Carceri italiane di Marco Carlotti Il Foglio, 3 giugno 2024 “Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire. La situazione è complessa, da più punti di vista. Conoscere meglio la fotografia attuale delle carceri italiane, però, è utile per poter costruire ragionamenti più profondi o lungimiranti. 61.049 - Il numero di detenuti presenti negli istituti penitenziari. Il 31 per cento di questi non è cittadino italiano, mentre le carcerate rappresentano solo il 4,3 per cento del totale. Il tasso di affollamento reale, ossia la percentuale di persone detenute in più rispetto ai posti disponibili, è infine pari al 119 per cento. 721 - Il numero di detenuti sottoposto a regime di 41 bis, al 4 aprile, secondo i dati del Dap. La misura detentiva è stata più volte al centro di questioni di costituzionalità, poiché ritenuta degradante e disumana. Le obiezioni sono però sempre state respinte in ragione della particolare pericolosità dei detenuti a cui viene applicata. 30 - I suicidi accertati tra inizio gennaio e metà aprile di quest’anno. Il tasso di suicidi, la relazione tra il numero dei decessi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno cresce sensibilmente di anno in anno. Nella popolazione carceraria, le donne sono maggiormente inclini a compiere il gesto. L’incidenza si attesta maggiormente anche tra le persone di origine straniera. 533 - I giovani reclusi negli istituti penali per minorenni. Un numero che sta rapidamente crescendo. Tra i reati maggiormente commessi spuntano rissa, violenza e rapina. 22 - I bambini che, tra Icam e sezioni nido di carceri ordinarie vivono dietro le sbarre con le proprie madri. Negli ultimi 30 anni, fino al 2019, la media di detenute madri è stata di circa 50 donne all’anno, poi dal 2020 si è ridotta della metà raggiungendo una media di 22 mamme e 27 bambini. Studi psicologici e ricerche empiriche confermano quanto l’ambiente carcerario sia inconciliabile con la crescita e lo sviluppo sano e naturale dell’infante. Motivo per cui l’ordinamento prevede la sospensione della pena, o gli arresti domiciliari, per le donne in stato di gravidanza o con bambini fino a un anno di età. Addio a Saraceni, tra i fondatori dell’Associazione Antigone. Sua la legge sulle misure alternative Il Giorno, 3 giugno 2024 Luigi Saraceni, magistrato e avvocato, presidente di sezione a Roma e fondatore di Magistratura Democratica, difese Ocalan e sua figlia Federica. Attivo anche in politica, contribuì alla legge sulle misure alternative al carcere. Calabrese di nascita, romano di adozione, magistrato per 30 anni, con una parentesi da parlamentare dei Ds e dei Verdi, e avvocato per il resto della vita. Luigi Saraceni, morto a 87 anni, è stato presidente di sezione di tribunale a Roma, tra i fondatori di Magistratura Democratica, nel collegio difensivo di Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), nel periodo in cui fu detenuto in Italia. Ma è stato anche un papà-avvocato: difese sua figlia Federica, arrestata nel 2003, condannata in via definitiva per l’omicidio nel 1999 a Roma del giuslavorista Massimo D’Antona da parte delle Nuove Brigate Rosse. Saraceni è stato tra i fondatori dell’associazione Antigone e come deputato dei Democratici di Sinistra firmò nel 1998 la legge che ha reso più ampia e facile la concessione delle misure alternative al carcere. Il futuro della giustizia tra Csm “a sorteggio” e separazione delle carriere di Salvatore Casciaro Gazzetta del Mezzogiorno, 3 giugno 2024 Il ddl di riforma costituzionale è stato annunciato con grande battage sui media. Ma qual è lo scenario che si delinea, per i cittadini, con questa riforma costituzionale? Il ddl costituzionale presentato dalla Presidente Meloni e dal Ministro Nordio nel Consiglio dei ministri del 29 maggio (“Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”) mira a introdurre - da quanto si legge nella bozza che è stata diffusa - la tanto decantata “separazione delle carriere”. Tale progetto sarà attuato creando due distinti consigli superiori della magistratura per la carriera giudicante e requirente, i cui componenti verranno scelti mediante sorteggio. Inoltre, la materia disciplinare verrà sottratta a tali consigli superiori, per essere attribuita a un giudice speciale appositamente costituito (in deroga all’art. 102, secondo comma, della Costituzione), che viene denominato “Alta Corte disciplinare”, cui saranno destinati, per la componente togata e sempre col meccanismo del sorteggio, i soli magistrati di legittimità (requirenti e giudicanti) e non anche quelli di merito. Un disegno che, nel complesso, non convince affatto ed è allarmante sotto diversi profili. Iniziamo dal sorteggio per la designazione dei componenti del CSM. Non più, dunque, come vollero i padri costituenti, un CSM dei più adatti e più capaci, di eletti tra tutti i magistrati all’esito di un confronto trasparente su differenti visioni della giurisdizione, ma composto di soggetti che la sorte deciderà di investire di tale delicatissima funzione. Il meccanismo del sorteggio ridurrà grandemente l’autorevolezza del CSM e ne svilirà il ruolo politico-costituzionale di garanzia volto a realizzare la migliore tutela dell’indipendenza della magistratura. Per i membri c.d. laici di nomina politica, il sorteggio sarà invece “temperato” perché il Parlamento, appena insediatosi, compilerà mediante “elezione” un elenco di nomi di professori universitari in materie giuridiche ed avvocati, alcuni dei quali saranno estratti a sorte. Facile presagire che tanto più smilzo sarà l’elenco degli “eletti”, quanto più prevedibile sarà l’esito del sorteggio. Secondo il Ministro Nordio, tale meccanismo automatico di designazione sarebbe, per i componenti “togati”, soluzione obbligata per rispondere alle degenerazioni delle correnti. Ma i comportamenti sbagliati si contrastano, com’è in larga parte già avvenuto, sanzionando i responsabili e non privando del diritto di elettorato attivo e passivo tutti i magistrati ordinari, che sono, e il Ministro Nordio è il primo a riconoscerlo, le prime vittime delle tanto vituperate degenerazioni correntizie. Ma il ddl di riforma del governo non si limita al sorteggio dei componenti del CSM. Col proposito di realizzare la separazione delle carriere, lo smembra e lo trasforma in due diversi consigli superiori, senza alcun elemento di raccordo fra loro, ciascuno dei quali avrà una visione miope, settoriale e non organica della amministrazione della giurisdizione: l’uno inevitabilmente polarizzato sulla sola carriera giudicante, l’altro sulla requirente, di qui le intuibili disfunzioni che si produrranno sul piano organizzativo. Il ddl intende sottrarre ai due futuri CSM quella che è, non da oggi, una competenza qualificante ed essenziale dell’autogoverno: la materia disciplinare. Tanto avverrà, si noti, solo per l’organo di autogoverno della magistratura ordinaria, che costituiva finora, nella sua disciplina costituzionale e di dettaglio, il paradigma di riferimento per tutte le altre magistrature (amministrativa, contabile, tributaria, militare). Nel far ciò, il ddl tradisce una volontà ritorsiva nei confronti dei magistrati ordinari, rei evidentemente di aver esercitato in modo indipendente il ruolo di controllo di legalità loro attribuito dalla Costituzione. Ad essi viene tolto, infatti, l’elettorato attivo e passivo per l’organo di autogoverno, così contravvenendo a un principio, immanente nel sistema, di uniformità delle garanzie costituzionali tra le diverse magistrature. Dalla lettura della bozza di ddl balza, poi, evidente un’altra non trascurabile incoerenza: la magistratura, con la proposta di modifica dell’art. 104 Cost., viene sì smembrata in due carriere, giudicante e requirente, ma si “riunifica” nell’istituenda Alta Corte, che si occuperà, con collegi misti anche di giudici e pubblici ministeri, dell’applicazione delle sanzioni disciplinari e ciò farà indistintamente per tutti i magistrati ordinari. Si riafferma così, malgrado i propositi di riforma e per una sorta di eterogenesi dei fini, quel modello di magistrato che, non solo sul piano dell’etica comportamentale e disciplinare ma in ogni ambito, dovrebbe essere (ed è) comune alle due funzioni, giudicante e requirente. Il ddl di riforma costituzionale è stato annunciato con grande battage sui media. La separazione delle carriere, s’è detto, era nel programma di governo: un progetto portato avanti benché vi fossero state plurime bocciature degli elettori nei referendum. Ma qual è lo scenario che si delinea, per i cittadini, con questa riforma costituzionale? I tempi dei processi non si ridurranno di un solo giorno né si preannuncia, come è stato affermato con enfasi da esponenti di governo, una giustizia più equa ed efficiente o, come anche è stato ventilato, un recupero del PIL del 2%. Tutt’altro. Il PM dell’avvenire diverrà, anzi, l’organo dell’accusa. Non sarà più “parte imparziale”, come si suol dire con un felice ossimoro, in quanto disinteressata all’esito del giudizio, assolutorio o di condanna che sia. Un cambiamento, questo, che porterà con sé una perdita di garanzie per i cittadini. Se fino ad oggi essi potevano riconoscere nel pubblico ministero un soggetto che ricerca la verità processuale e raccoglie le prove anche a favore dell’indagato, d’ora innanzi non accadrà più. Ne perderanno i cittadini ma anche la funzione del pubblico ministero che, svincolata dalla cultura delle garanzie, si troverà giocoforza a essere ripiegata nell’angusto recinto professionale del pubblico accusatore. “Da Nordio accuse ingiuste, faccia un giro degli uffici giudiziari” di Virginia Piccolino Corriere della Sera, 3 giugno 2024 Intervista al segretario generale dell’Anm, Salvatore Casciaro: “Abbiamo un arretrato enorme, un carico di fascicoli per ciascun magistrato insostenibile e un assetto organizzativo inadeguato per manchevolezze del ministero. Basti considerare che la dotazione dell’organico dei funzionari dell’ufficio per il processo è ancora pressoché dimezzata. Per non parlare della digitalizzazione”. Il ministro Carlo Nordio dice che il dialogo con i magistrati è aperto ma spera che non scioperiate. Salvatore Casciaro, da segretario Anm, cosa ne pensa? “Il ministro parla con toni ingenerosi nei confronti dei magistrati”. Ingenerosi? “Fa accuse ingiuste quanto generiche. Attribuisce a noi ritardi e anomalie. Lo inviterei a fare un giro degli uffici giudiziari”. Cosa vedrebbe? “Un arretrato enorme, un carico di fascicoli per ciascun magistrato insostenibile e un assetto organizzativo inadeguato per manchevolezze del ministero. Basti considerare che la dotazione dell’organico dei funzionari dell’ufficio per il processo è ancora pressoché dimezzata. Per non parlare della digitalizzazione”. Non è partita? “Il processo telematico penale sarebbe dovuto partire entro il 1 gennaio 2024, secondo l’impegno preso con l’Ue. Ma l’applicativo del ministero era talmente lento e pieno di disfunzionalità che è stato differito, sospeso e ora reso non obbligatorio”. Ma sciopererete? “Si deciderà il 15. Abbiamo lasciato il tempo ai colleghi degli uffici giudiziari nei territori di indire assemblee, dibattere e formulare proposte. È una possibilità che valuteremo, oltre che un diritto previsto dalla Costituzione per ogni lavoratore. Quindi anche per i magistrati”. Il ministro obietta che un potere dello Stato sciopererebbe contro un altro. “Non è un diritto del potere. È un diritto individuale. Metterlo in discussione, proprio da parte del ministro della Giustizia, mi sembra eccessivo”. Lui dice che vi ascolterà “con deferenza” se vi dimostrerete responsabili. Lo sarete? “Affermazione che francamente non comprendo. Perché, si prospetta che la magistratura, nel suo complesso, non lo sia?”. La riforma non vi piace per la separazione delle carriere giudici-pm? “Siamo contrari alla separazione delle carriere, certo. Ma credo che essa, nel disegno della riforma, sia poco più che un pretesto. Va ben oltre. La riforma, per come è strutturata, è nel complesso allarmante: mira a ridefinire l’assetto fra poteri dello Stato”. Come? “Smembrando e depotenziando il Csm”. Perché sarà diviso in due? “Non solo, anche se la frammentazione, senza un raccordo, provocherà problemi organizzativi con conseguenze sulla efficienza della giustizia. Il punto è anche che ciascun Csm verrà svuotato della funzione disciplinare che da sempre lo caratterizza, che è essenziale in qualsiasi organo di governo autonomo della magistratura. I due Csm decideranno su funzioni direttive e semidirettive e su trasferimenti o assegnazioni ma non più sulla disciplina. Questo è molto preoccupante”. Nordio dice che non siete stati capaci di fare ordine in casa vostra quindi è dovuta intervenire la politica. Non è così? “No. Lo testimoniano i numerosi procedimenti disciplinari già definiti dal Csm e le numerose sanzioni per illeciti deontologici comminate dall’Anm”. Però il caso Palamara ha mostrato uno scambio di favori e nomine. “Ci sono state sanzioni inflitte dall’organo disciplinare del CSM divenute poi definitive. Quindi non si può negare che la pulizia sia stata fatta. E non è che per colpire magistrati responsabili di comportamenti scorretti si può privare del diritto di voto tutti i magistrati che, a detta dello stesso ministro, sono stati le prime vittime delle passate degenerazioni correntizie”. Il sorteggio è mirato a evitare la “degenerazione delle correnti”. Non pensa? “No. È una perdita di autorevolezza del Csm, se non mettiamo i magistrati più adatti e più capaci, eletti all’esito di un confronto sulle diverse idee di giurisdizione, ma soggetti destinati lì dal lancio di dadi. E poi c’è asimmetria con i laici”. Non sono anche loro sorteggiati? “Non con sorteggio secco ma temperato: estratti da un elenco di soggetti eletti dal Parlamento. Tanto più scarno sarà l’elenco tanto più prevedibile l’esito del sorteggio”. Avreste voluto un sorteggio temperato anche voi? “Assolutamente no. E comunque la separazione delle carriere, che non ci piace, di per sè non comporta alcuna necessità di sorteggio. Per non parlare dell’altra incoerenza: le carriere separate che impongono di dividere in due il Csm, si possono invece riunificare nell’Alta Corte dove giudici e pm decidono assieme sulle sanzioni disciplinari. Per di più sorteggiati solo tra magistrati di legittimità”. Lei è giudice di Cassazione. Perché non va bene? “Perché i magistrati, secondo l’articolo 107 della Costituzione, tuttora vigente, si distinguono solo per diversità di funzione. In questo modo si innesta un profilo di gerarchizzazione. Riproponendo una differenza tra la magistratura alta e bassa che avevamo superato. Ecco perché vedo nel disegno di legge l’intento di giungere a un riassetto complessivo dell’equilibrio tra i poteri costituzionali”. Il governo rivendica al Parlamento la facoltà di cambiare. Non è corretto? “È indubbio che spetta al parlamento sovrano fare le scelte. Ma è dovere esprimere con argomenti validi un dissenso profondo e mostrare rischi che non sono sempre evidenti e tuttavia ci sono”. Il rischio di un salto nel buio? “Di un salto in un territorio ben chiaro e definito in cui il potere giudiziario è fortemente ridimensionato, con perdita di fondamentali garanzie per i cittadini”. Csm, l’assalto alle presidenze dei consiglieri laici di destra. Ma l’ultima parola spetta a Mattarella di Liana Milella La Repubblica, 3 giugno 2024 Il rinnovo per i prossimi 16 mesi scatena gli appetiti in vista del parere sulla separazione delle carriere, ma anche sulle nomine dei capi degli uffici e sulla valutazione dei singoli magistrati. Questa è Toghe, la newsletter sulla giustizia di Liana Milella. Quando si dice “dare il buon esempio”. Espressione che calza a pennello, in negativo, per l’attuale Csm. Dove, da gennaio 2023, la “squadretta” dei sette laici che fanno capo al centrodestra - quattro di FdI, due della Lega, un forzista - si muove “a testuggine”. Sempre tutti insieme. (E quando fa comodo anche con i sette togati di Magistratura indipendente). Per portare a casa il risultato politicamente più vantaggioso. Che piaccia, e sia funzionale, ai progetti di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Vestiti i panni da consigliere a palazzo Bachelet, i consiglieri laici dovrebbero essere indipendenti. Invece sono ideologicamente aderenti allo stesso progetto politico di chi li ha designati. Indipendenza? Quello è solo il nome della piazza su cui si affaccia palazzo Bachelet. Dove i laici di destra ripetono a pappagallo gli stessi slogan della destra che governa per assoggettare la magistratura alla politica. E giusto nella settimana della separazione delle carriere e del sorteggio “secco” imposto alla magistratura per i togati del Csm (mai vulnus alla Costituzione fu più grave che privare del diritto di voto proprio la categoria che garantisce la legalità in Italia) ecco che i laici armeggiano per garantirsi due ottimi posti. Strategici per il futuro. Far presiedere la quinta commissione che nomina i capi degli uffici da una “dura” come Isabella Bertolini, ex deputata forzista e oggi eletta in quota meloniana. Certo esperta, per storia personale, di separazione delle carriere quando a chiederla era Berlusconi. A bruciarla però potrebbe essere il laico di Italia viva Ernesto Carbone che dalla sua ha due atout, essere già stato nella stessa commissione ed essere contrario alla separazione delle carriere. Ma sul tavolo c’è pure la richiesta del costituzionalista di Catania Felice Giuffrè, marito della collega Ida Nicotra, l’ex Anac che potrebbe farcela a dicembre come giudice della Consulta, di impossessarsi della sesta commissione che dà i pareri sulle proposte di legge del governo. Una per tutte da valutare? La separazione dei pm dai giudici. Su cui il governo conta di cautelarsi da un Csm troppo aggressivo. Ma non basta. Giusto il presidente della sesta commissione è chiamato a esprimere il parere su chi debba dirigere l’ufficio studi del Csm che redige i profili dei magistrati. E pure lì Giuffrè non disdegnerebbe di andare. Ma ci sono almeno altre tre commissioni anch’esse stategiche. La prima, che decide i trasferimenti d’ufficio e segue le pratiche “a tutela” dei giudici aggrediti, che però non vanno “di moda” in questo consiglio, forse perché finora a presiederla è stato l’ex senatore forzista Enrico Aimi. E poi la quarta che dovrà occuparsi del “fascicolo” di ogni singolo magistrato tanto caro a Enrico Costa di Azione, nonché delle valutazioni di professionalità e delle famose “gravi anomalie” che potrebbero stroncare una carriera, e perfino della valutazione delle chat. E infine la settima commissione, chiamata a scrivere la nuova circolare sulla vita delle procure che proprio in tempi di prossima separazione sarà importantissima. Dove potrebbe approdare Maria Vittoria Marchianò di Mi, ex presidente del tribunale di Crotone. Su questo “mare” di nomine i laici del Csm di orientamento governativo si sono mossi come pesci. Anche imponendo il blackout su qualsiasi indiscrezione. Tutto è stato concentrato nelle mani del comitato di presidenza, il vice del Csm Fabio Pinelli e i due capi di Corte, la prima presidente Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato. Ma l’ultima parola spetta adesso a Sergio Mattarella, in quanto presidente del Csm. Che certo, come ha già fatto per la separazione delle carriere, saprà come garantire il prestigio del “suo” Consiglio. “Angeli e demoni”, storia del processo mediatico perfetto di Simona Musco Il Dubbio, 3 giugno 2024 Dopo aver usato Bibbiano come una clava, chiunque ne chiedesse conto ha smesso anche di interessarsene. “Parlateci di Bibbiano”, urlavano tutti in quei giorni terribili. E ora invece nessuno ne parla più. È il 27 giugno del 2019. La Val d’Enza finisce al centro di un incubo, in una storia così brutta che non sembra vera. Non può essere vera. Perché dentro ci sono tutti gli ingredienti giusti per dar vita ad un film horror: disegni di bambini falsificati, padri e madri amorevoli dipinti come mostri, scene di violenza simulata con travestimenti, regali e lettere d’affetto tenuti nascosti. Una vera e propria manipolazione su bambini dai 6 agli 11 anni, con un unico tremendo obiettivo: togliere decine di ragazzi ai propri genitori per passarli come pacchi a famiglie affidatarie, possibilmente omosessuali, per guadagnare soldi in cure private a pagamento e corsi di formazione. Un quadro raccapricciante, in cui gli angeli si trasformano in demoni, proprio come recita il nome dell’inchiesta. In quell’etichetta - “Angeli e Demoni” - c’è già scritta la sentenza: da una parte ci sono i buoni, i genitori, dall’altro i cattivi, assistenti sociali e psicoterapeuti. La procura di Reggio Emilia ne è convinta: i bambini avrebbero subito un vero e proprio lavaggio del cervello, fatto di ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, tramite quella che veniva presentata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”, un sistema che avrebbe “alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari”. I titoli in prima pagina, il giorno dopo, sono raccapriccianti. E ovunque si parla di elettroshock, anche se l’elettroshock, in questa storia, ovviamente non c’è mai stato. Chi abbia diffuso una notizia che la stessa procura si è trovata costretta a smentire non è dato saperlo. Ma fa il giro del mondo e rimane intatta, anche dopo che in un’aula di Tribunale si è scoperto che quella macchinetta non poteva fare alcun male e che l’unico suo “difetto” era l’assenza del marchio Ce (la cui certificazione, però, si trova sul sito della casa produttrice). Ma quella parola, elettroshock, terrificante e insieme palesemente falsa è la prima crepa in una vicenda che, piano piano, diventa sempre più nebulosa. La politica, intanto, ha già fiutato l’affare: il coinvolgimento di un sindaco dem, il primo cittadino di Bibbiano Andrea Carletti, fornisce alla destra e al M5S la scusa per etichettare il Pd come il partito di Bibbiano, il partito dei ladri di bambini e dell’elettroshock. I leader politici piombano sulla cittadina emiliana provando a cannibalizzarla in occasione del voto. Matteo Salvini sale sui palchi di tutta Italia con in braccio bambini che definisce vittime di Bibbiano, ma che con Bibbiano non hanno nulla a che fare. Nel frattempo, la gogna per psicoterapeuti e servizi sociali è totale. Gli assistenti sociali vengono inseguiti, minacciati, picchiati. Le denunce per maltrattamento e abuso crollano, nessuno chiede più aiuto. Nessuno se la sente di darne. In tv spuntano sedicenti genitori privati dei figli, che raccontano storie che nessuno verifica. Vengono mandate in onda le intercettazioni, a indagine ancora in corso, atti segreti che vengono tagliuzzati e montati ad arte, per rendere l’inferno ancora più brutto. Nelle case degli italiani si insinua la paura che qualcuno, un giorno, possa strappare loro i bambini dalle braccia senza alcun motivo. E gli indagati, le cui foto finiscono su tutti i giornali accuratamente selezionate tra quelle più aderenti all’immagine del mostro, diventano reietti al punto tale che nemmeno le misure cautelari servono più. Il gip arriva addirittura a scriverlo: “Proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità”, il pericolo di inquinamento probatorio “è andato via via scemando”. Una conferma, dunque, dei devastanti contorni mediatici assunti dalla vicenda. “I contatti (eventualmente di possibile riallaccio da parte degli indagati) con il mondo politico e ideologico di riferimento - scrive il gip -, proprio in ragione dell’ampio risalto negativo dato dai mass media alla vicenda, non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi per la genuinità dell’acquisizione probatoria in un futuro giudizio, posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe (se scoperto) costituirà un adeguato “cordone sanitario” più di qualsivoglia altra misura cautelare”. Insomma, inutile preoccuparsi: accostarsi agli indagati equivale ad una condanna a morte sociale. L’indignazione collettiva, stimolata da decine e decine di articoli che raccontano dettagli raccapriccianti ma manipolati, quando non falsi, provoca un’ondata d’odio e fake news. A partire dall’esistenza di un sistema - nonostante i casi a processo siano solo otto su centinaia di affidi - che ha generato la falsa convinzione dell’esistenza di decine e decine di bambini strappati ingiustamente alle famiglie. Ma nessuno ha approfondito quelle storie, a volte raccapriccianti, nessuno è andato a fondo di quei presunti abusi. Forse anche veri, sostiene l’accusa, ma non è quello ciò che conta. Ciò che conta sono le relazioni “gonfiate” (secondo la procura) che avrebbero facilitato quegli affidi. Il simbolo della vicenda è un disegno, che secondo l’accusa sarebbe stato falsificato: per la pm, una psicologa avrebbe aggiunto due braccia al corpo di un uomo, ritratto in piedi vicino ad una bambina. Braccia che si allungano sulle zone intime, raccontando una storia che in realtà, sostiene l’accusa, non esisterebbe. Ma spulciando le carte, non è difficile scoprire che il disegno, in realtà, è diverso da come è stato presentato dalla (e alla) stampa: le due figure non sono in piedi, ma stese su un letto (di cui non c’è traccia nella versione finita sui giornali). Le due figure sono quelle di una bambina e, sopra di lei, un adulto. Uno scenario che anche senza braccia risulta potenzialmente raccapricciante. Dopo il rinvio a giudizio di 17 persone, a novembre 2021, e la condanna in abbreviato di Claudio Foti, lo psicoterapeuta ritenuto simbolo della storia (pur non avendo a che fare con gli affidi), le tesi della procura diventano verità assoluta. E Foti viene trattato come un pericoloso criminale, finendo per essere cacciato da un ristorante ed etichettato come “il lupo di Bibbiano”. Con la storia del lupo - che poi è solo un pupazzo usato da una psicoterapeuta durante la terapia - lui non c’entra nulla. Ma ci vorrà del tempo per cominciare a far venire fuori i pezzi della storia. Come il fatto che non c’è stato alcun elettroshock o che i casi contestati sono pochissimi, mentre le situazioni di disagio tutte certificate. A giugno 2023, Foti viene assolto. Secondo l’accusa avrebbe provocato un disturbo borderline e depressione nell’unica paziente coinvolta nel caso, ma in appello viene dimostrato che ciò non sarebbe possibile in nessun caso. E lui, che ha consegnato i video delle sedute per dimostrare la sua buona fede, non avrebbe manipolato i ricordi, né convinto la ragazza che sia stato il padre a farle del male. L’odio è però ancora vivo nei suoi confronti e chi ha partecipato alla campagna di delegittimazione continua ad invocare la gogna. Partendo da un presupposto falso: il suo coinvolgimento nell’inchiesta dei Diavoli della Bassa, chiusa con la condanna degli imputati accusati di pedofilia, ma la cui narrazione ufficiale è stata stravolta da “Veleno”. Cosa c’entra Foti con “Veleno”? Nulla, se non per il fatto di averlo criticato. Ma ammetterlo significherebbe negare l’esistenza di un metodo, la bugia sulla quale tutta questa storia si basa. Mentre la vicenda processuale di Foti si è chiusa, quella degli altri 17 imputati va avanti. Il processo in corso a Reggio Emilia è in corso da oltre due anni e davanti ai giudici sfilano ancora i testi dell’accusa. E ogni udienza ridimensiona il quadro accusatorio: sono già nove i testi ritenuti indagabili, mentre l’ipotesi di abuso d’ufficio si sgretola sotto i colpi delle testimonianze. Dalle quali, finora, sono uscite fuori alcune certezze: se Foti e l’ex moglie Nadia Bolognini sono arrivati in Val d’Enza è perché l’Ausl non aveva terapeuti formati in maniera adeguata per affrontare il trauma da abuso. E i bambini arrivavano a quegli psicoterapeuti solo dopo l’ok dell’Azienda sanitaria. C’è la madre che ha denunciato l’ex marito per abusi prima di incontrare i servizi sociali, salvo cambiare versione durante le indagini. Ci sono le relazioni - preoccupate - della scuola sui bambini coinvolti e tanto altro ancora. C’è perfino un’auto-intercettazione, in cui i carabinieri parlano di audio da “far uscire”. E la domanda strana ai testi: “Legge il Dubbio? Glielo ha mandato qualcuno?”. Una questione che fa il paio con l’accusa rivolta ai difensori del processo dal procuratore Gaetano Paci, intervenuto in aula in difesa della pm Valentina Salvi denunciando il “vaso comunicante che è evidente si sia venuto a creare tra il processo e il suo palcoscenico, cioè la stampa”. Tutto ciò per aver difeso i diritti degli imputati. Travolti da un’ondata di fake news, fango e minacce di cui si sono già dimenticati tutti. Il processo è ancora lungo e molto probabilmente perderà per strada l’abuso d’ufficio, reato in corso di abrogazione. Ma quel che è certo, al momento, è che dopo aver usato Bibbiano come una clava, chiunque ne chiedesse conto ha smesso di interessarsene. Parlateci di Bibbiano, urlavano tutti in quei giorni terribili. E tutti lo facevano senza sapere di cosa parlavano, aiutati da centinaia di account falsi, sull’onda di un hashtag che ha inondato la rete di immondizia, che è rimasta a galleggiare, nonostante tutto. Di Bibbiano, però, ad un certo punto, hanno smesso di parlare tutti. Eppure il processo a Reggio Emilia - dove sono imputate 17 persone - continua, riservando sorprese e colpi di scena. Mettendo in evidenza ciò che chiunque conosca il diritto sa da sempre: le ordinanze di custodia cautelare non sono una Bibbia. È il processo a comandare. Basterebbe seguirlo. Solo così si può parlare di Bibbiano. Bibbiano, la tempesta perfetta nell’era giallo, verde... e nera di Rocco Vazzana Il Dubbio, 3 giugno 2024 Matteo Salvini e Luigi Di Maio non sono i primi a tuffarsi a bomba su questa storia. A intuire prima di tutti le potenzialità propagandistiche della vicenda è Giorgia Meloni. Mentre Casa Pound lancia l’hashtag #parlatecidibibbiano. La tempesta perfetta di Bibbiano arriva nell’estate del 2019, un mese dopo le Europee che decretano il trionfo di Matteo Salvini: la Lega col 34,3 per cento è di gran lunga il primo partito italiano. A Palazzo Chigi siede l’ancora insipido avvocato del popolo Giuseppe Conte. Il “capitano”, oltre a giocare ai porti chiusi dalla tolda di comando del Viminale è anche vice premier, insieme Luigi Di Maio, l’uomo forte del Movimento 5 Stelle. Sono questi ultimi a tenere in mano i fili del governo. Più che due vice, Salvini e Di Maio somigliano ai due tutori del presidente del Consiglio. Nemico giurato, per entrambi, è il Partito democratico. Ma i grillini dalle Europee escono parecchio ridimensionati (17,1 per cento) rispetto al bagno di consensi delle Politiche 2018, e cercano una nuova crociata che possa ridare fiato alle trombe un po’ spompate del M5S. L’occasione per ridare forza alla propaganda populista arriva all’improvviso da Bibbiano, paesino della Val d’Enza, dove la Procura di Reggio Emilia ha acceso i riflettori (e fatto partire le gran casse) per un presunto giro di affidi sospetti. È l’inchiesta “Angeli e demoni” che prende di mira la rete dei servizi sociali, accusati di un crimine infamante: allontanare alcuni bambini dalle proprie famiglie per darli in affido ad amici e conoscenti. E così, il 27 giugno del 2019, 24 persone vengono iscritte nel registro degli indagati. Per 16 scattano le misure cautelari: tra loro, Andrea Carletti, sindaco del Partito democratico di Bibbiano. Ora ci sono tutti gli ingredienti per montare la panna e chiunque abbia un interesse politico nella vicenda si butta a pesce. Del resto, da lì a qualche mese (a gennaio 2020) si voterà anche per rinnovare Giunta e Consiglio regionale dell’Emilia Romagna. Salvini, col vento in poppa certificato dalle Europee, spera nel colpaccio: battere Bonaccini e far sventolare la bandiera di Alberto da Giussano dal pennone dell’ultima roccaforte rossa rimasta in Italia. Impossibile resistere alla tentazione di un assist così ghiotto, in barba a qualsiasi principio di presunzione d’innocenza professato a targhe alterne dal centrodestra. Nel giro di poche settimane, l’inchiesta della Procura si trasforma nel “sistema Bibbiano”, la campagna mediatica giallo-verde è ormai partita e sui giornali non si parla d’altro. “È una vergogna che c’è ancora chi fa business sulla pelle dei bambini, andremo fino in fondo. Non avrò pace finché l’ultimo bambino non sarà a casa”, dice a fine luglio, tra la folla di Bibbiano, il “capitano” leghista, che giura di parlare col cuore di “papà”. “Togliere i bimbi a mamma e papà deve essere l’ultima cosa. Chi ha sbagliato deve pagare doppio. I tribunali dei minori vadano nei campi rom”, aggiunge Salvini. Che pochi mesi dopo - a esperienza giallo - verde naufragata sui “pieni poteri” del Papeete - porterà addirittura Greta, una bimba presentata come vittima di quel sistema, sul palco di Pontida. E se il numero uno di via Bellerio ringhia, non può essere da meno l’ancora alleato pari grado, Luigi Di Maio, che tra le altre cose deve allontanare dal M5S il sospetto di flirtare segretamente col Pd: “Io col partito di Bibbiano non voglio averci nulla a che fare”, dice, con una frase che passerà alla storia (e tornerà a rimbombare poco più di un mese dopo, quando i grillini si alleeranno con i dem) prima di mettere sul piatto un’altra bufala che accompagnerà questa storia: l’elettroshock. “Col partito che in Emilia toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli, io non voglio avere nulla a che fare”, dice il capo della forza parlamentare più imponente del Paese. Ma a dire la verità, i giallo-verdi non sono i primi a tuffarsi a bomba su questa storia. A intuire prima di tutti le potenzialità propagandistiche di questa vicenda è Giorgia Meloni. È lei a presentarsi a Bibbiano quando ancora tutto tace (o quasi) il 5 luglio del 2019. “Siamo stati i primi ad arrivare. Saremo gli ultimi ad andarcene!”, rivendica con un post sui social la futura presidente del Consiglio, che nel piccolo paese del reggiano parla addirittura di “emersione dell’ideologia gender”. Per le destre è un invito a nozze. L’hashtag #ParlateciDiBibbiano diventa virale già a metà luglio e si trasforma nello slogan più efficace per attaccare il Pd in qualsiasi contesto pubblico. A lanciarlo in rete però non sono la Lega, il M5S o Fratelli d’Italia - che pure lo utilizzeranno abbondantemente e a lungo - ma un gruppo extraparlamentare: i “fascisti del Terzo Millennio” di Casa Pound. Gialli, verdi e neri uniti nella stessa battaglia: utilizzare i bambini per colpire gli avversari politici. Tanto che il 10 settembre del 2019, mentre il Senato discute sulla nascita del nuovo governo Conte (nato da un accordo tra M5S e Pd!), l’esponente leghista e sottosegretaria ai Beni culturali Lucia Borgonzoni prende la parola e all’improvviso apre la giacca per sfoggiare una maglietta bianca con la scritta: “Parliamo di Bibbiano”. La “P” e la “D” sono rosse, per non incappare in equivoci. L’Aula resta di stucco, ma Bergonzoni continua a parlare. Il suo, del resto, non è un gesto disinteressato. È la candidata governatrice con cui Salvini è convinto di spazzare via Bonaccini dall’Emilia Romagna. La storia andrà in un altro modo, come quella giudiziaria su Bibbiano. “Quella realtà deformata dal processo mediatico attraverso il tribunale della pubblica opinione” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 giugno 2024 Ancora prima che terminasse la celebrazione dell’udienza preliminare, uno dei protagonisti del “caso Bibbiano”, lo psicoterapeuta Claudio Foti, assolto in via definitiva, fu cacciato da un ristorante emiliano in quanto disse il ristoratore - “non do da mangiare a un lupo che rapisce i bambini”. I giornali lo avevano dipinto in questo modo, così come la psicoterapeuta Nadia Bolognini, di cui erano circolate immagini ritoccate, insieme alle intercettazioni dei carabinieri. I mostri erano stati serviti al pubblico e la loro reputazione rovinata. Poi si è scoperto che questa era una delle tante fake news dell’inchiesta e che nessuno tra gli imputati si era travestito da animale per spaventare i bambini. Ma oggi cosa rimane di quella narrazione? Come ci spiega il professore e avvocato Vittorio Manes, autore di “Giustizia Mediatica - Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo”, “la memoria collettiva è come una pellicola ad altissima sensibilità, viene subito impressionata, e quelle immagini impressionistiche vi si sedimentano, anche se successivamente il dibattimento processuale e/o le assoluzioni smentiscono quel racconto”. Ma facciamo un passo indietro. L’inchiesta del 2019, definita impropriamente “Angeli e Demoni”, è stata caratterizzata, ci spiega ancora Manes, “da una campagna mediatica violentissima, costruita addirittura su dati che nulla avevano a che fare con il processo, ad esempio si parlò perfino di elettroshock. Circostanza che dovette essere poi smentita dal procuratore durante una conferenza stampa”. Ricordiamo, infatti, tutti le prime pagine di quel periodo: “Emilia, le carte horror sui ladri di bambini a colpi di elettrochoc”, “bambini suggestionati da impulsi elettromagnetici ed elettrodi applicati su mani e piedi”, “lavaggi del cervello e scosse ai bimbi per darli in affido”. Per il professor avvocato, poi, “abbiamo assistito al rovesciamento della presunzione di innocenza perché sono stati tutti condannati a furor di popolo già in fase di indagine”. Per di più “si tramandò addirittura un messaggio contrario a quello che successivamente ha accertato il processo, ossia che i terapeuti facevano del male ai bambini. L’oggetto invece dell’accertamento processuale è stato l’opposto: i terapeuti adottavano linee curative eccessivamente precauzionali nei loro confronti”. Si tratta della “tipica deformazione delle campagne mediatiche che allontanano e distorcono i dati fattuali e processuali, creando una realtà parallela completamente diversa da quella che si delinea nell’aula di Tribunale”. Un aspetto singolare, sottolinea il direttore della rivista dell’Ucpi “Diritto di difesa”, è che “la narrazione mediatica e il tribunale della pubblica opinione hanno effettuato un’opera di semplificazione e omologazione dei differenti contributi soggettivi in un unico giudizio di disvalore che ha annichilito ogni differenza, e ogni prospettiva, schiacciando le diverse figure su una tabula rasa simile a una pala d’altare della pittura sacra duecentesca”. Inoltre “questa omologazione ha obliterato non solo la diversità di contributi rispetto al medesimo fatto, ma anche la diversità di fatti storici riferibili ai diversi soggetti, di regola magnetizzati e inglobati nel fatto contrassegnato dal maggior disvalore: in questo caso i presunti abusi terapeutici su minori sono stati affiancati, mescolati e confusi con irregolarità amministrative riferibili, in tesi di accusa, alla commissione di reati contro la Pubblica amministrazione o contro la fede pubblica, così estendendo a soggetti del tutti estranei contestazioni mosse ad altri, e nondimeno imputate mediaticamente “per fatto altrui”. In pratica “sul palcoscenico mediatico si è perso ogni confine tra protagonisti, comprimari, comparse così come ogni distinzione tra coloro che magari - rispetto al fatto concreto - risultano solo corifei o semplici spettatori, e tutti finiscono protagonizzati al medesimo livello e appiattiti in una sorte di responsabilità collettiva che reclamava parallelamente una punizione collettiva”. “Per fortuna - ha proseguito Manes - l’itinerario processuale ha avuto la forza di ripristinare la corretta dimensione degli accadimenti e di riportare l’accertamento sulle coordinate più corrette, addirittura rovesciando e smentendo alcune tesi accusatorie nel corso del dibattimento che sta avendo la capacità, come non sempre accade, di ripristinare le corrette prospettive, ridando ai protagonisti la giusta posizione”. Ricordiamo che il gip nel rimettere in libertà i due indagati scrisse nel provvedimento: “concordemente con il pm deve ritenersi che allo stato, proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità”, il pericolo di inquinamento probatorio “è andato via via scemando”. “Paradossalmente - ha commentato Manes - possiamo dire che forse l’unica ricaduta positiva che ha avuto questa assurda campagna mediatica è che in taluni casi è valsa a sterilizzare le misure cautelari”. Mentre, come abbiamo scritto all’inizio Foti è stato definitivamente assolto in un rito abbreviato, prosegue il processo ordinario: “vedremo che esito avrà e se i giudici riusciranno a resistere alle pressioni mediatiche”. Claudio Foti, il lupo buono lapidato per un pugno di like di Simona Musco Il Dubbio, 3 giugno 2024 Non c’è stato, negli ultimi anni, uomo tanto deturpato da giornali e social quanto lo psicoterapeuta, simbolo di una inchiesta dalla quale alla fine è uscito da innocente. Claudio Foti il ladro di bambini. Claudio Foti l’abusologo. Claudio Foti il lupo. Non c’è stato, negli ultimi anni, un uomo tanto deturpato dai giornali, dalla selva dei social e dall’opinione pubblica quanto Claudio Foti, lo psicoterapeuta simbolo di un’inchiesta della quale non fa più parte, “Angeli e Demoni”. Condannato in primo grado a 4 anni per lesioni gravi e concorso in abuso d’ufficio, Foti è stato assolto in appello nel 2023, assoluzione confermata ad aprile dalla Cassazione. Ma non ciò non è bastato a salvarlo dalla gogna, dalla lapidazione collettiva alla quale è stato sottoposto sin dal 27 giugno 2019, giorno in cui l’Italia ha individuato in Bibbiano il covo dei mostri e lui è finito in una cella mentre si trovava in gita coi figli. Figli inseguiti, pedinati, costretti a fare i conti con un microfono che pretendeva verità inconfessabili su quell’uomo dall’aspetto strano che per tutti era ormai un mostro. Un mostro che faceva male ai bambini, dunque era legittimo, per gli altri, non curarsi dello stato d’animo dei suoi. A chiunque si domandasse, Foti era conosciuto come un ladro di bambini, pur non c’entrando nulla con i presunti affidi illeciti, contestati ad altri. Ma non era importante: era lui quello famoso da buttare nella mischia, quello la cui foto era spendibile sui giornali, l’uomo da etichettare sulla scorta di fantasiose fake news che, a distanza di 5 anni, sono più granitiche delle sentenze. Per l’accusa, Foti avrebbe provocato un disturbo borderline in una paziente 17enne, arrivata da lui raccontando, senza alcuna sollecitazione, storie di abusi e di un forte risentimento nei confronti del padre, che a quegli abusi non aveva voluto credere. Un padre assente, un padre che aveva picchiato l’ex moglie anche davanti alle figlie, un padre che la giovane voleva tenere lontano dalla sorella. La terapia si svolgeva ogni 15 giorni ed è durata un anno, durante il quale la giovane è passata dal desiderio di morire a quello di sperare in un futuro migliore. Un successo, si direbbe anche senza una laurea in psicologia. Ma non per la procura di Reggio Emilia, che ha accusato Foti di aver manipolato la ragazza, instillandole un odio profondo per il padre, convincendola che era stato lui ad abusare di lei. Le sedute sono però chiare: non c’è una sola occasione in cui Foti attribuisca al padre della ragazza quelle violenze. E il disturbo borderline, dice la scienza, non può sorgere così, a 17 anni, dopo una psicoterapia: ha cause ben più profonde, che risalgono all’infanzia, spesso legate ad abusi e maltrattamenti. Proprio come nel caso della paziente di Foti. I giudici, nell’assolvere lo psicoterapeta, hanno fatto a pezzi la consulenza che lo aveva fatto condannare in primo grado: “Generica e priva di basi scientifiche”, scrivevano i giudici. Che non hanno risparmiato nemmeno il collega autore di quella condanna, che avrebbe recepito “incondizionatamente le conclusioni rassegnate dal consulente del pm” senza che per le stesse vi fosse anche una sola legge scientifica di copertura. Il suo avvocato Luca Bauccio, al contrario, ha portato studi su studi su come nasce e si sviluppa il disturbo borderline. E in difesa di Foti sono scesi in campo centinaia di psicoterapeuti, spaventati da quello che sembrava un processo alla scienza. Un processo contorto, dal momento che l’accusa si è tramutata in condanna attraverso una perizia che - scrivevano ancora i giudici d’appello - non applicava quelle regole dalle quali, secondo la procura di Reggio Emilia, non si poteva prescindere, come veniva contestato a Foti. Imprescindibili non per legge, ma secondo una certa corrente di pensiero. Il paradosso stava tutto lì: Foti era finito sul patibolo per non aver “applicato”, nella sua terapia, la Carta di Noto (strumento che però si usa nei tribunali, non in clinica) ed è stato condannato evitando di usare proprio quel metodo che si pretendeva di trattare come sacro, ancora la Carta di Noto. I giudici d’appello hanno però lasciato uno spiraglio per salvare l’abuso d’ufficio, anche se Foti non l’ha commesso. Una scorciatoia che ha consentito agli hater di Foti - per lo più giornalisti che non si sono rassegnati alla sua assoluzione - di continuare ad attaccarlo: non aver commesso il fatto significa che non ci sono prove su di lui, ma il fatto c’è, dunque il metodo Foti esiste, anche se non è stato possibile dimostrarlo. Un controsenso, perché se mai un metodo fosse esistito - e non esiste -, allora si sarebbe realizzato solo se mai fosse risultata vera quella che fu definita “ostetricia dei ricordi”. Quella che, per i giudici, non sussiste. Di falsi ricordi, nel caso Foti, non vi è traccia. Nel frattempo, quell’abuso d’ufficio, nel processo ordinario, ha iniziato a scricchiolare. Non solo per la sua imminente abrogazione, ma perché le prove, allo stato attuale, sembrano andare tutte in senso contrario. Poco importa, poi, che l’onere della prova spetta all’accusa: se non si è riuscito a dimostrare il reato, Foti non è innocente, ma un colpevole che l’ha fatta franca. Il solito refrain privo di consistenza giuridica, che in più di un caso si è trasformato in un boomerang impugnato dal karma. Foti, comunque, rimane il lupo. Quel nome che gli deriva dall’accusa - al momento smentita dalle prove - che una psicoterapeuta si travestisse con lo scopo di spaventare i bambini. Non lui, ma un’altra imputata. Eppure, era lupo anche lui, meritava di essere cacciato pure dai ristoranti, come pure gli è successo (“Non do da mangiare a un lupo che rapisce i bambini”, gli urlò contro un ristoratore), meritava di essere insultato per strada, anche se con i lupi non ha avuto mai niente a che fare, anche se il lupo, stando al processo in corso a Reggio Emilia, era solo un pupazzo usato per gli psicodrammi. Insomma, quello a Foti è stato l’esempio perfetto del processo mediatico, con una mostrificazione ad arte alimentata da fake news e totale ignoranza degli atti, pure citati a sproposito per censurare ogni obiezione. Così, anche dopo l’assoluzione in appello, la tempesta di fango non si è placata. Un clima descritto perfettamente dalla frase pronunciata dall’ex deputato Italo Bocchino, che subito dopo la sentenza d’appello ha creato in tv una nuova categoria penale: “Resta intatta la responsabilità morale di Foti”. Un uomo finito nel tritacarne delle più assurde fake news: da quella di non avere i titoli per fare lo psicoterapeuta a quella dei casi in cui avrebbe sbagliato le sue valutazioni - una manciata, a fronte di decine e decine di vicende trattate -, alcuni in realtà mai seguiti da Foti, fino a quella di aver istigato al suicidio un’intera famiglia, che si è tolta la vita ben due anni dopo la perizia (tra le tante di quel caso) firmata da Foti. Un caso rispetto al quale la presunta vittima, ancora oggi, continua a sostenere la colpevolezza dei propri familiari. Ma a nessuno importa quella voce. E per capire di cosa si parla bisogna tornare al punto di partenza, all’ordinanza di custodia cautelare: lo psicoterapeuta andava arrestato perché aveva un’opinione. Non è un’invenzione di chi scrive, ma un passaggio dell’ordinanza, che a pagina 259 sottolineava il “peculiare atteggiamento” di Foti, che avrebbe denotato il “tasso potenziale di criminalità” dell’indagato deriverebbe dall’aver criticato il podcast “Veleno”. Una critica che farebbe di lui un “tipico autore per convinzione”, come si evincerebbe dalla “saccente presunzione, priva di qualsiasi deviazione dal dubbio incrollabile di essere dalla parte della ragione, con la quale commenta durissimamente l’inchiesta giornalistica” che aspirava a riscrivere la storia dei “diavoli della Bassa Modenese”, la vicenda giudiziaria che a fine anni 90 portò a condanne per 157 anni di carcere per abusi su minori. Una convinzione da punire con l’arresto, nonostante 70 giudici, in diversi momenti, abbiano stabilito la veridicità degli stupri denunciati da decine di bambini e nonostante la Cassazione abbia negato la revisione di quella sentenza. Il fatto di aderire ad una verità riconosciuta processualmente - criticabile, ma comunque definitiva - avrebbe certificato il curriculum criminale di Foti. Che nonostante tutto è rimasto in piedi. Nonostante il fango. Sardegna. Aggressioni, suicidi e degrado: carceri sarde dimenticate di Matteo Vercelli L’Unione Sarda, 3 giugno 2024 I sindacati di polizia penitenziaria lanciano l’ennesimo appello: “Interventi urgenti, la situazione è drammatica”. Aggressioni, tentativi di suicidio (purtroppo in alcuni casi riusciti), poco personale, accompagnamento di detenuti in Tribunale e negli ospedali con momenti di tensione e violenze: la situazione nei penitenziari sardi non migliora, anzi per i sindacati della Polizia Penitenziaria si tratta di un’emergenza senza fine. Le denunce, le richieste di interventi urgenti, gli appelli all’amministrazione e alla politica non si contano più. E non sembra davvero cambiare niente. Uno degli ultimi eventi risale alla fine di maggio: una brutale aggressione a due agenti, nel carcere di Uta, finiti in ospedale picchiati da un detenuto. “Siamo davanti ad un macabro e scellerato ping-pong di aggressioni da Cagliari e Sassari”, è l’affondo del segretario generale della Uil Pa Polizia Penitenziaria Michele Cireddu. “Vedere una divisa macchiata di sangue, i volti dei poliziotti completamente sfigurati, gonfi e pieni di lividi rappresenta l’emblema dello stato vergognoso in cui gli agenti sono costretti a lavorare”. Il segretario generale regionale della Fns Cisl, Giovanni Villa, attacca: “Non basta il fatto che i detenuti mentalmente instabili non devono stare in carcere, considerato che non sono posti adatti in quanto non si possono garantire l’osservazione e le cure continuative da parte di specialisti: c’è da aggiungere che i poliziotti che cercano instancabilmente di garantire la sicurezza dopo aver subito un’aggressione si vedono costretti a più di ore in pronto soccorso. Tutto questo è assurdo”, prosegue denunciando il calvario vissuto dagli agenti rimasti parecchie ore in ospedale in attesa di visite e cure. E il Sappe, attraverso il segretario generale Donato Capece, fa sapere: “Nelle carceri italiane, dal 2023 si sono registrati 1.760 casi di violenza e 8.164 atti di minaccia, ingiuria, oltraggio e resistenza. Nei primi cinque mesi del 2024, le aggressioni sono state 708, mentre gli atti di violenza e resistenza hanno raggiunto quota 3.362”. Nel tracciare il quadro difficile in cui sono costretti a lavorare gli agenti della Polizia Penitenziaria, Cireddu (Uil) ricorda: “Ormai si verificano delle aggressioni con una frequenza sempre crescente e i danni fisici sono sempre più gravi. La situazione è insostenibile ed ha raggiunto un punto di non ritorno. Intanto l’unico intervento che è stato messo in atto è un decreto ministeriale con il quale il ministro della Giustizia ha creato dei gruppi di intervento in ogni istituto ed a livello regionale. Ma non sappiamo ancora con quali uomini, considerata la grave carenza organica. Un primo timidissimo segnale ma conoscendo i tempi burocratici dell’amministrazione ci vorranno mesi, nella migliore delle ipotesi, per vedere nascere questi gruppi di intervento”. Le richieste sono chiare: “I poliziotti che lavorano nelle sezioni devono essere immediatamente dotati di strumenti, mezzi e protezioni per evitare di continuare a subire aggressioni, danni fisici gravi. Tra Sassari e Cagliari in pochi giorni sono finiti in ospedale decine di operatori e non si intravede nessun intervento concreto per porre fine a questo scempio”. Cireddu ricorda anche quanto accaduto fuori dai penitenziari, durante i trasferimenti di detenuti negli ospedali: “Poliziotti aggrediti e anche il personale medico. Serve, lo chiediamo da tantissimo tempo, l’apertura del repartino riservato ai detenuti, per il bene di tutti: degli agenti e degli stessi detenuti”. Villa (Cisl) prosegue: “In questo modo non si può continuare. Il personale viene decimato da detenuti violenti e che sono certificati dall’area sanitaria del carcere come psichiatrici. I detenuti con questa patologia nelle carceri sarde pare risultino essere varie decine e come proposto dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, è assolutamente necessario ampliare i posti nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, quindi costruirne altre nuove”. Anche la Regione potrebbe e dovrebbe fare la sua parte: “Ha le sue responsabilità in quanto la sanità penitenziaria e ancor peggio della sanità pubblica, ad oggi infatti non è stato ancora nominato il coordinatore regionale della sanità penitenziaria, figura questa più volte sollecita. Si avviino immediatamente le aperture dei repartini detentivi ospedalieri e, lo ribadiamo più convintamente, si diano tutti i mezzi necessari a contrastare le aggressioni in sicurezza, finanche i taser e le famose bodycam per filmare l’atto dell’aggressione”. Il Sappe, con il segretario Luca Fais, chiede all’amministrazione Penitenziaria fatti concreti: “Attendiamo i dovuti provvedimenti che dovrebbero attuarsi in caso di aggressioni ovvero il trasferimento dei detenuti, che a Uta sono ancora presenti e quotidianamente sono autori di diversi atteggiamenti aggressivi”. Capace aggiunge: “Il personale è ormai allo stremo ed ha perso ogni serenità lavorativa. L’amministrazione penitenziaria deve farsi carico del problema e attuare tutte le misure necessarie per consentire al personale dell’istituto cagliaritano di svolgere il proprio turno lavorativo in sicurezza”. Venezia. Detenuto romeno di 31 anni suicida in carcere di Francesco Furlan La Nuova Venezia, 3 giugno 2024 Il 31enne era rinchiuso a Venezia per tentato omicidio: lascia la compagna e tre figli. Un detenuto rinchiuso nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia si è suicidato, la mattina del 2 giugno, impiccandosi in cella quando gli altri detenuti che condividevano con lui la stanza erano fuori. La vittima è un cittadino rumeno di 31 anni che era in carcere da due mesi per tentato omicidio. L’uomo era stato arrestato a inizio aprile per l’accoltellamento, avvenuto il 26 febbraio in Corso del Popolo, del titolare del bar Skb, al civico 90. Ubriaco, al rifiuto del barista di pagare il conto il giorno successivo, aveva accoltellato il titolare bengalese del locale. L’uomo era stato individuato dagli agenti del commissariato di Mestre a distanza di due giorni dall’episodio ma i tempi tecnici della giustizia ne avevano consentito l’arresto, su ordinanza di custodia cautelare, un mese più tardi. Il 31enne, residente a Mestre da anni, lascia la compagna e tre figli. Il suicidio ha scosso la casa di reclusone e tutti gli operatori. Nel pomeriggio di ieri il garante per i detenuti, l’avvocato Marco Foffano, è stato in carcere per cercare di capire che cosa fosse accaduto. “Non era considerato un detenuto a rischio, non aveva mai fatto gesti di autolesionismo. È un suicidio che arriva in un periodo in cui il direttore si sta molto impegnando per costruire, con i volontari, opportunità di lavoro e di crescita culturale per i detenuti. È un suicidio che conferma come questa sia un’emergenza per le nostre carceri”. Nel 2023 erano stati tre i suicidi nel carcere di Santa Maria Maggiore. La notizia ha scosso anche gli avvocati che stavano assistendo il 31enne, Stefania Pattarello e Marco Marcelli. “Per noi è stato un gesto inaspettato”, dice Marcelli, “era stato fissato il giudizio immediato, avevamo raggiunto un accordo con la procura per il patteggiamento e stavamo preparando l’istanza di scarcerazione”. E invece il 31enne ha deciso di togliersi la vita. “Anche a noi non risulta che avesse mai manifestato intenzioni simili”, aggiunge l’avvocato, “ma era molto provato perché non poteva vedere la compagna e i figli”. Voleva tornare a casa per vederli ma c’erano tempi tecnici da rispettare e sull’istanza di scarcerazione si sarebbe dovuto esprimere il giudice. Da inizio anno, in tutta Italia, sono 38 i suicidi in carcere. Due nella giornata del 2 giugno. Oltre al 31enne a Venezia, si è tolto la vita anche un detenuto rinchiuso nel carcere di Cagliari. “Sale così a 38”, commenta Gennarino de Fazio della UilPa, “il numero complessivo dei suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, cui vanno aggiunti quattro appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che, parimenti, si sono tolti la vita. Mentre la politica sembra assorta fra la campagna elettorale e la separazione delle carriere della magistratura, ciò che tragicamente non si riesce a scindere è la morte dalle carceri”. Cagliari. Detenuto 23enne tenta il suicidio e muore due giorni dopo in ospedale di Jacopo Norfo castedduonline.it, 3 giugno 2024 “Un tentativo di suicidio, per impiccagione, verificatosi venerdì nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, si è trasformato in una tragedia in Ospedale. Dopo due giorni di agonia in rianimazione, un ragazzo di 23 anni, extracomunitario, si è spento stamattina”. Un tentativo di suicidio, per impiccagione, verificatosi venerdì nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, si è trasformato in una tragedia in Ospedale. Dopo due giorni di agonia in Rianimazione, un ragazzo di 23 anni, extracomunitario, si è spento stamattina. Una notizia ancora più sconfortante in una giornata in cui l’Italia festeggia il 78/esimo anniversario della Repubblica e la Costituzione”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” sottolineando che “ogni suicidio in carcere è una tragedia che addolora e la cui responsabilità ricade sullo Stato incapace di garantire la sicurezza a ciascuna persona detenuta. Questo di Cagliari-Uta è il secondo suicidio, in due mesi, dall’inizio dell’anno”. “Non si possono scaricare le responsabilità solo su un Istituto Penitenziario quando - sottolinea Caligaris - si registrano da troppo tempo condizioni difficili di sovraffollamento e dove le carenze di personale penitenziario, sanitario e dell’area educativa incidono negativamente sulla possibilità di cogliere il profondo disagio delle persone private della libertà. È evidente che aldilà di segnali appariscenti, un ragazzo così giovane ha sentito su di sé un peso insostenibile e l’impossibilità di proiettarsi nel futuro”. “SDR si unisce allo sgomento della Direzione dell’Istituto e degli Operatori, che hanno tentato di salvargli la vita, al dolore dei familiari e degli amici di A.M. auspicando che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria prendano in considerazione i gravi problemi dell’Istituzione carceraria in Sardegna dove emerge in modo sempre più evidente la scarsa considerazione se, com’è noto, né Cagliari né Nuoro e neppure Sassari hanno un Direttore stabile”. Trani (Bat). “Basta suicidi in carcere!”: oggi maratona oratoria in piazza Duomo Il Giornale di Trani, 3 giugno 2024 Una “Maratona oratoria a staffetta” per dire “basta” ai suicidi in carcere, e non solo. La promuove l’Unione delle camere penali italiane, è partita ieri mattina da Catanzaro, proseguirà in tutta Italia e, fra le numerose tappe previste oggi, lunedì 3 giugno, ci sarà anche Trani. In piazza Duomo dalle 10 alle 18, ai piedi del Palazzo di giustizia, avvocati, giuristi, addetti ai lavori, professionisti, autorità a vario titolo e cittadini potranno alternarsi davanti ad un microfono per sensibilizzare l’opinione pubblica sul gravoso tema dei gesti estremi dietro le sbarre. La Camera penale di Trani “Giustina Rocca”, aderendo all’invito dell’Unione nazionale, si sta adoperando “per mettere in campo ogni sforzo possibile per fronteggiare più efficacemente l’emergenza carcere - spiega il presidente, Giangregorio De Pascalis - e, in particolare, il dramma dei suicidi, giacché siamo già a quota 35 nell’intero territorio italiano in questi primi mesi dell’anno. L’iniziativa è aperta alla società civile ed è affidata alla sensibilità di tutti coloro che ben conoscono il dramma del carcere ed intendano impegnarsi perché la pena - conclude -, oggi consistente in trattamenti inumani e degradanti, possa recuperare quel senso di umanità che le assegna la Costituzione”. Il suo collega Amleto Carobello, vice presidente dell’Uicp del Foro Trani, fa sapere che “stiamo raccogliendo già molte adesioni da parte di coloro che, a vario titolo e in vari comparti, conoscono e/o si occupano del fenomeno e lo sentono come urgenza del nostro tempo: esecuzione penale, garanti, ex detenuti, politica, magistratura, accademia, informazione, imprenditoria, confessioni religiose, associazionismo, scuole. Tutti si stanno dichiarando disponibili ad essere lievito e fermento in questa battaglia di civiltà, per riportare nel discorso pubblico il tema della funzione della pena e della umanità dello Stato, non essendo accettabile che le carceri siano di fatto discariche sociali, centri di raccolta differenziata delle periferie esistenziali e degli scarti del nostro tempo”. Non è necessario prenotarsi formalmente per intervenire, ma chiunque voglia farlo è pregato almeno di segnalarlo in anticipo ad un componente del direttivo della Camera penale di Trani per ragioni organizzative “Vogliamo che tanti accorrano - chiudono i due legali -, per offrire il proprio contributo alla riflessione ed al dibattito: diamo voce a chi non ha voce e fermiamo i suicidi in carcere”. Brescia. Commissione carceri: presto un sopralluogo a Canton Mombello bresciatoday.it, 3 giugno 2024 La Commissione speciale sul sistema carcerario in Lombardia si perpara a far visita al carcere cittadino - dove è in corso uno sciopero contro il sovraffollamento - e all’ospedale psichiatrico di Castiglione. Proseguono i lavori della commissione speciale sul sistema carcerario in Lombardia, riunita con l’obiettivo di raccogliere dati sulla condizione degli istituti di pena e “avanzare proposte per rendere più tollerabile la detenzione”. È in programma per venerdì un’audizione con l’assessore regionale all’Istruzione Valentina Aprea e con l’assessore all’Occupazione e alle politiche del lavoro Gianni Rossoni, anche in vista di un sopralluogo dei consiglieri nel carcere di Canton Mombello - dove i detenuti hanno portato avanti nei giorni scorsi uno sciopero della fame per protestare contro il sovraffollamento - e nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Nella scorsa seduta il provveditore regionale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Aldo Fabozzi ha presentato davanti alla commissione presieduta da Stefano Carugo (Pdl) dati che dipingono una situazione di sovraffollamento, con il 53% dei detenuti in più rispetto ai posti a disposizione in Lombardia. Pavia. Disposta l’archiviazione per gli agenti accusati di percosse a un detenuto di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 3 giugno 2024 Il Gip di Pavia Pasquale Villani ha disposto l’archiviazione dell’indagine che vedeva coinvolti nove agenti della polizia penitenziaria che erano stati accusati di abuso di autorità da un ex detenuto del carcere di Torre del Gallo. La decisione è arrivata ieri, in seguito all’udienza disposta per discutere l’opposizione dell’ex detenuto alla richiesta di archiviazione che era stata avanzata dalla Procura di Pavia. In particolare, le accuse che l’ex detenuto muoveva agli agenti riguardavano presunte percosse che avrebbe subito all’indomani della rivolta scoppiata nel marzo 2020 (nella foto) nel carcere per protestare contro le restrizioni anti Covid, evento per cui sessantotto tra detenuti ed ex sono attualmente a processo con l’accusa di devastazione e saccheggio. L’opponente aveva denunciato di esser stato percosso. Non sarebbero stati trovati però riscontri e conferme dell’accaduto durante le indagini, per cui era stato richiesto dal PM di archiviare il caso. A questa decisione l’ex detenuto si era opposto, ora il Gip ha disposto per tutti i nove agenti l’archiviazione. L’opponente e il suo legale Pierluigi Vittadini vaglieranno l’eventuale ricorso in Cassazione contro la decisione. Latina. La Costituzione dentro e fuori le mura: l’università entra nel carcere latinatoday.it, 3 giugno 2024 I detenuti a lezione nell’ambito del progetto di riabilitazione di Caritas diocesana, ateneo La Sapienza e amministrazione penitenziaria della casa circondariale di Latina. Prosegue con successo “3CiLab - Costituzione, Carcere e Città di Latina”, il progetto per diffondere la conoscenza della Costituzione italiana nato dalla sinergia tra Caritas diocesana di Latina, università La Sapienza e amministrazione penitenziaria della casa circondariale di Latina. Nei giorni scorsi il carcere del capoluogo pontino ha ospitato un ciclo di seminari su “La Costituzione fuori e dentro le mura”, uno destinato ai detenuti uomini, l’altro alle donne, che hanno visto gli interventi dei professori Donatella Bocchese, Guido Colaiacovo, Marta Mengozzi e Marco Polese, coordinati dalla professoressa Fabrizia Covino, responsabile scientifica del progetto. Agli incontri hanno partecipato 40 uomini e altrettante donne, oltre ad alcuni insegnanti, educatori, dottorandi di ricerca, agenti penitenziari e volontari. Dopo un primo seminario “Carcere e Costituzione. Esperienze a confronto” svoltosi a novembre scorso presso la facoltà di Economia de La Sapienza di Latina, promosso e moderato dalla professoressa Fabrizia Covino, docente di Istituzioni di diritto pubblico - in cui sono intervenuti la direttrice della casa circondariale Pia Paola Palmeri, il Responsabile area educativa del carcere Craia, e Pietro Gava, coordinatore del volontariato penitenziario Caritas - è stata tracciata una via per consentire l’interazione e lo scambio tra realtà universitaria e carceraria, in particolare tra studenti, detenuti, docenti e amministrazione penitenziaria, oltre a valorizzare il ruolo delle attività di supporto fornite dal Terzo Settore in ambiti fragili come la realtà detentiva. Il successo del percorso riabilitativo delle persone detenute è certamente la conseguenza di una serie di azioni che coinvolgono, oltre la struttura carceraria, le istituzioni dell’istruzione, il Terzo settore, nonché l’intera comunità locale; in questo ambito rientra anche la terza missione dell’università La Sapienza, che affianca le due principali funzioni, ricerca scientifica e formazione, con il preciso mandato di diffondere cultura, conoscenze e trasferire i risultati della ricerca al di fuori del contesto accademico, contribuendo alla crescita sociale e all’indirizzo culturale del territorio. Milano. La prima messa al carcere Beccaria aperta alla città: “Diventeremo comunità” di Andrea Galli Corriere della Sera, 3 giugno 2024 L’iniziativa nell’istituto minorile dopo l’arresto di alcuni agenti accusati di aver pestato i detenuti e le rivolte interne. Sarebbe stata troppa grazia incrociare domenica mattina, alla prima messa nel carcere minorile Beccaria aperta alla città, qualche politicante oppure un cosiddetto volto noto. Non c’erano, ma meglio così, in quanto si sono cristallizzati due elementi. Il primo: al netto del perdurante stato di crisi dell’istituto - gli agenti a processo per i pestaggi contro i detenuti, le proteste di questi ultimi compresa l’ultima giovedì, le sciagurate scelte negli anni del ministero che ha rinviato ogni decisione saggia per arginare il disastro degli ospiti e del personale tutto -, ecco, del Beccaria, a Milano, ad alti livelli, non frega nulla, figurarsi in queste ore di vigilia delle elezioni europee, e per appunto se n’è avuta plastica conferma. Secondo elemento, che par di capire comunque soddisfi don Gino Rigoldi, l’ex storico cappellano che ha celebrato la liturgia insieme al suo successore, don Claudio Burgio: qui, nella sala teatro che funziona anche da chiesa, “sta nascendo una nuova comunità. La prossima domenica ci saranno anche i giovani detenuti di fede cattolica; avremo un coro; aumenteranno i cittadini che vorranno esserci; e per intanto abbiamo dato una risposta alle mille famiglie che hanno preso casa nei palazzi confinanti in costruzione, considerata l’assenza, nel quartiere, di parrocchie”. Una messa breve, essenziale, pratica, nel consueto stile di don Gino, che ha sgridato l’odierna Chiesa “troppo affollata d’individualismi” e che ha ricordato come l’odierna anima cittadina si stia perdendo, ossessionata dall’inseguire il mantra del far carriera, dell’accumulare, del soddisfare le esigenze personali così perdendo un approccio più sociale, più armonico, più milanese; e ha poi raccontato, il sacerdote, la semplicità dell’esistenza di Gesù specie nella capacità di far gruppo. Che stando quantomeno sulla geografia, cioè il carcere minorile, rappresenta l’indirizzo non preso negli ultimi anni e infatti generatore dell’attuale assai complicato quadro. Per esempio, giovedì s’è vista la nuova politica muscolare voluta da Roma con le ispezioni anti-droga nelle celle che hanno esasperato i ragazzi; e altresì, beninteso non entrando nelle ovvie problematiche legate alla salute, spostare di colpo il classico giorno della possibilità d’avere delle sigarette è sembrato sadismo. Per il resto, bisogna ora vedere il futuro del direttore, giovane e volenteroso, sì, ma spedito allo sbaraglio; bisogna assistere alla “rimodulazione” delle guardie - quelle imputate per le presunte persecuzioni sono 13 - e alla strategia del nuovo comandante; e bisogna vedere quanto resisteranno psicologi ed educatori che nelle ultime stagioni han lavorato privi dei mezzi minimi. Don Gino ha già introdotto, e diventerà argomento delle prossime omelie, la necessaria variazione nell’approccio linguistico verso i detenuti ogni volta a prescindere battezzati quali incalliti criminali, e di conseguenza d’un Beccaria terra di confine compromessa. Domenica c’erano delle anziane venute apposta da fuori città, in treno, per partecipare, sicché l’idea del sacerdote della messa aperta ha creato un varco. Piccolo, ma c’è. Milano. A messa con don Gino Rigoldi, per non abbandonare il Beccaria di Daniele Biella vita.it, 3 giugno 2024 Don Gino Rigoldi, storico cappellano del Beccaria, il carcere minorile di Milano, insieme a don Claudio Burgio che lo coadiuva da tempo, lancia un appello ai cittadini: non lasciate soli i giovanissimi detenuti. E propone un’iniziativa del tutto nuova: la messa domenicale aperta. La domenica mattina della periferia ovest di Milano racconta di un gran bel sole, alti palazzi in costruzione - ma oggi ruspe e gru sono nel silenzio del giorno di festa - persone che corrono, passeggiano, cani al guinzaglio e bambini che giocano nelle ampie aree verdi. Siamo in via Calchi Taeggi, e dando le spalle alla nuova Milano che avanza, vediamo una porta a doppio battente aperta che dà su una struttura rossastra, decisamente più bassa: il carcere minorile Beccaria. Che oggi ospita una sessantina di giovanissimi detenuti, con pene di varia entità, e che negli ultimi tempi è finito in tutti i telegiornali per avere inanellato risse, incendi, evasioni, proteste ma anche comportamenti violenti da parte di chi dovrebbe fare rispettare l’ordine (13 agenti arrestati per maltrattamenti lo scorso 22 aprile). Ma noi stamattina siamo qui per qualcosa di diverso: raccontare il ‘bello’ anche in un luogo marchiato come ‘brutto’. Possibile? Sì, se a smuovere le acque è don Gino Rigoldi, classe 1939, cappellano del Beccaria dal 1972 fino al marzo di quest’anno - ben 52 anni - quando ha lasciato il passo a don Claudio Burgio che, già da 19 anni lo affiancava nel servizio con i detenuti. Una sfida di don Gino - Don Rigoldi, infatti, con il beneplacito della direzione carceraria, ha lanciato la sfida: dire messa, ogni domenica alle 10.30 a partire dal 2 giugno Festa della Repubblica, aprendo la Chiesa del Beccaria alla cittadinanza. Ed è così che, qualche minuto prima dell’orario prescelto, è iniziato un viavai di persone proprio da quella porta aperta, adiacente alla Chiesa, che non più di due anni fa era ancora un muro: “È la porta che dà accesso al teatro Puntozero Beccaria, dopo 30 anni di attività siamo riusciti a ottenere l’accesso diretto”, spiega la referente della compagnia teatrale, presente a questo momento a suo modo storico, assieme a tre collaboratori, tra cui un ragazzo 18enne detenuto. È lui l’unico recluso presente, “ma è una messa ‘pilota’, dalla prossima domenica saranno presenti diversi ragazzi del carcere, che parteciperanno attivamente e in modo volontario”, ci dice lo stesso don Rigoldi. Una scommessa: unire il fuori al dentro - La scommessa sta tutta qui: permettere l’incontro tra chi sta fuori e chi sta dentro, abbattendo muri e stereotipi per quanto possibile, creando nuovi orizzonti. L’esempio lo danno le stesse persone che alla spicciolata - saranno una settantina in tutto, per questa ‘prima’- iniziano a popolare la Chiesa, fermandosi qualche minuto all’ingresso, quasi incredule di potere entrare nella struttura penitenziaria. “Siamo qui perché vogliamo metterci in ascolto. Siamo da poco in pensione, vorremmo potere essere utili incontrando i ragazzi detenuti, parlando con loro”, ci spiega una coppia di signori che abitano dalla parte opposta dalla città. Abita qua vicino invece una donna che oggi fa la volontaria nel carcere di San Vittore con l’associazione Incontro e Presenza: “passavo davanti al Beccaria tutte le mattine per andare al lavoro e mi sono detta che potevo fare qualcosa anch’io. Ci sto riuscendo ed è un’esperienza fondamentale, per questo oggi sono qua a ‘ringraziare’ dove tutto è iniziato”. Da Reggio per capire come fare - Raccogliamo anche la motivazione di un frate cappuccino giunto fin da Reggio Emilia, che vuole vedere da vicino l’opera di don Rigoldi e don Burgio, e di tre giovani sorridenti all’ingresso, arrivati come il frate in largo anticipo: “Chiederemo di potere dare una mano nell’officiare la messa, animandola. Facciamo parte del movimento Gloriosa Trinità”, raccontano. Nel frattempo, puntuale, la funzione ha inizio. I due religiosi si alternano e sia nell’omelia che nelle preghiere i riferimenti sono per tutti: giovani detenuti, guardie carcerarie, cittadini. “Toccare con mano l’umanità” che c’è dietro le sbarre e “fare comunità attorno a questo luogo”, sono i due punti di partenza per questa novità che, come spera don Rigoldi, porterà sempre più gente a partecipare all’appuntamento domenicale. La funzione è breve, alla comunione partecipano quasi tutti. Sulle panche molti genitori coi figli - Sulle panche si vedono, oltre a numerose coppie, diversi genitori con figli: tra di loro riconosciamo un assessore della precedente giunta milanese, Gabriele Rabaiotti, e il figlio 19enne, che incrociamo all’uscita. “Sono qui per ritrovare persone con cui ho collaborato per tanto tempo, e perché questa iniziativa è piena di senso”, dice l’ex assessore, a cui si aggiunge il ragazzo con una motivazione del tutto personale: “Volevo conoscere da vicino don Burgio, mi ha colpito molto che abbia composto una canzone rap per Baby Gang”, (il rapper nato a Lecco nel 2001 di origine marocchina che entra ed esce dal carcere da anni, con cui il religioso ha instaurato una forte relazione: la canzone si chiama Spavaldo e fragile). Ancora, c’è un’altra coppia di neopensionati venuta “per esprimere solidarietà in prima persona”, un signore “legato a don Gino da un rapporto personale di tanto tempo fa, quando diceva messa nella parrocchia dove abitavo, per questo ora sono qui a supportarlo”. C’è anche una signora con enorme forza di volontà nella gestione del Parkinson e il marito a fianco: “Stimiamo profondamente don Rigoldi, perché è una persona che scuote sia religiosi che laici. A volte possiamo essere in disaccordo con alcune sue dichiarazioni, ma rimane una grande guida morale”. Stare vicini ai ragazzi - All’uscita è evidente la volontà di conoscersi, confrontarsi, tessere relazioni. Osserviamo don Rigoldi prendersi una pausa su una panca e don Burgio conversare con il ragazzo detenuto. Salutiamo, con la promessa di tornare a vedere come si evolve l’esperienza: “C’è bisogno di tanta gente”, rimarca lo storico cappellano, “stiamo vicini a questi ragazzi”. L’ultimo scambio di vedute è con don Burgio: “In questi ultimi tre giorni sono entrati nel carcere alcuni volontari che hanno imbiancato le pareti assieme ai detenuti. Hanno realizzato anche alcuni murales con panorami molto belli che ricordano la necessità di cercare bellezza nonostante tutto”. Aprirsi per ripartire - Un carcere minorile che cerca linfa vitale dal territorio circostante, anche per superare le recenti, traumatiche difficoltà. “Ora c’è un nuovo direttore, dopo anni di facenti funzioni, e verrà aumentato il personale ma soprattutto formato in modo più consistente”, aggiunge. Una delle urgenze quasi “croniche” è trovare posto fuori dalle sbarre per chi ha concluso il percorso detentivo: i luoghi mancano lo stigma è spesso invalicabile. Ma, ribadiscono i religiosi, con l’amministrazione penitenziaria si è in una fase molto collaborativa e l’apertura all’esterno della Chiesa ne è un esempio. Le cose miglioreranno realmente? “Abbiamo molta speranza. Ma, da solo, il Beccaria non ce la fa: ha bisogno della società civile, che va interpellata e sensibilizzata, oggi come non mai”. Padova. Podismo al carcere Due Palazzi a cura di Associazione Gruppo Operatori Carcerari Volontari Ristretti Orizzonti, 3 giugno 2024 Nella Casa di reclusione Due Palazzi l’attività sportiva del podismo, che si effettua ogni mercoledì nel “polo all’aperto”, cioè l’area verde del campo sportivo, ha preso avvio nel 2014 in seguito alla richiesta di una persona detenuta di poter usufruire del campo sportivo per più giorni alla settimana e in maniera più strutturata, anziché limitare l’attività sportiva alle sole due ore settimanali normalmente previste. Ci si è rivolti allora alle operatrici dello “Sportello della Salute”, che sostiene tutte quelle iniziative volte a promuovere il benessere psico-fisico in carcere. Le operatici hanno suggerito di avviare una raccolta firme tra i detenuti interessati all’iniziativa da presentare poi alla Direzione e, infine, ci sono state più di duecento adesioni. In attesa che lo Sportello della Salute trovasse un allenatore volontario per accedere al campo sportivo (ex art. 17 O.p.), la persona detenuta che aveva promosso l’iniziativa ha pensato di rivolgersi a Giorgio Rietti, un ex atleta e volontario dell’associazione OCV che segue abitualmente anche l’attività hobbistica di cucito e falegnameria nella sezione dell’Alta Sicurezza all’interno della Casa di Reclusione. Il direttore Claudio Mazzeo, quindi, ha concesso di poter frequentare il campo per quattro ore alla settimana a chiunque ne avesse fatto richiesta: un grande traguardo per tutti! Il funzionario giuridico-pedagogico (educatore) Stefano Rossi in questi anni è il responsabile delle attività sportive e svolge un importante lavoro come anello di congiunzione tra le richieste dei detenuti podisti e il direttore; inoltre segue anche il torneo di calcio della squadra Pallalpiede, così come altre manifestazioni sportive. Dal 2019 l’attività di podismo si svolge con regolarità ogni mercoledì dalle ore 15:00 alle ore 17:00 con l’allenatore Paolo Caporello, ma ci si può allenare nel campo sportivo anche in autonomia per un totale di sei ore settimanali. L’attività ludico-motoria è essenziale per sentirsi bene con sé stessi e con gli altri: si imparano nuovi esercizi, si scarica lo stress, si corre per migliorare la propria resistenza e condizione fisica ma anche per instaurare nuovi legami e creare occasioni d’incontro e solidarietà con altre persone. In questi momenti la mente è più libera. Tutto questo è possibile anche grazie alla disponibilità e all’esperienza di Paolo, persona davvero speciale, puntuale, che sa farsi rispettare e voler bene. A partire da settembre 2024 si riprenderà l’attività con l’aggiunta di altre due ore di allenamento al venerdì pomeriggio con la presenza di Cristiano Lago. Attualmente partecipa a questa attività una sessantina di persone detenute e tra esse c’è ancora M., la persona detenuta, che ha lottato e ha creduto in questa iniziativa. Durante il periodo delle restrizioni dovute al Covid-19, quando i volontari ex art. 17 non erano autorizzati ad entrare in carcere, M. si è occupato personalmente del proseguo degli allenamenti. Considerati i frutti di quest’allenamento costante, nel 2023, per uno dei podisti, Nicolae G., c’è stata la possibilità di partecipare alla mezza maratona di Padova, usufruendo di un permesso premio e sempre affiancato dall’instancabile Paolo Caporello. Nel 2024 si è ripresentata l’occasione per Zviadi A. e ci auguriamo che il prossimo anno possa partecipare ancora qualcun altro. Conquistare delle ore di libertà costa tanta fatica e bisogna saper ascoltare l’allenatore, imparare a superare le fatiche, acquisire una postura corretta per la corsa ed eseguire al meglio gli esercizi di riscaldamento. Chi ha partecipato alla maratona ha sempre detto che ne vale la pena: è un’esperienza irripetibile ed unica, ci si sente certo come un pesce fuor d’acqua in mezzo a migliaia di atleti di tutte le nazioni ma si percepisce un calore sportivo di positività, si è tutti felici come in una grande famiglia in cui tutti sono uniti da un obiettivo comune. Nel carcere chi svolge questa attività non si limita solo a correre, ma studia, lavora e partecipa a molteplici attività offerte dalla struttura in collaborazione con le varie associazioni, tra cui Ristretti Orizzonti, OCV e Pallalpiede. Il 5 giugno 2024 si svolgerà la prima corsa di competizione tra il gruppo sportivo dei sessanta aderenti all’attività di “Atletica Due Palazzi” e dei civili: è un emozionante risultato per i detenuti che con pazienza hanno portato avanti questa iniziativa, che è stata poi autorizzata dal direttore Claudio Mazzeo. Si corre lungo il perimetro del campo, ogni giro è di circa un chilometro e per questa prima edizione si faranno “solo” sei giri per agevolare anche gli ultra-settantenni che vi partecipano… che sono molto in gamba! Il gruppo di aderenti (formato da detenuti comuni e protetti insieme) indosserà la divisa sponsorizzata Decathlon con il motto stampato sulla maglia “Guardo avanti”, perché il carcere serve per andare oltre, anche se chi ha più anni da scontare deve fare un lavoro interiore maggiore. La corsa richiede molto equilibrio psico-fisico e capacità di conoscere sé stessi ma anche saper ascoltare chi ha molta più esperienza. Non è importante correre veloci ma gestire il fisico nella corsa a seconda della preparazione. In questa attività ludico-motoria non importa nemmeno quanto uno corre, ma quanto migliora nel tempo anche nel carattere personale. È un’attività semplice ma non adatta a chi non vuole mettersi alla prova e in discussione con sé stesso. È un progetto pensato soprattutto per chi ha una lunga pena da scontare, durante la quale mantenere la salute è un fattore importante anche per le attività rieducative, perché aiuta ad accedere gradualmente alla libertà con più equilibrio e consapevolezza. Perugia. Donne e carcere, la genitorialità dietro le sbarre al centro delle riflessioni dell’avvocatura perugiatoday.it, 3 giugno 2024 “Donne e carcere. La genitorialità dietro le sbarre” è il tema dell’evento organizzato dal Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Perugia, con il patrocinio della Camera Penale di Perugia “Fabio Dean” e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani, sezione Umbria. L’evento, in programma giovedì 6 giugno 2024 alle ore 15 presso la sede dell’Ordine degli avvocati (Palazzo Friggeri, piazza IV Novembre n° 36), prevede i saluti introduttivi dell’avvocato Francesca Pieri, coordinatrice commissione “Progetto Donna”, l’avvocato Francesca Brutti presidente Comitato pari opportunità presso l’Ordine degli avvocati di Perugia. Modera l’avvocato Ilario Taddei, coordinatore commissione “Tutela dei diritti umani e rapporti con istituti penitenziari”. Relatori la dottoressa Simona Materia dell’associazione Antigone sezione Umbria, l’avvocato Giuseppe Caforio garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, l’avvocato Martina Sorco, il professor Stefano Anastasia dell’Università degli Studi di Perugia. Interventi programmati dei responsabili delle cooperative BorgoRete Coop e Frontiera Lavoro che operano nel settore del reinserimento lavorativo dei detenuti. L’evento è accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Perugia con 4 crediti formativi, di cui 1 in ordinamento forense (materia obbligatoria); 2 in procedura penale; 1 in diritti umani. Gli avvocati dell’Ordine di Perugia potranno iscriversi tramite piattaforma Riconosco. Gli altri (avvocati e non) sono pregati di inviare una mail a cpo@ordineavvocati.perugia.it Iscrizioni in loco consentite, salva la disponibilità di posti. La partecipazione è gratuita. Brescia. Vivere dietro le sbarre, docu-web-serie dal carcere ansa.it, 3 giugno 2024 Da Nicola Zambelli 33 puntate da 1 minuto ciascuna su Instagram. Un viaggio tra le mura del carcere più sovraffollato d’Italia, il “Nerio Fischione” di Brescia (già Canton Mombello), dove un gruppo di detenuti si racconta in una web-serie documentaristica. Si intitola “11 Giorni: tra le mura del carcere”, il racconto-inchiesta, diretto da Nicola Zambelli, vincitrice del “Premio Sorriso Rai Cinema Festival” all’interno del XVII Festival Internazionale della Cinematografia Sociale Tulipani di Seta Nera, insieme ai premi per miglior fotografia e miglior montaggio. Il documentario è anche iscritto alla selezione premio “Globo d’Oro” condotto e ospitato dall’Associazione Stampa Estera in Italia e sarà proiettato anche alla Camera dei Deputati il 3 giugno. Trentatré puntate da un minuto ciascuna pubblicate su Instagram e in più una versione che le riunisce tutte: è la formula originale di questo documentario sul carcere di Brescia che offre uno sguardo profondo e autentico sulla quotidianità di chi vive dietro le sbarre. Un minuto, dunque, per 33 volte, tre episodi alla volta per 11 giorni, che nel mondo quotidiano scorrono inverosimilmente simili ognuno all’altro, veloci e semplici: lo spettatore viene coinvolto nella vita e nelle riflessioni di un gruppo di detenuti della casa circondariale. Ogni episodio, presentato in formato verticale 9:16 per la visione su cellulare, sfida il confine tra il carcere e la libertà. Attraverso un percorso di giustizia riparativa, i detenuti hanno raccontato le loro storie alla telecamera che guida lo spettatore all’interno del penitenziario. Durante incontri tematici proposti alle scuole superiori di secondo grado, il racconto video ha inoltre costruito un ponte tra il mondo dei detenuti e quello dei giovani, destinatari del progetto. Che è sostenuto anche da un’innovativa campagna attiva sui social network. I 33 episodi della serie, raccolti in un coinvolgente cortometraggio di mezz’ora conducono gli spettatori in un viaggio che va oltre il carcere di Brescia, esplorando le complessità e sfidando i pregiudizi. Il regista Nicola Zambelli è già autore di “Sarura: the future is an unknown place”, docufilm sulla comunità nonviolenta Youth Of Sumud in Palestina e di “What Makes Us Weaker, Makes Us Closer”, documentario girato tra le strade di Brescia al tempo di lockdown. Il documentario è distribuito dalla piattaforma Open DDB - distribuzioni dal basso e il progetto è una produzione InPrimis, SMK Factory e Associazione Carcere e Territorio (ACT), con la collaborazione del Comune di Brescia e il contributo di Cooperativa Bessimo e Doriana Galderisi, psicologa. Il tramonto dei maestri capaci di costruire il futuro di Vincenzo Trione Corriere della Sera, 3 giugno 2024 Nell’Università, come nella vita politica, ci muoviamo in un paesaggio per lo più abitato da “mezzeculture”. Mancano le grandi figure del passato che accendevano il fuoco della conoscenza. Avevano una vocazione: lasciare una impronta, una traccia, un segno negli studenti. Dar loro luce. Favorire la soggettivazione dei saperi. Qualcuno ci accuserà di nostalgia o di “retrotopia”. Ma è stato davvero formidabile il tempo lontano dei maestri, evocato da Luciano Fontana in una recente lectio brevis pronunciata all’Università di Roma. Ad esempio, chi ha frequentato la Facoltà di Lettere de La Sapienza negli anni settanta e ottanta ha assistito ai memorabili corsi di giganti come, tra gli altri, Argan, Brandi, Calvesi, Romanini, Romeo, De Felice, Sapegno, Asor Rosa, De Mauro, Sasso, Colletti e Garroni. Anche altrove si potevano vivere esperienze analoghe. Bastava entrare in tante aule universitarie, per incontrare grandi personalità di diversa provenienza culturale e ideologica. Autentici fari per intere generazioni, esperti in una specie di sport estremo: scalate le montagne, conducevano verso le vette più alte, consegnando da lassù una vista unica. Figure leggendarie e temute, che avevano i vizi (e le virtù) dei baroni. Capaci di accendere il fuoco della conoscenza, senza mai esaurirlo. Severe e rigorose, ma anche istrioniche. Scientificamente inattaccabili e, insieme, seduttive. Modelli ai quali ispirarsi: talvolta, per distanziarsene. Esempi verso cui tendere, non di rado portati a concepire il proprio lavoro come un esercizio, manifesto o nascosto, di potere. Dotati di un fascino intellettuale, psicologico, sociale e finanche fisico, quei carismatici professori avevano un’autorità dottrinaria, morale, istituzionale. Avvolti in una sorta di aura, potevano punire, escludere, promuovere o difendere. Ma, soprattutto, pur senza dichiararlo, addestravano a stare al mondo: e a interrogarlo. Erano studiosi abili nel far capire con le parole ma anche attraverso i gesti, i silenzi e le pause, inclini a pensare la propria disciplina non come un fine ma come un punto di partenza per possibili aperture e divagazioni: specchio su cui riflettere i motivi più vivi e inquieti della loro epoca; recipiente dentro cui gli allievi potevano riversare se stessi e le loro domande. Voci di un’Università ancora per pochi, quegli “antichi maestri” avevano una vocazione: lasciare una impronta, una traccia, un segno negli studenti. Fecondarli. Dar loro luce. Favorire la soggettivazione dei saperi. E suggerire piste possibili. Da queste intenzioni sono nate lezioni costruite come insostituibili momenti di scambio e di fiducia: attraverso giochi di interazione e di osmosi, il professore insegnava e, al tempo stesso, apprendeva dai giovani che lo ascoltavano. Erano occasioni fondate sulla reciprocità, come nelle dinamiche amorose. È quel che ha ricordato George Steiner: “Il maestro impara dal discepolo ed è modificato da questa interrelazione in quanto essa diventa, idealmente, un processo di scambio”. Forse, negli anni, è rimasto poco nella memoria di chi ha assistito a quei corsi: analisi, episodi e argomenti sono svaniti. È sopravvissuto l’essenziale, che non ha una consistenza, ma custodisce una verità. “Ciò che mi è rimasto non sono le nozioni che i miei professori preferiti mi hanno trasmesso, ma l’entusiasmo per l’apprendimento che sapevano ispirare”, ha sottolineato l’editorialista del New York Times Thomas L. Friedman. È ora? Addio aura. Con rare eccezioni. Nell’Università, come nella vita politica, ci muoviamo in un paesaggio per lo più abitato da “mezzeculture”, per dirla con Adorno. Da qualche anno è in atto il progressivo tramonto dei maestri. Che troppo spesso sono stati sostituiti da professori incapaci di combinare ricerca e didattica; costretti a svolgere la propria missione in maniera impiegatizia; condannati dall’attuale sistema a non dedicarsi a libri che richiedono tempo, dedizione, acquisizione di documenti, per pubblicare, invece, frettolosamente, su riviste senza circolazione, studi iperspecialistici, di breve respiro, piuttosto descrittivi, destinati all’irrilevanza, privi dell’ambizione a entrare nel dibattito pubblico e a “rimanere” (ci riferiamo soprattutto a coloro che operano nell’ambito delle humanities). È, questo, l’inevitabile e doloroso esito di un’università caratterizzata da una benefica democratizzazione ma anche afflitta da una perversa licealizzazione; stritolata da attività organizzative e gestionali, da “mediane” e da algoritmi; seppellita sotto le spoglie di una cultura tecnocratica, utilitaristica, notarile, volta a imprigionare in procedure standardizzate, programmate, omogenee. Eppure, nel nostro Paese, non mancano le sacche di resistenza: intelligenze, competenze. Manca, però, un ambiente che sappia riconoscere, allevare e valorizzare quei talenti. Forse, si potrebbe muovere proprio da questa consapevolezza. Non rassegnarsi alla prospettiva di atenei ripiegati su se stessi, portati a promuovere chi vi si è formato sin dalla laurea, occupati da “pubblicatori seriali” su riviste di fascia A e da ricercatori-burocrati, cresciuti secondo la logica della fedeltà. Per creare, invece, le condizioni affinché le Università possano di nuovo tornare a farsi “agorà” per nuovi maestri. Si tratta di figure necessarie. Soprattutto, oggi. In una fase storica come quella che stiamo attraversando - simile a un parallelogramma di forze - i giovani, in bilico tra disorientamento e indifferenza, sono in attesa di stelle polari, che educhino a porre domande scomode, a non accettare sintassi fatte di regole definite, a sottrarsi a caselle già fissate, a passare sopra le evidenze del reale, a cambiare la disposizione di parti di mondo, a immaginare un presente diverso. È, questa, un’urgenza di cui si era fatto interprete, nelle pagine del De magistro, Tommaso d’Aquino, secondo il quale il sapere, come la virtù, in potenza, esiste in ciascun uomo. Tuttavia, c’è bisogno di qualcuno che si comporti come una levatrice e che, insieme, si faccia fonte di trasmissione di conoscenze tra generazioni diverse. Ecco: senza maestri si spezza la catena che proietta il passato verso il futuro, la società di ieri verso quella di domani. Il Italia metà delle persone crede che le manifestazioni siano “solo una moda” di Chiara Putignano L’Espresso, 3 giugno 2024 I dati dell’ultimo barometro dell’odio di Amnesty mostrano come sempre più persone non credano nell’utilità delle proteste, mentre anche i Tg si concentrano su danni e disservizi e sempre meno sulle ragioni dei manifestanti. E online crescono i discorsi d’odio: movimenti e attivisti i più colpiti dall’hate speech. “Ecoteppisti”, “ragazzini”, “terroristi”. Quanti modi per banalizzare la disobbedienza civile. E la questione non è solo di distorsione semantica, ma anche della pericolosa trasformazione che un discorso, pubblico e privato che sia, può subire attraverso la narrazione che ne viene fatta. Al governo le piazze non piacciono. Lo ha messo in chiaro con il “decreto Rave party”, convertito in legge a fine dicembre 2022. Un primo tentativo di criminalizzare un certo tipo di raduni. Dal gennaio di quest’anno, a quelle già esistenti, si aggiungono pene per punire l’attivismo pacifico che prende come obiettivo beni culturali o paesaggistici. E nel frattempo, l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine è diventato il filo rosso di un’escalation repressiva, che ha caratterizzato gli ultimi mesi. Prima a Napoli, poi a Firenze, Bologna, Roma. Insomma, ovunque si esprima dissenso. Ma le motivazioni di chi scende in piazza non sembrano interessare i più. E sono sempre meno rappresentate dai media mainstream. Come riporta uno studio di Amnesty International in collaborazione con Ipsos, in 333 servizi andati in onda in prima serata nei Tg, e analizzati nel rapporto, la maggior parte delle volte il focus viene spostato “sui danni alle cose - anche se solo temporanei - o sui disagi per le persone, oppure sull’ordine e la sicurezza pubblica, senza approfondire i temi oggetto di rivendicazione”. Nel 68 per cento delle notizie analizzate non emerge alcuna valutazione editoriale, né positiva né negativa. E se ci sono, quasi in un servizio su tre, le considerazioni sono negative “e quasi sempre sui servizi sull’attivismo climatico”. Ma la lotta, oggi più che mai, non si fa solo scendendo per le strade della città. “Ogni tanto si sente dire che il vero attivismo è quello che si fa in piazza, che online è troppo facile. Alle persone che dicono che online è troppo facile - racconta Irene, attivista digitale per la giustizia di genere - vorrei far pagare le fatture della mia terapeuta o di quando prendevo gli psicofarmaci. Così poi facciamo una chiacchierata su quanto sia facile l’attivismo online. Perché ovviamente più pubblico hai, più è facile che ti arrivi odio. È proprio una questione statistica”. Una questione statistica dimostrata anche dai dati raccolti da Amnesty e Ipsos. In Italia, dal 2019 ad oggi, il tasso di discorsi offensivi, discriminatori o che incitano all’odio è passato dal 10 per cento al 15 per cento. Su cinque post di Facebook selezionati tra quelli che hanno generato più incitamento all’odio e alla discriminazione, quattro sono del vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini. Su 21.970 contenuti analizzati su Facebook, il 55 per cento è neutrale o positivo, il 28 negativo non problematico e il 15.4 per cento rientra nella casistica dei commenti problematici, ovvero offensivi e/o discriminatori. Di questi, il 3.4 per cento costituisce hate speech, quindi espressioni d’intolleranza rivolte contro minoranze e che mirano a incitare odio, pregiudizio e paura nei confronti di un gruppo o di un individuo. Se nei profili dei personaggi politici c’è un’incidenza media più alta di commenti problematici, in quelli del mondo dell’attivismo abbondano parole d’odio. Ma non sono gli unici a essere bersagliati. Immigrazione, diritti delle donne e diritti Lgbtqia+ infatti sono i temi più attaccati online. Anche il diritto alla protesta viene fortemente osteggiato: quattro contenuti su dieci sono problematici. Un lessico familiare anche a chi riveste ruoli istituzionali. “È necessario introdurre misure e sanzioni economiche - ha commentato il segretario del Siulp Felice Romano - unitamente a white e black list, per evitare che coloro che hanno scelto per professione di disturbare o organizzare manifestazioni di piazza al solo scopo di dare sfoggio alla propria violenza, possa continuare a farlo infischiandosene delle ragioni spesso nobili da cui scaturiscono tali manifestazioni”. Mentre Matteo Salvini minaccia “conseguenze per chi ha bloccato i treni a Bologna” e auspica “l’identificazione di tutti i partecipanti” alla manifestazione in difesa del popolo palestinese. Nel frattempo però la Questura della città ha già annunciato che nonostante “la grave condotta, penalmente rilevante, non ha sortito danni a persone e cose”. Mentre sono stati identificate già venti persone, di codici identificativi sulle uniformi delle forze dell’ordine però non se ne vuole parlare. E l’opinione pubblica offline cosa ne pensa? Il 59 per cento delle persone intervistate ha partecipato almeno una volta nella vita a una manifestazione di protesta. Una persona su cinque inoltre non è convinta del fatto che nel nostro paese chiunque debba avere diritto a manifestare. La maggior parte però (il 72 per cento) riconosce l’importanza di alcune proteste, perché capaci di portare cambiamenti importanti. Per quasi la metà dei rispondenti alcune persone parteciperebbero alle manifestazioni perché si tratta di una moda, un atteggiamento e un passatempo. Rispetto all’accettabilità delle varie forme di protesta le meno apprezzate sono il blocco stradale e l’occupazione. La repressione però non è solo dall’alto. Anche per il 77 per cento degli intervistati le azioni di protesta che colpiscono simboli di interesse pubblico - pur non arrecando danni permanenti - andrebbero represse. “La protesta - racconta Pasquale, attivista della task force Hate speech di Amnesty - viene considerata come atto violento: c’è la percezione diffusa che protestare sia l’occasione per fare confusione, per danneggiare cose o persone. Non viene percepita come uno strumento che è utile per il cambiamento e quindi per il miglioramento”. Povertà educativa, un giovane su cinque in Italia lascia la scuola prima della maturità di Rosaria Amato La Repubblica, 3 giugno 2024 Il dato è emerso al Festival Internazionale dell’Economia, in un incontro con Chiara Saraceno, Andrea Morniroli e Marco Rossi-Doria. Ci sono i giovani talenti che lasciano l’Italia perché all’estero trovano migliori opportunità, come ha affermato nelle “Considerazioni finali” il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta. Ma ci sono anche i giovani che non vanno da nessuna parte, perché sono talmente sfiduciati da non cercare un lavoro neanche sotto casa. L’Italia ha il triste primato dei Neet in Europa: i giovani che non studiano e non lavorano sono oltre due milioni. Ma se qualcuno si volesse chiedere come e perché si arriva a diventare Neet, dovrebbe andare un po’ a scavare nelle storie di questi giovani “bloccati”, e troverebbe che in buona parte la loro incapacità di inserimento è dovuta a un basso livello di competenze. “Se sommano i dati del 2021 degli Elet (early leaving from education and training) e quelli sulla dispersione implicita (gli studenti che terminano gli studi senza aver acquisito le competenze necessarie) - ha spiegato ieri al Festival Internazionale dell’Economia la sociologa Chiara Saraceno - emerge che oltre il 20% dei giovani della fascia di età 18-24 anni ha lasciato la scuola prima di effettuare l’esame di Stato, oppure l’ha terminata senza acquisire competenze di base minime”. E dunque, un quinto degli adolescenti passa all’età adulta “senza avere le competenze necessarie non solo per avere un lavoro qualificato, ma per muoversi adeguatamente nel mondo”. Si chiama povertà educativa, una condizione che riguarda i bambini e gli adolescenti che si vedono negato il loro diritto ad apprendere, formarsi, sviluppare capacità e competenze, coltivare le proprie aspirazioni. Una negazione che può dipendere, innanzitutto, dalle condizioni economiche della famiglia: “La povertà educativa è una questione di classe. - denuncia Andrea Morniroli, esperto in politiche di welfare e co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità - che andrebbe affrontata con adeguate risorse. Invece da noi, sulla base di un algoritmo, che prevede la riduzione della popolazione scolastica, le risorse diminuiscono: ultimamente ogni anno vengono stanziati due miliardi in meno. In Francia invece queste risorse vengono reinvestite nella scuola”. La povertà economica gioca il suo ruolo: in Italia, ha certificato l’ultimo Rapporto Istat, l’incidenza tra i minori di 18 anni si osserva l’incidenza più elevata di povertà assoluta: il 14% di bambini, bambine e adolescenti sono poveri, 1 minore su 7, è il dato più alto dal 2014. Se invece si usa l’indice di Eurostat, il 13,5% dei bambini e ragazzi con meno di 16 anni risulta in condizione di deprivazione materiale e sociale specifica. Più in dettaglio, il 4,9% dei minori di 16 anni vive in una famiglia che ha sperimentato difficoltà economiche tali da impedire l’acquisto del cibo necessario; la quota sale al 7,0% nel Mezzogiorno. Inoltre, il 2,5% dei minori di 16 anni non consuma almeno un pasto proteico al giorno perché la famiglia non può permetterselo. Sicuramente la povertà educativa è strettamente correlata a quella economica, ma non si tratta solo di questo: “Conta ovviamente la condizione familiare, in termini economici - rileva Saraceno - ma anche di livello di istruzione dei genitori, di disponibilità di spazi e strumenti per studiare, di beni culturali come libri, strumenti musicali, o altro”. Anche i dati Istat sulla lettura rilevano come la quantità di libri letti dai bambini sia direttamente correlata al numero di quelli che ci sono in casa, e al titolo di studio dei genitori. Ma è qui che entra in campo il ruolo della scuola: “Contano anche le condizioni di contesto: - conferma la sociologa - la disponibilità e quantià dei servizi educativi e scolastici fin dalla prima infanzia, dei servizi sociali, sociosanitari, sportivi, ricreativi, culturali, che costituiscono la rete di supporto alla crescita e che, quando assenti, determinano quella scarsità di stimolazioni e di risorse che impatta negativamente sulla formazione delle capacità sociali, cognitive, emotive delle persone di minore età”. Un recente studio della Banca d’Italia dimostra che i ragazzi che frequentano classi a tempo pieno hanno migliori risultati per esempio nei testi di matematica, nell’ordine di oltre il 4% rispetto ai loro coetanei che rimangono a scuola solo fino all’ora di pranzo. Ma il tempo pieno è meno diffuso nel Mezzogiorno, e in genere là dove servirebbe di più. “L’errore è fare quello che Don Milani diceva di non fare - osserva Marco Rossi-Doria, che è stato anche sottosegretario all’Istruzione - e cioè dare a tutti la stesssa cosa”. Fino a ignorare le emergenze più gravi: “L’anno scorso sono stati bocciati 76 mila ragazzi tra terza media e primo biennio delle superiori, dunque scuola dell’obbligo, per il numero elevato di assenze. Settantaseimila, un numero che corrisponde a una media città italiana”. Il Pnrr avrebbe potuto aiutare, ma i fondi, osserva Rossi-Doria, “sono arrivati alle scuole con dei vincoli di spesa, non potevano spenderli per quello che veramente serviva: così non servono a niente”. La questione è che i bambini in difficoltà diventano i giovani in difficoltà. Eppure, in un mercato del lavoro sempre più asfittico, qualficare i lavoratori del futuro è anche una questione rilevante per la crescita, oltre che di giustizia sociale. Migranti. Cpr in Albania: doveva essere pronto prima delle elezioni, ma i cantieri sono fermi di Bianca Senatore L’Espresso, 3 giugno 2024 Il piano della premier era aprire il centro di permanenza per i rimpatri come mossa da campagna elettorale. Ma al momento non c’è nessun lavoro. E nell’ex aeroporto, off limits, pascolano le capre. “Largohu. Mos bëni foto”. L’uomo con la casacca gialla urla verso di noi appena mettiamo piede sul bordo del cantiere albanese del nuovo Cpr italiano, il Centro di permanenza per i rimpatri, in costruzione. Nella sua lingua con fare minaccioso dice di andare via e di non fare foto, perché i lavori sono top secret e nessuno ha il permesso di entrare. Ma basta spostarsi qualche metro più in là dal cancello per osservare che nell’immensa ex base militare dei tempi di Enver Oxha non c’è ancora nemmeno un mattone in piedi. A Gjader, piccolo villaggio a pochi km dalla città di Lezha, sembra che i lavori vadano a rilento e infatti nel cantiere ci sono solo due escavatori che spostano terriccio e un basamento di cemento che delinea un quadrato. “Questo è quello che si scorge da questo ingresso - spiega Elidon, un giornalista locale - ma il resto della zona è lontana, perché l’area si estende verso l’ex pista di atterraggio per i velivoli militari”. Seguendo la strada si arriva, effettivamente, all’ingresso principale di quello che fu un aeroporto e una coppia di militari sbarra la strada. Non si vede niente dell’interno ma Elidon prontamente mostra le immagini girate il giorno prima con il suo drone. “Non c’è niente, non si vede nessuna costruzione”, spiega. Secondo i piani di Giorgia Meloni, il centro avrebbe dovuto già essere aperto, giusto in tempo per le ultime battute di campagna elettorale per elezioni europee. Ma le cose stanno andando molto più a rilento di quello che si potesse immaginare e secondo le fonti albanesi i centri, sia quello di Gjader sia quello di Shengjin, non saranno pronti nemmeno per novembre, forse per i primi mesi del 2025. Da Gjader riprendiamo la strada e torniamo verso Lezha per poi girare verso il mare. Al porto di Shengjin nessun giornalista ha il permesso di entrare e le foto sono vietate anche dalla strada. Bisogna salire in alto sulle colline per avere una visuale completa della banchina dove sorgeranno delle costruzioni provvisorie per la prima accoglienza dei migranti e la loro registrazione. Anche al porto, però, sembra che i lavori siano molto indietro. Ci sono dei container stipati su un lato ma al centro non c’è ancora nessun tipo di struttura. Eppure, sarà proprio lì che le motovedette della guardia costiera italiana e della Guardia di finanza dovranno attraccare per far scendere i naufraghi salvati nel Mediterraneo centrale. Dal porto, con navette e bus, i migranti saranno trasportati nel centro di Djader, attraversando 20 km di strade che normalmente sono trafficate e che d’estate diventano uno spaventoso lungo ingorgo. “Sarà un disastro”, dice qualcuno. “Ma chi se ne importa”, dice qualcun altro. Per ora nessuno sta prendendo sul serio la questione Cpr italiani su suolo albanese. Nessuno ha ancora visto una struttura in piedi e tra propaganda del governo e notizie confuse in pochi hanno davvero capito che cosa succederà. O almeno questo è quello che i media vicino al governo di Edi Rama vogliono far pensare. “La gente di Gjader, di Lezha e di Shengjin è favorevole all’accordo con l’Italia - spiega ancora Elidon - perché pensa che in questo modo gli italiani sistemeranno la rete idrica, che in alcune zone non c’è affatto, e la rete elettrica, che è rovinata. Sono felici perché gli italiani aggiusteranno le strade e porteranno vita nei villaggi di Gjader e Kakariq dove non c’è più nessuno”. Alcuni, alla domanda sul centro di rimpatrio, che sarà un vero e proprio carcere, dicono che non importa, perché se anche i migranti dovessero scappare, è un problema degli italiani. “Tanto pagano tutto loro…”. Chiacchierando al bar, qualcuno ascolta la conversazione e dice che Rama ha fatto bene a fare l’accordo con l’Italia, perché Giorgia Meloni ha promesso in cambio uno sponsor per far entrare l’Albania in Europa. Qui, in questa zona a poco meno di due ore da Tirana quasi al confine con il Montenegro, parlano tutti almeno un po’ di italiano e il 98% della popolazione ha un parente che vive e lavora tra Palermo e Trento. Tutti d’accordo, dunque, tutti favorevoli, nessun problema…anzi. Basta poco, però, per capire che dietro queste dichiarazioni c’è qualcosa di più che una convinzione. “Non importa a nessuno dei diritti umani, questo accordo serve come disincentivo”, dice una delle fonti. “È come il Ruanda per il Regno Unito. Se gli africani sanno che verranno portati in Albania, ci penseranno due volte prima di partire”. La frase sembra già sentita, perché già qualcun altro l’ha ripetuta almeno un paio di volte durante il soggiorno in Albania. E l’intera narrazione comincia ad appare come uno slogan pro-Cpr e pro-Rama. “È tutta una bugia”. A cambiare la visione sul trattato Italia-Albania ci pensa Alberto, albanese di 52 anni che per 30 ha lavorato tra Italia e Gran Bretagna e che abita proprio a meno di 100 metri dal cantiere del Cpr di Gjader. In macchina ripercorriamo la stradina per arrivare all’ex base militare, perché Alberto ci porta a casa sua, lì dove ha appena finito di costruire un nuovo grande edificio. “Ci ho messo metà della mia vita di sacrificio per farla e adesso stanno rovinando l’intera zona”. Se costruiranno davvero anche il muro perimetrale alto 7 metri, sarà a solo 50 metri dalla sua villa e gli oscurerà l’intera visuale. “Qui sono tutte case nuove e vuote - spiega Alberto - perché i proprietari vivono all’estero e le hanno realizzate per poterci tornare con la famiglia in estate o per i figli che studiano ancora. Nessuno del governo ci ha chiesto un parere e forse hanno approfittato proprio del fatto che qui sono rimasti solo i vecchi. Chi vuoi che protesti? Li hanno riempiti di bugie e propaganda. Se in 50 anni il nostro governo non ci ha fatto arrivare l’acqua - dice ancora - dobbiamo aspettare un contratto così assurdo per farcela portare dagli italiani?”. Alberto e sua moglie sono preoccupati, non tanto per la sicurezza, quanto per il fatto che saranno a pochi metri da un carcere. E che la zona da bucolica e tranquilla, si trasformerà in un inferno di traffico, caos e disperazione. A non essere d’accordo con l’operazione del governo, in realtà, sono in tanti, anche se molti hanno paura di esprimere il proprio dissenso apertamente. Non ha nessun timore, invece, Ndre Molla, uno degli avvocati che lo scorso dicembre ha contribuito alla stesura della documentazione per la Corte costituzionale. I giudici, a sorpresa, avevano sospeso l’accordo siglato tra Albania e Italia proprio alla vigilia di un Consiglio europeo. “Il contratto è anticostituzionale e viola la sovranità del territorio albanese”, spiega l’avvocato Molla. “Ma Edi Rama controlla tutti in questo Paese, anche i giudici. E così, dopo neanche un mese, si sono rimangiati il parere contrario. Questo centro è contro tutti gli interessi dell’Albania”, dice ancora l’avvocato. Nel suo ufficio nel centro di Lezha, Nndre Molla spiega che nessuno è contro gli i migranti, ma l’Albania non può diventare un parcheggio per esseri umani, nemmeno se lo chiede l’Italia. “Il timore è che se questo progetto dovesse funzionare e se le elezioni europee andassero in un certo modo, anche altri Paesi potranno pensare di aprire i loro Cpr in Albania”, ammette Molla. Il pensiero va a Ursula von der Leyen, che ha elogiato l’idea dei Cpr in Albania di Meloni definendola “un ottimo pensiero fuori dagli schemi”. E poi ci sarebbe anche un altro problema. L’Albania è uno dei Paesi che i migranti attraversano lungo la rotta balcanica e un centro pieno di uomini sarebbe sicuramente una calamita per i trafficanti. In auto, con i taxi, con i bus, a piedi. Basterebbe poco per attivare un business per portare i migranti dall’Albania verso Montenegro e poi Bosnia e poi Croazia. Non sarebbe la prima volta. Contraria fin dal primo momento al progetto è anche Lindita Metaliaj, parlamentare del partito democratico d’Albania, che è a destra e all’opposizione rispetto al partito di Edi Rama. “Il protocollo non è compatibile con la nostra Costituzione - spiega Metaliaj - È indegno diventare un magazzino di rifugiati, non è giusto per noi albanesi e nemmeno per i diritti di questa povera gente”. Non appena il Cpr prenderà forma, qualcuno inizierà a protestare davvero, dicono. Per ora nel cantiere continuano a pascolare placide solo le capre. Haiti. I bambini ormai fanno parte delle bande armate di Carlo Ciavoni La Repubblica, 3 giugno 2024 Costretti con la violenza ma anche per portare i soldi a casa: poi muoiono come soldati in una guerra assurda. Che la violenza genera e moltiplica altra violenza è tanto più vero oggi ad Haiti, in quella metà dell’isola caraibica condivisa con la Repubblica Domenicana, dove sembra che il destino (?) non faccia che procurare dolore, povertà estrema endemica, disastri d’ogni sorta. L’Unicef diffonde note informative periodiche sulla situazione generale, ma oggi una è focalizzata sui bambini che - si legge - li vede spinti, anzi costretti, ad entrare nei gruppi armati, che dalla fine di febbraio controllano di fatto l’80% del Paese ed hanno scatenato una nuova ondata di nefandezze spietate che coinvolgono la popolazione civile. Gli ospedali sono distrutti o chiusi per assenza di personale e le scuole non funzionano ormai da mesi. La stima - solo approssimativa - delle giovanissime vittime è di 2.500; è invece di circa 180mila il numero dei ragazzini sfollati, costretti a scappare da qualche parte, lontano dalle loro famiglie. I numeri diffusi sulla situazione dei bambini haitiani. 1) Il 90% della popolazione haitiana vive in povertà e tre milioni di bambini hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria. 2) Le ultime stime mostrano che più di mezzo milione di minori vive in quartieri controllati da gruppi armati. 3) Finora, nel 2024, la violenza si è intensificata, con oltre 2.500 persone uccise, ferite o rapite. Le Nazioni Unite hanno verificato centinaia e centinaia di gravi violazioni contro i bambini. 4) A causa della violenza, più di 180.000 minori sono attualmente sfollati all’interno del Paese. Le bande armate sono formate per la metà da ragazzini. Mentre si continua a seminare terrore in tutto il Paese, le Nazioni Unite hanno stimato che dal 30% al 50% dei membri dei gruppi armati sono minorenni, soggetti a coercizione, abusi e sfruttamento a causa della persistente fragilità sociale, economica e politica causata dalla violenza in corso che ha portato alcune parti del Paese nel caos. La povertà estrema radicata nella società. Il 90% della popolazione haitiana vive in povertà e tre milioni di bambini hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria. Nel frattempo, anni di turbolenze politiche, insieme alle devastanti condizioni economiche, hanno portato alla proliferazione di gruppi armati ai quali, in mancanza di altri mezzi di sopravvivenza o di protezione, molti bambini del Paese sono sempre più spesso costretti ad aderire. Il circolo vizioso. “I bambini di Haiti - dice la direttrice generale dell’UNICEF, Catherine Russell - sono bloccati in un circolo vizioso di sofferenza. Vengono spinti a unirsi ai gruppi armati per pura disperazione, a causa di violenze orribili, irraccontabili, per il nulla assoluto di cui dispongono, rispetto al cibo, all’istruzione, alla stessa idea di futuro. E di fronte a questo c’è il crollo dei sistemi che invece dovrebbero proteggerli. I compiti che vengono loro assegnati. “I bambini - prosegue la testimonianza della Russell - vengono utilizzati dai gruppi armati per diversi compiti, come cuochi, addetti alle pulizie, ‘mogli’ o vedette. Ma ciò che accomuna questi bambini è la perdita dell’innocenza e del legame con le loro comunità. L’impatto su ogni bambino colpito è una tragedia capace di lasciare tracce terribili e indelebili e che per questo richiede un’azione urgente. La loro protezione e il loro benessere devono essere considerati prioritari - ha sottolineato Catherine Russell - anche per porre fine in modo sicuro al legame con i gruppi armati, garantire il loro reintegro nella società e facilitare l’accesso sicuro ai servizi e al sostegno essenziali”. Molti entrano nelle bande per portare i soldi a casa. Le ultime stime mostrano che più di mezzo milione di bambini ad Haiti vive in quartieri controllati da gruppi armati, il che li espone a un rischio maggiore di violenza e reclutamento di bambini. Sono spesso costretti a unirsi ai gruppi armati per sostenere le loro famiglie o perché subiscono minacce contro loro stessi o loro genitori. L’accordo con i ministeri haitiani. L’Unicef e i Ministeri della Giustizia, dell’Istruzione, del Lavoro e degli Affari sociali di Haiti - la cui capacità di incidere concretamente sulla società, così come è ridotta oggi è gravemente compromessa -hanno recentemente concordato iniziative congiunte per sostenere il reinserimento dei bambini usciti dalla spirale violenta delle bande.