La strage in carcere: altri due suicidi nel giro di pochi minuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 giugno 2024 A togliersi la vita due detenuti a Cagliari e a Venezia: sale a 38 il numero dei reclusi che si sono tolti la vita da gennaio. Ma gli appelli dei Garanti e la proposta di legge Giachetti restano lettera morta. La situazione nelle carceri italiane si aggrava ulteriormente con due nuovi suicidi nel giro di pochi minuti, portando a 38 il numero di detenuti che hanno scelto di togliersi la vita dall’inizio dell’anno. Il primo caso riguarda un giovane detenuto extracomunitario, A.M., di 23 anni, che ha tentato il suicidio per impiccagione nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta tra giovedì e venerdì scorso. Dopo due giorni di agonia nel reparto di Rianimazione, è deceduto domenica mattina. Questa tragedia si è verificata proprio nel giorno del 78º anniversario della Repubblica Italiana, aggiungendo ulteriore di sconforto. Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv, ha commentato l’evento con profonda tristezza, sottolineando l’incapacità dello Stato di garantire la sicurezza e il benessere dei detenuti. “Ogni suicidio in carcere è una tragedia che addolora e la cui responsabilità ricade sullo Stato”, ha affermato, evidenziando come questo sia il secondo suicidio in due mesi nella stessa struttura. Caligaris ha poi sottolineato le difficoltà croniche del sistema penitenziario italiano, tra cui il sovraffollamento, la carenza di personale e le gravi mancanze nel supporto sanitario e educativo. “Un ragazzo così giovane ha sentito su di sé un peso insostenibile e l’impossibilità di proiettarsi nel futuro”, ha dichiarato, invitando il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a prendere provvedimenti urgenti. Il secondo suicidio è avvenuto a Venezia, nel carcere di Santa Maria Maggiore, dove un cittadino rumeno di 31 anni, detenuto per tentato omicidio, si è impiccato domenica mattina quando i suoi compagni di cella erano fuori. La tragedia delle carceri italiane è stata commentata anche da Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UilPa Polizia Penitenziaria, il quale ha sottolineato come la politica sembri ignorare la gravità della situazione. “Sono due i morti di carcere a distanza di poche ore, forse minuti, nella mattinata di domenica. Sale così a 38 il numero complessivo dei suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, cui vanno aggiunti 4 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che, parimenti, si sono tolti la vita”, ha dichiarato De Fazio. Il sindacalista ha criticato la mancanza di attenzione ai problemi delle carceri durante la campagna elettorale, evidenziando come questi si intersechino con altre gravi questioni nazionali, come le carenze sanitarie e la mancanza di personale medico. “In carcere persino l’assistenza psichiatrica è ormai una chimera per mancanza di specialisti, con tutto ciò che ne deriva per gli effetti auto ed etero violenti”, ha aggiunto, ricordando l’aggressione subita da uno psichiatra nel carcere di Catanzaro. Il segretario della UilPa Polizia Penitenziaria ha fatto appello al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al governo Meloni affinché riconoscano l’emergenza senza precedenti e adottino misure immediate per ridurre il sovraffollamento carcerario, assumere nuovo personale di polizia penitenziaria e potenziare la sanità inframuraria. “Non c’è più tempo”, ha avvertito, “se si vuole almeno tentare di evitare di oltrepassare ogni record nella conta dei morti in carcere, di carcere e per carcere”. Ricordiamo che ben due sono state le mobilitazioni della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale con la partecipazione attiva delle camere penali. Una mobilitazione in tutta l’Italia volta ad accendere un faro sulle problematiche del carcere e invitare il governo ad assumersi la responsabilità di porre fine alla mattanza e al sovraffollamento attraverso incisive misure deflattive e aumento dell’affettività e percorsi trattamentali. In commissione Giustizia, attraverso un lentissimo iter, è al vaglio la proposta di legge presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva sulla liberazione anticipata speciale. Ma è buio profondo. Da una parte c’è il ministro Nordio che sembra non appoggiare tale legge, dall’altra si è scatenata una campagna da parte di taluni giornali antigovernativi profondamente intrisi di populismo penale che ha dipinto tale proposta di legge come se fosse un indulto. Ovviamente è un falso. Siamo alla vigilia delle elezioni europee e l’unica lista che parla del tema carcerario è Stati Uniti D’Europa, in particolare la candidata Rita Bernardini che è in sciopero della fame da 25 giorni. Il resto è propaganda. Sono già 38 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere nel 2024 di Fulvio Fulvi Avvenire, 4 giugno 2024 I penalisti: “Vergognosa tragedia”. I Garanti: “Negli istituti mancano le minime condizioni di sicurezza”. Gli ultimi due detenuti sono stati trovati senza vita nella loro cella a distanza di poche ore, domenica scorsa, festa della Repubblica e della Costituzione, nelle Case circondariali di Venezia e Cagliari. E così, dall’inizio dell’anno, sono saliti a 38 i suicidi dietro le sbarre. Un’emergenza intollerabile, un esito del sovraffollamento e di condizioni spesso invivibili per chi è costretto a scontare la pena in galera, dove gli addetti alla sorveglianza scarseggiano e le possibilità di occupare le proprie giornate in modo utile sono quasi sempre inesistenti. Nonostante l’art. 27 della nostra Carta. Nell’istituto penale di Santa Maria Maggiore si è impiccato un 31enne di origini romene in attesa di giudizio: era stato arrestato a inizio aprile per tentato omicidio. Ubriaco, aveva accoltellato un barista a Mestre. Lascia la compagna e tre figli. “Un gesto del tutto inaspettato perché lui non aveva mai manifestato l’intenzione di uccidersi: fissata la data del processo, la procura era d’accordo per un patteggiamento” commenta il suo legale, Marco Marcelli, il quale precisa: “Stavamo preparando l’istanza di scarcerazione”. Ma la disperazione aveva già raggiunto, nel suo animo, un punto di non ritorno. Era ancora più giovane il ristretto che si è impiccato nel villaggio penitenziario di Uta, nel capoluogo sardo: A. M., queste le sue iniziali, aveva solo 23 anni, extracomunitario, era finito dentro da poco più di un mese. Si è spento nel reparto rianimazione dell’ospedale cagliaritano dopo due giorni di agonia. È il secondo suicidio, qui, in due mesi. Ma non basta. In base ai dati forniti da Ristretti Orizzonti, oltre ai 38 suicidi, sono 52 i detenuti deceduti nei 92 istituti di pena italiani dal 1° gennaio per malattia o cause ancora da accertare. “Nel silenzio dei media, giorno dopo giorno, si sta consumando una vergognosa tragedia umana - denunciano gli avvocati dell’Unione delle camere penali -, si tratta di morti in custodia dello Stato, nel silenzio generale, senza che nessuna televisione nazionale accenda i riflettori del Paese per sollecitare immediati interventi a un governo e a un parlamento distratti e insensibili rispetto al dramma delle carceri”. Per questo l’associazione che riunisce i penalisti italiani ha promosso una “maratona oratoria itinerante” nelle piazze delle città italiane, da Nord a Sud, “per dare voce a tutti coloro che, dentro le carceri, non hanno più diritti”. Le criticità esistono un po’ ovunque e sono quasi sempre le stesse. Dagli istituti di pena della Calabria arrivano al Garante dei detenuti e delle persone private della libertà, Luca Muglia, numerose segnalazioni relative a carenze dell’assistenza sanitaria. “Negli ultimi giorni anche la Casa circondariale di Rossano è rimasta priva dello psichiatra, di cui allo stato dispongono solo due o tre strutture sulle dodici esistenti nella regione” denuncia Muglia che parla di “squilibri territoriali” e indica come caso paradigmatico quello di Vibo Valentia in cui, “a fronte dell’assenza del servizio di psichiatria, il 30% circa dei reclusi è in trattamento farmacologico”. E, aggiunge “anche nelle carceri calabresi mancano le condizioni minime di sicurezza: occorre cambiare passo, in caso contrario il sistema rischia seriamente di implodere con gravi conseguenze sotto il profilo del diritto alla cura delle persone detenute”. E sulla tragica escalation dei suicidi interviene anche Gennarino De Fazio, segretario generale Uil-Polizia penitenziaria: “Non c’è più tempo, se si vuole almeno tentare d’evitare di oltrepassare ogni record nella conta dei morti in carcere, di carcere e per carcere, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni prendano atto dell’emergenza senza precedenti e varino un decreto-legge per consentire il deflazionamento della densità detentiva: sono oltre 14mila i detenuti in più rispetto ai posti disponibili, assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria, mancante di almeno 18mila unità, e il potenziamento della sanità inframuraria”. “Siano avviate riforme strutturali e riorganizzative - conclude -, altrimenti temiamo un’altra ecatombe”. “Gli agenti non possono fare la guerra”. Il caso del personale anti-sommossa in cella di Fulvio Fulvi Avvenire, 4 giugno 2024 Il governo ha istituito i “Gio”, Gruppi specializzati nella repressione delle rivolte. Il sindacato degli agenti penitenziari: “Il governo sul tema è in stato confusionale”. Come garantire più sicurezza all’interno degli istituti di pena? E quali provvedimenti prendere per reprimere le rivolte e gli atti di violenza dietro le sbarre (eventi per fortuna abbastanza rari)? Il governo, tramite il sottosegretario alla Giustizia con delega alla Polizia penitenziaria, Andrea Delmastro delle Vedove, ha pensato di istituire il “Gio”, gruppo anti-sommossa di pronto intervento. Un “pugno fermo”, dunque, contro le intemperanze manifestate “in massa” dai detenuti. Si tratta di un “reparto di rapida reazione operativa, debitamente equipaggiato e in grado di intervenire entro un’ora dalla richiesta, un gruppo specializzato nella protezione e tutela della sicurezza nelle strutture penitenziarie e delle persone in caso di ribellioni nelle carceri” spiegano l’esponente del governo e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. L’iniziativa si aggiunge alle altre intraprese in questo anno e mezzo di gestione del settore, come l’assunzione di oltre 7mila allievi agenti e la dotazione al corpo degli addetti alla sorveglianza di scudi e caschi antisommossa, giubbotti antiproiettile e body cam. Il Gio avrà una sede centrale al Dap, presso il ministero a Roma, e gruppi di interventi regionali nelle articolazioni locali e provveditorato: entro luglio avrà luogo un bando interno per la selezione delle risorse che ne faranno parte. Previsti inizialmente 150-200 elementi, ma a pieno organico si punta a 270 unità e 24 a gruppo regionale. Delmastro ha sottolineato l’importanza del Gio anche alla luce di quanto avvenuto nei penitenziari italiani nel marzo 2020 “quando ci furono 7.517 rivoltosi nelle carceri, con danni per 30 milioni, evasioni di massa, agenti sequestrati, morti e feriti”. Il Gio si ispira al modello dell’Eris francese che: “da quando esiste - ha riferito il sottosegretario - ha fatto diminuire del 90% le criticità negli istituti”. Resta da risolvere però, nel nostro Paese, la questione del sovraffollamento (il tasso è attualmente del 119%, il più alto in Europa) e dell’ammodernamento delle strutture carcerarie (spesso fatiscenti), le due principali fonti del disagio che travolge i ristretti, e anche i loro controllori. E non vanno dimenticati il cronico sotto dimensiona - mento degli organici degli agenti, le gravi carenze del servizio sanitario e psichiatrico, la mancanza di educatori e mediatori culturali. L’istituzione, attraverso un decreto legislativo, delle forze antisommossa ha già suscitato critiche e perplessità da parte degli operatori del settore. Secondo Aldo Di Giacomo, segretario generale del S.pp. (Sindacato di polizia penitenziaria), “in carcere non si può pensare di attrezzare gli agenti a fare la “guerra” ai detenuti. Iniziative, misure, provvedimenti vanno indirizzati alla prevenzione di situazioni di conflittualità che sfociano in aggressioni e rivolte, come è avvenuto l’altro giorno al minorile “Beccarla” di Milano” ha osservato. “Il Gio, tra l’altro, non è in grado di affrontare e tanto meno di prevenire la conflittualità e soprattutto di tutelare l’incolumità dei servitori dello Stato - ha aggiunto Di Giacomo - sottrae personale già fortemente carente di almeno 20mila unità aggravando le attuali condizioni di lavoro di quanti prestano servizio nei 190 istituti”. “Siamo alla riprova del preoccupante stato confusionale di governo e Amministrazione penitenziaria tra interventi per ristabilire il controllo del carcere e interventi per gestire la popolazione carceraria” ha concluso. Manca, invece, un piano complessivo, che affronti le altre emergenze, oltre ai suicidi e alle morti per cause da accertare, la storica e patologica carenza degli organici, le aggressioni al personale, il traffico di droga e la diffusione clandestina dei telefonini. Insomma, le “teste di cuoio” e ulteriori spinte repressive, non risolvono certo la grave emergenza carceri. “Di fronte all’indifferente silenzio del governo, si fanno strada iniziative legislative con le quali l’attenzione viene ridotta alla sola dimensione contenitiva e repressiva in chiave securitaria - è l’opinione degli avvocati penalisti - a partire dall’introduzione del reato di rivolta commesso anche con condotte non violente di disobbedienza e resistenza passiva, per seguire con l’istituzione di corpi speciali and-rivolta (i Gio) e per concludere con ipotesi di attribuzione di una competenza straordinaria alla Procura generale e all’Avvocatura dello Stato per i fatti concernenti l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica da parte di agenti o ufficiali di pubblica sicurezza”. Mancano gli agenti, ma Delmastro sogna i Rambo francesi di Nello Trocchia Il Domani, 4 giugno 2024 L’idea di un gruppo d’intervento operativo che dovrebbe sedare e contenere le rivolte in carcere. L’acronimo è Gio. E indica il gruppo d’intervento operativo che dovrebbe sedare e contenere le rivolte in carcere. È stato presentato nei giorni scorsi, con toni trionfalistici, dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha indicato in quello francese il modello seguito, dimenticando le criticità emerse negli anni, la carenza di personale e anche i fallimenti che da sempre hanno segnato gli interventi di gruppi esterni negli istituti del nostro paese. Andiamo con ordine e ripartiamo dalle ragioni che hanno spinto il governo a creare questo nuovo gruppo. “Per chiunque non abbia le lenti deformanti dell’ideologia, quanto accaduto nel marzo 2020 testimonia la necessità di avere un gruppo specializzato nel contenimento delle rivolte o per fronteggiare situazioni emergenziali”, ha detto Delmastro. Senza dubbio nel marzo 2020 ci sono state rivolte violente e cruente in un contesto emergenziale per l’arrivo del Covid, con il secondo governo Conte impreparato a gestire la pandemia in carcere, affrontata con la sospensione dei colloqui, decisione che aveva scatenato le proteste. Il sottosegretario ha parlato di lenti deformanti. Quattro anni fa da deputato di opposizione voleva premiare con l’encomio solenne gli agenti penitenziari protagonisti delle inaudite violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 6 aprile 2020, fatti che Delmastro raccontava in modo totalmente distorto, parlando di una “violentissima rivolta il 5 aprile (il giorno prima delle violenze, ndr)”, rivolta che non c’era mai stata. Proprio nel carcere casertano il pestaggio generalizzato è stato messo a segno da un gruppo d’intervento creato dall’allora provveditore regionale Antonio Fullone. Da chi era composto? Da aliquote di personale proveniente da altri istituti, un’esperienza che aveva ricordato, nei dirigenti dell’amministrazione penitenziaria più esperti, quanto era accaduto a Sassari nel 2000. Anche in quel caso era finita con botte e violenze, dimostrando che l’invio negli istituti di personale esterno favorisce quell’esito. Il sottosegretario ha spiegato che tutti gli agenti saranno dotati di bodycam per tracciarne la correttezza dell’operato, che prima di ogni intervento ci sarà una negoziazione, e l’uso della forza sarà solo graduale e solo in caso di estrema necessità. Il modello francese - Ma a quale modello si è ispirato il governo? “Sarà un gruppo altamente specializzato nell’uso di tecniche operative per garantire sicurezza. Il modello è quello dell’Eris francese, abbiamo scoperto che da quando esiste sono diminuite le criticità negli istituti penitenziari del 90 per cento, come in quel modello anche Gio avrà un negoziatore”, ha ricordato. Proprio sul modello francese, in passato, ci sono stati giudizi critici da parte dell’organismo europeo che si occupa di tutela dei diritti dei detenuti. “Il comitato europeo per la prevenzione della tortura fa delle visite periodiche nei vari paesi europei nelle carceri e non solo. Alla fine di queste ispezioni realizza un rapporto che viene inviato alle autorità. In passato, sia nel 2003 sia nel 2006, c’è stato un focus proprio su Eris, ed emergevano alcune anomalie e criticità, in particolare in alcuni interventi il rapido abbandono di ogni strada improntata al dialogo. Non lo prenderei a modello per il nostro paese”, dice Mauro Palma, ex garante dei detenuti in Italia, che ha fatto parte e poi presieduto il comitato internazionale. In alcuni video di canali francesi si vedono gli agenti dei gruppi speciali all’opera. Si calano dall’alto, intervengono con decisione, e più che a un negoziato sembrano pronti alla guerra. Ma di certo saranno le lenti deformanti dell’ideologia. Nelle maglie dell’ingiusta detenzione: se non diventi famoso per politici e pm puoi rimanere lì di Antonio Mastrapasqua* Il Riformista, 4 giugno 2024 Da Salis a Forti, politici e magistrati si somigliano più di quanto si possa credere. Intenti a cercare simboli, distratti di fronte alla realtà dei cittadini in carne e ossa. Uno su mille ce la fa. Non è confortante per gli altri 999. La proporzione è più o meno quella delle vittime della malagiustizia. Circa mille all’anno i cittadini italiani che subiscono ingiusta detenzione. Ilaria Salis non è tecnicamente in questa contabilità, poiché la sua detenzione si è consumata in Ungheria. E prima di ogni sentenza è impossibile definire una detenzione “ingiusta”, se non per le disumane condizioni in cui la giovane maestra milanese è stata esposta e sottoposta prima e durante l’avvio del processo a suo carico. Ma certo è che le reazioni di fronte a quelle immagini hanno prodotto una condizione particolare, in qualche modo privilegiata. La stessa telefonata del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al padre di Ilaria, indica una eccezionalità, ottima per chi ne gode, un po’ frustrante per chi ne resta escluso. Roberto Salis ha raccontato che il Capo dello Stato “ha ribadito la sua vicinanza personale a me e alla famiglia e mi ha garantito il suo personale interessamento al caso”. Ci sono circa duemila cittadini italiani detenuti all’estero, più di 500 in Paesi extraeuropei, probabilmente - soprattutto questi ultimi in condizioni poco rispettose della dignità umana. Perché tanta attenzione a una sola? Inutile negare che la vita pubblica, non solo la politica, abbia bisogno di simboli. Ma resta il drammatico fatto che per un caso che diventa simbolo, ce ne sono altre centinaia (migliaia?) che restano nell’ombra. A suo modo anche il caso di Chico Forti è uno di quelli che è (finalmente) uscito dalla cortina dell’apparente sopruso. Si tratta di una situazione ancora diversa. In questo caso c’è una condanna - sentenziata in un Paese che difficilmente può essere considerato culla della barbarie che per molti è una condanna ingiusta. Ben venga dopo 24 anni l’estradizione in Italia, dove almeno potrà ricevere visite e attenzioni dei familiari e degli amici ai quali era stato di fatto sottratto: ma come dicevamo prima ci sono altri duemila italiani che sono (a torto o a ragione) dietro le sbarre di un carcere straniero. Nel caso di Chico Forti l’attenzione “speciale” non è stata quella di Mattarella, ma della premier Giorgia Meloni. Buon per lui, ma questa selettività nell’intervento delle Istituzioni lascia qualche perplessità. Come accade spesso il tema “giustizia” si presta a ogni tipo di strumentalizzazione politica. Andare in carcere a far visita ad Alfredo Cospito è un atto meritorio e degno di patente progressista; invece, verificare le condizioni di detenzione dei due cittadini americani - Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder - accusati di aver ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega fu quasi oggetto di censura da parte dell’allora segretario del Pd, Zingaretti. E poi ci sono le clamorose amnesie. Come quella che sembra aver colpito collettivamente tutti - politici, magistrati, giornalisti, opinion maker di ogni risma - di fronte alla vicenda di chi, come Beniamino Zuncheddu, si è fatto 33 anni di carcere, è stato riconosciuto innocente. Irene Testa e Gaia Tortora (sì, la figlia di Enzo) hanno fatto tanto per svelare i tragici errori che hanno portato all’ingiusta condanna di Zuncheddu. Ma il “caso” è rimasto impigliato nell’informazione di serie B, nessun politico se lo è intestato, nessun magistrato è stato accusato. La politica, tanto lesta, a cogliere e intestarsi un “caso” di ingiustizia (vera o presunta), fatica a imputare l’errore al giudice che sbaglia. Di chi sarà la colpa dell’errore? Solo delle indagini di polizia giudiziaria? E non piuttosto anche del pubblico ministero, o dei giudici che avrebbero dovuto liquidare con minor frettolosità le tesi difensive di Zuncheddu, ricorrendo ad aggettivi quali ‘fantasiose’, ‘assurde’, ‘disperate’? Nel caso del Pm, ci sono altri casi di errori giudiziari in carriera, e non risulta che abbia mai ricevuto sanzioni dal Csm. Nel caso dei giudici giudicanti, l’errore Zuncheddu è stato seguito da splendide carriere (così come successe ai giudici del caso Tortora). *Ex presidente Inps Vespa intervista Chico Forti, i penalisti: “Visione distorta: carceri presentate come Grand Hotel” di Alessandro Rigamonti Corriere della Sera, 4 giugno 2024 L’Unione delle camere penali critica sull’intervista: “Offerta una visione delle condizioni detentive che non aiuta a migliorare la vita dei detenuti”. Vespa: “Non intendevo fare pubblicità alle carceri italiane. “Una differenza notte-giorno”. Così Chico Forti, detenuto nel carcere di Verona dopo 24 anni di reclusione in Florida, ha descritto il suo cambio di prigionia nel programma di Rai 1 “Cinque minuti” condotto dal giornalista Bruno Vespa. L’intervista non è piaciuta ai penalisti: “Quando attraverso la televisione pubblica si offre una distorta e irreale visione sulle condizioni detentive si rende un pessimo contributo al miglioramento delle condizioni dei detenuti”. “Pubblicità-regresso” - L’Unione delle camere penali considera l’intervista condotta da Vespa “emblematica della disinformazione sui detenuti” perché non rappresenta la condizione dei 61 mila carcerati italiani. Durante la “pubblicità-regresso”, così è stata definita dai penalisti la trasmissione di Rai 1, Forti ha parlato delle condizioni del carcere di Verona e della differenza fra l’America e l’Italia: “Il carcere a Miami è basato totalmente sulla punizione, mentre qui ho conosciuto valori che era 24 anni che non ritrovavo: valori umani, rapporti e rispetto”. La denuncia dei penalisti - Una prigione formato “Grand Hotel”, quella descritta da Forti, che non è proprio piaciuta ai penalisti, i quali hanno chiesto alla televisione pubblica di portare le telecamere nelle varie sezioni del carcere di Verona, al pari di qualunque altra struttura penitenziaria d’Italia: “Se si soffermassero a osservare le latrine, se riprendessero le numerose brande in cui si trovano appollaiati tra 10 e 15 detenuti per cella, se tutto ciò avvenisse - rilevano i penalisti - si offrirebbe ai legislatori, ai tanti magistrati, mai recatisi nelle carceri, l’opportunità di comprendere quanto l’esecuzione della pena avvenga in violazione della Costituzione, costringendo la popolazione detenuta in condizioni disumane”. La risposta di Bruno Vespa - Non si è fatta attendere la risposta di Vespa alle accuse di disinformazione: “Non intendevo fare pubblicità alle carceri italiane di cui conosco da decenni le condizioni. Era Forti - ha spiegato il giornalista - che ha trovato con sorpresa e sollievo a Verona un trattamento umanitario previsto dalla nostra Costituzione e lontanissimo da quello in vigore nei penitenziari americani finalizzati alla sola punizione”. Durante l’intervista, Forti ha raccontato che è stato accolto in carcere a Verona “come un re”, che gli hanno regalato i vestiti e che gli è stata organizzata una spaghettata all’amatriciana in suo onore. Racconto che, per l’Unione delle camere penali, stride con la vera realtà delle prigioni italiane, spesso non raccontata dai giornalisti: “Nel silenzio dei media si sta consumando una vergognosa tragedia - spiegano i penalisti - Sono 38 i suicidi dall’inizio dell’anno, e altri 52 sono i morti per malattia o causa da accertare”. Le tv nazionali raccontino le vergognose condizioni dei detenuti nelle carceri di Giunta e Osservatorio Carcere UCPI camerepenali.it, 4 giugno 2024 Basta disinformazione sulle carceri. Diamo voce a chi non ha più voce. Quando attraverso la televisione pubblica nazionale si offre alla pubblica opinione una distorta ed irreale visione sulle condizioni detentive italiane, oltre che rendere un cattivo servizio di pubblica informazione, si rende un pessimo contributo al miglioramento delle condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti nelle carceri italiane. Quello che è avvenuto nei “cinque minuti” di Bruno Vespa dedicati, in prima serata sulla prima rete televisiva, alla condizione da “detenuto italiano” di Chico Forti, è emblematico sulla disinformazione sulle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane. Siamo davvero felici che finalmente al nostro “Chico”, proclamatosi sempre innocente, sia stato consentito il rientro in Italia per la prosecuzione della sua detenzione. Una mosca bianca rispetto agli oltre 2.600 italiani, detenuti all’estero, molti dei quali nella vana attesa di un rientro nel nostro Paese. Così come non siamo per nulla dispiaciuti che sulla vicenda ci sia una particolare attenzione mediatica. Ma non è il primo caso e non sarà l’ultimo per cui i riflettori dei media si accendono a comando, a seconda degli interessi politici, purtroppo senza intenzioni migliorative sul sistema carcere. Sui tempi eccezionali per la concessione del permesso, oltre che felici e particolarmente sorpresi, siamo finalmente speranzosi che i tempi biblici, normalmente usati nei riguardi della generalizzata comunità dei detenuti, siano (sarà proprio così?) un ricordo di un immobilismo oramai superato. La trasmissione di Bruno Vespa sul caso Forti, tuttavia, rappresenta una cattiva informazione, anzi una vera e propria opera di disinformazione rispetto alle condizioni in cui si trovano gli oltre 61.000 detenuti nelle nostre carceri. Nei “cinque minuti” di pubblicità-regresso si è assistito alla falsa celebrazione ed esaltazione delle “dorate” condizioni detentive italiane. Carceri presentati come un Grand Hotel in cui gli ospiti possono liberamente banchettare con piatti e pietanze prelibate, al pari di famosi ristoranti stellati. Eppure, se solo le telecamere delle Tv nazionali si recassero nelle varie sezioni del carcere di Verona, al pari di qualunque altro carcere d’Italia; se solo si introducessero all’interno di celle ammuffite e ammorbate dagli odori del sovraffollamento; se solo si soffermassero ad osservare le “latrine”, spesso alla turca, su cui ingegnosi detenuti hanno approntato doccette di emergenza, adiacenti a piccoli ripiani usati per cucinare qualche pasto; se solo riprendessero le numerose brande, l’una sopra l’altra fino al tetto, in cui si trovano appollaiati tra 10 e 15 detenuti per cella; se tutto ciò avvenisse, si offrirebbe a tutti i cittadini, primi fra tutti ai nostri legislatori, nazionali e regionali, ai tanti magistrati, mai recatisi in visita nelle carceri, l’opportunità di comprendere quanto, nel nostro “Bel Paese”, l’esecuzione della pena avvenga in palese violazione dell’art. 27 della Costituzione, costringendo la popolazione detenuta a trascorrere le giornate in condizioni davvero disumane e per nulla dignitose. Nel silenzio dei media, giorno dopo giorno, si sta consumando una vergognosa tragedia umana. Proprio nel giorno in cui si è celebrata la Festa della Repubblica italiana è giunta l’ennesima drammatica notizia di due detenuti che hanno deciso, in carcere, di porre fine alla loro sofferenza. Sono 38 i suicidi accertati, dall’inizio dell’anno, e altri 52 sono i morti per malattia o causa non ancora accertata. Morti in custodia dello Stato, nel silenzio generale, senza che nessuna televisione nazionale accenda i riflettori del Paese per sollecitare, così, immediati interventi ad un governo e ad un Parlamento distratti e insensibili rispetto al dramma delle carceri. E in tale indifferente silenzio si fanno invece strada iniziative legislative con le quali l’attenzione al mondo carcerario viene ridotta alla sola dimensione contenitiva e repressiva, in chiave securitaria, a partire dalla introduzione del reato di rivolta commesso anche con condotte non violente di disobbedienza e resistenza passiva (DDL 1660), per seguire con l’istituzione di corpi speciali anti-rivolta della Polizia Penitenziaria (GIO), e per concludere con ipotesi di attribuzione di una competenza straordinaria alla Procura Generale e all’Avvocatura dello Stato per i fatti concernenti l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica da parte di agenti o di ufficiali di pubblica sicurezza (Emendamento che introduce l’art. 335-bis c.p.p.). È per queste ragioni che l’Unione delle Camere Penali ha deciso, di piazza in piazza, di città in città, di regione in regione, di dare voce, attraverso una maratona oratoria itinerante, a tutti coloro che, dentro le carceri, non hanno più diritti e soprattutto voce. Basta disinformazione. Per ottenere una riforma radicale del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale, e per porre fine alle condizioni disumane e degradanti delle carceri italiane, occorre anche una narrazione e soprattutto una visione delle carceri italiane finalmente aderente alla cruda realtà. A Riccardo Polidoro la prima edizione del premio “In difesa della dignità e della speranza dei detenuti” camerepenali.it, 4 giugno 2024 Le motivazioni della Giuria. Il premio sarà consegnato ai figli di Riccardo Polidoro nel corso della sessione dedicata dell’Open Day dell’Unione Camere Penali il 7 giugno a Rimini. La Giuria del Premio “In difesa della dignità e della speranza dei detenuti - Riccardo Polidoro” ha deciso, all’unanimità, di assegnare il premio della prima edizione proprio a Riccardo Polidoro, alla sua storia, alla sua passione, al suo straordinario contributo in difesa della dignità e della speranza dei detenuti. Il premio sarà consegnato ai figli di Riccardo nel corso della sessione dedicata dell’Open Day dell’Unione Camere Penali il 7 giugno a Rimini. La Giuria ha motivato così la propria scelta: “Fortiter in re, soaviter in modo, ha instancabilmente difeso la dignità delle persone private della libertà e il loro diritto a coltivare la speranza, dando voce e volto alle ragioni umanitarie di un “carcere possibile”. Avvocato dal tratto elegante accompagnato dalla fermezza delle idee, ha saputo portare con notevole competenza e garbo l’attenzione per gli ultimi al centro della riflessione della politica, della magistratura e dell’avvocatura, sin dalla fondazione anni or sono del “Carcere Possibile Onlus” a Napoli, per poi dirigere l’Osservatorio Carcere dei penalisti italiani dal 2015, con passione, impegno e dedizione tali da essere da esempio per tutti, non solo per gli avvocati. Nel 2016 è stato chiamato a coordinare il Tavolo 16 degli Stati generali dell’esecuzione penale dedicato ad un tema fondamentale: “Ostacoli normativi all’individualizzazione del trattamento rieducativo”, e nel 2017 ha fatto parte della Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento penitenziario, in entrambi i ruoli fornendo un contributo straordinario di competenza, di passione e di determinazione. Dinanzi alla siderale distanza dai valori costituzionali di tante e tante pagine di ordinaria indifferenza per la stessa dignità delle persone detenute, sorgeva in lui prepotente il moto della ribellione morale e si accresceva il bisogno di dare respiro culturale e politico ampio e profondo all’organizzazione di un’azione quotidiana di autentica vigilanza democratica, necessaria per contrastare la rassegnazione e il cinismo dei più. Mancheranno a tutti la sua toga intessuta di ideali e di generosa passione, la sua dedizione inesausta a difesa di coloro che difensore non hanno, gli editoriali scritti con l’inesauribile inchiostro del suo impegno civile, la sua voce alta, non di decibel o di retorica, al di sopra di corporativismi e di miserie polemiche, il suo instancabile lavoro legislativo impegnato ad abbattere muri normativi indegni di un uomo”. La Giuria: Francesco Petrelli, Giovanni Melillo, Glauco Giostra, Rinaldo Romanelli, Nicola Mazzacuva, Gianpaolo Catanzariti, Giorgio Varano. La separazione delle carriere non cura i mali dei magistrati di Mario Chiavario Avvenire, 4 giugno 2024 Perché la riforma Nordio manca l’obiettivo che si prefigge. “E finalmente non accadrà più di essere indagati da un pubblico ministero che ci si può poi trovare come giudice nel corso successivo del processo”. Tranquilli. Neppure adesso esiste quell’eventualità, così evocata anche in qualche talkshow a sostegno del disegno di riforma di cui tutti discutono in questi giorni. Lo impedisce il Codice di procedura penale (art. 34 comma 3): nessuno può fare il giudice, in un determinato processo, quando vi abbia già “esercitato funzioni di pubblico ministero”. Sgombrato il campo da simili equivoci, è innegabile che - a quanto se ne sa - quel disegno di legge costituzionale miri a cristallizzare in una rigida separazione organica la differenza tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, prefigurando concorsi autonomi, cancellando del tutto la possibilità (pur già assai più ridotta che in passato) di passaggi da uno status all’altro e attuando lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura. “Giusta, necessaria e storica”, la presidente Meloni ha perentoriamente definito la riforma, aggiungendo che con essa non si vuole colpire nessun nemico; ma un quotidiano a lei vicino, in sintonia con parole di esponenti di maggioranza, ha esultato trionfante parlando di “toghe rosse al tappeto”. Larga parte dell’opposizione, dal canto suo, non è stata da meno nell’uso di espressioni pesanti di segno opposto, come quella di uno “sfregio”, dato per indiscutibile, a essenziali princìpi costituzionali. Radicalmente contrapposte e durissime pure le prese di posizione delle associazioni dei magistrati e degli avvocati penalisti: i primi contrari e i secondi favorevoli, con le categorie pronte a rinnovare mobilitazioni anche estreme. Fortunatamente non mancano voci trasversali, di giuristi e non, fuori dai cori. Certo, il tempo e le pause di riflessione imposte dalla procedura delineata nella Carta fondamentale per le leggi di revisione costituzionale dovrebbero favorire un confronto capace di giungere a risultati largamente condivisi, cui si dovrebbe sempre tendere quando si pone mano a leggi del genere, senza affidarsi, come a una roulette, alla scommessa referendaria, pur pienamente legittima. Nella specie, del resto, su un’altra parte del progetto - quella dell’istituzione di un’Alta Corte per i giudizi disciplinari sui magistrati, da tenere distinta dal (o dai) Csm - dovrebbe esser meno difficile, con opportune modifiche, approdare a una confluenza parlamentare molto larga, sulla scorta di quanto approvato con voto “bipartisan” alla fine del secolo scorso dalla Commissione per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema. Il punto più delicato resta quello della separazione delle carriere, che i promotori della riforma vorrebbero addirittura imposta implicitamente dal riferimento alla “terzietà” del giudice, inserito nel 1999 nel testo dell’articolo 111 della Costituzione. Dal canto mio, non nascondo di esser più sensibile al rischio che nonostante le assicurazioni del Ministro Nordio quella separazione, spezzando la condivisione di una formazione e poi di esperienze e di dialogo comuni con chi è investito della responsabilità del giudicare, possa indurre i pubblici ministeri a un uso più spregiudicatamente colpevolista e comunque arbitrario dei propri poteri: donde, se non altro, che, con la scusa di temperarne gli ardori, tornino suggestioni, nel mondo politico, per riportare l’operare di quei soggetti sotto il controllo del Potere esecutivo. In effetti, nell’ordinamento francese, al quale la versione nostrana appare ampiamente ispirata, la separazione delle carriere e la duplicità di struttura del Conseil supérieur de la magistrature si affiancano a un dettato costituzionale che tuttora sottopone testualmente i membri del parquet (ossia delle Procure) all’autorità” del Ministro della Giustizia. Il timore di un rischio, s’intende, non è una certezza. D’altronde, quanto all’opportunità di una comune “cultura (genuinamente garantistica) del processo”, non dovrebbe farsi valere soltanto tra giudici e pm ma estendersi ai rapporti degli uni e degli altri con gli avvocati, come capita in Germania, a partire da un tirocinio obbligatoriamente comune e polivalente. Infine, qualche parola su un aspetto solo in apparenza “tecnico’: Si tratta del ruolo attribuito al sorteggio per la scelta dei componenti dei progettati, nuovi “Consigli superiori”. Con una differenza, tuttavia. Quanto ai “laici” si è sostanzialmente trapiantato lo schema della nomina dei giudici “aggregati” chiamati a integrare la Corte costituzionale per i giudizi penali di sua competenza: formazione di una rosa di persone elette dal Parlamento, tra cui estrarre i membri effettivi del collegio. Circa i “togati” invece, nessuna specificazione, ma mero rinvio, per i dettagli, alla legge ordinaria; il che sembra sottintendere una regola di “sorteggio secco”. Amaro il constatare questo nuovo segno della perdita di rilievo della rappresentatività nella sua forma più autentica e connaturata alla democrazia. E, nello specifico, non meno amaro che la soluzione poggi su parole d’ordine suggestive come lotta alla politicizzazione e al clientelismo nel mondo della giustizia. A farle apparire credibili, purtroppo, hanno però contribuito, non solo e non tanto comportamenti di singoli (i “magistrati combattenti”, per dirla con Sabino Cassese) ma soprattutto un progressivo inquinamento del vissuto delle “correnti” della magistratura, nel prevalere di una logica, non importa se conflittuale o spartitoria, ma in ogni caso distorta rispetto a quella che esse potevano avere, in una dialettica, ideale e concreta, tesa ad accrescere tra i magistrati la coscienza del ruolo che la società affida loro. La verità è che la magistratura adesso teme di perdere potere di Ennio Amodio Il Dubbio, 4 giugno 2024 Esplode la reazione della magistratura associata contro la riforma imperniata sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. E arriva a minacciare lo sciopero mostrando una forza polemica inversamente proporzionale alla fragilità dei motivi della protesta. Si fa suonare a pieno regime la sirena dell’allarme, come se stesse per incendiarsi la casa della giustizia penale nascondendo così le vere ragioni del veto posto nei confronti di un distacco della costola rappresentata dai magistrati della accusa dal corpo unitario dei togati. Appare in primo luogo inspiegabile la tardività della scesa in campo delle toghe. I magistrati sanno bene che da più di un anno pendono in sede parlamentare quattro disegni di legge sulle carriere separate, caratterizzati da due distinti organi di autogoverno, tutti testi normativi pressoché identici a quello sfornato ora dal governo. Ed è noto che su questi progetti la Commissione affari costituzionali della Camera ha alacremente lavorato tenendo anche numerose udienze conoscitive per raccogliere i pareri di pratici ed esponenti della cultura giuridica. Perché la magistratura ha mantenuto il silenzio su questa fase ed ha alzato la voce solo ora, dopo gli squilli di tromba del centro destra? Era doveroso, tenuto conto dell’alto profilo istituzionale del tema sul tappeto, aprire un confronto sereno e ragionato invece di sbandierare slogan con in mano l’arma dello sciopero. La cultura giuridica del nostro Paese, che è riuscita a dar vita, trent’anni fa, al codice di procedura penale di rito accusatorio contro gli sbarramenti di gran parte della magistratura, ha molto da dire sulla riforma del pubblico ministero. Oggi, invece, sottraendosi al dovere di ragionare sui principi e sulla Costituzione, si fa balenare il rischio occulto di un trascinamento delle Procure nell’area di dominio politico che fa capo all’esecutivo. Ma si tratta a ben vedere soltanto dell’agitarsi di un fantasma del passato. Infatti, con l’ombrello istituzionale del suo organo di autogoverno, costruito mediante una norma costituzionale di nuovo conio, le Procure sarebbero collocate in una sorta di cassaforte incapace di subire scossoni da parte di un Ministro della giustizia propenso a fare operazioni di vassallaggio. Dov’è allora quel pericolo di perdita dell’indipendenza che turba i sonni dell’Associazione nazionale magistrati? Sotto un altro profilo, si sostiene poi negli ambienti dei togati che è bene non allontanare troppo le Procure dalle posizioni dei giudici perché anche chi investiga e esercita l’azione penale dovrebbe avere una “cultura della giurisdizione” che tiene lontano un procuratore dall’agire partisan di un poliziotto. È però, una falsa prospettiva che denuncia in modo plateale l’incapacità di comprendere lo spirito del rito accusatorio. Il pubblico ministero non deve risciacquare i suoi panni nella tinozza del giudice altrimenti il suo ruolo diverrebbe quello di un fratello minore di chi ha il compito di emettere la sentenza. Anche la parte pubblica ha, del resto, obblighi di lealtà e correttezza ancor più stringenti di quelli del difensore e non c’è bisogno di trasformare un investigatore in un compagno di viaggio dell’organo giurisdizionale. Qual è allora la vera ragione che spinge i magistrati sulle barricate pronti a respingere qualsiasi tentativo di dare una nuova fisionomia all’ufficio del pubblico ministero? C’è una sola spiegazione. Il vero e inconfessato motivo del dissenso è il timore che il distacco dei magistrati dell’accusa dall’odierno corpo unitario e coeso conduca ad un ridimensionamento della magistratura come struttura di potere. Oggi i pubblici ministeri sono gli interlocutori forti della politica perché hanno nelle loro mani le chiavi che possono mettere in moto il processo penale. Amministratori pubblici ed esponenti dei partiti li temono perché sanno che non ci vuol nulla a scrivere un nome sul registro degli indagati così da bruciare in un lampo la credibilità costruita in una lunga carriera politica. È dunque una sciagura perdere l’unità, quale che sia la forma del distacco, e rinunciare al braccio secolare. Ma la separazione è richiesta proprio in conseguenza delle deformazioni subite nel tempo da un organo dell’accusa forte e con la inguaribile propensione a vestire i panni del paragiudice. Il processo accusatorio, introdotto nel nostro Paese nel 1988, reclama un procuratore di giustizia che non sia un gigante calato in una sede giudiziaria in cui deve confrontarsi con un difensore senza un adeguato scudo per fronteggiarlo. Ed è per questo che il traguardo della riforma non deve essere quello di un nuovo CSM che incoroni i rappresentanti dell’accusa per farli salire allo stesso piano in cui siedono i giudici. La separazione esige lo sbocco nella parità tra accusatore e difensore. Così hanno sempre pensato da decenni giuristi e avvocati penalisti nel nostro Paese. Dovrebbero ricordarsene tutti nel dibattito surreale di questi giorni in cui i retropensieri fanno precipitare il discorso ad un livello improduttivo e fuorviante. Lo scontro politica-giustizia. Ma il potere del popolo risiede anche nei tribunali di Mariano Croce* Il Domani, 4 giugno 2024 Le riforme costituzionali proposte dal governo rispondono a una visione in cui solo il potere esecutivo può rappresentare la volontà del popolo. Ma il voto al leader politico non è l’unico atto legittimante. Le più importanti riforme degli ultimi due decenni nel campo dei diritti sono state introdotte per iniziativa o per monito delle corti, cui i cittadini insoddisfatti si rivolgono con crescente frequenza. Il colpo di scure della corte di Manhattan sul capo biondastro di Donald Trump puntuale resuscita lo sdegno populista per l’ingerenza del potere giudiziario. Lo scorso giovedì l’ex presidente è stato dichiarato colpevole dei trentaquattro capi d’accusa relativi allo scandalo sessuale che avrebbe pesato sulle elezioni presidenziali del 2016. Secondo una reazione più che pavloviana, i custodi del sacro fuoco della sovranità popolare censurano l’empietà dei giudici: il potere giudiziario vuole fermare a colpi di sentenze un leader politico crismato dalla volontà inappellabile del popolo, e che oggi torna a scaldare i cuori dell’America più profonda e verace. Nel suo clamore iconico, questo evento esprime una tendenza che da decenni va acutizzandosi, vale a dire lo scontro tra poteri dello Stato. Secondo una lettura consolidata soprattutto a destra, ma non solo, i giudici esondano con dolo per conquistarsi un potere politico che per Costituzione non spetta loro. Si tratterebbe di un autentico e pianificato attacco a chi solo è legittimato a rappresentare la comunità. In forza di tale richiamo alla legittimità politica, il potere esecutivo, in Italia come altrove, tenta oggi di introdurre meccanismi costituzionali che riconducano il potere giudiziario sotto un più efficace controllo del governo. Uno degli argomenti meno convincenti di chi difende l’attività delle corti è di natura morale, o peggio ancora moralistica, relativo com’è alla disciplina e alla presentabilità del ceto politico. I tribunali interverrebbero giocoforza per arginare un sistema di scostumatezze, scandali e favoritismi. La legittimità dei giudici proverrebbe quindi, in primo luogo, da una vocazione alla tutela dei buoni costumi politici. Eppure, c’è un argomento ben più forte per ribattere alle accuse di esorbitanza e denunciare il carattere spesso proditorio dei molti tentativi di irregimentare i giudici: la volontà popolare non deve né può essere considerata come la fonte unica della legittimità politica. L’argomento, di frequente usato a destra, secondo cui esisterebbe una relazione diretta, di natura quasi personale, tra elettori ed eletti sa molto di anni Venti del Novecento, quando si guardava al detentore del potere esecutivo come all’interprete ultimo della volontà dei cittadini. Il popolo era un’entità immaginaria, che veniva non solo resa manifesta, ma di fatto creata, dalla decisione sovrana dell’esecutivo. Al tempo, la sola idea che un tribunale potesse rappresentare un’istanza popolare era intesa come un’apologia dell’eversione. Ma le Costituzioni del Secondo dopoguerra hanno definitivamente messo in mora questa concezione metafisica della relazione personale, che pure oggi si vorrebbe restaurare con l’elezione diretta del premier. La legittimità costituzionale nasce da un’articolazione complessa di poteri, che vede sì nella volontà popolare il suo centro propulsivo, ma non si esaurisce nella sua espressione tramite elezioni. Il potere del popolo risiede piuttosto nella complessa dialettica tra poteri scientemente posti in tensione tra loro perché nessuno di essi possa prevalere sull’altro. Sicché, è tutt’altro che eversivo sostenere che il popolo è rappresentato da tutti gli organi dello stato, quelli eletti e quelli non eletti, nella loro complicata interazione. Non c’è alcun bisogno di scomodare la morale: basta la politica, in una declinazione più aderente all’impalcatura delle Costituzioni del secondo Novecento. Oggi le corti, dalle più basse alle più alte, si fanno ricettrici di rivendicazioni ed esigenze cui il più delle volte la politica non sa dare ascolto. Le più importanti riforme degli ultimi due decenni nel campo dei diritti, dalla famiglia al lavoro, sono state introdotte per iniziativa o per monito delle corti, cui i cittadini insoddisfatti si rivolgono con crescente frequenza. Beninteso: questo non accresce la legittimità del potere giudiziario, che sempre gli deriva dalla Costituzione. Più semplicemente, attiva e ravviva la sua naturale propensione a integrare, entro i limiti previsti, il potere legislativo e a vigilare sulla legittimità costituzionale delle leggi. Forse è questa la chiave per meglio vagliare l’opportunità delle attuali proposte di revisione costituzionale. Certo, è tutt’altro che folle pensare che le Costituzioni debbano rispondere ai mutamenti della vita sociale. Si badi però a che tra le motivazioni delle modifiche non vi sia la neppure troppo tacita esigenza di restaurare una visione irrancidita del potere esecutivo come scrutatore del cuore popolare, naturalmente avverso alle cervici indurite di funzionari imparruccati. *Filosofo Tra giudici e Pm la sorte a metà di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 giugno 2024 Disparità nella scelta di laici e togati per il Csm. E dubbi su chi abbia ancora la garanzia di essere sottoposto soltanto alla legge. Se a un summit di mafia un boss proponesse di scegliere per sorteggio i componenti della Commissione di Cosa Nostra, ne uscirebbe sciolto nell’acido, scherzava anni fa un inquirente quando, anche in una parte delle toghe disgustate dal correntismo corporativo e spartitorio, iniziava trovare consensi l’idea (ora fatta propria dalla modifica costituzionale proposta dal governo) di sorteggiare i membri togati del Consiglio superiore della magistratura. ??Battuta ironica legittimata non solo dalla delusione per quanto poco il sorteggio dei commissari avesse moralizzato ad esempio i concorsi universitari; o dal gioco polemico delle ascendenze di un sorteggio proposto, per la prima volta per il Csm, nel 1971 dal missino Giorgio Almirante. E nemmeno dal supermarket delle citazioni storiche sul sorteggio praticato dalla Repubblica di Venezia, al cui scaffale lo storico Frederic Lane ad esempio ricordava, a proposito delle nomine sorteggiate, che il Maggior Consiglio della Serenissima si riservasse di approvarle come “salvaguardia contro la scelta di persone incompetenti”. Il vero dazio pagato al sorteggio è più che altro la corrispondente perdita di autorevolezza istituzionale della categoria incapace (o tale additata) di selezionarsi: specie a fronte della invece ben maggiore legittimazione dei componenti Csm espressi in base alla Costituzione dalla politica, per i quali, nella proposta governativa, il sorteggio interverrebbe su una lista di professori e avvocati già selezionati per competenza e opzioni culturali dal Parlamento con voto fisiologicamente destinato dunque a fare pesare di più dentro il Csm l’impronta della maggioranza di turno. Tra i tanti altri aspetti discutibili della ventilata riforma, incuriosisce la coabitazione tra il nuovo articolo 104 della Costituzione (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”), con il quale il governo rassicura i magistrati sull’assenza di rischi di sottoposizione all’esecutivo; e invece l’articolo 101 non modificato, “i giudici sono sottoposti soltanto alla legge”. Oggi questa garanzia si proietta anche sui pm che appartengono alla medesima carriera. Ma una volta separati i pm dai giudici, e salvo declassare a pleonastica la coesistenza tra i due articoli 101 e 104, la garanzia di essere “sottoposti soltanto alla legge” resterebbe per i giudici, mentre per i pm diventerebbe in teoria non più impossibile essere sottoposti ad altro che solo alla legge, come ad esempio a indicazioni del ministro della Giustizia o dei capi degli uffici. “L’Anm contro la separazione delle carriere? Le leggi le fa il Parlamento”, dice Sisto di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 giugno 2024 “La riforma approvata in Cdm rafforza il ruolo del giudice e garantisce parità fra accusa e difesa”, dice il viceministro della Giustizia. “Nessun rischio per l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. Il sorteggio libera le toghe dalle correnti”. “E’ una riforma equilibrata, elegante, rispettosa dei canoni costituzionali e che cerca di restituire lustro alle istituzioni, magistratura per prima. Il testo rafforza il ruolo del giudice e garantisce parità alle parti, secondo quanto già previsto dall’articolo 111 della Costituzione. Per certi versi, infatti, si può dire che la separazione delle carriere è già richiesta dall’attuale Costituzione: solo il giudice, è scritto, è terzo e imparziale, tutti gli altri restano autonomi e indipendenti”. Ad affermarlo, intervistato dal Foglio, è il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, riferendosi alla riforma della magistratura approvata mercoledì scorso in Consiglio dei ministri. Il disegno di legge costituzionale, che ora andrà in Parlamento, istituisce carriere separate per giudici e pubblici ministeri. L’Associazione nazionale magistrati e buona parte dell’opposizione (Pd e M5s in testa) sostengono che la riforma sia inutile e pericolosa. Inutile perché già oggi i passaggi da una funzione all’altra sono pochissimi. “Ma i passaggi tra le funzioni non c’entrano”, replica Sisto. “Qui si tratta di dare piena effettività all’articolo 111 della Costituzione, secondo cui il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. L’avverbio ‘davanti’ dà l’idea della necessaria diversità che deve esserci fra colui che giudica e chi propone l’accusa e chi la difesa, un esempio di geometria piana di rango costituzionale”. La riforma, sempre secondo i critici, sarebbe pericolosa perché metterebbe a rischio l’autonomia e l’indipendenza delle toghe. “L’articolo 104, come formulato da questa riforma, è molto chiaro - ribatte Sisto - Afferma che la magistratura costituisce unitariamente e complessivamente un ordine autonomo e indipendente. Solo in seguito si distingue tra carriera giudicante e carriera requirente. Quindi il provvedimento taglia le gambe a ogni possibile illazione sul fatto che il pm possa essere soggetto all’esecutivo”. Dalla separazione delle carriere deriva l’istituzione di due differenti Csm, uno per i giudici e uno per i pm, con il ricorso al sorteggio per la scelta dei componenti sia togati che laici. “Il sorteggio è uno strumento per cercare di evitare che il magistrato dipenda dalle correnti”, dice il viceministro alla Giustizia. “Io non sono contrario alle correnti quando svolgono la loro attività culturale, ma non vanno bene quando diventano cordate, cioè luoghi di potere all’interno della magistratura”. La riforma, ricorda poi Sisto, “sottrae la giustizia disciplinare al Csm e la affida a un’Alta corte, costituita da esperti dotati di grandi capacità e competenza. Il tutto, va ricordato, senza alterare le proporzioni numeriche fra togati e laici, due terzi i primi, un terzo gli altri”. Insomma, non esiste nessun pericolo per l’indipendenza della magistratura. “Sono trent’anni che, non solo noi di Forza Italia, da Berlusconi a Tajani, sosteniamo che il giudice debba essere diverso da chi accusa. E i consensi, autorevoli, sono in crescita. Basti pensare che già Giacomo Matteotti, in uno scritto del 1919, scriveva che ‘il pubblico ministero è parte’. Mi sembra un principio semplice, di assoluto buon senso. Usando una metafora calcistica, non si è mai visto un arbitro che abbia un legame di parentela con una delle squadre o uno dei calciatori in campo”, ribadisce Sisto sulla separazione delle carriere, ricordando la posizione favorevole espressa sul tema nel 2019 da diversi esponenti del Pd (inclusa l’attuale responsabile giustizia, Debora Serracchiani): “Mi auguro che col tempo, magari cercando di ragionare e di ricordare, si possa trovare anche in Parlamento un ragionevole accomodamento su questi temi, che la storia dimostra essere nella sensibilità di tutti”. L’Anm, intanto, prepara le barricate. “Sono sempre stato dialogante con i magistrati - dice Sisto - ma non è possibile pensare a una magistratura che si sostituisce al Parlamento. Io li ho vissuti gli anni in cui prima di approvare una norma sulla giustizia era necessario il lasciapassare di fatto dell’Anm e del Csm. Ora la situazione è cambiata. Siamo diventati tutti, nessuno escluso, un po’ più grandi, più maturi. Questo è un governo finalmente legittimato dal popolo e qualche competenza per scrivere le leggi ce l’ha. Insomma, Nordio non è nato ieri, così come quelli che fanno squadra con lui”. “Qualche esponente della magistratura ritiene di avere la rappresentanza del popolo italiano, ma non è così. La magistratura pronuncia le sentenze in nome del popolo italiano ma la rappresentanza ce l’ha, ancora una volta a lettera di Costituzione, solo il Parlamento, che ha il compito di scrivere le leggi. Sicché nessuno disturbi chi applica le leggi, però, analogamente, nessuno disturbi chi le scrive”, conclude Sisto. Così la “svolta cartolare” ha spento il processo penale di secondo grado di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 4 giugno 2024 Si è imposto un mantra: bisogna privilegiare l’efficienza della macchina giudiziaria Ma l’essenza del rito è l’oralità, che dà anche sostanza al rapporto tra assistito e difensore. La struttura processuale delineata nel codice del 1988 presentava solo due distinti modelli operativi in tema di partecipazione alle udienze, anche per i procedimenti in Corte d’Appello: l’udienza pubblica o l’udienza in Camera di consiglio, regolamentata dal codice di rito all’articolo 127 c. p. p., secondo l’originaria formulazione dell’articolo 599 comma 1 c. p. p., schema quest’ultimo che la Relazione al progetto preliminare qualificava come “importante innovazione della legge delega (direttiva 93)” n. 81 del 1987, in grado di garantire “la speditezza del rito e di consentire un risparmio di energie in fase di giudizio”. Sistema profondamente in crisi del quale, però, non era facile prevedere un superamento in tempi brevi, sino allo sconvolgimento provocato dal covid. Sino a quando cioè tutto ha subìto trasformazioni tanto repentine quanto radicali per la cogente necessità di “raffreddare la curva dei contagi”: il processo penale - compresi i suoi mezzi d’impugnazione - non poteva restare a guardare. Raccogliendo i frutti di quegli interventi emergenziali, la rinomata riforma Cartabia ha promosso - analogamente a quanto già previsto per il giudizio in Cassazione dal Dl n. 18 del 17 marzo 2020 (convertito nella legge 27 del 24 aprile 2020) e poi dal cosiddetto Dl Ristori 2 (Dl n. 137 del 28 ottobre 2020, convertito nella legge n. 176 del 18 dicembre 2020) - un contenimento del contraddittorio in Appello mediante l’articolo 23 del Dl 149 del 9 novembre 2020 (il cosiddetto Dl Ristori bis) che, ai commi da 1 a 6, contemplava una serie di disposizioni per la trattazione e decisione dei giudizi penali impugnatori di secondo grado, la “cartolarizzazione” del giudizio penale. Ça va sans dire che la diretta conseguenza di questa decisione è stato l’innalzamento della quantità degli interventi scritti, fenomeno che ha portato al naturale scolorimento della indispensabilità della partecipazione in udienza a sostegno dei motivi proposti dalla difesa. Tale partecipazione ad oggi resta comunque consentita con diversi termini a cui attenersi, rispetto alla situazione pandemica: infatti, anziché entro 15 giorni dalla data fissata per l’udienza, la richiesta (irrevocabile) di trattazione orale deve essere presentata a pena di decadenza nel termine di 15 giorni dalla notifica del decreto di citazione di cui all’articolo 601 del codice di rito o dall’avviso della data fissata per il giudizio di appello. Si è osservato che la disposizione appare ispirata dalla finalità di razionalizzare la celebrazione delle udienze, consentendo così alla Corte di conoscere - già pochi giorni dopo la comunicazione dell’avviso di fissazione del processo - le modalità di svolgimento del medesimo, impiegando al meglio le risorse, sia esse umane sia materiali, laddove venga richiesta la trattazione in presenza. Nonostante la metamorfosi dell’appello apparisse l’opzione più coerente con le logiche acceleratrici del sistema giudiziario, non si può trascurare come la riforma e il conseguente binomio impugnazioni/ cartolarità si regga su fondamenti particolarmente fragili e precari, poiché basato su un atteggiamento di collaborazione tra imputati e avvocati. Atteggiamento che, per chi esercita la professione, può qualificarsi come improbabile: cosa dovrebbe spingere l’imputato e il suo difensore ad astenersi dal partecipare ai gradi di giudizio? Quale potrebbe essere l’incentivo? Certamente non l’efficienza del sistema giudiziario. Rileva, anche il tema, sicuramente meno nobile, ma che non può essere trascurato, della rinuncia a una delle voci più remunerative delle tariffe forensi. I protocolli fra le varie Corti d’appello e i relativi Ordini forensi sono chiari: “Si conviene che ai fini della liquidazione del patrocinio a spese dello Stato (analogamente avverrà per la difesa d’ufficio degli irreperibili di fatto o in ulteriori situazioni analoghe) la partecipazione in forma cartolare esplicata con la presentazione di conclusioni scritte viene equiparata alla partecipazione diretta all’udienza”. Quando però l’onorario non è liquidato dall’autorità, come per i motivi d’appello, le repliche o le memorie, l’assistito ha una percezione “ridimensionata” rispetto alla performance in aula d’udienza. Sono forse considerazioni poco eleganti, ma sono fattori che incidono profondamente sulla buona riuscita di una riforma, soprattutto culturale, la quale impone a ogni parte processuale una rimodulazione del proprio ruolo ovvero una rimodulazione della riforma ove - soprattutto per il processo penale - l’oralità è essenza del rito. *Avvocato, Direttore Ispeg Luigi Saraceni, una passione di giustizia e cultura di Mauro Palma Il Manifesto, 4 giugno 2024 Addio al giurista. La passione per la giustizia ha guidato il suo percorso da magistrato, prima, nella fase di avvio di Magistratura democratica, con uno stretto legame con Ottorino Pesce nel periodo difficile, quando con disinvoltura venivano tolte a taluni magistrati le inchieste sui casi ‘sensibili’, poi nel dibattito teorico in seno alla stessa corrente. Difficile ricordare in poche righe Lugi Saraceni, la sua sensibilità, il rigore giuridico, l’etica come criterio del suo rapportarsi ai problemi e anche la capacità di sorridere, perché era di arguta compagnia. Era una persona che non separava l’acutezza analitica e la costante tutela di garanzie e diritti di ciascuna parte nel suo esercizio di magistrato, dal desiderio di tenere ferma la necessaria critica, così delineando un sapere giuridico denso di norme sì, ma non limitato a esse, bensì volto alla costruzione di quella cultura democratica che si nutre sempre del dubbio. “La legge - ha scritto - è esposta a quell’insopprimibile momento dell’attività giurisdizionale che è la sua interpretazione; la ricostruzione del fatto esige ascolto e dubbio critico. Fare giustizia richiede passione civile e capacità di essere imparziale, indipendente anche dalla propria passione”. La passione per la giustizia ha guidato il suo percorso da magistrato, prima, nella fase di avvio di Magistratura democratica, con uno stretto legame con Ottorino Pesce nel periodo difficile, quando con disinvoltura venivano tolte a taluni magistrati le inchieste sui casi ‘sensibili’, poi nel dibattito teorico in seno alla stessa corrente su temi quali l’incompatibilità dei reati di opinione con un contesto effettivamente democratico, o la necessaria considerazione della tenuità del fatto, tema a cui ha dedicato molte riflessioni e che non entrerà nel nostro sistema se non quarant’anni dopo e vi rimarrà per poco tempo. Quella stessa passione ha tenuto insieme più aspetti del suo impegno: giuridico, politico, civile, culturale. Come parlamentare dal 1994 al 2001, sua è la legge volta a evitare il passaggio per il carcere di coloro che, condannati a una pena inferiore ai tre anni, potrebbero accedere a una misura alternativa. Una legge per diminuire quell’accentuazione selettiva - e implicitamente classista - che portava e porta a trovare in carcere persone con sentenze brevi o brevissime, spesso per carenza di propri strumenti. La volontà di intervenire su questo tema lo indusse a condividere il percorso con un altro parlamentare, Alberto Simeone, di appartenenza politica opposta: la norma porta il cognome di entrambi. È stata invece la passione per l’impegno sociale e politico, a farlo essere attore importante in quell’area di attenzione alla legislazione dell’emergenza della fine degli anni Settanta, alle sue conseguenze sul piano processuale e su quello della cultura della giurisdizione, che ha trovato un riferimento in questo giornale, con realizzazioni editoriali sorte un po’ come supplemento un po’ in autonomia, quali Il cerchio quadrato o Antigone, fino alla neonata omonima associazione. Muovendo dal rigore normativo individuava le vie percorribili per svelare l’inconsistenza di alcuni provvedimenti e per aprire strade diverse: fu proprio Saraceni a delineare le linee per l’eccezione d’incostituzionalità della norma sulle droghe - la Fini Giovanardi - surrettiziamente inserita nel decreto sulle Olimpiadi invernali del 2006. La stessa volontà di agire e non limitarsi a denunciare lo ha visto protagonista, insieme a Giuliano Pisapia nella difesa di Abdullah Öcalan e nelle vicende di quella sua presenza in Italia: più volte è ritornato sull’ambivalenza della concessione dell’asilo da parte del nostro Paese e del parallelo disinteresse istituzionale verso la sua situazione detentiva. Sono alcune delle tappe che lui stesso ha ricordato nei tre momenti autobiografici del suo Un secolo o poco più (Sellerio, 2019), riandando, nell’ordine, al ruolo fortemente formativo della figura del padre Silvio, in quei territori a cui è sempre rimasto legato, alla propria storia personale di magistrato, deputato, avvocato, alla vicenda giudiziaria di sua figlia, indossando la toga nella situazione emotivamente e oggettivamente più difficile. Ma non si possono ricordare solamente dottrina e impegno. Perché sono la sensibilità e la curiosità culturali a rendere la pienezza della sua figura. Quella curiosità che lo portò, nel 1972 e 1973, a Venezia, al Controfestival del cinema, come rappresentante di Magistratura democratica - erano anni in cui la tessitura di saperi diversi non era stranezza, ma ne costituiva l’essenza - e a vivere attivamente questa esperienza. Quella sensibilità che lo faceva innamorare della bellezza degli aggrovigliati tronchi dei vecchi ulivi della vasta campagna attorno alla sua Castrovillari. Ne conservo le foto che mi inviò. Luigi Saraceni. La scelta morale ed esistenziale del garantismo di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 4 giugno 2024 Ha impersonato per molti decenni un modello esemplare di magistrato, per il suo impegno costante a sostegno dei valori del giusto processo e delle garanzie delle persone contro l’arbitrio giudiziario. Con Luigi Saraceni viene a mancare una delle figure più limpide e generose di Magistratura Democratica. Luigi ha impersonato per molti decenni un modello esemplare di magistrato, per il suo impegno costante a sostegno dei valori del giusto processo e delle garanzie delle persone contro l’arbitrio giudiziario. Il garantismo fu per lui molto di più di un insieme di regole a tutela dei diritti fondamentali. Fu soprattutto il frutto di una scelta morale, che comportava un atteggiamento esistenziale di rispetto, di empatia e di umana comprensione e solidarietà con le persone giudicate, soprattutto se deboli e senza difese. Luigi non amava, anzi detestava il potere che era chiamato ad esercitare. E proprio per questo vedeva, nelle garanzie, i limiti indispensabili e preziosi contro i suoi possibili abusi. Fu tra i fondatori di Magistratura Democratica, cui seppe imprimere taluni connotati che oggi è necessario ricordare: il mutamento di stile nei rapporti con la società - basti pensare ai dibattiti pubblici sulla giustizia, allora un’assoluta novità, e alle contro-inaugurazioni dell’anno giudiziario da Luigi promosse a Roma in tutti i primi anni Settanta -, rispetto alla vecchia figura paludata e supponente del magistrato, sedicente apolitico ma in realtà apertamente reazionario; la passione e l’entusiasmo autentico da lui portati nella riflessione collettiva che allora sviluppammo, nei tanti nostri incontri e convegni, sul senso nuovo e garantista che, alla luce della Costituzione, volemmo associare alla funzione giudiziaria; il radicalismo, spesso frainteso come estremismo, delle sue battaglie civili e politiche a sostegno delle garanzie e contro le disuguaglianze classiste che affliggono da sempre la nostra giustizia penale; gli affetti profondi e contagiosi di amicizia autentica, di cui Luigi era capace e che riusciva a trasmettere al nostro piccolo gruppo di eretici e a cementarlo al di là dei dissensi che sempre l’hanno attraversato. Furono questi connotati che fecero di Magistratura Democratica, allora un’esigua minoranza, il gruppo culturalmente egemone nell’Associazione dei magistrati. Fu grazie ad essi che MD contribuì alla maturazione, tra i magistrati, del valore costituzionale dell’indipendenza, sia esterna che interna all’ordine giudiziario, e del ruolo di garanzia dei diritti, dell’uguaglianza e della dignità della persona quale fonte di legittimazione della giurisdizione. Indipendenza e garantismo sono sempre stati, per Luigi Saraceni, incompatibili con ogni forma di difesa della corporazione dei giudici. Luigi fu tra i principali sostenitori della rottura delle solidarietà corporative, promuovendo la critica pubblica, anche da parte dei magistrati, delle violazioni delle garanzie messe in atto dai loro colleghi. Quelle critiche, dicevamo, sono un fattore indispensabile di responsabilizzazione e democratizzazione della funzione giudiziaria. Ricordo la critica analitica del processo contro Pietro Valpreda in un volume del 1973 scritto interamente da magistrati e da lui voluto e coordinato, Valpreda + 4. Anatomia e patologia di un processo, che fece scandalo quale indebita “interferenza” ma che smontò, con estrema chiarezza e precisione, tutti gli elementi della montatura giudiziaria seguita alla strage di piazza Fontana. E, ancora di recente, la critica durissima della sentenza di condanna in primo grado di Mimmo Lucano, motivata, anziché da prove, da una massa scandalosa di insulti contro l’imputato. Per un breve periodo, negli anni Novanta, Luigi Saraceni fu anche parlamentare. In Parlamento portò lo stesso costume di indipendenza e di rispetto per la legalità che aveva informato la sua professione di giudice. Ricordo le sue battaglie, insieme a Salvatore Senese, contro l’ergastolo e in difesa delle garanzie del corretto processo. Ma ricordo, soprattutto, la sua richiesta alla Giunta delle elezioni, avanzata nel 1994 in dissenso dal suo gruppo parlamentare e naturalmente caduta nel vuoto, di dichiarare ineleggibile Silvio Berlusconi sulla base dell’articolo 10 della legge elettorale n. 361 del 1957, la quale dispone l’ineleggibilità di “coloro che in proprio, o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato… per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica” quali erano, in maniera esemplare, quelle richieste alle berlusconiane imprese televisive. Da allora, grazie a questa violazione clamorosa, il conflitto d’interesse è penetrato nella politica ed è entrato a far parte della costituzione materiale del nostro ordinamento. Ed è costantemente cresciuta la distanza tra le battaglie e le prospettive di progresso di allora e la regressione in atto così della nostra giustizia penale come del nostro sistema politico. (I funerali si svolgeranno oggi, martedì 4 giugno, alle ore 14, presso il Tempietto egizio, ingresso al Verano da Via Tiburtina) San Gimignano (Si). “Non sono un torturatore. Questo lavoro è diventato impossibile” di Nello Trocchia Il Domani, 4 giugno 2024 Uno dei primi poliziotti penitenziari condannati per tortura racconta il caos degli istituti di pena. Ha fatto appello, e ora racconta le disfunzioni del sistema e quello che considera il “tradimento” del governo. “Lei lo ha fatto il militare? In un corpo ci si copre e ci si spalleggia, ma io non ho mai picchiato nessuno”. A parlare così è un agente di Polizia penitenziaria, non uno qualsiasi, ma uno dei primi condannati per tortura in Italia dall’introduzione del reato nel 2017. Mentre il governo presenta il GIO, il Gruppo d’intervento operativo, per sedare le rivolte in cella, il poliziotto ci racconta di carcere, violenze, e svela un sistema al collasso. In un attimo si sbriciola la propaganda governativa che inaugura nuovi gruppi mentre mancano 18mila unità. “La verità è che questo mestiere non lo vuole fare più nessuno, la divisa è diventata troppo pesante”, dice. Telecamere, indagini e il reato di tortura hanno fatto emergere casi di violenza dal nord al sud del Paese, le ultime sono quelle documentate all’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano. Il racconto dell’agente deve per forza partire dai fatti gravi che lo riguardano. La sentenza - Bisogna tornare indietro di sei anni. Undici ottobre 2018, carcere di San Gimignano, provincia di Siena, Toscana. Un trasferimento di un detenuto da una cella all’altra diventa un caso giudiziario, il primo nel quale viene applicato il reato di tortura, con la condanna di quindici persone, dieci in abbreviato e cinque con rito ordinario. Tra queste l’agente, che ci chiede di non svelare l’identità perché c’è il processo di secondo grado in corso. La sentenza ha ricostruito i fatti: un cittadino straniero è stato prelevato a forza dalla sua cella e condotto in un’altra, un trattamento inumano e degradante. Nelle motivazioni i giudici, parlando di “vero e proprio esercizio di violenza, di abuso della forza pubblica e di abuso di autorità”, scrivono di “un’aberrante opera di pedagogia carceraria”. C’è un video dove si vede il capannello di poliziotti attorno al detenuto che crolla in terra, un ginocchio che lo sormonta e il trasferimento nella nuova cella. L’agente ammette la sproporzione e l’inutile presenza di tutti quegli agenti per quel trasferimento, ma lo giustifica con la chiamata d’emergenza che aveva portato in reparto più personale del necessario. In sostanza, però, si dice estraneo alle accuse. “Noi a quel detenuto non abbiamo fatto nulla, continuerò a urlarlo ovunque. Botte? No. Il ginocchio sopra? No. Le chiedo una cosa, perché violenze, comprovate da intercettazioni e referti, in altri istituti sono state derubricate a lesioni? Mi riferisco al caso delle violenze nel carcere di Sollicciano. Non c’è uniformità e noi dobbiamo diventare un caso di scuola”, dice. L’agente offre una risposta diversa da quella ricostruita nella sentenza, ma sarà il giudizio d’appello ad accertare la responsabilità penale, quella di primo grado gli ha dato torto su ogni punto. Dentro i blindo - Emerge un dato dal suo racconto. Il reato di tortura, introdotto nel 2017, mostra il collasso del sistema carcere dove convivono le aree marginali della società e gli anelli ultimi dello stato. “Io non so se il problema è il numero di agenti, io so che noi non avevamo un direttore, non avevamo un comandante, non c’era comunicazione tra l’area educativa, sanitaria e il comparto sicurezza. Vuole sapere la verità? Noi in carcere lavoravamo sopravvivendo”, dice. E i partiti? “Chi di noi era vicino a quelli di governo si è allontanato, troppe chiacchiere. Delmastro (il sottosegretario alla Giustizia, ndr) annuncia assunzioni, il problema è che non c’è un collega che voglia restare. Se ne vogliono andare tutti, tutti”, dice. Quello che racconta l’agente penitenziario è un buco nero, questo è diventato il sistema carcerario italiano. I detenuti sono costretti a convivere con sovraffollamento, cibo indecente, strutture fatiscenti, violenze e con un legislatore che usa il carcere come soluzione salvifica. E gli agenti penitenziari sono l’altra faccia debole del sistema, piegati da turni massacranti, da aggressioni, dalla carenza di organico, e costretti a supplire all’assenza di figure chiave come quelle educative e sanitarie. La violenza subita o agita è uno dei punti di caduta del sistema, la prova regina del collasso, in carcere si consuma un conflitto tra ultimi che suscita disinteresse e distacco. Le carceri esplodono, a fronteggiare il quotidiano ci sono gli agenti, la catena di comando resta perennemente immune alle fallimentari scelte assunte. Ma cosa succede agli agenti condannati? “Inizialmente alcuni di noi sono stati interdetti, ma poi siamo stati tutti riammessi in servizio. Il ministero non ci ha sospesi fino a quando lei e il suo giornale non avete pubblicato i video delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma così si amministra la giustizia? La beffa è che alcuni degli imputati per tortura per i gravissimi fatti di Santa Maria sono tornati in servizio, noi, invece, no”, ricorda l’agente sospeso e ora condannato in primo grado. Ma perché in carcere aumentano le violenze, spesso circondate dal silenzio dei colleghi? “Ci si protegge, ci si copre, lo spirito del corpo è così. Lei lo ha fatto il militare?”, risponde. I poliziotti sospesi dal servizio ricevono l’assegno alimentare, metà stipendio, e si arrangiano per arrivare a fine mese. “Io voglio andare in galera se sarò condannato in via definitiva, ma non mi ammazzate prima. L’articolo 27 non vale anche per noi?”, si chiede. Ogni tanto l’agente si ferma, prende fiato e lascia spazio ai ricordi. “Una volta in carcere ho salvato un detenuto mentre tentava di impiccarsi, l’ho preso mentre era attaccato. Secondo lei noi siamo pronti a vedere uno che si ammazza? Il mio mestiere è un casino, però si ricordi che in carcere ci siamo anche noi e anche noi ci togliamo la vita. Oggi mi resta solo una cosa: mostrare a chi voglio bene che sono una persona pulita”. Cosenza. “Un carcere incostituzionale è pena di morte” Corriere della Calabria, 4 giugno 2024 Il 5 giugno, a Palazzo dei Bruzi a Cosenza, la maratona oratoria per fermare i suicidi in carcere. Un ordinamento penitenziario che consente o soltanto tollera, ritenendolo legale e legittimo, un sistema penitenziario, quello delle carceri italiane, che, negli ultimi venti anni, ha generato, mediamente, un suicidio ogni settimana può ritenersi distante dalla pena di morte? Il pensiero della pena di morte è solo apparentemente distante dal nostro stato di diritto; riflettiamo: oramai siamo indifferenti rispetto alle continue morti nelle carceri italiane. E allora, siamo certi di non essere pronti ad accettare l’idea di un carcere incostituzionale, di un carcere tortura, di un carcere che è pena di morte? Il fallimento dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione è il fallimento di una intera società, perché se di carcere si continua a morire vuol dire che il carcere è tortura; che il carcere è pena di morte. Il sistema penitenziario è divenuto oramai una sorta di circo, non di circuito, in cui, però, non esistono trampolieri e pagliacci, ma soltanto gabbie che trattengono esseri umani che, con cadenza settimanale, si arrendono alla vita; si suicidano nelle gabbie. La silenziosa strage del nostro sistema carcerario, di cui sempre meno si parla e di cui nulla o poco si vede, perché ciò che non appare non esiste. Ecco il senso delle manifestazioni su questo tema. Per generare sensibilità sulla 38ª vittima che, in questo 2024, porta a 1768 le morti per suicidio nelle carceri italiane negli ultimi trent’anni, senza dimenticare le ulteriori 2910 morti carcere per altre cause, tra cui malattie, omicidi e cause ancora da accertare. Insomma, possiamo e dobbiamo affermare che, con 4660 morti in carcere negli ultimi trent’anni, il nostro sistema penitenziario non è solo fatto di celle ma di camere mortuarie. Cosa fare? Abbiamo il dovere di costringere democraticamente le istituzioni il mondo politico ad ammettere che il carcere, come oggi divenuto, costituisce la deriva dei diritti umani nonché ad ammettere, anzi a confessare, che l’articolo 27 della costituzione è, allo stato, un modo di dire, di apparire, utile soltanto a calmierare e calmare le coscienze dinanzi all’oltraggio di decessi per suicidi nelle nostre carceri. Solo in questo modo potremmo rifuggire da un approccio connotato da grave ignoranza costituzionale rispetto alla funzione della pena declinata nella costituzione. Occorre che le Istituzioni si rivolgano all’uomo e non al delitto. È giunto il momento in cui lo Stato di diritto, primo tra tutti, deve ammettere che il carcere, così divenuto, è tortura. Che questo carcere è incostituzionale. Perché questo carcere è pena di morte. Cagliari. Tagliato il servizio d’emergenza 118 per il carcere: ambulanze solo di notte di Ennio Neri castedduonline.it, 4 giugno 2024 Preoccupati i detenuti, i familiari e gli operatori penitenziari. Maria Grazia Caligaris: “Limitare l’orario di lavoro dei medici dell’emergenza alle ore notturne, dalle 20 alle 8, sembra significare che durante la giornata non possano verificarsi situazioni pericolose per l’incolumità di una persona detenuta”. “Il servizio dei Medici del 118 nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, da sabato 1 giugno, è garantito solo per 12 anziché per 24 h. Lo ha stabilito la Direttrice Generale dell’Areus (Azienda Regionale Emergenza Urgenza della Sardegna) Simonetta Cinzia Bettelini. Una decisione che ha creato viva preoccupazione tra i detenuti, i familiari e gli operatori penitenziari del più grande Istituto detentivo dell’isola”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” facendo notare che “limitare l’orario di lavoro dei medici dell’emergenza alle ore notturne, dalle 20 alle 8, sembra significare che durante la giornata non possano verificarsi situazioni pericolose per l’incolumità di una persona detenuta”. “La presenza dei Medici del 118 nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta - ricorda Caligaris - risale al marzo del 2017 quando è stata stilata la Rete Regionale della Sanità Penitenziaria in attuazione dell’Accordo Stato Regioni del 2015. Nel modello organizzativo era stato infatti previsto “il servizio medico multiprofessionale integrato con personale sanitario e infermieristico sulle 24 ore. Nello specifico, ai medici di primo intervento, allora inseriti nella ASL 8, erano attribuite 168 ore per 17 unità”. “La successiva riforma ha assegnato all’Areus i medici del 118 creando - osserva la presidente di SDR ODV - una struttura esclusivamente dedicata all’emergenza. Il ripristino delle Aziende Sanitarie Locali, frutto dell’ultima riforma sanitaria, non ha contemplato il ritorno all’ASL 8 dei Medici dell’Urgenza che continuano a essere gestiti dall’Areus. Insomma un pasticcio burocratico che rischia di ripercuotersi su persone fragili in una struttura chiusa dove gli atti gravi di autolesionismo sono all’ordine del giorno dalla mattina alla sera e alla notte”. “L’auspicio, con un immediato intervento dell’assessore della Sanità, è che si arrivi a ripristinare l’assistenza del 118/h24 anche perché un’assistenza dimezzata produce un costante stato d’allarme in una realtà complessa dove insieme a persone con molteplici patologie fisiche ce ne sono moltissime con problematiche psichiatriche che spesso, purtroppo - conclude Caligaris - sfociano in atti inconsulti che li mettono in condizioni di rischio vita. Senza dimenticare quei casi “anomali”, silenziosi e incompresi che trovano voce soltanto quando un immediato soccorso sanitario professionale li salva. Non si può trascurare infine che la delibera del 2017 è ancora operativa e non può essere disattesa” Napoli. “Carcere di Pozzuoli, la coop Le Lazzazzarelle non chiuda, intervenga il ministro” Il Mattino, 4 giugno 2024 “Non può chiudere, non deve chiudere. L’esperienza della coop Le Lazzarelle, nata nel 2010 all’interno del carcere femminile di Pozzuoli, rende concreto il principio della funzione rieducativa della pena, e rappresenta un positivo modello nazionale, tanto da essere stata premiata dal presidente della Repubblica. A seguito dell’ultimo, e più violento, sciame sismico del 20 maggio, le detenute del carcere di Pozzuoli sono state trasferite in altri istituti della Campania per ragioni di sicurezza poiché la struttura è stata compromessa dai ripetuti episodi sismici”. Lo scrive, su Facebook, la senatrice del Pd, Valeria Valente. “Condizione che ha di fatto imposto l’interruzione dell’attività di produzione del caffè delle Lazzarelle. Chiusa la torrefazione realizzata dentro l’istituto, resta l’attività del Bistrot all’interno della Galleria Principe di Napoli”. “Proprio perché credo molto in questo progetto, faccio appello a tutte le istituzioni, e in particolare al ministero della Giustizia, perché si possa arrivare, quanto prima, alla realizzazione di una soluzione alternativa, che è stata per altro già individuata, affinché la torrefazione delle Lazzarelle prosegua il suo prezioso impegno”, conclude Valente. Cremona. Il bando della Camera Penale: “No ai giustizialismi” di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 4 giugno 2024 Gli studenti che hanno vinto le borse di studio. “Buttare le chiavi sono tre parole semplici, con un peso importante. Però le persone nei nostri giorni le usano con leggerezza. A volte le persone usano questa frase quando riempiono una stanza con tutte le cose che non piacciono più. Ed è così che vedono noi carcerati: oggetti da buttare dentro una stanza e buttare le chiavi”. Ma “buttare le chiavi non è scritto nella Costituzione politica dello Stato italiano”. Quelle stesse chiavi “sono un simbolo di libertà, opportunità e, soprattutto, di una nuova vita”. Frasi estrapolate dal tema di un detenuto nel carcere di Ca’ del Ferro. Ha 39 anni ed è uno dei vincitori delle otto borse di studio (ciascuna del valore di 300 euro) consegnate oggi agli studenti selezionati al bando della Camera penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’ dal titolo ‘Buttiamo via le chiavi? E la Costituzione cosa ne pensa?’. Una tradizione ultraventennale della Camera penale, il bando. Ma è la prima volta che lo si estende agli studenti (scuola media) in carcere. Un unicum all’interno della Camera penale della Lombardia Orientale. Per l’occasione, il detenuto, elegante in giacca blu, si è collegato con l’aula della corte d’assise piena di studenti, docenti e familiari. La direttrice della casa circondariale, Rossella Padula, ha ritirato busta e pergamena. Gli alunni delle scuole superiori vincitori sono: Marta Barnabò (3M liceo Scienze Umane- istituto Munari di Crema), Beatrice Stefania Ciobanu (4E liceo scientifico Racchetti di Crema), Silvia Scandelli (2CD istituto Galileo Galilei di Crema), Michela Bertolasi, Emma Cantoni e Gaia Zacchetti (2 CA istituto Galileo Galilei di Crema), Stefan Buduca (3B LSA istituto Torriani di Cremona), Filippo Bodini (2FCOM liceo Anguissola di Cremona), Agata Becchi, Marta Marcotti, Eleonora Benvenuto e Camilla Carini (2B liceo scientifico Gaspare Aselli di Cremona). E il detenuto. “Con estremo orgoglio la Camera penale da più di 20 anni fa questo progetto, entrando nelle scuole e proponendo un tema sul quale i ragazzi dovranno cimentarsi”, ha detto la presidente Micol Parati, che si è rivolta ai ragazzi: “Ci avete inorgoglito. Avete colto esattamente il tema del bando del concorso e ci avete trasmesso in quali molti modi si possa affrontare un tema di questo genere. Abbiamo letto canzoni, poesie, scritti, interviste, filmati. Tutta la vostra fantasia si è scatenata. Avere a che fare con i ragazzi ci arricchisce”. Il bando non esisterebbe senza le borse di studio. La presidente Parati ha ringraziato chi le ha messe a disposizione, partendo dai familiari degli avvocati scomparsi. Sono le borse di studio in memoria degli avvocati Sergio Franceschini, Vittorio Meanti, Aldo Pizzoccaro, Bruno e Gianpiero Guareschi e Agostino Russo. E ancora, quelle messe a disposizione dall’Associazione Popolare Crema per il Territorio e dal banco Popolare e dall’ingegnere Alessandro Barbotta, dell’impresa S. T. A. Barbotta di Gadesco Pieve Delmona. “Ringrazio in maniera molto sentita la presidente della Camera penale, gli avvocati Marilena Gigliotti e Caterina Pacifici, che sono state coloro che hanno portato l’iniziativa all’interno del carcere - ha detto la direttrice Padula -. Un progetto che testimonia un’attenzione e una sensibilità della Camera penale che è sempre costante e che è la dimostrazione, anche da parte di chi è fuori dall’istituto, che non vi è assolutamente l’intento di gettare la chiave. Questo è l’intento per cui noi lavoriamo tutti i giorni e di chi lavora anche nella scuola all’interno dell’istituto”. Il grazie al docente Tommaso Bola, che con i colleghi “non solo cura il corso di scuola media”, ma “ha assistito il detenuto nel mettere a punto l’elaborato. La scuola è un altro esempio di come si faccia riabilitazione in carcere”. Elaborati “originali” e “ben strutturati” è scritto nelle valutazioni. Beatrice “ha svolto con padronanza argomentativa e lessico essenziale, ma efficace, i nodi cruciali della giustizia”. Agata, Marta, Eleonora e Camilla hanno firmato “una rappresentazione realistica e decisamente coinvolgente del tema che veicola lo spettatore in fatti di cronaca, richiamando contemporaneamente concetti normativi e costituzionali che rendono la visione completa e di grande interesse”. Michela, Emma e Gaia hanno realizzato un video “che riporta scene reali della condizione carceraria di San Vittore e Poggio Reale”. Filippo “ha utilizzato una chiave comunicativa consona e trasversale al mondo giovanile, visto dalla prospettiva del rap, il genere musicale più diffuso tra le giovani generazioni”. Nel suo elaborato, Silvia ha utilizzato citazioni come ‘Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà’, o ‘Nella vita si sbaglia, si paga, si cambia’. Stefano ha realizzato “un breve componimento poetico strutturato in sei strofe da dieci versi”. Con il suo elaborato, Marta “racconta una esperienza personale relativa ad un soggiorno di una settimana presso una casa famiglia di Eboli durante il quale ha conosciuto un detenuto”. E poi c’è lo studente in carcere. Nel suo tema introspettivo “offre arguti spunti di riflessione, ma anche moniti a non incorrere nelle suggestioni mediatiche, improntate alla giustizia sommaria e sensazionalista che produce linciaggi ed esecuzioni a scapito degli inalienabili ed inviolabili diritti di proporzionalità e di certezza della pena”. Applausi e foto nell’aula della corte d’assise. Il presidente dell’Ordine degli avvocati, Alessio Romanelli, ringrazia studenti e docenti “per essere presenti in questa che è l’aula della corte d’assise, dove si celebrano i processi più importanti e veramente si decide il destino delle persone”. Un’aula “carica di significati”: la gabbia e la toga, “simbolo della difesa, la divisa del difensore che affratella tutti gli avvocati”. Definisce “splendida l’iniziativa di stendere il bando agli studenti attualmente detenuti”. La cerimonia è l’occasione per tratteggiare il profilo umano e professionale degli avvocati alla cui memoria i familiari hanno istituito le borse di studio. Romanelli ricorda l’avvocato Agostino Russo, ucciso dal Covid ad aprile del 2020: “Agostino era innanzitutto un amico per me e per noi. Militante della Camera penale, era una persona generosa, solare, amante della bellezza, dell’arte, soprattutto, un avvocato. E dell’avvocato aveva quello che, a mio avviso, è il tratto fondamentale e senza il quale non si può essere avvocati: la generosità”. L’avvocato Sergio Fiori ricorda i colleghi Aldo Pizzoccaro (“Il suo tratto signorile e la correttezza professionale lo avevano portato ad essere uno dei più conosciuti avvocati del territorio”) e Sergio Franceschini, “un uomo molto generoso, il mio mentore e anche il mio testimone di nozze”. L’avvocato Ilaria Dioli spiega i “molti insegnamenti” ricevuti dal suo maestro Vittorio Meanti. Roberto e Giovanni Guareschi parlano del padre Bruno e dello zio Gianpiero: “Oggi sarebbero felicissimi di sapere che la borsa di studio va a premiare chi se l’è meritato, perché hanno sempre creduto nel merito e, soprattutto, di dare una opportunità ai giovani”. Monza. I detenuti vanno a lezione di ottoni col sogno di suonare in carcere di Fabio Luongo Il Giorno, 4 giugno 2024 I musicisti del Corpo di Villasanta insegnano a suonare tromba, trombone, tuba a una quindicina di reclusi. Il progetto sociale si propone come apripista in tutta Italia e culminerà con un concerto interno. Ora ci sono le lezioni di strumento, ma l’obiettivo è arrivare a fare presto un piccolo concerto tra le mura del carcere. Se la musica è libertà, per loro lo è ancora di più. Da qualche mese i detenuti della casa circondariale di Monza sono protagonisti di un progetto portato avanti dal Corpo musicale di Villasanta, che con due suoi membri è impegnato a insegnare a un gruppo di persone recluse a suonare tromba, trombone, tuba e altri ottoni. Un modo originale per rendere meno duro il carcere e favorire il recupero sociale di queste persone. “A settembre 2023 - racconta Sergio Stucchi, vicepresidente della banda villasantese - abbiamo avuto la possibilità di entrare nella casa circondariale per tenere un concerto per i detenuti. È stata un’esibizione molto emozionante e abbiamo visto una grande partecipazione. Così è nata l’idea di dare una continuità a questa iniziativa, entrando nel carcere a insegnare musica a queste persone. Ne abbiamo parlato nel direttivo del Corpo musicale e abbiamo portato avanti la cosa. Ci hanno dato una grossa mano Lucia Scarpa, che è funzionaria pedagogica nella casa circondariale, e la direttrice Cosima Buccoliero, che ha avuto una disponibilità totale”. Da inizio anno il progetto si è concretizzato. “Fatti tutti i preparativi organizzativi, a gennaio abbiamo ottenuto un permesso per entrare in carcere a presentare gli strumenti, per far conoscere ai detenuti di cosa stiamo parlando - continua Stucchi -. Abbiamo creato un momento di incontro con una quarantina di persone: abbiamo quindi presentato loro gli ottoni, attraverso un’esibizione degli allievi dell’Istituto Preziosissimo Sangue di Milano, tutti ragazzini al massimo di 11-12 anni, insieme ad alcuni ragazzi del Corpo musicale Villasanta che noi chiamiamo Piutost Band, sono gli allievi dei nostri corsi di orientamento musicale. Si sono esibiti dentro il carcere, diretti da Sabrina Sanvito. È stato molto bello, hanno avuto una standing ovation da parte dei detenuti”. Dopodiché sono state raccolte le adesioni tra i carcerati, tra chi fosse veramente interessato a seguire questo nuovo corso musicale. “Sono arrivate una quindicina di iscrizioni - ricorda il vicepresidente del Cmv -. Quindi sono stati acquistati, da parte della casa circondariale, gli strumenti e abbiamo creato una classe dedicata esclusivamente agli ottoni: tromba, corno, trombone, tuba, euphonium. Questo perché la persona che per un giorno alla settimana insegna ai detenuti è Sabrina Sanvito, che è docente di ottoni: suona nel Corpo musicale di Villasanta ed è insegnante dell’indirizzo musicale dell’istituto Preziosissimo Sangue di Milano”. “Il mercoledì mattina io e Sabrina entriamo in carcere e andiamo nell’aula musica, dove dalle 9 alle 12 teniamo tre corsi di un’ora l’uno, con 5 persone a corso - spiega Stucchi -. In questo modo si riescono a gestire gli strumenti e l’insegnamento. La cosa sta andando così bene che ora bisognerà trovare qualche strumento in più. Tutto avviene a titolo di volontariato: lo facciamo per la gioia e la voglia di fare qualcosa di bello, che dà soddisfazione a noi e serenità alle persone detenute, che vivono una situazione particolare”. “Siamo un po’ un prototipo: speriamo che questo tipo di iniziativa si possa diffondere in altre parti d’Italia, perché ha un grande valore sociale - prosegue -. L’esperimento funziona, per noi è molto appagante e i detenuti sono molto presi da questa esperienza, dimostrano interesse, nonostante le difficoltà”. Ora l’obiettivo è continuare. “Abbiamo già fatto una dozzina di lezioni e a luglio, avendo noi un poco più di tempo, vorremmo aumentare il numero di giornate di incontro - conclude Stucchi -. Questo per far star bene e far vivere un’ora diversa a queste persone, e per arrivare a tenere un mini-concerto all’interno del carcere, magari in autunno. Siamo molto contenti e soddisfatti di come sta andando, perché è una bella cosa. All’inizio ci siamo detti: perché no? Proviamoci. E da lì abbiamo visto arrivare i risultati: è uno stimolo a continuare. Non è un progetto con una scadenza: noi speriamo di proseguire finché c’è disponibilità. La speranza è che cresca anche il numero di detenuti che aderiscono”. La Costituzione in viaggio tra carceri e scuole Gazzetta del Sud, 4 giugno 2024 Mercoledì 5 giugno a Messina la presentazione del volume del prof. Giuliano Amato, scritto con la giornalista Donatella Stasio, che racconta i cinque anni in cui la Corte Costituzionale si è aperta al dialogo per diffondere la “mentalità costituzionale”: concluderà il prof. Gaetano Silvestri. La comunicazione istituzionale come necessario strumento di efficienza, partecipazione e consapevolezza, su cui si fondano doveri e libertà civiche: un principio che vale per tutte le pubbliche amministrazioni, e ancor più per un’amministrazione molto speciale, come la Corte Costituzionale, organismo dell’apparato statale che, come la figura del presidente della Repubblica, si erge a garanzia della nostra Costituzione, e del suo prezioso bagaglio di valori e tutele. E proprio comunicare le attività giurisdizionali della Corte per “costruire un linguaggio comune” basato su una “mentalità costituzionale” è stato l’obiettivo perseguito nel periodo - tra il 2017 e il 2022 - al centro del volume “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società”, di Giuliano Amato, presidente emerito della Corte costituzionale, e della giornalista Donatella Stasio, che interverranno mercoledì 5 giugno all’Università di Messina. Amato è stato due volte presidente del Consiglio e quattro volte ministro. Ha insegnato diritto costituzionale comparato all’università La Sapienza di Roma per oltre 20 anni, il 12 settembre 2013 è stato nominato giudice della Corte Costituzionale e vicepresidente nel 2020, dal 29 gennaio 2022 al 18 settembre dello stesso anno ne è stato presidente, fino alla cessazione del mandato da giudice costituzionale. Stasio ha scritto per trentatré anni di giustizia, istituzioni e politica su “Il Sole 24 Ore” e attualmente collabora con “La Stampa” come editorialista. Dal 2017 al 2022 è stata responsabile della comunicazione e portavoce della Corte costituzionale, con sei presidenti (Paolo Grossi, Giorgio Lattanzi, Marta Cartabia, Mario Morelli, Giancarlo Coraggio, Giuliano Amato). L’evento, promosso nell’ambito del Prin Unime “Le mobili frontiere della separazione dei poteri”, si terrà mercoledì 5 giugno in aula magna alle 15,30 e sarà inaugurato dai saluti istituzionali della rettrice, prof.ssa Giovanna Spatari, e del Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, prof. Alessio Lo Giudice. Il prof. Giacomo D’Amico, ordinario di Diritto Costituzionale e responsabile Unità locale PRIN (in quegli anni assistente di studio della giudice Daria de Pretis e, in precedenza, di Gaetano Silvestri) introdurrà i lavori, mentre dialogheranno con gli autori i docenti Unime Antonio Saitta e Luigi D’Andrea, ordinari di Diritto Costituzionale. Il seminario sarà concluso dall’illustre intervento del presidente emerito della Corte costituzionale (2013-2014), prof. Gaetano Silvestri, già rettore dell’Università di Messina (dal 1998 al 2004) di cui ha tenuto nello scorso febbraio la prolusione ai corsi, inaugurandone il 476° anno accademico sul tema del merito “inclusivo” nella Costituzione. I lavori saranno moderati dalla giornalista della Gazzetta del Sud Natalia La Rosa, responsabile della GDS Academy di Società Editrice Sud Gazzetta del Sud Giornale di Sicilia, nell’ambito della quale sono stati coinvolti studenti e studentesse delle scuole di Sicilia e Calabria, partecipanti al progetto Gazzetta del Sud in classe con Noi Magazine, e dell’Ateneo di Messina attraverso Unime Gds Lab, il laboratorio di tecnica giornalistica promosso da Unime e Ses. L’evento potrà essere seguito anche in diretta streaming, sulle pagine facebook di Unime e di Voci Costituzionali. La Corte, giudice di legittimità - La Corte Costituzionale, prevista dall’art. 135 della Costituzione, nacque nel 1948 e iniziò a funzionare nel 1956, con il compito di verificare la conformità formale e sostanziale alla Costituzione delle leggi e degli atti aventi forza di legge, di dirimere i conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e tra Stato e Regioni, di verificare l’ammissibilità dei referendum abrogativi e di giudicare sulle accuse mosse al Presidente della Repubblica. Vi possono fare ricorso lo Stato o le Regioni, o vi si ricorre in via incidentale, quando la questione di legittimità costituzionale sorge davanti ad un’autorità giurisdizionale nel corso di un procedimento giudiziario. La Corte ha sede a Roma, nel Palazzo della Consulta (da cui prende anche l’appellativo eponimo) ed è composta da quindici giudici - scelti dal Parlamento, dal presidente della Repubblica e da tre collegi che rappresentano le magistrature - che durano in carica nove anni: è attualmente presieduta dal giurista siciliano Augusto Antonio Barbera, succeduto nel dicembre 2023 a Silvana Sciarra, e il cui mandato si concluderà nel prossimo dicembre. La Corte “vicina”, incarna i diritti e li difende - Il volume di Amato e Stasio presentato a gennaio scorso presso la sede del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti a Roma, con i saluti introduttivi del presidente dell’Ordine Carlo Bartoli, la moderazione di Luigi Contu, direttore dell’Ansa, e la partecipazione, oltre ai due autori, di Giovanni Maria Flick, Marta Cartabia e Pierferdinando Casini, è un “viaggio negli anni dell’apertura della Corte costituzionale alla società civile, per conoscere un’istituzione che ha cambiato l’Italia. Quando nel mondo soffia il vento di sovranismi e populismi, quando i diritti fondamentali vacillano e si aprono scenari di riforme, le Corti costituzionali sono l’antidoto migliore contro le regressioni democratiche”. La Corte costituzionale “incarna i diritti che la Costituzione riconosce a tutti noi, li nutre e li difende. Ha un potere enorme perché con le sue decisioni insindacabili incide profondamente nella vita delle persone, della politica e delle istituzioni. Eppure, pochi la conoscono, al contrario di quanto accade alle Corti supreme di altri paesi. Non c’è americano o israeliano che non sappia che cos’è, e che cosa fa, la propria Corte, percepita come coscienza del popolo e dei suoi valori. In Italia, invece, la nostra Corte è una semisconosciuta e questo analfabetismo è grave in tempi di “regressioni democratiche” che, in Europa e nel mondo, stanno mettendo a rischio lo Stato di diritto proprio con un attacco alle Corti”. Perciò, a un certo punto della sua storia, “la Corte italiana decide di cambiare passo e di “viaggiare” - tra i giovani, nelle carceri, nelle piazze - per farsi conoscere. E conoscere. Decide di essere il corpo e soprattutto la viva voce della Costituzione per contribuire a formare una vera “mentalità costituzionale” e una piena coscienza dei diritti. Il libro racconta i cinque anni in cui quel cambiamento ha preso corpo, le difficoltà, le sfide, i traguardi, le donne e gli uomini che ne sono stati protagonisti, le loro emozioni, le decisioni più delicate. È un pezzo di storia del nostro paese, che i coautori hanno attraversato insieme dentro la Corte, in ruoli e con responsabilità diversi: “In quei cinque anni emerge con chiarezza il “dovere” di creare un legame di fiducia con i cittadini, essenziale per la tenuta di una democrazia costituzionale. Questo è il senso politico della comunicazione istituzionale, che non conosce zone franche. La polis, la cittadinanza, ha il diritto di conoscere e di capire, e chi amministra giustizia in nome del popolo non può sottrarsi alla responsabilità di spiegare e farsi capire. Che non è una prerogativa esclusiva di chi fa politica né un compito da delegare a terzi, né un mezzo per guadagnare consensi. È un dovere di ogni potere dello Stato”. Il “Viaggio nelle scuole” prosegue - Il viaggio nelle scuole, avviato nel 2018 sotto la presidenza Grossi, ha toccato numerosi istituti: in questo anno scolastico è partito da Roma nel settembre 2023 e ha toccato Lecce, Milano, Cesena, Enna, Scandicci, Cagliari e, nei giorni scorsi, Padova, dove il giudice Luca Antonini ha parlato del valore della donna nella Costituzione. Il viaggio prosegue e porterà i giudici della Consulta nelle scuole di secondo grado grazie alla carta d’intenti siglata dalla Corte e dal Ministero dell’Istruzione. Tutte le info sul sito istituzionale cortecostituzionale.it “Difficile aver pietà di un boss ma farlo marcire al 41 bis è disumano” di Eleonora Lombardo La Repubblica, 4 giugno 2024 Daria Bignardi racconta le carceri. Un libro, un saggio narrativo che con una scrittura intima e autobiografica mappa le vite che scorrono dentro e intorno alle carceri italiane: Daria Bignardi nel suo “Ogni prigione è un’isola”, che sarà presentato a Una Marina di libri venerdì alle 20,30, racconta che in nessun luogo come il carcere si scopre il valore della libertà e dell’urgenza di cambiare tutto. “Ma soprattutto il sovraffollamento. Di 61mila persone che ci sono rinchiuse, più degli abitanti di Caltanissetta, avrebbe senso che ce ne stessero forse seimila”. Quando ha iniziato a scrivere questo libro e quanto è stata influenzata dall’esperienza di suo suocero, Adriano Sofri, nell’occuparsi di carcere? “Frequentavo San Vittore da almeno dieci anni quando ho conosciuto Adriano.Prima ancora ho tenuto per anni una corrispondenza con un ragazzo detenuto in un braccio della morte americano, fino a che non lo hanno ucciso. Mi rifiuto di dire giustiziato. Da bambina passavo ogni giorno di fronte al carcere di via Piangipane, a Ferrara, fantasticavo su chi ci fosse rinchiuso. Leggevo “Il conte di Montecristo” e “Le mie prigioni”. Il carcere mi interessa da sempre: forse intuivo quante storie racchiude, quanta umanità e disumanità”. Cosa si omette di raccontare delle carceri italiane? “La violenza e la corruzione, lo squallore dei luoghi, ma anche l’abnegazione di tanti bravissimi operatori non sono mai abbastanza raccontati”. Qual è la cosa più dolorosa che le è capitato di vivere all’interno delle carceri italiane? “Vedere una donna che piange perché non può stare col suo bambino che compie gli anni o un ragazzo inebetito dagli psicofarmaci che si dondola avanti e indietro”. Tra detenzione maschile e femminile, ha colto delle differenze nel trattamento di detenuti e detenute? “Il carcere non è un posto per donne e per minorenni. Non è un posto per malati e tossicodipendenti. Le donne in carcere stanno peggio perché a differenza degli uomini che fuori spesso hanno una madre, o una moglie o una sorella che si prende cura di loro, spesso non hanno nessuno”. Di solito, davanti ai mafiosi colpevoli dei crimini più atroci qualunque pietà viene meno,è così? Cosa ne pensa del 41bis? “La maggior parte dei direttori e agenti coi quali ho parlato mi hanno detto che il 41bis è anacronistico e inutile. Sì, è difficile provare pietà per un boss mafioso, ma lasciarlo morire al 41 bis come un vegetale resta disumano”. Quali sono le alternative più interessanti al carcere? Esperienze come Gorgona possono essere prese in considerazione? “Ero a Gorgona sabato scorso. Non è un’alternativa al carcere, è un vero carcere, ma pensato rispettando la Costituzione. Quando si arriva sull’isola si è accolti da un’enorme scritta azzurra che cita proprio l’articolo 27: “Le pene non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sull’isola c’è un gruppo che fa teatro e non si passano le giornate chiusi in cella ma a lavorare all’aperto. La cuoca Fernanda cucina piatti poveri ma gustosi. E i detenuti da molti anni sono tranquillissimi, perché non vogliono per nessuna ragione essere trasferiti in altri istituti. Un carcere così lavora sul senso di dignità e responsabilità dei suoi ospiti”. Qual è secondo lei il libro di narrativa che racconta meglio il carcere? ““L’Università di Rebibbia” di Goliarda Sapienza è bellissimo. Una volta lei, intervistata da Enzo Biagi, ha detto: “Io desideravo andare in carcere. A casa mia si diceva che il proprio Paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio”. Aveva ragione, è proprio così”. Lei ha scritto a Linosa, che è un’isola siciliana: qual è il punto di contatto tra isola e prigione? È la Sicilia in cosa è una prigione secondo lei? “Tutte le isole, soprattutto se piccole e mal collegate come Linosa - che soffre da sempre per questo e altri problemi- , sono un po’ delle prigioni, nonostante la loro bellezza. A volte anche la troppa bellezza può diventare una prigione”. Zagrebelsky: “La Riforma cancella la Costituzione” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 4 giugno 2024 Il presidente emerito della Consulta: “La Carta è scritta per i tempi lunghi, chi vuole cambiarla deve saperlo. Non c’è dibattito sulla riforma. La democrazia presuppone disponibilità ad intese, condizione che non c’è”. “Le Costituzioni si fanno quando i popoli sono sobri a valere per quando sono ubriachi”. Questa, per Gustavo Zagrebelsky, è una buona definizione di Costituzione. Che richiama - non è un caso che il presidente emerito della Consulta lo faccia - quel che va ripetendo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: la Carta è stata scritta per i tempi lunghi. Anche questo, deve tenere a mente chi si propone di cambiarla. Presidente Zagrebelsky, si aspettava un attacco a Mattarella da parte della Lega proprio il 2 giugno? “Abbiamo avuto presidenti della Repubblica presunti golpisti. Custodi della Costituzione che però la volevano cambiare. E, finalmente, presidenti garanti della Costituzione, come Mattarella. In quale tipo di presidente amiamo riconoscerci?”. Direi nell’ultimo. E questo dice molto di chi lo attacca... “La domanda era retorica. È latente un conflitto: il presidente della Repubblica non perde occasione per parlare della lungimiranza della Costituzione. Le leggi ordinarie nascono dalle esigenze che mutano, le Costituzioni guardano ai tempi lunghi”. Che cosa pensa del dibattito sulla riforma costituzionale? “Che non c’è”. Come non c’è? “A Creonte, Antigone dice: è inutile parlarci perché tutto quel che piace a me dispiace a te. E tutto quel che dispiace a me piace a te. C’è una paralisi dialogica, perché questa riforma (ha sul tavolino, accanto al caffè, il disegno di legge) serve a costruire l’onnipotenza di un uomo o una donna. Questo, che disgusta alcuni, per altri è seduttivo. È una situazione di paralisi democratica. La democrazia presuppone la disponibilità ad intese e, dunque, l’utilità di discorsi che s’intrecciano. Questa condizione non c’è”. Si può uscire da questa paralisi? “La risorsa sono i perplessi. Se il dialogo con l’altra parte è bloccato, restano coloro che ancora non sanno e vorrebbero farsi un’idea”. Che cosa fa lei per i perplessi? “Vado nelle scuole dove trovo interesse e passione. Oppure a dibattiti pubblici, dove però, purtroppo il pubblico è già d’accordo. Il problema è raggiungere chi non lo è”. Quindi? “L’altra domenica sono stato a Barbiana, alla chiusura del centenario dalla nascita di don Milani. C’erano tanti ragazzi e ragazze, attenti e interessati. Ho detto loro: dovete essere come dei megafoni in famiglia per parlare alla generazione dei 40-50enni tra i quali alligna buona parte dell’astensionismo, figlia del disinteresse”. Il timore delle prossime Europee è che non vada a votare neanche il 50 per cento degli aventi diritto. “Suicidio della democrazia”. In controtendenza, stavolta sembra che ci saranno più giovani alle urne. Anche per via della loro battaglia sul Medio Oriente. Buon segno? “Non mi sorprende. C’è un risveglio di sensibilità politica da parte dei più giovani. Sono la nostra speranza. Potrei dire la speranza della nostra patria”. Parola che piace alla destra e che la sinistra stenta a declinare. “Bisogna intendersi su che cos’è la nostra patria. Una semplice espressione geografica, come diceva il principe Metternich? Il luogo del buon cibo e del buon vino, quello in cui si fa il miele con api nostrane - ho visto una pubblicità che lo diceva!”. Una Repubblica democratica fondata sul lavoro. “Sono le prime parole della Costituzione. “Repubblica” significa res publica, bene di tutti, non privatizzabile; “democratica”, sovranità dei cittadini, diritti politici e civili, uguaglianza; infine, “fondata sul lavoro” significa, tra le tante cose, non fondata sulla rendita. L’Italia non è di quelli che una volta si chiamavano i rentiers, che vivono sul lavoro altrui”. Ma secondo Meloni il premierato consente una maggiore sovranità del popolo. Gli dà maggior potere. Non è così? “Il popolo della democrazia non è il popolo del populismo. Quello è uno slogan efficace, che colpisce nel suo semplicismo. I contrari partono svantaggiati perché hanno bisogno di spiegare perché sono contrari a quello che, a prima vista, sembra un dono, una aggiunta alla democrazia”. Una mela avvelenata? “Timeo Danaos et dona ferentes”. Temo i Danai anche quando recano doni, dice Laocoonte ai Troiani davanti al cavallo pensato da Ulisse. Se questa riforma è un cavallo di Troia, cosa c’è al suo interno? “In un sistema in cui i cittadini, votando ogni cinque anni, si consegnano a qualcuno. Cinque anni, in politica sono un’eternità. Il meccanismo previsto può farli diventare anche 12 e mezzo. Se si sciolgono le Camere prima della metà della legislatura, il capo può ripresentarsi”. Non c’è limite? “Il testo dice che non può esserci un terzo mandato consecutivo, ma dopo? E, se non fosse consecutivo?”. Teme un regime? “Il veleno sta in quel che diceva Rousseau: “Gli inglesi credono di essere liberi, ma in realtà lo sono una volta ogni quattro anni, quando vanno a votare. Dopo sono schiavi di quelli che hanno eletto”. Sì, ma alle nuove elezioni i perdenti possono diventare i vincenti. Questa riforma tutela la possibilità dell’alternanza? “Le pare che dopo cinque anni di governo pressoché illimitato di una forza politica le successive elezioni si svolgeranno su un piano di parità? Quando per cinque anni hai potuto occupare tutti i posti di potere, eliminare i contrappesi?”. Vengono eliminati? “Sì, perché con il sistema elettorale prefigurato chi ha vinto può prendersi il presidente della Repubblica con il premio di maggioranza, può creare a sua immagine la Corte costituzionale e il Csm, occupare la Rai e gli enti pubblici. Insomma, favorire gli amici a danno degli avversari. Chi dispone del potere ha una possibilità di acquisire e conservare il consenso, cioè i voti, molto maggiore di chi non dispone di altrettanti poteri”. Ma questo non renderebbe la democrazia sempre bloccata? “Avvicinandosi le elezioni arrivano bonus e condoni di ogni genere da parte del governo. Chi è all’opposizione cosa può fare, se non vaghe promesse? Come Leopardi che dal paterno giardino guarda le vaghe stelle scintillanti. L’alternanza è fondativa della democrazia, ma presuppone che tra un’elezione e l’altra non si crei un eccessivo squilibrio di potere”. C’è già? “Sì, è in corso un’occupazione che è già nella logica della riforma. “Vinco e prendo tutto”. Le espressioni che vengono dal cuore sono le più sincere, come quando si dice: “abbiamo vinto noi, fatevene una ragione”. In democrazia, l’idea che uno “se ne debba fare una ragione” a seguito dei risultati elettorali, è una bestemmia”. Non significa accettare il volere del popolo? “Tutti devono sempre avere l’uguale possibilità di esibire, proporre, promuovere le proprie ragioni”. La riforma evita ribaltoni e governi tecnici, questo la convince? “No, perché nella riforma è innestata una norma che consente una staffetta tra governi e maggioranze diversi. Il presidente del Consiglio può dimettersi come e quando vuole, senza un voto di sfiducia, e può proporre lo scioglimento delle Camere, oppure niente”. Cosa succede davanti a quel niente? “Che il presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il governo a chi vuole tra i parlamentari eletti in collegamento con il presidente del Consiglio. Un almeno parzialmente libero “governo del Presidente” che si cerca la “sua maggioranza”, indipendentemente dalla vittoria e dalla sconfitta elettorale”. Almeno non è un ribaltone. “Davvero? A me pare di sì. Oltretutto forzato dal rischio di scioglimento delle Camere, se fallisce”. È la parte della riforma che meno piace a Meloni. “Perché è stata fatta per non scontentare il secondo partito, che finora è stato la Lega. Al momento della formazione del governo saranno possibili accordi sottobanco nella prospettiva di future “staffette”. Altro che chiarezza di fronte all’elettorato”. Poi c’è la questione del premio di maggioranza, la preoccupa? “Certo. Nella riforma è scritto che la legge elettorale deve assegnare un premio che garantisca al vincitore la maggioranza dei seggi in ciascuna Camera. Può trattarsi di un premietto o di un premione”. A seconda di quanto prende la coalizione che vince, certo. Se avrà il 30 per cento, può avere un premio che supera il 20. Questo cosa comporta? “C’è una sentenza della Corte costituzionale. I premietti vanno bene, ma i premioni alterano la democrazia. La legge elettorale dovrà, allora, stabilire una soglia minima per ottenere il premio. Se non lo farà, sarà incostituzionale per eccesso premiale. Se lo farà, potrà essere incostituzionale lo stesso”. E perché mai? “Perché vuol dire che il premio non scatta sempre e invece la riforma vuole che la legge elettorale “assicuri” comunque l’assegnazione del premio. È un cortocircuito”. Questa riforma è in nome della governabilità? Non è già possibile governare senza ostacoli quando si hanno maggioranze chiare come quella attuale? “Esatto, visto che la premier può già ora fare tutto politicamente, chi gliela fa fare una riforma?”. Qual è la ragione? “Con la riforma le componenti minoritarie della maggioranza non conteranno più nulla. Più che umiliare l’opposizione, la riforma vuole schiacciare proprio quelle”. E garantire governabilità. “Che parola orribile. Un incantesimo lessicale davanti al quale bisogna drizzare le antenne. Tutte le parole con -abile, -ebile, -ibile, hanno un significato passivo. Un gregge governabile è quello sottomesso al suo pastore. Chi ha da essere governabile non è il fantomatico “sistema”, ma sono i singoli, le formazioni sociali e la società nel suo insieme. Governabilità significa limitare le pretese popolari, il cosiddetto sovraccarico di domande che i cittadini fanno allo Stato. La governabilità, al di là della sua sembianza neutrale, è l’ultima risorsa delle diseguaglianze dei potenti, che si arroccano contro i deboli quanto essi pretendono troppo”. Posso chiederle cos’è per lei la Costituzione? “Lo dice in negativo l’articolo 16 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino. Tutte le società in cui non è assicurata la garanzia dei diritti e non è stabilita la separazione dei poteri, non hanno una Costituzione”. Con la riforma avremmo ancora una Costituzione? “Adesso la domanda retorica è la sua. No, non ce l’avremmo, almeno nel senso voluto dal costituzionalismo. Così come l’Ungheria di Orbàn non ha una “Costituzione del costituzionalismo”, perché non possiamo definire tale un sistema che viola i diritti delle minoranze e i contropoteri del governo, primo fra tutti la magistratura”. L’ultimo spreco sui migranti in Albania: la nave per il trasporto costerà 13 milioni di Alessandra Ziniti La Repubblica, 4 giugno 2024 La partenza del protocollo spostata al 15 settembre. I naufraghi soccorsi da navi militari italiane verranno poi trasbordati a sud di Lampedusa. Ancora soldi investiti dal governo nel protocollo Albania che non si sa ancora quando partirà. Agli 850 milioni già preventivati per la realizzazione e la gestione dei centri a Shengjin e Gjader per i prossimi cinque anni, adesso arriva pure l’appalto per una nave privata che dovrà portare i migranti dal Mediterraneo all’Albania. Tredici milioni e mezzo se ne andranno solo per il noleggio, per 90 giorni, di una nave con il relativo equipaggio che - si apprende leggendo il bando pubblicato dal Viminale - sarà incaricato di scortare 200 migranti alla volta, più 100 uomini di scorta, fino al porto di Schengjin dove è in allestimento l’hotspot che la premier Meloni andrà a visitare mercoledì. Dal che si deduce che non saranno i mezzi militari italiani, gli unici a potere effettuare i soccorsi dei migranti destinati all’Albania come da protocollo, a portarli fino in Albania ma ci sarà un trasbordo in mare. Operazione complessa e sempre rischiosa che, evidentemente, avverrà dopo che - a bordo della nave militare - verrà fatta una cernita delle persone destinate ai centri di trattenimento. Dalla data dell’appalto si evince quando il governo pensa di far partire l’operazione che era stata inizialmente programmata per il 20 maggio. Se ne riparla non prima di metà settembre visto che la nave che il Viminale noleggerà dovrà essere disponibile dal 15 settembre al 15 dicembre. Una esigenza, “non vincolante e puramente indicativa”, si legge nelle specifiche tecniche per il servizio. Il trasbordo a sud di Lampedusa. Svelato anche dove il governo intende soccorrere i migranti destinati all’Albania: di fatto nel punto più lontano del Mediterraneo, la rotta tunisina, quella percorsa dai migranti a cui più facilmente possono essere applicate le procedure accelerate di frontiera, tunisini, marocchini, algerini. La nave che dovrà poi trasferirli in Albania dovrà infatti prelevarli dalle navi militari “a circa 15-20 miglia nautiche a sud-sud/ovest dall’isola di Lampedusa”, tre o quattro volte al mese, dunque con un prevedibile trasferimento in Albania di circa 800 persone al mese, di fatto la capienza del centro trattenimento di Schengjin. Un viaggio di 50 ore - I tempi di navigazione dal punto di prelievo a quello di destinazione sono stimati in “circa 50 ore” nel documento del Ministero dell’Interno e viene indicata in “5/6 giorni” la durata di ogni operazione, compresi “il trasbordo dei migranti, l’attività di hub, il trasporto in Albania, le attività di sbarco e il rientro nell’area di operazioni”. Fra i requisiti richiesti per la nave, ci sono: la capacità di trasportare circa 300 passeggeri, 200 migranti più 100 operatori; un minimo di 50 cabine, ciascuna con al massimo due posti letto; un pescaggio (l’altezza della parte dello scafo che rimane immersa) minore di 5 metri, “adeguato per ormeggiare presso il porto di Shengjin”; un locale per lo screening dei migranti; uno da adibire a camera di sicurezza per le esigenze di Polizia giudiziaria; un locale per l’infermeria; e zone per l’eventuale quarantena. Se i migranti saranno di più di 300 il costo lieviterà ancora - Inoltre, l’esecuzione del servizio include l’approvvigionamento di beni e generi alimentari, nonché la preparazione di vitto diversificato in relazione ai precetti religiosi o eventuali problematiche sanitarie. Qualora si superi la media di 300 unità per i giorni della durata del contratto, sarà riconosciuto un “costo aggiuntivo pro capite di 40 euro/giorno per il numero di passeggeri in esubero”. “Stante l’imprevedibilità dell’evoluzione dei flussi migratori e quindi l’impossibilità di quantificare il numero esatto di traversate necessarie”, si legge nell’ultimo capitolo del documento, se la percorrenza di navigazione per la durata del contratto sarà inferiore a 6mila miglia nautiche, il costo del noleggio sarà ridotto del 15%. Le opposizioni protestano - “Si tratta di un meccanismo che può avere chanches di funzionare solo nelle menti perverse di Meloni e Piantedosi - osserva Riccardo Magi di + Europa - Si tratta di essere umani, non di pacchi postali. Meloni ne è consapevole?”. Angelo Bonelli, di Avs, che a Schengjin è entrato, fa quattro conti: “Noleggiare un’unità navale per 90 giorni a 13,5 milioni di euro significa che all’anno saranno necessari circa 54 milioni di euro. Proiettando questa spesa sui cinque anni del protocollo, si arriva alla cifra astronomica di 270 milioni”. “La vicenda dei centri per immigrati in Albania appare sempre più evidente per quello che è - aggiunge Pierfrancesco Majorino del Pd - un gigantesco business utile a finanziare un intervento totalmente inutile proprio sul piano delle politiche migratorie”. Migranti. Centri in Albania, con la nave i costi salgono a un miliardo di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 giugno 2024 Il Viminale cerca un mezzo in affitto. Domani Meloni a Tirana, spot pre-elettorale ma solo a metà. Fino a tredici milioni e mezzo ogni tre mesi. Tanto l’Italia è pronta a spendere per il noleggio di una nave destinata a trasportare i migranti in Albania. Era uno degli ultimi tasselli mancanti per un quadro economico esaustivo del protocollo con Tirana: un miliardo di euro in totale. Mentre i documenti per la ricerca dell’ente gestore dei tre centri (hotspot, trattenimento, Cpr) sono stati pubblicati sul sito della prefettura di Roma, quelli relativi alle “Consultazioni preliminari di mercato” per la nave sono apparsi sulla pagina della polizia di stato, tra 28 e 30 maggio. Se n’è accorta ieri l’Ansa. Il contratto iniziale riguarderà il trimestre 15 settembre-15 dicembre 2024. Ulteriore conferma che il progetto, inizialmente previsto dal 20 maggio, è rimandato almeno all’autunno. Le caratteristiche del mezzo sembrano indicare che si tratterà dell’unico utilizzato per i trasferimenti. Infatti la richiesta è di almeno 300 posti, due terzi per i migranti e gli altri per gli operatori, e una frequenza fino a quattro viaggi al mese. Bastano e avanzano per la capienza d’avvio del centro di trattenimento: massimo 880 posti. Resta però da chiarire come una nave privata a noleggio rispetti il dettato dell’articolo 4 comma 4 del protocollo: “L’ingresso dei migranti in acque territoriali albanesi e nel territorio della Repubblica di Albania avviene esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane”. Secondo le previsioni del Viminale ognuna delle operazioni richieste alla nave durerà cinque/sei giorni in totale. Il viaggio di andata 50 ore. Il punto di partenza, e dunque di imbarco dei naufraghi, è indicato 15/20 miglia a sud o sud-ovest di Lampedusa. La rotta libica ma soprattutto quella tunisina, dove il governo spera di intercettare i migranti provenienti dai “paesi sicuri”. Tunisia in testa. Per raggiungere l’Italia, però, i cittadini del paese governato da Saied hanno anche altre possibilità. Come le isole Egadi o Pantelleria: finora sono state direttrici residuali ma non si può escludere che il rischio di finire in Albania cambi le carte in tavola. Non sarebbe la prima volta che un dispositivo securitario invece di fermare i flussi li sposta. Altri requisiti richiesti alla nave sono: 50 cabine; locali per screening, isolamento sanitario e funzioni di polizia; pescaggio, la parte sommersa dello scafo, inferiore a cinque metri per evitare problemi all’ingresso nel porto di Shengjin. Sono previste variazioni di spesa in base al minore o maggiore utilizzo dell’imbarcazione “stante l’imprevedibilità” dei flussi. Le cifre esatte, comunque, si conosceranno solo con le offerte presentate dai privati. La tipologia di gara resta da stabilire, per l’ente gestore è stata una procedura negoziata. Così Medihospes si è aggiudicata 133 milioni in quattro anni per operare nei centri. Le altre spese inserite nella legge di ratifica ammontano a 645 milioni. Se la nave costasse 4,5 milioni al mese in cinque anni farebbe 216. In totale si arriva al miliardo. Ma c’è da scommettere che, ammesso il progetto vada davvero in porto, quella somma lieviterà strada facendo. Finora è successo a ogni passaggio. Con buona pace delle dichiarazioni politiche, come quella del ministro degli Esteri Antonio Tajani (Fi) del 5 dicembre scorso: “Costi inferiori a 200 milioni, molti di meno di quelli sequestrati dalla guardia di finanza per la cattiva gestione del Superbonus”. Intanto domani la premier Giorgia Meloni volerà a Tirana per incontrare l’amico Edi Rama. Palazzo Chigi fa sapere che visiteranno insieme le aree previste dal protocollo. Uno spot in vista delle europee, pur senza l’ambita foto opportunity con i migranti chiusi nei centri a cui la premier lavorava dalla scorsa estate. Che cosa ha fatto per noi l’Europa: la difesa dello stato di diritto nei Paesi membri di Daniele Castellani Perelli La Repubblica, 4 giugno 2024 La scorsa settimana la Commissione ha chiuso la procedura con la Polonia, mentre rimane aperto il caso Ungheria. Gli strumenti con cui l’Ue difende la democrazia e i diritti sono anzitutto l’articolo 7 e il meccanismo di condizionalità. Ecco come funzionano. L’ultima puntata della battaglia per la difesa dello stato di diritto nell’Ue si è svolta la settimana scorsa. E ha avuto un esito finalmente positivo. La Commissione europea ha infatti deciso di chiudere la procedura contro la Polonia, e ciò nonostante il Paese non abbia ancora approvato tutte le riforme che erano state richieste. Si tratta di un segnale molto importante verso Varsavia, che dopo le ultime elezioni di ottobre è passata da un governo di ultradestra - sovranista anti-Ue e in continuo conflitto con Bruxelles sull’indipendenza dei giudici e dei media - ad uno di centrodestra liberale ed europeista guidato dall’ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che ha rinnegato l’assalto alla giustizia dei suoi precedessori, i quali sostenevano anche che la legge nazionale avesse il primato su quella comunitaria. La questione ungherese - Ma se la questione polacca, apertasi nel 2017, è ora chiusa, rimane spalancata l’altra, quella ungherese. Budapest, dal 2018, è sotto la lente di Bruxelles. Alla lunga lista di lamentele - appunto l’attacco all’indipendenza di giudici e media, ma anche la proibizione di una vaghissima “propaganda Lgbtq”, per tacere del discusso veto, pur formalmente legittimo, sugli aiuti europei all’Ucraina, invasa dalla Russia amica del premier Viktor Orbán - si è aggiunta ultimamente la legge con cui il governo ha istituito una autorità apposita per punire i partiti che ricevono finanziamenti esteri. In questi anni tutte le istituzioni europee hanno denunciato apertamente le politiche di Orbán. E sono anche passate all’azione. Alle lettere di protesta dei capi di governo sono seguite le risoluzioni ad ampia maggioranza del Parlamento europeo, che tra le altre cose ha chiesto che Budapest non prenda le redini del semestre europeo, il cui inizio è previsto per il primo luglio. Ancora più importante è stata la decisione degli Stati membri e della Commissione europea di sospendere l’erogazione di milioni di fondi Ue all’Ungheria in mancanza di riforme - il parziale dietrofront di Ursula von der Leyen, che a dicembre ha sbloccato 10,2 miliardi come contropartita politica per il mancato veto di Orbán all’avvio dei negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue, ha anche spinto a marzo l’Europarlamento allo storico passo di portare in tribunale la Commissione. Come funziona l’articolo 7 - Il fatto che le due battaglie abbiano coinvolto due governi di estrema destra non è un caso (i sovranisti sono per definizione in conflitto con i valori dell’Ue), ma dietro non c’è nessun complotto. C’è uno strumento legale che si chiama “articolo 7”, un meccanismo dei trattati che rende ogni Paese responsabile del rispetto dello stato di diritto. Secondo l’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea, tra i valori fondamentali ci sono il rispetto della dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo stato di diritti e il rispetto dei diritti umani. In caso di violazione di questi valori, la procedura ex articolo 7, introdotta dal Trattato di Amsterdam nel 1997, prevede due meccanismi: uno per le misure preventive, se c’è un chiaro rischio di violazione dei valori Ue, e uno per le sanzioni, se la violazione è avvenuta. Le sanzioni non sono definite chiaramente dai trattati ma possono includere la sospensione del diritto di voto a livello del Consiglio dell’Unione europea e del Consiglio europeo. In entrambi i casi la decisione finale spetta ai rappresentanti degli Stati membri nel Consiglio europeo, ma il quorum è diverso a seconda della situazione. Per quanto riguarda il meccanismo preventivo la decisione in seno al Consiglio richiede la maggioranza dei quattro quinti degli Stati membri, mentre in caso di violazione è necessaria una decisione all’unanimità dei capi di stato e di governo. Naturalmente ad esclusione dello Stato oggetto della procedura, che non prende parte ai voti. Secondo l’articolo 7 il Parlamento è una delle istituzioni che può prendere l’iniziativa di chiedere al Consiglio di determinare se c’è un rischio di violazione dei valori europei. Per essere adottata la proposta deve ottenere la maggioranza assoluta, cioè il voto favorevole di 376 eurodeputati o dei due terzi dei presenti. Il meccanismo di condizionalità - Nel 2020, il Parlamento ha approvato il cosiddetto “meccanismo di condizionalità dello Stato di diritto”, grazie al quale, come abbiamo visto nel caso ungherese, il rispetto dello stato di diritto e di altri valori diventa una condizione affinché gli Stati membri ottengano fondi dell’Ue. Ma la Commissione, se ritiene che uno Stato stia violando il diritto comunitario, può avviare procedure di infrazione dinanzi alla Corte di giustizia europea che possono portare a sanzioni finanziarie. Si tratta di strumenti che sono stati applicati per cercare di “convincere” Polonia e Ungheria a rispettare la democrazia e i diritti, ma valgono come monito per tutti: dalla Slovacchia di Robert Fico (sovranista di sinistra che sta seguendo la stessa strada di Orbán) alla Grecia dello scandalo spyware fino alla stessa Italia, sotto osservazione per la giustizia e la libertà dei media. Tunisia, nuove prove di repressione. “Arrestato chi aiuta i migranti” di Francesca Ghirardelli Avvenire, 4 giugno 2024 Dopo il fermo di avvocati e attivisti anti-Saied, nel mirino gli operatori delle Ong. “Ridotta al minimo la protezione dei profughi”. Amnesty: l’Ue riveda gli accordi. “La situazione qui sta precipitando” mette subito in chiaro, all’inizio della conversazione, una fonte ben informata che a Tunisi opera all’interno del sistema di protezione e assistenza di migranti e richiedenti asilo. Chiede di rimanere anonima, perché il contesto si fa rischioso e perché non sono tempi, questi, di disapprovare apertamente chi governa il Paese. Il riferimento non è solo agli arresti di avvocati e attivisti critici nei confronti delle politiche del presidente Kais Saied, né all’intensificazione di sgomberi e deportazioni di massa di cittadini stranieri sub-sahariani irregolari, operazioni che proseguono dall’estate 2023, pur a intensità variabile. Ora, dalla seconda settimana di maggio, sono gli stessi operatori delle organizzazioni che si occupano di fornire servizi di base a migranti e richiedenti asilo a venire presi di mira. Il 7 maggio le forze di sicurezza hanno arrestato il presidente e il vice del Consiglio tunisino per i rifugiati (Ctr), partner locale chiave per l’agenzia Onu Unhcr/Acnur, di cui il Consiglio realizza quasi tutte le attività di assistenza e di screening iniziale delle domande d’asilo. L’accusa è di “costituire un’associazione per delinquere con lo scopo di favorire l’ingresso di persone in Tunisia” illegalmente. L’8 maggio è toccato al direttore e alla ex direttrice di Terre d’Asile, un’altra delle poche Ong operative per la tutela di migranti e rifugiati nel Paese. “Con questi arresti l’assistenza e la protezione di migranti, richiedenti asilo e persino di persone già titolari dello status di rifugiato sono ridotte al minimo, severamente compromesse” prosegue la fonte. “A funzionare sono solo i programmi di rimpatrio dell’Oim. Tutte le grandi Ong che implementavano progetti di sostegno sono state fermate, così le persone si ritrovano senza aiuti di base. Sospesi i servizi di tutela dell’infanzia e delle donne vittime di violenza, tutto è paralizzato, perché nemmeno a livello di ministeri nessuno si espone più, né prende decisioni”. Unica Ong per ora risparmiata è Médecins du Monde, che offre servizi sanitari anche ai cittadini locali. “Centinaia di persone che avevano un alloggio sicuro in affitto sono state sfrattate. Ora si arrestano anche i tunisini che davano in locazione appartamenti a richiedenti asilo” aggiunge la fonte. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha chiesto il rilascio delle persone detenute arbitrariamente, mentre Human Rights Watch, con la direttrice regionale Lama Fakih, ha commentato: “La repressione del lavoro legato all’immigrazione, insieme al crescente arresto di critici del governo, invia un messaggio agghiacciante: chiunque non si attiene alla linea potrebbe finire nel mirino delle autorità”. E Amnesty International, intervenuta parlando di “giro di vite repressivo senza precedenti contro migranti, rifugiati e difensori dei diritti umani che lavorano per proteggerli” ha fatto notare come questo sia avvenuto solo pochi giorni “dopo un incontro di coordinamento ad alto livello con il ministero degli Interni italiano sulla gestione della migrazione” (il confronto del 2 maggio a Roma tra ministri di Algeria, Italia, Libia e appunto Tunisia. Appena prima, il 17 aprile, si era tenuto un bilaterale tra il ministro Matteo Piantedosi e l’omologo tunisino). “L’Unione europea dovrebbe rivedere urgentemente i suoi accordi di cooperazione con la Tunisia per garantire di non essere complice delle violazioni dei diritti umani contro migranti e rifugiati” ha affermato Heba Morayef, direttrice regionale di Amnesty International. Il riferimento è al memorandum d’intesa del luglio 2023, che l’Ue (con il governo italiano tra i promotori) ha firmato con il Paese e che prevede una serie di finanziamenti tra cui 105 milioni per frenare la migrazione irregolare. Il flusso dalla Tunisia è indubbiamente calato rispetto allo scorso anno, ma la diminuzione è andata di pari passo con sempre più frequenti segnalazioni di abusi e casi di deportazione di massa di migranti e richiedenti asilo verso i confini desertici di Libia e Algeria. Secondo i dati diffusi a maggio dal governo tunisino, le persone intercettate e fermate oltre le frontiere marittime mentre migravano verso lo spazio europeo erano state circa 79.600 nel 2023, nei primi mesi di quest’anno hanno superato i 28.100. “Gli attuali ridotti arrivi in Italia non devono confondere” conclude la fonte da Tunisi. “Il numero di chi cerca di partire è sempre alto, ma le autorità tunisine stanno bloccando moltissime persone. E di conseguenza le deportazioni di massa continuano”. Medio Oriente. Nuova indagine di Amnesty International sui crimini di guerra israeliani a Gaza di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2024 Dall’ottobre 2023 Amnesty International ha condotto indagini approfondite su 16 attacchi aerei delle forze israeliane contro la Striscia di Gaza, che hanno ucciso 370 civili, tra cui 159 bambini, e ferito altre centinaia di persone. L’ultima ricerca è stata resa nota alla fine di maggio: riguarda tre attacchi - uno sul campo rifugiati di al-Maghazi il 16 aprile e due su Rafah il 19 e il 20 aprile - che hanno ucciso 44 civili palestinesi tra cui 32 bambini: ulteriori prove, sottolinea l’organizzazione per i diritti umani, dell’ampio schema di crimini di guerra commessi dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza negli ultimi ormai quasi otto mesi. In tutti e tre i casi esaminati, Amnesty International non ha rinvenuto alcuna prova che, nei luoghi presi di mira dall’esercito israeliano o nei loro dintorni, vi fossero obiettivi militari. Inoltre, le forze israeliane non hanno avvisato le persone che vivevano nei luoghi colpiti prima di lanciare gli attacchi. Il 16 aprile, intorno alle 15.40, un attacco aereo israeliano ha colpito il campo rifugiati di al-Maghazi, al centro della Striscia di Gaza, uccidendo 10 bambini di età compresa tra quattro e 15 anni e cinque uomini di età compresa tra 29 e 62 anni: un barbiere, un venditore di falafel, un assistente odontoiatrico, un allenatore di calcio e un anziano con disabilità. Più di dieci persone, per lo più bambini, sono rimaste ferite. Le munizioni hanno preso in pieno un mercato di strada e un gruppo di bambini che stava giocando a biliardino. Amnesty International ha esaminato quattro video e 22 fotografie ripresi da abitanti e giornalisti e anche dai suoi ricercatori. Il tipo di danni arrecati e le parti elettroniche rivenute nei frammenti delle munizioni recuperati sono compatibili con piccoli missili di precisione guidati e con bombe plananti lanciati dai droni israeliani. Quel giorno in cielo non c’erano elicotteri né aerei, mentre dalle testimonianze raccolte da Amnesty International è emersa la costante presenza di droni. Nell’attacco sono stati uccisi due figli di Jaber Nader Abu Jayab. Ecco la sua testimonianza: Ero a casa quando ho sentito il colpo. Ho pensavo fosse lontano ma, appena sono uscito fuori, mi sono reso conto che aveva colpito la nostra strada, a 20 metri di distanza da me. C’erano bambini morti e feriti ovunque. Mohammed [12 anni], il figlio di mia sorella, aveva grandi ferite ed è morto due giorni dopo. Poi ho visto mia figlia Mila [quattro anni], anche lei gravemente ferita. Quando l’ho raggiunta in ospedale, un’ora dopo, era morta. Lo stesso per Lujan [nove anni], morta anche lei. Cinque giorni dopo l’attacco, Raja Radwan, di dieci anni, ha parlato con Amnesty International: Stavo giocando a biliardino, poi ho smesso, sono andato in un negozio e poi a casa. Ho detto ai miei amici di continuare. Sono stato fortunato, ma i miei amici Raghad e Shahd sono stati uccisi. Questa è la testimonianza di Mohammed Jaber Issa, insegnante di scienze di 35 anni, che nell’attacco ha perso vari familiari. Ha descritto com’è stata uccisa Shahd Odatallah, di 11 anni, appena uscita da un negozio dove aveva comprato un dolce: È morta con un pezzo di ma’moul in mano. Poi ha aggiunto: Uno dei bambini uccisi era fuggito da al-Tuffah, un quartiere di Gaza City. Era scampato alla fame solo per trovare la morte qui. Mahmud Shanaa, 37 anni, rimasto ferito, ha così testimoniato: I bambini e le persone intorno sono stati uccisi perché il missile è atterrato proprio vicino al tavolo da biliardino. Lì c’erano sempre tanti bambini. Non hanno altri posti dove giocare e ora col pericolo della guerra non si allontanano più e si limitano a giocare davanti a casa. Rispondendo alla Cnn, l’esercito israeliano ha inizialmente affermato di aver colpito “un bersaglio del terrore”, senza fornire ulteriori dettagli o prove. In seguito ha dichiarato di non avere traccia dell’attacco. L’esercito israeliano non ha fornito risposte neanche sulla natura dell’obiettivo o sull’eventuali uccisione di combattenti. Il 19 aprile, intorno alle 22.15, una bomba aerea ha centrato l’abitazione di quattro piani della famiglia di Abu Radwan, nel quartiere di Tal al-Sultan, nella zona occidentale di Rafah. Sono rimasti uccisi nove familiari - sei bambini, due donne e un uomo - e sono stati feriti altri cinque: tre bambini, una donna e un uomo. Sono rimaste ferite anche una donna e la figlia di un’altra famiglia che risiedeva nella casa accanto. Subhi Abu Radwan, 72 anni, funzionario dell’amministrazione civile in pensione, è sopravvissuto all’attacco in cui sono rimasti uccisi uno dei suoi figli, una nuora, un’altra figlia e sei nipoti: Ero ancora sveglio, i miei figli e i miei nipoti erano già a dormire. Ero al piano terra, non ho sentito l’esplosione ma poi la casa ha iniziato a tremare e hanno cominciato a venire giù polvere e calcinacci. Ho gridato aiuto, sono arrivati i vicini e i soccorritori. Il missile ha centrato il tetto, è sceso al terzo piano ed è esploso al secondo, uccidendo tutti. Solo all’ospedale ho capito chi era morto e chi era sopravvissuto. Morti e feriti erano all’esterno dell’abitazione, tra le macerie: la forza dell’esplosione li aveva scagliati fuori. Nisrine Saleh, insegnante di 40 anni, un’altra nuora di Subhi Abu Radwan, è rimasta ferita: Per diversi giorni non ho potuto muovermi. I medici dicono che ho riportato danni alle vertebre. Ho avuto paura di rimanere paralizzata ma per fortuna ho ripreso a muovermi, almeno in parte. Ancora non riesco a capire fino in fondo cos’è accaduto alla nostra famiglia. L’hanno distrutta senza alcun motivo. Dalle fotografie dei frammenti recuperati sul posto, gli esperti di armi di Amnesty International hanno concluso che l’attacco è stato portato a termine con una MPR 500, una bomba di 500 libbre prodotta dall’azienda israeliana IMI. Si nota anche un codice CAGE [identificatore univoco assegnato ai fornitori di varie agenzie governative o di difesa] 0UVG2, che indica che almeno una parte del dispositivo di precisione è stata prodotta da AeroAntenna, un fornitore della difesa statunitense che ha sede in California. Amnesty International ha esaminato 17 foto e un video del luogo dell’attacco. Il tipo di danni prodotto all’edificio è compatibile con quelli di una bomba aerea di quel peso. Le analisi satellitari del 16 e del 20 aprile mostrano profondi cambiamenti sul luogo dell’attacco e sulla struttura del tetto, a conferma di quanto ripreso dalle foto e dal video da terra e di quanto dichiarato da testimoni oculari. Il giorno dopo, il 20 aprile, intorno alle 23.20, un attacco aereo ha distrutto l’abitazione della famiglia Abdelal, nel quartiere di al-Jneinah, nella zona orientale di Rafah, uccidendo 20 membri della famiglia - 16 bambini e quattro donne - e ferendo altri due bambini. Tutte le vittime stavano dormendo. Gli unici sopravvissuti - tre padri, un nonno e alcuni bambini - si sono salvati perché si trovavano in una sala dell’azienda agricola della famiglia, a 100 metri di distanza. Hussein Abdelal, il proprietario dell’abitazione, ha perso la madre, due mogli e dieci dei suoi figli, di un’età compresa tra 18 mesi e 16 anni: Continuo a rimuovere le macerie cercando qualsiasi cosa appartenga a mia madre o ai miei figli. I loro corpi sono stati fatti a pezzi. Ho trovato parti dei corpi dei miei figli, senza testa. È una cosa disumana, la bomba ha distrutto tutto: le nostre vite, le nostre case, anche i nostri animali. Perché ci hanno trattati così disumanamente? Non abbiano nulla a che fare con niente, non abbiamo fatto niente di sbagliato. Non riesco ancora a rendermi conto di cosa è successo. Il crollo dei piani superiori e i massicci danni strutturali subiti dall’abitazione, analizzati da Amnesty International attraverso video e foto ripresi sul posto dai ricercatori dell’associazione, sono compatibili con quelli prodotti da una bomba aerea. Le analisi delle immagini satellitari scattate dalle 07.03 del 20 aprile alle 11.51 del 21 aprile mostrano l’entità della distruzione. *Portavoce di Amnesty International Italia Iran. Decine di detenute con la Nobel Narges Mohammadi: il suo processo sia pubblico Avvenire, 4 giugno 2024 Hanno sottoscritto l’appello 36 prigioniere del carcere politico di Evin, a Teheran. L’attivista l’8 giugno ancora davanti ai giudici per aver denunciato le molestie sessuali dietro le sbarre. L’8 giugno prossimo Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace nel 2023, sarà ancora di fronte ai giudici. L’udienza riguarda nuovi capi d’imputazione per l’attivista iraniana, vicedirettrice del Centro difensori dei diritti umani (Drhc), in carcere già da oltre 10 anni, con 20 ancora da scontare. Questa volta è “propaganda contro il regime”, per le sue denunce sulle molestie e le violenze sessuali subite dalle detenute nelle carceri. L’attivista, tramite le sporadiche comunicazioni con l’esterno e in particolare con il marito e i due figli che vivono a Parigi, nei giorni scorsi ha chiesto che “il falso processo” si svolga pubblicamente, alla presenza di testimoni e media indipendenti, in modo che “testimoni e superstiti possano raccontare le aggressioni sessuali commesse dal regime della repubblica islamica contro le donne” nelle carceri. E questa volta Narges, 52 anni, è meno sola: decine di prigioniere politiche, tutte rinchiuse nel carcere di Evin, a Teheran, come lei, hanno sottoscritto la richiesta. Sul profilo Instagram ufficiale del Premio Nobel si legge che le detenute uscite allo scoperto per solidarietà sono 36. Donne coraggiose, perché la repressione è continua e pesante e ogni atto di ribellione viene punito severamente. “Non può essere - si legge ancora su Instagram - che Narges Mohammadi si in tribunale per aver reso pubbliche le aggressioni sessuali, ma non i responsabili di questi crimini”. La questione delle molestie sessuali sta molto a cuore al Premio Nobel, di cui nelle scorse settimane è stato pubblicato in Italia “Più ci rinchiudono, più diventiamo forti” (Mondadori, pagine 208, euro 19), raccolta di interviste condotte dall’attivista tra le sue compagne di cella, prigioniere di coscienza nel reparto femminile di Evin, dove Narges si trova dal 2021, o in quello di Zanjan, da dove è stata rilasciata nel 2010 dopo aver scontato cinque anni e mezzo di detenzione. Cina. Trentacinque anni fa il massacro di piazza Tienanmen, 27 persone sono ancora in carcere Il Dubbio, 4 giugno 2024 Ci sono storie di attivisti che si trovano reclusi per aver parlato di democrazia e storie di avvocati che sono stati puniti per l’attività professionale che svolgono. Da quel 4 giugno 1989 è cambiato poco, se non nulla. “Per 35 anni, tutti i massimi dirigenti cinesi, da Li Peng a Xi Jinping, si sono preoccupati di cancellare i ricordi del 4 giugno 1989 perseguitando coloro che pacificamente chiedono di assumersene la responsabilità. Tutti coloro che hanno a cuore la giustizia dovrebbero chiedere pubblicamente alle autorità cinesi di rilasciare immediatamente e senza condizioni questi e tutti gli altri prigionieri di coscienza in Cina”. È l’appello che Chinese Human Rights Defenders - una delle maggiori organizzazioni internazionali a sostegno delle battaglie dei dissidenti cinesi - ha lanciato in occasione del 35* anniversario del massacro di piazza Tienanmen. Un’iniziativa accompagnata da una lista di 27 nomi di persone che a vario titolo, si trovano ancora in carcere per quella stessa battaglia. Un elenco “lungi dall’essere completo - spiegano gli attivisti - ma che rappresenta una finestra sulla gravità, la portata e la persistenza delle rappresaglie da parte del governo cinese negli ultimi 35 anni”. Quante persone sono in carcere dopo la manifestazione in piazza Tienanmen - In questa lista - scrive l’agenzia Asianews - figurano in particolare 14 nomi di persone che parteciparono direttamente agli eventi di 35 anni fa e si trovano attualmente in carcere, in gran parte perché riarrestati per le loro battaglie in favore della democrazia in Cina. Zhou Guoqiang era finito in carcere per aver organizzato uno sciopero a sostegno delle proteste studentesche a Pechino nel 1989 e per questo aveva scontato anche 4 anni in un campo di rieducazione. È stato nuovamente arrestato per commenti online nell’ottobre 2023: la sua posizione e l’accusa a suo carico rimangono sconosciute. Le storie di piazza Tienanmen - L’attivista del Guangdong Guo Feixiong - che partecipò al movimento del 1989 come studente di Shanghai - sta scontando una condanna a sei anni dal 2015 per il suo attivismo per i diritti umani. Un altro studente universitario di allora, Chen Shuqing di Hangzhou, sta scontando una pena di 10 anni e mezzo dal 2016 per il suo attivismo a favore della democrazia. Lu Gengsong, un insegnante licenziato nel 1993 per aver sostenuto il movimento democratico, sta scontando una condanna a 11 anni dal 2016 per la sua attività a favore della democrazia. L’avvocato Xia Lin, con sede a Pechino, sta scontando una condanna a 11 anni dal 2016 per la sua attività professionale di avvocato: aveva partecipato al movimento del 1989 come studente del Southwest Institute of Political Science and Law di Chongqing. L’attivista dello Xinjiang, Zhao Haitong, sta scontando una condanna a 14 anni dal 2014 per le sue attività di difensore dei diritti umani. Anche lui era già stato imprigionato all’indomani del massacro del 1989. Xu Na, artista e poeta praticante del Falun Gong, aveva preso parte allo sciopero della fame, in piazza Tienanmen; è stata arrestata nel 2020 e condannata a 8 anni di carcere per “aver usato un culto malvagio per disturbare l’applicazione della legge”. Le altre storie - L’attivista del Sichuan, Chen Yunfei, ha scontato una condanna a quattro anni dal 2015 al 2019, in parte per aver organizzato una commemorazione per le vittime del 4 giugno: aveva partecipato al movimento del 1989 come studente della China Agricultural University di Pechino. Un altro membro dei movimenti studenteschi di allora, Xu Guang, è stato arrestato nel 2022 e sta scontando una condanna a 4 anni con l’accusa di “aver provocato litigi e problemi” a Hangzhou, nella provincia di Zhejiang. Stessa sorte e stessa accusa anche per Huang Xiaomin, arrestato nel 2021 e condannato a quattro anni nella provincia di Sichuan e Cao Peizhi, arrestato nel 2022 e condannato una pena detentiva di 2,2 anni nella provincia dell’Henan. Zhang Zhongshun, un altro studente che partecipo’ alle proteste del 1989, nel 2007 fu denunciato per aver parlato ai suoi studenti dei fatti del 4 giungo. Successivamente è stato incarcerato per tre anni e ora e’ detenuto per aver continuato a sostenere l’attivismo e rischia un’accusa di sovversione, nella provincia dello Shandong. C’è chi è scomparso - Wang Yifei è scomparso dalla custodia della polizia dopo la sua detenzione nel 2021: prima del suo arresto nel 2018, da diversi anni chiedeva giustizia per le vittime del 1989. Shi Tingfu, già condannato aver organizzato nel 2017 a Nanchino una veglia pubblica e aver un discorso sul ricordo delle vittime di Tienanmen, è stato riarrestato nel gennaio 2024 ed è in attesa di giudizio per diverse accuse, tra cui diffusione di “false informazioni e incitamento al terrorismo e all’estremismo nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang”. Gli altri 13 nomi sono invece figure che nel 1989 non furono direttamente coinvolte nei fatti di Pechino, ma sia nella Cina continentale sia a Hong Kong si sono battuti perché non fosse cancellata la memoria di quanto accaduto. In questo secondo elenco figura, per esempio, Tong Hao, un giovane medico nato nel 1987, imprigionato per 1,5 anni per aver pubblicato un post sul 4 giugno in occasione dell’anniversario del 2020. È stato arrestato nell’agosto 2023 e da allora è scomparso sotto la custodia della polizia nella provincia dello Jiangsu. Ci sono poi i dissidenti in carcere a Hong Kong: da Lee Cheuk-yan ad Albert Ho, fino all’avvocatessa Chow Hang-tung, colpita proprio in questi da un altro mandato di arresto in carcere insieme ad altre 7 persone (tra cui la madre) per aver organizzato un’iniziativa on line per commemorare la strage di Tienanmen. E poi Jimmy Lai, l’imprenditore fondatore a Hong Kong del quotidiano pro-democrazia Apple Daily costretto alla chiusura: a 76 anni oggi si è sentito male durante l’87esima udienza del suo surreale processo. E aumentano le preoccupazioni sulle sue condizioni di salute in carcere.