Carceri, l’affettività è un diritto ma in carcere lo ignorano: “Mancano spazi adatti” di Raffaella Troili Il Messaggero, 2 giugno 2024 Nonostante una sentenza della Corte costituzionale, nessun penitenziario si è mosso per realizzare locali dove una coppia possa appartarsi in intimità. C’è poco di umano nel chiuderli dentro e buttare la chiave, impedire contatti e relazioni affettive, svilire quella civiltà che dovrebbe distinguere una struttura di recupero. Dietro le sbarre i legami si sfilacciano, la vita segue altri tempi e regole, la nostalgia si arrende come l’amore. I colloqui con familiari e intimi sono pochi e in presenza del servizio di sorveglianza: l’Italia non brilla anzi, sul sostegno concreto alle relazioni tra detenuti e partner. Eppure la Corte Costituzionale a gennaio è stata chiara: ai detenuti è consentito il diritto a colloqui intimi in spazi dedicati e in assoluta privacy con i partner della loro vita. E ora le prime istanze ai magistrati di sorveglianza stanno per partire: “Stante la sentenza della Corte costituzionale chiedo di avere un rapporto intimo con la mia compagna, si attende risposta”, scrivono i detenuti. Non è la prima volta che la Corte Costituzione insiste sul tema, mentre le proposte normative si sono sempre arenate. Ad oggi nessun penitenziario si è mosso per realizzare locali idonei per gli incontri intimi. Dove una coppia possa scambiarsi baci, abbracci, effusioni o solo passare del tempo, tre ore almeno, in totale intimità. Tra celle sovraffollate, ritardi e carenze (solo 260 i magistrati di sorveglianza) non c’è spazio per l’affettività e la sessualità dei 61mila e 300 detenuti, di cui il 30% in custodia cautelare, oltre che dei loro partner. Dopo la sentenza della Corte costituzionale si è svolto un primo incontro del Dipartimento amministrazione penitenziaria, per capire come renderla operativa, ai penitenziari è stato chiesto se ci sono spazi a disposizione. Ma tutto va a rilento. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia precisa: “La sentenza è esecutiva da subito, ma visto che nulla si muove, stiamo spingendo i detenuti a fare richiesta ai direttori, in caso rigetto, possono presentare un reclamo al magistrato di sorveglianza che può imporre di realizzare uno spazio attrezzato”. Gli aventi diritto sono quanti hanno una relazione stabile e dimostrabile, insomma chi riceve le normali visite, quelle davanti a tutti, senza alcuna privacy e molto brevi. “La politica frena da tutte le parti, cerca di ignorare la sentenza. Il magistrato può imporsi. Non è così difficile, gli spazi verdi nei penitenziari ci sono, basta prendere due casette mobili, a Padova ho già visto che ci sarebbe uno spazio. Tutto questo è già previsto in tre quarti dei paesi europei, almeno 31, anche in Francia è partita una sperimentazione”. Ma molto altro bolle in pentola. “Una causa pilota, di un detenuto che ha sicuramente diritto a fare richiesta, magistrati favorevoli ci sono. Stiamo lavorando a un reclamo con l’aiuto di avvocati, perché i detenuti sono molto scoraggiati e scettici”. È stato Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza a Spoleto, a sollevare la questione costituzionale un anno fa. Ora che la Corte si è pronunciata, anche lui insiste sul fatto che i tempi non siano così lunghi “poiché in attesa di un atto normativo l’amministrazione e la magistratura di sorveglianza devono contribuire all’ordinata esecuzione della sentenza. Camere o unità abitative vanno realizzate con sollecitudine”. La Corte immagina un diritto al colloquio intimo che prevede l’esclusione di alcune categorie: i 41 bis, i detenuti per i quali esistono ragioni di sicurezza e ordine interno, chi ha già il permesso premio. “Gli incontri devono svolgersi in ambienti dignitosi, va garantita la riservatezza e la durata consona e dignitosa a questa dimensione privata”. Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano però ammette: “Attualmente è tutto da realizzare, la carenza nei nostri uffici riguarda anche il personale amministrativo, ciò provoca ritardi nel seguire le istanze e dare risposte immediate però urgenti perché riguardano la libertà della persona. Nelle carceri ci si è attrezzati il più possibile con linee telefoniche e forme di videochiamata, spazi accoglienti dove incontrare i figli a turno. L’attuazione della sentenza è allo studio. Come magistrati ci siamo posti il problema perché i detenuti ce lo chiedono”. Una richiesta di coltivare quei legami che restano in piedi, fragili, a distanza, che coinvolge anche chi non ha commesso reati ma resta al fianco di chi è in carcere. Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, candidata alle Europee e da oltre 20 giorni in sciopero della fame contro il sovraffollamento delle carceri ripete: “Siamo il fanalino di coda, spesso cito l’esempio della Romania, dove le carceri sono in condizioni terribili. Anche lì è data la possibilità di avere rapporti intimi. Qui non c’è la volontà di cambiare le cose, forse ci portiamo dietro il retaggio di un’educazione bigotta. Nonostante l’ordinamento penitenziario stabilisca che si deve fare il possibile perché i detenuti mantengano un rapporto con la propria famiglia, si contraddice permettendo ai carcerati solo 10 minuti di telefonata a settimana (in media sicurezza) e due chiamate al mese se sono in regime di alta sicurezza. Chi ha figli piccoli, non ha nemmeno il tempo di sapere come stanno. Anche i colloqui, uno a settimana, sono molto limitati, uno a settimana in media, due al mese in alta sicurezza”. I volti della povertà in carcere di Rossana Ruggiero L’Osservatore Romano, 2 giugno 2024 Questo viaggio stenta a chiudersi. Siamo partiti da Milano per raggiungere la Comunità don Lorenzo Milani di Sorisole (BG), luogo di speranza, accoglienza e di incontri variegati di culture e religioni. All’arrivo ci viene incontro don Dario Acquaroli, direttore della comunità e cappellano del carcere di Bergamo, e con lui c’è Charif, marocchino, detenuto nel carcere di San Vittore e da qualche giorno accolto in struttura per scontare la pena alternativa al carcere. “Siamo amici di Arnoldo della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti - gli dico - che ci ha chiesto di incontrarti per conoscere la tua storia. La tua testimonianza potrebbe aiutare tanti ragazzi che, come te, sono in carcere, ma sperano di poter essere liberi e riscattarsi”. Charif è timido e disorientato, parla poco italiano, ma comprende bene le nostre parole. Il sole ci scalda e ci accompagna in questo incontro a tre volti sulle panchine di legno della Comunità. “Sono arrivato qua dal Marocco, attraverso Spagna, Francia e poi Italia. Prima sono andato a Foggia e ho fatto due mesi di lavoro non pagato… poi sono venuto a Milano e ho fatto spaccio perché qua non ho trovato nulla per lavorare. Non avevo documenti e poi la polizia mi ha arrestato in un centro commerciale. Sono entrato in carcere e condannato a due anni e otto mesi”. Si interrompe di colpo. Don Dario ci aiuta a sciogliere questo legittimo imbarazzo iniziale, non senza la vergogna di dover raccontare a due estranei la propria storia. “In carcere sono stato otto mesi. Nessun richiamo, nessuna terapia di farmaci, non gridare, niente. Ho lavorato in lavanderia, poi cucina con Cretu e gli altri ragazzi”. Gli raccontiamo di aver incontrato Cretu, di aver mangiato la pizza che preparano per il reparto ogni venerdì a pranzo. Charif sorride e liberamente inizia a raccontare qualcosa: “… Io pure preparavo pizza, mi piaceva lavorare in cucina. I ragazzi molto bravi, di tante nazionalità e non tutti parlavano la mia lingua. Sono stato ai gruppi con volontari e ho incontrato Arnoldo che mi ha aiutato. Poi venuto don Dario e mi hanno fatto venire qua. Le guardie mi hanno detto: “sei libero, puoi andare!”. Non ci credevo. Ho salutato tutti e sono uscito. Fuori mi aspettava Arnoldo che mi ha portato qua”. Don Dario interviene e ci racconta che Charif è in Comunità da una settimana e sta seguendo il laboratorio in fattoria, a breve inizierà il corso di alfabetizzazione per imparare meglio l’italiano; col tempo l’équipe della comunità si attiverà per la richiesta di permesso di soggiorno. “Siamo convinti - dice don Dario - che progetti di questo tipo permettano anche a ragazzi come Charif di costruirsi un futuro, perché in carcere è impossibile pensare a questo, soprattutto per coloro che non hanno niente e nessuno fuori e si trovano anche con reati non troppo gravi”. “Charif - gli chiedo - quando sei partito dal Marocco, cosa pensavi di fare in Italia?”. “Pensavo di andare a fare lavoro, fare tutto per la mia famiglia a Marocco”. “Tu sei stato bravo in carcere, ma anche chi si è preso cura di te lo è stato! Sei stato aiutato perché hai dimostrato di essere una brava persona e in cambio ti è stata offerta questa opportunità per mettere a posto le cose”. “Sì, è vero. Ho visto compagni di cella che appiccavano fuoco, che gridavano, che litigavano con guardie. Io no, sono stato bravo: lavorare e basta”. “Grazie, Charif per la tua testimonianza e per lo sforzo che hai fatto di parlare con noi nonostante la lingua. Torna pure al lavoro e buona fortuna!”. L’occasione è preziosa per proseguire l’incontro con don Dario, al quale chiedo, partendo dalla sua esperienza di accoglienza, come definirebbe la sofferenza. “Qui ho imparato che, con chi sta vivendo la sofferenza, non ti puoi porre come colui che dà la soluzione, che ti dice: “Adesso devi far così per risolvere le cose”, né tanto meno ti poni come un salvatore. Devi essere capace di imparare ad accogliere la libertà dall’altra persona anche accogliendo il suo più grande rifiuto. Accogliere vuol dire anche dare la possibilità all’altro di trovare un luogo dove poter testimoniare la sua sofferenza che ti permette di curare lasciando che anche l’altro, in qualche modo, si prenda cura di te. Nel Vangelo quando Gesù si prende cura di chi soffre, non si mette mai al posto della persona sofferente, la cura e lascia sempre quello spazio di libertà che permette all’altro di decidere cosa fare. Sono convinto che, da cristiani, dovremmo solo essere grati per ciò che ci è stato dato e per chi si è preso cura di noi. Solo così saremo in grado di prenderci cura degli altri e farlo in modo disinteressato e libero senza pensare a tutti i costi di dover salvare il mondo”. “Grazie don Dario, per noi è ora di far ritorno a casa. Il nostro viaggio finisce qui. È stato bello incontrarti con Charif e potervi intervistare. Credo che la vostra testimonianza sia paradigma della vera speranza”. Si fa presto a dire riforma: la strada in Aula è ancora lunga di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 2 giugno 2024 Tra passaggi in commissione, doppia lettura Camera-Senato e pause dettate da altre emergenze, nella migliore delle ipotesi il testo verrebbe licenziato a inizio 2026. Il referendum nel 2027. Una traversata nel deserto, se si amano le metafore magniloquenti, o un tour de force, se si vuole rimanere sul prosaico. Come la si vuole mettere, resta il fatto che la riforma dell’ordinamento giudiziario, quando la campagna elettorale per le Europee sarà terminata e ogni forza politica sarà contenta per aver sventolato la propria bandiera, avrà di fronte a sé un percorso a dir poco arduo. Che dovrà tenere conto in primis del fatto che si tratta di un ddl costituzionale (quindi soggetto a doppia lettura a una tempistica particolare dettata dalla Carta), poi di quello che in Parlamento è già partito il percorso, altrettanto lungo e accidentato, del ddl Casellati sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, sulla cui priorità la premier Giorgia Meloni non ha mai lasciato dubbi, ribattezzandola “madre di tutte le riforme”. In ogni caso, proviamo a simulare quale potrà essere lo scenario, per i prossimi mesi, attraverso cui il ddl Nordio potrà cercare il proprio sentiero verso l’approvazione. E anche in questo caso, con ogni probabilità, al netto del probabilissimo referendum confermativo. Intanto appare sicuro che l’iter partirà da Montecitorio, visto che il Senato è attualmente impegnato (non senza tumulti) nell’esame del premierato, e risulta abbastanza ovvio che i due ddl costituzionali non potranno mai condividere la stessa camera ma “incrociarsi” di continuo. Poi c’è la Commissione di assegnazione, e anche su questa non ci sono dubbi, poiché trattandosi di una legge costituzionale dovrà essere esaminata dalla Prima commissione, la Affari costituzionali. Dove, peraltro, era già in una fase avanzata l’esame delle proposte di legge di iniziativa parlamentare sullo stesso tema che i deputati avevano già presentato. La Commissione aveva completato già lo scorso gennaio un ciclo di audizioni inerenti alle quattro pdl che erano state prese in considerazione (quella dell’azzurro Tommaso Calderone, del calendiano Enrico Costa, del renziano Roberto Giachetti e del leghista Jacopo Morrone), che a sua volta era durato un anno esatto. Al termine delle audizioni, il presidente della Commissione Nazario Pagano aveva avviato la discussione generale, giunta anch’essa al termine, per cui si era arrivati alla fase della scelta del testo base (quello di Calderone) e alla fissazione del termine per la presentazione degli emendamenti. È a questo punto che da via Arenula è arrivata la rassicurazione sulla imminente messa a punto del testo governativo della riforma e la richiesta di una sospensione dell’iter. La prima incognita da sciogliere sarà quella delle audizioni: saranno ritenute valide quelle già fatte, o trattandosi di un testo che contiene norme aggiuntive rispetto a quelli parlamentari (come ad esempio l’introduzione dell’Alta Corte per i provvedimenti disciplinari) occorrerà ricominciare da capo? A decidere sarà il presidente Pagano, coadiuvato dall’Ufficio di presidenza, ma tutto congiura a favore di un reset, perché sarebbe singolare se la Commissione, ora, non adottasse come testo base quello del governo e non decidesse di ascoltare i soggetti interessati anche su questioni nuove come l’Alta Corte o il sorteggio del Csm. Certo, bisognerà procedere con una sollecitudine maggiore del ciclo precedente, se non si vuole azzoppare il provvedimento in partenza. Fatte le audizioni, occorrerà fissare un nuovo termine per gli emendamenti, che ragionevolmente non potrà essere un termine-lampo, data la rilevanza del testo. Questo, presumibilmente, presterà il fianco alle tattiche ostruzionistiche dell’opposizione (in primis del M5s) consistenti nella presentazione di un numero abnorme di proposte di correzione e nel moltiplicare gli interventi per illustrarle, sia in Commissione sia in aula. Seguendo una possibile road map dei più ottimisti, calcolando audizioni rapide e tempi serrati in Commissione, il testo potrebbe ricevere il suo primo via libera a Montecitorio al rientro dalla pausa estiva, approssimativamente verso ottobre. Dopodiché, al Senato sarebbe oggetto di un esame altrettanto approfondito, data anche la rilevanza di alcuni presidenti di Commissione come Alberto Balboni di FdI e Giulia Bongiorno della Lega. Difficile pensare che a Palazzo Madama possa essere approvato entro la fine di quest’anno, dato che nelle ultime settimane del 2024 ci sarà la sessione di bilancio a monopolizzare i lavori. Sempre sull’onda dell’ottimismo, si può ipotizzare il compimento della prima lettura dopo la pausa natalizia, quindi a inizio 2025. Poi, la legge prevede che per un ddl costituzionale debbano passare almeno tre mesi prima che parta la seconda lettura, che per fare del provvedimento legge definitiva dovrebbe ottenere la maggioranza qualificata dei due terzi delle Camere (impossibile coi numeri attuali). Quindi, approssimativamente verso l’inizio del 2026 si può pensare al compimento della seconda lettura, tenendo sempre in considerazione la sessione di bilancio del 2025. In media, tra l’approvazione di una legge costituzionale e il referendum confermativo passa un anno, il che ci porta alla primavera del 2027, con una serie di leggi attuative da emanare entro un ulteriore anno. Elemento importante: sempre nel 2027 è previsto il rinnovo del Csm, che probabilmente arriverà prima dell’entrata in vigore della riforma, la quale, dunque, avrebbe impatto sul Csm successivo, eletto nel 2031. Uno scenario, questo, che parte dal presupposto - altamente improbabile - che il testo uscito mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri non subisca modifiche. I legislatori si stanno già dividendo tra ottimisti e pessimisti. Certo, con un iter così complesso, appare favorito il compito di chi vuole affossare la riforma. Nonostante ciò, il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Tommaso Calderone si pone senza esitazioni nella schiera degli ottimisti: “Non credo si perderà tempo, il governo ha dimostrato senza equivoci di rispettare gli impegni, e io non sono assolutamente preoccupato. Se c’è la volontà politica, le audizioni si possono fare in due settimane, Fi sarà sentinella vigile sui tempi, perché questa ricorda s’ha da fare. Non è una riforma per una persona, ma per il cittadino, chi fa il mio mestiere, cioè l’avvocato, sa che il giudice ora non è mai terzo”. Più scettico Enrico Costa: “Se anche si arrivasse fino in fondo”, osserva, “dubito che il referendum si farà entro questa legislatura, e penso che questo testo sarà modificato. Per una riforma che nella migliore delle ipotesi farà vedere i suoi effetti negli anni 30, Salvini ha detto “promessa mantenuta”, e questo fa capire di quanto sia totale propaganda”. La separazione delle carriere è un via libera alla Repubblica dei pm di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 2 giugno 2024 Tra gli argomenti posti pro o contro la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri a nessuno è venuto in mente di collegare la riforma ad una maggiore efficienza della giustizia, il vero dramma irrisolto e irrisolvibile del nostro sistema giudiziario. Tra gli argomenti posti pro o contro la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri a nessuno è venuto in mente di collegare la riforma ad una maggiore efficienza della giustizia, il vero dramma irrisolto e irrisolvibile del nostro sistema giudiziario. Ciò per l’ovvia ragione che detta separazione non ha nulla a che vedere con l’efficienza. La atavica lentezza dei processi, penali in special modo, ha la sua radice nel sistema delle garanzie alle quali nessuno vuol rinunciare anche quando chiede speditezza. Oltre alla cronica carenza di giudici in organico, di personale ausiliario e persino di aule, abbiamo tre gradi di giudizio ai quali a volte segue un annullamento in cassazione con rinvio per un altro o più processi e persino con la speranza di una revisione. La Costituzione come stadio imprescindibile prevede solo il ricorso per cassazione contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale per cui, con legge ordinaria, si potrebbe abolire il secondo grado ovvero l’appello. Una tale misura però è impensabile per la prevedibile opposizione degli avvocati, dei magistrati e di tutti i cittadini che non si sentirebbero più tutelati con un solo grado di giudizio. È anche vero che in tutti i sistemi che adottano il rito accusatorio il ricorso all’appello è molto ridotto e ciò potrebbe essere giustificato anche nel nostro processo che ha adottato questo rito con il nuovo codice dell’89 scrivendo nell’articolo 111 della Costituzione che “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. Ora una volta “formata la prova” in primo grado è illogico poterla formare di nuovo in appello, ma il nostro attaccamento a questa ulteriore garanzia reclama il secondo grado di merito e vani sono stati finora i tentativi di eliminarlo seppure per le sole sentenze assolutorie: sempre per l’articolo 111si lederebbe il principio della parità tra accusa e difesa, con la prima che non potrebbe impugnare una assoluzione e la seconda che lo potrebbe fare per una condanna. Con il rito accusatorio il pm ha assunto un ruolo fondamentale nella fase delle indagini preliminari, un ruolo che con il vecchio codice aveva il giudice istruttore, ed è proprio questo ritrovato potere che ha ridato vigore alla richiesta di separazione delle carriere. I partigiani della separazione fanno notare come in tutti, o quasi, i sistemi giudiziari europei c’è la separazione delle carriere ma dimenticano un piccolo particolare: lì i pm sono sempre sotto il controllo, a volte blando e a volte rigido, dell’esecutivo nella persona del guardasigilli. I nostri costituenti, memori della completa sottoposizione della magistratura al regime fascista, hanno voluto evitare che si costituisse un corpo autonomo di pm necessariamente sottoposti all’esecutivo e hanno unificato giudici e pm con le stesse garanzie di indipendenza e autonomia. Ora con la separazione incombente, il governo Meloni sta proprio ricreando quel nucleo per difendersi, come paventa, da una Repubblica fondata sui pubblici ministeri e non comprende che, ironia della sorte, gliene sta cucendo addosso una su misura. Può darsi che si speri di controbilanciare il potere dei pm con quello della polizia giudiziaria (dipendente dall’esecutivo) incaricata delle indagini, ma l’esperienza di questi ultimi anni ci dice il contrario e basta solo riandare alle vicende giudiziarie di Berlusconi proprio quando era presidente del consiglio o leggere la cronaca quotidiana per rendersi conto che quella è una speranza vana. Infine ci sono le correnti, l’altro incubo dei reazionari che vedono di malocchio ogni forma di organizzazione democratica all’interno della magistratura. Nordio le vuole sradicare con il sorteggio della rappresentanza nei futuri Csm e non si rende conto che sono scelte di cultura giudiziaria che si ricompongono all’interno della loro Associazione nazionale: provi a fare una legge anche per la separazione delle correnti se ci riesce! Il guaio è che da tutta questa riforma cervellotica i cittadini non ne trarranno alcun beneficio e la giustizia continuerà ad arrancare come sempre. Separazione delle carriere. La chiarezza di Falcone e i cattivi interpreti di Andrea Bulleri Il Messaggero, 2 giugno 2024 Che ne pensava Giovanni Falcone della separazione delle carriere? Per il partito dei contrari alla riforma, il magistrato ucciso da Cosa Nostra si starebbe già “rivoltando nella tomba”. Per quello dei favorevoli, al contrario, si sarebbe subito arruolato tra gli sponsor del ddl del governo. In statistica, la chiamano la “fallacia del cecchino texano”. Ed è l’errore in cui incorre chi, su una mole di dati disponibili, considera solo quelli (di solito pochi) che danno ragione alla sua tesi. Un po’ come quel tiratore che prima spara una raffica di proiettili a casaccio, poi disegna un bersaglio attorno ai colpi più ravvicinati, vantando le proprie abilità da cecchino provetto. O come chi, aggiungiamo noi leggendo il dibattito in corso in questi giorni, per creare un paravento alle proprie tesi finisce per strattonare la memoria di personaggi illustri. Incorrendo talvolta in evidenti forzature, tanto più incaute - qualcuno potrebbe definirle irrispettose - quanto più chi viene tirato per la giacchetta non ha più modo di controbattere. È il caso, appunto, della discussione sulla separazione dei percorsi di giudici e pm, in cui con scarso garbo viene arruolato pure Falcone. Una questione su cui ci si scontra dalla fine degli anni Ottanta, dal varo del codice Vassalli che riformò il processo penale, e su cui quindi è comprensibile che la discussione si faccia aspra. Quello che è meno comprensibile è che chi legittimamente si oppone al progetto di dividere concorsi, carriere e destini di magistrati inquirenti e giudicanti senta il bisogno di appellarsi alla memoria di Falcone, che - è l’accusa - si sta “rivoltando nella tomba”. Una tesi sostenuta, ad esempio, da un magistrato di lungo corso come l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, nell’intervista concessa qualche giorno fa a Repubblica. Ma anche da un’altra ex toga, Alfredo Morvillo, sulle colonne del Fatto quotidiano. E poco importa se chiunque si metta alla ricerca di opinioni e scritti del magistrato ucciso da cosa nostra sull’argomento finisca per imbattersi inevitabilmente in risultati di tutt’altro segno. Grasso la definisce una “strumentalizzazione” delle parole di Falcone. Poi precisa: “Non parlo sulle carte, ma alla luce dei tanti discorsi fatti con lui”. E tanto, al lettore-cittadino che cerca di farsi un’opinione in merito, deve bastare. Ed ecco che si torna al cecchino texano. Cosa possono tesi argomentate in pagine scritte di proprio pugno, ma anche in interviste (una su tutte: quella rilasciata a Mario Pirani proprio su Repubblica il 3 ottobre 1991) e lezioni registrate, di fronte ai discorsi a tu per tu? Ecco solo qualche passaggio di quell’intervista, mai smentita né ritrattata, rintracciabile per intero online. “Un sistema accusatorio - argomenta Falcone - parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. (...) E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti”. Mentre “contraddice tutto ciò il fatto che avendo formazione e carriere unificate con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri”. Eppure, nota ancora Falcone, “chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato (...) desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo”. Un concetto ribadito in altri scritti. “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pm non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi”, si legge ad esempio ne “La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia”. Su questa direttrice - continua il magistrato - bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere”. Al contrario, osserva Falcone: è proprio separando le strade che si rafforza la terzietà del giudice. Perché è solo cogliendo le “specificità” di ciascun ruolo che “si potranno disciplinare adeguatamente quei passaggi centrali in cui in concreto si gioca l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero”. E forse è da queste considerazioni scritte - piuttosto chiare nel contenuto - che può essere utile ripartire se si vuol conoscere l’opinione di Falcone. Senza improvvisarsi cecchini che disegnano bersagli a posteriori. Il procuratore Bono: “L’Anm non abbia pregiudizi sulla separazione delle carriere” di Luca Roberto Il Foglio, 2 giugno 2024 “Se l’obiettivo del legislatore è separare le funzioni, non sarebbe meglio dare un contributo costruttivo? Basta dogmatismi”. Parla il sostituto procuratore generale presso la Procura di Caltanissetta. “Le preoccupazioni dell’Associazione nazionale magistrati sono fondate, le condivido. Ma la questione della separazione delle carriere la si deve affrontare senza pregiudizi. Mi si deve spiegare perché se il pubblico ministero mantiene la sua indipendenza, l’autonomia nella direzione e nel coordinamento della Polizia giudiziaria, se continua a far parte dell’ordine giudiziario, e se non viene toccato il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, bisogna essere per forza contrari”. Gaetano Bono è sostituto procuratore generale presso la Procura di Caltanissetta. Classe 1983, è il più giovane sostituto procuratore generale in servizio. Ha da poco scritto un libro proprio sulla separazione delle carriere (“Meglio separate”, Le lettere). E al Foglio racconta di averlo fatto anche perché “non mi ha mai convinto chi pensa che, separando le carriere, si debba per forza finire con il pubblico ministero assoggettato al potere esecutivo. Sono risposte dogmatiche”. Per questo il suo è anche un invito affinché l’Anm colga la palla al balzo per avanzare proposte concrete, migliorative. Smettendola con la postura pregiudizialmente contraria. “Le norme di legge le deve fare il Parlamento. Noi magistrati, ma questo vale per tutti i tecnici di qualunque campo, possiamo dare un contributo di tipo tecnico. Chiaramente sarebbe importante sentire il punto di vista dei magistrati sul funzionamento degli istituti giuridici e sulle conseguenze negative che si avrebbero se si intaccassero certe garanzie. Specialmente quelle poste a tutela dell’indipendenza della magistratura. Ma, posto che la volontà del legislatore è quella di approvare la separazione delle carriere, se l’interlocutore ha come unica alternativa il mantenimento dello status quo è chiaro che il dibattito si chiude. Mi chiedo: non sarebbe meglio dare un contributo costruttivo, salvando quello che c’è veramente da salvare per garantire il corretto funzionamento del servizio giustizia?”. Il procuratore Bono, analizzando il ddl Nordio, dice che “ha alcuni aspetti positivi e alcuni meno positivi. Sicuramente è andato in buona direzione rispetto ai disegni di legge presentati nel corso di questa legislatura. In quei ddl si prevedeva la modifica dell’articolo 112 della Costituzione, quello che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, che invece è stata mantenuta. Così come il mantenimento dell’articolo 107 della Costituzione salvaguarda il principio per cui non c’è una gerarchizzazione tra magistrati. Inoltre è stato ribadito che la magistratura, requirente e giudicante, è indipendente da ogni altro potere”. Tra gli aspetti più critici, però, secondo il procuratore di Caltanissetta, “nella norma non si capisce bene quali siano i meccanismi di selezione e funzionamento dell’Alta corte, anche perché non c’è ancora la disciplina di dettaglio. Così come mi lascia perplesso il fatto che contro un provvedimento dell’Alta corte si possa ricorrere sempre alla Corte stessa, anche se in diversa composizione. In più non si dice nulla sulla ricorribilità in Cassazione, anche se penso si possa ricavare dall’articolo 111 comma 7 della Costituzione”. Ma anche sul sorteggio della componente laica nel Csm, dice Bono, “non è previsto un quorum minimo per la selezione dei sorteggiabili. Andrebbe previsto perché l’essenza della democrazia è la tutela delle minoranze”. E anche sul Consiglio superiore della magistratura, aggiunge il magistrato, “andrebbe rivista la quota tra sorteggiati ed eletti dei membri togati al Csm, magari 50 e 50. Questo perché non è vero che il correntismo è il male assoluto: lo sono le sue derive”. Fatto sta che a proposito della separazione delle carriere, che in sé “non risolve nessuno dei problemi della giustizia, ovvero durata dei processi, efficienza delle indagini ed efficacia delle decisioni”, Bono aggiunge pure che “una separazione davvero utile, accompagnata da altre riforme, potrebbe servire a specializzare meglio i magistrati. Non è solo un discorso di formazione, ma di costruzione di professionalità, tenendo conto delle peculiarità e della complessità delle materie che si trovano ad affrontare”. Tutti rilievi puntuali che mal si conciliano con un’opposizione preconcetta alla riforma del governo. “Ripeto, quando si parla di modifiche all’assetto della giustizia, specialmente se a livello costituzionale, la posta in gioco è alta perché l’impatto sulle vite e sulla libertà dei cittadini potrebbe essere devastante, in quanto si rischia di depotenziare la tutela giurisdizionale dei diritti. Capisco le preoccupazioni”, ripete Bono, rivolgendosi ai colleghi dell’Anm. “Ma bisogna avere un atteggiamento costruttivo. Abbandonando ogni dogmatismo”. Fermo. Svolta nella morte di Lorenzo Rosati, il compagno di cella a processo per omicidio di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 2 giugno 2024 Il detenuto fermano di 50 anni deceduto in circostanze misteriose al pronto soccorso dopo che si era sentito male in carcere. In un primo momento era stato ritenuto un incidente, invece si pensa a un pestaggio. La tragedia si era consumata il 28 maggio 2021, quando, all’ora di pranzo, Rosati si era sentito male. Poche ore dopo il decesso in ospedale. Sarà processato in Corte d’Assise, a Macerata, Z.J., il 24enne di San Severino Marche di origini albanesi accusato dell’omicidio di Lorenzo Rosati, il detenuto fermano di 50 anni deceduto in circostanze misteriose al pronto soccorso, dopo che si era sentito male in carcere. Lo ha deciso il Gup del tribunale di Fermo che, al termine dell’udienza preliminare relativa alla tragedia che, in un primo momento era stata ritenuta un incidente, ha rinviato a giudizio l’imputato. Soddisfatti i legali della famiglia Rosati, gli avvocati Marco Murru e Marco Melappioni, che fin da subito si sono battuti per dimostrare che il 24enne di origini albanesi e compagno di cella della vittima all’epoca dei fatti, fosse l’autore del pestaggio mortale. “C’è soddisfazione - spiega l’avvocato Murru - perché inizialmente c’era scetticismo per la versione dei fatti sostenuta dalla famiglia Rosati, che si è costituita parte civile. Ora, a distanza di tre anni, si è ribaltata la situazione e l’autore del brutale pestaggio sarà giudicato davanti ad una Corte composta da giudici togati e popolari, cittadini italiani estratti a sorte tra quelli iscritti in un apposito albo”. Gli fa eco l’avvocato Melappioni: “Quella di Rosati non è stata una morte naturale né dovuta ad un incidente in cella. Non si può accettare l’idea che vi sia la possibilità di morire all’interno di un istituto penitenziario dove si è stati tradotti per scontare la pena riconosciuta dal sistema. Ricordiamo che il povero Rosati ha perso la vita a soli 7 mesi dal fine pena”. La tragedia si era consumata il 28 maggio 2021, a Fermo, quando, all’ora di pranzo, Rosati si era sentito male e i suoi compagni di cella avevano lanciato subito l’allarme. Il detenuto era stato visitato dal medico della struttura che, viste le gravi condizioni del 50enne, aveva deciso di allertare il 118. Gli operatori sanitari, giunti sul posto, avevano trasportato l’uomo al vicino pronto soccorso del “Murri”. Rosati aveva praticamente la milza spappolata e un’emorragia ormai irreversibile. Nonostante i tentativi di rianimarlo, il 50enne aveva esalato l’ultimo respiro intorno alle 17. Erano scattati immediatamente i primi interrogativi: come si era procurato quelle lesioni il detenuto? Era stato aggredito o si era trattato di un incidente? Il referto era stato trasmesso alla Procura della Repubblica di Fermo, che aveva aperto un fascicolo a carico di ignoti per morte conseguente ad altro reato, disponendo poi l’autopsia sulla salma. L’incarico era stato affidato al medico legale di Teramo, Giuseppe Sciarra, e i risultati dell’esame autoptico erano apparsi abbastanza chiari. Nel referto si parlava di decesso da attribuire ad un “traumatismo contusivo toracoaddominale sul fianco sinistro, emoperitoneo da lacerazione della milza e conseguente shock ipovolemico”. La perizia affermava inoltre che la zona del corpo esaminata era “stata interessata da un evento traumatico prodotto da un mezzo contundente non dotato di spigoli vivi, ma con superfice arrotondata e aveva agito con una piccola angolatura dal l’alto in basso”. Nonostante ciò, il pm aveva presentato al gip la richiesta di archiviazione del caso, ipotizzando una caduta. Tesi, questa, supportata da una ferita occipitale rinvenuta sul capo della vittima, che il medico legale non aveva escluso essere attribuibile al contatto con il pavimento. I legali di Rosati, però, avevano depositato un’istanza di opposizione, accolta dal giudice. Tutto era ricominciato daccapo e questa volta, scavando a fondo, era stato trovato il presunto responsabile del decesso: il 24enne albanese difeso dall’avvocato Vando Scheggia che, dopo gli ultimi sviluppi, finirà davanti alla Corte d’Appello per essere processato. Verona. Trasferito nel carcere più vicino alla famiglia: la decisione apripista del giudice di Laura Tedesco Corriere di Verona, 2 giugno 2024 Una famiglia che ben presto si riunirà, nonostante le sbarre. Lui è detenuto in Veneto, i suoi cari e soprattutto i suoi bimbi piccoli si trovano dall’altra parte dell’Italia, in Calabria: il magistrato di sorveglianza di Verona ha appena accordato il nullaosta al suo trasferimento nel carcere di Catanzaro, in modo da riavvicinarlo ai propri cari. Una sorta di ricongiungimento familiare seppure sui generis, con il detenuto che continuerà regolarmente a scontare la pena dietro le sbarre, ma all’interno di un penitenziario più facilmente raggiungibile per i familiari e i parenti, soprattutto per i figlioletti in tenera età. Un provvedimento-apripista e con ben pochi precedenti, forse addirittura nessuno. Una decisione di giustizia e di umanità, quella assunta dal magistrato di sorveglianza di Verona che ha accolto l’istanza presentata dal difensore di un detenuto di 43 anni che aveva chiesto di potere scontare la pena a cui è stato condannato in un carcere della sua regione in modo da potere essere vicino alla famiglia. In questo momento si trova in cella a Vicenza, dove sta scontando una condanna definitiva per traffico di sostanze stupefacenti a Verona, ed è anche imputato in un altro processo a Milano, sempre per traffico di droga. Il suo difensore, avvocata Adele Manno del Foro di Catanzaro, si era rivolta al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (il Dap) chiedendo che il suo assistito venisse trasferito in Calabria in considerazione del fatto che “la detenzione in Veneto gli impediva di coltivare le sue relazioni familiari, con grave pregiudizio per i figli minori, privati di fatto del rapporto con il padre”. Sulla questione era intervenuto anche il Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, che aveva sollecitato il Dap ad applicare la normativa prevista in questi casi. L’avvocato Manno, nel reclamo presentato al magistrato di sorveglianza di Verona, aveva sottolineato “la lesione del diritto soggettivo del detenuto ad effettuare regolari colloqui con la propria famiglia, con grave pregiudizio per i figli ancora in tenera età, ai quali di fatto veniva precluso di coltivare il rapporto con il padre, e ciò in palese contrasto con le norme dell’ordinamento penitenziario ed i protocolli stipulati tra il Ministero della Giustizia e l’Autorità nazionale Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, oltre che in violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, all’articolo 8, riconosce e protegge il diritto al rispetto della vita privata e familiare”. Ora, la buona notizia: il Tribunale di sorveglianza di Verona ha accolto l’istanza del difensore del 43enne, riconoscendo “il diritto soggettivo del detenuto ad essere collocato in un carcere vicino la residenza della famiglia”. Soddisfatto l’avvocato Manno, secondo cui “in presenza di diritti umani non possiamo recedere di un millimetro ed abbiamo il dovere di coltivare ogni questione giuridica che porti al loro rispetto. L’auspicio adesso è che il Dap provveda immediatamente a dare attuazione all’ordinanza del magistrato di sorveglianza scaligero”. Verona. Bufera sull’intervista a Chico Forti: “Qui mi hanno accolto come un re” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 2 giugno 2024 È bufera per l’intervista a Chico Forti, detenuto nel carcere di Montorio, di Bruno Vespa. Forti ha dichiarato di essere “trattato come un re”. Il sunto - tranciante - è nelle parole del Garante dei detenuti di Padova, professor Antonio Bincoletto. Quel “credo d’interpretare il pensiero dei Garanti precisando che il nostro compito è quello di tutelare il rispetto dei diritti e la parità di trattamento per tutti i detenuti, senza distinzione di classe sociale, di schieramento politico o altro. La Costituzione deve valere allo stesso modo per tutti!”, che suona come un manifesto per l’ennesima polemica - dopo quella della visita con foto del deputato Andrea Di Giuseppe e quella sulla celerità del permesso di visita alla madre - nata attorno al trattamento riservato a quello che oramai è considerato il “detenuto vip di Montorio”. Vale a dire quel Chico Forti che l’altra sera ha lungamente dialogato con Bruno Vespa in un’intervista televisiva che ha scatenato una ridda di commenti. Ha detto di essere stato accolto “come un re nelle carceri italiane”, il 65enne trentino condannato negli Stati Uniti all’ergastolo per omicidio. Commentando che “tra il carcere di Miami e quello di Verona c’è una differenza enorme. Quello di Miami è basato sulla punizione ed è un luogo dove sei continuamente umiliato, mentre qui ho conosciuto valori umani come i rapporti e il rispetto, che non ritrovavo da 24 anni”. E aggiungendo - in un’altra intervista dello stesso Vespa pubblicata su QN - che “quando una guardia stava per togliermi una mela un po’ammaccata, l’ho fermata: non vedevo una mela da 24 anni, nel carcere di Miami frutta e verdura non esistono. E poi la cucina curata dai compagni di cella: qui si può comperare di tutto e mi hanno accolto prima con gli spaghetti alla amatriciana e poi con quelli alle vongole”. Interviste che hanno incassato un perentorio “Non so se è più pietoso il racconto di Forti sull’accoglienza da re in carcere... la spaghettata in carcere, prassi comune in tutte le carceri del paese per tutti i detenuti o Vespa che se la ride...” twittato da Selvaggia Lucarelli ma che, soprattutto, hanno esacerbato chi quel carcere di Montorio - che incuba ormai 600 detenuti a fronte dei 330 che dovrebbe ospitare e che in tre mesi ha contato cinque suicidi - lo vive. Sia dentro che fuori. “Forti lo ha fatto passare come se fosse Gardaland”, commenta il direttivo dell’associazione Sbarre di Zucchero. Associazione che pochi giorni fa aveva scritto una lettera aperta al ministro della Giustizia Carlo Nordio, denunciando la “disparità di trattamento” nei confronti del 65enne trentino rispetto agli altri detenuti. Quella Sbarre di Zucchero che ieri ha pubblicato diversi commenti alle interviste di Vespa. “Forse a questo punto il signor Forti sta soggiornando da un’altra parte, perché a me non risulta tutta questa benevolenza nel carcere di Montorio”, ha scritto la moglie di un recluso. C’è chi poi parla di “detenuti di serie A e di serie B” e lo evidenzia spiegando che “nell’intervista Forti aveva jeans, cintura, camicia e giacca. È assurdo, visto che questo tipo di abbigliamento non viene concesso, soprattutto la cintura”. Rabbia e polemiche che sono il riverbero di quanto accaduto quando a Forti è stato concesso, in tempi insolitamente brevi, di andare dalla madre a Trento. Allora, in un esposto, la Camera penale veronese auspicò “che la celere tempistica nel rilascio del permesso divenga un trattamento riservato indiscriminatamente a tutti i detenuti”. E alla lettera aperta che Sbarre di Zucchero ha scritto su questo fronte al ministro Nordio ci sono allegate delle lettere. “Nello stesso istituto - è scritto in una - è deceduto il padre di una detenuta e non l’hanno autorizzata a fruire di un permesso per andare al funerale. Perché non si usa lo stesso peso e la stessa misura?”. Domanda che non ha avuto, al momento, risposta. Come non l’ha ancora avuta l’interrogazione della parlamentare dem Debora Serracchiani su chi aveva scattato con un cellulare la foto di Forti e Di Giuseppe in carcere. Quesiti destinati a non fermarsi. Roma. A Regina Coeli spazi ristretti e il dramma dei suicidi L’Osservatore Romano, 2 giugno 2024 Dal XX rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, elaborato dall’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, “Antigone”, emerge un quadro piuttosto preoccupante riguardo al numero di suicidi all’interno delle carceri, sia a livello locale che nazionale. In particolare, a Roma, va all’istituto “Regina Coeli” il triste primato del numero maggiore di casi, cinque in tutto, nel 2023. L’ultimo si è verificato il 22 aprile di quest’anno quando un uomo di 36 anni si è tolto la vita impiccandosi, proprio mentre il Garante dei detenuti era a colloquio con le vicedirettrici, nel corso di una visita con il presidente della Commissione Bilancio del Consiglio regionale del Lazio. “Ero all’interno dell’istituto, in direzione, quando è arrivata la notizia: un uomo di trentasei anni, cinese, in carcere da poco più di un mese, si è impiccato alla terza branda del letto a castello nella solita vil sezione, quel porto di mare di arrestati, isolati, puniti, separati, dove l’anno scorso se ne sono ammazzati quattro “, ha scritto sul suo profilo facebook scriveva Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. “Non posso che ripetere le parole del presidente Mattarella: servono risposte urgenti, contro il sovraffollamento, per condizioni di vita umane e dignitose, l’unico modo per contrastare la piaga dei suicidi in carcere”, ha aggiunto. In seguito a questo episodio di Regina Coeli, anche il presidente della commissione Bilancio del Consiglio regionale del Lazio aveva manifestato l’intenzione di verificare la possibilità di avviare corsi di formazione per persone detenute - attività di competenza della Regione - e, soprattutto, di creare misure alternative, dando la propria disponibilità all’ascolto delle istanze provenienti dal Garante e dalle case circondariali del Lazio. La “solita” vii sezione di Regina Coeli, cui Anastasìa fa riferimento, è quella più preoccupante, poiché in essa le celle sono piccolissime e ospitano 2 o 3 persone su un unico letto a castello. “Per fare spazio alle persone in più, nella vi’ sezione le stanze dedicate alle attività sono state adibite a celle. Anche qui, vanno a peggiorare le condizioni di una sezione già di per sé particolarmente critica, sicuramente la più critica dell’intero Istituto (celle anguste e chiuse 23 ore al giorno)”, rende noto Antigone. Il che vuol dire solo un’ora d’aria per ciascuno di loro e condizioni igienico- sanitarie pessime, oltre che mancanza di intimità: il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente. “È da anni - sottolinea l’associazione - che la VII sezione viene utilizzata per ospitare diverse tipologie di persone, spesso le più difficili da gestire, insieme ai nuovi giunti, bisognosi di maggior tutela. E all’interno di questa sezione che nel 2023 si è verificata la maggior parte dei suicidi avvenuti a Regina Coeli”. Dal rapporto di Antigone, in alcuni episodi è possibile risalire anche alle sezioni dove le persone detenute si trovavano al momento del suicidio: in almeno ii casi, a livello nazionale, erano in una cella d’isolamento per motivi disciplinari o sanitari. È il caso di un giovane romano di 21 anni, finito in isolamento, che si è tolto la vita nel carcere trasteverino. “Pare che non riuscisse a trovare lavoro e che quindi vivesse per strada. A luglio 2023 è stato arrestato per furto e condotto nel carcere di Regina Coeli. Aveva bolle, macchie e arrossamenti su tutto il corpo. Scabbia, era stata la diagnosi del centro sanitario. Il 21enne era finito in isolamento. Dopo neanche due mesi di detenzione, si è tolto la vita all’interno della sua cella”, si legge tra le testimonianze riportate da Antigone per raccontare chi ha deciso di farla finita durante il periodo di detenzione. “Particolare attenzione andrebbe dedicata a tutti quei momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute si trovano separate dal resto della popolazione detenuta, perché in isolamento o sottoposti a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone - fa notare l’associazione -. In questi casi è sempre necessario garantire contatti umani significativi con il personale al fine di ridurre il rischio suicidario”. Un’altra grave criticità di Regina Coeli è il sovraffollamento, che risulta pari al 182 per cento e superiore sia alla media nazionale che a quello di tutte le altre case circondariali italiane. “A fronte di una capienza regolamentare di circa 600 persone, i detenuti superano i i000. Celle piccole occupate da troppi detenuti e un reparto psichiatrico assolutamente da potenziare. Mancano, inoltre, personale di polizia penitenziaria ed educatori”, ha dichiarato Filippo Blengino, Tesoriere Radicali Italiani dopo una visita nel carcere di Via della Lungara, a febbraio di quest’anno. Per Regina Coeli, in origine un convento trasformato poi in penitenziario tra il 1870 e ìl 189o, si è pensato anche all’ipotesi di una chiusura, che al momento resta solo un’idea. “La situazione che emerge è quella di un istituto alle prese con una condizione di sovraffollamento dilagante - denuncia Antigone -. Un istituto sempre più simile a un pronto soccorso delle marginalità sociali, con situazioni complesse da gestire e poche risorse a disposizione. Al momento della visita (28 febbraio 24 ndr), le persone detenute erano 1137, quasi il doppio della capienza regolamentare di 628 posti. L’elevato numero di presenze ha effetti a caduta su tutta la vita del penitenziario. In termini di spazi, nelle celle di alcune sezioni è stato aggiunto un letto in più”. Regina Coeli soffre, tra l’altro, delle criticità tipiche delle carceri storiche, come l’antichità dell’edificio e la collocazione in pieno centro cittadino, da cui deriva l’impossibilità di costruire nuovi spazi e la difficoltà di effettuare ristrutturazioni importanti. Sul tema delle carceri l’Italia è stata richiamata più volte dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo che, citando la raccomandazione del Consiglio d’Europa sul sovraffollamento, ha invitato il Paese “a ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione, allo scopo di risolvere anche il problema della crescita della popolazione carceraria”. Parole rimaste inascoltate, che valgono ancor di più alla luce delle gravi lacune del sistema, messe ancora una volta in luce da Antigone, non solo a Roma ma in tutto il territorio nazionale. Rimini. Carceri, giusto processo e l’intelligenza artificiale: avvocati penalisti a confronto altarimini.it, 2 giugno 2024 Anche quest’anno l’Unione delle Camere Penali Italiane ha scelto Rimini per ospitare il proprio VIII Open Day, nel corso del quale si discuterà di carcere, del principio di umanità della pena, di opportunità, usi e distorsioni dell’intelligenza artificiale e del suo impatto sul giusto processo (tematica che è germogliata proprio a Rimini in occasione di un convegno organizzato dalla locale Camera Penale), delle idee dei penalisti italiani per la riforma del processo penale e del sistema sanzionatorio, con un confronto sull’attualissimo tema della separazione delle carriere dei magistrati tra il Presidente dell’Unione, Francesco Petrelli, e il Presidente dell’ANM, Giuseppe Santalucia, moderato dal giornalista Goffredo Buccini. Appuntamento a venerdì 7 e sabato 8 giugno: nel corso della due-giorni, si alterneranno molti workshop tematici degli Osservatori dell’Unione e tanti interventi dei componenti dell’Osservatorio Giovani dei penalisti italiani. Numerosi gli ospiti e i relatori che prenderanno la parola: Laura Antonelli, Federico Lugoboni, Claudio Botti, Gianpaolo Catanzariti, Glauco Giostra, Giovanni Melillo, Giorgio Varano, Vittorio Manes, Andrea Cavaliere, Corrado Giustozzi, Chiara Benedetti, Serena Gentili, Carlo Bona, Marta Caserotti, Roberto D’Errico, Giovanni Flora, Oliviero Mazza, Luca Brezigar, Goffredo Buccini, Giovanni Canzio, Benedetta Galgani, Beniamino Migliucci, Rinaldo Romanelli e gli avvocati del Foro di Rimini, Giovanna Ollà, Luigi Renni e Alessandro Sarti (responsabile dell’Osservatorio Scienza, processo e intelligenza artificiale). Inoltre, venerdì mattina, sempre a Rimini, in Piazza Cavour, si terrà una Maratona Oratoria, promossa dall’UCPI e organizzata dalla Camera Penale di Rimini, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione inumana dei detenuti, sulla drammatica piaga dei suicidi in carcere e su ogni altro aspetto che possa offrire l’immagine del fallimento di un sistema che rappresenta la negazione stessa della democrazia e organizzare ogni opportuna iniziativa di informazione e protesta. Roma. Un pranzo in carcere che vale un lavoro Avvenire, 2 giugno 2024 Preparato dalle detenute che stanno frequentando i laboratori di cucina, promossi e organizzati dalla scuola alberghiera “A. Vespucci” della Capitale e da Coop-Unicoop Tirreno. Il carcere di Rebibbia a Roma si apre alla scuola e alla società. È bastato un pranzo preparato dalle detenute che stanno frequentando i laboratori di cucina, promossi e organizzati dalla scuola alberghiera “A. Vespucci” della Capitale e da Coop-Unicoop Tirreno. L’iniziativa, pensata per favorire l’apprendimento di un mestiere, il reinserimento e riscatto sociale delle detenute, prevede lezioni teoriche e pratiche e un esame finale, al termine del percorso, per il conseguimento di un vero e proprio diploma alberghiero. Sia per il pranzo che per i corsi, i prodotti alimentari sono offerti da Unicoop Tirreno: frutta e verdura, pasta, farina, carne, pesce, uova, e tutto il necessario per imparare la preparazione di sughi, pane, pasta, ricette tipiche, dolci, confetture. All’evento hanno partecipato anche il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e gli studenti e i docenti dell’Istituto alberghiero “A. Vespucci”. I laboratori di cucina, di durata annuale, coinvolgono la Casa circondariale femminile e la Casa di reclusione maschile dell’Istituto penitenziario di Rebibbia, e hanno il sostegno del Garante, dell’Istituto penitenziario di Rebibbia e del IV Municipio di Roma Capitale. Il progetto rientra tra le azioni sostenute e promosse da Unicoop Tirreno, fondate sull’etica della responsabilità sociale e sullo spirito cooperativo e mira a dare attuazione concreta all’articolo 27, comma 4, della Costituzione italiana, che prevede il principio della finalità rieducativa della pena. Le pene non devono tendere solamente a punire chi si è reso colpevole di un reato, ma mirare anche alla sua rieducazione, favorendone il reinserimento nella società. Il carcere, pertanto, deve essere concepito come una struttura di rieducazione e di recupero. La partecipazione del mondo esterno al trattamento carcerario risulta essenziale per il reinserimento dei detenuti nella vita sociale, avviato prima del fine pena, attraverso interventi intra ed extra murari col coinvolgimento di associazioni ed enti pubblici. Orvieto (Pg). “Volti fuori. I ritratti dei detenuti”, fino al 9 giugno la mostra a Palazzo dei Sette tuttoggi.info, 2 giugno 2024 La mostra inaugurata venerdì è il risultato del laboratorio di fotografia che ha coinvolto i detenuti del carcere di Orvieto. Rimarrà aperta fino al 9 giugno, al Palazzo dei Sette di Orvieto, la mostra fotografica “Volti fuori. I ritratti dei detenuti”. Il taglio del nastro è avvenuto il 31 maggio, come da resoconto della Diocesi di Orvieto - Todi. Ad aprire l’incontro è stata la fotografa Manuela Cannone, che ha gestito il laboratorio su ritratto ed autoritratto che si è svolto all’interno del carcere di Orvieto, da cui è nata la mostra di foto. Tra i saluti, quelli della direttrice della casa di reclusione orvietana, Annunziata Passannante, che ha evidenziato l’importante del progetto che - dopo aver coinvolto i detenuti all’interno del penitenziario - si è aperto alla città attraverso questa esposizione. L’importanza del laboratorio di fotografia nel recupero dei detenuti è stata evidenziata dal capo dell’area trattamentale Paolo Maddonni. Il direttore della Caritas diocesana don Marco Gasparri, nel portare i saluti del vescovo Gualtiero Sigismondi, ha parlato di come la mostra consente di oltrepassare le mura del carcere. L’importanza del laboratorio come un percorso di riscatto sociale è stata sottolineata da un ex detenuto, partecipante al progetto, con un emozionante intervento a cui ha fatto seguito quello altrettanto emozionato della Cannone, che ha illustrato i dettagli dell’iniziativa. Lecce. Un soffio di speranza chiamato Mamadou, il protagonista di “Io Capitano” incontra i ragazzi di Paola Ancora Quotidiano Di Puglia, 2 giugno 2024 Cominciamo dalla fine. Dai ringraziamenti: a Mamadou Kouassi innanzitutto. Per essere sopravvissuto alla malvagità degli uomini, alla nostalgia di casa, al deserto del Sahara e alle torture nelle carceri libiche, alla schiavitù, alla traversata del Mediterraneo, alla povertà di un’Europa ancora alla ricerca di se stessa. E per aver mantenuto, oggi che di anni ne compie 41, lo stesso sguardo pulito che aveva quando appena sedicenne, insieme al cugino, decise di fuggire di casa e cercare fortuna oltremare all’insaputa della sua mamma. “Non l’ho più rivista” ha raccontato agli studenti del liceo “Leonardo da Vinci” di Maglie, riuniti in aula magna per l’incontro organizzato dalla preside Annarita Corrado con le docenti Cecilia Toma, Ada Caracuta e Francesca Carrozzini. La storia di Mamadou, nelle mani del regista pluripremiato Matteo Garrone, è diventata il film capolavoro “Io Capitano”, vincitore del David di Donatello come miglior film e per la migliore regia. E ha fatto il giro del mondo, “lo abbiamo portato anche in Africa, dove è stato accolto da un moto di rabbia, di sorpresa - ha spiegato Mamadou - perché non si è davvero consapevoli di cosa aspetti chi decide di partire. Se io lo avessi saputo, non mi sarei mai messo in cammino”. “Una sofferenza difficile da spiegare a parole, ma “Io Capitano” - ha continuato - è riuscito a farlo, pur raccontando solo una parte di quel calvario: si è scelto di omettere alcuni episodi, alcune circostanze o storie perché troppo violente, troppo tragiche”. Smorzare il male, “per poter fare arrivare il film a un pubblico più ampio possibile e far capire quali atrocità siamo costretti a subire prima di arrivare in Europa. Parlo di me, ma anche di chi non ce l’ha fatta”. Di quei tanti che, morendo, affidano bigliettini di commiato a coloro che proseguono il cammino, affranti messaggeri di morte, di speranze interrotte. Un colpo secco, “Io Capitano” e Mamadou, a sgretolare decenni di luoghi comuni e pregiudizi dietro i quali l’Europa, culla dei diritti, ha nascosto le sue paure e fragilità dando fiato agli estremismi e trasformando il Mediterraneo in un cimitero d’acqua, al fondo del quale giacciono centinaia di migliaia di storie come quella di Mamadou, storie interrotte prima dell’intervento di soccorso in mare delle Ong o della Guardia costiera italiana. “Voi siete il presente, siete la politica, siete il futuro - ha detto l’attivista dell’ex Canapificio di Caserta, dove lavora come mediatore culturale e al servizio dei più fragili - e insieme possiamo costruire un mondo migliore”. Migliore di quello nel quale donne e bambini muoiono attraverso il deserto per raggiungere la costa del nord Africa, nel quale si consumano i ricatti e le torture delle forze di polizia e della mafia libiche: “Per loro siamo un business vero e proprio”. Un mondo nel quale “si dovrebbe pensare prima a salvare le persone e poi a parlare” ha aggiunto Mamadou, criticando la politica sui flussi migratori del Governo italiano come della Gran Bretagna, “perché confinare i migranti fuori dal proprio Paese, in Albania o in Ruanda, non ha alcun senso. E non ne ha anche alla luce della crescente denatalità: costruire un mondo multiculturale sarebbe utile anche all’economia e al welfare”. Mamadou si sente fortunato: “Da Lampedusa sono stato portato a Roma, poi a Caserta dove mi avevano detto esserci altri migranti. Ho fatto il bracciante a Foggia, a Rosarno, nelle campagne del Casertano. Poi, finalmente, il permesso di soggiorno”. Ovvero “il diritto di esistere, di chiedere una casa in affitto, un lavoro regolare. Ma soprattutto - ha spiegato - di partecipare a un percorso di integrazione previsto dagli allora Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Oggi, con le nuove leggi, questi percorsi di inclusione non esistono più”. Mamadou non ha ancora imparato a nuotare, ma ha studiato. È colto e gentile: gli studenti non perdono una sillaba delle sue parole. Conosce le lingue, la storia, cita Gramsci e il capolavoro di Schaffner del 1973 “Papillon”. Le domande dei ragazzi sono tantissime, Mamadou non si sottrae, anzi incoraggia: “La mia vittoria - dice - siete voi”. E la nostra, Mamadou, sei tu. Il 2 giugno di Mattarella: “Subito il cessate il fuoco a Gaza” di Andrea Carugati Il Manifesto, 2 giugno 2024 Preoccupazione nel messaggio del presidente per la festa della Repubblica: “Porre fine ai massacri”. Summit con Meloni e i presidenti delle Camere durante il ricevimento al Quirinale. Tra gli ospiti Renato Zero, Baglioni, Rovazzi e Lino Banfi. Cantanti e attori, da Renato Zero (che quasi lo abbraccia) e Fabio Rovazzi e Lino Banfi, strappano più di un sorriso al presidente Mattarella durante il tradizionale ricevimento del 1 giugno nei giardini del Quirinale. Il presidente si concede qualche momento di serenità anche con Marco Tardelli, ricordando il Mundial 1982. Ma, nei due messaggi che ieri ha rivolto ai prefetti e al corpo diplomatico internazionale arrivato al Quirinale, Mattarella non nasconde la crescente preoccupazione per lo scenario internazionale, dall’Ucraina al Medio Oriente. Su Kiev non entra volutamente nel merito della discussione sull’utilizzo delle armi occidentali, ma rifila nuove stoccate alla Russia che “ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa” e “demolito l’architettura di sicurezza che ha garantito pace e stabilità al continente europeo”. Un comportamento “tanto più grave” in quanto posto in essere da un membro permanente del consiglio di sicurezza dell’Onu. Sì dunque all’impegno per la pace, che l’Italia deve caricarsi sulla spalle con la presidenza del G7, ma “rifiutando con determinazione baratti insidiosi: sicurezza a detrimento dei diritti, assenza di conflitti aggressivi in cambio di sottomissione, ordine attraverso paura e repressione, prosperità economica in cambio di sudditanza”. Sulla guerra in Palestina, il Capo dello Stato ribadisce “l’imperativo di dare piena attuazione a quanto richiesto dal Consiglio di Sicurezza per il cessate il fuoco, l’accesso umanitario incondizionato alla popolazione di Gaza e la liberazione immediata degli ostaggi” israeliani. Parla di un “numero sconvolgente di vittime tra la popolazione civile palestinese, devastazioni nei territori coinvolti, disseminazione di odio per il prossimo futuro”. Chiede di “avviare subito un processo che ponga termine ai massacri e conduca finalmente a una pace stabile, con il pieno e reciproco riconoscimento dei due Stati di Israele e di Palestina”. Ai prefetti chiede di continuare a operare per la coesione sociale e anche “per la garanzia dell’esercizio del diritto di riunione e manifestazione”. Un passaggio non scontato, questo, così come la sottolineatura delle radici antifasciste della Repubblica e il richiamo a “valorizzare il principio di autonomia nell’orizzonte della solidarietà”. E poi la “sovranità europea” che “consacreremo col voto della prossima settimana”. Durante la festa, Mattarella si concede un breve colloquio sulla terrazza (con brindisi) con la premier Meloni (fresca di comiziaccio a piazza del Popolo) e i due presidenti della Camere (La Russa arriva visibilmente in ritardo): un summit inusuale in cui Meloni ha aggiornato il Capo dello Stato sui preparativi in vista del G7 in Puglia (ci sarà anche Zelensky, annuncia) che inizierà il 13 giugno. Poi D’Alema gli strappa un appuntamento al volo: “Posso venire a romperti le scatole una mezz’ora?”. Tra i vialetti tanta destra di governo, Arianna Meloni circondata di cronisti, i potenti Rai gomito a gomito con i ministri (con la new entry Tommaso Cerno, ex Pd e ora tra i primi laudatores della premier). Giuseppe Conte scortato dalla compagna Olivia Paladino, dai suoi ex ministri, e dai dirigenti Rai di area, da Claudia Mazzola all’ex direttore del Tg1 Giuseppe Carboni; Luigi Di Maio con fidanzata se ne sta a debita distanza e racconta a tutti la sua nuova vita da inviato Ue nel Golfo. Renzi racconta aneddoti sui suoi incontri con Berlusconi, imitandone la voce. I dem sono ranghi ridottissimi: ci sono solo i capigruppo Boccia e Braga con Franceschini, Schlein impegnata in un comizio a Torino. “Siamo tutti in campagna elettorale”, spiega Braga. Laura Boldrini sprona i dem: “Dobbiamo fare di più per fermare il massacro a Gaza, non possiamo lasciare soli gli studenti”. Tra gli ex spicca Francesco Rutelli, che si rivolge in romanesco alla premier: “Te diverti?”. “Diciamo che non mi annoio…”, la risposta. Anche lei, come Schlein, scansa qualsiasi pronostico per le europee “per scaramanzia”. Renato Zero si lamenta per la folla eccessiva, Baglioni si scalda per questo mattina quando canterà l’inno di Mameli alla parata ai Fori. Maurizio Landini se ne sta in disparte, quasi un marziano in mezzo a tanta ostentazione di potere, Fratoianni e Bonelli sorridono e sognano il colpaccio alle europee grazie a Ilaria Salis. Abusi di polizia in giudizio privilegiato di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 giugno 2024 Ddl sicurezza. Un emendamento della Lega: indagini affidate all’Avvocatura di Stato e non ai pm. Ad indagare sulle violenze eventualmente commesse dalle forze dell’ordine in servizio non sarà più la procura ma l’Avvocatura di Stato. E le spese legali per l’agente o l’ufficiale incriminato le pagherà lo Stato, che si rivarrà sull’imputato solo a condanna definitiva. Lo prevedono due emendamenti della Lega (primi firmatari Igor Iezzi e Laura Ravetto) all’articolo 15 del ddl Sicurezza in discussione alla Camera, nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia. Le due proposte sono sopravvissute alla prima cernita dei presidenti delle commissioni, Ciro Maschio di Fd’I e Nazario Pagano di FI, che hanno già scartate una decina di correzioni targate Lega, ritenendole “inammissibili” perché “estranee alla materia”, e raccomandando anche ai relatori “un’attenta valutazione del rispetto dei principi costituzionali” nel caso di altri emendamenti presentati da Iezzi (castrazione chimica e obbligo dell’italiano nei sermoni islamici). Questo tipo di scudo totale per le forze dell’ordine - polizia o militari “in servizio di pubblica sicurezza” - relativamente all’uso improprio “delle armi o di altro mezzo di coazione fisica”, è evidentemente sulla stessa linea di propaganda dell’intera maggioranza. Secondo l’emendamento 15.010, “qualora il pubblico ministero riceva notizia” di reati commessi da forze dell’ordine in servizio, deve subito informare il procuratore generale presso la Corte d’appello, ma limitarsi poi a compiere solo gli atti non rinviabili. Il Pg, a sua volta, “informa il comando del corpo o il capo dell’ufficio da cui dipendono i soggetti” affinché ne diano notizia agli indagati e all’Avvocatura dello Stato, che è l’unica autorizzata alle indagini. Sembra l’ennesimo boutade elettorale. Ma pericolosa. Un “testo assurdo” - lo definisce il capogruppo Avs Filiberto Zaratti - che crea “un canale speciale di giudizio” e infrange “clamorosamente il principio costituzionale dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”. “Non passerà mai”, afferma Zaratti, ma “consideriamo lesivo della dignità del Parlamento già averlo proposto”. Della stessa idea il responsabile sicurezza del Pd Matteo Mauri che bolla le norme come “scandalose” e “vuota propaganda elevata a sistema”, e invita invece il governo “a pagare gli straordinari alle forze dell’ordine, fermi da 20 mesi”, e ad “aumentare il numero degli agenti”. Per Piantedosi non c’è un clima “vessatorio” contro gli studenti. Amnesty: “La realtà dice altro” di Simone Alliva L’Espresso, 2 giugno 2024 Il ministro respinge le accuse dell’opposizione sulla repressione dei manifestanti pro Palestina da parte della polizia e nega l’uso dei codici identificativi per gli agenti: “Bastano le body cam”. Il portavoce Noury: “Non è un’alternativa e non garantisce i cittadini”. Quindi non è successo nulla. “Respingo qualsiasi suggestione circa il clima vessatorio e anticostituzionale verso coloro che manifestano”, ha detto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, rispondendo in question time ad una interrogazione di AVS sull’identificativo per gli agenti impegnati in servizi di ordine pubblico. Nessuna manganellata agli studenti di Pisa e Firenze che chiedevano la fine del massacro a Gaza, ragazzini colpiti mentre erano già a terra e inseguiti nei vicoli, non è successo nulla ai manifestanti sotto le sedi Rai di Napoli e Torino su cui i manganelli in aria sono volanti contro teste nude, coperte dalla braccia, senza caschi né protezioni. Sugli “eccessi” della polizia si era espresso anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per ricordare come “usare i manganelli contro i ragazzi rappresenti sempre un fallimento per chi indossa una divisa”. Ma il titolare del Viminale alla Camera ha indicato un’altra questione “Sono le forze di polizia a riportare il maggior numero di feriti in occasione di scontri in manifestazioni di piazza. Nel 2023 sono stati 120 gli operatori feriti a fronte di 64 tra i manifestati e dall’inizio di quest’anno sono stati 115 rispetto a 41 tra i partecipanti”. E sulla sulla necessità di utilizzare dei codici identificativi sulle uniformi delle forze dell’ordine ha respinto ogni possibilità: “Il tema dell’identificazione del personale di polizia nei servizi di ordine pubblico spesso sconta dei pregiudizi. Dal gennaio 2022 sono in uso body-cam che costituiscono un utile strumento di documentazione degli accadimenti e di identificazione degli agenti intervenuti. Identificazione - ricordo - a cui mai nessun operatore si è sottratto, contribuendo anzi in modo volontario come dimostrano i fatti di Pisa”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, contattato da L’Espresso non è convinto: “Direi che invece c’è un clima vessatorio. Le immagino parlano chiaro e trovo assurdo fare una gara di numeri, perché quei numeri non ti dicono nulla sulle ferite riportare, i referti, le prognosi. Ci sono video che immortalano come le manifestazioni siano degenerate in atti di violenza a seguito delle cariche: Torino, Napoli, Roma, Pisa dove non sono state usate tecniche di contenimento ma si è caricato e basta. Li inseguivano negli angoli per impedire ogni via di uscita e poi caricare, ha riportato alla memoria, sebbene con esiti limitati e per fortuna, Genova nel 2001”. Amnesty porta da tempo avanti una campagna per inserire anche in Italia i codici identificativi lanciata durante il decimo anniversario del G8 di Genova ma per il ministro dell’Interno bastano le body cam: “Questo tema delle body cam ci viene sempre posto, non siamo contrari ma non è un’alternativa ai codici. I codici alfanumerici sono utili alla prospettiva di chi è dall’altra parte, una garanzia per una persona soggetta a un’uso eccessivo della forza. E poi c’è la prospettiva: quella della body-cam è solo di un agente della polizia, prendiamo ad esempio gli Stati Uniti: la prospettiva è di un agente ti consente di vedere un altro agente che fa qualcosa, ma attenzione è sempre una prospettiva della polizia. E poi c’è una questione di privacy: cosa viene ripreso? Dove vanno a finire queste immagini? Cosa succede alle persone riprese? In una situazione di gestione dell’ordine pubblico mi sento garantito se so chi ho di fronte qui è l’opposto. Infine per smentire il ministro basterebbe dare un’occhiata agli emendamenti della Lega al cosiddetto “pacchetto sicurezza” (il ddl approvato a novembre dal Consiglio dei ministri e ora in discussione nelle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera n.d.r) che puntano a innalzare fino a 25 anni di reclusione la pena per chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro le grandi opere infrastrutturali”. La proposta della Lega vuole introdurre un nuovo comma all’articolo 339 del codice penale, che elenca le circostanze aggravanti dei reati di resistenza, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o a un corpo dello Stato. Le pene, che di base possono arrivare a sette anni, aumentano in modo generico dal primo comma “se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico”. Insomma, se la proposta diventerà legge, chi protesterà in gruppo contro un’opera pubblica con manifestazioni simboliche, se queste verranno considerate “minacciose o violente”, rischierà fino a 25 anni di carcere (la pena massima del secondo comma aumentata di un terzo). “Questo è il clima che si respira- conclude Noury- come si fa a non vederlo?”. Il bullismo vive di dinamiche di potere. Per fermarlo bisogna cambiare incentivi di Letizia Pezzali Il Domani, 2 giugno 2024 Per il bullo, l’atto di bullismo passa attraverso un’analisi costi-benefici. I benefici includono il miglioramento dello status, della reputazione e una maggiore influenza all’interno del gruppo. L’altro giorno su un social un uomo ha scritto un post di pubbliche scuse. Si rivolgeva, senza dirne il nome, a un compagno di classe che bullizzò ai tempi delle medie. “Oggi sono un padre di famiglia, ho capito che il bullismo è una cosa terribile. Mi scuso, provo vergogna”. Il post gli si è rivoltato contro. Molti sono intervenuti: “Ma cosa credi, che basti scrivere due righe per pulirti la coscienza?”. Il bullismo in effetti è un oggetto sociale tremendo. La redenzione è complicata. Oggi tutti sappiamo cosa vuol dire bullismo. “Atteggiamento di sopraffazione sui più deboli, con riferimento a violenze fisiche e psicologiche attuate specialmente in ambienti scolastici o giovanili” (Treccani). Il fenomeno, naturalmente, è osservabile anche in età adulta. È osservabile pure in politica, anzi parecchio. Ma questo meriterebbe un articolo a sé. Come noto, il termine bullismo deriva dall’inglese bullying. E in inglese oggi significa quel che significa in italiano. Ma da dove viene il termine bullying? Ho la sensazione che alcuni pensino che derivi da “bull”, nel senso dell’animale, il toro, la cui reputazione è violenta (anche ingiustamente). In realtà, il bullismo non c’entra con il povero toro. Deriva probabilmente dall’olandese boel, e una volta significava “tesoro” (in senso affettuoso) o “amico”. Sorpresa! Il termine aveva inizialmente un significato positivo, amorevole. Il “bullo” era un bravo ragazzo. Col tempo, tuttavia, il termine ha subito una trasformazione semantica. Nel 1600 la parola ha iniziato a essere usata per indicare un fanfarone, un bravo (in senso manzoniano), uno spaccone. La parola si è via via offuscata arrivando infine a indicare quel vigliacco tirannico che terrorizza i deboli. Contesti gerarchici - Il bullismo può essere interpretato come una transazione in cui il bullo cerca di aumentare il proprio capitale sociale a spese degli altri. Il capitale sociale riguarda anzitutto la rete di relazioni di cui una persona dispone e che può sfruttare per i propri scopi. Il bullismo prospera, dunque, in ambienti dove le dinamiche di potere sono squilibrate e il mercato del capitale sociale è altamente competitivo. In contesti apertamente o anche solo sottilmente gerarchici. Come le scuole, i luoghi di lavoro o le piccole comunità, dove gli individui competono per risorse e riconoscimenti limitati (nella scuola, la gerarchia deriva dal complesso psicologico delle insicurezze tipiche dell’età). Possiamo ricorrere al concetto di “comunità meschine” (parole di Kierkegaard): i luoghi in cui il capitale sociale è un gioco a somma zero. Il tuo guadagno è percepito come la mia perdita. Da una prospettiva economica, il capitale sociale può essere paragonato ad altre forme di capitale, come il capitale finanziario o fisico. Il capitale non è mai solo un oggetto seduto in posizione solenne, è sempre e anzitutto una chiave di accesso. È un generatore di opportunità. Per il bullo, l’atto di bullismo passa attraverso un’analisi costi-benefici. I benefici includono il miglioramento dello status, della reputazione e una maggiore influenza all’interno del gruppo. Possono tradursi in vantaggi tangibili, come ruoli di leadership, trattamenti preferenziali e accesso a reti sociali esclusive. Tuttavia, il bullismo comporta anche dei costi. Il rischio di ostracismo se il comportamento è considerato inaccettabile dalla comunità più ampia, le ritorsioni da parte delle vittime o dei loro alleati e i danni reputazionali a lungo termine. Costi-benefici - Per la vittima, i costi sono spesso immediati e severi, tra cui il disagio emotivo, l’isolamento e una diminuzione del capitale sociale. Le vittime possono anche sostenere costi a lungo termine, come l’abbassamento dell’autostima, i problemi di salute mentale e le opportunità esistenziali e economiche ridotte a causa dell’erosione delle relazioni. La sproporzione fra la posizione del bullo e della vittima è evidente. Per questo la redenzione del bullo è complicata: non basta un post. Combattere il bullismo richiede interventi che modifichino gli incentivi e le dinamiche di potere che sostengono questo comportamento. Non si tratta solo di modificare l’analisi costi-benefici, e cioè rendere il bullismo poco conveniente. Si tratta di favorire un senso di comunità e di successo condiviso che renda il capitale sociale una nozione meno fondamentale e meno brutale, mitigando l’ossessione giovanile per il concetto (molto americano, ma ormai diffuso ovunque) di “popolarità”. Nel mondo del 2024, violento, rancoroso, improntato al successo misurabile e popolato da leader infantili è una missione assai difficile. Migranti. Il buco nero di Gjader, dove muore la democrazia di Marika Ikonomu e Giovanni Tizian Il Domani, 2 giugno 2024 I finanziamenti pubblici a sostegno dell’operazione voluta da Meloni in Albania sono ingenti, ma manca trasparenza sull’intesa, da un lato all’altro dell’Adriatico. I media albanesi non hanno accesso alle informazioni e rimane l’incognita su chi monitorerà una volta entrati in funzione. Nessuno sa. Questo è il tratto principale dell’accordo sui centri per migranti firmato dalla premier Giorgia Meloni e dall’omologo albanese Edi Rama. L’impiego di enormi risorse pubbliche - si stima oltre 800 milioni - non è riuscito a imporre trasparenza all’intesa e dopo quasi 7 mesi le incognite sono ancora moltissime. Difficili da sciogliere, da un lato e dall’altro dell’Adriatico. “I media albanesi hanno diffuso solo le notizie date dal governo. L’unica fonte di informazione ufficiale era il primo ministro, mentre nessun altro ufficio ha dato spiegazioni”, dice a Domani Roden Hoxha, direttore del Centro albanese per il giornalismo di qualità, ong con sede a Tirana. Seduto di fronte all’università della capitale, Hoxha racconta che è quasi impossibile trovare informazioni dettagliate sul futuro di questi centri: “Sappiamo solo ciò che dice il capo del governo. Impedire ad altre parti dello stato di fornire informazioni ai giornalisti è una sorta di censura”. A questo si aggiunge la situazione della stampa in Albania, dove la mancanza di finanziamenti e di sostenibilità porta a un appiattimento dei media. “Gli organi di stampa sono diversi, ma non c’è una differenza di pensiero e si autocensurano”, spiega. Per Hoxha la carenza di informazione si trasforma in assenza di empatia e interesse dei cittadini albanesi. E se il problema è sorto prima dell’apertura di questi centri, ci si chiede chi riuscirà a monitorare quello che accadrà all’interno una volta avviati. “C’è una barriera all’informazione”, dice il direttore, “le istituzioni albanesi non ci danno notizie, ed è impossibile per noi chiederle all’ambasciata italiana”. Lo stato di diritto - Una delle principali criticità in Albania, fin dalla genesi dell’accordo, è stata l’assenza di dibattito pubblico e del coinvolgimento di esperti. Dorian Matlija, avvocato di Tirana e direttore esecutivo dell’ong “Res Publica” per la tutela dei diritti umani, spiega che non è una novità: “Non abbiamo una democrazia partecipativa”. Secondo Matlija, alcuni non criticano il governo per paura di subire conseguenze. Bisogna inoltre considerare, spiega l’avvocato, che il razzismo è già diffuso nella società albanese e questo potrebbe esporre i migranti a situazioni di violenza. Sono poi frequenti gli abusi della polizia: “È la norma”, afferma l’avvocato. Le condizioni di detenzione sono pessime e vengono violati i diritti all’interno degli uffici di polizia: “Ci sono molti casi di intimidazione e pestaggi”, prosegue. Va ricordato che la sicurezza esterna delle strutture è affidata alle forze dell’ordine albanesi. L’accordo viene definito dagli esperti un’eccezione mai vista. Se otterrà i risultati, anche minimi, voluti dalla premier “sarà un pericolosissimo precedente”, dice Hoxha. Sono ancora molti i nodi da sciogliere, come la giurisdizione. Non è chiaro chi sia responsabile per quello che accade nelle strutture. Una questione che non è stata chiarita nemmeno dalla Corte costituzionale albanese, dopo il ricorso presentato da 30 parlamentari di opposizione. La Corte, con una leggera minoranza, ha dato il via libera all’intesa, stabilendo che la giurisdizione sarà di entrambi gli stati. “Non ha nessun senso”, commenta l’avvocato: “Chi indagherà sui reati e gli abusi? Quale sarà il tribunale competente? È un enorme problema sotto il profilo penale, civile e dei diritti umani”. Le aree sono state concesse allo stato italiano, ma l’Albania rimane responsabile di ciò che avviene nel suo territorio, sottolinea Matlija. Ha obblighi internazionali da rispettare - tra cui il divieto di deportazione collettiva, il diritto all’educazione, alla vita privata - “ma non sarà in grado di osservarli”. Certo è, conclude, che le pressioni internazionali attorno all’accordo hanno pesato sulla decisione: “Erano in gioco le relazioni con l’Italia”. Questa intesa ha dato a Rama, che ha già un elevato consenso interno, un riconoscimento internazionale. Al contrario, Meloni ha guadagnato consenso interno. Ancor di più dopo aver ricevuto la benedizione europea e suscitato l’interesse di altri stati membri. “È semplicemente retorica populista”, conclude Hoxha, “se l’accordo raggiunge il loro obiettivo possono dire di avercela fatta. Altrimenti diranno di averci provato”. Finlandia. Per i detenuti diritto all’amore in carcere e formazione scolastica all’esterno di Gabriele Fedrizzi Corriere del Trentino, 2 giugno 2024 Il viaggio-studio della Camera penale di Trento: falsi miti ed esperienze da valutare. Luci e ombre. Così si può riassumere la visita di studio effettuata lo scorso novembre da una delegazione trentina nelle carceri finlandesi, il cui resoconto è stato riportato in una conferenza, tenutasi a Palazzo Geremia, alla presenza dell’assessore comunale Monica Baggia. Il viaggio è nato dall’iniziativa della Camera Penale di Trento e del suo allora presidente Filippo Fedrizzi, allo scopo di realizzare uno studio comparativo del sistema penitenziario finlandese e valutare la possibile importazione di modelli dal paese scandinavo alla Casa Circondariale di Spini di Gardolo. Tuttavia, una volta valicati i cancelli dei penitenziari finlandesi, per il gruppo di trentini si è svelata una realtà in parte diversa da quella che immaginavano. “Io sono arrivata in Finlandia con grandi aspettative, credevo di trovare ver amente l’obiettivo di evoluzione del nostro sistema penitenziario e non è stato così” spiega la presidente del Tribunale di sorveglianza di Trento, Lorenza Omarchi. Diverse sono state le criticità rilevate, in un ordinamento penitenziario, come quello finlandese, visto da molti come un modello esemplare: poche ore d’aria, attività all’interno del carcere molto ridotte, detenuti lavoratori sottopagati, ma anche un sistema di esecuzione della pena sottratto al controllo della magistratura e totalmente affidato a funzionari amministrativi. “Quando ho chiesto quante volte il garante dei detenuti avesse fatto visita alla struttura, la risposta è stata che nell’ultimo anno non si era mai visto” rileva la professoressa Antonia Menghini, garante dei diritti dei detenuti della Provincia. Nonostante la caduta di alcuni falsi miti, rimangono però numerosi gli aspetti da guardare con grande interesse, in particolare riguardo le carceri aperte, strutture che lasciano ampi spazi di libertà al detenuto, consentendogli di fare un serio percorso di reinserimento nella società. “Le percentuali di recidiva per coloro che sono detenuti nelle carceri aperte sono pari al 49%, mentre coloro che sono detenuti nelle carceri chiuse hanno il 67,6% di recidiva. Questo è stato, dal punto di vista utilitaristico, l’elemento che ha portato il sistema finlandese ad adottare ed a portare avanti questo percorso” sottolinea l’avvocato Giovanni Guarini. Un altro fronte sul quale la Finlandia è molto avanti riguarda il diritto all’affettività, riservando ai detenuti degli spazi appositi in cui poter incontrare i propri cari, lontani da occhi indiscreti. “Le visite non supervisionate - spiega Sofia Regini, dottoranda in diritto penale - durano tre ore e si svolgono in strutture apposite, staccate dal corpo centrale della prigione, che richiamano l’ambiente domestico, più consono ad ospitare il partner ed eventualmente i figli”. Per quanto riguarda invece la formazione scolastica, nelle strutture aperte essa avviene al di fuori del carcere, con i detenuti che possono frequentare la scuola insieme a tutti gli altri studenti, come racconta Rolando Pizzini - che da molti anni insegna religione presso la Casa circondariale di Spini - che però si domanda: “La scuola italiana, le nostre famiglie, i nostri alunni ed i nostri insegnanti come reagirebbero a questa proposta?”. Maurizio Cocco detenuto in Costa d’Avorio, salta la scarcerazione di Alessandro Sansoni Il Messaggero, 2 giugno 2024 L’ingegnere di Fiuggi sarebbe dovuto uscire oggi dopo due anni dal carcere, ma sono sorti altri problemi. Incubo senza fine per Maurizio Cocco, l’ingegnere di Fiuggi detenuto in Costa d’Avorio da due anni. Ieri doveva essere il giorno della sua scarcerazione, ma per ragioni imprecisate la liberazione è saltata. Tutto rinviato a domani, o almeno si spera. Niente ormai nella vicenda che vede protagonista il ciociaro è più certo. Le informazioni dal paese ivoriano arrivano come sempre in modo frammentario. Da settimane moglie e figli attendevano questo momento. Dopo due anni avrebbero rivisto il loro, sia pure soltanto in una videochiamata. Ma per ora sarebbe bastato anche questo contatto a migliaia di chilometri a distanza, per guardarsi finalmente negli occhi. I familiari sono preoccupati per lo stato di salute del 62enne, sepolto da due anni in un carcere, quello della capitale Abidjan, inserito nella lista nera dalle organizzazioni umanitarie per il trattamento riservato ai detenuti. Nei giorni scorsi gli erano state riprese le impronte digitali ed erano state fatte tutte le altre procedure in vista della scarcerazione. E invece, ieri mattina, è arrivata la telefonata degli avvocati che comunicano che l’ingegnere non sarebbe uscito. Assunta Giorgili, moglie dell’ingegnere, temeva che qualcosa potesse andare ancora storto. In questi due anni ne ha viste tante, troppe. E a Il Messaggero, alla vigilia dell’annunciata scarcerazione, aveva detto: “Speriamo che vada tutto bene”. Ora in lacrime racconta: “Sono disperata: non lo hanno scarcerato. Hanno detto che sono sorti problemi, ma non ci dicono quali. Lunedì i nostri avvocati della Costa d’Avorio andranno a parlare con il giudice che ha emesso la sentenza, nel tentativo di capire”. Si aggiunge così un altro capitolo al calvario. Tutto è iniziato esattamente due anni fa quando all’alba del 2 giugno del 2022 Cocco venne prelevato dalla propria abitazione e portato in carcere con l’accusa di far parte di un cartello del narcotraffico operante tra il Sud America, l’Italia e la Costa d’Avorio e di aver sfruttato il suo lavoro nel settore delle costruzioni per riciclare denaro di provenienza illecita. Accuse piombate come macigni su un imprenditore e professionista affermatosi nel settore dell’edilizia che non aveva mai avuto problemi con la legge. Da subito il ciociaro si è professato innocente, ma nessuno gli ha creduto. A nulla sono valse anche le richieste per ottenere almeno gli arresti domiciliari. Pure quando, già nella fase preliminare, le accuse si erano rivelate infondate come poi stabilito nel corso del processo conclusosi lo scorso 7 maggio. Alla fine Cocco è stato assolto per i reati più gravi e condannato a due anni di carcere (pena che nel frattempo ha già scontato) per una presunta frode fiscale in relazione a fatti che in Italia costerebbero, nella peggiore delle ipotesi, un accertamento dell’Agenzia delle Entrate. Al ciociaro, infatti, è stata contestata la mancata presentazione del bilancio della società con cui da anni opera in Costa d’Avorio nel settore edile. C’è poi un dettaglio: Cocco non ha potuto presentare la documentazione contabile per il semplice fatto che si trovava in carcere. L’ingegnere è determinato a continuare la sua battaglia per ottenere giustizia e ha presentato ricorso in Appello contro la condanna. Intanto, però, doveva tornare a essere un uomo libero. La pena sarebbe scaduta oggi, ma visto che era domenica la scarcerazione era stata anticipata a ieri. E invece sono emersi nuovi problemi. Domani, forse, si capirà qualcosa di più. “I prigionieri ucraini usati come sacchi da boxe”: l’Armata russa accusata di torture e stupri di Marta Serafini Corriere della Sera, 2 giugno 2024 L’accusa: “La Russia, a differenza dell’Ucraina, non rispetta le convezioni di Ginevra”. Prigionieri di guerra, l’ipotesi di uno scambio totale dopo Lucerna. Finora Kiev ha recuperato un totale di 3.210 prigionieri civili e militari. Alle famiglie dei prigionieri di guerra ucraini che stanno per tornare a casa viene detto: “Probabilmente non li riconoscerete. Ma cercate di non darlo a vedere”. A guardare le immagini del prima e del dopo dei 75 PoW ucraini (questa la sigla del diritto internazionale che identifica i Prisoner of War) arrivati venerdì a Sumy, viene da pensare che l’avvertenza non sia un’esagerazione. La maggior parte degli uomini sono scheletrici. E molti presentano segni di ferite e traumi. Tra loro, Roman Onyschuk, informatico che si era unito alle forze ucraine come volontario all’inizio dell’invasione russa. È stato catturato nel marzo 2022 nella regione di Kharkiv. “Voglio solo sentire la voce di mia moglie, la voce di mio figlio. Mi sono perso i suoi tre compleanni”, racconta ora ai giornalisti dell’Ap presenti all’arrivo dei pullman a Sumy sul confine. Roman, negli oltre 800 giorni trascorsi in prigionia, non ha mai comunicato con la sua famiglia e ora non sa dove si trovino sua moglie e suo figlio. Secondo le denunce di Petro Yatsenko, portavoce del quartier generale del coordinamento ucraino per il trattamento dei prigionieri di guerra, i russi, a differenza degli ucraini, non rispettano le convezioni di Ginevra che impongono un trattamento umano dei prigionieri di guerra sia civili che militari. E non forniscono cibo a sufficienze, cure mediche adeguate e la possibilità di telefonare a casa ai detenuti. E non solo. Nei rapporti delle Nazioni Unite, si legge come la maggior parte dei PoW ucraini siano soggetti a torture. E nel 90 per cento dei casi, secondo il procuratore generale ucraino Andriy Kostinanche, subiscono stupro, tortura utilizzata per la completa sottomissione dei prigionieri sia di sesso maschile che femminile e pratica particolarmente diffusa nelle carceri russe. Andriy Kryvtsov, capo dell’organizzazione non governativa Medici militari dell’Ucraina, che ha aiutato a trovare e inserire nelle liste di scambio sua cognata, il medico militare Olena Kryvtsova, racconta: “Vengono torturati, picchiati e usati come sacchi da boxe. Le forze speciali russe si sono addestrate su di loro. Li picchiano come pezzi di carne”. Per questa ragione, insieme ad altri parenti di prigionieri, Kryvtsov chiede che gli Stati Uniti e gli alleati europei che sanzionino non solo i vertici politici e militari russi ma puniscano anche il personale carcerario perché “Putin non sta torturando personalmente queste persone”. Lo scambio di venerdì è stato il quarto di quest’anno e il 52esimo da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel febbraio 2022. In totale, Kiev ha recuperato un totale di 3.210 prigionieri civili e militari. Ma né gli ucraini, né i russi dichiarano quanti prigionieri hanno. Alle trattative per l’ultimo scambio hanno partecipato gli Emirati Arabi Uniti ma in passato anche la Turchia è stata particolarmente attiva nelle mediazioni sia per quelle sui militari che per la liberazione dei minorenni. Da sempre, le autorità di Kiev si dicono disponibili a uno “swap”, uno scambio, totale. Ipotesi che sarebbe sul tavolo anche in vista della conferenza di Lucerna e che costituirebbe un primo passo per la ripresa dei negoziati. Tuttavia, nel 2024 gli scambi sono stati meno frequenti mentre le due parti hanno continuato ad accusarsi reciprocamente in merito ai ritardi nelle trattative. Per i prigionieri, il calvario non finisce una volta tornati a casa. Il maggiore Valeria Subotina, addetta stampa militare ed ex giornalista, catturata con la caduta dell’Azovstal e che ha trascorso un anno nelle carceri femminili in Russia, ha recentemente aperto uno spazio di incontro per ex prigionieri a Kiev chiamato YOUkraine. “In pochi si rendono conto di quante cure abbiano bisogno una volta tornati liberi”.