloni” è “un compendio di orrori giuridici: misure che definiamo ‘anti-Gandhi’, il quale oggi sarebbe punito pesantemente con il carcere. Perché nel testo si equiparano le proteste violente negli istituti di pena a quelle nonviolente”, con pene fino a 8 anni. “Una follia” il provvedimento contro la cannabis light, denuncia Magi, “Faremo un’opposizione parlamentare durissima, ma riteniamo che ci debba essere una mobilitazione fino ad arrivare, qualora vi fosse un’approvazione definitiva, ad affrontare la questione nei tribunali e alla Corte Costituzionale perché queste norme sono collegate da un evidente filo di incostituzionalità”. Al ddl “sono stati presentati circa 350 emendamenti e non c’è contingenza dei tempi per la discussione in quanto non si tratta di un decreto legge. Quindi faremo una discussione completa e approfondita e chiederemo a Forza Italia di esprimersi sul provvedimento: ogni giorno fanno professione di garantismo, tuttavia non può valere solo per chi ha un certo reddito o una certa posizione nella società ma anche per i detenuti e gli immigrati” “chiameremo in causa pure il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale chiamato appunto a garantire i diritti che vengono lesi da questa normativa, così come le Camere penali”. Benedetto Della Vedova ha attaccato il Guardasigilli: “Inutile fare proclami anche apprezzabili come quello liberale sulla separazione delle carriere e poi senza fiatare mettere la propria firma su decreti liberticidi: sono l’opposto del garantismo, norme manifesto che porteranno sono ad inasprimenti di pene, nuovi reati, diffusione di nuove armi. Faccia outing! Siamo passati dal garantismo al giustizialismo manettaro”. Antonella Soldo, candidata nel Nord-Est della lista Stati Uniti d’Europa, ha parlato di “degrado istituzionale” in riferimento alla battuta del ministro Lollobrigida sulla cannabis light (“Se te la devi fa ‘na canna, fattela bene, no?”, ndr), di cui il governo vuole vietare la coltivazione e il commercio. Le previsioni maggiormente contestate da +Europa riguardano: introduzione del nuovo reato (delitto) di rivolta all’interno di un istituto penitenziario che, tra le altre condotte punite, punisce con pena base da 2 a 8 anni di reclusione anche gli atti di resistenza passiva; autorizzazione agli agenti di pubblica sicurezza di portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio; rendere facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno; estensione del Daspo anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, per reati contro la persona o contro il patrimonio, nei cinque anni precedenti, estendendo quindi la misura anche a condanne o processi risalenti nel tempo; divieto di coltivazione e la vendita delle infiorescenze di Canapa indipendentemente dalla quantità di THC. Più Europa, oltre a una serie di emendamenti volti ad abrogare molte di queste misure introdotte dal ddl e dal Governo, ne ha presentati altri: introduzione dell’obbligo, per le forze dell’ordine impegnate in attività di ordine pubblico o di sicurezza dei cittadini di esporre codici identificativi alfanumerici, nonché di utilizzare bodycam installate sulla divisa; rendere lecita la coltivazione della cannabis contenente THC in misura non superiore allo 0,6 per cento. Manuela Zambrano, candidata Stati Uniti d’Europa nella circoscrizione Sud, ha parlato per la sua valenza simbolica, anche del caso di Maysoon Majidi, attivista iraniana per i diritti umani in fuga dall’Iran degli Ayatollah, attualmente in carcere a Castrovillari “con l’accusa paradossale di aver collaborato con gli scafisti che l’hanno condotta via mare in Italia insieme ad altri circa 80 compagni di viaggio: da una parte rischia pene altissime a causa del decreto Cutro, dall’altra la forma di protesta nonviolenta che ha messo in pratica alcuni giorni fa - uno sciopero della fame al quale si è unita anche la Zambrano - sarebbe un tipo di protesta che potrebbe essere sanzionato secondo la disciplina prevista dal nuovo delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario previsto dal ddl Sicurezza”. Meloni blinda Nordio sulla riforma e punta ai voti di Forza Italia di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 5 giugno 2024 Mentre Salvini sbanda a destra, la premier difende la separazione delle carriere e il sorteggio al Csm, parlando al cuore degli elettori azzurri. Solo qualche settimana fa, sulle colonne dei quotidiani e nei corridoi del Palazzo, abbondavano retroscena e rumors che volevano l’esperienza di Carlo Nordio a via Arenula già sul viale del tramonto, dopo nemmeno due anni. La deadline fissata dai bene informati sarebbe stato il post-Europee, nel quadro di un mini-rimpasto che avrebbe coinvolto anche altre caselle ritenute in bilico o sotto la spada di Damocle di un procedimento giudiziario, come nel caso di Daniela Santanchè. Alla base di queste indiscrezioni - era stato detto - vi era una presunta incompatibilità caratteriale e la mancanza di sintonia tra il guardasigilli e Palazzo Chigi su alcuni dossier, tra i quali la riforma dell’ordinamento giudiziario. Si disse che la premier non gradiva un - sempre presunto - eccessivo schiacciamento del ministro sulle posizioni di Forza Italia, che avrebbero potuto irritare l’elettorato della destra, storicamente poco permeabile a battaglie identificabili con quelle di Silvio Berlusconi. Si fece l’esempio del duro scontro del Cavaliere con “Giorgia”, ai tempi della formazione di questo governo, proprio sulla casella di ministro della Giustizia, per non concederla a un protegé di Berlusconi, come prova del fatto che la politica della giustizia sarebbe rimasta a distanza di sicurezza dalle istanze degli azzurri. A un certo punto, è stato ipotizzato anche il nome di un papabile alla successione di Nordio, nella persona del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ex-magistrato e quindi più adeguato a mantenere un filo di comunicazione con le toghe per una riforma “sostenibile”. Quando poi Nordio è entrato effettivamente in rotta di collisione con Palazzo Chigi sulla questione della commissione d’inchiesta sul dossieraggio, la maggior parte degli osservatori hanno pensato che si fosse veramente a fine corsa. Poi, circa due settimane fa, è arrivato da parte della premier l’annuncio della presentazione in Cdm del ddl costituzionale, nel corso di un’intervista pubblica, che qualcuno aveva letto come il pagamento di una cambiale firmata a suo tempo con Forza Italia, presentata all’incasso da Tajani e i suoi in campagna elettorale per pareggiare il premierato targato FdI e l’Autonomia differenziata, bandiera storica del Carroccio. Quello che molti non si aspettavano, e non era scontato, era che la presidente del Consiglio entrasse nel merito dei contenuti della riforma Nordio e ne difendesse i cardini punto per punto, in modo convinto, auspicando anche una maggioranza parlamentare più ampia del centrodestra che l’ha approvata in Consiglio dei ministri. Un’adesione totale e non di circostanza, dunque, che ha sgomberato il campo da ogni lettura “politicista”e ha riportato l’attenzione sulle ragioni profonde che rendono improcrastinabile la riforma, a partire dall’efficienza del sistema e dai benefici che ne deriverebbero per i cittadini. Ma soprattutto, la premier ha dato piena “copertura” a Nordio sui punti più controversi del testo, su cui l’Anm e parte dell’opposizione hanno già iniziato un’aspra operazione di contrasto, che si tradurrà verosimilmente e rispettivamente in scioperi nei tribunali e in ostruzionismo nelle camere. A partire dalla separazione delle carriere, col doppio Csm e il sorteggio secco, per la “stragrande maggioranza di magistrati che vogliono solamente fare bene il loro lavoro e non vogliono, per vedere riconosciuto il loro valore, dover aderire a una corrente politicizzata della magistratura”. “Io penso”, ha aggiunto la presidente del Consiglio, “che le correnti abbiano fatto molti danni alla credibilità della magistratura e noi interveniamo con una norma di buonsenso che serve a creare maggiore equilibrio tra difesa e accusa e a valorizzare la terzietà del giudice, e quindi è uno strumento di rafforzamento del ruolo dei magistrati”. In particolare, per la premier il sorteggio per i componenti del Csm “è il sistema che scardina il meccanismo delle correnti” e l’Alta corte ci vuole perché “a un grande potere corrisponde sempre una grande responsabilità e non c’è responsabilità più grande del potere di quello di decidere sulla vita delle persone, sulla libertà delle persone, ed è giusto che anche i magistrati, quando sbagliano, vengano sanzionati”. “Tutto rimane governato dalla magistratura”, ha aggiunto, “ma in un sistema che non è partitico ma veramente libero”. Una sintonia totale, dunque, che blinda Nordio per la legislatura, data la complessità dell’iter del provvedimento (compreso il referendum confermativo, non a caso evocato lunedì dalla premier). E che non guasta nemmeno in chiave Europee: con la Lega che è partita a tutta velocità sulla tangente di destra, su un terreno dove non è opportuno che l’inquilina di Palazzo Chigi si spinga (vedi l’episodio degli attacchi inconsulti al Capo dello Stato), dentro Fratelli d’Italia si bada anche a non lasciare del tutto appannaggio di Forza Italia il voto di opinione dei moderati di centrodestra, o di chi non si sente post-berlusconiano ma nemmeno renziano o calendiano. È arrivata davvero la riforma della giustizia? di Federico Tedeschini La Discussione, 5 giugno 2024 Dopo l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del Disegno di legge che sembra seguire - almeno in gran parte - le linee portanti della riforma più volte annunziata da Nordio in materia di giustizia, ci è toccato assistere ad uno spettacolo che sembra uscito dalla penna di Eugène Jonesco, noto creatore di quel “teatro dell’assurdo” che inondò il nostro secondo dopoguerra con tutta una serie di commedie caratterizzate dall’ abbondare di comportamenti non comunicanti fra di loro, ma tutti insieme uniti del comune denominatore di essere privi di senso comune. E veniamo all’oggi, dove la diatriba fra forze politiche, magistrati e giornalisti si è equamente distribuita fra due posizioni opposte e non conciliabili: secondo la prima in queste posizioni - attribuibile all’Associazione Nazionale Magistrati - la riforma avrebbe un intento punitivo verso i giudici, rei di costantemente insidiare, con le loro inchieste, la libertà della politica e dei colletti bianchi visti come un pericoloso insieme. Di questo intento, sarebbero manifestazioni evidenti sia la divisione delle carriere tra inquirenti e giudicanti, che la sottrazione della potestà disciplinare al Consiglio Superiore della Magistratura per affidarla - in nome della terzietà - ad un Giudice speciale sulla cui composizione ogni interlocutore ha fatto buona mostra di propugnare opzioni diverse da quelle appoggiate dargli altri. Secondo il Governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene, invece, questa riforma non sarebbe ispirata da alcun intento punitivo, ma semplicemente dalla necessità di razionalizzare il modello accusatorio adottato - per i processi penali - nel lontano 1989, adeguandolo finalmente agli schemi adottati dalla maggioranza degli altri Paesi europei ed extraeuropei che a quel modello si ispirano. Il Ministro, in particolare, ha chiarito in un’intervista come questa riforma eviterà il ripetersi di episodi gravi come quelli scaturiti dalla emissione di provvedimenti restrittivi senza controllare la correttezza delle trascrizioni allegate dal pubblico ministero, o - peggio ancora - quelle dei fascicoli virtuali o dei fascicoli clonati, appositamente creati dagli inquirenti per eludere la legge. Potrebbe a questo punto sembrare difficile cogliere l’iniziale richiamo al teatro di Jonesco, perché potrebbe semplicemente sembrare di essere in presenza di un episodio della normale dialettica fra Maggioranza e Opposizione: episodio comunque significativo, perché venutosi a porre nei confronti della proposta di un atto normativo primario talmente importante da avere addirittura riflessi sulle norme costituzionali che disciplinano - fin dal 1948 - la configurazione del potere giudiziario rispetto agli altri due poteri dello Stato: quello legislativo e quello di governo. Vorrei dire però che - mai come in questo caso - le apparenze ingannano, visto che è sorta una polemica al calor bianco fra Maggioranza, Opposizione e Magistratura senza che neanche fosse disponibile il testo del Disegno di legge che tanto scandalo ha suscitato fra le parti in commedia. Nel criticare, o nel sostenere, quello che è stato scritto, si è potuta anche avvertire scarsa attenzione verso ciò che è mancato, anche se magari verrà introdotto lungo il percorso dell’approvazione parlamentare: mi riferisco al superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale, che tutti gli addetti ai lavori sanno essere ormai ridotta ad un feticcio, ma alla quale i magistrati inquirenti dimostrano di essere particolarmente attaccati, perché è proprio lì che si esprime in modo più vistoso l’ampiezza smisurata del loro potere discrezionale. È bene però che io mi fermi qui, attendendo - come gli altri - di poter leggere finalmente il testo del disegno di legge che, almeno finora, nessuno ha potuto leggere effettivamente. Questo vuole anche dire che è stata aperta una polemica sul nulla, visto che tutti i litiganti dovrebbero ben sapere che basterà una virgola di troppo per cambiare il senso di quella riforma: esattamente come avveniva per gli oracoli della Sibilla cumana. Chissà se un redivivo Jonesco saprebbe trovarvi materiale per una nuova commedia, in cui i tre ipotetici protagonisti si accapiglino per il puro piacere di attirare, ciascuno, le maggiori simpatie del pubblico plaudente? Ogni richiamo alla prossima consultazione elettorale europea è, come ovvio, puramente casuale. La magistratura riformata secondo il nuovo Dl costituzionale di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno L’Opinione, 5 giugno 2024 Ab illo tempore ho sempre sentito da parte dell’opinione pubblica in generale e da parte della politica in particolare disquisire e discutere riguardo a come risolvere la questione della riforma dell’organo costituzionale della magistratura senza soluzione di continuità, perché in realtà nessun Esecutivo ha mai provato fattivamente a risolvere l’annoso problema. La situazione è rimasta così stagnante fino a quando l’attuale Governo, con il suo ministro della Giustizia Carlo Nordio, non ha osato agire concretamente presentando un Disegno di legge in cui, senza mezzi termini, si è proposta una modifica radicale dell’assetto dell’organo costituzionale più garantito (forse anche troppo in rapporto all’equilibrio fra tutti i poteri dello Stato) dai padri costituenti. Invero, a causa dell’esperienza storica alquanto negativa del ventennio fascista, la magistratura, nella stesura della Costituzione, fu particolarmente tutelata e forse anche resa estremamente autonoma nelle definizioni costituzionali dei poteri alla stessa attribuiti. Fintanto che la politica ricopriva un ruolo operativo fondamentale nell’esercizio delle sue funzioni, la sproporzionalità dei poteri e dell’autonomia della magistratura nell’esercizio del suo potere giudiziario, in rapporto al potere legislativo del Parlamento e del potere esecutivo del Governo, non emerse. Quando però il fenomeno di “Tangentopoli” ridimensionò la politica e i partiti che la rappresentavano, a quel punto la magistratura ricoprì quel vuoto di potere (molto spesso anche con un’eccesiva mania di protagonismo) che il penta-partito (Dc-Psi-Pri-Pli-Psdi) aveva lasciato con tutti i processi giudiziari che portarono a svariati arresti e anche suicidi di alcuni componenti della classe dirigente politica. Le indagini che venivano annunciate sui principali giornali nazionali, ancor prima che gli stessi indagati fossero informati tramite l’informazione di garanzia, furono sconcertanti. Un caso eclatante avvenne durante il G7 di Napoli del 1994, quando il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi venne a conoscenza di essere indagato da un articolo del Corriere della Sera mentre presiedeva il consesso internazionale, con tutto il conseguente disagio che determinò. Negli anni si sono succeduti eventi del genere, molto spesso prima dello svolgimento delle elezioni. Molte di queste indagini si sono risolte con l’archiviazione e molte imputazioni con l’assoluzione, ovviamente a distanza di anni (dati i tempi infiniti dei processi nostrani), con carriere politiche e vite e famiglie distrutte. Per non parlare degli errori divenuti poi orrori giudiziari che hanno letteralmente annientato psicologicamente e fisicamente imputati che in seguito sono stati riconosciuti innocenti e senza che i magistrati responsabili pagassero per ciò che avevano causato: un caso fra tutti fu quello del grande signore Enzo Tortora. Per tutti i succitati motivi e non solo, i diversi Governi succedutisi hanno sempre provato a compiere un’epocale riforma costituzionale della magistratura, ma per motivi di timori e di riverenza nei confronti della magistratura e di contrasti interni alla propria maggioranza ciascun Governo non è mai riuscito a realizzarla. Lo stesso Silvio Berlusconi, sia al Governo che dall’opposizione, provò più volte nell’impresa, ma il suo conflitto di interessi e le svariate indagini e imputazioni a suo carico trattenerono i suoi alleati nell’assecondarlo pienamente. Il Disegno di legge del Governo Meloni proposto dal ministro della Giustizia Nordio presenta dei cambiamenti storici da un punto di vista costituzionale e che, di seguito, cercherò di riassumere in modo efficace evidenziando in grassetto le diverse modifiche semantiche dei vari articoli della Carta costituzionale. La prima modifica riguarda l’articolo 87 della Costituzione, il quale stabilisce le attribuzioni del presidente della Repubblica e che secondo quanto stabilito all’articolo 1 del Disegno di legge costituzionale in oggetto cambierebbe nel modo di seguito riportato: “Il presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica”. Come si evince palesemente dalle modifiche evidenziate, con tale riforma ci sarebbe la tanto agognata divisione delle carriere in magistratura giudicante e magistratura requirente, con due rispettivi Consigli superiori della magistratura, ovviamente entrambi sempre presieduti dal presidente della Repubblica. L’altra modifica è prevista all’articolo 2 dello stesso Disegno di legge e riguarda l’articolo 102 della Costituzione, che regolamenta la funzione giurisdizionale: “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario, le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia”. Anche in questo caso si precisa ulteriormente la divisione binaria delle carriere dei magistrati. Mentre per quanto concerne l’articolo 104 della Costituzione, il quale regolamenta la magistratura, l’articolo 3 del Dl in oggetto, prevede una radicale modifica. Infatti, l’attuale testo è il seguente: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio. Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento. I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale”. Invece, diventerebbe così: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente. Il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente sono presieduti dal presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto, rispettivamente, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione. Gli altri componenti sono estratti a sorte, per un terzo, da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, e, per due terzi, rispettivamente, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge. Ciascun Consiglio elegge il proprio vicepresidente fra i componenti sorteggiati dall’elenco compilato dal Parlamento. I membri designati mediante sorteggio durano in carica quattro anni e non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale”. Da questo nuovo testo dell’articolo 104 della Costituzione si evince la creazione del nuovo metodo elettivo dei magistrati componenti i due nuovi Consigli superiori della magistratura (quello giudicante e quello requirente), ossia il metodo del sorteggio. Il suddetto metodo è proposto nell’intento da parte del legislatore di far garantire la massima imparzialità nell’elezione dei magistrati dei due nuovi futuri Csm. Invero, la modifica più “rivoluzionaria” di questa riforma riguarda quella presente nell’articolo 105 della Costituzione, che stabilisce le attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura, in cui, secondo quanto previsto dall’articolo 4 del Dl costituzionale, verrebbe creato un nuovo organo per esercitare la giurisdizione disciplinare riguardante tutti i magistrati e la relativa procedura elettiva dei rispettivi componenti. Quindi, l’attuale articolo 105 della Costituzione stabilisce: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Mentre il nuovo testo del suddetto articolo diventerebbe in questo modo: “Spettano a ciascun Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati. La giurisdizione disciplinare dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, è attribuita all’Alta Corte disciplinare. L’Alta Corte è composta da quindici giudici, tre dei quali nominati dal presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. L’Alta Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal presidente della Repubblica e quelli sorteggiati dall’elenco compilato dal Parlamento. I giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni. L’incarico non può essere rinnovato. L’ufficio di giudice dell’Alta Corte è incompatibile con quello di membro del Parlamento, del Parlamento europeo, di un consiglio regionale o del Governo, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge. Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata. La legge determina gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni, indica la composizione dei collegi, stabilisce le forme del procedimento disciplinare e le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte; e assicura che i maggiori giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio”. In realtà, il passaggio semantico “contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata” del suesposto articolo modificato appare decisamente nebuloso e troppo generico, in quanto non si comprende chi e come sarebbero nominati coloro che dovrebbero sostituire i componenti che hanno emesso il giudizio disciplinare impugnato. Altre modifiche stabilite dall’articolo 5 del Dl costituzionale, in cui si ribadisce la divisione binaria delle carriere dei magistrati, riguardano l’articolo 106 della Costituzione, il quale regolamenta la nomina dei magistrati e che attualmente ha il seguente testo: “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”. Il suddetto articolo costituzionale sarebbe modificato in questo modo: “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Su designazione del Consiglio superiore della magistratura giudicante possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche, magistrati appartenenti alla magistratura requirente con almeno quindici anni di esercizio delle funzioni nonché avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”. Mentre l’articolo 107 della Costituzione, che sancisce l’inamovibilità dei magistrati, sarebbe modificato dall’articolo 6 del Dl costituzionale nel seguente testo: “I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del rispettivo Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso. Il ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare. I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Inoltre, l’articolo 7 del dl costituzionale prevede che l’articolo 110 della Costituzione, il quale stabilisce le funzioni del ministro della Giustizia, cambierebbe nel seguente modo: “Ferme le competenze di ciascun Consiglio superiore della magistratura, spettano al ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Al postutto, all’articolo 8 del succitato Dl sono stabilite le disposizioni transitorie per il passaggio dagli attuali testi a quelli nuovi: “1) Le leggi sul Consiglio superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare sono adeguate alle disposizioni della presente legge costituzionale entro un anno dalla sua entrata in vigore. 2) Fino all’entrata in vigore delle leggi di cui al comma 1 continuano a osservarsi le norme vigenti”. Secondo quanto finora esposto, la suddetta riforma appare tanto complessa per i cambiamenti previsti quanto complicata nella sua legiferazione, non solo per l’iter legislativo che il suo rango di legge costituzionale impone, visto che le leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione, ma anche e soprattutto per le ostilità che incontrerà all’interno dello stesso Parlamento. Camere Penali, Petrelli: “Giustizia da riformare dalle basi, ci vuole coraggio” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 5 giugno 2024 Il buco nero dei tribunali, le toghe-pigliatutto, l’imbuto delle procedure che, affastellate a quintali, diventano macigni per l’intero sistema; da dove partire, per snellire davvero il meccanismo inceppato della giustizia italiana? Si fa largo l’opinione che il mantra dell’obbligatorietà dell’azione penale, causa ultima dell’ingranaggio bloccato, possa e debba essere rimosso. E se serve una riforma profonda e definitiva della giustizia, al di là degli intendimenti e delle promesse, varrà la pena aprire un dibattito serio su questo punto. Parla con Il Riformista Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane. Avvocato Francesco Petrelli, condivide il parere di chi indica la necessità di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale? “L’obbligatorietà è oggettivamente un feticcio perché le risorse sono limitate e anche se non lo fossero sarebbe irragionevole perseguire indistintamente ogni notizia di reato, tanto più in un contesto disfunzionale come il nostro caratterizzato da un panpenalismo dilagante. Il processo penale deve essere riservato a materie di particolare rilievo. Ma selezionare non significa necessariamente abrogare quel principio che può essere oggetto di una diversa e razionale modulazione”. Perché venne messa in Costituzione? E quei presupposti si possono considerare superati? “I padri costituenti si trovarono di fronte ad una opzione classica: da una parte l’obbligatorietà dell’azione penale collegata alla indipendenza della magistratura dal potere esecutivo (Calamandrei), dall’altra un sistema impostato sulla discrezionalità e sulla conseguente dipendenza della magistratura inquirente dall’esecutivo (Leone). La scelta come ricorda Feltri fu certamente condizionata dal fatto che si usciva da un ventennio di regime fascista, per cui l’opzione è caduta sul primo sistema anche quale garanzia di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e come tale l’obbligatorietà come principio ha indubbiamente un valore ancora attuale”. Ha senso agire in relazione a vicende del tutto prive di significatività criminale, prive di allarme sociale? “Occorre essere pragmatici: nessun ordinamento può permettersi un simile regime. Le risorse disponibili devono essere riservate ai processi più gravi, per cui si sono tentati dei possibili correttivi. Nel nostro sistema esiste da alcuni anni l’istituto della particolare tenuità del fatto che consente di modulare l’obbligatorietà dell’azione senza incidere sul principio. I fatti di minore rilevanza vengono archiviati, sia pure con il consueto controllo del giudice. Ma, anche a causa dei vistosi limiti dall’applicazione della legge, questo ovviamente non basta e il sistema continua ad essere in grave sofferenza e questo impone scelte più coraggiose”. La decisione su quali notizie di reato perseguire può serenamente essere demandata al pubblico ministero? “La modulazione del principio di obbligatorietà è operata di fatto da ogni procura in base a criteri di precedenza solo in parte normativizzati (si pensi al cd. codice rosso) ma trattandosi di una scelta di contenuto visibilmente politico il suo esercizio non può che essere attribuito al Parlamento, non potendo di certo essere demandato né all’arbitrio del singolo magistrato, né alle scelte incontrollate delle singole procure. Chi si oppone alla riforma lo fa su basi puramente ideologiche, perché sa che oggettivamente l’obbligatorietà non esiste e che il suo esercizio è di fatto appannaggio della magistratura, in contrasto con ogni principio di legalità proprio di uno stato di diritto”. L’indipendenza della magistratura viene comunque garantita? “La proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare depositata dall’UCPI nasceva proprio dall’esigenza di tenere insieme le garanzie di indipendenza e la funzionalità del sistema, modificando l’art. 112 della Costituzione senza sopprimerlo, prevedendo che l’azione penale resti obbligatoria ma solo “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. Il “ravvedimento” quale presupposto per l’ammissione dei collaboratori di giustizia ai benefici penitenziari di Valerio de Gioia latribuna.it, 5 giugno 2024 Con sentenza n. 22509 del 18 gennaio 2024-4 giugno 2024, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che la giurisprudenza di legittimità, chiamata a circoscrivere l’ambito della verifica demandata alla magistratura di sorveglianza in vista dell’ammissione dei collaboratori di giustizia ai benefici, ha costantemente ritenuto che l’istituto disciplinato dall’art. 16-nonies, D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella L. 15 marzo 1991, n. 64 non è applicabile in modo indiscriminatamente generalizzato, giacché l’esito positivo della relativa istanza presuppone l’espressione di un giudizio favorevole in ordine al ravvedimento del soggetto che si apre alla collaborazione con l’autorità giudiziaria, fondato sulla condotta complessiva del collaboratore di giustizia e sul convincimento che l’azione rieducativa svolta abbia avuto come risultato il compiuto ravvedimento, all’esito di una revisione critica della vita anteatta (Cass. pen., sez. I, 1° febbraio 2007, n. 9887; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., sez. I, 16 ottobre 2012, n. 43207; Cass. pen., sez. I, 14 gennaio 2009, n. 3422). Del resto, è stato ulteriormente notato, il requisito del “ravvedimento”, previsto dall’art. 16-nonies, comma 3, non può essere oggetto di una sorta di presunzione, formulabile sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e dell’assenza di persistenti collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ma richiede la presenza di distinti, specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di mera, ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza (Cass. pen., sez. I, 22 maggio 2018, n. 43256; Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2013, n. 48891; Cass. pen., sez. I, 27 ottobre 2009, n. 1115). In questo ambito valutativo, tra gli elementi che possono essere utilizzati ai fini della formulazione di un giudizio prognostico favorevole al collaboratore di giustizia, devono prendersi in esame “i rapporti con i familiari, con il personale giudiziario, nonché lo svolgimento di attività lavorativa o di studio onde verificare se c’è stata da parte del reo una revisione critica della sua vita anteatta e una reale ispirazione al suo riscatto morale” (Cass. pen., sez. I, 1° febbraio 2007, n. 9887, cit.). Ne discende che, ai fini dell’accertamento del presupposto del ravvedimento, si deve avere riguardo non solo agli esiti del trattamento penitenziario, ma anche alla complessiva condotta del soggetto, affinché entrambi questi indici possano fondare, sulla base di obiettivi parametri di riferimento, un giudizio prognostico sicuro riguardo al venir meno della pericolosità sociale dello stesso e alla effettiva capacità del suo ordinato reinserimento nel tessuto sociale (tra le altre, Cass. pen., sez. I, 17 luglio 2012, n. 34946; Cass. pen., sez. I, 4 febbraio 2009, n. 9001; Cass. pen., sez. I, 24 aprile 2007, n. 18022). In questo solco si inseriscono l’indirizzo ermeneutico che, in materia di concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, attesta la necessità di un vaglio ampio, che, pur all’interno di una cornice non segnata da canoni di ostatività, tenga conto cli tutti gli elementi rilevanti in vista della formulazione di un giudizio prognostico di ravvedimento sulla base di un completato percorso trattamentale di rieducazione e recupero idoneo a sostenere la previsione, in termini di certezza, di una conformazione al quadro ordinamentale e sociale a suo tempo violato (Cass. pen., sez. I, 14 gennaio 2020, n. 3312; Cass. pen., sez. I, 19 febbraio 2009, n. 10421), e quello, attinente alle coordinate generali dell’istituto previsto dall’art. 176 c.p., secondo cui “In tema di liberazione condizionale, il presupposto del “sicuro ravvedimento” non consiste semplicemente nella ordinaria buona condotta del condannato, necessaria per fruire dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, ma implica comportamenti positivi dai cui poter desumere l’abbandono delle scelte criminali, e tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato” (Cass. pen., sez. I, 25 settembre 2015, n. 486). A quest’ultimo proposito, occorre, nondimeno, segnalare come la giurisprudenza di legittimità abbia avuto modo di precisare, di recente, che “Ai fini della concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, ai sensi dell’art. art. 16-nonies, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 il giudice, nel valutare il sicuro ravvedimento dell’istante, deve tener conto di indici sintomatici del “sicuro ravvedimento”, quali l’ampiezza dell’arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa, di studio o sociali, successive alla collaborazione, non potendo assumere rilievo determinante la sola assenza di iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime dei reati commessi” (Cass. pen., sez. I, 20 aprile 2021, n. 17831). Risulta, per tale via, acclarato che “il mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, pur non assumendo valenza ostativa all’accoglimento dell’istanza, stante la deroga alle disposizioni ordinarie contenuta all’art. 16-novies della legge 15 gennaio 1991, n. 8, rileva, unitamente agli altri indici di valutazione, quali i rapporti con i familiari, il personale giudiziario e gli altri soggetti qualificati nonché il proficuo svolgimento di attività di lavoro o di studio, ai fini del giudizio sul ravvedimento del condannato” (Cass. pen., sez. I, 22 giugno 2020, n. 19854). Sentenza 96/2024: il rigetto della questione di costituzionalità come fonte del diritto di Claudio Cecchella* Il Dubbio, 5 giugno 2024 Riforma Cartabia, la decisione della Corte costituzionale, concretizzatasi in una sentenza di rigetto, pone in via interpretativa una norma nuova. La Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi sulla presunta illegittimità costituzionale del novello art. 171 bis c. p. c., che ha introdotto il potere/ dovere, per il giudice di primo grado, di compiere le c. d. verifiche preliminari, che si concretizzano essenzialmente nella verifica, prima dell’udienza di comparizione, della regolare instaurazione del contraddittorio e nella conseguente adozione dei necessari provvedimenti atti a sanare eventuali nullità della citazione o della notifica, nonché ad integrare il contraddittorio laddove se ne ravvisi la necessità, ha assunto una decisione che, per i suoi contenuti - sia consentito dire - propone nuove norme, in un vaglio negativo di costituzionalità. Con l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, il giudice veronese lamentava, da un lato, che l’art. 171 bis c. p. c. fosse il risultato di un eccesso di delega da parte del legislatore delegato, posto che la legge delega n. 206 del 2021 nulla prevedeva in ordine a specifici interventi del giudice istruttore anteriori alla prima udienza. Dall’altro lato - argomento ben più pregnante - che la medesima disposizione fosse in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.; con riguardo al primo, poiché l’art. 171 bis c. p. c. differenzia gli ambiti di intervento del giudice e la relativa disciplina. A mente del secondo periodo del primo comma di detto articolo, infatti il giudice può indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, questioni in relazione alle quali le parti possono interloquire nell’ambito delle successive memorie ex art. 171 ter c. p. c.. Il primo periodo del medesimo 1° comma, stabilisce il potere, per il giudice, di pronunciare, laddove occorra, i provvedimenti di cui agli artt. 102, 2° comma, 107, 164, 167, 171, 182, 269, 291 e 292 senza, però, consentire alle parti nessuna replica alla propria decisione, divenendo così statuizioni rese inaudita altera parte. La parte deve solo ottemperare, per non incorrere in sanzioni processuali, quali la estinzione. Così, per fare un esempio, se l’istruttore rileva la nullità dell’atto di citazione e ne ordina la rinnovazione in un termine perentorio, pena l’estinzione del processo, l’attore non ha alcuno spazio per contraddire, potendo egli, semplicemente, scegliere se ottemperare all’ordine del giudice ovvero subire la sanzione della estinzione, per mancata sanatoria del vizio. Da qui l’ingiustificata contrazione e lesione del diritto di difesa della parte, di cui all’art. 24 cost. La decisione della Corte costituzionale, concretizzatasi in una sentenza di rigetto, pone in via interpretativa una norma nuova. Al di là del contenuto - la cui ratio può anche essere condivisibile, avendo la Corte cercato di privilegiare la garanzia del contraddittorio pur nel rispetto dei principi di speditezza ed economica processuale - la decisione della Corte, a nostro avviso, si spinge ben oltre le funzioni che le sono proprie. Ovviamente non si tratta della prima esperienza. Il giudice delle leggi non dichiara incostituzionale l’art. 171 bis c. p. c., ma ne offre un’interpretazione che travalica i limiti della c. d. interpretazione costituzionalmente orientata per giungere, di fatto, a sancire nuove regole di diritto. La Corte fa leva, anzitutto, sul potere direzionale del giudice assegnato, in via generale, dall’art. 175 c. p. c.: in virtù di questo, nulla vieta al giudice istruttore di fissare apposita udienza, d’ufficio o su istanza di parte, per consentire alla parte di interloquire sui provvedimenti da assumere con il decreto ex art. 171 bis c. p. c. Se l’udienza non viene fissata (se il giudice non l’ha disposta ovvero se la parte l’ha chiesta e il giudice ha ritenuto di non fissarla) viene consentito alla parte di disattendere il provvedimento contenuto nel decreto ex art. 171 bis c. p. c., senza incorrere in sanzione, e predisporre le successive memorie ex art. 171 ter c. p. c. discutendo sulla legittimità del provvedimento; ugualmente alla prima udienza di comparizione. Viene, inoltre, specificato che se la parte aveva richiesto l’udienza e il giudice ha disatteso la richiesta, eventuali conseguenze pregiudizievoli non possono riverberarsi sulla parte (es. l’estinzione). In buona sostanza, la Corte costituzionale ha risolto la questione di fatto creando una norma nuova. Tanto più allarmante se si considera che, allo stato, è all’esame del Parlamento un decreto correttivo della riforma Cartabia in materia di processo civile. È quella, e solo quella, la sede ove il Parlamento - e non il giudice delle leggi - dovrà - e si auspica vorrà - intervenire sull’art. 171 bis c. p. c., se del caso riprendendo i principi espressi dalla sentenza della Corte costituzionale, e positivizzare regole certe di diritto. *Avvocato, Ordinario di diritto processuale civile dell’Università di Pisa Alle Sezioni Unite il rimedio impugnatorio contro la misura cautelare dopo l’assoluzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2024 Appello o riesame? La Prima sezione penale, ordinanza n. 21614/2024, ha rinviato la questione alle Sezioni unite dopo aver rilevato un contrasto. Saranno le Sezioni unite a decidere quale debba essere il rimedio impugnatorio - e cioè il riesame o l’appello - avverso l’ordinanza che dispone la custodia cautelare in carcere a seguito di una condanna in appello dopo che l’imputato era stato assolto in prima grado, con perdita di efficacia della prima misura cautelare. Lo ha deciso la Prima sezione penale, con l’ordinanza n. 21614/2024, dopo aver rilevato un contrasto interpretativo, sia dottrinale che giurisprudenziale. “L’esigenza del diradamento di ogni incertezza sul punto analizzato - scrive la Corte - risulta ancora più sentita per il fatto che la questione riguarda l’individuazione del corretto mezzo impugnatorio in materia incidente sulla libertà personale dell’imputato”. La questione di diritto, dunque, è riassumibile nel seguente quesito: “Se l’imputato - nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere che ha perso efficacia a causa del proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado - debba impugnare con l’istanza di riesame ovvero con l’appello cautelare l’ordinanza con la quale sia disposta la custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., emessa a seguito di successiva condanna pronunciata all’esito del giudizio di appello”. Il caso all’esame del Tribunale di Napoli - Nel novembre 2023, il Tribunale di Napoli ha dichiarato inammissibile l’impugnazione dell’imputato contro il provvedimento della Corte di assise di appello (di ottobre) che, in accoglimento della richiesta del Pm, gli aveva applicato la misura della custodia in carcere per omicidio e tentato omicidio, reati per i quali la stessa Corte, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, lo aveva condannato. L’atto con cui era stato introdotto il procedimento impugnatorio, seguiva ad analoga misura emessa dal Riesame (settembre 2021, in sede di appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.), misura che, però, aveva perso efficacia a seguito dell’assoluzione decisa da Gip del Tribunale di Napoli nell’ottobre 2022. Secondo il giudice cautelare, dunque, si trattava del ripristino di una precedente misura e non di un’ordinanza genetica, autonomamente applicativa di misura cautelare e dunque lo strumento per impugnare doveva essere l’appello, e non il riesame proponibile unicamente avverso ordinanze che applicamo per la prima volta la misura cautelare. Al contrario per il ricorrente era una “misura cautelare nuova, anche perché riguardava sempre l’ipotesi di omicidio volontario, “ma il titolo del concorso era stato individuato nell’art. 116 cod. pen.”; di conseguenza, il rimedio impugnatorio era il riesame. La decisione della Superma corte - E la differenza, ricorda la Cassazione, non è soltanto nominalistica. L’appello infatti deve, a pena di inammissibilità, indicare in modo specifico i punti del provvedimento di cui l’impugnante richiede il nuovo esame e deve precisarne le ragioni, pena il rilievo della sua genericità. La richiesta di riesame, invece, “non esige la necessaria articolazione in motivi dei profili di censura”. E il difetto di specificità dei motivi non comporta l’inammissibilità dell’impugnazione, considera “la natura interamente devolutiva del mezzo”. E se la maggior parte della giurisprudenza di legittimità è per l’appello - considerando “persistente il legame fra il provvedimento caducato e quello sopravvenuto” - un “meno frequentato” orientamento propende per ritenere la misura caducata, o comunque divenuta inefficace, come mai esistita, con la conseguenza che l’eventuale misura reiterativa è da assoggettarsi alla richiesta di riesame. Non solo, una parte della dottrina, con considerazioni di “non poco momento”, non ritiene che via sia una “differenza fra le situazioni di fatto” tale da giustificare la differenziazione di tutela impugnatoria fra l’imputato condannato in grado di appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, senza mai essere stato raggiunto da precedente titolo cautelare o dopo essere stato raggiunto da titolo cautelare, poi annullato o revocato nel corrispondente subprocedimento cautelare, da un lato, e l’imputato condannato in sede di appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, dopo essere stato prosciolto in precedenza con la conseguente dissoluzione del titolo cautelare che lo aveva raggiunto. E cioè la proposizione del riesame per il primo ambito e dell’appello per il secondo ambito. Saranno ora le SU a decidere. Calabria. Sanità penitenziaria, il Garante Muglia: occorre cambiare passo avveniredicalabria.it, 5 giugno 2024 Diverse le segnalazioni ricevute nei giorni scorsi dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia. Si tratta di una serie di emergenze in materia di sanità penitenziaria che richiedono interventi immediati. “Da alcuni mesi negli istituti penitenziari presenti in Calabria - ha affermato il Garante regionale - si stanno verificando svariati eventi critici riconducibili alla situazione della sanità penitenziaria. Il rafforzamento dell’area sanitaria e Sai della Casa circondariale di Catanzaro, nonché dei reparti di osservazione psichiatrica e Atsm, ha determinato la concentrazione a Siano di molti detenuti con pluripatologie ad elevato impatto assistenziale, provenienti anche dalle altre regioni”. Il punto sulla medicina penitenziaria nella regione - “L’innegabile potenziamento del modello di medicina penitenziaria attuato a Catanzaro, durante l’ultimo anno, non è stato tuttavia accompagnato da azioni altrettanto concrete ed efficaci negli altri territori. Tale squilibrio ha riguardato, in particolare, il servizio di psichiatria di cui allo stato dispongono solo pochi istituti penitenziari, in pratica due o tre sui dodici esistenti. Negli ultimi giorni, peraltro, anche la Casa di reclusione di Rossano è rimasta priva dello specialista psichiatra. Sebbene la stessa ospiti un numero elevato di detenuti che necessitano di tale figura. Al riguardo il mio Ufficio ha segnalato più volte le sofferenze riscontrate nelle aree sanitarie di quasi tutte le carceri calabresi. Indicando come caso paradigmatico quello di Vibo in cui, a fronte dell’assenza del servizio di psichiatria, il 30 % circa dei detenuti è in trattamento con psicofarmaci”. Le difficoltà della Polizia penitenziaria - “La contestuale carenza di medici specialisti e di polizia penitenziaria - ha precisato Muglia - genera due fenomeni allarmanti. Da un lato, il corpo di polizia penitenziaria si trova a fronteggiare urgenze medico-sanitarie o crisi di natura psichica, svolgendo compiti e mansioni che non gli appartengono. Dall’altro, i medici penitenziari si trovano ad esercitare le loro funzioni senza che vengano assicurate le condizioni minime di sicurezza. Mettendo a rischio l’incolumità personale. Operare in queste condizioni diventa difficile, se non impossibile. Le ricadute sono scontate. I nodi irrisolti sopra citati finiscono per aggravare la condizione dei detenuti. E contribuiscono all’incremento esponenziale di atti di autolesionismo. E tentativi di suicidio che, non a caso, nella nostra regione si sono moltiplicati a dismisura”. L’appello di Muglia per l’immediato - “È indubbio - ha concluso il Garante regionale - che il lavoro avviato dal nuovo dirigente del Dipartimento di tutela della salute, Francesco Lucia, risulta importante. L’Osservatorio permanente e il Tavolo sulla sanità penitenziaria, presieduti dallo stesso, hanno messo in campo un progetto di rimodulazione complessiva della medicina penitenziaria che produrrà certamente buoni frutti”. “Nel frattempo, però, necessitano interventi urgenti in grado di tamponare le emergenze ed una maggiore sensibilità da parte delle Aziende Sanitarie Provinciali territorialmente competenti. È indispensabile, nel contempo, che l’Amministrazione Penitenziaria garantisca una maggiore attenzione in termini di adeguamento degli organici di polizia penitenziaria e di sicurezza degli operatori sanitari. Occorre cambiare passo, in caso contrario il sistema rischia seriamente di implodere con gravi conseguenze sotto il profilo del diritto alla cura delle persone detenute”. Roma. Ieri a Regina Coeli il 39esimo suicidio dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane polpenuil.it, 5 giugno 2024 “Aveva da poco compiuto 31 anni, origini pakistane, in carcere da settembre scorso per rapina e lesioni e ancora in attesa di primo giudizio. Ha posto fine alla sua esistenza, e alle sofferenze, ieri sera verso le 23.00 impiccandosi nella sua cella del carcere romano di Regina Coeli, a nulla sono valsi i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari. È il 39esimo suicidio di un detenuto dall’inizio dell’anno, cui si aggiungono i 4 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che analogamente si sono tolti la vita. Non si attenua, dunque, la spirale di morte senza precedenti che investe il carcere nel sostanziale disinteresse della politica prevalente”. Lo dichiara Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Del resto il carcere capitolino di Regina Coeli, con circa 1.140 detenuti presenti a fronte di una capienza di 628 posti regolamentari e con poco più di 300 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria in servizio, quando ne servirebbero almeno il doppio, è l’emblema della disfunzionalità e della crisi del sistema carcerario italiano che, palesemente, invalida il percorso prioritario della giustizia penale”, aggiunge il segretario della Uil-Pa PP. “Di tutto questo però la politica, almeno quella prevalente e della maggioranza di governo, al di là di qualche dichiarazione di facciata, non sembra interessarsi compiutamente, così il tema penitenziario non trova spazio neppure nella campagna elettorale, salvo che dietro le sbarre non finisca proprio un politico o il ‘forti’ di turno. Sovraffollamento detentivo ormai giunto al 130%, penuria di organici della Polizia penitenziaria a cui mancano almeno 18mila unità e l’enorme problema dell’assistenza sanitaria e psichiatrica costituiscono un mix esplosivo. Perché, non va sottaciuto che, mentre nel Paese si dibatte, giustamente, delle vergognose liste d’attesa nella sanità, nelle carceri la situazione è ben peggiore e, troppo spesso, ciò che si attende è la morte, come dimostra il numero dei decessi che nel 2024 ammontano complessivamente a 91”, spiega ancora il sindacalista. “Lo ripetiamo, se non si vuole rischiare di sfondare ogni record nella conta dei morti in carcere, di carcere e per carcere, il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il Governo Meloni prendano atto dell’emergenza senza precedenti e varino un decreto-legge per consentire il deflazionamento della densità detentiva, assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria rafforzandone la formazione e il potenziamento della sanità inframuraria. Parallelamente, lo stesso Governo e il Parlamento avviino riforme strutturali e riorganizzative. Non c’è più tempo”, conclude De Fazio. Ravenna. Giovane suicida in carcere. Tanti ricoveri precedenti: “Mi chiedeva l’eutanasia” di Lorenzo Priviato Il Resto del Carlino, 5 giugno 2024 La testimonianza della madre al processo che vede imputato di omicidio colposo lo psichiatra del penitenziario che abbassò lo stato di rischio. Giuseppe molte volte aveva manifestato in famiglia propositi suicidari. E in ragione di ciò era in cura al Centro di salute mentale di Ravenna e più volte era stato ricoverato in Psichiatria. È questo l’aspetto principale emerso ieri durante la prima udienza del processo che vede imputato di omicidio colposo un 66enne psichiatra del carcere di Ravenna, in relazione al suicidio di un giovane detenuto, avendone abbassato il rischio suicidario da medio a lieve. Era il 16 settembre 2019 quando le guardie trovarono il 23enne Giuseppe Defilippo impiccato a un cappio rudimentale. Particolarmente toccante, davanti al giudice Michele Spina, è stata la testimonianza della madre, Elisabetta Corradino, parte civile con gli avvocati Marco Catalano e Marco Martines. La donna, che aveva fatto riaprire le indagini dopo un’iniziale richiesta di archiviazione, ha raccontato dell’infanzia difficile del figlio, segnato nel 2016 quando a una festa fu pestato da alcuni bulli per avere rifiutato loro una sigaretta. “Da lì non è stato più il mio Giuseppe”, ha detto, dettagliando le fasi di un’autentica discesa verso l’inferno, il tunnel della droga e continui gesti autolesivi con assunzione simultanea di alcol e antidepressivi. Tra i tanti episodi riferiti, in una circostanza il figlio arrivò al punto di chiedere alla madre di essere accompagnato in Svizzera per essere sottoposto a eutanasia, tanto era lo stato di malessere. In questo contesto i ricoveri in Psichiatria sarebbero stati diversi. L’ultimo, nel giugno 2019, pochi mesi prima del suicidio, durò appena due giorni e da esso uscì con un “codice verde”. A detta della specialista con la quale il giovane aveva avuto un paio di colloqui, sentita ieri come testimone, il codice verde non contempla rischio suicidario, che comunque “è un’incognita” per soggetti con dipendenza da sostanze. La stessa dottoressa del Centro di salute mentale, ad agosto, aveva chiesto un Accertamento sanitario obbligatorio dopo che il giovane, su segnalazione dei carabinieri, aveva palesato atteggiamenti aggressivi. Il giovane era poi finito in carcere per un’accusa di furto. Secondo la difesa dell’imputato - avvocati Guido Maffuccini e Delia Fornaro - la decisione di abbassare il rischio suicidario, proposta dallo psichiatra, fu formalmente assunta da una commissione di sei specialisti sulla base di un regolamento che prevedeva l’unanimità di giudizio. Tra questi, una psicologa sentita ieri e la cui testimonianza sarà attentamente soppesata dal giudice. La psicologa aveva visitato due volte in carcere Defilippo, dopo che una collega della Psichiatria l’aveva valutato a rischio medio. La prima volta lo aveva trovato “loquace”, per quanto preoccupato dalla carcerazione. Più cupo la seconda volta in quanto “si sentiva abbandonato”. Agli occhi della specialista non avrebbe comunque palesato rischi suicidari, né vi sarebbero state divergenze con le valutazioni del collega imputato, sebbene in precedenza, sentita a sommarie informazioni, avesse detto: “Lui era di parere diverso”. “Mi riferivo - ha precisato ieri - alla gestione del paziente”. Rieti. Tenta di uccidersi in carcere, detenuto salvato in extremis sabiniatv.it, 5 giugno 2024 “Ieri sera un tentativo gravissimo di suicidio da parte di un detenuto italiano, all’interno del bagno della stanza detentiva, la quale si era anche barricato facendo venire quasi vano il tentativo di salvarlo da parte dei compagni detenuti e della Polizia Penitenziaria intervenuta tempestivamente con l’apparato medico sanitario”. Ne dà notizia il segretario regionale Lazio Daniele Nicastrini. Attualmente il carcere di Rieti ospita oltre 500 detenuti su 295 posti disponibili, che lo pone sul podio dei più sovraffollati e conta una carenza di personale di circa 70 unità. “Quel che è accaduto purtroppo e la conseguenza di un sistema carcere alla deriva, dove non aiuta le situazioni più deboli e difficili di persone che dovrebbero avere la giusta attenzione, tuttavia anche nelle carenze estreme di personale, si è riusciti a portarlo al pronto soccorso anche se mi riferiscono che le condizioni sono molto gravi. Lamezia Terme. Il dramma dei suicidi in carcere: anche in città iniziativa della Camera penale lametino.it, 5 giugno 2024 “L’iniziativa di oggi è finalizzata alla sensibilizzazione di un problema che sta diventando enorme. Dall’inizio dell’anno siamo già a 38 suicidi, quindi il contatore dei suicidi aumenta in maniera incontrovertibile c’è una tendenza pazzesca su un problema che la politica purtroppo non vuole prendere di petto perché ce ne sono tanti drammi in Italia dai migranti alla questione carceraria e quant’altro e però non è che carcerati, detenuti debbano essere considerati la pattumiera”. Così, il presidente della Camera penale di Lamezia Terme, Renzo Andricciola. L’iniziativa fa parte di una “maratona oratoria”, che si tiene in questi giorni in tutta Italia alla quale hanno aderito 111 Camere penali in tutta Italia. “L’articolo 27 della Costituzione - ha aggiunto Andricciola - è chiaro sul punto reinserimento sociale, trattamento umano della pena e quindi proprio su questo noi intendiamo assolutissimamente sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica in primis perché la politica è sorda a queste problematiche”. Ma in Calabria com’è la situazione carceraria? “In Calabria c’è sempre comunque un problema di sovraffollamento su Catanzaro, sul Reggio, su Cosenza, insomma su tutti gli istituti penitenziari perché è un problema diffuso, è un problema nazionale rispetto ai 47mila posti per detenuti ce ne sono 60mila in tutti le carceri militari quindi capiamo bene che la problematica in Calabria non è esente, anzi in Calabria, come dire, è una delle regioni maggiormente colpita da questa problematica. Credo che il problema sia la costruzione delle carceri piuttosto che altre misure che il governo deve farsi carico di prendere in considerazione”. Manca dunque proprio quella che è la peculiarità che dovrebbe essere degli istituti di pena, cioè la rieducazione! “Assolutissimamente sì, il problema è a 360 gradi, questo non è solo un problema dei detenuti, è il problema degli agenti di polizia penitenziaria, è il problema di chi opera nelle carceri. Sono sotto organico anche loro, quindi non ci sono psicologi, non ci sono medici, non ci sono assistenti sociali, il personale di polizia penitenziaria e allora ecco abbiamo da una parte il sovraffollamento carcerario dall’altra parte abbiamo il sotto organico e quindi ecco è tutto un sistema che va rivisto altrimenti non se ne esce. Ora siamo a un suicidio ogni tre giorni rischiamo di arrivare a un suicidio ogni due giorni perché il carcere non si deve andare con l’idea che in carcere c’è solo il mafioso, quello che è abituato a fare il carcere. C’è gente debole, ci sono tossicodipendenti, ci sono malati psichiatrici, insomma c’è di tutto nelle carceri”. Alla manifestazione hanno preso parte anche Associazioni che operano nel sociale. E poi, il presidente del Consiglio comunale, Giancarlo Nicotera che ha parlato di “un tema particolare e importante; dovremmo chiarirci se il carcere, la detenzione va ad adempiere a quelli che sono i compiti della Costituzione, se ci restituiscono dei cittadini che possono essere reinseriti nella società. Non avviene così - ha aggiunto Nicotera - i dati dei sudici sono tantissimi e allarmanti; rispetto all’esterno i suicidi in carcere sono 18 volte in più di quelli che avvengono appunto in Italia all’esterno. In 32 anni si sono suicidati 1754 detenuti e i malati che sono morti poi in carcere, per malattie, overdose, omicidi sono altre 2912. In 32 anni quindi abbiamo avuto quasi cinquemila morti. Così come i suicidi fra gli agenti della Polizia penitenziaria. La domanda che oggi ci poniamo - ha concluso Nicotera - è che il carcere deve veramente essere utile per esperire la pena, ma anche utile affinché quando si esce dal carcere si possa essere cittadini integrati nella società”. All’iniziativa hanno presenziato tra gli altri anche, il presidente del Tribunale, Giovanni Garofalo, il deputato Domenico Furgiuele, don Giacomo Panizza della Progetto sud. Da tutti gli interventi l’appello accordato all’impegno da parte delle istituzioni per “risolvere il problema del sovraffollamento e per far sì che la detenzione non abbia solo risvolti punitivi, ma anche di reinserimento nella vita sociale”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Regali alla Garante dei detenuti: “Nessun patto di corruzione” Il Mattino, 5 giugno 2024 Lo ha stabilito il tribunale del Riesame, che ha annullato la contestazione di corruzione. Non c’era alcun patto corruttivo tra l’ex Garante dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore, e il recluso del carcere di Santa Maria Capua Vetere Mario Borrata, affinché questi avesse un trattamento di riguardo grazie alle attenzioni della garante e ai suoi buoni uffici presso la direzione dell’istituto. E anche i regali che la Belcuore ha ricevuto tramite la sorella di Borrata, Sara, proprietaria di un negozio di abbigliamento a Casal di Principe, non rappresentano il prezzo della corruzione, ma semplici doni dovuti alla relazione che la garante intratteneva con Borrata. Lo ha stabilito il tribunale del Riesame di Napoli, che ha annullato nei confronti di Mario e Sara Borrata la contestazione di corruzione contenuta nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Santa Maria Capua Vetere il 20 maggio scorso. Mario Borrata, già in cella per un omicidio di camorra, era stato colpito da misura carceraria, la sorella Sara era invece finita agli arresti domiciliari. Per entrambi però la misura nella sua interezza non è stata annullata, per cui restano le restrizioni alla libertà decise dal gip, essendo rimasto in piedi il reato di ricettazione di un telefonino che Borrata avrebbe usato in cella. I giudici del Riesame hanno accolto la tesi del difensore dei fratelli Borrata, Angelo Raucci, che ha dimostrato, tramite soprattutto comunicazioni telefoniche intercorse tra le parti, che le scarpe Gucci come i vestiti e i soldi regalati alla Belcuore - dimessasi dal ruolo di garante nel luglio 2023 - non fossero legati ai presunti favori che per la Procura di Santa Maria Capua Vetere l’ex garante avrebbe fatto a Borrata, ma si trattasse invece di regali d’amore. Firenze. Nordio: “Il carcere di Sollicciano è superato, cerchiamo nuovi spazi” di Stefano Brogioni La Nazione, 5 giugno 2024 “È una situazione che conosco da tempo. È un carcere nato con caratteristiche oggi superate. Le risorse per costruire carceri nuove non ci sono e se anche ci fossero costruire nuove carceri non ha l’immediatezza che il tempo richiede. Stiamo cercando, e lo abbiamo già fatto a Grosseto, di cercare spazi. Il sovraffollamento non lo risolvi mandando fuori i detenuti ma neanche tenendoli dentro in condizioni disumane. L’unica via di mezzo è trovare strutture, non necessariamente caserme, che in tempi brevi siano compatibili con le esigenze, e che abbiano anche spazi all’aperto per il lavoro e lo sport”. Così il ministro Carlo Nordio, ospite a una manifestazione di Fratelli d’Italia a Firenze. Torino. Torture in carcere, la prof accusa gli agenti. “Dicevano: questi non meritano la scuola gratis” di Giuseppe Legato La Stampa, 5 giugno 2024 Al processo per le presunte torture al Lorusso e Cutugno di Torino, un’insegnante racconta: “Li chiamavano merde, hanno cercato di bloccare una lezione”. Appare nel processo sulle presunte torture in carcere come terza testimone del giorno nel dibattimento con rito ordinario che si sta celebrando di fronte al collegio presieduto dal giudice Paolo Gallo: “Sono un insegnante di lettere del distaccamento del liceo artistico all’interno del carcere” racconta. Da 10 anni, insieme a un collega e a una dirigente scolastica ha fondato il corso per conseguire il diploma riservato ai detenuti del Padiglione C riservato ai cosiddetti sex offender cioè quelli che si sono macchiati di condotte sessuali penalmente rilevanti. Il pm Francesco Pelosi, titolare dell’inchiesta tra le prime in Italia a postulare questa ipotesi di reato, la incalza. A seguire partono le domande degli avvocati dei 22 agenti imputati. Ed è lì, quasi in coda alla testimonianza che la docente dice testualmente: “Una agente donna della polizia penitenziaria un giorno mi disse: “Queste merde sono qui per quello che sappiamo e gli danno anche la scuola gratis”. Il magistrato chiede di specificare a chi si riferisse la poliziotta: “Ai miei studenti” replica l’insegnante. “C’era in generale un clima di violenza verbale da parte della penitenziaria verso i detenuti”. E aggiunge. “Disse che riteneva che i detenuti non dovessero avere diritto alle lezioni e ai libri gratis. Diciamo che alcuni della penitenziaria vedevano male questa possibilità della scuola nel penitenziario”. Altro esempio: “Una mattina arrivo in carcere e un’altra agente donna mi attende nella sala destinata alle lezioni: “Oggi non si fa scuola - mi dice - quindi se ne può andare”. Chiedo spiegazioni, non me ne dà. Percorro in pochi minuti il tragitto dal Padiglione all’ufficio del direttore Minervini. Gli rappresento la cosa, lui i rassicura e gli alunni arrivano dai piani e frequentano la lezione. Dopo la segnalazione li avevano fatti scendere tutti”. La docente ha anche raccontato di come due detenuti (individuati dalla procura come parti offese e ammessi dal collegio alla costituzione di parte civile) avessero parlato delle violenze subite da alcuni degli agenti. “Uno in particolare sbottò davanti a tutti in classe: mi sembrò un fatto gravissimo, lo interruppi per fargli presente che aveva l’obbligo di rappresentare quanto accaduto alla garante dei detenuti e al suo avvocato”. All’uscita dall’udienza racconta di questa sfida - quella del liceo artistico per i detenuti sex offender - pensata e attuata ormai anni fa: “Sono in pensione, ma posso garantire che la scuola è ancora lo strumento più efficace per abbattere la recidiva che - tra chi frequentava le lezioni si abbassava dell’80%”. Cosa si faceva in aula: “Il programma di italiana del liceo: da dante a Petrarca, leggevamo le poesie, anche contemporanee mentre gli alunni ascoltavano un sottofondo musicale a occhi chiusi. C’era chi piangeva, chi rifletteva, chi ripensava alla sua vita e ha deciso di cambiarla”. Sull’atteggiamento di alcuni agenti della penitenziaria: “Ho solo voluto precisare alcune cose. Io lavoravo con uomini non con m….”. Torino. “Leggo Dante ai detenuti, così si ritrovano persone” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 5 giugno 2024 Ascoltata come testimone al processo sulle presunte torture in carcere, l’ex insegnante del Primo Liceo artistico, nella sezione carceraria, racconta la rieducazione dei sex offender: “Leggendo Dante, i detenuti si riscoprono persone”. La salvezza è anche in una terzina della Divina Commedia: “Leggevo Dante e il dolce stil novo a gente grossa e tatuata, che a vederli avresti girato l’angolo, eppure, se riuscivi a smontare quella corazza, sotto ritrovavi un uomo”, racconta Enrica P., per otto anni insegnante di letteratura italiana nella sezione carceraria del Primo Liceo artistico, all’interno del “Lorusso e Cutugno”. Da poco in pensione - “è stato davvero faticoso, ma bello” - riapre il baule della memoria in un’aula di tribunale, convocata come testimone nel processo per le presunte torture in carcere. E all’uscita, in corridoio, rispolvera gli episodi che si porta nel cuore e quelli che gli avevano fatto rabbia: “Perché la violenza non è solo fisica”. Il progetto - dedicato a detenuti per reati sessuali - era iniziato una decina di anni fa, e lei non ebbe dubbi, fin dal principio, dopo oltre un trentennio di cattedra: “Decisi di andare nella sezione carceraria, e fu una sfida, visto che sono rimasta a lungo l’unica di ruolo, mentre gli altri supplenti cambiavano ogni anno”. Va da sé, missione complicata, quasi sperimentale: “Volevo toccare con mano cosa fosse la rieducazione delle persone di cui si parla tanto, e dare un’altra opportunità, a partire da quella dell’istruzione”. Così, s’è trovata di fronte italiani e stranieri, laureati e analfabeti, cui trasmettere una passione, e non solo istruzione: “Una volta, mentre stavo leggendo una poesia, mi accorsi che un signore si era commosso, con qualche lacrima”. Il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione sotto mentite - e altrettanto nobili - spoglie: il XXIV canto del Purgatorio: “O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”“. Ovvero, “o fratello, ora capisco quale nodo ha trattenuto me, il Notaro (Giacomo da Lentini, e Guittone al di qua di questo “dolce stil novo” che sento!”; la nascita dello stile che seguiva “strettamente la dettatura di Amore”. C’era però anche il mondo intorno, il penitenziario, “nonostante noi abbiamo sempre preteso che in aula non si parlasse di quel che uno aveva fatto fuori, e nonostante non ci fossero agenti in classe”. Così, la realtà s’infilava tra poeti e disegni: “Una volta - racconta l’insegnante, sulle domande del pubblico ministero Francesco Pelosi - un detenuto disse che era stato vittima di violenze, e che ce n’erano state in generale da parte del personale della polizia penitenziaria, ma non fece nomi”. Lei tagliò corto: “Gli spiegai che doveva dirlo all’avvocato e al garante dei detenuti”. Un altro episodio di violenza lo apprese ascoltando “un discorso tra alcuni studenti”. E poi c’erano le frasi di disprezzo, attribuite ad alcune guardie: “Queste m. hanno anche la scuola gratis”, riferendosi ai detenuti. Peggio: “Una mattina mi ritrovai un agente davanti alla classe: “Oggi non c’è lezione, se ne può andare”, affermò. Andai dal direttore, riferendo il problema, e dopo un attimo tutto si risolse. Ma fu un periodo molto faticoso”. Altre domande si aggiungono, tra l’avvocato Domenico Peila (legale di parte civile, il famigliare di un detenuto) e i colleghi Antonio Genovese e Beatrice Rinaudo, difensori di agenti e ispettori. Una volta fuori dall’aula, l’ex professoressa tira un sospiro: “La violenza si fa anche con comportamenti e parole”. Per questo, “un corso di letteratura e qualche poesia farebbe bene ad alcuni agenti”. Pure con meno ambizioni del principe Myskin di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. Almeno qualche anima: “In tutti questi anni, fu mandato via un solo studente. Molto altri, alla fine, erano felici e ci ringraziavano: la verità è che dentro alle carceri, e tra le persone, si parla sempre e solo di pena e mai di rieducazione”. Venezia. Addio a don Biancotto, il cappellano del carcere. Una speranza per i detenuti di Maria Paola Scaramuzza Corriere del Veneto, 5 giugno 2024 Una vita spesa per i bisogni dei fedeli nelle parrocchie che ha guidato, il ruolo quasi trentennale di cappellano del carcere maschile di Venezia, fino alla più recente cura pastorale nella casa di reclusione femminile alla Giudecca. Poco dopo la mezzanotte di lunedì è morto don Antonio Biancotto, sacerdote diocesano 66enne, originario della parrocchia di San Magno a Portegrandi (Quarto d’Altino). Era ricoverato all’ospedale civile di Venezia. Lo ha portato via un tumore che non ha spento, fino alla fine, l’umiltà e positività per cui la comunità veneziana lo ricorda. “C’è qualcosa da condividere anche nei momenti più drammatici, c’è la verità della nostra condizione da riconoscere e raccontare. E c’è la luce anche quando a molti sembra che stia per iniziare la notte”, aveva detto poche settimane fa dal capezzale al periodico diocesano Gente veneta. “Fino a qualche giorno fa lo sono andato a trovare - racconta il direttore del carcere di Santa Maria Maggiore, Enrico Farina Era consapevole di assumere cure palliative eppure mi parlava di quanto credesse nella prospettiva di inserimento lavorativo dei detenuti in un percorso comunitario”. Grazie a lui i reclusi hanno potuto incontrare Papa Francesco in visita il 28 aprile al padiglione della Santa Sede alla Giudecca. “Di lui rimangono sensibilità, umiltà e silenzio. La semplicità che riusciva a manifestare senza ostentazione - ricorda commosso il garante comunale dei detenuti, Marco Foffano - Al carcere femminile era emersa la necessità di una cucina per le donne in semilibertà. Lui si era subito attivato, il bonifico è arrivato questa mattina (ieri, ndr)”. Tra le esperienze pastorali anche l’evangelizzazione di strada. “Andava a Rialto, in alcune notti affollate dai tour alcolici, ma anche con un piccolo gruppo di evangelizzatori per aiutare le persone vittime della tratta e prostituzione nelle strade di Marghera”, aggiunge l’assessore Simone Venturini alla Coesione sociale. Ad ogni latitudine, passaggi musicali e storie dal carcere di Gianluca Diana Il Manifesto, 5 giugno 2024 L’interessante progetto dei Behind Bars Collective dal titolo “Break Free”. Il rapporto tra musica e storie dal carcere è di lunga data e rintracciabile ad ogni latitudine possibile. Anche dalle nostre parti vi sono esempi illuminanti in tale senso, ai quali oggi se ne aggiunge uno di valore. Muovendosi lungo le rotte del blues rock, il trio composto da musicisti di lungo corso già in progetti come Santamuerte e Dirty Trainload, ha dato vita a laboratori musicali destinati ai detenuti rinchiusi all’interno della casa circondariale di Trani. Il disco è composto da dodici brani che si contraddistinguono con suoni sporchi e slabbrati, che sovente sconfinano in ambito garage. Tra i passaggi migliori troviamo il tempo medio di Fish In The Jailhouse e il recupero di My Home Is A Prison, una traccia poco nota del leggendario Slim Harpo qui elaborata come slow in versione Chicago Blues. Notevole è la riproposizione serrata di Ward 81 scritta dai Fuzztones, melanconica e capace di generare orizzonti sonori è C’Est La Vie, significative sono Turn Off e Mother che rappresentano il vertice del disco. Utile e ben realizzata è la scelta multimediale che prevede la disponibilità del video documentario Rock Oltre Le Sbarre e la graphic novel omonima dell’album disegnata da Zerocalcare. Un graphic novel ricostruisce la storia di Julian Assange arte.sky.it, 5 giugno 2024 Rappresentazione fedele delle complesse vicende di WikiLeaks e del suo fondatore, il libro a fumetti “Julian Assange” svela la complessità di un uomo che ha cambiato il modo in cui vediamo la libertà d’informazione e la trasparenza globale. Da quasi quindici anni, il giornalista Julian Assange è diventato il simbolo della libertà di informazione. La sua storia è raccontata da un graphic novel, scritto da Dario Morgante e illustrato da Gianluca Costantini, che segue le tracce dell’attivista australiano dalla sua ascesa come figura chiave nella comunità hacker, con la fondazione di WikiLeaks, fino al 2010, quando la divulgazione di un video che documentava l’uccisione di civili iracheni da parte dell’esercito statunitense lo ha proiettato sotto i riflettori internazionali. Dopo la prima edizione italiana, risalente a ben tredici anni fa, Julian Assange - WikiLeaks e la sfida per la libertà d’informazione (nell’immagine in apertura un dettaglio della copertina) torna in libreria in una nuova edizione aggiornata a cura di Altreconomia. Detenuto da oltre cinque anni nella Belmarsh Prison di Londra, nel Regno Unito, Julian Assange è in attesa di estradizione negli Stati Uniti, dove è accusato di aver reso pubblici 75mila documenti segreti, violando una legge sullo spionaggio risalente al 1917, che potrebbe comportare una condanna fino a 175 anni di carcere. Il graphic novel ripercorre le principali tappe della sua storia, evidenziando con precisione tutte le implicazioni legali e politiche del caso. Grazie allo stile minimalista delle tavole di Costantini e ai testi asciutti e scorrevoli di Morgante, il racconto si dipana velocemente attraverso tre decenni, durante i quali il giornalista australiano ha maturato una crescente consapevolezza riguardo al proprio ruolo nella moderna società digitale, arrivando a sfidare governi e apparati militari in nome della trasparenza e della libertà d’informazione. Arricchito dai preziosi contributi di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia e autore della prefazione, e di Sheila Newman, attivista e hacker, che ha curato l’aggiornamento dell’opera per tenere conto degli ultimi sviluppi della vicenda di Assange, il volume si addentra nella vita e nelle sfide affrontate dal fondatore di WikiLeaks, approfondendo il significato più ampio della sua battaglia. Realizzata con il patrocinio di Amnesty International Italia, il graphic novel Julian Assange torna ad alimentare un dibattito che va oltre il singolo individuo, toccando temi universali come la libertà di stampa e il diritto all’informazione. I diritti del lavoro sono diritti umani di Adalberto Perulli Corriere del Veneto, 5 giugno 2024 Ma quanto questi diritti umani sono rispettati? Pensiamo alla disoccupazione: la consideriamo un problema sociale ed economico, dipendente dall’andamento del mercato del lavoro, e ne valutiamo l’entità in termini percentuali. Ma in tal modo dimentichiamo che l’occupazione è un diritto umano che deve essere rispettato come richiede la Dichiarazione Universale secondo la quale “ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”. Oggi parliamo di salario minimo e discutiamo sull’opportunità di introdurre una garanzia di legge, ma non consideriamo che la sua mancata adozione viola la Dichiarazione universale, secondo la quale “ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”. Quando ci indigniamo perché un lavoratore muore nei luoghi di lavoro non è stata violata solo una normativa antinfortunistica, ma un diritto che rispecchia ciò che di più “sacro” vi è nell’essere umano (Simone Weil). Questi diritti che la nostra Costituzione definisce “inviolabili” (art 2) finiscono per essere disattesi perché, nel bilanciamento tra i valori, l’interesse economico prevale su quello sociale e ambientale. Eppure, il paradigma dello sviluppo sostenibile afferma la pari dignità delle sfere economica, sociale e ambientale, nella ricerca di un equilibrio necessario se si vuole riconoscere alla persona che lavora la propria specificità umana, il suo essere degno di riconoscimento. Quando si parla di diritti umani non si tratta solo di evocare una “responsabilità sociale” affidata alla benevolenza di imprenditori illuminati, ma di diritti positivi, garantiti dai sistemi giuridici e sanzionati in caso di inosservanza. Pensiamo, ad esempio, alla possibilità di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la tutela giurisdizionale di alcuni diritti sociali, ma anche all’impiego di strumenti nuovi, come la due diligence, oggetto di una direttiva europea che impone all’impresa un “dovere di vigilanza” verso fornitori e subfornitori, anche se operanti in stati diversi. I diritti collettivi come il diritto di associazione sindacale e di contrattazione collettiva sono anch’essi, ai sensi della Dichiarazione universale, diritti umani. Grazie alla contrattazione collettiva i lavoratori possono acquisire nuove garanzie e diritti, senza negare spazio all’individualizzazione dei rapporti di lavoro, che può contribuire a valorizzare le diversità e a favorire il benessere complessivo della persona del lavoratore. In questa fase storica così delicata, con conflitti e tensioni internazionali che scompaginano il vecchio ordine globale, dobbiamo riscoprire lo storico legame tra pace e giustizia sociale sancito a Versailles nel 1919. Su quella base l’Unione europea dovrebbe impegnarsi in un’azione paragonabile a quella che ha ispirato il modello sociale europeo ai tempi di Jaques Delors. Chi vuole proteggere i diritti umani del lavoro (e i diritti umani in genere) non può che essere un convinto europeista, perché con tutti i suoi limiti e contraddizioni, l’Europa è l’unica forza politica sovranazionale in grado di sostenere i diritti umani sia al suo interno, con politiche sociali più avanzate rispetto al resto del mondo, sia nelle relazioni esterne, con azioni di condizionamento sociale nelle relazioni commerciali internazionali. Migranti. Meloni: “Sul decreto flussi numeri anomali” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 5 giugno 2024 Esposto della premier in Procura antimafia: “Nel 2023, troppe domande di stranieri rispetto ai datori di lavoro, soprattutto in Campania”. Presto una stretta normativa in Cdm. Scettico il Pd. Mezz’ora di incontro, negli uffici romani della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Tanto è durato il vis-à-vis fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il procuratore nazionale Giovanni Melillo, al quale la premier ha consegnato “un esposto” sui dati di ingresso in Italia “di lavoratori stranieri avvenuti negli ultimi anni, avvalendosi dei cosiddetti Decreti flussi”. In via Giulia, Meloni si è recata alle undici di mattina, accompagnata dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano per rappresentare - ha spiegato lei stessa in una informativa in Consiglio dei ministri - il sospetto che “i flussi regolari di immigrati per ragioni di lavoro vengano utilizzati come canale ulteriore di immigrazione irregolare”. L’intenzione della premier è di contribuire a fermare, attraverso l’esposto in Dna (Direzione nazionale antimafia), e a correggere, con una stretta normativa, “un meccanismo di frode e aggiramento delle dinamiche di ingresso regolare, con la pesante interferenza del crimine organizzato”, sul modello di interventi già adottati “per il superbonus edilizio e per il reddito di cittadinanza”. “Troppe domande rispetto ai datori di lavoro” - La tesi sostenuta dalla premier si basa sui “dati allarmanti” emersi dal monitoraggio. Da alcune Regioni, ha spiegato Meloni ai ministri, “abbiamo registrato un numero di domande di nulla osta al lavoro per extracomunitari, durante il click day, totalmente sproporzionato rispetto al numero dei potenziali datori di lavoro, singoli o imprese”. Il caso Campania - Dati alla mano, “nel 2023, sui permessi per lavoro stagionale in campo agricolo o turistico-alberghiero, su 282mila domande, 157mila arrivano dalla Campania, mentre 20mila arrivano dalla Puglia”. Numeri che, secondo il ragionamento meloniano, cozzano contro un’evidenza: nel settore agricolo, la Puglia ha circa il 12% delle imprese agricole italiane e la Campania solo il 6%”. Inoltre, ancor “più preoccupante” viene definito dalla premier un altro fatto: “A fronte del numero esorbitante di domande di nulla osta, solo una percentuale minima degli stranieri che hanno ottenuto il visto per ragioni di lavoro in base al Decreto flussi ha poi effettivamente sottoscritto un contratto di lavoro”. Un fatto peraltro segnalato da tempo a livello nazionale - come sanno i lettori di Avvenire - nel dossier Ero Straniero, che ne attribuisce la ragione a lentezze burocratiche ministeriali nell’esame delle domande. Sia come sia, in Campania quel dato nel 2023 risulta inferiore al 3%, ma lo scarto - annota ancora Meloni - “accomuna, anche se con numeri meno spaventosi, molte regioni italiane”. Una situazione che a Napoli, da quanto filtra dalla procura guidata da Nicola Gratteri, è già monitorata con attenzione. Il doppio binario: inchieste e nuove norme - La linea d’azione valutata dalla premier è quella del doppio binario: “Se, come immagino, da una parte l’autorità giudiziaria aprirà una o più indagini in base agli elementi forniti e farà seguire la necessaria opera di accertamento per il passato - argomenta Meloni -, dall’altro lato le soluzioni per fermare questo meccanismo in futuro competono al governo”. In altre parole, lo stesso gruppo tecnico di lavoro che ha tirato fuori i dati (coordinato dalla Presidenza del Consiglio e a cui partecipano i ministeri di Interno, Esteri, Lavoro, Agricoltura e Turismo) “ha ipotizzato delle iniziative da intraprendere, sia di ordine legislativo, sia di ordine amministrativo”. “Entrerà solo chi ha un contratto” - Meloni riferisce di aver fatto effettuare “una ricognizione solo sui due decreti flussi varati da noi, ma è ragionevole ritenere che le stesse degenerazioni si trascinassero da anni e mi stupisce che nessuno se ne sia reso conto”. Il governo dunque modificherà “i tratti operativi che hanno portato a queste storture, nel rispetto del principio della legge Bossi Fini”. In che modo? Con l’ennesimo giro di vite, che potrebbe essere varato con un “articolato” ampio nel primo Consiglio dei ministri utile dopo il G7. Verrà consentito, annuncia Meloni, “l’ingresso in Italia solo a chi è titolare di un contratto di lavoro”. Il Pd: no a speculazioni, l’Antimafia approfondisca - L’iniziativa della premier viene accolta con scetticismo dalle opposizioni, col Pd pronto a chiedere che la Commissione parlamentare antimafia “faccia chiarezza”, evitando “rischi di speculazioni” e iniziando con un’audizione del procuratore Melillo. Scontro sul calo degli arrivi - In Cdm, la premier ha anche esposto i dati relativi agli sbarchi, evidenziando per l’anno in corso l’abbattimento “del 60%” degli arrivi illegali rispetto allo stesso periodo del 2023, grazie alla collaborazione “con Tunisia e Libia”. Ma anche su questo, il responsabile sicurezza del Pd Matteo Mauri avanza obiezioni: “Peccato che la premier si dimentichi di dire che i dati dei primi cinque mesi del 2024 (con 21.574 arrivi) sono più alti di quelli (20.154) dello stesso periodo del 2022, quando lei era all’opposizione e al governo c’erano Draghi e Lamorgese”. Migranti. Meloni ha deciso: la legge Bossi-Fini deve cambiare, “il sistema è fallito” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 5 giugno 2024 Da fonti del governo emerge che i decreti flussi sono una forma surrettizia di ingresso illegale di migliaia e migliaia di migranti. Giorgia Meloni ha deciso, la legge Bossi-Fini che regola l’ingresso in Italia dei migranti regolari deve cambiare. La premier ha tenuto una informativa in Consiglio dei ministri e nella prima riunione dopo il G7 il governo passerà dalle parole al testo di legge. Mettere mano alle norme è da tempo un chiodo fisso del sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano e non a caso è stato proprio lui martedì mattina ad accompagnare la premier dal procuratore nazionale Giovanni Melillo, che guida la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Mezz’ora di confronto per fare il punto sulle “storture” evidenziate studiando i dati degli ultimi due decreti flussi, varati dal governo Meloni il nel dicembre 2022 e nel settembre 2023. Da quel che trapela la premier e Mantovano hanno presentato un esposto. Da settimane una commissione tecnica dei ministeri dell’Interno, degli Esteri, del Lavoro e del Turismo, coordinata dagli uffici di Mantovano, valuta i numeri dei visti rilasciati dalle ambasciate, dei nulla osta e dei contratti di lavoro e a quanto raccontano fonti di governo quel che viene fuori è che “i decreti flussi sono una forma surrettizia di ingresso illegale di migliaia e migliaia di migranti. Un dato per tutti. In Campania, su 100 persone che entrano con regolare visto grazie alla Bossi-Fini, gli assunti con un contratto regolare sarebbero solo il 2,8%. Il restante 97,2% di lavoratori, soprattutto stagionali, esce invece dai radar e di loro “non si sa più nulla”. La deduzione di Giorgia Meloni è che “il sistema è fallito” ed è urgente correre ai ripari, anche perché la criminalità organizzata starebbe approfittando delle falle del sistema per fare soldi, moltissimi soldi. Basti dire che a ogni immigrato sarebbe costretto a pagare, per essere chiamato a lavorare in Italia, qualcosa come 13 o 14 mila euro. La soluzione è ancora tutta da individuare, per cui è legittimo il sospetto che Giorgia Meloni abbia deciso di annunciare la svolta anche per ragioni elettorali. La leader di FdI farà passare il messaggio che le “clamorose storture” del sistema sarebbero relative all’ultimo decennio, in cui hanno governato soprattutto partiti di centrosinistra. Migranti. Lavoratori stranieri, solo il 23% di chi arriva con le quote avrà un contratto di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2024 Il sistema dei decreti flussi per l’ingresso di lavoratori stranieri in Italia si conferma rigido e inefficace, capace di trasformare solo una minima parte delle quote di ingresso in contratti di lavoro. È la fotografia impietosa che emerge dal dossier “I veri numeri del decreto flussi: un sistema che continua a creare irregolarità”, redatto dalla campagna “Ero Straniero”. Solo il 23,52% delle quote fissate per il 2023 si è tradotto in permessi di soggiorno e impieghi stabili e regolari. Nel 2022, il tasso era leggermente più alto, al 35,32%, ma riguardava un numero di quote inferiore. Un vero e proprio buco nell’acqua che non è in grado di rispondere alle richieste del mercato del lavoro, che già domanda sempre molti più lavoratori stranieri di quanti non ne prevedano le quote stabilite dai governi. Peggio: un cortocircuito che crea irregolarità e sacche di illegalità che senza un intervento urgente per l’emersione su base individuale aumenteranno ora che il governo Meloni ha raddoppiato le quote. Secondo il dossier, nel 2023 le domande di ingresso per lavoro sono state sei volte superiori alle quote fissate dal governo: 462.422 richieste contro 82.705 posti disponibili. In altre parole, appena il 4% delle richieste del mercato del lavoro vengono soddisfatte. Perché solo una piccola frazione è stata finalizzata con la sottoscrizione del contratto di lavoro e la richiesta di permesso di soggiorno. Giulia Gori della Federazione Chiese Evangeliche Italiane, Fabrizio Coresi di ActionAid e Francesco Mason dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, durante la presentazione del dossier al Senato, hanno sottolineato come “il sistema continui a essere insufficiente rispetto alle richieste del mondo produttivo e a conservare storture e criticità profonde che finiscono per creare irregolarità e precarietà”. I dati parlano chiaro. Nel 2022, solo il 36% delle quote per il canale stagionale e il 33,4% per quello non stagionale si sono tradotti in contratti di lavoro. Anche per il 2023 la situazione non migliora: su 74.105 posti disponibili (su 82.705 quote complessive, che includono le conversioni), solo 17.435 domande sono state finalizzate, ovvero il 23,5%. La procedura, nonostante le semplificazioni introdotte, si inceppa già al rilascio del nulla osta all’ingresso e si complica ulteriormente nel passaggio successivo del rilascio dei visti da parte delle rappresentanze italiane nei paesi di origine. Al 31 gennaio 2024, risultano rilasciati 57.967 visti a fronte di 74.105 ingressi previsti, ma ben 38.926 persone si trovano ancora in attesa di convocazione. Il problema, però, non si esaurisce qui. Solo una parte dei lavoratori che ottiene il visto riesce a stabilizzare la propria posizione lavorativa e giuridica. La maggioranza rischia di scivolare nell’irregolarità, una condizione, denunciano i portavoce, “di estrema precarietà e ricattabilità”. Il dossier evidenzia che, nonostante la legge preveda un permesso di soggiorno per attesa occupazione in caso di indisponibilità all’assunzione da parte del datore di lavoro, questo strumento è stato utilizzato in maniera del tutto insufficiente: solo 146 permessi rilasciati nel 2022 e 84 nel 2023 fino a gennaio 2024. “Perché tanta rigidità nel ricorso a uno strumento che ridurrebbe significativamente irregolarità, precarietà e lavoro nero?”, si domanda la campagna Ero Straniero. La proposta avanzata è quella di prevedere il ricorso al permesso di soggiorno per attesa occupazione in tutti quei casi a rischio irregolarità, quando la procedura di assunzione non va a buon fine per motivi non dipendenti dai lavoratori. Più a lungo termine, viene ribadita “la necessità di una più generale riforma del sistema di ingresso per lavoro, con l’introduzione della figura dello sponsor o di un permesso per ricerca lavoro, e un meccanismo di emersione su base individuale, sempre accessibile, che dia la possibilità a chi rimane senza documenti di mettersi in regola a fronte della disponibilità di un contratto di lavoro o di un effettivo radicamento nel territorio”. Tra gli elementi positivi evidenziati nel dossier, spicca il coinvolgimento delle associazioni datoriali nella procedura, che ha portato a un minimo incremento dell’efficacia. Inoltre, il successo dei programmi di formazione nei paesi d’origine, con 6.702 domande su 1.000 posti inizialmente disponibili, dimostra l’interesse del mondo produttivo e la possibilità di un incontro efficace tra domanda e offerta di lavoro. Migranti. Il sospetto dietro l’esposto di Meloni: una talpa nelle istituzioni che indirizza il click-day di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 giugno 2024 La premier teme l’effetto boomerang sul super-decreto e denuncia all’Antimafia le infiltrazioni della criminalità organizzata. Le opposizioni attaccano: “Si accorgono di un sistema malato, bisogna abolire la Bossi-Fini”. Ci sono i dati del Viminale, inequivocabili (dalla Campania arrivano più domande che dall’industrialissimo Nord Est), ma c’è anche il sospetto di una manina nella stanza dei bottoni, dentro le istituzioni. Ingranaggio fondamentale, nella complicatissima e per di più inaccessibile macchina del decreto flussi, per consentire alle organizzazioni criminali, ai caporali o semplicemente a mediatori con le entrature giuste di mettere le mani su quelli che il governo sbandiera da mesi come la mossa strategica vincente per garantire ingressi legali e controllati dei lavoratori stranieri in Italia. E poi come mai i “prescelti” quasi tutti arrivano dal Bangladesh, Paese dove la compravendita di visti è all’ordine del giorno? E così, a pochi giorni dalle Europee, Giorgia Meloni teme che il superdecreto flussi (450.000 posti in tre anni) può diventare un boomerang. E, con una mossa decisamente anomala, decide di andare a denunciare quello che nelle scorse settimane Repubblica ha raccontato come evidente indice di rischio su cui già diverse Procure italiane e il nucleo ispettorato del lavoro dei carabinieri hanno già acceso i riflettori: e cioè che la maggior parte delle domande presentate proviene da Napoli e più in generale da Regioni del sud dove ci sono molte meno imprese e un tasso di disoccupazione ben più alto di quelle del Nord ove gli imprenditori chiedono manodopera straniera; e soprattutto che la maggior parte degli immigrati che si vedono accogliere la domanda (ben sette su dieci) entrano sì con un regolare visto ma poi non trovano ad attenderli il datore di lavoro. Niente contratto, niente permesso di soggiorno destino inevitabile da irregolare nelle mani delle organizzazioni criminali a cui molti di loro hanno già pagato una tangente per entrare in Italia. Ce n’è abbastanza per vedere naufragare nel peggiore dei modi il maxidecreto flussi, deve aver pensato Meloni che ieri si è presentata con il sottosegretario Alfredo Mantovano negli uffici della Direzione nazionale antimafia. Mezz’ora di colloquio con il procuratore Giovanni Melillo per presentare un esposto prima di riferire al Consiglio dei ministri e annunciare anche un correttivo legislativo: “Consentiremo in Italia solo l’ingresso di chi ha già un contratto di lavoro”. “La criminalità organizzata si è infiltrata nella gestione delle domande e i decreti flussi sono stati utilizzati come meccanismo per consentire l’accesso in Italia, a persone che non ne avrebbero avuto diritto, verosimilmente dietro pagamento di somme di denaro fino a 15.000 euro per pratica”, la denuncia della premier, che punta il dito sulla Campania aprendo un altro fronte col suo arcinemico Vincenzo De Luca. Non che la Dna abbia il potere di svolgere direttamente indagini, ma quello di coordinamento e impulso di quelle delle Procure sì e Giorgia Meloni era stata informata che di inchieste sulle manipolazioni del decreto flussi in Italia ne sono già state aperte parecchie, a cominciare proprio da Napoli, la città che con le sue 119.915 richieste ha superato quelle presentate da Veneto (71.176) ed Emilia Romagna (41.861) messe insieme. Come è possibile? Improbabile che una tale quantità di datori di lavoro campani (ben 231.000 su 702.000 totali) sia stato in grado di giustificare e richiedere un così alto fabbisogno di lavoratori stranieri e soprattutto improbabile che siano miracolosamente riusciti a passare le forche caudine dei click day, l’appuntamento telematico che per tre volte quest’anno ha visto centinaia di migliaia di imprenditori e famiglie contendersi nel giro di pochissimi minuti la possibilità di far venire dall’estero lavoratori che - in linea teorica - dovrebbero essere a loro sconosciuti. Ma soprattutto Meloni ha finalmente scoperto l’acqua calda, eredità di quella legge Bossi-Fini alla quale fino ad ora il governo si è rifiutato di mettere mano: perché alla fine della fiera - come ha certificato anche il recentissimo report della campagna “Ero straniero” che da anni monitora i dati di sanatorie e decreti flussi, appena il 27 % dei lavoratori che riescono ad entrare in Italia con regolare visto per lavoro, alla fine trova il suo contratto di lavoro. Un “vulnus” enorme nelle procedure che ora il governo promette di colmare con un provvedimento che renderà obbligatoria la stipula del contratto di lavoro prima dell’ingresso in Italia. La mossa della premier - che oggi sarà in Albania a visitare i cantieri dei centri che dovrebbero ospitare i migranti recuperati in mare dalle navi della marina italiana - tira la volata alle opposizioni: il Pd chiede che Meloni e Melillo vengano convocati in commissione antimafia, Angelo Bonelli (Avs) trova “paradossale che la premier presenti esposti invece di governare”, Riccardo Magi di + Europa e la campagna Ero Straniero insistono: “Si accorgono di un sistema malato. Sui flussi solo propaganda, bisogna abolire la Bossi-Fini”. Meloni e l’esposto sui migranti: la premier per farsi uno spot bussa al magistrato sbagliato di Lirio Abbate La Repubblica, 5 giugno 2024 Avrebbe potuto utilizzare gli uffici preposti del Viminale, rivolgersi all’Antimafia - che non conduce indagini - sa di mossa elettorale. Qualcuno dei consiglieri o dei ministri di Giorgia Meloni dovrebbe spiegare alla presidente del Consiglio la strada giudiziaria da percorrere se vuole inoltrare un esposto con il quale segnalare irregolarità penali o amministrative. Per presentare una denuncia, una querela o un esposto ci si deve recare negli uffici delle forze dell’ordine (questure, commissariati di pubblica sicurezza, Arma dei Carabinieri). La denuncia e l’esposto possono essere depositati anche presso la procura della Repubblica. Il fatto che la premier ieri mattina ha comunicato prima in Consiglio dei ministri la sua iniziativa e poi è stata fatta veicolare la notizia che si era recata “di persona personalmente” negli uffici del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, magistrato di grande esperienza nella lotta alla criminalità organizzata, per consegnare un esposto sui flussi di ingresso in Italia di lavoratori stranieri avvenuti negli ultimi anni avvalendosi dei “Decreti Flussi”, può essere un buon esempio civico. Se non fosse che la scelta fatta non l’ha portata nell’ufficio che riceve esposti, ma in un ufficio che non fa indagini. E tutto questo fa pensare che a quattro giorni dal voto europeo, in piena campagna elettorale, abbiamo visto inscenare una pantomima. La Procura nazionale antimafia e antiterrorismo esercita le funzioni di coordinamento delle indagini condotte dalle singole Direzioni distrettuali di ogni regione nei reati commessi dalla criminalità organizzata. Tale coordinamento è finalizzato, soprattutto, ad assicurare la veicolazione delle informazioni tra tutti gli uffici interessati e a collegare le procure distrettuali tra loro quando emergano fatti o circostanze rilevanti tra due o più di esse. Giorgia Meloni decide quindi di non andare dai magistrati inquirenti o dagli investigatori, come avrebbe dovuto fare in questi casi, ma ha scelto una strada inusuale. Certamente il suo esposto non andrà smarrito perché sarà cura del procuratore nazionale Giovanni Melillo inoltrarlo ai colleghi degli uffici distrettuali competenti per territorio, rispetto ai fatti riportati nel documento presentato dalla premier. L’esposto è l’atto con cui si richiede l’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza, in sostanza, è la segnalazione che il cittadino fa all’autorità giudiziaria per sottoporre alla sua attenzione fatti di cui ha notizia affinché valuti se ricorre un’ipotesi di reato. Non manca a Giorgia Meloni di trovare, financo dentro Palazzo Chigi o nei ministeri che fanno parte del suo governo, gli uffici preposti e operativi - anche se riservati - per segnalare irregolarità o incongruenze di cui è entrata in possesso sull’immigrazione. Ci sono dipartimenti che fanno capo ad alcuni dicasteri che si occupano proprio di questa materia, i cui uffici sul territorio hanno un ruolo anche di polizia giudiziaria che permette di ricevere esposti e denunce e inoltrarli, se vi sono notizie di reato, alla magistratura che poi ha il compito di avviare inchieste e sviluppare indagini, come il codice di procedura penale prevede. C’è la Direzione centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere, che dipende dal Viminale, che ha l’obiettivo di favorire lo sviluppo di strategie d’azione innovative ed efficaci, nel contrasto all’immigrazione irregolare con una maggiore proiezione anche sul piano internazionale, e di gestire le problematiche inerenti alla presenza degli stranieri sul territorio nazionale. Ci sono anche i finanzieri con i loro reparti speciali che si occupano di immigrazione che possono sviluppare attività investigative come pure i carabinieri. Certo, nessuno può impedire alla presidente del Consiglio di bussare alla porta dell’ufficio del procuratore nazionale Melillo e consegnare la sua denuncia. Deve però sapere che questa, pur essendo una strada magari più prestigiosa e sicuramente di maggiore impatto mediatico, rappresenta un passaggio superfluo, non utile quindi ad avviare subito le indagini da parte degli uffici giudiziari competenti per territorio ai quali spetta di esaminare l’esposto della premier, che a memoria non si ricorda, per un capo di governo, simili precedenti. La guerra e la Costituzione di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 5 giugno 2024 L’Italia finora se la è risparmiata grazie all’integrazione europea che verso ex nemici ha sostituito il metodo del negoziato alle cannonate. Non la si disprezzi, l’Unione Europea. La guerra, a differenza di quanto proclamava il futurista Tommaso Marinetti, non è la “sola igiene del mondo”. È il concentrato della sua sporcizia. Saggio sarebbe, come sosteneva Alberto Moravia, altro scrittore, renderla un “tabù” favorendo una evoluzione dell’umanità analoga a quella avvenuta con il rifiuto dell’incesto. Fantastico sarebbe realizzare in un giorno un progresso del genere, invece l’impresa richiederà sforzi a lungo. Nel frattempo purtroppo di conflitti armati ne esistono. Per evitarli o circoscriverli occorre razionalità, non usarli esclusivamente come occasioni per creare reazioni emotive a fini di propaganda. Per quanto possa avere conseguenze da non sottovalutare, la scelta se autorizzare l’Ucraina a colpire la Russia con armi fornite da Paesi della Nato non significa un nostro ingresso in guerra. È stata Mosca a invadere uno Stato sovrano, ed è legittimo che esso si difenda con risposte armate contro i luoghi dai quali sono resi possibili gli attacchi. Negare l’autorizzazione a farlo con mezzi occidentali ha il sicuro effetto di avvantaggiare l’aggressione russa su un popolo e su un assetto geopolitico aggrediti. Inoltre, può ridurre la capacità di deterrenza della Nato e il credito dell’Italia al suo interno. Al di là di ciò, esiste un grave distacco tra il dibattito politico italiano e la realtà del mondo, grave fino al punto di indurre talvolta il primo a negare evidenze. Benché non sia atto di guerra e lo sia di sostegno indiretto a un Paese amico, l’autorizzazione dell’uso delle armi verso la Russia richiesta dall’Ucraina viene respinta da alcuni obiettando che secondo l’articolo 11 della Costituzione “l’Italia ripudia la guerra”. Questo non è vero, malgrado giustamente oggi il nostro Paese non abbia propensione a entrare in guerra. L’articolo va letto nella sua interezza: quello che ripudia è “la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Se fosse stato diversamente, dopo la parola “guerra” i costituenti avrebbero messo un punto che non c’è. Qualora fossimo attaccati o lo fossero nostri alleati o Paesi amici, la Costituzione non impone per niente di bendarci gli occhi e legarci le mani. Nell’articolo 11 non esiste il punto neppure dopo “controversie internazionali”. Ci sono un punto e virgola e ancora, sull’Italia, le seguenti parole: “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Dunque il nostro Paese deve tener conto anche della “giustizia”, dei mandati che possono essere dati dalle Nazioni Unite (i quali possono consistere in uso della forza militare) e delle sue alleanze volte a garantire pace e giustizia. Non è questione cavillosa. È un argomento di sostanza che le cronache catapultano da anni nei nostri possibili orizzonti: una corrosione dell’influenza degli Stati Uniti e dell’Occidente risultate determinanti per gli equilibri del XX secolo ha aperto spazi a Paesi che possono volere in futuro ancora più guerre. Non è onesto sostenere di fatto che, di fronte a ogni conflitto, una nazione con un inno nazionale nel quale per difendere la Patria ci si definisce “pronti alla morte” ha l’obbligo di arrendersi o rivolgere lo sguardo altrove. Non è educativo per le nuove generazioni, è irrispettoso per le italiane e gli italiani delle Forze armate, è negazione o ignoranza della Costituzione. Nella versione vigente della carta fondamentale dello Stato la parola “guerra” è citata sei volte. Oltre che nell’articolo 11, lo è nel 60 che prevede possibilità di proroga di ciascuna Camera “soltanto in caso di guerra”, nel 78 secondo cui “le Camere deliberano lo stato di guerra”, nell’87 in base al quale spetta al presidente della Repubblica dichiarare “lo stato di guerra deliberato dalle Camere”, nel 103 e nel 111 riguardo ai tribunali militari “in tempo di guerra”. Dopo averne combattuta una dalla parte sbagliata, la Seconda mondiale, un’altra guerra con i nostri principali vicini l’Italia finora se la è risparmiata grazie all’integrazione europea che verso ex nemici ha sostituito il metodo del negoziato alle cannonate. Non la si disprezzi, l’Unione Europea. E si agisca per far diventare la guerra un tabù senza oggi combattere con distorsioni le verità che sono contenute nella Costituzione. Comprese quelle amare, non nascoste da padri costituenti usciti dalla Guerra di Liberazione. Dentro la bolla dell’Aia, la capitale giudiziaria del mondo di Alessandro De Pascale L’Espresso, 5 giugno 2024 In questa città dei Paesi bassi hanno sede la Corte penale che processa dittatori e autocrati e la Corte di giustizia davanti alla quale compaiono gli Stati, Italia compresa. E una delle carceri delle Nazioni unite. È la città olandese nella quale sono stati richiesti i mandati di cattura internazionali per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, per il ministro della Difesa Yoav Gallant e per i capi di Hamas Ismail Haniyeh, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri e Yahya Sinwar, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità. “Stiamo indagando con la massima urgenza”, aveva del resto assicurato il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi), Karim Khan, durante la sua visita a fine ottobre al valico di Rafah. Siamo all’Aia (in olandese Den Haag, in inglese The Hague) nota a livello internazionale come la “capitale giudiziaria del mondo”. Nonché capitale amministrativa dei Paesi Bassi: qui hanno sede il governo, vari ministeri, il Parlamento e c’è la residenza del capo di Stato (il re Willem-Alexander Claus George Ferdinand van Oranje-Nassau). Distante meno di 70 chilometri da Amsterdam, affacciata sul Mare del Nord e con mezzo milione di abitanti (terza per popolazione del Paese), qui hanno sede diverse importanti istituzioni: la Corte internazionale di giustizia (Cig), la Corte penale internazionale (Cpi), il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Tpij), il Tribunale speciale per il Libano (Tsl) e un carcere dell’Onu. Ci sono poi tutte le 115 ambasciate straniere, oltre 150 organizzazioni internazionali, l’università Thuas e centri studi (come l’Accademia del Diritto internazionale). La Corte internazionale di giustizia (Cig) è il principale organo giudiziario dell’Onu, nonché l’unico di questo calibro che non ha sede a New York. Per raggiungerlo si va nel quartiere Scheveningen, nei secoli scorsi un borgo di pescatori distrutto più volte dalle mareggiate (i Paesi Bassi si chiamano così perché sono sotto il livello del mare). Uscito quasi completamente distrutto dalla seconda guerra mondiale, oggi è una località balneare. Tra i pochi edifici sopravvissuti a quel conflitto, l’attuale sede della Corte internazionale di giustizia dell’Onu. È il Vredespaleis (Palazzo della Pace), un maestoso edificio in stile neo-rinascimentale, con due torri che delimitano le aule di tribunale e gli spazi più importanti del palazzo. Inaugurato nel 1913 e progettato dall’architetto francese Louis Cordonnier, è un edificio tuttora ricco di statue, busti e ritratti di importanti attivisti per la pace di tutte le epoche e provenienti da vari continenti. Davanti c’è Carnegieplein, una piccola piazza triangolare col monumento ai caduti della seconda guerra mondiale e la Fiamma della pace nel mondo. Sul banco degli imputati della Corte internazionale di giustizia finiscono i singoli Stati, giudicati con sentenze vincolanti e inappellabili da 15 giudici eletti per nove anni dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Anche alla Cig, a processo c’è lo Stato di Israele, accusato dal Sudafrica di genocidio per la guerra in corso nella Striscia di Gaza. Un procedimento nell’ambito del quale, il 24 maggio, la Corte ha ordinato allo Stato ebraico di “fermare immediatamente la sua offensiva militare e ogni altra azione nel governatorato di Rafah”. Tra gli altri aperti, uno riguarda l’Italia, accusata dal 22 aprile 2022 dalla Germania di violare l’obbligo di rispettare la propria immunità sovrana, in merito alle azioni civili dei tribunali italiani contro i crimini commessi dai nazisti tra il 1943 e il 1945. A meno di 5 chilometri di distanza dalla Corte internazionale di giustizia, in direzione Nord-Ovest, c’è la Waalsdorperweg, realizzata nel 1884 come grande via di comunicazione militare. Oggi è un tunnel sotterraneo stradale con in superficie piste ciclabili e vari parchi a servizio di diversi quartieri residenziali, come il Duinzigt. Lungo la Waalsdorperweg, su una piccola collina artificiale (nei Paesi Bassi non esistono rilievi o montagne), ci sono le palazzine in ferro e vetro della Corte penale internazionale (Cpi). Unico tribunale di questo tipo permanente al mondo, stabilisce le responsabilità delle singole persone per crimini di guerra e contro l’umanità ai danni della comunità internazionale. A differenza di quella di giustizia, la Cpi ha giurisdizione solo sulle 124 nazioni che hanno firmato e ratificato lo Statuto di Roma che l’ha istituita. Tra queste non figurano né la Russia né la Cina né gli Stati Uniti né Israele, ma la Palestina sì. L’ultimo mandato d’arresto noto è quello del 17 marzo 2023 per il presidente russo Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova (commissaria russa per i diritti dell’infanzia) con l’accusa di deportazione di bambini ucraini. Un provvedimento considerato da alcuni giuristi una forzatura, non aderendo Mosca alla Corte. La Cpi non processa imputati a piede libero: devono essere presenti in aula. Se non arrestati e tradotti all’Aia, i casi restano quindi nella fase istruttoria. Una volta consegnati alla Corte, gli imputati vengono poi reclusi nell’Unità di detenzione delle Nazioni unite (Undu), situata all’interno del carcere olandese di Scheveningen. Una seconda struttura di questo tipo, l’Undf, si trova ad Arusha (Tanzania). Quella dell’Aia è un edificio fatto di mura e torri con l’ingresso est simile a un castello, costruito nel 1919 come carcere minorile. Dalla Corte vi si arriva percorrendo per 1,5 chilometri in direzione mare la Van Alkemadelaan, una strada non molto grande con quartieri residenziali a sinistra e un’ampia area verde non urbanizzata sul lato opposto. Le due carceri dell’Onu sono strutture di custodia cautelare, nelle quali i detenuti restano in attesa del processo. Al loro termine, se condannati, vengono poi consegnati al Paese di origine o ad altre nazioni disposte a farsene carico per lo sconto della pena. Attualmente all’Undu dell’Aia ci sono 9 reclusi: gli ultimi 4 arrivati sono l’ex presidente kosovaro Hashim Thaci e altri tre importanti leader dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck). L’Undu è ritenuta ai massimi livelli del sistema giudiziario europeo: regolari ispezioni della Croce Rossa, celle singole da 10 metri quadrati, spazi all’aperto, attività fisica e didattica, strutture informatiche e per la formazione, cure considerate all’avanguardia, possibilità per i detenuti di comunicare tramite lettera e telefono con famiglie e amici o di ricevere visite da amici, rappresentanti legali e diplomatici, parenti (con tanto di “stanza dell’amore”). Interdetto, invece, l’ingresso a noi giornalisti. Stati Uniti. Stretta di Biden sull’immigrazione: chiuso il confine con il Messico ai richiedenti asilo Corriere della Sera, 5 giugno 2024 L’Onu: “Preoccupazione per l’inasprimento delle politiche Usa sui migranti”. I comitati per i diritti umani annunciano ricorsi in tribunale. Gli Stati Uniti chiuderanno temporaneamente il confine con il Messico ai richiedenti asilo. Il presidente Joe Biden ieri ha firmato un ordine esecutivo per “prendere il controllo” della frontiera meridionale con il Messico, dopo che il fenomeno legato al record di attraversamenti illegali della frontiera ha dominato il recente dibattito politico. La stretta punta a rendere meno “vulnerabili” le politiche sull’immigrazione in vista della battaglia elettorale di novembre con Donald Trump per le presidenziali americane (entrambi, nella notte italiana, hanno vinto le primarie in New Jersey e New Mexico. Biden ha vinto anche in South Dakota, Montana e a Washington D.C. mentre Trump in Montana). “Sono venuto qui oggi per fare ciò che i repubblicani al Congresso si rifiutano di fare: compiere i passi necessari per proteggere il nostro confine”, ha detto ieri Biden in un breve discorso alla Casa Bianca, affiancato da funzionari degli Stati di confine. In particolare, l’ordine esecutivo del presidente Usa vieta ai migranti che entrano illegalmente negli Stati Uniti di richiedere asilo quando il numero superi le 2.500 persone in un giorno, una soglia che è già stata oltrepassata. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati si è detta “profondamente preoccupata” da questa misura. Critiche al provvedimento arrivano anche dai comitati per i diritti umani che annunciano ricorsi in tribunale per “fermare la politica più severa sui migranti fatta da decenni da un presidente democratico”. I repubblicani, invece, attaccano il presidente Biden per una norma “troppo leggera”. Ancora più netto il rivale Donald Trump: “Milioni di persone si sono riversate nel nostro Paese e ora, dopo quasi quattro anni di leadership fallita - ha detto in un video pubblicato sulla sua piattaforma di social media Truth - Joe Biden sta fingendo di fare qualcosa per il confine”. Lo speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson ha etichettato il giro di vite sui migranti come una “vetrina elettorale”. Via social la reazione della presidente del Senato del Messico, Ana Lilia Rivera: “Mi rammarico profondamente - ha scritto in un post - della recente decisione del presidente Biden di emettere un ordine esecutivo che impedisce ai migranti di richiedere asilo quando il numero di attraversamenti della frontiera supera i 2.500 al giorno.”. Il provvedimento varato dal presidente americano, conclude, “contraddice i principi di solidarietà che dovrebbero guidare le politiche sull’immigrazione”.