Forza Italia rompe il fronte del no al ddl Giachetti di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 giugno 2024 Sovraffollamento carceri. Nessuno crede più a Nordio. Rimane solo la “liberazione anticipata speciale”. Sulla proposta di “liberazione anticipata speciale” del deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, la maggioranza di governo si spacca. Le ripetute promesse di un immediato provvedimento ministeriale che alleggerisca l’insostenibile sovraffollamento carcerario schizzato di nuovo a livelli da condanna europea - l’ultima ieri da parte del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che ha assicurato un decreto “entro fine luglio”, facendo slittare ulteriormente la data dei sogni - sono così poco credibili ormai che neppure Forza Italia si presta più al gioco. Il decreto “ghost” di Nordio, lo chiama Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Penitenziaria; e probabilmente la sua “netta sensazione che il testo sia ancora tutto da scrivere” è solo perspicacia. Fatto sta che, arrivati a più di 14.500 detenuti oltre i posti regolamentari, a 48 reclusi e 4 agenti suicidatisi dall’inizio dell’anno, finalmente si apre un varco anche nella maggioranza: il deputato azzurro Pietro Pittalis, vice presidente della commissione Giustizia, intervistato da Repubblica ha annunciato il sì di Forza Italia all’unica proposta di legge sul piatto da tempo - e da tempo bistrattata e boicottata da Fd’I, dal ministro Nordio e anche dal M5S - che dovrebbe arrivare in Aula alla Camera il 17 luglio, ma senza relatore. La pdl Giachetti-Bernardini prevede di aumentare i giorni di liberazione anticipata da 45 a 60 (in alcuni casi 75) per buona condotta. “Non possiamo più stare a guardare perché servono risposte immediate”, ha spiegato Pittalis. Mentre la svolta del suo partito è stata accolta “con grande soddisfazione” dal capogruppo di Iv alla Camera, Davide Faraone: “Ora auspichiamo - incalza il deputato - che anche gli altri partiti della maggioranza e soprattutto il ministro Nordio seguano l’esempio dei loro alleati di governo”. Ostellari però ha ribadito ancora ieri che il decreto a cui starebbe “lavorando” il Guardasigilli non prevede sconti di pena e si limiterebbe a istituire un albo delle comunità di accoglienza per i detenuti che non hanno un luogo dove poter scontare i domiciliari. Passerebbe invece per il parlamento la norma caldeggiata da Lega e Fd’I per velocizzare l’applicazione dell’attuale sconto di pena devolvendo ai direttori di carcere la decisione che attualmente è in mano ai magistrati di sorveglianza. Carceri, il decreto entro fine luglio. Ostellari: “Puntiamo a velocizzare lo sconto di pena” di Francesco Grignetti La Stampa, 30 giugno 2024 Il sottosegretario alla Giustizia: “Stiamo anche lavorando a un aumento del numero di telefonate che i detenuti possono fare ai famigliari, superiore a quello odierno di quattro”. “Il decreto carceri dovrebbe uscire entro fine luglio. Vogliamo velocizzare il procedimento attuale per lo sconto di pena e stilare un elenco nazionale di comunità, esterne che possano garantire un domicilio ai detenuti che non lo hanno per svolgere un periodo di formazione e reinserimento sociale”. Lo ha dichiarato il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari. Ecco cosa prevede - Il decreto non prevede alcun aumento degli sconti di pena previsti per legge (45 giorni ogni 6 mesi per buona condotta), ma un’inversione delle procedure: si dovrà accelerare la liberazione anticipata e liberare spazi nelle celle. A decidere sullo sconto sarà il pm competente per l’esecuzione della pena. Si punta poi a liberare i tribunali dalla valanga di richieste di scarcerazione anticipata che finiscono per affastellarsi negli armadi e rinviare a data da destinarsi l’effettiva liberazione del detenuto che ha diritto allo sconto di pena. Sarà poi istituito un registro nazionale delle “coop”. Sono circa settemila i detenuti a un passo dalla liberazione e nelle condizioni di accedere a pene alternative, numeri che per lo Stato sono un salasso: si stimano in media centocinquanta euro a persona, ogni giorno, per garantire cibo, vestiti e servizi essenziali a uomini e donne negli istituti penitenziari. Nel decreto entreranno disposizioni per accelerare la costruzione di nuovi istituti detentivi. Le reazioni - “Accogliamo con grande soddisfazione la decisione di Forza Italia di dare il proprio appoggio alla proposta di Roberto Giachetti e Rita Bernardini per affrontare il dramma del sovraffollamento nelle carceri italiane”, ha commentato Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva alla Camera. “Davanti alle condizioni disumane in sono costretti a vivere i detenuti italiani, ai 48 suicidi dall’inizio dell’anno, alle enormi difficoltà di tutto il sistema, Forza Italia ha dimostrato coraggio e spirito d’iniziativa. Ora auspichiamo che anche gli altri partiti della maggioranza e soprattutto il ministro Nordio seguano l’esempio dei loro alleati di governo”, conclude. Ddl Sicurezza: una dichiarazione di guerra ai diritti e alle libertà di Alessio Scandurra* L’Unità, 30 giugno 2024 Secondo l’Osce le norme del disegno di legge potrebbero minare i principi fondamentali del diritto penale e del nostro stato di diritto. Eppure la maggioranza ha respinto in blocco tutti gli emendamenti delle opposizioni. La maggior parte delle disposizioni del Disegno di Legge n° 1660, il cosiddetto ddl sicurezza, potrebbero minare i principi fondamentali del diritto penale e dello Stato di diritto del nostro paese. Questo, né più e né meno, è il giudizio senza sconti che l’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) mette nero su bianco nel parere sul ddl sicurezza pubblicato a fine maggio sul suo sito. L’OSCE è un’organizzazione internazionale, di cui l’Italia è parte dalla sua fondazione, nel 1973, e di cui fanno parte altri 57 paesi in Europa, che si occupa di sicurezza e di cooperazione e che ha tra le sue finalità il sostegno ai diritti umani e allo stato di diritto nei sistemi giuridici nazionali. L’OSCE, e in particolare il suo Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR), esamina progetti di legge per valutare la loro conformità agli standard internazionali in materia di diritti umani e agli impegni che i paesi membri hanno assunto. Ed il parere che l’OSCE ha espresso, come dicevamo, è decisamente negativo. Ma nonostante questo, e nonostante le numerosissime critiche che il disegno di legge ha ricevuto, l’altro ieri la maggioranza ha respinto in blocco tutti gli emendamenti delle opposizioni. Anche Antigone, ASGI ed Amnesty International, in una conferenza stampa tenutasi alla camera il 21 giugno, avevano espresso la loro profonda preoccupazione per il Disegno di Legge n. 1660 che, affrontando una gamma molto ampia di temi, si pone in contrasto frontale con i principi costituzionali italiani e i diritti umani esprimendo una logica repressiva, securitaria e disumanizzante, che strumentalizza le paure dei cittadini, in un paese in cui la criminalità è in calo da ormai molti anni, per introdurre meccanismi repressivi spesso vaghi ed arbitrari. Come con l’articolo 7, che amplia la possibilità di revoca della cittadinanza fino a 10 anni dalla commissione di un reato, l’ennesima misura xenofoba che fa discendere da una condanna penale una vendetta ulteriore e discriminatoria solo per chi non è di origine italiana. O l’articolo 8, che introduce il reato di “occupazione arbitraria di immobile”, e rappresenta una ulteriore criminalizzazione del disagio abitativo ed uno strumento di intervento arbitrario, con garanzie giurisdizionali limitate, in un paese come il nostro in cui l’occupazione abusiva riguarda decine di migliaia di persone ed è spesso l’unica alternativa a politiche abitative inesistenti. O l’articolo 11, che inasprisce le pene per il blocco stradale, un vero e proprio attacco al dissenso, in particolare a quello degli eco-attivisti, e dunque l’ennesimo colpo contro i giovani, diventati ormai il principale nemico pubblico di questo paese sempre più anziano. La lista potrebbe andare avanti a lungo ma non posso non soffermarmi almeno sull’articolo 12, che elimina il rinvio obbligatorio della pena detentiva per donne incinte o le madri di bambini fino a un anno, norma propagandistica e discriminatoria, pensata chiaramente per colpire qualche decina di mamme Rom. O infine sugli articoli 18 e 25, che introducono il reato di rivolta penitenziaria, liberticidi e che rappresentano un passo verso uno stato di polizia, in cui per la prima volta si punisce anche la resistenza passiva, con pene peraltro molto severe e da eseguire con modalità analoghe a quelle che si usano per i mafiosi. Ma, oltre al contenuto più o meno esplicito dei singoli articoli, è anche la modalità della loro formulazione a preoccupare. In particolare ad esempio l’OSCE afferma che “alcuni dei nuovi reati sono formulati in termini generici e vaghi, non sono specificati gli aspetti costitutivi delle fattispecie penali e ciò lascia spazio a potenziali interpretazioni e applicazioni arbitrarie”. Questo d’altronde è appunto il modo in cui si legifera nei regimi autoritari, mettendo a disposizione degli apparati di sicurezza strumenti il più possibile discrezionali. E proprio questo denuncia l’OSCE, che vede nei contenuti e nella formulazione del ddl “il rischio di scoraggiare l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte degli individui”. *Antigone Cosa rischia chi protesta con la “norma anti-Gandhi” di Chiara Putignano L’Espresso, 30 giugno 2024 La norma approvata da due Commissioni prevede fino a due anni di carcere per chi blocca il traffico. E gli emendamenti della maggioranza potrebbero persino peggiorare le cose. Associazioni e opposizioni in allarme: “Si rischia di creare un effetto deterrente sull’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone”. Il corpo è politico? Per la Destra è criminale. Da mesi bersaglio del governo, le proteste non violente degli eco-attivisti rischiano di essere punite con il carcere. Giovedì c’è stato l’ok delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera ai primi 11 emendamenti del “pacchetto sicurezza”. L’ultimo, l’undicesimo, la cosiddetta “norma anti-Gandhi”, che punisce con la sanzione carceraria da sei mesi a due anni, senza l’alternativa della pena pecuniaria, chi “impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata ostruendo la stessa con il proprio corpo, se il fatto è commesso da più persone”. Respinti tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione che denuncia una “deriva illiberale”. Nell’articolo in questione, oltre alle punizioni collettive, viene specificato anche che se il blocco viene messo in atto da una persona sola, la pena comporterà reclusione fino a un mese o multa fino a trecento euro. “Siamo di fronte al forte pericolo di modifiche peggiorative a un quadro legislativo già critico dal punto di vista dei diritti umani - commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia -. Diversi emendamenti presentati da esponenti della maggioranza, se approvati, restringerebbero ulteriormente gli spazi di protesta pacifica e criminalizzerebbero coloro che protestano”. Dopo una riformulazione sarà approvato anche l’emendamento proposto dal deputato leghista Igor Iezzi, che chiede di innalzare le pene per chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro le grandi opere infrastrutturali, come il Tav Torino-Lione o il ponte sullo Stretto. La proposta di Iezzi punta a introdurre una serie di circostanze aggravanti dei reati di resistenza, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o a un corpo dello Stato. E quindi, chi manifesta in gruppo contro un’opera pubblica - se viene considerato “minaccioso o violento” - potrebbe rischiare fino a venti anni di carcere. Questa è “una norma pericolosa perché criminalizza il dissenso. È una norma pensata specificatamente contro un target: i giovani eco-attivisti. E, in questo senso, ancora più pericolosa. Perché in realtà in tutte le forme di protesta, che di solito vengono dalle minoranze, in una democrazia solida, compiuta e matura, dovrebbero essere protette. Perché sono l’essenza della democrazia”, commenta a L’Espresso il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella. “Diverse disposizioni rischiano di creare un effetto deterrente sull’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone”, aggiunge Noury. “In quanto non rispetterebbero adeguatamente il principio di proporzionalità delle sanzioni penali, in particolare nei possibili casi di blocco del traffico, di violenza contro i pubblici ufficiali o di occupazione di immobili. Altri esempi sono il possibile ampliamento in sede interpretativa del Daspo urbano o quello di configurare il reato di violenza privata nel caso in cui una o più persone impediscano, anche solo con la resistenza passiva, l’entrata o l’uscita da uno spazio aziendale a chi intenda passare. Non costituirebbe esimente o scriminante - conclude - neanche il fatto che il comportamento fosse tenuto per sostenere un’azione di sciopero”. A differenza dei trattori o dei tassisti, le dimostrazioni non violente di chi sposa la causa dell’attivismo ambientale danno fastidio al governo. E “se il traffico si blocca e si tratta di un trattore - prosegue Gonnella - allora in questo caso l’illecito penale non si andrebbe a configurare, ma con il corpo sì”. Già nel 2018 Matteo Salvini aveva provato a punire gli eco-attivisti, disponendo sanzioni con il decreto sicurezza emanato quell’anno. Resuscitando un reato che però era stato depenalizzato quasi vent’anni prima. E ora, con il nuovo ddl si sta “facendo diventare illecito penale ciò che era illecito amministrativo. Neanche ai tempi del codice Rocco del 1931 si era arrivati a tanto. Siamo molto preoccupati di questa deriva illiberale”. Deriva che approderà in aula a fine luglio. Devianza minorile. “Famiglia e scuola prima della giustizia. Norme innovative possono aiutarci” di Alice D’Este Corriere del Veneto, 30 giugno 2024 “Innanzitutto bisogna fare una premessa, rispetto ai fenomeni di disagio giovanile va chiarito che prima di tutto bisogna intervenire sulla prevenzione. E con prevenzione intendo: affetto, educazione, socializzazione, scolarizzazione. I primi interlocutori di fronte a questo problema sono dunque la famiglia, la scuola, le realtà istituzionali e sociali, la Giustizia interviene dopo”. Il presidente del Tribunale dei minori di Venezia, Lanfranco Maria Tenaglia non ha dubbi: “Bisogna agire prima”, spiega. Cosa intende? “Le azioni efficaci che possono realmente dare una scossa al fenomeno devono essere in grado di prevenirlo. Noi, agiamo in un secondo momento. La giustizia non interviene per reprimere, come spesso viene percepito. Ha piuttosto la funzione di aiutare a recuperare di fronte all’errore, di creare le condizioni per un reinserimento pieno nella società. Cito sempre un religioso dell’istituto penale Beccaria di Milano che ricordava la necessità di far vedere ai giovani la giustizia come un’opportunità, come il trampolino per riacquistare la libertà, come una virata un cambiamento, un nuovo percorso”. La situazione è realmente peggiorata? “Diciamo che è mutata. Il numero di reati commessi dai minori negli ultimi anni è stabile. Sono però aumentati i reati contro la persona come ad esempio le estorsioni, che sono quasi sempre messe in atto proprio dalle baby gang. Gli indici numerici non sono poi granché variati. Siamo passati da 2.348 nel 2018 a 2.302 nel 2023 in Italia. Praticamente identici. È abbastanza rilevante, tuttavia, che sia cambiata la tipologia dei reati in direzione proprio di reati contro la persona e, diciamo così, fatti in gruppo”. Cosa si può fare? “Se da un lato noi agiamo come tribunale per i minorenni in sinergia con i servizi sociali per il recupero del minore è innegabile che ci sia una scarsità di risorse. Tutte le persone che lavorano in questo campo fanno “miracoli” (in tutto il Veneto ci sono 8 giudici minorili, chiarisce ndr). Fa sempre notizia il caso estremo. Non fanno mai notizia i tanti minori che vengono recuperati. Di certo si potrebbe fare molto di più, in particolare agendo sulla prevenzione utilizzando un istituto, l’articolo 25”. Di cosa si tratta? “È stato modificato da poco, l’articolo 25 permette di agire nei confronti di un “minore che mostra segni di disagio” e che in qualche modo dimostra una fatica importante che potrebbe evolvere in una spirale negativa. Spesso è stato usato su impulso delle famiglie che segnalano ai servizi sociali un isolamento dato dall’uso smodato dei social o la dipendenza dalle droghe. Su queste segnalazioni si può intervenire con i servizi sociali ma anche con il tribunale per i minori direttamente. Vista la diffusione del fenomeno, però, mi chiedo se non sia arrivato il momento di fare anche un’altra riflessione”. Quale? “Comincerei pensando alla possibilità di educare precocemente i giovani, fin dalla scuola all’uso consapevole dei social ad esempio. Anzi, non tanto all’uso in cui sono naturalmente ben più scafati di noi, ma alla distinzione tra ciò che nei social è negativo e ciò che può essere evitato”. Cosa pensa del Decreto Caivano? “A novembre 2022 c’erano negli istituti minorili 320 ragazzi, 420 un anno dopo, 552 ce ne sono ora. Proprio ieri ho autorizzato su indicazione del direttore dell’istituto di Treviso, il trasferimento ad altri istituti 4 ragazzi perché erano in troppi. Se questo fatto attenua il problema del sovraffollamento ne genera altri: quando vengono trasferiti i ragazzi perdono il contatto coi genitori. Il decreto Caivano ha avuto insomma diversi aspetti positivi ma non sono sicuro che aver spostato la bilancia troppo sotto il profilo dell’intervento penale immediato ci porterà ad avere davvero dei giovani recuperati al termine del percorso”. Devianza minorile. Ostellari: “Servono più famiglia, più comunità, più luoghi d’aggregazione” di Alice D’Este Corriere di Verona, 30 giugno 2024 Dopo la richiesta di Zaia di inasprire le pene. “L’intervento del Governo contro la devianza e la criminalità minorile ha due obiettivi. Prevenire i fenomeni e reprimere i reati, senza dimenticare l’importanza dell’educazione e del recupero dei minori che li hanno commessi. E senza tralasciare il coinvolgimento dei genitori. Dal punto di vista legislativo il nostro Paese è ora all’avanguardia. Ma il contrasto alle baby gang non si fa solo con le leggi. Servono più famiglia, più comunità, più luoghi d’aggregazione, specie nelle grandi città. Quando suona la campanella e i ragazzi tornano a casa, molto spesso attorno a loro c’è il deserto”. Interviene così Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, proprio poche ore dopo che il Presidente del Veneto Luca Zaia, citando l’omicidio Tominaga aveva chiesto leggi più restrittive. “Ci sono già” aveva chiarito Ostellari, citando proprio il Decreto Caivano. Il decreto sul contrasto alla criminalità minorile detto “Caivano” interviene su diversi fronti a partire dall’evasione scolastica per la quale sono previste pene più severe per chi non manda i figli a scuola (reclusione fino a due anni per i genitori per le assenze ingiustificate del minore, preclusione all’accesso all’assegno di inclusione). Aumentano anche le pene per il porto abusivo d’armi e per reati di lieve entità relativi alla produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti. In particolare in tema di spaccio di lieve entità la pena massima passa da quattro a cinque anni. Veniamo però ai punti “caldi” del Decreto. Quelli espressamente “dedicati” ai minorenni, in particolare ai ragazzi quattordicenni. Il fermo, l’arresto e la custodia cautelare nei confronti di un giovane di quattordici anni possono essere ora disposti anche per reati meno gravi e si introduce la possibilità che il direttore dell’istituto penitenziario chieda al magistrato di sorveglianza il nulla osta al trasferimento dall’istituto minorile al carcere nei confronti del detenuto di età compresa tra 18 e 21 anni che con i suoi comportamenti comprometta la sicurezza negli istituti. Sempre nei confronti dei 14enni (e più) si inaspriscono le pene per alcune misure di prevenzione come il Daspo urbano. Anche in caso di violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale infatti è stato previsto il divieto di accesso in determinati luoghi pubblici (si amplia l’ambito di applicazione della misura del divieto di accesso a tutti i luoghi di spaccio). L’occhio sui minorenni si fa sentire anche dal punto di vista delle comunicazioni ufficiali, in particolare con l’”avviso orale” e per l’”ammonimento”. Il Questore infatti può convocare per l’avviso orale non più solo maggiorenni ma anche i minorenni a partire dai 14 anni di età. Nell’avviso viene intimato al destinatario di cambiare condotta e mantenere un comportamento conforme alla legge. Lo stesso vale per l’ammonimento che può arrivare anche a minori di età addirittura tra i 12 e i 14 anni. C’è infine una particolarità. Il decreto Caivano contiene anche una misura pensata per le vittime dei reati telematici. Chi è vittima di reati online, come il “revenge porn” ad esempio, può ora richiedere l’oscuramento delle proprie immagini da internet, salvaguardando così la propria privacy. “Nello specifico, gli strumenti preventivi messi in campo nel decreto funzionano e vengono utilizzati dai questori, da nord a sud. Penso all’ammonimento per i minori di 14 anni, che rappresenta una vera novità per il sistema italiano. Funziona così: il ragazzino che sbaglia viene richiamato con i genitori e questi ultimi, se non collaborano, rischiano sanzioni anche pesanti - dice Ostellari. La giustizia, però, sia chiaro, interviene sempre alla fine, quando il danno è fatto. Per prevenirlo davvero serve un impegno corale delle amministrazioni locali, della scuola, delle associazioni sportive. Il futuro dei giovani è troppo importante perché dipenda solo da un sistema di sanzioni”. Frosinone. Suicidio in carcere, nuovi accertamenti: disposta l’autopsia di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 30 giugno 2024 Sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso del detenuto di 24 anni, morto nella sua cella a Frosinone giovedì pomeriggio. La prima ipotesi è che si sia tolto la vita inalando il gas della bomboletta del fornello da campeggio, regolarmente in uso nei penitenziari. L’altra è che lo stesso gas spesso viene inalato per “sballarsi” e forse il giovane ha esagerato. Quello che non si spiega è perché il ragazzo (originario del Brasile ma nato e cresciuto in Italia) fosse detenuto nonostante aspettasse di essere processato per minacce - non parliamo di carcere preventivo per un omicidio o una violenza sessuale, per capirci - e soprattutto nonostante i problemi di salute mentale che lo affliggevano. In molti, a cominciare dal garante per i detenuti, si chiedono se fosse proprio necessario tenerlo recluso. Da considerare, inoltre, che nei giorni precedenti alla morte il ragazzo era stato in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio, quindi era tornato in carcere dove aveva svolto i colloqui previsti con l’équipe psicologica. Non è chiaro se il giorno prima o sempre giovedì, invece, avesse incontrato anche la mamma. Nulla, da quanto emerso finora, faceva presagire un gesto estremo ma è noto che le “avvisaglie” quando si decide di farla finita non ci sono. L’esame sulla salma consentirà di capire meglio l’accaduto che dalla ricostruzione effettuata finora fa propendere, appunto, per un suicidio. Il detenuto era da solo in cella e gli agenti di polizia penitenziaria lo tenevano monitorato. Proprio uno di loro lo aveva visto entrare in bagno, poi si era insospettito perché non usciva, né rispondeva. A quel punto l’agente ha deciso di entrare e ha scoperto il corpo ormai senza vita. C’è stato l’intervento anche del personale sanitario che si trova presso la casa circondariale, ma non si è potuto fare altro che constatare il decesso. Mentre la Uil chiede di potenziare l’organico degli infermieri in servizio (provvedimento che la Asl sta adottando attraverso le stabilizzazioni) il Sappe sottolinea come ci sia un’alta concentrazione di detenuti psichiatrici e tossicodipendenti: “Dai dati in nostro possesso sappiamo che quasi il 30% delle persone, italiane e straniere, detenute in Italia, ossia uno su tre, ha problemi di droga. Per chiarezza va ricordato che le persone tossicodipendenti o alcoldipendenti all’interno delle carceri sono presenti per aver commesso vari tipi di reati e non per la condizione di tossicodipendenza. Non vi è dubbio che chi è affetto da tale condizione patologica debba e possa trovare opportune cure al di fuori del carcere e che esistano da tempo dispositivi di legge che permettono di poter realizzare tale intervento”. Bolzano. Il carcere cade a pezzi, chiusa la sezione dei semiliberi di Marco Angelucci Corriere dell’Alto Adige, 30 giugno 2024 Gnecchi (Aiga): “La situazione è insostenibile” Rischio crolli. In consiglio la legge sul Garante. Dopo la scabbia arriva un’altra tegola per il carcere di Bolzano: la chiusura di una sezione per il rischio di crolli. I detenuti sono stati trasferiti nelle due rimaste aperte e questo ha aggravato il sovraffollamento. E man- dato a monte i progetti di reinserimento visto che la sezione chiusa è quella dei semiliberi tornati ora in mezzo a tutti gli altri detenuti. E ora, sia dal mondo degli avvocati sia dalla politica, monta la protesta per chiedere condizioni umane per i detenuti. “È anche per la polizia penitenziaria che vive in camerate simili a quelle dei detenuti” denuncia l’avvocato Andrea Gnecchi che con l’associazione dei Giovani avvocati ha da poco fatto un sopralluogo nella struttura. Dopo la scabbia arriva un’altra tegola per il carcere di Bolzano: una sezione della casa circondariale infatti ha dovuto essere chiusa per il rischio di crolli. I detenuti sono stati trasferiti nelle due sezioni rimaste aperte e questo ha aggravato il sovraffollamento della struttura. E mandato a monte i progetti di reinserimento visto che la sezione chiusa è quella dei semiliberi che dunque sono tornati in mezzo a tutti gli altri detenuti. E ora, sia dal mondo degli avvocati sia dalla politica, monta la protesta per chiedere condizioni umane per i detenuti. “È anche per la polizia penitenziaria che vive in camerate simili a quelle dei detenuti” denuncia l’avvocato Andrea Gnecchi che con l’associazione dei Giovani avvocati ha da poco fatto un sopralluogo nella struttura. Visto che, a dispetto degli annunci, per il nuovo carcere non si muove nulla il consiglio provinciale prende l’iniziativa. Dopo le ripetute denunce sullo stato del carcere, la giunta sembra aver finalmente deciso di istituire il garante delle persone private della libertà personale: la proposta di legge dei verdi è stata accolta dalla maggioranza e inserita nell’articolo 1 della legge omnibus che andrà in aula prossima settimana. Pronta anche una mozione del Pd per aumentare il numero di educatori. Sulle condizioni disastrose in cui versa il carcere di Bolzano si è scritto molto ma ora la situazione rischia di diventare incontrollabile. Anche se negli ultimi giorni sono stati assegnati nuovi agenti, l’organico è sempre carente tanto che sono state sospese le carcerazioni notturne: gli arrestati vengono tenuti in custodia presso le camere di sicurezza di polizia e carabinieri e portati in prigione soltanto il mattino dopo. Dei 75 agenti previsti ne sono in servizio 59, gli amministrativi dovrebbero essere venti ma sono solamente sei. “Con gli affitti di Bolzano gli agenti della Polizia penitenziaria non hanno alternative all’alloggio di servizio, ovvero due grandi camerate con letti a castello con docce e bagni in comune. Un piano per gli uomini, l’altro per le donne. Per questo appena possono gli agenti chiedono il trasferimento” spiega l’avvocato Gnecchi fatica a vedere la differenza tra con le camerate dei detenuti. “Purtroppo non siamo stati autorizzati a diffondere le foto” aggiunge. Dall’altro del muro, dove stanno i detenuti, la situazione è ancora peggiore. Docce senza acqua calda, muffa sulle parenti, un cortile piccolissimo e celle sovraffollate. Sul sito del Ministero della giustizia ci sono i numeri: 117 carcerati a fronte di 88 posti disponibili che ora sono ancora meno. Dopo l’epidemia di scabbia, infatti è arrivata un’altra tegola. Una sezione dell’Istituto infatti è stata chiusa per problemi di sicurezza. Una parte dell’edificio infatti rischia di collassare e dunque tutta l’ala in cui stavano i detenuti in semilibertà è stata chiusa. Il risultato è che le celle delle altre due sezioni sono ancora più affollate e i progetti di reinserimento sono andati a farsi benedire. Chi di giorno va a lavorare la sera torna nella cella normale invece di stare con gli altri che sono sulla strada del reinserimento sociale. Per riaprirla serve una ristrutturazione ma in caso di lavori probabilmente bisognerà chiudere anche l’infermeria e trasferirla in una cella. In attesa di un nuovo carcere che viene rinviato di anno in anno, la politica inizia a muoversi con mozioni e disegni di legge per provare a smuovere le cose. Il primo passo è l’istituzione di un garante dei detenuti presso la difesa civica, un organismo che potrà raccogliere le istanze dei reclusi e fare report periodici sullo stato del carcere. “Siamo stati contattati da un detenuto della sezione dei semiliberi che ci ha tracciato un quadro devastante” racconta il consigliere provinciale dei verdi Zeno Oberkofler che, insieme ai colleghi, ha presentato una proposta di legge per istituire il garante dei detenuti presso la difesa civica. La maggioranza lo ha fatto proprio e lo ha inserito nella legge omnibus. L’articolo 1 del testo che verrà discusso in aula la prossima settimana recita: “presso la civica è istituita la posizione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, con l’obiettivo di contribuire a garantire, in conformità ai principi costituzionali, i diritti delle persone presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per i minori, nelle strutture sanitarie, in quanto sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio, nei centri di prima accoglienza, nei centri di assistenza temporanea per stranieri e in altri luoghi di restrizione o limitazione delle libertà personali”. E si muove anche Sandro Repetto del Pd che ha presentato una mozione per aumentare il numero di educatori in servizio in carcere facendoli assumere alla provincia. “In servizio ce ne sono solamente due, troppo pochi per poter realizzare progetti di reinserimento” sottolinea Repetto. Sassari. Allarme tubercolosi al carcere, il Garante: “Troppa omertà” di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 30 giugno 2024 La rabbia di Gianfranco Favini: “Nessuna comunicazione ufficiale”. Il Sappe: “Vite a rischio, servono risposte immediate”. Continua a montare la protesta degli operatori per il presunto focolaio di tubercolosi nel carcere di Bancali. Alla denuncia degli avvocati sassaresi dell’altro ieri, con Danilo Mattana presidente della Camera Penale “Enzo Tortora” di Sassari che ha parlato di “situazione non chiara, si è aggiunto ieri l’intervento del segretario regionale del Sappe Luca Fais, che oltre a sottolineare la presenza di “diversi casi di Tbc sia tra i detenuti che tra il personale di polizia penitenziaria”, ha rivelato che: “molti detenuti, pur manifestando tutti i sintomi riconducibili alla malattia si rifiutano di fare i controlli necessari per escludere il contagio”. Situazione confermata dal garante dei detenuti comunale Gianfranco Favini che attacca: “Su questa situazione c’è una inaccettabile omertà. Nonostante il mio ruolo ufficiale e la mia frequentazione quotidiana nell’istituto, che per ovvi motivi ho sospeso da una decina di giorni, né la direzione del carcere né quella sanitaria della Asl mi hanno informato ufficialmente di una situazione sanitaria che rischia di essere esplosiva, e che lede il diritto alla salute dei reclusi e dei tanti operatori che lavorano in carcere. Se non avessi così a cuore il mio incarico mi sarei già dimesso per protestare contro questo inqualificabile comportamento”. Ed effettivamente di ufficiale c’è ben poco. E per avere il quadro più chiaro della situazione bisognerà attendere mercoledì mattina, con una riunione richiesta dallo stesso Favini nella sede della direzione generale della Asl di Sassari alla presenza del direttore sanitario e del presidente del Tribunale di sorveglianza. Per ora gli unici numeri sono quelli resi noti dagli avvocati. Giovedì pomeriggio, dopo aver chiesto informazioni, il personale presente nell’ufficio colloqui di Bancali un avvocato che doveva incontrare un cliente detenuto, ha ricevuto un documento della Asl di Sassari datato 20 giugno 2024, nel quale si fa riferimento a un numero di detenuti risultati colpiti dalla Tbc e la direzione strategica dell’azienda sanitaria specifica che sta procedendo alla stesura di una procedura per lo screening dell’intera popolazione detenuta. Il primo caso fa sapere la Asl nella nota si era verificato lo scorso 12 aprile e il secondo cinque giorni dopo. Secondo gli ultimi dati a disposizione della Asl su 78 test eseguiti 37 detenuti sarebbero risultati positivi. Sempre giovedì sera è stata allertata la Procura della Repubblica che potrebbe già avere disposto i primi accertamenti. L’allarme Tbc era già stato lanciato qualche giorno fa dai sindacati quando un poliziotto era risultato positivo alla tubercolosi. Il contagio è avvenuto a seguito del contatto con un detenuto infetto. “L’agente - spiegano i sindacati - ha iniziato le cure per la Tbc e dovrà sottoporsi dopo 30 giorni di controlli ematici per monitorare eventuali danni al fegato. Abbiamo scritto alla direzione, all’assessore alla Sanità e per conoscenza al provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria. Vorremmo sapere quali sono gli interventi che stavano mettendo in atto”. Richiesta reiterata ieri dal Sappe: “Come risaputo - spiega Fais - la tubercolosi è una malattia infettiva che, se non trattata adeguatamente, può portare al decesso. Per questo gli interventi devono essere concreti e repentini. Se questo appreso fosse confermato sarebbe quantomai allarmante per tutte quelle figure che si trovano all’interno del carcere e per le rispettive famiglie”. “Ancora una volta - chiude il segretario regionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria - chiediamo un urgente riscontro sullo stato dei fatti e chiediamo di potere conoscere quali interventi sono eventualmente già stati fatti a tutela dei poliziotti e di tutte quelle figure che vario titolo sono presenti all’interno della struttura”. La tubercolosi è una malattia infettiva e contagiosa, causata da un batterio, il Mycobacterium tuberculosis, chiamato comunemente Bacillo di Koch (dal nome del medico tedesco che lo scoprì). Nella maggior parte dei casi interessa i polmoni ma possono essere coinvolte altre parti del corpo. Se non trattata la Tb può portare al decesso. Si trasmette per via aerea, attraverso le secrezioni respiratorie emesse nell’aria da un individuo contagioso, per esempio tramite saliva, starnuto o colpo di tosse. Le persone nelle vicinanze possono inspirare i batteri e infettarsi. Attraverso le vie aeree i batteri raggiungono e si depositano nei polmoni dove cominciano a crescere e moltiplicarsi. Da lì in alcuni casi i batteri possono diffondersi attraverso il sangue ad altre parti del corpo. Siracusa. Punito ingiustamente l’agente che svelò le morti in cella, condannato il Dap di Salvo Palazzolo La Repubblica, 30 giugno 2024 Il tribunale conferma il provvedimento del primo giudice che si era occupato del caso di Sebastiano Bongiovanni. Prima un giudice del lavoro, adesso anche un altro conferma che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha posto in atto una condanna antisindacale nei confronti di Sebastiano Bongiovanni, sovrintendente della Polizia penitenziaria in servizio al carcere di Augusta e dirigente nazionale del sindacato Sippe. Il tribunale di Siracusa ha rigettato il ricorso del Dap contro la prima decisione e ha condannato il ministero al pagamento di un’ulteriore somma di duemila euro per le spese del processo. “Si tratta di una sentenza storica contro un provvedimento disciplinare - dice Roberto Santini, segretario generale del Sinappe - un provvedimento utilizzato dall’amministrazione per impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, tutelata dalla nostra carta Costituzionale”. Il tribunale di Siracusa afferma che il dirigente sindacale Sebastiano Bongiovanni, nella pubblicazione del comunicato stampa e dei post Facebook che hanno fatto scattare la sanzione disciplinare della deplorazione, si è limitato ad esprimere - quale rappresentante sindacale e non come semplice lavoratore - la propria posizione critica nei confronti del datore di lavoro nel pieno esercizio della libertà e dell’attività sindacale, senza che possa ravvisarsi una pubblica campagna denigratoria lesiva del prestigio del datore di lavoro. Bongiovanni è il sindacalista che ha rivelato il caso dei due detenuti morti dopo uno sciopero della fame: venne punito dal consiglio centrale di disciplina del Dap con la deplorazione perché aveva pubblicato sul suo profilo Facebook un volantino sindacale. “Con ciò - ecco la contestazione - portando discredito all’amministrazione e ai vertici dell’istituto”. In quel volantino, il sindacalista raccontava di altre punizioni per le sue denunce, gli era stato pure abbassato il punteggio dopo 22 anni di carriera ad Augusta, e intanto vinceva il concorso per sovrintendente. Roma. In sciopero della fame a Rebibbia: “Non mi visitano da due anni, fatemi curare” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 30 giugno 2024 Claudio Pinti è malato di Aids e ha un sarcoma. Contagiò la compagna, poi morta nel 2017, e un anno dopo la fidanzata. L’avvocato: “Tutti d’accordo che è incompatibile con il carcere, ma i giudici di sorveglianza rinviano da più di un anno”. Claudio Pinti, 40enne autotrasportatore di Montecarotto, nelle Marche, sta scontando a Rebibbia la condanna a 16 anni di reclusione inflittagli tre anni fa per l’omicidio volontario di Giovanna Gorini, morta sette anni fa per una patologia legata al virus che lui le aveva trasmesso, e per lesioni gravissime a Romina Scaloni, l’ex fidanzata che lo ha denunciato quando ha scoperto che l’uomo aveva l’Hiv. Per la verità, non ha mai ammesso le sue responsabilità: “Non sono un untore seriale. Ho solo sottovalutato le conseguenze della malattia quando stavo ancora bene”, ma ormai la condanna è definitiva e non è nel merito del verdetto che intende entrare, denunciando il trattamento carcerario che gli impedirebbe di curarsi ad uno stadio della malattia ormai avanzato. E da alcuni giorni è entrato pure in sciopero della fame e della sete. L’avvocato: “Pinti sta male, incomprensibili decisioni del tribunale” - “Pinti sta male - spiega l’avvocato Massimo Rao che lo rappresenta - l’ultima volta è stato visitato in carcere due anni fa. Da più di un anno e mezzo stiamo combattendo una battaglia per gli arresti domiciliari perchè le sue condizioni di salute sono assolutamente incompatibili con il carcere. Lo diciamo noi, ma lo dicono più perizie d’ufficio disposte dalla procura e dal tribunale. E lo dice la Cassazione che sul nostro ricorso contro la revoca dei domiciliari l’anno scorso si era pronunciata in tempi rapidissimi. La Procura ha sempre dato parere favorevole alla concessione dei domiciliari, le conclusioni a cui sono giunti i periti (non di parte) sono inequivocabili, ma incredibilmente da un anno e mezzo andiamo avanti con rinvii di mesi e con decisioni incomprensibili dei giudici di sorveglianza che ogni volta rimettono in discussione dati di fatto ormai acquisiti e certificati, chiedendo le certificazioni più bizzarre. Come ad esempio accertamenti sul fatto che Pinti non abbia collegamenti con la criminalità organizzata o che la sua famiglia sia disposta ad accoglierlo o ancora che l’appartamento dove dovrebbe essere trasferito sia adeguato. E intanto il tempo passa, quando probabilmente di tempo da perdere non ce n’è più”. L’avvocato snocciola una lunga sequenza di provvedimenti contrastanti dell’autorità giudiziaria in vista della prossima udienza davanti al tribunale di sorveglianza fissata per la prossima settimana. L’arresto nel 2018, la condanna è definitiva - A Rebibbia, Carlo Pinti è rientrato nel 2022 dopo aver trascorso ai domiciliari alcuni mesi della carcerazione preventiva. Lo avevano arrestato gli uomini della squadra mobile di Ancona a giugno 2018, un mese dopo che la sua allora fidanzata Romina Scaloni aveva scoperto di aver contratto il virus dell’Hiv dopo aver avuto rapporti non protetti. Giovanna Gorini, la prima compagna da cui Pinti ha avuto una bambina che adesso non vede da tre anni, era morta da appena un anno, ma Pinti non aveva ritenuto di informare la sua nuova fidanzata del suo stato di salute. Nella prima fase delle indagini sembrava che Pinti avesse contagiato decine e decine di donne ma poi i casi si sono rivelati due. Le sue giustificazioni: “Giovanna sapeva che ero sieropositivo, ma abbiamo sottovalutato. E Romina è stata lei a chiedermi di avere rapporti non protetti” non hanno fatto breccia nei giudici. E di anni da scontare gliene restano ancora più di dieci. Pistoia. Maratona oratoria contro i suicidi in carcere La Nazione, 30 giugno 2024 L’Unione delle Camere Penali Italiane organizza una maratona oratoria su suicidi in carcere. La Camera Penale di Pistoia aderisce e interverrà in piazza Gavinana il 2 luglio. Si denuncia il sovraffollamento carcerario e la violazione dei diritti umani. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha organizzato, tramite le Camere Penali territoriali, una “maratona oratoria” sul gravissimo problema dei suicidi nelle carceri. La Camera Penale di Pistoia aderisce a questa iniziativa e per questo motivo, martedì 2 luglio, a partire dalle ore 16.30, in piazza Gavinana (sul Globo) interverranno, uno di seguito all’altro, gli avvocati della Camera Penale e del Foro di Pistoia. L’avvocatura pistoiese ha così recepito la delibera della Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane del 24 maggio scorso e cui proponiamo alcuni brani. “E così sono 35 dall’inizio dell’anno. L’incessante conta dei suicidi in carcere ci impone di registrare l’ennesima perdita di una vita umana affidata alla custodia dello Stato”. La Giunta rileva il costante aumento del sovraffollamento carcerario e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita a cui sono costretti i detenuti “privati del più elementare e al contempo fondamentale dei diritti, ovvero quello alla “dignità umana”. Sul rispetto e sulla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo - si legge - si fonda il nostro patto di convivenza civile inciso nella Costituzione. La privazione della dignità umana a opera dello Stato non solo è certamente illecita, ma appare assolutamente inaccettabile, poiché i diritti fondamentali rappresentano i principi supremi dell’ordinamento costituzionale e qualificano la struttura democratica dello Stato”. L’Unione è intervenuta più volte con forza: “richiedendo interventi immediati al Governo, ma a oggi i decisori politici, pur inevitabilmente consapevoli della eccezionale gravità della situazione, hanno offerto un’indecorosa immagine di totale immobilismo”. L’Ucpi ha invitato tutte le Camere Penali italiane, con il sostegno dell’Osservatorio Carcere, a una maratona oratoria partita il 29 maggio nei luoghi pubblici e rappresentando alla società civile “la condizione inumana dei detenuti” e di tutti gli operatori. Forlì. Nuovo carcere, l’associazione Amici di don Dario: “Serve un’azione politica forte e risolutiva” forlitoday.it, 30 giugno 2024 Ecco alcune riflessioni dell’associazione Amici di don Dario in merito alla situazione carceraria forlivese, una realtà in cui l’associazione stessa è coinvolta da tempo in progetti sociali e solidali a favore dei detenuti. È di giovedì l’annuncio del sottosegretario alla Giustizia in merito alla prossima entrata in organico nel carcere di Forlì di sette nuovi agenti di Polizia Penitenziaria. Ma l’associazione Amici di don Dario, da tempo coinvolta in progetti sociali e riabilitativi proprio all’interno della struttura carceraria della città, chiede “un’azione politica risolutiva” in merito alla realizzazione della casa circondariale al Quattro. “Don Dario - affermano i responsabili dell’associazione - ci ha lasciato in eredità una fortissima sensibilità sulle problematiche e le dinamiche umane che prendono vita in carcere, frutto della sua lunghissima esperienza come Cappellano della Casa Circondariale di Forlì. Non possiamo, quindi, che esprimere soddisfazione per questa notizia riportata sulla stampa locale nei giorni scorsi. La nostra Associazione collabora da sempre con la Casa Circondariale offrendo contributi economici, sollecitati anche da richieste di servizi per i detenuti”. “E’ evidente però che il problema carcere di Forlì non si risolve con questi piccoli, anche se in questa situazione importanti, interventi tampone - viene aggiunto -. Gli stessi esponenti politici nazionali che hanno reso possibile l’incremento degli agenti, unitamente ai politici locali che hanno incarichi e responsabilità a livello governativo, hanno il dovere di spingere sull’acceleratore per la conclusione dei lavori del nuovo carcere in località “Quattro” in itinere oramai da tanto, troppo, tempo”. “L’attivazione della nuova struttura in tempi brevi risponde ad una criticità che ha assunto dimensioni macroscopiche, ovvero la condizione di vita dei carcerati nell’attuale contenitore al limite della decenza umana, come peraltro affermato pubblicamente in più occasioni anche da tutti gli stessi dirigenti carcerari che negli anni si sono succeduti e con cui abbiamo avuto modo di collaborare. In secondo luogo non bisogna dimenticare che la nuova struttura, rischia, se terminata in tempi lunghi, di presentare parti di essa non più conformi alle normative e alle esigenze della casa circondariale stessa. Serve quindi, un’azione politica forte, incisiva e risolutiva”, concludono. Busto Arsizio. Don David e l’emergenza carceri: “Serve un’amnistia, la politica ascolti le parole di Papa Francesco” malpensanews.it, 30 giugno 2024 L’appello nel corso della serata dedicata dalla Camera Penale alla difficile situazione delle carceri italiane (Busto e Varese comprese) dalla sede della cooperativa che fa lavorare gli ex detenuti. Il macabro tabellone che accompagna questi giorni di discussione a Busto Arsizio, sede di un carcere molto affollato, segna 48 suicidi. Tante sono le persone che nei primi sei mesi del 2024 si sono tolte la vita all’interno dei penitenziari italiani. Tre giorni fa, durante la maratona oratoria organizzata dalla Camera Penale di Busto Arsizio, lo stesso tabellone ne contava 45. Questa sera a La Valle di Ezechiele, cooperativa fondata da don David Maria Riboldi a Fagnano Olona, si è tornati a parlare della difficile condizione dei detenuti nelle prigioni italiane e lo si è fatto con la presenza di tutti gli attori che hanno un ruolo nella difficile gestione di un problema che si trascina da decenni senza una soluzione effettiva. Il cappellano del carcere ha chiesto un provvedimento di clemenza nell’anno del Giubileo, il 2025, ricordando che dal ‘48 al ‘94 del secolo scorso ce ne sono stati 23 mentre dal ‘95 al 2024 solo uno “pronunciare la parola amnistia sembra essere diventata una bestemmia” - ha detto. Dalla cooperativa di don David che ha ospitato il convegno di questa sera, venerdì, sono passati 28 ex detenuti e 27 di loro non sono tornati a commettere reati “una prova tangibile che al di là di ogni retorica politica che inasprisce le pene e crea nuovi reati da perseguire, il reinserimento lavorativo è una soluzione importante che deve essere sostenuta” - ha detto Samuele Genoni, presidente della Camera Penale di Busto Arsizio. Una realtà che probabilmente, nei prossimi giorni, firmerà un contratto importante con una grande azienda per dare lavoro ad altre persone. Una boccata d’aria per un Paese che ha un incredibile carenza di manodopera ma che poi non sfrutta le occasioni come quelle offerte da realtà come questa. “Per questo oggi siamo qui” - ha ricordato il collega Roberto Aventi, con la speranza che dai parlamentari del territorio Andrea Pellicini (anche lui avvocato), Maria Chiara Gadda e Alessandro Alfieri arrivino risposte o almeno proposte da sostenere a livello legislativo per aprire una nuova era nel trattamento di chi oggi viene considerato solo come una persona da rinchiudere e poco importa se in celle sovraffollate, con fondi e personale scarso per la gestione e il reinserimento sociale. All’appuntamento organizzato a Fagnano Olona hanno preso parte tutti i protagonisti di questo spaccato di società: dalla Polizia Penitenziaria che boccheggia e si considera “rinchiusa quasi come i detenuti” all’amministrazione del sistema penitenziario con la direttrice Maria Pitaniello, il garante dei detenuti di Busto Arsizio Pietro Roncari passando per il Magistrato di sorveglianza del Tribunale di Varese Benedetta Rossi e altre autorevoli voci del panorama carcerario. Roma. “Made in Rebibbia”, la sartoria diventa una seconda opportunità di Nataliya Bolboka infoimpresa.info, 30 giugno 2024 È arrivato alla sesta edizione il progetto “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme”, che sposa la tradizione sartoriale italiana, attraverso una collaborazione tra l’Accademia nazionale dei sartori, l’Istituto penitenziario di Rebibbia nuovo complesso “Raffaele Cinotti” e Bmw Roma. Sotto la guida esperta di Sebastiano Di Rienzo, ex presidente e maestro storico dell’Accademia nazionale dei sartori, otto allievi dell’Istituto penitenziario hanno scelto di reinventare il proprio futuro attraverso la creatività. Il risultato del loro lavoro, trenta pezzi unici tra giacche, gilet, pantaloni e cappotti che ne testimoniano il cammino, è stato presentato mercoledì 26 giugno durante la sfilata di fine corso nell’area verde dell’Istituto. Nato nel 2017 da un’idea dell’ex presidente dell’Accademia nazionale dei sartori, il maestro Ilario Piscioneri, ‘Made in Rebibbia’ vuole contribuire al reinserimento sociale dei detenuti attraverso la formazione di figure professionali in grado di rispondere alle richieste e tendenze del mercato. L’iniziativa cerca di aiutare “delle persone che nella vita hanno avuto la sfortuna di nascere in contesti complicati a trovare un po’ di riscatto” - ha dichiarato a Tg Regione Lazio Daniele Piscioneri, vicepresidente dell’Accademia - offrendo ai condannati l’opportunità di acquisire competenze professionali e apprendere l’arte del cucito, così da trovare lavoro in un laboratorio sartoriale una volta concluso il periodo di detenzione. Esempio tangibile del successo del corso è la storia di Manuel Zumpano. Ex detenuto del carcere di Rebibbia, dove aveva seguito il corso accademico di sartoria, una volta scontata la sua pena ha iniziato a lavorare per l’atelier del maestro Piscioneri. “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme” è un progetto a cui teniamo molto e che vorremmo far crescere, ci piacerebbe continuare non solo a Rebibbia, ma anche in altri istituti penitenziari italiani, abbiamo maestri accademici in tutto il Paese”, dice Gaetano Aloisio, presidente dell’Accademia nazionale dei sartori. “Vorremmo che l’Accademia diventasse un punto di riferimento per le persone fragili che non hanno opportunità lavorative, con disabilità motorie che permettono di svolgere una professione in sartoria. Il nostro lavoro ha bisogno di tanta manodopera e vogliamo lavorare su progetti di inclusività - riporta Vita. -”I nostri allievi hanno bisogno di noi, non vedono l’ora di svolgere le ore di corso, dicono di sentirsi liberi quando fanno sartoria. Quando riesco ad andare a Rebibbia e parlo con i maestri che insegnano ai detenuti, provo una soddisfazione più grande di ogni altro progetto professionale, mi sento veramente appagato”. L’iniziativa, resa possibile grazie alla collaborazione tra l’Accademia nazionale dei sartori, guidata dal presidente Gaetano Aloisio e l’Istituto penitenziario di Rebibbia nuovo complesso “Raffaele Cinotti”, diretto dalla dottoressa Alessia Rampazzi, è sostenuto da Bmw Roma, in linea con SpecialMente, il programma di responsabilità sociale d’impresa di Bmw Italia. “L’idea di essere parte di un’iniziativa orientata ad aiutare le persone a reinserirsi nella società è costitutiva dell’idea stessa di inclusione sociale - dichiara Salvatore Nicola Nanni, general manager di Bmw Roma. - ‘Il lavoro nobilita l’uomo’ è un proverbio famoso attribuito ad un grande scienziato come Charles Darwin. Potremmo trasformarlo per questa occasione anche in ‘il lavoro nobilita le seconde opportunità’, quelle che ognuno di noi ha diritto di avere dopo aver fatto degli errori e averne pagato il prezzo. Io credo che in questo senso la bellezza e la cultura, che sono intrinseche al progetto ‘Made in Rebibbia’, abbiano un ruolo straordinario nel percorso di recupero delle persone. Educare o rieducare al bello, aiuta a vedere l’esistenza da una prospettiva differente e con un orizzonte diverso”. Milano. Le porte dell’Ipm Beccaria aperte ai cittadini per la Messa domenicale di Roberta Barbi vaticannews.cn, 30 giugno 2024 Ha preso il via in questo mese di giugno l’iniziativa dello storico cappellano dell’Istituto penale per i minorenni di Milano, don Gino Rigoldi, e del cappellano attuale, don Claudio Burgio che ogni domenica alle 10.30 permetteranno alla cittadinanza di prendere parte alla funzione nella chiesa dell’Ipm. Non solo violenza né evasione: l’Istituto di pena minorile di Milano è anche servizio alla cittadinanza, in questo caso dei fedeli del quartiere vicino che vogliono andare a Messa la domenica avendo però le parrocchie lontane. È con questo spirito pastorale che “i due cappellani” della struttura - quello storico e quello in carica - hanno pensato di aprire la chiesa del carcere - che si trova sotto al Teatro Puntozero e ha un ingresso separato che dà all’esterno - ai cittadini ogni domenica alle 10.30 per la celebrazione settimanale. “Qua davanti ci sono circa mille famiglie che sono venute ad abitare nelle case appena costruite - racconta a Radio Vaticana-Vatican News don Gino Rigoldi - per lo più giovani con bambini piccoli, in tutto saranno quattro-cinquemila persone, un piccolo paese, che non ha una chiesa perché le parrocchie del territorio non sono molto vicine”. Un’iniziativa semplice, che si pone come un ponte gettato tra dentro e fuori il carcere e che porta giovamento a tutti: ai cittadini, cui viene offerto un servizio, e ai detenuti, che anche se non presenti fisicamente per motivi di sicurezza, in realtà sono sempre presenti e si prega per loro. “Siamo in una fase di pacificazione e ricostruzione - prosegue don Virginio che tutti qui chiamano Gino - perciò stiamo portando una decina di ragazzi a Messa ogni domenica, speriamo in futuro di portarne di più. Molti sono stranieri e appartengono ad altre fedi, ma chiedono di venire comunque. Ogni tanto capita che qualcuno scappi a fare la Comunione, io spiego che quella è riservata ai cattolici, ma certo non sto a inseguirli. Credo che Gesù sia di bocca buona e poi siamo tutti suoi figli, no?”. Perché assistere ad una Messa in un istituto di pena? Don Gino risponde senza giri di parole: “Perché si è nel posto giusto, il carcere era ed è uno dei luoghi privilegiati da Gesù , è un segno di fraternità cristiana. E io credo che la Messa da noi doni qualcosa di più di una Messa celebrata altrove”. Certamente anche per la presenza dei tantissimi stranieri, in prevalenza di religione musulmana. “Sono loro i primi a insegnarci che Dio è uno solo, solo che loro lo chiamano Allah - aggiunge Rigoldi - inoltre ci dicono che, riconoscendo loro il profeta Gesù e sua madre Maria, hanno il diritto di stare qui e pregare insieme a noi”. Ineccepibile. L’idea della Messa ogni domenica è scaturita dagli incontri che i sacerdoti avevano spesso in chiesa con la popolazione detenuta. “Celebravo una specie di non Messa - scherza l’ex cappellano - ciascuno parlava della sua esperienza di Dio, di che faccia potesse avere, di cosa volesse da Lui e di qual fosse il suo rapporto con Lui: erano momenti di vera comunicazione spirituale”. Per il futuro, inoltre, don Gino spera di organizzare anche momenti in cui riflettere insieme sul mondo del carcere, ma anche su altri temi legati ai giovani e al loro disperato bisogno di paternità. “Noi qui dentro facciamo educazione e la facciamo attraverso il paradigma della relazione - conclude il sacerdote - significa addestramento a stare con gli altri e con se stessi in maniera costruttiva e positiva. E poi non dimentichiamo che l’altro nome della relazione è amore”. Milano. Ipm Beccaria, un calcio alla detenzione: giovani, sport e valori di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 30 giugno 2024 Il torneo di football tra le 5 sezioni e il “Camp” dell’ex campione di rugby. Spruzzi con l’acqua, sfide, corse dietro alla palla, sconfitte, vittorie e risate. Tante. “Ragazzi, costruiremo la più bella settimana di questo pezzo della vostra vita”. L’ex campione di rugby Diego Dominguez e il suo camp estivo multisport hanno reso leggera - per non dire allegra - l’atmosfera tra i ragazzi detenuti nell’Ipm Beccaria, in questi giorni. Venerdì nel giardino c’è stato il torneo finale di calcio, con sottofondo musicale curato dal giovane dj Filippo degli Abbati: in campo le squadre delle cinque sezioni detentive, che di solito stanno sempre separate, e una sesta formata dalle promesse di varie Primavere lombarde. “A Cordoba, in Argentina, ogni quartiere ha tanti club con campi per il gioco collettivo. I ragazzi crescono facendo sport tutti insieme e tutti i giorni e non esiste un adolescente di strada che bussando la porta di un club non possa entrare. Non è banale: l’allenamento e la fatica possono cambiare i comportamenti, i modi di pensare e quindi i valori di un uomo”, spiega Dominguez, 58 anni, occhi azzurri e fisico atletico ma soprattutto carisma da vendere. Ricorda l’Argentina dove è nato ma ormai considera Milano come sua città: “Mancano campi all’aperto dove fare sport di squadra e tornei, la richiesta è altissima”, avverte. Ha esperienza di adolescenti in contesti difficili e insieme a Mediobanca, che appoggia da otto anni il suo Camp estivo al Beccaria con fondi e decine di dipendenti-volontari, inaugurerà un progetto analogo, settimana prossima, all’Ipm di Nisida, a Napoli. Lavora quindi per i ragazzi dentro le carceri minorili ma forma anche quelli fuori dalle mura: negli anni, sempre con il Cus Milano e Mediobanca al fianco, ha realizzato campi multifunzionali a Baggio, Quarto Oggiaro e in via Padova: “Ci piacerebbe replicare l’esperienza anche in altri luoghi, là dove la domanda degli adolescenti resta in parte senza risposta”. A San Siro, ad esempio, la Triestina ha le liste d’attesa, la storica scuola calcio dell’associazione Masseroni Marchese dopo l’estate perde una sede e dal marciapiede di via Zamagna gli adolescenti chiedono campi dove giocare. “Lo sport insegna lo spirito di squadra, la solidarietà, la costanza e il rispetto delle regole e delle altre persone. Senza protezioni, guidati dagli adulti, i ragazzi imparano la bellezza della fatica e il gusto dell’impresa ma anche il riscatto dopo la sconfitta. Imparano a reagire alle frustrazioni e anche un’ultima cosa, non scontata - racconta ancora Dominguez -. Imparano il senso della libertà e quello del limite”. Palla, contatto, contrasto, contenimento, ruck: rialzarsi e ripartire per andare a meta, cioè per inserirsi nella società e diventare uomo. Dominguez, talento anche nel calcio e nel tennis, a 15 anni scelse il rugby e scalò le selezioni fino a diventare campione europeo e sudamericano e ha giocato tre volte i mondiali. Per alcuni ragazzi del Beccaria, negli anni, il suo camp estivo è stato occasione unica per dare valore nuovo alla vita: “Se vedo qualcuno con un guizzo, un impegno particolare, lancio la proposta di iniziare da noi un lavoro e se l’Istituto penale minorile lo concede, l’autonomia si vede poi crescere man mano. Ci sono l’atto di fiducia e la presa di coscienza che porta con sé responsabilità”. Il pubblico ministero resti saldamente autonomo di Raffaele Liucci Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2024 Nel 1999, in un breve saggio sulla distinzione tra processo accusatorio e processo inquisitorio, lo storico Angelo Ventura sottolineava la propensione tutta italiana ad adottare modelli istituzionali astratti, che ignorano specificità e tradizioni nostrane, sedimentatesi nel corso dei secoli. Il risultato fu il nuovo codice di procedura penale introdotto nel 1989, in teoria d’ispirazione anglosassone, ma in pratica rivelatosi un ircocervo incapace di ben amalgamare i nuovi elementi accusatori con quelli inquisitori sopravvissuti. Col risultato di aggravare la nostra principale emergenza, ossia l’abnorme durata dei procedimenti, “causa prima di denegata giustizia”. Un analogo e appassionato richiamo alle ragioni della storia ispira questo volume cristallino di Edmondo Bruti Liberati (già procuratore della Repubblica a Milano), dedicato alla genesi e alla struttura dell’ufficio del pubblico ministero, oggi diventato “un protagonista controverso della giustizia”. Attenzione, ammonisce Bruti: con la nostra ansia di adeguarci a un fantomatico modello accusatorio - e quindi introducendo la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti - rischiamo di perdere una delle conquiste più preziose sancite dalla Costituzione, ovvero l’indipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo. Tanto più che i “modelli puri” cui dovremmo uniformarci in realtà non sono mai esistiti, come dimostra l’incredibile varietà degli ordinamenti penali anglosassoni e continentali passati in rassegna. Se la conoscenza delle nostre radici ci mette in guardia da riforme troppo avventate, è ancora la storia a illuminarci su uno dei primi teorici della separazione delle carriere, ossia Licio Gelli, che inserì questo punto programmatico nel suo famigerato Piano di Rinascita Democratica de11976. Il Venerabile pensava così di poter neutralizzare alcuni magistrati, protagonisti di coraggiose indagini su trame nere e scandali finanziari. Perché, nonostante le ricorrenti rassicurazioni, la separazione delle carriere rappresenta l’anticamera dell’assoggettamento del pubblico ministero al potere politico. Per sincerarsene, spiega Bruti, basta osservare quanto accade nei Paesi in cui le carriere sono separate e il pm è una sorta di superpoliziotto, estraneo alla cultura della giurisdizione. Per esempio negli Stati Uniti, dove è nominato dai politici o addirittura eletto dal popolo, ha un potere sproporzionato e, grazie alla discrezionalità dell’azione penale, può scegliere chi “incastrare” e chi archiviare in base a logiche non sempre trasparenti. A uscirne penalizzati sono soprattutto i soggetti più deboli. Insomma, il processo alla Perry Mason, con una giuria imparziale e la tanto sbandierata parità tra accusa e difesa, esiste soltanto nella finzione filmica. Cronisti infiltrati: ecco perché si può fare di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 30 giugno 2024 Il giornalismo d’inchiesta, il modo più calzante per definire anche il lavoro del cronista sotto copertura, per la Cassazione è l’espressione più alta e nobile dell’attività di informazione. C’è una domanda, autorevolmente posta e rivolta in alto loco, che merita una risposta ponderata: se da oggi sia consentito ad un giornalista infiltrarsi in un’organizzazione politica, per registrare e mandare in onda quel che accade durante le riunioni. Se dipendesse dal numero delle volte in cui è già successo, la risposta sarebbe semplice, ma non esaustiva, meglio cercarla fra leggi e sentenze, singolarmente rimaste finora fuori dal dibattito. ?Il giornalismo d’inchiesta, il modo più calzante per definire anche il lavoro del cronista sotto copertura, per la Cassazione è l’espressione più alta e nobile dell’attività di informazione e consiste nell’acquisizione diretta, attiva e autonoma della notizia, elaborata e poi diffusa per informare i cittadini su temi di interesse pubblico. E cosa c’è di più interessante di quel che davvero pensa e dice, in riunioni di partito, chi di quelle idee si fa pubblicamente portatore, chiedendo il voto dei cittadini? Anche la Corte di Strasburgo riconosce la più ampia tutela al giornalismo d’inchiesta, col solo limite del rispetto dei criteri etici e deontologici della professione. È, dunque, qui che occorre cercare la risposta, escludendo che esistano zone franche, foss’anche la sede di un partito o di un sindacato, che la Costituzione tutela da ingerenze esterne, solo se possono violarne la libertà. Non certo dalle inchieste giornalistiche fatte sotto copertura, quando diversamente sarebbe impossibile portarle a termine, evitando però pressioni indebite o artifici e non è un artificio sanzionato l’uso di un’identità fittizia, il solo modo per infiltrarsi. Secondo la Corte costituzionale e non solo, la libertà di informazione prevale di massima sui diritti individuali, compresa la privacy, a determinate condizioni, tanto che le opinioni politiche, che sono dati sensibili, possono essere divulgate senza consenso, se sono il cuore nella notizia e certo è una notizia la dissimulazione interessata di quelle reali, a favore di altre politicamente più corrette. ??? E se il giornalista non può intercettare conversazioni altrui, può registrare e divulgare quelle cui ha preso parte, se di interesse pubblico e non ci vuole un grande intuito per capire quanto ne abbiano le conversazioni in libertà di chi farà parte della futura classe politica. Bisogna solo decidere se è meglio che il cittadino elettore ignori quel che si teorizza davvero, al riparo da orecchie indiscrete, così perpetuando la sua ignara adesione ai partiti o se non sia più onesto e alla lunga più remunerativo far chiarezza, anche con l’aiuto prezioso del quarto potere, senza indulgere alla tentazione, forte negli altri tre, di tagliargli le unghie. Giornalismo investigativo, dai manicomi dell’800 agli immigrati: inchieste e scoop degli “infiltrati” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 30 giugno 2024 Erano fuori dalla grazia di Dio le autorità americane quando la grande Nellie Bly raccontò sul New York World il lager manicomiale di Blackwell’s dove si era fatta ricoverare fingendosi pazza. E furibonde pochi anni fa le autorità nordcoreane quando la reporter americo-coreana Suki Kim pubblicò il suo reportage sulla vita a Pyongyang dove era riuscita a farsi assumere come professoressa di inglese. Ed invelenite le autorità svizzere quando il nostro Fabrizio Gatti, oggi a Today.it, raccontò sul Corriere che era entrato a Chiasso come un profugo kosovaro come poi si sarebbe via via spacciato per un clandestino di altre nazionalità su tante altre rotte delle migrazioni. Ovvio: non è bello fare certe figure. Nelly, Suki e Fabrizio, però, in anni diversi e paesi diversi, una cosa avevano in comune: avevano fatto il loro mestiere. Punto. Trasparenza. Esattamente come è successo in questi giorni nel caso dell’inchiesta di fanpage.it che ha clamorosamente rivelato i peggiori sentimenti razzisti e antisemiti che ancora sopravvivono, a dispetto di tante rassicurazioni, tra i giovani del partito meloniano. Inchiesta con punti in comune con quella del tedesco Thomas Kuban (pseudonimo: ragioni di sicurezza) che per quindici anni ha fotografato filmato e registrato di nascosto i concerti rock di giovani neonazisti finiti nel film Blut muss fließen (Il sangue deve scorrere) di Peter Ohlendorf. I fatti sono fatti. È la stampa, bellezza. Certo, come ricorda su Il Giornale il costituzionalista Felice Giuffrè, è bene che il cronista faccia normalmente il suo lavoro “rendendo note la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta”. Ma “si prevede una deroga nel caso in cui la rivelazione dell’identità del giornalista determini un rischio per la sua incolumità, tale da rendere impossibile la ricerca delle notizie”. Vista l’aria bellicosa che tirava in quelle riunioni fascistoidi riprese coi cellulari dagli autori dell’inchiesta giornalistica, avrebbero potuto davvero regolarsi diversamente? La storia del miglior giornalismo è ricca di servizi sotto copertura. Devi vederle, le cose, dall’interno, per poterle raccontare. “Prendete una donna sana fisicamente e mentalmente, rinchiudetela, tenetela inchiodata a una panca per tutto il giorno, impeditele di comunicare, di muoversi, di ricevere notizie, fatele mangiare cose ignobili. In due mesi sprofonda nella follia”, scrisse Nellie Bly in quell’inchiesta del 1887 considerata l’atto di nascita del giornalismo “infiltrato”. E poté scriverlo proprio e solo perché ce l’aveva fatta, con un sotterfugio giustificato dai più nobili motivi, a farsi ricoverare sotto falso nome, con la complicità del suo direttore Joseph Pulitzer, in quell’inferno per malati di mente che dopo il suo durissimo atto d’accusa sarebbe stato finalmente riformato dai responsabili sanitari. E così andò anche con il reportage di Upton Sinclair che nel 1906 si infiltrò tra i produttori di carne di Chicago per scrivere The Jungle dove denunciava gli orrori igienici dei processi di lavorazione di quanto era destinato alla tavola delle famiglie e le terrificanti condizioni in cui lavoravano i dipendenti che avrebbero spinto Theodore Roosevelt a promuovere per la salute dei cittadini leggi come il Pure Food and Drug Act e il Meat Inspection Act. Per non dire di decine di altre inchieste sotto copertura condotte da alcuni giornalisti straordinari. Come ad esempio la francese Florence Aubenas che qualche anno fa, già famosa, prese sei mesi di aspettativa dal giornale per cui lavorava, Le Nouvel Observateur, si tinse i capelli di biondo, si calcò sul naso degli occhiali finti, lasciò Parigi e si mise a cercare un lavoro come donna delle pulizie a Caen in Normandia con un falso curriculum tipo “donna mollata dal marito” dimostrando in un libro angosciante, Le quai de Ouistreham, come fosse difficilissimo sopravvivere tra i “nuovi poveri”. O ancora Günter Wallraff che negli anni ‘70, firmandosi col nome di Hans Essler, riuscì a infiltrarsi nella redazione della Bild Zeitung ad Hannover per denunciare ne Il grande bugiardo i metodi spesso spregiudicati del grande tabloid popolare e scandalistico e successivamente, dopo essersi perfino sottoposto a un intervento chirurgico per cambiare faccia e assumere il nome di Leyent Sigirlioglu, dimostrò nel libro tradotto da noi col titolo Faccia da turco (4 milioni di copie vendute) come agli immigrati anatolici fossero offerti solo “lavori in nero come bracciante, manovale nei cantieri edili, operaio alla Thyssen” fino a “far la cavia nei laboratori farmaceutici”. Un’inchiesta scomodissima, per il sistema produttivo tedesco. Come scomodissime sarebbero state altre inchieste e altri “travestimenti” successivi da senzatetto, telefonista in un call center, inserviente in un ristorante e addirittura, la faccia annerita, da immigrato somalo col nome Kwami Ogonno. Avrebbe raccolto le stesse notizie, stessi “odori”, stesse verità se si fosse presentato come un giornalista in giacca e cravatta? Mah... Immaginatevi se nel gennaio 1947, quando fu incaricato dal Corriere d’Informazione di capire come funzionava l’emigrazione clandestina dei nostri nonni, Egisto Corradi si fosse accontentato di parlare con le autorità che negavano il problema stesso: non avrebbe capito niente. Lui recuperò su una bancarella i vestiti più stracciati che c’erano, si liberò del tesserino di giornalista, si lasciò crescere la barba e attraversò a piedi di notte, nel gelo invernale, il San Bernardo col terrore dei carabinieri che in quei casi sparavano (“Ho il respiro affannoso, i tonfi del cuore si ripercuotono profondi alle tempie...”) insieme con decine di disperati tra cui un barbiere siculo, Sarino, che trascinava una valigia di fichi secchi, solo fichi secchi. Certo, quel servizio infastidì allo stesso modo le autorità italiane e quelle francesi. Ma quello era l’unico modo, lì, di fare il suo mestiere. Antisemitismo, l’allarme di Liliana Segre: “Sarò cacciata ancora dal mio Paese?” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 30 giugno 2024 La senatrice a vita è rimasta molto colpita da quanto emerso dall’inchiesta di Fanpage: “Credo che con questo governo si approfitti di questo potere grande della destra e non ci si vergogni più di nulla. Ora, alla mia età, dovrò ancora rivedere tutto questo?”. “Dovrò essere cacciata ancora dal mio Paese?”. È fermo lo sguardo di Liliana Segre. Spazza via le puntualizzazioni, i distinguo e gli interrogativi venuti da FdI in merito al servizio di Fanpage che ha mostrato esponenti della gioventù meloniana fare affermazioni e battute razziste e antisemite e persino il saluto nazista. E a settant’anni e cinque mesi esatti dal giorno in cui, tredicenne, venne costretta a salire, dal binario 21 dalla stazione centrale di Milano, sul treno diretto ad Auschwitz-Birkenau, la senatrice a vita, intervistata da Marianna Aprile a In Onda su La7, dice chiaro: “Ho seguito, nelle varie trasmissioni, questa seduta, chiamiamola così, inneggiante anche a “Sieg heil”. Quindi anche questi motti nazisti che purtroppo io ricordo in modo diretto. Non per sentito dire”. Le derive - Quindi, Liliana Segre pone l’interrogativo che fa venire i brividi: “Ora alla mia età dovrò rivedere ancora questo? Dovrò essere cacciata dal mio Paese come sono stata già cacciata una volta? È una domanda che è una risposta”. La senatrice 93enne non si sottrae a una lucida analisi politica. Lo aveva già fatto in Senato, in occasione del dibattito sulla riforma per l’elezione diretta del premier contro la quale ha lanciato l’allarme rievocando la legge Acerbo varata da Benito Mussolini. E oggi scandisce: “Io credo che queste derive, chiamiamole derive, che sono venute fuori in questa ultima settimana in modo così eclatante, ci siano sempre state. Nascoste. Non esibite. Ma che, in parte, ci siano sempre state. E che con questo governo si approfitti di questo potere grande della destra - che, del resto è stata votata, non è rivoluzionaria ed è andata al governo - non ci si vergogni più di nulla”. “Ascolteremo” - Nessuna obiezione da FdI. Anzi. Il responsabile organizzazione del partito, Giovanni Donzelli, commenta subito: “Ascolteremo, come anche nelle occasioni passate, con la massima attenzione e il massimo rispetto le parole della senatrice Segre. Sono sempre un monito per tutti gli orientamenti politici”. E sottolinea la piena adesione del partito di Giorgia Meloni: “La senatrice Segre quando si riflette sul pericoloso germe dell’antisemitismo è un simbolo di tutta la nazione. Un simbolo che deve essere rispettato da tutti senza polemiche e senza strumentalizzazioni”. “Un grido d’allarme” - “Quello di Segre è un grido d’allarme da ascoltare”, evidenzia la renziana Raffaella Paita. “Parole di rara tensione etica”, aggiunge Luana Zanella di Avs. Dal gay pride di Milano, la segretaria Elly Schlein se la prende con Giorgia Meloni: “È incredibile che non abbia preso le distanze” dai comportamenti degli esponenti di Gioventù Nazionale. E commentando le parole della premier (“infiltrarsi nei partiti sono metodi da regime”) accusa: “È come se avesse detto che sarebbe stato meglio che quelle cose non venissero fuori”. La collega dem Beatrice Lorenzin parla di “filo nero” che unisce questa vicenda all’isolamento in cui la Meloni ha precipitato l’Italia in Europa. “Deve scegliere da che parte stare: se dalla parte dell’Italia dentro l’Europa, e costruire un partito di destra democratica nel suo Paese, o piegare gli interessi degli italiani a quelli dei conservatori europei, isolandoci da tutti”. “Il video in Europa” - Il leader dei Verdi Angelo Bonelli (Avs) spiega che in queste ore “stiamo girando il servizio a tutti i gruppi parlamentari europei. La destra guidata da Meloni, anche alla luce di quello che è emerso nelle immagini di Fanpage, deve rimanere fuori dalla maggioranza in Ue. Tra l’altro è lei stessa, grazie all’alleanza con Viktor Orbán, che si è tagliata fuori. Il suo alleato Salvini parla di colpo di stato, roba da psichiatria, ma dovrebbe imparare le regole della democrazia”. Il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, invita tutti quelli che hanno responsabilità nei partiti a fare pulizia ed “emarginare protagonisti di comportamenti di odio e intolleranza”. Con una precisazione: “Vale sia per la destra che per la sinistra - dice -. Perché una grande democrazia si difende partendo dalla tolleranza con gli avversari politici”. Per decidere sul fine vita basta la nostra Costituzione di Francesca Biondi* Il Manifesto, 30 giugno 2024 Aiuto al suicidio e dignità. Il requisito della “dipendenza da un sostegno vitale” al vaglio della Corte costituzionale. Il 13 giugno 2024 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che la scelta dell’Ungheria di criminalizzare l’agevolazione al suicidio non si pone in contrasto con gli artt. 8 e 14 della Cedu, posti a presidio del diritto alla vita privata e familiare e del principio di non discriminazione. Alcuni giorni più tardi, si è celebrata davanti alla Corte costituzionale una importante udienza in cui si è discusso proprio della legittimità costituzionale della norma del codice penale italiano, l’art. 580 c.p., che incrimina l’aiuto al suicidio. La decisione è attesa a giorni. Come ormai da anni, sia a Roma, sia a Strasburgo si giocano partite estremamente delicate per la tutela dei diritti fondamentali: talvolta le due Corti si sono mostrate in sintonia, talvolta meno, e ciò, soprattutto, per complesse questioni tecnico-giuridiche. Non a caso, dunque, ci si è chiesti se la decisione assunta a Strasburgo possa condizionare quella tanto attesa della Corte italiana chiamata a tutelare diritti fondamentali delle persone che ambiscono ad un congedo dignitoso dalla propria vita. La risposta è no. Anzitutto, senza affatto trascurare la rilevanza delle decisioni europee, esse vanno sempre “maneggiate con prudenza”, in quanto calibrate su ordinamenti differenti e su specifiche questioni. Nel caso che ci occupa, poi, è vero che la Corte Edu ha riconosciuto che esiste un margine di apprezzamento di ciascuno Stato membro, ma non possiamo trascurare che, nel 2003, fu la stessa Corte costituzionale ungherese, a differenza di quella italiana, ad avere escluso l’illegittimità del divieto assoluto di aiuto al suicidio. Inoltre, si tratta di una sentenza pronunciata da una sezione semplice della Corte Edu, accompagnata da opinioni dissenzienti: dentro la stessa sezione, dunque, i giudici la pensavano diversamente. Tanto basta per escludere che questa sentenza sia determinante per la decisione della Corte costituzionale italiana. Quest’ultima, peraltro, quando fu chiamata, tra il 2018 e il 2019, nel noto caso DJ-Fabo, a giudicare per la prima volta della legittimità dell’art. 580 c.p., lo fece alla luce dei principi posti dagli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione italiana, non della Cedu. Anche allora il giudice milanese ipotizzò un contrasto con i principi della Carta europea, ma alla Corte “bastò” la Costituzione per valorizzare l’autodeterminazione individuale nelle scelte sul fine vita. In quell’occasione fu dichiarato illegittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui sanziona chiunque agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Alla Corte si chiede ora di decidere se la scelta di subordinare la non punibilità alla presenza del requisito della “dipendenza da un sostegno vitale” si ponga in frizione con quegli stessi parametri costituzionali. Si chiede, cioè, di chiarire se quella specifica condizione, che caratterizzava la situazione di DJ-Fabo, è costituzionalmente necessaria alla luce dei principi di ragionevolezza e non discriminazione, oppure se anche il malato, capace di intendere e di volere, che non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale strettamente intesi, ma, per l’intensità delle sofferenze fisiche o psicologiche patite, vuole porre fine alla propria vita in modo dignitoso, possa farsi aiutare. E, per questo, basta la nostra Costituzione. *Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Milano Migranti. Una firma per abolire la Bossi-Fini Il Manifesto, 30 giugno 2024 La petizione dell’Associazione Migrare. Il maggior ostacolo all’immigrazione regolare in Italia è costituito Legge Bossi-Fini n. 189/2002 che crea la clandestinità prevedendo l’ingresso regolare solo a chi ha già un posto di lavoro. Di fatto, la regolarità viene conquistata dall’immigrato solo con le sanatorie di volta in volta adottate o con la finzione dei “decreti flussi” che ipotizzerebbero l’assunzione dello straniero nel suo Stato d’origine senza averlo mai prima incontrato. Ma anche chi viene ammesso regolarmente in Italia con un decreto flussi, può cadere in clandestinità per la perdita del posto di lavoro. Un’enorme massa di immigrati viene così regalata a datori di lavoro senza scrupoli o alla criminalità, anche organizzata, dando vita a lavoro “nero” senza tutele di sicurezza e dei diritti minimi permettendo lo sviluppo ormai endemico del fenomeno del caporalato e vaste aree di evasione fiscale e contributiva. Anche la coalizione di centrodestra che governa attualmente in Italia si è accorta dell’inefficienza della Legge Bossi-Fini e dice di volerla cambiare, ma con i tempi di una lunga concertazione mentre nel frattempo le morti in mare e gli incidenti sul lavoro si moltiplicano. Per costringere il governo ad una rapida riforma della Legge Bossi-Fini, adottando il modello da tempo proposto dalla campagna “Ero Straniero”, firma anche tu per l’abolizione immediata dalla Legge Bossi-Fini. Primi firmatari: Nicola Fratoianni, Roberto Speranza, Arturo Scotto, Gennaro Migliore, Mario Morcone, Maria Cuffaro, Gianni Pittella, Corradino Mineo, Enzo Nucci, Vincenzo Vita. Per firmare sulla piattaforma change.org la petizione clicca qui: https://www.change.org/p/aboliamo-la-legge-bossi-fini-n-189-2002 Lituania. I richiedenti asilo detenuti illegalmente tra il 2021 e il 2022 avviano una class action La Repubblica, 30 giugno 2024 Amnesty International: la detenzione arbitraria dei profughi costituisce un tradimento dello Stato di diritto e impone gravi sofferenze alle persone. Un gruppo di ventiquattro persone, con il sostegno di Amnesty International, ha intentato un’azione collettiva con la richiesta di risarcimento per essere stati detenuti, in maniera prolungata e arbitraria, in Lituania tra il 2021 e il 2022, quando una serie di ordinanze hanno prescritto l’arresto automatico delle persone che attraversavano irregolarmente il confine dalla Bielorussia. Il caso è stato presentato al Tribunale amministrativo regionale, due anni dopo che Amnesty International aveva denunciato la detenzione arbitraria di migliaia di persone nel Paese. “Almeno quattromila uomini, donne e bambini sono stati trattenuti illegalmente per mesi, senza alcuna possibilità di impugnare la decisione davanti a un giudice. Ciò ha rappresentato un tradimento dello Stato di diritto di proporzioni sismiche e ha imposto enormi sofferenze a persone che cercavano protezione internazionale e un trattamento dignitoso”, commenta Dinushika Dissanayake, vicedirettrice regionale di Amnesty International per l’Europa. La richiesta di giustizia. Nel giugno 2023 la Corte costituzionale lituana ha stabilito che la legge che prevede la detenzione automatica dei richiedenti asilo che varcano il confine senza regolare permesso viola le libertà fondamentali, così come sono garantite dalla Costituzione lituana. Secondo la sentenza, tutte le persone colpite hanno diritto a un risarcimento per i mesi di sofferenza subiti. Fino a oggi però il governo lituano non è riuscito a istituire un meccanismo per assicurare i pagamenti. “I ricorrenti hanno subito molte ingiustizie per mano delle autorità lituane. Non chiedono altro che giustizia. Con questa causa non fanno altro che chiedere giustizia per il tempo che gli è stato rubato” commenta Amnesty. Per l’organizzazione la loro eventuale vittoria sarà un segnale forte per la Lituania e per gli altri Stati membri dell’Unione Europea che tentano pratiche simili e che invece non possono sottrarsi alle proprie responsabilità in materia di diritti umani. Il caso è anche un duro atto d’accusa contro la Commissione europea che, in quanto custode dei trattati dell’UE, non ha ancora avviato una procedura di infrazione contro la Lituania per avere violato, con la legge sull’arresto automatico dei migranti irregolari, il diritto comunitario, nonostante siano passati già tre anni. Sfondo politico e sociale. In seguito alla legge promulgata sulla base di una presunta emergenza nel luglio 2021, il governo lituano ha arrestato arbitrariamente oltre quattromila persone provenienti da Iraq, Siria, Sri Lanka, India, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e altri Paesi, molti dei quali per oltre un anno. Durante i primi sei mesi di detenzione le persone non hanno avuto alcuna possibilità di contestare i provvedimenti presi nei loro confronti, in palese violazione del diritto internazionale, di quello comunitario e della stessa Costituzione lituana. Costretti a vivere in centri simili a prigioni. I profughi sono stati costretti a vivere per mesi in centri squallidi, simili a prigioni, sottoposti ad abusi fisici e psicologici mentre gli veniva negato l’accesso alle legittime procedure di asilo. La Lituania inoltre ha adottato una legislazione che legalizza i respingimenti, anche questa nel disprezzo del diritto internazionale. Mentre la stragrande maggioranza delle persone detenute nei centri di detenzione sono state rilasciate, soprattutto nel 2022, i respingimenti alla frontiera invece continuano. Russia. Intervista in carcere con l’oppositore Ilja Jashin: “Il regime di Putin farà la fine dell’Urss” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 30 giugno 2024 Parla il prigioniero politico nel giorno del suo secondo compleanno in cella, dove sconta una condanna a otto anni e mezzo per aver parlato del massacro di Bucha: “Come Solzhenitsyn, ho una stupida, contraria alla logica, fede nella vittoria. L’Occidente non confonda il popolo russo col regime”. Per l’oppositore diventato prigioniero politico Ilja Jashin oggi è stato il secondo compleanno dietro le sbarre. Condannato nel dicembre 2022 a otto anni e mezzo di carcere per “fake news” sull’esercito russo per aver parlato di Bucha, ha compiuto 41 anni nella colonia penale Ik-3 di Smolensk in un “Pkt”, una cella di rigore, il regime di detenzione più duro dove è stato confinato “a titolo permanente” dopo aver trascorso già quasi un mese in una cella di punizione. Lo stesso trattamento che era stato riservato ad Aleksej Navalny, l’oppositore morto in carcere lo scorso febbraio. Jashin, però, resta “ottimista”. “Sono sicuro che il regime di Putin farà la stessa fine dell’Urss”, ci ha scritto dal carcere con nove pagine numerate e vergate a mano con penna blu rispondendo alle domande che Repubblica è riuscita a inviargli tramite i suoi avvocati. E ha lanciato un appello all’Occidente: “Non dimenticate che il mio popolo è ostaggio di Putin, non mettete sullo stesso piano terroristi e le vittime. E salvate l’Ucraina”. Jashin, ci può descrivere le condizioni della sua prigionia? “In carcere tutto si riduce a una costante pressione psicologica che non ha nulla a che fare con la legge, ma puzza fortemente di politica marcia. Pressioni che si sono intensificate bruscamente dopo l’insediamento di Vladimir Putin per un quinto mandato. I carcerieri, ad esempio, hanno confiscato tutti i miei libri, pur approvati dal censore: romanzi storici, narrativa, saggi. Dopo varie discussioni, mi hanno permesso di tenere soltanto la Bibbia, ma hanno proibito i miei incontri mensili con il prete, che erano pur mio diritto. Mettendomi in una cella di punizione, hanno impedito l’incontro con i miei genitori e ora che sono in una cella di rigore non potrò più vedere la mia famiglia neppure in futuro. Adesso il mio spazio è una cella angusta di tre metri per quattro che condivido con un vicino condannato per furto ed estorsione. La cella ha un water, una sedia piccolissima e due brande fissate al muro, che vengono abbassate soltanto dalle 8 di sera alle 5 del mattino. Il resto del tempo non puoi sdraiarti, puoi soltanto stare in piedi o seduto. Danno da mangiare tre volte al giorno, ma il cibo è piuttosto scadente: molti prigionieri hanno regolarmente crampi allo stomaco. Dal rubinetto esce soltanto acqua fredda. C’è odore di fogna, umidità nell’aria, orde di insetti. Sapevo che una prigione russa non fosse il luogo più umano al mondo, ma non pensavo a questi livelli. Sembra che abbiano deciso di ricreare con accuratezza storica gli scantinati della Gestapo. Posso immaginare, ovviamente, perché la pressione su di me sia aumentata e perché le condizioni di detenzione stiano diventando sempre più simili a una tortura. A quanto pare, anche da dietro le sbarre, la mia voce contro la guerra, contro la dittatura, si sente e influenza la società. Questo irrita le autorità. L’obiettivo è chiaramente indurmi a tacere. Ma non importa quanto sia difficile, non rimarrò in silenzio e non mi adatterò a questo sistema cannibalesco. Dopotutto, sono rimasto in Russia dopo l’inizio della guerra, sapendo che il carcere era inevitabile, perché ritengo sia importante esprimere una posizione pacifista e difendere la bandiera del mio Paese, che Putin ha macchiato di sangue e fango. Sin dall’inizio sapevo che sarei stato messo alla prova e che avrei dovuto pagare un prezzo elevato. Pago questo prezzo con orgoglio e nella speranza di avere abbastanza salute, forza e coraggio per bere questo calice sino in fondo”. Lei ha perso due amici nella lotta contro il Cremlino: Boris Nemtsov e Aleksej Navalny, che questo mese avrebbe compiuto gli anni come lei. Molti russi pensano che con la loro morte sia morta anche la speranza nella “bella Russia del futuro”. Anche lei prova lo stesso? O resta ottimista? “Dopo la confisca dei miei libri, ho chiesto al bibliotecario locale qualcosa di interessante da leggere. Mi ha portato la biografia di Andrej Sakharov, uno dei più importanti dissidenti sovietici. E così ho letto come Sakharov nel 1973 discusse con Aleksandr Solzhenitsyn, l’autore de L’arcipelago Gulag. Sakharov sosteneva che il regime comunista sovietico fosse forte e solido e che i dissidenti non avessero alcuna possibilità di cambiarlo, ma potessero solo preservare la loro integrità morale e dignità. E Solzhenitsyn rispondeva di non avere controargomentazioni razionali, ma “una stupida, contraria alla logica, fede nella vittoria”. In questa discussione di cinquant’anni fa, la posizione di Solzhenitsyn mi è ovviamente più vicina. Spesso mi definisco un ottimista. Senza questa “stupida fede” o, più semplicemente, speranza, in Russia non solo è difficile impegnarsi nella politica di opposizione, ma anche sopravvivere. La fede, a proposito, si rivelò non così stupida, dal momento che ebbe ragione Solzhenitsyn: il sistema totalitario sovietico, che sembrava un monolite, crollò di colpo. Sono sicuro che il regime di Putin farà la stessa fine: la tensione interna dovuta a guerra, corruzione e tirannia alla fine lo faranno semplicemente a pezzi. Noi non dobbiamo cedere alla disperazione, dobbiamo restare calmi e testardi e costantemente fedeli alla nostra linea, nonostante le difficoltà. Questo è ciò che cerco di ispirare ai miei connazionali con l’esempio personale”. Dopo la morte di Navalny, ogni prigioniero politico è a rischio in Russia. Lo ha scritto lei stesso. Non ha paura per la sua vita? E per la vita dei suoi amici in cella come Vladimir Kara-Murza, Oleg Orlov o Aleksej Gorinov? “Lo dico sinceramente: ho paura soprattutto per Vladimir Kara-Murza. Il Cremlino lo odia apertamente perché, insieme a Boris Nemtsov, ha ottenuto l’adozione della legge Magnitskij negli Stati Uniti che ha portato a dolorose sanzioni personali contro persone molto influenti della cerchia di Putin. Le prove di questo odio sono la crudele condanna a 25 anni di carcere e i due attentati alla sua vita. Vladimir si trova ora in una colonia siberiana in condizioni simili alle mie, ma dopo gli avvelenamenti subiti, la sua salute è precaria. Non è esagerato dire che Kara-Murza potrebbe morire o essere ucciso da un momento all’altro. Perciò, lo scorso febbraio, ho lanciato un appello ai leader mondiali, tra cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, chiedendo di inserire Vladimir nella lista dei prigionieri da scambiare e di farlo uscire da dietro le sbarre. Sono pronto a ripetere il mio appello. Voglio sottolineare che per me non pretendo alcuno scambio, ma chiedo di salvare la vita del mio compagno. Naturalmente mi preoccupa anche la sorte di Aleksej Gorinov, Oleg Orlov, Boris Kagarlitskij e di altri prigionieri politici che, a causa della loro età e salute, attraversano un periodo particolarmente difficile in prigione. Vorrei menzionare anche l’artista pacifista Sasha Skochilenko, che soffre di una malattia cronica che è peggiorata in prigione e minaccia la sua vita. Tutte queste persone si comportano, sia in tribunale che dietro le sbarre, con eccezionale coraggio e dignità, fonte di orgoglio. Ma ognuno di loro è in pericolo. Dopo la morte di Navalny, il livello di preoccupazione per i prigionieri politici è enorme”. Vladimir Putin è al potere da quasi un quarto di secolo e da poco si è insediato per un quinto mandato. Pensa mai che sia stato tutto inutile: le “passeggiate” di dissenso, le proteste in piazza Bolotnaja, la morte di Nemtsov e Navalny, la sua prigionia? O che si potesse fare di più? Che cos’è mancato all’opposizione russa perché non restasse soltanto dissenso? “Niente è stato inutile, perché abbiamo combattuto non tanto per il potere, ma per il futuro del Paese, per le menti e le anime della nostra gente. I nostri sforzi erano e restano mirati ad aprire gli occhi delle persone su ciò che accade intorno a loro, a spingerle a diventare cittadini e a partecipare attivamente alla vita della società e a insegnare loro a sentirsi responsabili in prima persona per la Russia. Naturalmente non tutto ha funzionato, ma penso che abbiamo comunque vinto la battaglia per la nuova generazione contro Putin. Guardate gli studenti di Università e scuole superiori, i giovani sotto i 30 anni. Si vede a occhio nudo che pensano più liberamente, sono indipendenti nei giudizi, percepiscono le informazioni ufficiali con scetticismo. Molti hanno scelto l’emigrazione forzata (e, spero, temporanea) per non essere soggetti alla mobilitazione, per non diventare occupanti e assassini. Anche nei sondaggi ufficiali il sostegno alle autorità è minimo tra i giovani. Le marce narrazioni sulla rinascita dell’Urss e sulla costruzione di un impero non fanno presa su di loro: vogliono vivere in un mondo aperto e libero. Non pensate però che voglia evitare di rispondere. Accetto le critiche rivolte all’opposizione democratica e sono consapevole della nostra responsabilità, almeno in parte, per quanto sta accadendo. Siamo senza dubbio responsabili della nostra disunione. In alcuni episodi della storia moderna non abbiamo mostrato la necessaria durezza, ma in altri, al contrario, siamo stati troppo intransigenti. Ma eravamo e rimaniamo onesti con noi stessi e con il nostro popolo. Vogliamo sinceramente pace, libertà e prosperità per la nostra Patria, e i migliori di noi hanno sacrificato la vita per questo. Eppure è necessario ricordarlo: la ruota della storia gira lentamente e i cambiamenti a volte durano decenni. Ricordate quanto tempo António de Oliveira Salazar governò il Portogallo, come Francisco Franco detenne un potere quasi illimitato in Spagna per più di quarant’anni... Ma alla fine, le leggi della storia e il cambio generazionale hanno messo ogni cosa al suo posto, le dittature sono diventate un ricordo del passato e sono state sostituite da sistemi democratici. Lo stesso accadrà al regime di Putin. I dinosauri settantenni dell’era della Guerra Fredda stanno scomparendo dalla scena e una nuova generazione subentrerà. Tutto accadrà davanti ai nostri occhi”. Quindi non pensa che Putin supererà Stalin come leader più longevo? Il suo consenso è alto, l’economia non crolla, la Cina e le altre potenze del Sud globale continuano a sostenerlo. La propaganda fa breccia e - da quello che scrive - arriva persino in carcere tanto che è costretto a tapparsi le orecchie per non ascoltarla. I russi possono ancora fare qualcosa? “Non credo valga la pena discutere seriamente dell’indice di gradimento di Putin in condizioni di controllo totale della politica e delle istituzioni pubbliche, elezioni castrate, arresti e omicidi dei leader dell’opposizione. Ai tiranni piace attribuirsi una popolarità impressionante: è una caratteristica dei regimi. Nicolae Ceausescu, ad esempio, aveva un indice di gradimento superiore all’80% il giorno prima delle proteste di massa in Romania, della rivoluzione e sua esecuzione. Anche per la nostra economia non è tutto roseo. La Russia sta bruciando le riserve nazionali gettandole nella fornace della guerra. Sì, il sistema ha un margine di sicurezza, ma l’economia sta sperimentando una regressione, una demodernizzazione ed è compromessa dalla stessa corsa agli armamenti globale che distrusse l’Unione Sovietica. Non menziono nemmeno i problemi demografici… Quanto alla Cina, non sostiene la Russia, ma approfitta della situazione attuale per trasformare il nostro Paese in una stazione di servizio a buon mercato per i suoi bisogni e in un mercato per le sue merci. A dispetto dei discorsi sull’amicizia, non ci sono ancora stati seri investimenti cinesi nelle infrastrutture russe e nei progetti comuni i partner cinesi difendono duramente e, in modo direi addirittura predatorio, i loro interessi, caricando i costi principali sulla Russia. Non è un segreto che i legami economici di Pechino con gli Stati Uniti e la Ue siano molto più profondi e ampi che con la Russia. Dubito che Xi Jinping li sacrificherà per il bene di Putin e delle sue ambizioni. Non prendete per oro colato tutto ciò che trasmette la propaganda del Cremlino. Rispondendo alla vostra domanda, ovviamente non so per quanto tempo Putin rimarrà al potere. Ma sono convinto che il periodo finale del suo regno sarà molto inquietante e instabile. Ha perseguito una politica troppo avventurosa e ha esposto il Paese a troppi rischi. I russi devono prepararsi a difendere i loro diritti in questo crepuscolo della dittatura e ricordare chiaramente che gli interessi della Russia e gli interessi di Putin sono sempre più in contraddizione e in conflitto diretto”. L’Occidente che colpe ha? Può ancora fare qualcosa per lei o i russi in libertà che la pensano come lei? “Non sono un pubblico ministero per formulare accuse e non penso che sarebbe corretto per me muoverne contro i vostri politici. Lasciamo che lo facciano i loro elettori. Ma è più o meno ovvio a tutti che la politica pluriennale dell’Occidente volta a rabbonire e a pacificare Putin, per usare un eufemismo, sia stata irragionevole. Putin ha percepito il compromesso e la morbidezza dei politici europei come una debolezza, che gli ha dato carta bianca sia per l’aggressione ibrida contro i Paesi della Ue sia per l’invasione militare dell’Ucraina. Ma anche l’attuale politica dell’Occidente nei confronti della Russia solleva seri dubbi e interrogativi. Bisogna essere consapevoli che le sanzioni che colpiscono ciecamente il popolo russo non fanno altro che rafforzare il potere di Putin, dandogli l’opportunità di parlare di russofobia, di crescente minaccia esterna e necessità di isolare la Russia, mentre spende sempre più soldi per esigenze militari. Che cosa fare? Parlando in senso figurato, bisognerebbe utilizzare i meccanismi di sanzioni non come mezzo di distruzione di massa con inevitabili perdite tra i civili, ma come misura ad alta precisione contro specifici criminali di guerra, oligarchi, amministratori politici e propagandisti. Il punto è rendere Putin tossico per la sua cerchia e stimolare una divisione nelle élite del Cremlino, e non spingere il popolo russo tra le braccia del dittatore e contribuire a renderlo più coeso. Nemtsov una volta disse ai leader occidentali: non toccate la gente, punite i furfanti. Vorrei aggiungere: non dimenticate che il mio popolo è ostaggio di Putin e non identificate i terroristi e le loro vittime. Capisco perché l’Occidente si stia separando dalla Russia con muri, recinzioni e filo spinato, ma una simile politica non garantisce la stabilità strategica. Ora è importante chiedersi come sarà la Russia dopo Putin e come integrarla nel mondo libero e nel sistema di sicurezza europeo. Sono convinto che ai nostri interessi comuni non corrisponda una Russia totalitaria cupa e aggressiva circondata da mura, ma un Paese democratico, aperto al mondo, che rispetta il diritto internazionale e non rappresenta una minaccia per nessuno. Parlando in generale, oggi il compito chiave dell’Occidente è la salvezza dell’Ucraina. Non si può permettere a Putin di divorarla. La perdita della sovranità da parte di Kiev e il suo ritorno nella sfera di controllo del Cremlino prolungheranno la vita del regime di Putin, infliggeranno un duro colpo all’intero mondo libero e destabilizzeranno l’intero sistema di sicurezza internazionale. Occorre mostrare la massima fermezza e coerenza, non mancare di coraggio e non lasciare che il Cremlino si mostri più furbo”. Il conflitto in Ucraina dilaga anche in carcere. Hanno cercato di costringerla a cucire uniformi per i soldati e ha incontrato detenuti che hanno deciso di arruolarsi per combattere in Ucraina per poi morire al fronte oppure disertori incarcerati. Che cosa pensano gli altri prigionieri del conflitto? “Il tema della guerra penetra nel carcere probabilmente in modo ancora più forte e profondo che in altri ambiti della società russa. Dopotutto una parte significativa delle unità d’assalto dell’esercito russo in Ucraina sono prigionieri, che ormai da due anni vengono reclutati in massa nelle colonie e gettati in battaglia come carne da cannone. Due anni dietro le sbarre mi hanno permesso di accumulare molti contatti con persone che sono state al fronte o intendono andarci. Ne ho concluso che per i russi non è una guerra popolare, né patriottica, come Putin cerca di presentarla, ma una guerra commerciale. È così che perlomeno viene percepita dai partecipanti ordinari. Si contano sulle dita di una mano i prigionieri che ho incontrato che erano pronti ad andare in Ucraina per ragioni ideologiche. Per la maggior parte, la vera motivazione era l’opportunità di ricevere una paga significativa per gli standard russi e, naturalmente, la possibilità di essere liberati e vedere annullata la pena detentiva. Confesso di essere rimasto colpito dall’atteggiamento cinico di alcuni dei miei interlocutori nei confronti dell’invasione militare di un Paese straniero. Allo stesso tempo, c’è una differenza significativa tra coloro che sono già stati in guerra e coloro che stanno pianificando di prendervi parte. I primi hanno l’orrore negli occhi. Molti di loro hanno sinceramente paura di tornare al fronte, perché hanno visto con i loro occhi come i loro compagni siano stati fatti a pezzi dai proiettili e in che modo insensato i comandanti mandino la fanteria al macello. Chi ha visto e sentito è meno propenso a pensare ai soldi e non è ansioso di andare in trincea. Ci sono sempre più persone che finiscono in prigione a causa della diserzione, dell’abbandono di un’unità militare o della riluttanza a tornare al fronte dopo il congedo. Preferiscono una condanna penale alla morte. Ma chi conosce la guerra soltanto a parole e ha appena firmato un contratto con la Difesa si fa molte illusioni. Pensa che la guerra sia come un videogame e, per dirla con Iosif Brodskij, che “la morte è qualcosa che accade agli altri”. Penso che mi abbiano isolato in una cella di rigore perché in prigione ho fatto del mio meglio per dissuadere i dubbiosi dall’andare in guerra. E il mio mancato silenzio probabilmente rovinava i piani e le statistiche delle autorità carcerarie. Ma non me ne pento affatto perché è difficile per me guardare in silenzio come le persone vengano portate al massacro”.